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RASSEGNA STAMPA di lunedì 7 settembre 2015 SOMMARIO “Cari fratelli e sorelle, la Misericordia di Dio viene riconosciuta attraverso le nostre opere, come ci ha testimoniato la vita della beata Madre Teresa di Calcutta, di cui ieri abbiamo ricordato l’anniversario della morte. Di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita, il Vangelo ci chiama, ci chiede di essere “prossimi”, dei più piccoli e abbandonati. A dare loro una speranza concreta. Non soltanto dire: “Coraggio, pazienza!...”. La speranza cristiana è combattiva, con la tenacia di chi va verso una meta sicura. Pertanto, in prossimità del Giubileo della Misericordia, rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi. Un gesto concreto in preparazione all’Anno Santo della Misericordia. Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma. Mi rivolgo ai miei fratelli Vescovi d’Europa, veri pastori, perché nelle loro diocesi sostengano questo mio appello, ricordando che Misericordia è il secondo nome dell’Amore: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due famiglie di profughi”: è l’appello che ieri mattina il Papa ha fatto risuonare durante la preghiera dell’Angelus e rivolto alle Chiese d’Europa. 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO di sabato 5 settembre 2015 Pag 4 Appello del patriarca ai fedeli: fate atti di accoglienza IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 5 settembre 2015 Pag II "Accoglienza, basta campanilismi" di Paolo Navarro Dina Il Patriarca torna a parlare di immigrazione con un messaggio da leggere nelle messe di domani LA NUOVA di sabato 5 settembre 2015 Pag 20 "Profughi, il Patriarca ha ragione. Bisogna fare di più per ospitarli" di Marta Artico Parlano i parroci che domani leggeranno durante la messa una lettera di Moraglia CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 settembre 2015 Pag 3 I parroci dopo l'appello di Moraglia: "Muoversi, non commuoversi". "Ma ci sono regole da rispettare" di D. Tam. SIR di venerdì 4 settembre 2015 PROFUGHI: mons. Moraglia (Venezia) scrive ai parroci, “Ciascuno di noi è chiamato in causa” WWW.FAMIGLIACRISTIANA.IT di venerdì 4 settembre 2015 Moraglia alle parrocchie di Venezia: "Non possiamo chiudere il cuore" di Alberto Laggia Come gli arcivescovi di Torino e Milano, il patriarca interviene sul dramma dei profughi e dei migranti e invita parroci e comunità a uno "scatto di sensibilità e generosità" collaborando con le strutture caritative e di volontariato della diocesi. Anche nei gesti più umili d'accompagnamento 2 – DIOCESI / PARROCCHIE

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 7 settembre 2015

SOMMARIO

“Cari fratelli e sorelle, la Misericordia di Dio viene riconosciuta attraverso le nostre opere, come ci ha testimoniato la vita della beata Madre Teresa di Calcutta, di cui ieri

abbiamo ricordato l’anniversario della morte. Di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita, il Vangelo ci chiama, ci chiede di essere

“prossimi”, dei più piccoli e abbandonati. A dare loro una speranza concreta. Non soltanto dire: “Coraggio, pazienza!...”. La speranza cristiana è combattiva, con la tenacia di chi va verso una meta sicura. Pertanto, in prossimità del Giubileo della

Misericordia, rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una

famiglia di profughi. Un gesto concreto in preparazione all’Anno Santo della Misericordia. Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma. Mi rivolgo ai miei fratelli Vescovi d’Europa, veri pastori, perché nelle loro diocesi sostengano

questo mio appello, ricordando che Misericordia è il secondo nome dell’Amore: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due famiglie di profughi”: è l’appello che ieri mattina il Papa ha fatto risuonare durante la

preghiera dell’Angelus e rivolto alle Chiese d’Europa.

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO di sabato 5 settembre 2015 Pag 4 Appello del patriarca ai fedeli: fate atti di accoglienza IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 5 settembre 2015 Pag II "Accoglienza, basta campanilismi" di Paolo Navarro Dina Il Patriarca torna a parlare di immigrazione con un messaggio da leggere nelle messe di domani LA NUOVA di sabato 5 settembre 2015 Pag 20 "Profughi, il Patriarca ha ragione. Bisogna fare di più per ospitarli" di Marta Artico Parlano i parroci che domani leggeranno durante la messa una lettera di Moraglia CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 settembre 2015 Pag 3 I parroci dopo l'appello di Moraglia: "Muoversi, non commuoversi". "Ma ci sono regole da rispettare" di D. Tam. SIR di venerdì 4 settembre 2015 PROFUGHI: mons. Moraglia (Venezia) scrive ai parroci, “Ciascuno di noi è chiamato in causa” WWW.FAMIGLIACRISTIANA.IT di venerdì 4 settembre 2015 Moraglia alle parrocchie di Venezia: "Non possiamo chiudere il cuore" di Alberto Laggia Come gli arcivescovi di Torino e Milano, il patriarca interviene sul dramma dei profughi e dei migranti e invita parroci e comunità a uno "scatto di sensibilità e generosità" collaborando con le strutture caritative e di volontariato della diocesi. Anche nei gesti più umili d'accompagnamento 2 – DIOCESI / PARROCCHIE

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 settembre 2015 Pag IX Malamocco: visite guidate a S.M. Assunta grazie ai volontari di L.M. Pag XIV Marghera. incontro sulla "rivoluzione" del Papa IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 5 settembre 2015 Pag XXIX Festa della Bibbia al Monastero di Marango 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 2 L’appello del Papa alla Chiesa d’Europa: “Ogni parrocchia accolga i profughi” di Luigi Accattoli Bergoglio: comincerà il Vaticano Pag 2 Bagnasco indica la via ai sacerdoti italiani: “Potremmo ospitare 108mila persone” di Paolo Conti Pag 29 Una generosità pragmatica nel mondo che è cambiato di Beppe Severgnini LA REPUBBLICA Pag 4 “Tutte le parrocchie ospitino rifugiati” di Orazio La Rocca e Paolo Rodari L’appello del Papa alle diocesi d’Europa. Il presidente della Cei Bagnasco: “Noi vescovi siamo già in prima linea. Pronti a sfidare paure e pregiudizi” Pag 9 Erbil, l’appello dell’arcivescovo: “Mandate le truppe per fermare l’Is” di Adriano Sofri IL GAZZETTINO Pag 2 Il Papa: profughi nelle parrocchie di Fabio Morabito Appello alla comunità religiosa europea: “Un gesto concreto, ospitare almeno una famiglia” ZENIT di domenica 6 settembre 2015 “Dio non è chiuso in sé stesso, ma si apre” Parole di papa Francesco durante l'Angelus di domenica 6 settembre 2015 L'OSSERVATORE ROMANO di domenica 6 settembre 2015 Pagg 4 - 5 I fratelli di Gesù di Alain Besançon A partire da un romanzo una riflessione su un punto dibattuto della Scrittura e della teologia Pag 7 I buoni e i cattivi Alle cellule di evangelizzazione parrocchiale il Papa ricorda che nella Chiesa c'è posto per tutti Pag 8 Tutti responsabili di tutti Papa Francesco in dialogo con i fedeli statunitensi durante una videoconferenza: quanta gente lascia oggi il proprio Paese in cerca di un futuro migliore e muore durante il cammino L'OSSERVATORE ROMANO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Alla luce del concilio di g.m.v. Pag 8 Il fiume vivo Nel centenario della facoltà teologica dell'Università cattolica argentina il Papa ricorda il Vaticano II e sottolinea il collegamento dinamico fra tradizione ricevuta e realtà concreta AVVENIRE di sabato 5 settembre 2015

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Pag 16 Divorziati e "matrimoni" bis. Le spine della riconciliazione di Luciano Moia Vita penitenziale? Associazioni e teologi a confronto Pag 17 La sfida della Facoltà San Pio X: un corso di diritto canonico di Alessandro Polet CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 settembre 2015 Pag 6 Il Papa e Putin, quell'intesa sulla Siria (per i cristiani) di Massimo Franco IL FOGLIO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 "Qui si rischia lo scisma". La confessione choc del capo del Sant'Uffizio a un passo dal Sinodo. Torna B-XVI (contro il gender) di Matteo Matzuzzi Pag 3 La chiesa tra Madre Terra ed enciclica Papa al convegno green, pellegrinaggi climatici e firme contro la CO2 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Ritorno a scuola di Valentina Santarpia Viaggio tra novità e nodi da sciogliere nel giorno in cui ricominciano le lezioni AVVENIRE di domenica 6 settembre 2015 Pag 2 Unioni e famiglie secondo giustizia di Gian Carlo Blangiardo Numeri e priorità a partire dal Censimento CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Il paradosso del gender di Stefano Allievi Le insensate polemiche CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 settembre 2015 Pag 43 Papà part-time. La mia storia di separato di Giovanni Armando Costa AVVENIRE di sabato 5 settembre 2015 Pag 3 Il lavoro che cambia si misura in anni di Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi Come mettere la persona al centro del Jobs act Pag 6 Tutele, congedi, controlli. Le grandi novità della riforma di Francesco Riccardi Cambiate le norme su licenziamenti, carriera e sussidi. Famiglia e lavoro, meno ostacoli. La sfida ricollocamento CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Genitori uno e due? Meglio zii di Gabriella Imperatori Gender e bambini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI Due euro per aiutare i tornadati. Ecco il numero solidale: 45500 Riviera. Attivo in tutta Italia con sms o telefonate LA NUOVA Pag 10 Il rabbino: “Ebrei, fratelli maggiori dei musulmani” di Nadia De Lazzari In duemila alle iniziative della giornata europea della cultura IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 settembre 2015 Pag VI San Teodoro, un santo per Venezia di m.t.s.

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Pag XIV Marghera, trovato l'accordo per il restauro della storica chiesetta della Rana di Giacinta Gimma LA NUOVA di domenica 6 settembre 2015 Pag 11 Conca di Malamocco, danneggiata la porta. Un conto da 10 milioni di Renzo Mazzaro Dighe mobili, nuovo incidente. Una mareggiata ha fatto ballare la struttura lunga 50 metri 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 settembre 2015 Pag 3 La fuga solitaria dei baby migranti: “Un investimento per le famiglie" di Gloria Bertasi Dall'Africa al Pakistan, in Veneto i minori non accompagnati sono 183 (e tutti maschi). Viaggio nella comunità di Venezia Pag 5 Il Veneto crea nuovo lavoro. Più assunti che licenziati, ma i livelli del 2008 sono lontani di Gianni Favero … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La rottura che serve sulle tasse di Angelo Panebianco Il premier e la sinistra Pag 1 La memoria tedesca e la svolta di Angela Merkel di Ernesto Galli della Loggi Etica e politica Pag 25 Quel reclamo di due mamme gay: “La bimba è nera” di Elvira Serra IL GAZZETTINO Pag 1 Guerra in Siria, la Francia sfida con la Germania di Mario Del Pero LA NUOVA Pag 1 Immigrazione, la svolta e le domande di Andrea Sarubbi CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Che cosa ci insegna quella stazione di Claudio Magris Pag 1 La crescita ha bisogno dei governi di Lucrezia Reichlin Non basta la Bce Pag 33 L'esempio tedesco deve fare riflettere un'Italia ancora divisa di Maurizio Caprara Emergenze storiche LA REPUBBLICA di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Un fiume vivo può liberare i migranti dai ghetti di Eugenio Scalfari AVVENIRE di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Per non dimenticare di Gianfranco Marcelli Un mausoleo al piccolo Aylan IL GAZZETTINO di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Una mossa da vera leader, ma il problema resta di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 6 settembre 2015

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Pag 1 Quei governi smemorati dell'est Europa di Gian Cesare Flesca Pag 1 Grillo e le 5 Stelle del Sud di Fabio Bordignon CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 L'amara sorpresa dell'Est di Gian Antonio Stella Pag 1 La forza della lentezza nel cuore dell'Europa di Pierluigi Battista Pag 1 Quel tifo bipartisan in Aula per le elezioni nel 2018 di Francesco Verderami Pag 5 La grande spaccatura di Luigi Offeddu La mappa della nuova frattura europea Pag 29 Solo una rivoluzione legale può sconfiggere il caporalato di Goffredo Buccini Questione meridionale LA REPUBBLICA di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Il corpo degli altri di Ezio Mauro AVVENIRE di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Ora picconi morali di Paolo Lambruschi Profughi: mezza Ue si scuote Pag 2 Aylan di Ernesto Olivero IL GAZZETTINO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 La svolta di Angela aiutata dalla forza di quella foto di Bruno Vespa LA NUOVA di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 La cattiva coscienza dell'Europa di Francesco Jori Pag 1 Le scelte affidate ai sondaggi di Bruno Manfellotto

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO di sabato 5 settembre 2015 Pag 4 Appello del patriarca ai fedeli: fate atti di accoglienza Venezia - Dopo l’accorato appello alla solidarietà da parte del Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia scatta un’altra fase importante per la Chiesa veneziana. Domani, in tutte le chiese della Diocesi verrà letto un messaggio del presule veneziano che invita i fedeli a fare "atti di accoglienza", ma soprattutto a superare ogni forma di divisione e campanilismo. «Questa scelta - sottolinea monsignor Moraglia nella lettera ai fedeli - segna una maturazione nel cammino di un’accoglienza che va oltre la logica ristretta del campanile». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 5 settembre 2015 Pag II "Accoglienza, basta campanilismi" di Paolo Navarro Dina Il Patriarca torna a parlare di immigrazione con un messaggio da leggere nelle messe di domani Il Patriarca rilancia. E lo fa in grande stile coinvolgendo tutta la Diocesi per un’azione trasversale di solidarietà e di riflessione sull’emergenza immigrazione. E per questo

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mons. Francesco Moraglia ha inviato a tutte le parrocchie della Diocesi e ai rettori delle Chiese, un messaggio sul tema dell’accoglienza ai profughi e migranti affinché venga letto durante tutte le messe di domani, 6 settembre. Un atto di grande sostanza all’indomani delle tragiche vicende che stanno accompagnando in queste settimane il Vecchio continente e in particolare il Bacino del Mediterraneo e i Balcani. «Carissimi - interviene il Patriarca - mi rivolgo a voi tutti che vivete nella Chiesa di Venezia: la drammaticità della situazione è sotto gli occhi di tutti. Le proporzioni del fenomeno sono epocali e la politica sembra trovare con fatica nuovi spiragli. I fatti o, meglio, gli uomini, le donne e i bambini in fuga da una morte pressoché certa ci interpellano. E la loro domanda è senza sconti! Ciascuno di noi, con la sua comunità, è chiamato in causa: ormai sono centinaia di migliaia gli uomini, le donne e i bambini che fuggono dalle guerre e dalle dittature alla ricerca “disperata” di una possibilità di vita». Un appello senza fraintendimenti. Il Patriarca, come tutti, ha ancora negli occhi le immagini di quel bimbo morto sulla spiaggia turca. «La fotografia del piccolo Aylan che ha scosso le coscienze - avverte Moraglia -, non ci racconta un caso isolato. Quanti piccoli Aylan ci rimarranno per sempre ignoti! Il ringraziamento per quanto già fate è forte, come è forte la richiesta di crescere ulteriormente nell’impegno, coordinando sul territorio interventi concreti volti a suscitare sempre più una cultura della solidarietà e dell’accoglienza nel rispetto della persona». E qui scende in campo l’appello anche alla politica e, tra le righe, anche ai sindaci. «Questa scelta segna anche una maturazione nel cammino di un’accoglienza che va oltre la logica ristretta del campanile. Scegliere la strada degli incontri concreti sul territorio va oltre la logica dei grandi incontri ma l’urgenza chiede tempismo e concretezza, guardando alla realtà quotidiana nella quale viviamo». LA NUOVA di sabato 5 settembre 2015 Pag 20 "Profughi, il Patriarca ha ragione. Bisogna fare di più per ospitarli" di Marta Artico Parlano i parroci che domani leggeranno durante la messa una lettera di Moraglia La lettera del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, che invita i parroci e i rettori delle chiese ad impegnarsi concretamente nell’accoglienza di profughi e migranti e nella diffusione di una cultura della solidarietà, verrà letta domani in tutte le chiese della Diocesi durante la messa domenicale. Un modo per sensibilizzare non solo i sacerdoti, ma tutta la comunità. Moraglia sottolinea la drammaticità della situazione e le proporzioni epocali del fenomeno. «La fotografia del piccolo Aylan che ha scosso le coscienze e lo ritrae sdraiato sul bagnasciuga, col volto rivolto alle onde di quel mare che poco prima lo aveva inghiottito, non ci racconta un caso isolato», si legge nella lettera. «Il ringraziamento per quanto fate è forte come è forte la richiesta di crescere ulteriormente nell’impegno, coordinando sul territorio interventi concreti volti a suscitare sempre più una cultura della solidarietà e dell’accoglienza nel rispetto della persona. L’urgenza chiede tempismo e concretezza, guardando alla realtà quotidiana nella quale viviamo. Esorto quindi a percorrere questa strada di concretezza, collaborando con tutti coloro che vivono sul territorio». «Questo messaggio cade in un momento che non poteva essere più opportuno», spiega il parroco della Cita, don Nandino Capovilla, «perché non facciamo abbastanza: bisogna trovare soluzioni concrete. Oggi (ieri ndr) accolgo nel quartiere alcuni rifugiati, nello specifico tre nigeriani, e spero che non accada quanto successo ad agosto, perché noi dobbiamo andare contro il rifiuto della gente e soprattutto quello dei credenti che si ritengono tali e vanno a messa la domenica. Essere cristiani in questo contesto è una discriminante, uno spartiacque: se sei cristiano accogli, altrimenti se rifiuti il tuo prossimo, domandati se puoi fare la comunione la domenica». Alla Cita ad agosto erano arrivati cinque profughi, adesso due se ne sono andati e ne sono arrivati tre di nuovi: «Il mio compito è accoglierli, aiutarli, farli sentire a casa, far sì che facciano quello che erano abituati a fare prima, andare a messa visto che sono credenti piuttosto che partecipare ai gruppi scout». Il 14 settembre in parrocchia gli amministratori di condominio hanno organizzato un incontro pubblico per discutere la questione e don Nandino ha invitato un funzionario della Prefettura e gli operatori del Comune, per spiegare a tutti che non c’è nulla da temere, al contrario. «Qui da noi la differenza che c’è tra le varie etnie, è diventata bellezza, fatica ma bellezza, ci abbiamo messo del tempo ma abbiamo creato una comunità che accoglie e si integra». Ecco

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perché quanto sta accadendo, al parroco della Cita non va giù. «Il Patriarca non ci chiede solo di predicare, non ci chiede buonismi, ci chiede concretezza. Se in ogni parrocchia si trovasse un appartamento, si potrebbe fare molto». Anche don Enrico Torta, parroco di Dese, appoggia in pieno le parole del Patriarca: «Credo che la Chiesa faccia tanto e sia già in prima fila in questo senso. La questione dei profughi è delicata: l’Europa, l’Onu, il mondo intero devono prendere in mano il problema che è globale, perché queste masse si muoveranno sempre di più: il Patriarca fa bene ad invitarci ad esporci sempre di più». «Cristo oggi», interviene don Gianni Fazzini, responsabile della Pastorale per gli Stili di vita, «è quel bambino morto sulla spiaggia per farci aprire gli occhi, per farci capire che possiamo fare qualcosa per i tanti come lui. Cosa? Cambiare il nostro modo di vivere, questo è il grido. Farla finita con una vita impostata sull’usa e getta che provoca guerre e in ultima analisi questa umanità in Via Crucis. ;Dovremmo avere il coraggio di vedere le cause per cui questa gente scappa. Non vedo una soluzione con il buonismo, bisogna avere il coraggio di dire quanto anche l’Italia e il Veneto stiano saccheggiando l’Africa, con tutte le materie prime che portiamo via, con la produzione di armi con al quale alimentiamo le guerre e manteniamo in vita i dittatori. La lettera stimola una riflessione: è necessaria una svolta economica che non sia quella basata solo sui consumi, una cambio di rotta che sarebbe servito quando le banche sono andate in crisi, nel 2008. Invece la gente ha pagato e l’economia è rimasta uguale, e adesso questi corpicini di bambini ci parlano e ci dicono che la nostra economia incentiva le guerre, la fuga e la morte. Dobbiamo rivedere i nostri comportamenti, Cristo oggi è questo bimbo sulla spiaggia che ci chiede di cambiare vita». CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 settembre 2015 Pag 3 I parroci dopo l'appello di Moraglia: "Muoversi, non commuoversi". "Ma ci sono regole da rispettare" di D. Tam. Venezia. «La fotografia del piccolo Aylan non ci racconta un caso isolato. Coordinate sul territorio interventi concreti per suscitare sempre più una cultura della solidarietà e dell’accoglienza nel rispetto della persona». Francesco Moraglia chiama in causa i parroci. Ringraziandoli per il loro importante lavoro, il Patriarca li invita a «scegliere la strada degli incontri concreti sul territorio, superando la logica del campanile». Una strada, dice Moraglia, «di concretezza e ecclesialità che ci prepara al grande Giubileo della Misericordia». Un appello accolto con grande entusiasmo dai sacerdoti. «E’ un messaggio fortissimo e decisivo - dice Don Nandino Capovilla, parroco della Cita di Marghera - soprattutto perché diverso da tutti gli altri. Il Patriarca chiede uno scatto di concretezza di generosità, dice “basta commuoverci è tempo di muoverci”». Don Nandino sa bene cosa significhi. I suoi parrocchiani non hanno preso bene, qualche settimana fa, l’arrivo di un gruppo di migranti in un appartamento della Cita. «Dobbiamo capire che quella dei profughi non è un’emergenza - continua - ma un cambiamento che dobbiamo affrontare. Se ogni parrocchia si facesse carico di cinque migranti, il problema sarebbe risolto». Più cauto Don Lino Regazzo, ex parroco di Mirano e di Treviso che in passato sull’accoglienza si scontrò pesantemente con le idee del sindaco Giancarlo Gentilini. «L’accoglienza è fondamentale, ma non siamo più liberi di farlo in senso evangelico. Ci sono delle regole ferree che dobbiamo rispettare». «Ci siamo dati da fare subito quando siamo stati chiamati - aggiunge don Angelo Munaretto, parroco di Eraclea - vero è anche che le quote da rispettare ci sono. Trenta migranti si riescono a gestire, 200, come è successo a Eraclea, è molto più complesso». Don Dino Pistolato, ex direttore della Caritas, sottoscrive «a due mani» l’appello di Moraglia. «Il nostro compito deve essere quello di aiutare a rompere una mentalità di rifiuti e a superare queste forme di razzismo strisciante». SIR di venerdì 4 settembre 2015 PROFUGHI: mons. Moraglia (Venezia) scrive ai parroci, “Ciascuno di noi è chiamato in causa” Dopo l’intervento diffuso ieri sull’accoglienza a profughi e migranti, il patriarca di Venezia monsignor Francesco Moraglia ha fatto pervenire oggi ai parroci e ai rettori delle chiese della diocesi una sua lettera di “sensibilizzazione”, affinché ne sia data lettura durante

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tutte le messe di domenica 6 settembre. “La drammaticità della situazione è sotto gli occhi di tutti”, scrive il presule. “Le proporzioni del fenomeno sono epocali e la politica sembra trovare con fatica nuovi spiragli. I fatti o, meglio, gli uomini, le donne e i bambini in fuga da una morte pressoché certa ci interpellano. E la loro domanda è senza sconti!”. “Ciascuno di noi, con la sua comunità, è chiamato in causa - il richiamo del patriarca -: ormai sono centinaia di migliaia gli uomini, le donne e i bambini che fuggono dalle guerre e dalle dittature alla ricerca ‘disperata’ di una possibilità di vita. La fotografia del piccolo Aylan che ha scosso le coscienze, anche di quanti sembravano più restii, e lo ritrae sdraiato sul bagnasciuga, col volto rivolto alle onde di quel mare che poco prima lo aveva inghiottito, non ci racconta - possiamo esserne certi - un caso isolato. Quanti piccoli Aylan, infatti, ci rimarranno per sempre ignoti!”. Nel ringraziare per quanto già viene fatto, mons. Moraglia spiega che “è forte la richiesta di crescere ulteriormente nell’impegno, coordinando sul territorio - a livello vicariale e delle nascenti collaborazioni parrocchiali - interventi concreti volti a suscitare sempre più una cultura della solidarietà e dell’accoglienza nel rispetto della persona”. Questa scelta, spiega, “segna anche una maturazione nel cammino di un’accoglienza che va oltre la logica ristretta del campanile. Scegliere la strada degli incontri concreti sul territorio, legando assieme le diverse realtà che vi operano, va oltre la logica dei grandi incontri - certamente belli e utili - ma l’urgenza chiede tempismo e concretezza, guardando alla realtà quotidiana nella quale viviamo”. Di qui l’esortazione a “percorrere questa strada di concretezza e di ecclesialità collaborando con tutti coloro che vivono sul territorio; è un gesto di testimonianza e di conversione che ci prepara al grande Giubileo della misericordia”. WWW.FAMIGLIACRISTIANA.IT di venerdì 4 settembre 2015 Moraglia alle parrocchie di Venezia: "Non possiamo chiudere il cuore" di Alberto Laggia Come gli arcivescovi di Torino e Milano, il patriarca interviene sul dramma dei profughi e dei migranti e invita parroci e comunità a uno "scatto di sensibilità e generosità" collaborando con le strutture caritative e di volontariato della diocesi. Anche nei gesti più umili d'accompagnamento "Non possiamo davvero chiudere il cuore. Come dicevo già l’altro giorno, mentre ero in visita alla Casa dell’Ospitalità di Mestre, non è possibile ignorare e tralasciare la vastità e la portata della tragedia umana che si riversa quotidianamente sull’Italia e sull’intera Europa: l’accoglienza è un imperativo". Comincia così l'appello alla generosità che oggi il patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, ha voluto diffondere dalla città lagunare. Un appello all'accoglienza dei profughi che stavolta è rivolto in primis ai fedeli, alle comunità e ai parroci. Ma che parla anche al mondo della politica. "Le notizie drammatiche di chi ha trovato la morte durante la traversata in mare o nascosto all’interno di un tir – ma chissà quante altre morti a noi rimangono ignote – ci consegnano la disperazione di tante persone e tanti popoli", continua il testo. "E ci fanno capire che tali vicende non sono l’emergenza di un “momento”, ma una tendenza destinata ad accompagnarci per anni. Torno ad auspicare - e in proposito rimando ad altri miei interventi in cui mi sono soffermato sulla necessità dell’accoglienza - un intervento della politica “alta”, equilibrata e saggia, che non dovrebbe mai mancare ad ogni livello (locale, nazionale e internazionale) e in ogni frangente, capace di guardare oltre l’interesse contingente del momento e il risultato elettorale. In particolare, urge un nuovo strumento legislativo in grado di rispondere alle dimensioni epocali assunte dal fenomeno migratorio. La memoria storica delle antiche responsabilità coloniali e post-coloniali ci deve rendere ancor più partecipi del presente travagliato e del futuro incerto di tanti nostri fratelli". Quindi la riflessione coinvolge i fedeli. "Non è però possibile - continua - fermarsi ad un’analisi politica. La nostra diocesi attualmente sostiene ed assiste stabilmente diversi gruppi di persone, in luoghi di accoglienza che vogliono essere a dimensione umana, impegnandosi a curare qualità e servizi, cercando anche un possibile inserimento nel tessuto sociale, evitando per quanto possibile di creare tensioni e “ghetti”. Per questo motivo desidero rivolgermi in modo particolare ai nostri parroci e alle nostre comunità sollecitando uno speciale, concreto e intelligente “scatto” di sensibilità e generosità, facendo riferimento alle strutture caritative e di volontariato

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nostre o di altri. Realtà che quotidianamente offrono servizi attraverso centri d’ascolto, mense e dormitori dove stranieri e anche italiani in difficoltà si rivolgono per un aiuto". "Proprio secondo questa logica, si è voluta con forza la mensa-dormitorio Papa Francesco di Marghera, superando non poche difficoltà burocratiche e ambientali. In vista di un’accoglienza che sia anche integrazione non è da sottovalutare la vicinanza e il sostegno che possiamo concretamente dare a profughi e migranti accompagnandoli nelle procedure necessarie per richiedere visite e documenti, offrendo corsi di lingua italiana e anche con l’opportunità di svolgere piccoli servizi a favore della comunità locale, occupando in modo socialmente utile il non poco tempo disponibile. Favorire sempre più tali gesti semplici di accoglienza e di autentica prossimità è modo semplice ed efficace per scacciare paure, talvolta forzosamente indotte, per allontanare sentimenti di ostilità, per prevenire e sconfiggere conflitti e tensioni". E quindi conclude: "Ringrazio coloro che già si impegnano nelle diverse strutture e nei vari servizi esistenti e incoraggio anche altri ad unirsi a quest’azione. È un passo concreto per generare cultura di solidarietà e integrazione, venendo incontro a uomini, donne e bambini disperati. Chiedo alle differenti componenti della nostra Chiesa di cogliere il senso del momento presente che ci interpella e domanda saggezza e dedizione, nello spirito cristiano di una gratuità e di un servizio che non solo aiuta e soccorre ma ci rigenera come comunità che, particolarmente, riconosce nel fratello sofferente il segno della presenza di Cristo". Nel giugno scorso il Patriarca era già intervenuto con parole severe nei confronti dell'Europa, definendo "inaccettabile e vergognoso" che l'Italia fosse stata lasciata sola ad affrontare il problema così "immane" che riguarda interi continenti. E aveva, in quell'occasione, parlato di immagine dell'Europa che ne usciva "particolarmente compromessa". Torna al sommario 2 – DIOCESI / PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 settembre 2015 Pag IX Malamocco: visite guidate a S.M. Assunta grazie ai volontari di L.M. Un gruppo di volontari si organizza per garantire l’apertura della chiesa di Santa Maria Assunta, a Malamocco, alle visite guidate dei turisti. L’iniziativa ha preso il via mercoledì scorso, 2 settembre: grazie alla disponibilità dei volontari, la chiesa di Santa Maria Assunta sarà aperta al mattino di ogni mercoledì, dalle 10.30 alle 12, per tutto il mese di settembre e anche durante il mese di ottobre. Le visite sono gratuite. L'apertura dell'antica chiesa è stata resa possibile per merito di un gruppo di volontari del Lido, visto l'interesse per l'edificio sacro e il suo patrimonio di opere d'arte, manifestatosi in occasione della presentazione della guida "Malamocco e la sua chiesa", a cura di Daniela Simionato. Un'iniziativa voluta e fortemente sostenuta anche dal parroco, monsignor Cesare Zanusso. L’apertura, a richiesta, sarà garantita anche durante mesi invernali, scrivendo una mail all’indirizzo di posta elettronica: [email protected]. Pag XIV Marghera. incontro sulla "rivoluzione" del Papa La rivoluzione di Papa Francesco. A parlarne oggi a Marghera, alle 16, nella sala parrocchiale della chiesa della Resurrezione di via Palladio alla Cita, sarà Raniero Dalla Valle, giornalista e, per quattro legislature, dal 1976 al 1992, parlamentare della Sinistra Indipendente. Dalla Valle racconterà la sua ultima fatica editoriale "Chi sono io, Francesco?", edito da Ponte Alle Grazie. «Ora c'è la rivoluzione di papa Francesco che non dice al mondo, come molti suoi predecessori, "Lei non sa chi sono io", ma - questa una delle chiavi di lettura del libro di Dalla Valle - si rivolge a tutti dicendo "Chi sono io?", chi sono io per giudicare, per condannare, per escludere dalla comunione sostituendomi a Dio!». Dopo il confronto sul libro, l'autore si soffermerà nella chiesa della Cita. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 5 settembre 2015

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Pag XXIX Festa della Bibbia al Monastero di Marango Caorle - Festa della bibbia al Monastero del Marango. Per domani la comunità monastica del Marango ha organizzato un momento di condivisione e festa per chiunque voglia partecipare: oltre alla Santa Messa, sono previsti un momento conviviale, giochi per ragazzi grazie ai "Cavalieri della Tavola Gioconda", un mercatino, spettacoli di burattini, danze popolari ebraiche, letture del libro di Giona, anche con attori. Da non perdere, inoltre, la mostra aperta fino a lunedì 7 settembre, che è ospitata nell'Aula Dossetti del Monastero: esposti i disegni originali sulla Bibbia di Stêpàn Zavrel (1932 - 1999), uno dei massimi illustratori di libri per bambini. L'ingresso è gratuito. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 2 L’appello del Papa alla Chiesa d’Europa: “Ogni parrocchia accolga i profughi” di Luigi Accattoli Bergoglio: comincerà il Vaticano Città del Vaticano. La direttiva è vasta e tassativa: ogni parrocchia d’Europa ospiti una famiglia di profughi. E non siano da meno conventi, monasteri, santuari. A cominciare da Roma, anzi dal Vaticano. Francesco all’Angelus ha messo all’opera, sull’accoglienza dei profughi, l’intera Chiesa Cattolica del Continente. Ha chiesto l’aiuto dei vescovi per essere ubbidito. Prima dell’appello all’accoglienza, il Papa, commentando il Vangelo che si leggeva ieri nella messa, aveva parlato contro le chiusure: «La coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa: e questo non è di Dio! Questo è nostro, è il nostro peccato». Ancora ieri una nuova tragedia nel Canale di Sicilia: circa 20 migranti sarebbero caduti in acqua prima che il loro barcone fosse raggiunto da due unità della Guardia costiera, appena giunte a Lampedusa. Lo hanno riferito alcuni extracomunitari sbarcati sull’isola agli operatori del progetto «Mediterranean Hope», finanziato dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Una donna ha detto di aver perso due figli e un fratello, un giovane del Gambia ha raccontato di due amici scomparsi. Contro le chiusure è suonato anche il messaggio inviato dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, al meeting interreligioso di Sant’Egidio aperto ieri a Tirana: «La risposta delle nazioni democratiche ai venti di guerra e alle ondate dei profughi non può essere la chiusura e l’arroccamento. I muri e i fili spinati non fermeranno il divampare degli incendi». Questa è la chiamata del Papa: «Rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi». Francesco ha presentato quell’impegno come «un gesto concreto in preparazione all’Anno Santo della Misericordia» e ha ribadito che esso riguarda tutti, «incominciando dalla mia diocesi di Roma». Sa che gli batteranno le mani ma teme che pochi lo seguano e perciò coinvolge «i miei fratelli vescovi d’Europa, ricordando che misericordia è il secondo nome dell’Amore. Anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due famiglie di profughi». Le due parrocchie del Vaticano (Sant’Anna dei Palafrenieri e San Pietro) fanno parte delle 335 parrocchie di Roma. A Milano - cioè nell’intera arcidiocesi ambrosiana - le parrocchie sono 1.104; quelle di tutta l’Europa addirittura 130 mila. La chiamata del Papa è senza precedenti. Un appello analogo, ma meno diretto e meno vasto, l’aveva rivolto ai religiosi il 10 settembre 2013, visitando il Centro Arrupe di Roma che si occupa dei rifugiati: «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi». Al momento solo il cardinale Peter Erdoe, arcivescovo di Esztergom, in Ungheria, dice che «purtroppo non possiamo, perché potrebbe essere qualificato come illegale, traffico di esseri umani» . Pag 2 Bagnasco indica la via ai sacerdoti italiani: “Potremmo ospitare 108mila persone” di Paolo Conti

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«Sono già tante le parrocchie italiane che hanno spalancato le loro porte agli immigrati. Così come gli istituti religiosi, che ospitano già circa 10.000 persone in tutto il territorio nazionale. Dopo il forte appello del Papa si attiverà sicuramente un vasto meccanismo». Monsignor Giancarlo Perego è il direttore generale della Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana ed è considerato una banca dati ambulante del fenomeno dell’immigrazione. Secondo i suoi dati aggiornati ormai sono più di 116.000 i disperati approdati sul nostro territorio di cui 95.000 sono stati accolti. Ma il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, aggiunge: «Le parrocchie italiane sono 27.133 e se ciascuna ospitasse una famiglia di 4 persone sarebbero oltre 108 mila a trovare un alloggio. Spero che si realizzi questo auspicio». E poi, chissà, i numeri potrebbero aumentare. Prevede monsignor Perego: «Una parrocchia è composta da molti elementi. C’è la casa religiosa, ci sono ambienti destinati a diversi scopi. Soprattutto c’è una rete di famiglie disposte ad accogliere in casa propria, per esempio, un minore o anche un intero nucleo. Difficile fare previsioni ma dopo l’appello del Papa assisteremo a un grande sforzo collettivo. Ed è bello che l’esortazione del Papa si intrecci con i richiami già espressi da tanta parte dell’episcopato. Penso alle parole del cardinale di Milano, Angelo Scola, dell’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, del vescovo di Brescia, Luciano Monari, di tanti altri vescovi del Centro e del Sud che hanno sollecitato accoglienza alle parrocchie». E c’è chi, alla Cei, sottolinea la decisione personale del presidente della Conferenza, il cardinale Angelo Bagnasco, che nei locali della sua diocesi di Genova ha deciso di accogliere 400 immigrati, di cui 50 nel seminario arcivescovile che disponeva di molti locali vuoti. Ma anche nelle parrocchie di base c’è molto attivismo. Monsignor Perego cita il caso della parrocchia di Bosco Minniti a Siracusa: «Sotto la guida del parroco Carlo D’Antoni sono stati accolti e assistiti un migliaio di migranti in un anno». Naturalmente ci sono poi le organizzazioni degli ordini religiosi. A Roma, il Centro Astalli dei Gesuiti (ordine al quale appartiene papa Francesco) assicura circa 400 pasti gratuiti al giorno ma anche assistenza sanitaria e legale. I padri Scalabriniani stanno risistemando, sulla Casilina, il loro seminario riadattandolo come centro di accoglienza. Ma non tutto è sempre così semplice. Spiega con molta preoccupazione don Elio Lops, viceparroco alla parrocchia di San Gregorio Magno alla Magliana, in piazza Certaldo: «Noi siamo prontissimi ad accogliere l’invito del Papa, è un nostro grande desiderio. Ma la parola passa ora al Comune di Roma». E cosa c’entra adesso il Campidoglio? «C’entra, e come. C’è il problema dei permessi, delle strutture igieniche, di un quadro normativo molto preciso. Aspettiamo istruzioni dal Vicariato. Perché può capitare, in un controllo, un vigile urbano disposto a comprendere la situazione. E può invece capitare un altro genere di controllo, più attento ai dettagli. Dico questo perché abbiamo le nostre ragioni. Noi avevamo aperto, qualche tempo fa, un asilo nido: ed è facile immaginare quale sia il bisogno di una struttura come questa in un’area complessa quale è la Magliana. L’abbiamo dovuto chiudere per le esigenze burocratiche». La burocrazia italiana possibile nemica dell’accoglienza? Non è difficile immaginarlo. Comunque monsignor Perego aggiunge un altro capitolo alle raccomandazioni papali: «Penso che bisognerà, quanto prima, organizzare un servizio di accompagnamento negli altri Paesi per chi transita dall’Italia e decide di raggiungere altri territori europei. Se davvero si confermerà la tendenza a concedere libera circolazione ai richiedenti asilo e ai rifugiati, come dimostrano le drammatiche immagini che stiamo seguendo dal cuore del Continente, sarà indispensabile aiutare questa gente ad arrivare dove ha deciso di stabilirsi». Pag 29 Una generosità pragmatica nel mondo che è cambiato di Beppe Severgnini Un pontefice pratico come un tedesco, i tedeschi pastorali come un pontefice. Il mondo ribaltato? No: la spiegazione c’è ed è semplice. Papa Francesco e la cancelliera Angela Merkel hanno capito che una situazione eccezionale richiede una risposta eccezionale. Se ribalta uno stereotipo, tanto meglio. Non è in atto una fuga dal Medio Oriente e dal Nord Africa. È in corso un movimento di popolazioni come non accadeva dalla Seconda guerra mondiale. Un politico spera di passare l’estate; uno statista vuole passare alla storia. E per riuscirci deve capire il momento storico e prendersi delle responsabilità. Leader viene dal verbo inglese to lead: condurre. È quello che hanno fatto papa Francesco con gli uomini e le donne di fede (non solo i cattolici) e Angela Merkel con gli europei (non solo i

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tedeschi). Proporre a ogni parrocchia e comunità religiosa di accogliere una famiglia di profughi, come suggerito ieri all’Angelus, dimostra concretezza. In Italia le parrocchie sono più di venticinquemila. Non solo centomila persone troverebbero subito ospitalità, ma eviteremmo i ghetti provvisori (centri di accoglienza) e quelli definitivi (quartieri periferici stravolti e conseguente guerra tra poveri). Un gesto d’impulso, quello del pontefice, oppure fa parte di una strategia? Non è importante. È la risposta forte a chi accusava la Chiesa di Roma d’essere generosa solo a parole. Negli Stati Uniti, dove papa Francesco sta per recarsi per la prima volta in vita sua, queste cose le notano. Aprire le frontiere, le stazioni e le braccia all’ondata di siriani risalita dai Balcani - come ha fatto la Germania nelle ultime ore - è generoso e inaspettato; ma non è irrazionale. Si può spiegare. Nella mentalità tedesca è radicato il senso della responsabilità e della colpa (die Schuld, che significa anche «obbligo morale» e «debito»). I siriani - schiacciati tra un dittatore spietato e opposizioni sanguinarie - colpe non ne hanno. A differenza dei greci che, secondo l’opinione corrente in Germania (e non solo), hanno economicamente peccato. Angela Merkel ha mostrato di ricordare che Aylan, il cui piccolo corpo sulla battigia ha commosso il mondo, non è un caso isolato. In Siria, dal 2011, sono morti almeno 232 bambini di tre anni, ha calcolato con terribile precisione The Washington Post . 125 maschi e 107 femmine. 115 uccisi dall’artiglieria, 42 da bombardamenti aerei, 26 per colpi d’arma da fuoco, 49 per armi da taglio e altre cause. Secondo il Syrian Observatory for Human Rights, un gruppo con base a Londra, dall’inizio della guerra in Siria sono già morti 11.400 bambini. Certo, commozione e misericordia non bastano. La migrazione in corso solleva preoccupazioni e obiezioni. Ha ragione chi, come Romano Prodi, ricorda che l’emergenza si risolve in Africa. Vanno capiti quanti insistono sulla necessità di distinguere tra chi fugge da una guerra e chi cerca solo una vita migliore. Non hanno torto gli inglesi, quando chiedono: l’improvvisa apertura europea non rischia d’essere il miglior spot per i mercanti d’uomini? Non possiamo liquidare il fastidio di molti - persone buone e informate, non cinici ignoranti - che domandano: ma come? Ai profughi non basta essere al sicuro in Europa? Vogliono scegliersi lo Stato e la città? Infine, ancora più importante: ai nuovi arrivati va ricordato che adesso abitano una terra di diritti e doveri. Chi vuole diventare cittadino americano giura d’accettare le regole degli Stati Uniti, e s’impegna a difenderle. Dovremmo pretendere lo stesso impegno, partendo dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. I nuovi arrivati dichiarino di volerla rispettare: senza pretendere eccezioni a causa della religione o accampare scuse in nome della tradizione. Tutto questo va affrontato: e in fretta. Ma era urgente stabilire un principio e, per fortuna, è stato fatto. In un weekend di fine estate l’Europa, grazie a un cattolico a Roma e una luterana a Berlino, ha dimostrato di non essere un ectoplasma burocratico. Ha rivelato carne, coraggio e visione. Anche incoscienza, dirà qualcuno. Se così fosse, così sia. Pochi incoscienti sono profetici, ma tutti i profeti sono un po’ incoscienti. Non bloccate l’atrio / Perché chi si farà male / è quello che ha cercato di tergiversare / C’è una battaglia là fuori / E sta infuriando / Presto scuoterà le vostre finestre / E farà tremare i vostri muri / Perché i tempi stanno cambiando. Se l’Inno alla Gioia di Beethoven - inno europeo, guarda caso opera d’un tedesco - non piace a Matteo Salvini, come ha lasciato intendere ieri a Cernobbio, riascolti «The times they are a-changin’» di Bob Dylan. I tempi stanno cambiando. Sostenere il contrario - quello sì - è da irresponsabili. LA REPUBBLICA Pag 4 “Tutte le parrocchie ospitino rifugiati” di Orazio La Rocca e Paolo Rodari L’appello del Papa alle diocesi d’Europa. Il presidente della Cei Bagnasco: “Noi vescovi siamo già in prima linea. Pronti a sfidare paure e pregiudizi” Città del Vaticano. «Ogni parrocchia, ogni convento, ogni monastero ospiti una famiglia di profughi». È papa Francesco che lo vuole. Lo ha chiesto con un appassionato appello ieri alla preghiera dell'Angelus in piazza San Pietro, prendendo in contropiede i diretti interessati, i vescovi ed i parroci, e persino le due parrocchie vaticane dai lui invitate ad aprirsi ai rifugiati. Non è la prima volta che il Pontefice lancia appelli del genere. Ma ieri Bergoglio è stato ancora più incisivo e dettagliato, chiedendo un impegno concreto per il Giubileo a ogni parrocchia europea, «a partire dalle due parrocchie vaticane e dalla mia diocesi di Roma». Quasi una sfida a quei politici europei contrari all'accoglienza, come il

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premier ungherese Viktor Orbàn che ha vietato ogni forma di aiuto ai profughi, pena l'arresto immediato. Il Papa invece sollecita proprio «i fratelli vescovi d'Europa perché sostengano questo mio appello». Spinta da Bergoglio, la Chiesa, dunque, potrà così accogliere oltre 100 mila migranti nelle 26 mila parrocchie italiane, e altri 400 mila in Europa, dove le comunità religiose superano le 100 mila strutture. Sarà possibile? Il portavoce papale, padre Federico Lombardi, non ha dubbi: «L'appello del Papa è un invito alla corresponsabilità. Toccherà alle singole realtà trovare i modi migliori per accogliere una famiglia, ospitandola in parrocchia o presso altre strutture, col sostegno della comunità». Tra i primi a rispondere, l'arciprete della basilica vaticana, il cardinale Angelo Comastri («Accoglieremo 2 famiglie con assistenza sanitaria e materiale») e il vescovo George Gaenswain, segretario del papa emerito Benedetto XVI, che da Ancona ha riferito che «la tragedia dei profughi è nel cuore» di Ratzinger, «che prega molto, sa della situazione e si sente ogni giorno con papa Francesco». La tragedia dei migranti continua intanto a mietere vittime: secondo l'Onu dall'inizio dell' anno sono morte in mare già 2.800 persone. Ma il bilancio è destinato ad aggravarsi: un gruppo di migranti soccorso ieri dalla Guardia costiera ha parlato ieri di almeno 20 persone disperse tra le onde. Città del Vaticano. Cardinale Angelo Bagnasco, il Papa chiede alle parrocchie di aprire le porte ai rifugiati: che eco le suscita quest'appello? «Innanzitutto, di gratitudine: anche nelle situazioni più difficili, il Papa ci indica le vie concrete del Vangelo. Mi ha fatto tornare alla mente la visita da lui compiuta un paio d'anni fa al Centro Astalli di Roma, quando - dopo aver ringraziato per i tanti servizi ecclesiali, pubblici e privati che accolgono i richiedenti asilo - ha affidato tre verbi: "servire", chinandosi su chi ha bisogno e tendendogli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione; quindi, "accompagnare", nella ricerca del lavoro e nell'inserimento sociale per contribuire a far crescere una cultura dell'incontro e della solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani; e, infine, "difendere", mettendosi dalla parte di chi è più debole. Le parole pronunciate oggi, in sintonia con quello che scrive nella Bolla d'indizione del Giubileo della Misericordia, allargano ancor più l'appello». La Chiesa italiana è preparata a farle proprie? «Sono testimone di un notevole movimento in tutte le diocesi, pur in mezzo a situazioni strutturali e socio-culturali non facili. Sono 6 milioni i pasti assicurati ogni anno dalle nostre mense e 15 mila i servizi rivolti a persone povere: servizi aperti a tutti, abbracciano senza fissa dimora, coniugi che si trovano in strada dopo una separazione, vittime dell' Aids o del disagio psichico. Sul fronte più specifico degli immigrati, non sono poche le Chiese che si sono pronunciate e sono attive nell'accoglienza». Ma rispetto a questo stile radicalmente evangelico non trova che ci siano ancora resistenze all' interno della Chiesa? «Le resistenze - se ci sono - sono dentro la coscienza di ciascuno: educarsi all'accoglienza è un impegno che non può mai essere dato per scontato né per assodato. Una sfida particolare, posta a tutti, è la promozione dell' incontro tra i popoli e le culture, nel rispetto delle identità e delle legittime differenze. Si tratta di aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, che a volte si manifestano anche in forme di intolleranza e di conflitto». Lei è Arcivescovo di Genova, una diocesi importante del Nord Italia. Tra la gente, rispetto al problema dei migranti, c'è chiusura oppure no? «Tra la gente tocco con mano una grande generosità, che non conosce frontiere razziali o religiose. Non dobbiamo scordare troppo in fretta episodi come quelli avvenuti nella Stazione Centrale di Milano o Roma Tiburtina: prima ancora delle Istituzioni, è arrivata la gente comune con cibo e coperte, espressione di prossimità affettiva ed effettiva alle persone in necessità. Senza idealizzare nulla, è quanto si vive nel quotidiano di tante nostre comunità parrocchiali: un vissuto che per lo più non fa notizia, a differenza di polemiche che disorientano e non aiutano ad affrontare il fenomeno». Non soltanto in Italia, ma un po' in tutto i Paesi europei ci sono politici critici verso la necessità di aprire le porte ai migranti. Come giudica queste uscite? «Siamo all'interno di una svolta epocale che, in quanto tale, esige risposte che siano all'altezza di ciò che stiamo vivendo; le sole, tra l'altro, che possono costituire un reale antidoto anche al terrorismo. Ne è parte l'impegno a rivedere gli accordi di Dublino e a

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varare una nuova normativa sul diritto d'asilo europeo. Teniamo presente che tutte le volte che il nostro Continente ha saputo abbattere i muri è cresciuto non soltanto sul piano della solidarietà, ma anche su quello sociale». Come giudica l'operato della Ue? Cosa dovrebbe fare che fino a oggi non ha fatto? «Davanti alla portata delle migrazioni di popoli era inevitabile scoprirsi impreparati: di qui le debolezze e le insufficienze dei diversi piani d'accoglienza. La gente scappa dalla fame, dalla guerra, dalla mancanza di libertà religiosa, dalle persecuzioni: è un fenomeno destinato a non esaurirsi in pochi anni. Le notizie che giungono in queste ore dall'Austria e dalla Germania sono però indicative della volontà di misurarsi davvero con questa realtà. Mi auguro che possa trovare condivisione in tutti i 28 Paesi dell'Unione europea, traducendosi in azioni politiche e diplomatiche che sappiano andare anche alle radici, alle cause di tali esodi». I media di tutto il mondo hanno rilanciato la foto del bimbo siriano morto affogato: è stato giusto, secondo lei, diffondere quest'immagine? «Quella foto si aggiunge a una lunga serie di immagini drammatiche, che avrebbero già dovuto scuotere la coscienza europea, richiamandola all'orrore di quanto sta accadendo e a esserne più consapevole e partecipe. Quell'immagine ha vinto rispetto a tanti discorsi che, più che informare, dividono l'opinione pubblica tra chi è pro e chi è contro. Quell'immagine ci riporta al cuore del discorso: la vita delle persone, specialmente dei più piccoli e indifesi; vita che domanda di essere accolta e accompagnata in maniera solidale». Pag 9 Erbil, l’appello dell’arcivescovo: “Mandate le truppe per fermare l’Is” di Adriano Sofri Dopo la decisione della signora Merkel e del suo governo di accogliere in qualità di rifugiati, in deroga a Dublino, i fuggiaschi dalla Siria, il governo italiano non dovrebbe fare lo stesso per i cristiani dell'Iraq che scampano alla persecuzione del Califfato? Non sono ubriaco, dunque non immagino di accoglierli per una ragione settaria, discriminando altre confessioni o l'assenza di fede, che è una delle condizioni più dignitose di esistenza umana. Il fatto è che in quella regione i cristiani abitano da tempo immemorabile e sono al tempo stesso una comunità religiosa e un popolo. Nei confronti di quel popolo, come degli yazidi e di altre minoranze, si va perpetrando un genocidio. Non immagino - tanto meno - di accogliere i cristiani di Mosul e della piana di Ninive a preferenza, o a esclusione, di altri fuggiaschi, sull'increscioso esempio della Slovacchia (è la porcheria subito fatta propria da Salvini) o, meno sfrontatamente, della Polonia. L'apertura tedesca ai siriani sarebbe inaccettabile se implicasse il ripudio degli altri. È ammirevole ma imbarazzante che un autentico riscatto di cristiani venga svolto da privati, come il vegliardo lord George Weidenfeld, memore del soccorso offerto agli ebrei. Il cardinale Bagnasco ha invitato le Caritas diocesane a coordinare l'accoglienza. Un impegno del governo, significativo per sé, si tradurrebbe nella conseguenza di far arrivare i profughi per vie diverse da quelle dei barconi o della battigia di Bodrum. Ho incontrato l'arcivescovo caldeo di Erbil, Bashar Matti Warda. Matteo Renzi conosce i suoi pensieri, netti e nettamente espressi. «Quello che subiamo risponde pienamente alla definizione giuridica e morale di genocidio, e non si aspettino vent'anni per riconoscerlo. I paesi che credono nella libertà religiosa devono impegnarsi nell'azione militare, ed è provato che i raid aerei non bastano. Per un cristiano il primo imperativo è sempre quello dell'amore, della preghiera, del dialogo e della riconciliazione. Ma l'Is oppone solo brutalità e vuole cancellare perfino la memoria del nostro popolo. Gli Stati della regione non sono in grado di difendere la sopravvivenza nostra e delle altre minoranze. I cristiani d'Iraq sono passati da un milione e mezzo a scarsi 300 mila, e si riducono ogni giorno. Il governo di Bagdad proclama che intende battersi seriamente, ma l'Is appare più forte di prima. A parte il fronte curdo, si è fatto qualche progresso a Beji e a Tikrit, ma la liberazione di Mosul è ferma, e gli aspiranti liberatori - esercito iracheno, sciiti di Hashd Shaabi, curdi - sono armati l'uno contro l'altro». Monsignor Warda ha ripetuto il suo appello a Londra, negli Stati Uniti, col sostegno di tutte le confessioni cristiane irachene, «implorando che si intervenga con truppe di terra». «L'Is è un'aggressione globale, e i paesi da cui provengono i suoi miliziani devono sentirsene doppiamente responsabili: si tratta di loro cittadini, e la minaccia riguarda anche loro. Dovremo

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aspettare che arrivi dentro Roma o Parigi? Io credo di no». Gli chiedo delle relazioni con le autorità curde. «Buone, ci lasciano operare, non solo predicare. Quando i cristiani perdono la loro casa, la chiesa è il primo riparo, la loro casa. Chiedono di aiutarli in ogni aspetto della sopravvivenza quotidiana: non è il mestiere del vescovo, del sacerdote, ma non possiamo sottrarci ». Un suo sacerdote, Douglas al Bazi, ha appena detto a Rimini che «l'Is rappresenta l'islam, al cento per cento». «Cerchiamo un'espressione che abbia la forza appropriata. È troppo poco dire che "l'Is non rappresenta l'Islam", che "è una deformazione dell'Islam". C'è un genocidio nel nome dell'Islam, e non c'è una condanna adeguata, e tanto meno un' azione adeguata». Quanti sono i cristiani a Erbil? «Abbiamo registrato 12.700 famiglie. Chi è partito si è fermato in Giordania, Turchia, Libano. In Europa? Molto pochi, in Svezia, Olanda, Germania, Francia». Avete rapporti con gli yazidi? «62 famiglie sono qui con noi, e altre 500 nel campo di Ainkawa, il nostro quartiere. Stiamo attenti a non forzare un proselitismo: qualche evangelico lo ha fatto. Noi dobbiamo solo aiutare, essere fratelli. Se in qualcuno nasce un desiderio di conoscere Cristo, è la sua libertà». Il papa Francesco disse presto che la comunità internazionale doveva intervenire, ma si affrettò ad aggiungere: "Le bombe no, eh?". Le bombe allora erano quelle che fermarono l'avanzata dell'Is sul Sinjar e permisero la fuga di cristiani e yazidi. «La Chiesa è sempre alla ricerca della forza minima, è spaventata dei danni collaterali. Dover auspicare la forza è tra le sventure peggiori che tocchino a un cristiano. Il Papa è stato vicino, con le preghiere e gli atti. E ha detto che c'è un genocidio di cristiani. Ci ha mandato questa Madonna - mi mostra un ricamo che riproduce la Madonna che scioglie i nodi - ne abbiamo bisogno». Lei ha detto che nella tragedia di quest'anno le è successo di litigare col suo Dio. «Quando hai a che fare con tanta sofferenza che tocchi, che ti tocca - che colpa abbiamo per essere puniti così duramente - non è una punizione, certo, e tuttavia non puoi fare a meno di dirglielo. È il suo lavoro, la misericordia. Essere vescovo è ascoltare il pianto della propria gente. Ci sono vescovi, sacerdoti, con difficoltà più dure delle mie, lo so. Alla fine di ogni giorno, il modo in cui Dio mi accoglie è pieno di amore». Che cosa pensa della possibilità che il governo italiano dichiari, come ha fatto la Germania coi siriani, di accogliere i cristiani che fuggono dal genocidio e vogliano trovare rifugio in Italia? Sarebbe una testimonianza concreta di consapevolezza della persecuzione peculiare che colpisce i cristiani. «Deve chiederlo al suo primo ministro. Tutti sanno che gli italiani sono un popolo dal gran cuore, e ne abbiamo prove continue, missionari, medici, giornalisti, davvero senza frontiere. Gli Stati si pongono prima di tutto il problema economico. Noi assistiamo al desiderio spaventato, disperato di partire, non ce la sentiamo di opporci, di rassicurare, e insieme soffriamo per la cancellazione della cristianità nelle sue culle più preziose. Deve chiederlo al suo primo ministro». IL GAZZETTINO Pag 2 Il Papa: profughi nelle parrocchie di Fabio Morabito Appello alla comunità religiosa europea: “Un gesto concreto, ospitare almeno una famiglia” Nel giorno in cui il Papa chiede a tutte le parrocchie d'Europa di ospitare una famiglia di profughi, è ancora la solidarietà la cifra della giornata di ieri nell'esodo che porta i migranti al cuore dell'Europa. Almeno trecento cittadini austriaci sono accorsi al confine con l'Ungheria per caricare sulle loro auto i profughi in viaggio e condurli a Vienna. Un numero importante, perché per assurdo questi volontari potevano essere fermati e accusati di traffico di essere umani. Così come sono stati civili ungheresi ad accompagnare i profughi fino a Hegyeshalom, la cittadina di frontiera, oppure ad accoglierli offrendo loro panini e cioccolata. E il governo di Viktor Orban ha consentito ai treni di ripartire da Budapest con centinaia di migranti, anche se solo fino alla frontiera. Qui però i profughi sono potuti salire sui treni austriaci, e lasciati partire anche senza biglietto. Ma sono giorni speciali: si parla di ventimila ingressi tra la stazione di Monaco e quella di Francoforte nello spazio di 36 ore, c'è un clima diffuso di festa all'arrivo dei profughi, ma non mancano i segni di una tensione irrisolta. Cresce nella Csu, partito gemello in Baviera della Cdu di Angela Merkel, il malcontento per il “via libera” consentito dalla cancelliera alla quale si rimprovera una politica d'accoglienza che «lancia messaggi devastanti». E da ieri il governo ungherese ha ordinato di distribuire volantini

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al confine con la Serbia per avvertire che chi entra illegalmente andrà in prigione. Budapest però ha anche aperto un nuovo campo per i rifugiati e fa slittare la data (al 15 settembre) per blindare militarmente i confini con la Serbia. E anche l'improvvisa promessa della Gran Bretagna di ospitare 15mila siriani ha un'altra faccia della medaglia, che è quella che questo impegno riguarderà i rifugiati già accolti in campi profughi del Medio Oriente. Quindi non quelli che hanno raggiunto l'Europa. Una linea ancora una volta dissonante con il resto dell'Europa, che pure continua a non mettersi d'accordo sulle quote di rifugiati che si vorrebbe assegnare a ciascun paese. Anche se David Cameron sembra sposare la linea del blocco dei 4 dell'Europa dell'Est (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che non vogliono un sistema di quote permanenti e obbligatorie, si distingue per la volontà di andare a prendere i rifiugiati dove già sono stati accolti. La giustificazione di Londra è di non voler aggiungere un ulteriore «fattore di attrazione» ai profughi in fuga. Fatto è che un'intesa nella Ue non ci sarà neanche dopodomani, quando il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker presenterà a Bruxelles il suo piano per gestire l'emergenza. E che prevede la collocazione di 160mila rifugiati. In questo quadro ancora confuso, sono dirompenti le parole di Papa Francesco che, parlando all'Angelus a piazza San Pietro, ha chiesto che ogni parrocchia, ma anche ogni santuario, monastero, comunità religiosa d'Europa, di accogliere, con «un gesto concreto» in vista del Giubileo, una famiglia di profughi. Un «appello», come lo ha definito lo stesso Bergoglio,«di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per guerra e per la fame e sono in cammino verso una speranza di vita». Ha spiegato il Papa: «Spesso noi siamo ripiegati e chiusi in noi stessi, e creiamo tante isole inaccessibili e inospitali». E ancora: «Il Vangelo ci chiama ad essere “prossimi” dei più piccoli e abbandonati. A dare loro una speranza concreta. Non soltanto dire: “Coraggio, pazienza!” La speranza è combattiva». Due parrocchie ci sono anche nel piccolo Stato del Vaticano, e si sono affrettate a individuare gli appartamenti per ospitare un paio di famiglie. «Come sempre ci precede nella via del Vangelo». Solo pochi giorni fa l'arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, aveva rivolto un appello analogo, chiedendo ai parroci della diocesi di offrire «un'ospitalità completa per alcu ni mesi» a cinque rifugiati. ZENIT di domenica 6 settembre 2015 “Dio non è chiuso in sé stesso, ma si apre” Parole di papa Francesco durante l'Angelus di domenica 6 settembre 2015 Riportiamo di seguito le parole rivolte oggi a mezzogiorno da papa Francesco durante la consueta recita della preghiera dell'Angelus ai fedeli e pellegrini convenuti in piazza San Pietro. Dopo l’Angelus, il Santo Padre ha lanciato un sentito appello, invitando le parrocchie, le comunità religiose, i monasteri e i santuari di tutta Europa ad accogliere famiglie di profughi. [Prima dell'Angelus:] Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il Vangelo di oggi (Mc 7,31-37) racconta la guarigione di un sordomuto da parte di Gesù, un evento prodigioso che mostra come Gesù ristabilisca la piena comunicazione dell’uomo con Dio e con gli altri uomini. Il miracolo è ambientato nella zona della Decapoli, cioè in pieno territorio pagano; pertanto quel sordomuto che viene portato da Gesù diventa simbolo del non-credente che compie un cammino verso la fede. Infatti la sua sordità esprime l’incapacità di ascoltare e di comprendere non solo le parole degli uomini, ma anche la Parola di Dio. E san Paolo ci ricorda che «la fede nasce dall’ascolto della predicazione» (Rm 10,17). La prima cosa che Gesù fa è portare quell’uomo lontano dalla folla: non vuole dare pubblicità al gesto che sta per compiere, ma non vuole nemmeno che la sua parola sia coperta dal frastuono delle voci e delle chiacchiere dell’ambiente. La Parola di Dio che il Cristo ci trasmette ha bisogno di silenzio per essere accolta come Parola che risana, che riconcilia e ristabilisce la comunicazione. Vengono poi evidenziati due gesti di Gesù. Egli tocca le orecchie e la lingua del sordomuto. Per ripristinare la relazione con quell’uomo “bloccato” nella comunicazione, cerca prima di ristabilire il contatto. Ma il miracolo è un dono dall’alto, che Gesù implora dal Padre; per questo alza gli occhi al cielo e comanda:

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“Apriti!”. E le orecchie del sordo si aprono, si scioglie il nodo della sua lingua e si mette a parlare correttamente (cfr v. 35). L’insegnamento che traiamo da questo episodio è che Dio non è chiuso in sé stesso, ma si apre e si mette in comunicazione con l’umanità. Nella sua immensa misericordia, supera l’abisso dell’infinita differenza tra Lui e noi, e ci viene incontro. Per realizzare questa comunicazione con l’uomo, Dio si fa uomo: non gli basta parlarci mediante la legge e i profeti, ma si rende presente nella persona del suo Figlio, la Parola fatta carne. Gesù è il grande “costruttore di ponti”, che costruisce in sé stesso il grande ponte della comunione piena con il Padre. Ma questo Vangelo ci parla anche di noi: spesso noi siamo ripiegati e chiusi in noi stessi, e creiamo tante isole inaccessibili e inospitali. Persino i rapporti umani più elementari a volte creano delle realtà incapaci di apertura reciproca: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa… E questo non è di Dio! Questo è nostro, è il nostro peccato. Eppure all’origine della nostra vita cristiana, nel Battesimo, ci sono proprio quel gesto e quella parola di Gesù: “Effatà! - Apriti!”. E il miracolo si è compiuto: siamo stati guariti dalla sordità dell’egoismo e dal mutismo della chiusura e del peccato, e siamo stati inseriti nella grande famiglia della Chiesa; possiamo ascoltare Dio che ci parla e comunicare la sua Parola a quanti non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo. Chiediamo alla Vergine Santa, donna dell’ascolto e della testimonianza gioiosa, di sostenerci nell’impegno di professare la nostra fede e di comunicare le meraviglie del Signore a quanti incontriamo sul nostro cammino. [Appello:] Cari fratelli e sorelle, la Misericordia di Dio viene riconosciuta attraverso le nostre opere, come ci ha testimoniato la vita della beata Madre Teresa di Calcutta, di cui ieri abbiamo ricordato l’anniversario della morte. Di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita, il Vangelo ci chiama, ci chiede di essere “prossimi”, dei più piccoli e abbandonati. A dare loro una speranza concreta. Non soltanto dire: “Coraggio, pazienza!...”. La speranza cristiana è combattiva, con la tenacia di chi va verso una meta sicura. Pertanto, in prossimità del Giubileo della Misericordia, rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi. Un gesto concreto in preparazione all’Anno Santo della Misericordia. Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma. Mi rivolgo ai miei fratelli Vescovi d’Europa, veri pastori, perché nelle loro diocesi sostengano questo mio appello, ricordando che Misericordia è il secondo nome dell’Amore: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due famiglie di profughi. [Dopo l'Angelus:] Ora dirò una parola in spagnolo sulla situazione tra Venezuela e Colombia. En estos días, los Obispos de Venezuela y Colombia se han reunido para examinar juntos la dolorosa situación que se ha creado en la frontera entre ambos Países. Veo en este encuentro un claro signo de esperanza. Invito a todos, en particular a los amados pueblos venezolano y colombiano, a rezar para que, con un espíritu de solidaridad y fraternidad, se puedan superar las actuales dificultades. (Trad.: In questi giorni i vescovi di Venezuela e Colombia si sono riuniti per esaminare insieme la dolorosa situazione che si è creata nella frontiera di entrambi i paesi. Vedo in questo incontro un chiaro segno di speranza. Invito a tutti in particolare all’amato popolo venezuelano e colombiano a pregare, perché con uno spirito di solidarietà e fraternità si possano superare le difficoltà attuali). Ieri, a Gerona in Spagna, sono state proclamate Beate Fidelia Oller, Giuseppa Monrabal e Faconda Margenat, religiose dell’Istituto delle Suore di San Giuseppe di Gerona, uccise per la fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Malgrado le minacce e le intimidazioni, queste donne rimasero coraggiosamente al loro posto per assistere i malati, confidando in Dio. La loro eroica testimonianza, fino all’effusione del sangue, dia forza e speranza a quanti

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oggi sono perseguitati a motivo della fede cristiana. E noi sappiamo che sono tanti. Due giorni fa sono stati inaugurati a Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, gli undecimi Giochi Africani, a cui partecipano migliaia di atleti da tutto il Continente. Auspico che questa grande festa dello sport contribuisca alla pace, alla fraternità e allo sviluppo di tutti i Paesi dell’Africa. Salutiamo gli africani che stanno facendo questi undecimi Giochi. Saluto cordialmente tutti voi, cari pellegrini venuti dall’Italia e da vari Paesi; in particolare, la corale “Harmonia Nova” di Molvena, le Suore Figlie della Croce, i fedeli di San Martino Buon Albergo e Caldogno, e i giovani della diocesi di Ivrea, giunti a Roma a piedi sulla via Francigena. A tutti auguro una buona domenica. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! L'OSSERVATORE ROMANO di domenica 6 settembre 2015 Pagg 4 - 5 I fratelli di Gesù di Alain Besançon A partire da un romanzo una riflessione su un punto dibattuto della Scrittura e della teologia Due o tre anni fa il direttore dell’Osservatore Romano mi aveva chiesto una recensione del libro che Benedetto XVI aveva appena pubblicato sull’infanzia di Gesù di Nazaret. Il libro era eccellente e la mia recensione fu sinceramente elogiativa. Ho ricevuto complimenti dagli italiani. Una cosa, però, mi aveva sorpreso. Non diceva nulla sulla questione dei fratelli di Gesù. Ebbene, ci tengo moltissimo all’“uniparità” della Vergine Maria. Nel mio articolo ho supposto che se il Papa non ne aveva parlato era per preterizione, perché per lui era una cosa evidente, come per tutti i cattolici, che non fosse necessario discuterne. E non solo per i cattolici, perché nel mio testo ricordavo che Lutero e Calvino invocavano le maledizioni più terribili su quanti avevano l’audacia di contestare questa verità tanto antica quanto il cristianesimo. È stato il mio ultimo articolo sull’Osservatore Romano [del 23 gennaio 2013]. Spinto dalla curiosità, ho comprato il romanzo di Françoise Chandernagor intitolato Vie de Jude, frère de Jésus (Paris, Albin Michel, 2015). Conosco e stimo questa autrice che, come me, siede nella giuria del Premio Chateaubriand, e di lei ho letto alcune opere di ottimo livello. È un romanzo scritto con vigore. La scrittrice immagina un manoscritto ritrovato, il cui autore sarebbe Giuda, fratello minore di Gesù, che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita e che avrebbe svolto un ruolo importante ai primordi della Chiesa. Sarebbe stato uno dei pilastri della “Chiesa di Giacomo”, a Gerusalemme. Giuda si esprime in termini aspri sul carattere imperioso di Paolo, che si autoproclama apostolo dei gentili, e che avrebbe impresso una direzione diversa alla religione nascente. Il ritratto che Chandernagor fa di Gesù è più “ortodosso” di quello di Renan. Lei (o Giuda) non rifiuta i miracoli e neppure la resurrezione. Ammira e rispetta Gesù e dimostra un vero affetto per Maria, madre di famiglia commovente ed esemplare. Conosce bene le istituzioni e i modi di vivere degli ebrei dell’epoca e imita abilmente lo stile dei vangeli. Questo romanzo si fonda su ricerche serie e poggia su un’indagine documentata. Alla fine del libro, Françoise Chandernagor, abbandonato il ruolo di romanziera e ridivenuta il consigliere di Stato competente qual è, aggiunge un ultimo capitolo: L’atelier de l’auteur. Spiega come ha fatto e perché. Riassumo qui le sue argomentazioni, senza approvarle né criticarle, perché non ne ho i mezzi. Lei giustifica la tesi della “multiparità” della Vergine Maria. Nel romanzo Maria, sposa di Giuseppe all’età di quattordici anni, dà alla luce Gesù, poi i suoi quattro fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda, oltre ad alcune sorelle che non vengono nominate. Dunque una fratria di almeno sette figli. Quei nomi si trovano nei vangeli (Matteo e Marco), negli Atti degli apostoli, nelle lettere di Paolo, nella lettera di Giacomo e in quella di Giuda. Questi ultimi sono chiamati «fratelli del Signore». Sono citati in numerosissimi apocrifi. Flavio Giuseppe, storico indipendente dall’ambito dei vangeli, menziona la morte, nel 62, di Giacomo «fratello di Gesù detto il Messia». Per oltre tre secoli i Padri della Chiesa non hanno provato alcun imbarazzo a parlare dei fratelli di Gesù, per esempio Egesippo, citato da Eusebio di Cesarea, e Tertulliano. Tuttavia, alla fine del IV secolo, verso il 380, il vescovo Epifanio di Salamina suggerisce che questi fratelli potrebbero essere solo dei fratellastri, frutto di un primo matrimonio di Giuseppe. Si fondava su un celebre apocrifo, il Protovangelo di Giacomo, solitamente datato alla fine del II secolo. Françoise Chandernagor presume che vi fosse una domanda popolare di una dea eternamente vergine e che ci fosse stata una

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contaminazione con il culto di Iside e anche con altre sette nemiche della sessualità e del matrimonio. Nello stesso clima si sviluppano i racconti sulla venuta al mondo di Gesù, che sarebbe avvenuta in modo più o meno miracoloso. L’intervento decisivo fu quello di san Girolamo, uno dei quattro Padri della Chiesa latina. Nel 383 propone la sua tesi: i quattro fratelli del Signore sono cugini, in quanto la parola fratello è stata iscritta nel Nuovo Testamento a seguito di una cattiva traduzione dall’ebraico o dall’aramaico nella lingua greca. Ritiene anche che Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme, non fosse Giacomo il Maggiore (figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni) ma un altro Giacomo, Giacomo il Minore, figlio di Alfeo e di un’altra Maria. Ciò rafforzava un altro dogma che si stava formando, quello di Maria sempre vergine. La situazione oggi è la seguente. Le Chiese protestanti non hanno difficoltà ad ammettere l’esistenza dei “veri” fratelli di Gesù. Rifiutano anche la verginità perpetua. Bisogna dire che nelle Chiese protestanti prevalgono considerazioni dogmatiche che sminuiscono fortemente lo status e il ruolo della Vergine nell’economia generale della salvezza. Il luteranesimo conserva un certo affetto per la figura di Maria. Lutero ha scritto un commovente commento al Magnificat. L’anglicanesimo anche, mentre il calvinismo teme che il culto della Vergine degeneri in idolatria e che diventi una deriva, addirittura un parassita, del culto dovuto solo a Dio. Soli Deo gloria, a Dio solo la gloria: è il motto di Calvino. Le Chiese ortodosse ritengono, sulla scia di Epifanio di Salamina, che i fratelli siano fratellastri, figli di un primo matrimonio di Giuseppe. Credono fermamente nella verginità perpetua, post partum. Nello spirito dell’ortodossia questo è ovvio e si prova una sorta d’imbarazzo nel dirlo. Ciò può spiegare il silenzio dei primi secoli constatato da Chandernagor. Piuttosto che definire un dogma la Chiesa orientale preferisce restarne in contemplazione. La Madre di Dio viene vista alla luce del concilio di Efeso che le ha conferito (o riconosciuto) questo titolo. La Vergine è detta “la purissima”, la pretchistaia, come dicono i russi, «infinitamente più degna degli angeli», più alta, addirittura, dei serafini e dei cherubini, come recita la preghiera ortodossa alla Vergine, di stile più teologico della nostra Ave Maria latina. L’ortodossia non ha seguito la Chiesa cattolica nella definizione del dogma dell’Immacolata Concezione e neppure in quello dell’Assunzione. Vi crede misticamente da sempre. Per questo non ne parla. La posizione ufficiale della Chiesa cattolica si attiene a san Girolamo: Gesù non ha avuto fratelli né fratellastri. Ha avuto dei cugini. La Chiesa cattolica non si accontenta della fede implicita degli orientali. Vorrebbe rispondere con precisione al problema posto. In Matteo, 13, 55-56, si legge: «Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?». E in Marco, 6, 3: «Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». Tutto il dibattito si fonda sul significato di fratello. In greco il termine è adelphòs, utilizzato ripetutamente nel Nuovo Testamento. Trecentoquarantatré volte, precisa Françoise Chandernagor, per designare «sia un fratello metaforico (membro della comunità cristiana), sia un fratello biologico, e null’altro». Cugino in greco si dice anepsiòs. La parola è nota a Paolo, che distingue perfettamente i due termini. Nelle sue lettere definisce Giacomo «fratello di Gesù», mentre indica Marco come un cugino (anepsiòs) di Barnaba. Flavio Giuseppe definisce Giacomo adelphòs, ossia fratello di Gesù e non cugino. Diamo atto all’autrice della sua analisi. Il dibattito è chiuso? Ammettiamo che fratello significhi fratello biologico. Questo implica che Maria, madre di Gesù, sia madre allo stesso modo di Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? Nei vangeli appaiono quattro Marie. Una, Maria di Magdala, non ha figli. Maria, sorella di Marta e di Lazzaro - l’amico di Gesù, morto e risuscitato per opera sua - neppure. Maria, la sposa di Giuseppe, è la madre di Gesù. Infine c’è un’“altra Maria”. In Matteo, 27, 56 appare tra le donne che osservano «da lontano» il supplizio di Gesù. Viene chiamata «madre di Giacomo e di Giuseppe». Non può essere confusa con Maria madre di Gesù, che sembra non far parte di quel gruppo, altrimenti verrebbe indicata come madre di Gesù e non solo di Giacomo e di Giuseppe. Questa “altra Maria”, accompagnata da Maria di Magdala, va a visitare il sepolcro di Cristo, all’indomani dello shabbàt (Matteo, 27, 61). Marco (15, 40) lo conferma: «C’erano anche alcune donne, che stavano a osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il Minore e di Ioses [cioè di Giuseppe], e Salome». Salome, moglie di Zebedeo, è la madre di Giacomo il Maggiore e di Giovanni l’apostolo. Questi ultimi due non vengono mai chiamati “fratelli di Gesù”. Marco aggiunge che questa Maria, con Maria di

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Magdala, osservava mentre lo portavano nella tomba e guardava «dove veniva deposto». Dopo lo shabbàt, insieme con Maria Maddalena e Salome, compra oli aromatici per ungere la salma. Poi le tre donne si recano al sepolcro, scoprono che è aperto, che la pietra che lo chiudeva è rotolata via, e un angelo annuncia loro che il crocifisso «non è qui», è «risorto». Fuggono via spaventate. In Luca, 24, 1-10, c’è la stessa scena. A Maria Maddalena e a «Maria madre di Giacomo», si aggiunge Giovanna. Ma chi è questa “altra Maria”? Giovanni scrive (19, 25): «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala». Allora questa altra Maria (moglie di Cleofa) è la “sorella” di Maria Vergine. È tuttavia improbabile, per motivi legati alle regole genealogiche, che due figlie di uno stesso padre abbiano lo stesso nome. L’“altra Maria” sarebbe dunque la cognata della Vergine, ossia sorella di suo marito o moglie di un fratello di suo marito. Sorella o cognata in Israele è un tutt’uno. Lei è la madre di Giacomo, fratello del Signore e di Giuda, il quale non ha dunque il titolo di fratello di Gesù, ma di fratello di Giacomo. Bisogna menzionare anche un altro personaggio, Alfeo. Questi è il padre dell’apostolo Giacomo il Minore, fratello del Signore menzionato sempre con Joses-Giuseppe suo fratello. Riassumiamo. Maria, la Vergine, madre di Gesù, l’“altra Maria”, detta Maria moglie di Cleofa in Giovanni, 19, 25, madre di Simone, detto fratello del Signore, e di Giuda, detto fratello di Giacomo e non del Signore. Restano Giacomo il Minore e Joses-Giuseppe, che sono i figli di Alfeo, parimenti fratelli del Signore. In questa analisi mi baso continuamente sul lavoro minuzioso di Maria Besançon (si vedano i suoi studi Le Péché originel, Parole et Silence, 2007, e Si Dieu est bon, pourquoi la mort? Quand l’intelligence cherche la foi, Parole et Silence, 2014). Lei conclude dicendo che nella fratria di Nazaret uno solo, Gesù, è figlio della Vergine; Simone e Giuda sono dell’“altra Maria”, Giacomo il Minore e Joses-Giuseppe sono figli di Alfeo. Non ritiene inverosimile che questo Alfeo sia un cognato della Vergine o di Giuseppe e che sia stato in un primo matrimonio il marito dell’“altra Maria”, la quale poi avrebbe sposato Cleofa. Occorre spiegare il significato del termine fratello nell’espressione di Matteo e di Marco «fratelli di Gesù». Maria Besançon fa riferimento alla legge del goël, così come viene presentata nel libro di Rut. La cito: «La legge di Mosè ordina ai figli d’Israele d’intervenire a protezione della famiglia nel ruolo del goël per il riscatto del patrimonio. Anche nel ruolo di levir, l’uomo d’Israele dovrà dare una discendenza alla moglie del defunto erede privato di progenie. Nel libro di Rut, Booz è il goël che va in aiuto di Noemi e di Rut a protezione del clan». Nel clan i membri della fratria sono legati dagli obblighi di questa legge, come se fossero membri di una sorta di assicurazione reciproca. All’interno del gruppo questo legame si esprime con il termine fratello, anche se non tutti appartengono alla stessa cellula biologica. È noto che nel greco dei vangeli goël viene tradotto con “paracleto” e si conoscono gli sviluppi che questa nozione avrà nella teologia cristiana. Non sono competente in questo campo. Sono incapace di prendere partito in una questione esegetica sapientemente argomentata dagli autori seri ai quali Françoise Chandernagor fa riferimento. Per citarne solo uno, il notissimo esegeta John P. Meier, sacerdote cattolico, nella sua monumentale opera A Marginal Jew, Jesus of Nazareth (che Benedetto XVI ha lodato quale «modello di esegesi storico-critica») scrive: «Da un punto di vista puramente filologico e storico l’opinione più credibile è che i fratelli e le sorelle di Gesù fossero davvero i suoi fratelli e le sue sorelle». Ne prendo atto. Vorrei però che mi si spiegasse perché l’“altra Maria” che assisteva «da lontano» all’esecuzione di Gesù è madre di Giacomo e di Joses ma non di Gesù, per quel che si sa. Perché Gesù sulla croce ordina «al discepolo che Gesù amava», a cui la tradizione dà il nome di Giovanni, figlio di Zebedeo, estraneo alla sua famiglia ristretta, perché dunque Gesù gli ordina di prendere Maria per madre, e perché quel discepolo la prende con sé, mentre lei ovviamente avrebbe dovuto essere accolta dai suoi “figli”. La Vergine lascerà la terra d’Israele e seguirà Giovanni a Efeso, dove morirà. Indubbiamente i dotti esegeti avranno delle risposte alle mie timide obiezioni. Posso essere certo che la loro teoria sia assolutamente e definitivamente più convincente delle soluzioni sopra considerate? Dopotutto, partendo dal presupposto che conoscesse a fondo le leggi del goël e del levirato, san Girolamo poteva, secondo l’uso dei latini, proporre il termine cugino, senza che ciò fosse così scandaloso come Françoise Chandernagor ritiene. Bisogna riconoscere che la questione è ingarbugliata. La soluzione di Chandernagor sembra risolvere le difficoltà; di fatto ne fa nascere altre. Pascal dà una spiegazione generale per l’oscurità della Scrittura: Dio è nascosto, absconditus, egli si

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lascia vedere da quanti lo cercano, ma mai in modo ovvio. La Scrittura è equivoca e disseminata di tranelli. La questione dei fratelli di Gesù è forse uno di questi tranelli. Non è questo il mio scopo. È piuttosto quello di valutare le conseguenze della dottrina secondo la quale Maria ha avuto vari figli. Esaminiamo la visione del cristianesimo professata da Françoise Chandernagor o dal suo portavoce, Giuda fratello di Gesù (va notato che lui stesso si dichiara non fratello di Gesù, ma fratello di Giacomo: essendo il più giovane è forse l’ultimo nella catena degli obblighi del goël? Non saprei). È questo il quadro generale del romanzo. Gesù, il maggiore, è il figlio preferito della Vergine che lo ascolta e vuole che gli si obbedisca. Madre irreprensibile, segue la volontà di Dio e quella di suo figlio. Assiste in piedi al suo supplizio. Gesù incute soggezione per la sua gravità, la sua autorità. È spesso assente da Nazaret e s’intuisce che è impegnato in diverse esperienze religiose con altri gruppi. Conosce gli esseni, ma non fa parte della loro comunità. Fa miracoli, che non sembrano di natura diversa da quelli che continuano a fare anche ai nostri giorni i “rabbini miracolosi” del movimento hassidico. Appare a molti dopo la sua scomparsa dal sepolcro, tranne che a Giuda che se ne rattrista. Tutto ciò è straordinario, ma non ne fa un Dio. Nelle Scritture il patriarca Enoch ed Elia sono stati “rapiti”. Il profeta Elia ha riportato in vita il figlio della vedova di Sarepta. Gesù in questo romanzo è più “divino” dell’“uomo incomparabile” che procurò dei guai a Renan. Ma non si legge che insegna o lascia intendere di essere il “Figlio di Dio”. Nulla sembra accennare a ciò che in seguito sarà dogmatizzato come Incarnazione. Il gruppo che si forma dopo la morte di Gesù a detta della scrittrice non sempre è capace o addirittura desideroso di una tale speculazione. Pietro, Giacomo, Giuda e gli altri custodiscono fedelmente i comandamenti mosaici. La loro pietà se ne alimenta. Calmi, raccolti, riuniscono, per quel che si sa, gruppi “ebioniti”. L’idea di una rottura con la legge d’Israele è loro estranea. «Quanto alla figura di Maria, essenziale ai miei occhi o meglio al mio cuore - dice la nostra scrittrice - non mi appare sminuita dall’esistenza di fratelli e sorelle biologici di Gesù. Poiché, in definitiva, a chi si può far credere che una madre di una famiglia numerosa sia per natura meno santa, meno amorevole, meno caritatevole e meno “mediatrice” di una vergine perpetua?». Figli o non figli, insomma, non cambia nulla. Françoise Chandernagor non è sola. Molti cristiani, persino cattolici, condividono oggi la sua visione. Non è da ieri che la questione dei fratelli di Gesù viene posta, ma esisteva solo per alcuni esegeti troppo curiosi. Il popolo fedele si teneva alla larga da un’opinione così incredibile, così scioccante, sentendo odore di eresia. Ora non lo è più e il suo “odore di zolfo” non è più percepito come pestilenziale. Il concilio Vaticano II, nei suoi documenti, non ha fatto nulla per diffonderla. Ha però favorito due stati d’animo che la fanno accettare. Ha elevato il matrimonio a una dignità pari a quella della castità. Il concilio di Trento aveva gettato l’anatema su quanti sostenevano che la castità non fosse una condizione di vita superiore al matrimonio fecondo. Tale anatema ha perso vigore. Difendendo l’astinenza presbiterale il papato ha tenuto a esaltare contemporaneamente la bellezza e i meriti del matrimonio cristiano. Si direbbe che le due “vie” abbiano un valore analogo. Poi, il lungo lavoro di riconciliazione con il mondo ebraico ha fatto sì che quest’ultimo sia stato meglio percepito, meglio conosciuto, meglio rispettato. Cristo e la Santa Famiglia sono stati reintegrati nel popolo e nel modo di vivere d’Israele. L’accurata indagine dell’autrice lo testimonia. Tutti hanno appreso che i giovani ebrei dovevano obbligatoriamente sposarsi, che le giovani ebree prendevano marito non appena potevano avere figli, che la fecondità era per loro fonte di onore e di considerazione. Perché la santa Vergine, figlia di Sion, figlia di Abramo secondo il suo cantico, non avrebbe dovuto seguire questo cammino di virtù? Perché non avrebbe dovuto in questo essere anche un esempio per le madri di famiglia cattoliche, le ultime in Europa a essere ancora fiere di una famiglia numerosa? Gli esegeti hanno pian piano visto che la barriera dei testi scritturistici era porosa, che li si poteva ragionevolmente interpretare in modo diverso dal passato, e che, in definitiva, non sarebbe cambiato nulla se la Vergine, dopo la nascita di Gesù, avesse concepito con Giuseppe, suo sposo legittimo, e messo al mondo una lunga sfilza di figli e figlie. Così il sostegno delle Scritture alle interpretazioni tradizionali sembra venir meno e, anzi, spinge verso le interpretazioni moderne. La bilancia pende da questo lato. Un ex direttore dell’École biblique di Gerusalemme, padre Refoulé, domenicano, scrive: «Per l’esegeta e per lo storico, i fratelli e le sorelle di Gesù sono, con ogni probabilità, fratelli e sorelle di sangue». Per l’esegeta e lo storico va bene, ma per il cristiano? Occorre constatare che a

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impedire l’adozione generale e l’accettazione da parte della Chiesa della tesi della Vergine Maria multipara non sono le argomentazioni scritturistiche, discutibili, ambigue, equivoche. La barriera insuperabile è di ordine teologico e mistico. Per quanto si torni indietro nella storia del cristianesimo, si trova sempre il culto della Vergine. L’Apocalisse fa vedere la Donna circondata da stelle che calpesta il drago demoniaco. È la nuova Eva, motivo di salvezza, come la prima era stata causa della caduta. Appare nei primi inni, nelle prime icone. La devozione mariana non fa che svilupparsi nel corso dei secoli. È pubblica ed è intima. Le grandi cattedrali d’occidente vengono a lei dedicate. San Bernardo è il suo teologo. Quest’ultimo afferma che non si è mai sentito dire che qualcuno l’abbia invocata invano. Dante gli mette in bocca la sublime preghiera che chiude il suo poema: «Donna, se’ tanto grande e tanto vali / che qual vuol grazia e a te non ricorre / sua disïanza vuol volar sanz’ali». San Francesco, san Domenico sono suoi devoti, così come sant’Ignazio e tutti i santi dopo di loro. Proprio all’inizio del XVIII secolo, all’alba dell’Illuminismo, san Luigi Grignion de Montfort compone su di lei un trattato di alta teologia, lettura preferita di Giovanni Paolo II. La Vergine intercede per gli uomini nel loro rapporto con il Padre e con il Figlio. Intercede e prega. La sua preghiera è estremamente efficace. Gli uomini recitano con devozione le sue litanie (turris eburnea, stella matutina, foederis arca, hortus conclusus, refugium peccatorum e così via). Preghiere che non mutano, delle quali il rosario è quella più recitata al mondo, costituiscono la base e l’armatura della vita spirituale del popolo cattolico. Lo sguardo severo dei teologi talvolta è apparso allarmato. Non è che questa straripante pietà fa dimenticare che Cristo è l’unico mediatore? I grandi riformatori impongono una massiccia battuta d’arresto, in particolare Calvino. Nel XVIII secolo, alcuni vescovi giansenizzanti si riunirono a Pistoia per porre rimedio ad alcuni abusi. Per esempio, i fedeli volevano rivolgersi solo alla Madonna del proprio luogo, alla Madonna del Pilar, a quella di Guadalupe o a quella di Montserrat, escludendone altre di cui non si fidavano. Il Papa diede torto ai vescovi, ritenendo che la Vergine avesse la forza di annullare questa deriva apparentemente idolatrica della loro devozione. De Virgine numquam satis è un adagio cattolico diffusosi nonostante le proteste. La visione, spontaneamente mistica che è alla base del sentimento mariano, è la seguente: è davvero inconcepibile che la Shekinah, in altre parole Dio stesso, il Dio d’Israele, la Trinità, lo Spirito Santo, si sia riposato nel seno verginale e abbia operato il mistero impenetrabile dell’Incarnazione, senza che questo seno sia divenuto “sacro” o “santissimo”. Giuseppe è stato messo al corrente di questo mistero e ha dato il suo consenso. È inimmaginabile che egli abbia avuto con sua moglie rapporti sessuali normali, naturali, dopo che la Shekinah, la presenza stessa di Dio, si sia “posata” in lei in modo più completo, infinitamente più reale che nel sancta sanctorum del Tempio, dove poteva entrare solo il Sommo Sacerdote con timore una volta all’anno. Il fiat della Vergine, il suo libero assenso, aveva permesso l’Incarnazione. Dio si era sottomesso a questa decisione libera della sua creatura. È questa la visione o l’intuizione mistica che viene spontanea prima di qualsiasi elaborazione teologica successiva. Nel corso dei secoli si è sviluppata enormemente, rimanendo però sempre la stessa, in modo omogeneo, senza cambiare sostanzialmente. Questa visione immediata, completa, è del tutto annullata dalla convinzione che Giuseppe si sia unito a Maria, dopo la nascita di Gesù, per darle quella sfilza di bambini di cui la Scrittura conserva traccia. Invece di un “nulla di nuovo” nella fede, tutto cambia e noi siamo alla presenza di un altro Gesù, di un’altra Maria. Quale Gesù? Ebbene, quello immaginato dalla scrittrice: molto simpatico, un maestro spirituale, ma che non è in alcun modo Dio incarnato. Si avvicinerebbe, se si vuole, al Cristo nestoriano: un uomo che è stato gratificato con una virtù profetica eccezionale, intensa quanto si vuole, superiore persino a quella dei profeti d’Israele, ma che lo lascia nella sua condizione umana. Invece di una persona una, al tempo stesso uomo e Dio, nel Gesù del romanzo coesisterebbero contrapposte due persone, divina e umana. Quanto a Maria, passa dalla sua condizione di Madre di Dio, che si sviluppa ulteriormente, nella contemplazione, a quella di madre degli angeli, madre degli uomini, elevata alla sua morte, mediante l’Assunzione, presso suo Figlio. Diviene semplice madre di Cristo, la madre di quel Gesù in qualche modo secolarizzato. Per la scrittrice è tanto più rispettabile quanto più è umana, semplicemente umana, e amata per questo; più che mai la Madonna cara al suo cuore. È un modo di vedere che si addice alle donne cristiane dei nostri tempi democratici, che guardano alla Vergine come molto vicina alla loro semplice umanità, e

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indubbiamente lo è, ma in tutt’altra luce, priva della maestà che incuteva il timore di un tempo. È come noi. Perciò, nel romanzo, Paolo di Tarso non è amato. Il conflitto momentaneo tra la Chiesa di Gerusalemme e la Chiesa che Paolo costruisce è inasprito al massimo e sembra irrisolvibile. A Paolo VIene rimproverato di non aver conosciuto Gesù. Il suo carattere violento si è fatto conoscere nella sua partecipazione al martirio di Stefano e non si è fatto dimenticare nella sua palinodia, la via di Damasco. Usurpa i suoi titoli. Giuda non sopporta che si attenti contro i comandamenti della Torah, e neppure che si aboliscano i privilegi d’Israele. Fondamentalmente Giuda non può condividere la visione paolina di Gesù figlio di Dio. Uno della Trinità, che fa entrare potenzialmente tutti gli uomini, persino i gentili, nel suo corpo al fine di condurli alla deificazione. Questa visione gli appare troppo grandiosa, troppo sublime. Trascende l’immagine di Gesù così come è conservata nella famiglia, tra i familiari, nei vangeli sinottici, più umile, più umana. In definitiva, se si considera l’insegnamento positivo di Gesù, non è molto diverso da quello dei maestri farisei suoi contemporanei, come Hillel, misurato, liberale, pieno di umanità, o come Gamaliele, il maestro di Paolo. L’evento cosmico dell’Incarnazione è cancellato. Gesù, per quanto ammirevole, è solo il maestro di una setta rispettabile, che può essere accettata dalle autorità del Tempio, dai maestri farisei, e imitata dai simpatizzanti pagani. Quando Traiano, in seguito, dispose un’inchiesta su quella nuova religione che si stava diffondendo nell’impero, a Nazaret venne ritrovato quel che restava di una famiglia molto modesta, che non faceva parlare di sé, quel che restava della famiglia di Gesù. L’immenso paesaggio che Paolo e i quattro evangelisti scoprono è infinito. Ispira adorazione, preghiera. È una grande impresa, una grande opera. Per entrarvi, per vederla, occorre la luce speciale che la fede dispensa. Le facoltà della ragione, sebbene affinate dalla filosofia, sono incapaci di scoprirla. Ma la ragione non viene annientata dall’atto di fede. Può acconsentirvi, ma sussiste, intatta, pur dovendo rassegnarsi a restare sulla porta. In questo senso esiste una contraddizione permanente. La ragione è tormentata, poiché nel suo slancio per comprendere tutto è costretta a fermarsi davanti a ciò che non può comprendere. Coloro che hanno la fede credono con certezza in ciò che si scopre ai loro occhi. Ma tale certezza non ha lo stesso valore di quella della ragione che procede per evidenze e prove. Non è possibile sapere e allo stesso tempo credere il medesimo oggetto. A ogni modo, è meglio sapere che credere. La ragione è frustrata e la fede non è assicurata dal soggetto stesso. Per questo, attraverso un movimento spontaneo, che è naturale e legittimo, la ragione vuole incessantemente invadere l’ambito della fede, cerca di ridurla a se stessa. Se riesce a naturalizzare il soprannaturale, prova la soddisfazione di ritornare alla sua natura, alla natura umana “violentata”, se così si può dire, come lo è stata la natura di san Paolo sulla via di Damasco. Violentato al punto di perdere temporaneamente la vista, la vista dei suoi occhi di carne, mentre gli occhi dell’anima si aprivano alla contemplazione del terzo cielo. Lo storico del cristianesimo osserva il ripetersi di questo movimento. Il dogma definito dai grandi concili del V secolo si è rassegnato a essere avvolto di misteri, che sono affermazioni non dimostrabili, fuori dai limiti, fuori dalla portata del razionale. La protesta della ragione dà luogo a rifiuti netti del dogma cristiano. L’ebraismo ha deciso che non valeva la pena di refutarlo e nemmeno di pensarlo o di prenderlo in considerazione. «Non manco di nulla» dice il salmo. L’islam lo rifiuta solennemente. Il Gesù musulmano del Corano dichiara lui stesso di non essere Dio, che la Trinità è una blasfemia, che non è morto sulla croce. La ragione dell’Illuminismo respinge la dogmatica e la teologia cristiana come una trama di assurdità prodotta dalle divagazioni dell’immaginazione e misura i danni che hanno fatto e tuttora fanno alla civiltà. La Chiesa prende atto di questi rifiuti. Si inquieta ancor più delle mescolanze. Accade che la ragione, inoltrandosi nell’ambito della fede, voglia ridurla a se stessa. Modifica l’enunciato del mistero in modo da renderlo plausibile e accessibile alla semplice ragione. La Trinità è assurda nella sua definizione. Ma se si considera il Padre come l’unico increato, facendolo creatore del Figlio e dello Spirito, essa diventa più concepibile. Gesù stesso afferma: «Il Padre è più grande di me». Ciò si accorda meglio con l’ordine politico. L’imperatore, figura di Cristo (Costantino voleva che la Chiesa gli riconoscesse la qualità di “eguale a Cristo”), governa il mondo nel nome del Figlio. Si entra così nell’eresia ariana che non riuscì a trionfare. Eresia è il nome convenzionale dato agli “errori” ostinati rispetto alla dottrina ricevuta. Ce ne sono di ogni genere, ma spesso derivano da uno sforzo di razionalizzare il mistero e renderlo accettabile secondo la

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ragione. Cristo è un uomo in tutto ciò che è. È Dio in tutto ciò che è: sarebbe più semplice immaginarlo secondo il modello già conosciuto dei profeti d’Israele, di quegli uomini posseduti da Dio. Si entra così nell’eresia nestoriana, che giustappone in Gesù il divino e l’umano, che svuota l’Incarnazione di ciò che contiene di misterico e d’incomprensibile. Gesù obbedisce al Padre fino alla croce. Sembra dunque che in lui non ci sia che una sola volontà, quella di Dio. Contro questo insorse Massimo il Confessore, il quale affermava la dualità delle volontà divina e umana in Cristo, nonché la conformità della seconda con la prima. Per questo gli venne strappata la lingua, ma il suo martirio strappò dalla Chiesa l’eresia monotelita, tanto appagante per la ragione e tanto rovinosa per la fede. In tutti questi casi, il “mistero” è svuotato. Il vasto paesaggio scoperto dagli occhi della fede svanisce subito. Resta un mondo molto più piccolo, un cristianesimo “nei limiti della ragione”, un po’ come quello descritto da Kant, molto ristretto. Se così si può dire, il soufflé si è sgonfiato. Queste eresie razionaliste trovano sempre qualche appiglio nella Scrittura. Il nome dei fratelli di Gesù vi appare a piene lettere, e l’analisi filologica dimostra che la parola fratello è intesa nella sua accezione corrente. Inoltre valutano male l’innovazione che introducono. Non cambia nulla nella fede comune se la Vergine Maria dà alla luce tanti figli. Al contrario, la fede è più comprensibile, più accettabile. Gli eretici si considerano più efficaci nella loro predicazione. Sono proseliti migliori. Oggi, la tesi dei “fratelli di Gesù” sembra appartenere a quel genere di eresie che non si riconoscono come tali, che si considerano un semplice adattamento della credenza. Quest’ultima diventa più ragionevole, più adeguata all’epoca, per nulla in rivolta contro il dogma. È una facilitatrice della fede. Di fatto, è paragonabile a un virus, discreto, invisibile, capace d’invadere l’intero edificio teologico della fede, e di non lasciare quest’ultima se non nello stato di cadavere inanimato. È possibile che la fede cattolica, nello stato di debolezza in cui si trova, nello stato di disinteresse in cui è lasciata dai suoi fedeli, non sia più capace di produrre, contro questo virus, gli anticorpi necessari e nemmeno di accorgersi di esserne infettata. Pag 7 I buoni e i cattivi Alle cellule di evangelizzazione parrocchiale il Papa ricorda che nella Chiesa c'è posto per tutti La Chiesa è «la casa paterna» dove «c’è posto per tutti», perché Gesù chiama «buoni e cattivi, tutti, senza differenza». Lo ha ricordato il Papa nel discorso rivolto a cinquemila appartenenti alle cellule parrocchiali di evangelizzazione, ricevuti in udienza nella mattina di sabato 5 settembre, nell’Aula Paolo VI. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Vi saluto e sono contento di essere qui in mezzo a voi per questa giornata di preghiera e di riflessione, con la quale volete celebrare il riconoscimento ufficiale che la Chiesa vi ha offerto con l’approvazione definitiva dei vostri Statuti. Ma non dimenticare, per favore, che gli Statuti aiutano a andare sulla strada giusta, ma quello che fa l’opera è il carisma! Non avvenga che per custodire tanto gli Statuti, perdiate il carisma, per favore! Saluto Don “PiGi” Perini e lo ringrazio per le parole con le quali ha introdotto questo momento, e soprattutto per lo zelo sacerdotale con cui ha lavorato, cercando di essere docile allo Spirito Santo, e da parroco ha dato vita a questa realtà delle Cellule Parrocchiali di Evangelizzazione, che si è diffusa in diverse parti del mondo. Voi avete la vocazione di essere come un seme mediante il quale la comunità parrocchiale si interroga sul suo essere missionaria, e per questo sentite irresistibile dentro di voi la chiamata a incontrare tutti per annunciare la bellezza del Vangelo. Questo desiderio missionario richiede, anzitutto, ascolto della voce dello Spirito Santo, che continua a parlare alla sua Chiesa e la spinge a percorrere sentieri a volte ancora poco conosciuti, ma decisivi per la via dell’evangelizzazione. Rimanere sempre aperti a questo ascolto e avere cura che non si esaurisca mai per la stanchezza o le difficoltà del momento, è condizione per essere fedeli alla Parola del Signore, e nello stesso tempo è una spinta a superare i vari ostacoli che si incontrano nel cammino dell’evangelizzazione. Con il vostro impegno quotidiano, e in comunione con le altre realtà ecclesiali, voi aiutate la comunità parrocchiale a diventare una famiglia in cui si ritrova la ricca e multiforme realtà della Chiesa (cfr. Lumen gentium, 8). Incontrarsi nelle case per condividere le gioie e le attese che sono presenti nel cuore di ogni

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persona, è un’esperienza genuina di evangelizzazione che assomiglia molto a quanto avveniva nei primi tempi della Chiesa. Lo ricorda san Luca, negli Atti degli Apostoli, quando accenna che i credenti «ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (2, 46-47). Voi Cellule desiderate fare vostro questo stile di vita comunitaria, capace di accogliere tutti senza giudicare nessuno (cfr. Evangelii gaudium, 165). Il nostro giudice è il Signore, e se ti viene in bocca una parola di giudizio sull’uno o sull’altro, chiudi la bocca. Il Signore ci ha dato il consiglio: “Non giudicate e non sarete giudicati”. Convivere con la gente con semplicità, accogliere tutti. Perché accogliere tutti? Per offrire l’esperienza della presenza di Dio e dell’amore dei fratelli. L’evangelizzazione sente forte l’esigenza dell’accoglienza, della vicinanza, perché è uno dei primi segni della comunione che siamo chiamati a testimoniare per avere incontrato Cristo nella nostra vita. Vi incoraggio a fare dell’Eucaristia il cuore della vostra missione di evangelizzazione, così che ogni Cellula sia una comunità eucaristica dove spezzare il pane equivale a riconoscere la reale presenza di Gesù Cristo in mezzo a noi. Qui voi troverete sempre la forza per proporre la bellezza della fede perché nell’Eucaristia facciamo esperienza dell’amore che non conosce limiti, e diamo il segno concreto che la Chiesa è «la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (Evangelii gaudium, 47). Questa testimonianza: la Chiesa è la casa paterna. C’è posto per tutti, per tutti. E Gesù dice, nel Vangelo: “Chiamate buoni e cattivi, tutti, senza differenza”. I vostri Statuti sono stati approvati nella Domenica della Divina Misericordia. Possiate sempre testimoniare la tenerezza di Dio Padre e la sua vicinanza ad ognuno, soprattutto a chi è più debole e solo. Rivolga verso di voi i suoi occhi misericordiosi la Santa Madre di Dio; e vi accompagni anche la mia Benedizione. E, per favore, ricordatevi di pregare per me! Grazie. Adesso preghiamo la Madonna, tutti insieme, la Madre della Chiesa, la Madonna della tenerezza, che ci aiuti ad andare avanti in questa testimonianza. Ave o Maria,… Pag 8 Tutti responsabili di tutti Papa Francesco in dialogo con i fedeli statunitensi durante una videoconferenza: quanta gente lascia oggi il proprio Paese in cerca di un futuro migliore e muore durante il cammino «Potervi incontrare mi riempie di speranza. Prego per voi, per tutto il popolo americano, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie». Così Papa Francesco ha dato appuntamento ai fedeli statunitensi in vista del prossimo viaggio, in programma dal 23 al 28 settembre a Washington, New York e Philadelphia. Il Pontefice lo ha detto a conclusione della videoconferenza registrata nei giorni scorsi e trasmessa nella serata di venerdì 4 (quando in Italia era già notte) dalla rete televisiva Abc. Raggiunto in Vaticano dal conduttore David Miur di «World News Tonight», il Papa si è collegato via satellite con tre diversi gruppi: studenti del collegio gesuita Cristo Re, nel centro storico di Chicago, che si dedica alla formazione di giovani poveri ed emarginati; donne e uomini senzatetto di Los Angeles e volontari che si occupano di loro; fedeli della parrocchia del Sacro Cuore di McAllen, in Texas, vicino alla frontiera tra Stati Uniti e Messico. La trasmissione è durata circa novanta minuti, durante i quali il Papa ha risposto in spagnolo e con qualche battuta in inglese. Di seguito pubblichiamo, in una nostra traduzione italiana, la trascrizione integrale delle sue parole e una sintesi delle testimonianze degli interlocutori e delle domande rivoltegli. Dopo avergli presentato i gruppi collegati - riguardo al primo Francesco ha commentato sorridendo: «Se sono gesuiti, sono buoni!» - l’anchorman ha subito chiesto un messaggio per la gente degli Stati Uniti prima del viaggio. Un saluto grande. Un grande saluto alla comunità cattolica degli Stati Uniti e a tutti i cittadini degli Stati Uniti. È questo il mio messaggio, un affettuoso saluto. Dal collegio gesuita di Chicago è giunta la testimonianza di Valery Herrera. La giovane ha parlato della malattia della pelle da cui è affetta e del modo con cui ha superato le difficoltà con l’aiuto della famiglia e impegnandosi in un coro. La musica l’ha anche aiutata ad avvicinarsi alla fede e a sentirsi meno sola. Vorrebbe iscriversi all’università -

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sarebbe la prima a farlo nella sua famiglia - e studiare farmacia. Quindi ha chiesto al Pontefice cosa si aspetta dai giovani. Valery, mi piacerebbe sentirti cantare, posso chiederti di cantare una canzone per me? Aspetto che tu lo faccia. Vai avanti, vai avanti. Sii coraggiosa [Valery canta una canzone]. Grazie. Sei stata molto gentile. E la mia prima risposta alla tua domanda è questa: quello che mi aspetto dai giovani è che non camminino soli nella vita. È il primo passo, ma mi aspetto molte altre cose. Che abbiano il coraggio di camminare con l’amore e la tenerezza degli altri. Che trovino qualcuno - tu hai cantato alla Vergine di portarti tra le braccia, di farti camminare tenendoti per mano - che li aiuti nella vita a camminare. Nella vita è molto difficile, molto difficile camminare da soli; uno si perde, si confonde, può trovare un cammino sbagliato o può errare come in un labirinto, o peggio ancora, si può fermare perché si stanca di camminare. Camminare sempre tenuti per mano da qualcuno che ti vuole bene, da qualcuno che ti dà tenerezza, e tu hai detto questo a Nostra Signora. Camminare tenuti per mano da Gesù, camminare tenuti per mano dalla Vergine, questo dà sicurezza. È la prima cosa che mi aspetto dai giovani: che si lascino accompagnare, ma da buone compagnie, ossia che camminino ben accompagnati. Nel mio Paese c’è un proverbio che dice: «Meglio soli che male accompagnati». È vero, ma camminate in compagnia. Ogni giovane deve cercare nella vita qualcuno che lo aiuti nel cammino: può essere il suo papà, la sua mamma, un parente, un amico, un nonno, una nonna - i nonni consigliano così bene! -, un professore, qualcuno che ti aiuti a confrontarti con le cose della vita. Camminare accompagnati, per prima cosa. Secondo: dai giovani mi aspetto che camminino con coraggio. A te poco fa è costato fare il primo passo in questo cammino che ti ho chiesto, ossia cantare una canzone. Eri emozionata, non sapevi come farlo, ma sei stata coraggiosa e hai fatto il primo passo, e hai cantato molto bene. Continua a cantare, canti molto bene. Cioè, il coraggio di fare il primo passo, il coraggio di andare avanti. Voi sapete quanto è triste vedere un giovane che non è coraggioso? È un giovane triste, un giovane con la faccia da funerale, un giovane senza allegria. Il coraggio ti dà allegria e l’allegria ti dà speranza, che è un dono di Dio, ovviamente. È vero che nel cammino della vita ci sono difficoltà, e molte. Non abbiate paura delle difficoltà! Siate prudenti, siate attenti ma non abbiate paura. Avete la forza per superarle. Non vi spaventate, non vi fermate. Non c’è cosa peggiore di un giovane pensionato prima del tempo. Non so a che età la gente va in pensione negli Stati Uniti, ma v’immaginate un giovane di 25 anni pensionato? Terribile! Andate sempre avanti, con coraggio e con speranza. E Dio, se glielo chiedete, vi darà la speranza. È questa la mia risposta, Valery. E grazie per la canzone. Dopo la testimonianza di Alexandra Vázquez da Chicago - al termine della quale il Papa ha commentato: «Grazie Alexandra. Continua il cammino. Dio ti benedica» - si è passati al collegamento con Los Angeles, dov’erano riunite persone che vivono in diverse strutture di accoglienza per poveri e senzatetto. Il diciannovenne Marco, che sogna di diventare musicista, ha chiesto al Pontefice come mai il viaggio negli Stati Uniti è tanto importante per lui. Per me è molto importante perché incontrerò voi, cittadini degli Stati Uniti che avete la vostra storia, la vostra cultura, le vostre virtù, gioie e tristezze, i vostri problemi come tutti. Io sono al servizio di tutte le Chiese e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Per me c’è una cosa che è molto importante, ed è la vicinanza. Per me è difficile non stare vicino alla gente. Invece, quando mi avvicino alla gente, come farò con voi, mi risulta più facile capirla e aiutarla nel cammino della vita. Perciò è molto importante questo viaggio, per stare vicino al vostro cammino e alla vostra storia. Significativa, quindi, la testimonianza di Rosemary, ragazza madre, con le sue due figlie. Dopo aver vissuto in una struttura di accoglienza, ora hanno ottenuto una casa tutta per loro. Grazie Rosemay per la tua testimonianza. Voglio dirti una cosa. So che non è facile essere una madre single, so che la gente a volte vi può guardare male, ma ti dico una

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cosa: sei una donna coraggiosa perché sei stata capace di mettere al mondo queste due figlie. Potevi ucciderle quando erano nel tuo grembo, ma hai rispettato la vita, hai rispettato la vita che avevi dentro, e Dio ti premierà per questo, ti premia. Non avere vergogna, cammina a testa alta. «Io non ho ucciso le mie figlie, le ho messe al mondo!». Mi congratulo con te, e che Dio ti benedica. Infine il collegamento con il Texas, da dove Ricardo, immigrato all’età di quatto anni, ha parlato della propria esperienza di vita. Quella di un ragazzo che dopo un incidente capitato al padre, all’età di sedici anni ha dovuto mantenere per un periodo la sua famiglia composta da sei persone. Poi è stato ricambiato dal padre, il quale lo ha aiutato a pagarsi gli studi. E la sua domanda non poteva che toccare alcuni dei problemi sociali più attuali - la povertà, il sistema educativo e l’immigrazione - e le loro possibili soluzioni. Ovviamente, ascoltando la tua storia, posso dirti che la vita ti ha fatto padre prima del tempo perché hai dovuto mantenere, durante la malattia di tuo padre, quando eri ancora molto giovane, la tua famiglia. Ma lo hai saputo fare perché hai avuto un padre con il coraggio d’iniziarti nel cammino del lavoro e della lotta, e con il coraggio, dopo, di farti studiare a costo di sacrifici. In questa vita ci sono molte ingiustizie, e come credente, come cristiano, il primo a subirle, a concentrarle in sé, è stato Gesù. Gesù è nato in strada, è nato come un homeless, sua madre non aveva dove partorirlo. Bisogna sempre guardare la figura di Gesù. Tu mi chiedi come. Guardando la figura di Gesù facciamo un altro passo. Dio a volte ci parla con parole, come nella Bibbia, ci dice la sua Parola. Dio a volte ci parla con gesti attraverso la storia, con le situazioni. E Dio, a volte, molte volte, ci parla con il suo silenzio. Quando io vedo - quello che mi ha chiesto tu - quanta gente soffre la fame, non ha il necessario per crescere, per la salute, muore da piccola, non ha il necessario per l’educazione, quanta gente non ha casa, quanta gente oggi, lo stiamo vendendo, lascia il proprio Paese alla ricerca di un futuro migliore, e muore; tanti muoiono durante il cammino. Allora io guardo Gesù sulla Croce e scopro il silenzio di Dio. Il primo silenzio di Dio sta nella Croce di Gesù. È stata l’ingiustizia più grande della storia e Dio è rimasto in silenzio. Detto questo, sarò più concreto nella risposta ad altri livelli, ma non dimenticarti che Dio ci parla con parole, con gesti e con silenzi. E quello che mi hai chiesto si capisce solo nel silenzio di Dio, e il silenzio di Dio lo capiremo solo guardando la Croce. Che cosa fare? Il mondo deve prendere più coscienza che lo sfruttamento l’uno dell’altro non è un cammino. Siamo tutti creati per l’amicizia sociale. Tutti abbiamo una responsabilità per tutti. Nessuno può dire: «La mia responsabilità arriva fino a qui». Tutti siamo responsabili di tutti, e dobbiamo aiutarci nel modo in cui ognuno può farlo. Amicizia sociale, per questa Dio ci ha creati. Ma c’è una parola molto brutta che appare anche nella prima pagina della Bibbia. Dio dice al demonio, al padre della menzogna, al serpente: «Metterò inimicizia tra te e la donna». E la parola inimicizia è cresciuta nel corso della storia, e poco dopo c’è stata la prima inimicizia tra fratelli: Caino uccide Abele. È stata la prima ingiustizia. Da allora le guerre, le distruzioni. Da allora l’odio. Parlando in termini calcistici, ti direi che la partita si gioca tra amicizia sociale e inimicizia sociale. La scelta deve farla ognuno nel cuore, e noi dobbiamo aiutare a fare questa scelta nel cuore. La fuga attraverso le dipendenze o la violenza non aiuta; aiutano solo la vicinanza e il dare di me quello che posso, come tu hai dato tutto quello che potevi quando da ragazzo hai mantenuto la tua famiglia. Non dimenticartene, l’amicizia sociale contro la proposta del mondo che è inimicizia sociale: «Arrangiati e che l’altro si arrangi da solo!». Non è questo il disegno di Dio. È ciò che mi viene da dirti, oltre a esprimerti la mia ammirazione; la vita ti ha fatto padre quando eri molto giovane. Quando sarai padre veramente e avrai dei figli tuoi, che tu possa continuare a educarli nel cammino che hai imparato da tuo padre. Grazie. Con un braccialetto elettronico alla caviglia è quindi intervenuta Vilma, immigrata illegalmente da El Salvador con l’obiettivo di dare una speranza di vita migliore a suo figlio Ernesto, nato con una malattia congenita agli occhi che non gli permette di vedere. Ha chiesto, ottenendola, una benedizione al Papa. Il quale ha successivamente chiesto di una religiosa intravista sullo schermo. Si chiama suor Norma.

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Sorella, attraverso di lei voglio ringraziare tutte le religiose degli Stati Uniti. Il lavoro che voi religiose avete fatto e fate negli Stati Uniti è grandioso. Mi congratulo con voi. Siate coraggiose. Andate avanti, sempre in prima linea. E vi dico un’altra cosa - sta male che lo dica il Papa? Non lo so -: vi voglio molto bene! La conferenza si è conclusa con la testimonianza di Wendy, undicenne appena arrivata con sua madre da El Salvador, che ha lasciato per la violenza delle bande. Dopo aver raccontato piangendo i drammatici giorni del viaggio, la bambina ha mostrato un disegno al Papa, che ha ricevuto in dono anche un crocifisso fatto dagli studenti di Chicago. Torna al sommario L'OSSERVATORE ROMANO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Alla luce del concilio di g.m.v. È una riflessione importante sulla realtà della fede e sulla Chiesa il videomessaggio del Papa per il centenario della Facoltà di teologia dell’Università cattolica argentina, ricorrenza che coincide con il cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II. E appunto nella luce del concilio Bergoglio interviene con nettezza sul significato e sulla portata della tradizione cristiana. La memoria . dice il Pontefice . ci permette di ricordare da dove veniamo: così «ci uniamo ai tanti che hanno tessuto questa storia», e si scopre che «il popolo fedele di Dio non è stato solo», ma sempre accompagnato dallo Spirito. E dalla ricorrenza dell’istituzione argentina il Papa prende lo spunto per domande radicali, che interessano non solo i cattolici: Chiesa, che dici di te stessa? Come oggi incarni la tua fede? Non esiste una Chiesa particolare isolata - dice il Pontefice - ma nemmeno esiste una Chiesa universale che volti le spalle e si disinteressi della realtà locale: «La cattolicità esige, richiede questa polarità in tensione tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il molteplice, tra il semplice e il complesso». Tensione dinamica che nasce dallo Spirito e dunque non va annullata, riflettendosi nella relazione fra «tradizione ricevuta e realtà concreta». Questa dinamica, caratteristica delle vicende del cristianesimo nella storia, fu ben presente negli anni del concilio, come sottolineava Giovanni XXIII, citato oggi dal suo successore: «Per la prima volta nella storia i Padri del Concilio apparterranno, in realtà, a tutti i popoli e nazioni, e ciascuno recherà contributo di intelligenza e di esperienza, a guarire e a sanare le cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di tutti i paesi». Una fede radicata nella carne delle vicende umane, dunque, dove la tradizione è un concetto dinamico, secondo una definizione di Benedetto XVI ripresa da Francesco: non è infatti - come molti credono o pretendono - «trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti». E aggiunge oggi Bergoglio: «Questo fiume irriga diverse terre, alimenta diverse geografie, facendo germogliare il meglio di quella terra, il meglio di quella cultura. In questo modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli del mondo, in maniera sempre nuova». In perfetta coerenza con i suoi predecessori Papa Francesco addita poi le tentazioni opposte del conservatorismo fondamentalista e dell’apertura indiscriminata a ogni novità: «Per superare queste tentazioni bisogna prendere molto sul serio la tradizione della Chiesa e molto sul serio la realtà» e metterle tra loro in dialogo. Teologia e pastorale non sono dunque realtà opposte o separate, come opposte non devono essere, in chi crede, la riflessione e la vita. E in questo - sottolinea il Papa - il concilio «ha in certa misura rivoluzionato lo statuto della teologia». Ecco perché il teologo cristiano deve essere figlio del suo popolo, uomo di fede - non è teologo chi «non tenti di sviluppare in se stesso» gli stessi sentimenti di Cristo - e profeta. Per cercare una corrispondenza creatrice con il nostro tempo. Pag 8 Il fiume vivo Nel centenario della facoltà teologica dell'Università cattolica argentina il Papa ricorda il Vaticano II e sottolinea il collegamento dinamico fra tradizione ricevuta e realtà concreta

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In occasione del congresso internazionale di teologia, svoltosi dal 1° al 3 settembre a Buenos Aires nel centenario della facoltà teologica dell’Università cattolica argentina (Uca), Papa Francesco ha inviato ai partecipanti il messaggio che pubblichiamo di seguito in una traduzione dallo spagnolo. Mi rallegro di potermi collegare con voi in questo evento così importante per la nostra Chiesa in Argentina. Grazie per avermi dato l’opportunità di unirmi a questa azione di grazie nel celebrare i cento anni della Facoltà di Teologia della Uca, vincolandoli ai cinquanta anni del Concilio Vaticano II. Vi siete riuniti per tre giorni facendo di questa festa un’occasione per ricordare, per recuperare la memoria del passaggio di Dio per la nostra vita ecclesiale e fare di tale passaggio un motivo di ringraziamento. La memoria ci permette di ricordare da dove veniamo e, così facendo, ci uniamo ai tanti che hanno tessuto questa storia, questa vita ecclesiale nelle sue molteplici vicissitudini, e certo non sono state poche. Memoria che ci spinge a scoprire, nel mezzo del cammino, che il Popolo fedele di Dio non è stato solo. Questo popolo in cammino ha sempre potuto contare sullo Spirito che lo guidava, lo sosteneva, lo spronava dal di dentro e dal di fuori. Questa memoria grata che oggi diventa riflessione, anima il nostro cuore. Ravviva la nostra speranza per suscitare oggi la domanda che i nostri padri si sono fatti ieri: Chiesa, che cosa dici di te stessa? Non celebriamo e riflettiamo due eventi minori, siamo bensì di fronte a due momenti di forte coscienza ecclesiale. Cento anni della Facoltà di teologia è celebrare il processo di maturazione di una Chiesa particolare. È celebrare la vita, la storia, la fede del Popolo di Dio che cammina in questa terra e che ha cercato di “intendersi” e di “dirsi” a partire dalle proprie coordinate. È celebrare i cento anni di una fede che cerca di riflettere di fronte alle peculiarità del Popolo di Dio che vive, crede, spera e ama in terra argentina. Una fede che cerca di radicarsi, d’incarnarsi, di rappresentarsi, d’interpretarsi di fronte alla vita del suo popolo e non al margine. Mi sembra di grande importanza e di lucida accentuazione unire questo evento ai cinquanta anni dalla chiusura del Vaticano II. Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il monopolio dell’interpretazione o dell’inculturazione. Come, all’opposto, non esiste una Chiesa Universale che dia le spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale. La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso. Annichilire questa tensione va contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in pericolo la fede del Popolo di Dio. Considerare insignificante una delle due istanze è metterci in un labirinto che non sarà portatore di vita per la nostra gente. Rompere questa comunicazione ci porterà facilmente a fare della nostra visione, della nostra teologia un’ideologia. Sono quindi lieto che la celebrazione dei 100 anni della Facoltà di Teologia vada di pari passo con la celebrazione dei cinquanta anni del Concilio. Il locale e l’universale si incontrano per nutrirsi, per stimolarsi nel carattere profetico di cui ogni Facoltà di Teologia è portatrice. Ricordiamo le parole di Papa Giovanni a un mese dall’inizio del Concilio: «Per la prima volta nella storia i Padri del Concilio apparterranno, in realtà, a tutti i popoli e nazioni, e ciascuno recherà contributo di intelligenza e di esperienza, a guarire e a sanare le cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di tutti i paesi» (Discorsi-Messaggi-Colloqui, AAS 54, 1962, 520-528). Poi sottolinea che uno dei principali contributi dei Paesi in via di sviluppo in quel contesto universale sarebbe stata la loro visione della Chiesa, e continua così: «La Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». C’è un’immagine proposta da Benedetto XVI che mi piace molto. Riferendosi alla tradizione della Chiesa afferma che «non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti» (Udienza generale, 26 aprile 2006). Questo fiume irriga diverse terre, alimenta diverse geografie, facendo germogliare il meglio di quella terra, il meglio di quella cultura. In questo modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli del mondo, in maniera sempre nuova (cfr. Evangelii gaudium, n. 115). Tutto ciò ci porta a riflettere sul fatto che non si è cristiani allo stesso modo nell’Argentina di oggi e nell’Argentina di cento anni fa. In India e in Canada non si è cristiani allo stesso modo

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che a Roma. Pertanto uno dei compiti principali del teologo è di discernere, di riflettere: che cosa significa essere cristiani oggi? “nel qui e ora”; come riesce quel fiume delle origini a irrigare oggi queste terre e a rendersi visibile e vivibile? Come rendere viva la giusta espressione di san Vincenzo di Lerino: «ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate» (Commonitorio primo, cap. XXIII). In questa Argentina, di fronte alle molteplici sfide e situazioni che ci presentano la multidiversità esistente, l’interculturalità e gli effetti di una globalizzazione uniformante che relativizza la dignità delle persone facendone un bene di scambio; in questa Argentina, ci viene chiesto di ripensare come il cristianesimo si fa carne, come il fiume vivo del Vangelo continua a rendersi presente per saziare la sete del nostro popolo. E per affrontare questa sfida, dobbiamo superare due possibili tentazioni: condannare tutto, coniando la già nota frase «il passato è sempre migliore» e rifugiandoci in conservatorismi o fondamentalismi; oppure, al contrario, consacrare tutto, negando autorità a tutto ciò che non ha “sapore di novità”, relativizzando tutta la saggezza coniata dal ricco patrimonio ecclesiale. Per superare queste tentazioni, il cammino è la riflessione, il discernimento, prendere molto sul serio la Tradizione ecclesiale e molto sul serio la realtà, facendole dialogare. In questo contesto penso che lo studio della teologia assuma grandissima importanza. Un servizio insostituibile nella vita ecclesiale. Non sono poche le volte in cui si genera un’opposizione tra teologia e pastorale, come se fossero due realtà opposte, separate, che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. Non sono poche le volte in cui identifichiamo dottrinale con conservatore, retrogrado; e, all’opposto, pensiamo la pastorale a partire dall’adattamento, la riduzione, l’accomodamento. Come se non avessero nulla a che vedere tra loro. In tal modo si genera una falsa opposizione tra i cosiddetti “pastoralisti” e gli “accademicisti”, quelli che stanno dalla parte del popolo e quelli che stanno dalla parte della dottrina. Si genera una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente; la vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita. I grandi padri della Chiesa, Ireneo, Agostino, Basilio, Ambrogio, solo per citarne alcuni, furono grandi teologi perché furono grandi pastori. Uno dei contributi principali del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di cercare di superare questo divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. Oso dire che ha rivoluzionato in una certa misura lo statuto della teologia, il modo di fare e di pensare credente. Non posso dimenticare le parole di Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio quando disse: «Una cosa è la sostanza dell’antica dottrina del Deposito della Fede, e altra è la forma con cui essa è presentata». Dobbiamo affrontare il lavoro, l’arduo lavoro di distinguere il messaggio di Vita dalla sua forma di trasmissione, dai suoi elementi culturali in cui un tempo è stato codificato. Una teologia «risponde agli interrogativi di un tempo e non lo fa mai in altro modo che negli stessi termini, poiché sono quelli che vivono e parlano gli uomini di una società» (Michel de Certeau, La debilidad del creer, 51). Non fare questo esercizio di discernimento porta in un modo o nell’altro a tradire il contenuto del messaggio. Fa sì che la Buona Novella smetta di essere nuova e soprattutto buona, divenendo una parola sterile, svuotata di tutta la sua forza creatrice, risanante e risuscitante, e mettendo così in pericolo la fede delle persone del nostro tempo. La mancanza di questo esercizio teologico ecclesiale è una mutilazione della missione che siamo invitati a realizzare. La dottrina non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi. All’opposto, la dottrina cristiana ha volto, ha corpo, ha carne, si chiama Gesù Cristo ed è la sua Vita a venire offerta di generazione in generazione a tutti gli uomini e in tutti i luoghi. Custodire la dottrina esige fedeltà a quanto ricevuto e - al tempo stesso - che si tenga conto dell’interlocutore, del destinatario, che lo si conosca e lo si ami. Questo incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale, è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale. Le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi c’interrogano. Tutto ciò ci aiuta ad approfondire il mistero della Parola di Dio, Parola che esige e chiede che si dialoghi, che si entri in comunione. Non possiamo quindi ignorare la nostra gente al momento di fare teologia. Il Nostro Dio ha scelto questo cammino. Egli si è incarnato in questo mondo, attraversato da conflitti, ingiustizie, violenze; attraversato da speranze e sogni. Pertanto, non ci resta altro luogo dove cercarlo che questo mondo concreto, questa

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Argentina concreta, nelle sue strade, nei suoi quartieri, nella sua gente. Lì Egli sta già salvando. Le nostre formulazioni di fede sono nate nel dialogo, nell’incontro, nel confronto, nel contatto con le diverse culture, comunità, nazioni, situazioni che richiedevano una maggiore riflessione di fronte a quanto non esplicitato prima. Perciò gli eventi pastorali hanno un valore considerevole. E le nostre formulazioni di fede sono espressione di una vita vissuta e ponderata ecclesialmente. In un cristiano c’è qualcosa di sospetto quando smette di ammettere il bisogno di essere criticato da altri interlocutori. Le persone e le loro diverse conflittualità, le periferie, non sono opzionali, bensì necessarie per una maggiore comprensione della fede. Perciò è importante chiedersi: A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti? Senza questo incontro con la famiglia, con il Popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia. Non ci dimentichiamo, lo Spirito Santo nel popolo orante è il soggetto della teologia. Una teologia che non nasce nel suo seno ha l’olezzo di una proposta che può essere bella, ma non reale. Questo ci rivela la sfida insita nella vocazione del teologo, quanto sia stimolante lo studio della teologia e la grande responsabilità che si ha nel realizzarlo. Al riguardo mi permetto di chiarire tre tratti dell’identità del teologo: 1. Il teologo è in prima istanza un figlio del suo popolo. Non può e non vuole disinteressarsi dei suoi. Conosce la sua gente, la sua lingua, le sue radici, le sue storie, la sua tradizione. È l’uomo che impara a valorizzare ciò che ha ricevuto, come segno della presenza di Dio, poiché sa che la fede non gli appartiene. L’ha ricevuta gratuitamente dalla Tradizione della Chiesa, grazie alla testimonianza, alla catechesi e alla generosità di tanti. Questo lo porta a riconoscere che il Popolo credente nel quale è nato ha un significato teologico che non può ignorare. Sa di essere “innestato” in una coscienza ecclesiale e s’immerge in quelle acque. 2. Il teologo è un credente. Il teologo è qualcuno che ha fatto esperienza di Gesù Cristo e ha scoperto che senza di Lui non può più vivere. Sa che Dio si rende presente, come parola, come silenzio, come ferita, come guarigione, come morte e come resurrezione. Il teologo è colui che sa che la sua vita è segnata da questa impronta, da questo marchio, che ha lasciato aperte la sua sete, la sua ansia, la sua curiosità, la sua esistenza. Il teologo è colui che sa di non poter vivere senza l’oggetto/soggetto del suo amore e consacra la sua vita per poterlo condividere con i suoi fratelli. Non è teologo chi non può dire: «non posso vivere senza Cristo», e pertanto, chi non vuole farlo cerca di sviluppare in se stesso gli stessi sentimenti del Figlio. 3. Il teologo è un profeta. Una delle grandi sfide poste nel mondo contemporaneo non è solo la facilità con cui si può prescindere da Dio ma, socialmente, si è fatto anche un ulteriore passo. La crisi attuale s’incentra sull’incapacità che hanno le persone di credere in qualsiasi altra cosa oltre se stesse. La coscienza individuale è diventata la misura di tutte le cose. Ciò genera una crepa nelle identità personali e sociali. Questa nuova realtà provoca tutto un processo di alienazione dovuto alla carenza di passato e pertanto di futuro. Per questo il teologo è il profeta, perché mantiene vivi la coscienza del passato e l’invito che viene dal futuro. È l’uomo capace di denunciare ogni forma alienante perché intuisce, riflette nel fiume della Tradizione che ha ricevuto dalla Chiesa, la speranza alla quale siamo chiamati. E a partire da questo sguardo, invita a risvegliare la coscienza sopita. Non è l’uomo che si conforma, che si abitua. Al contrario, è l’uomo attento a tutto quello che può danneggiare e distruggere i suoi. Perciò, c’è un solo modo di fare teologia: in ginocchio. Non è solamente un atto pietoso di preghiera per poi pensare la teologia. Si tratta di una realtà dinamica tra pensiero e preghiera. Una teologia in ginocchio è osare pensare pregando e pregare pensando. Comporta un gioco, tra il passato e il presente, tra il presente e il futuro. Tra il già e il non ancora. È una reciprocità tra la Pasqua e tante vite non realizzate che si domandano: Dov’è Dio? È santità di pensiero e lucidità orante. È, soprattutto, umiltà che ci consente di porre il nostro cuore, la nostra mente in sintonia con il “Deus semper maior”. Non dobbiamo aver paura di metterci in ginocchio davanti all’altare della riflessione e di farlo con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gaudium et spes, n. 1), dinanzi allo sguardo di Colui che fa nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5). Allora c’inseriremo sempre più in quel popolo credente che profetizza, popolo credente che annuncia la bellezza del Vangelo, popolo credente che «non maledice, bensì è accogliente e sa realizzare la vita benedicendola. Cerca così una corrispondenza creatrice con i problemi della nostra epoca» (Olivier Clement, Un ensayo de lectura ortodoxa de la Constitución, 651).

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AVVENIRE di sabato 5 settembre 2015 Pag 16 Divorziati e "matrimoni" bis. Le spine della riconciliazione di Luciano Moia Vita penitenziale? Associazioni e teologi a confronto Non smettono di alimentare il dibattito le proposte dei teologi chiamati nei mesi scorsi dal Pontificio consiglio per la famiglia ad animare due convegni sui temi del Sinodo. Secondo le indicazioni di papa Francesco, che aveva espressamente chiesto di utilizzare questo periodo intersinodale per riflettere e discutere, il dicastero guidato dall’arcivescovo Vincenzo Paglia aveva organizzato due seminari sulle grandi questioni che, tra meno di un mese, saranno nell’agenda dei padri sinodali. Tre le grandi aree dibattu- te: fede e sacramento del matrimonio; sessualità e generazione; famiglie ferite e unioni irregolari. Sul tema della sessualità – cioè sul rapporto tra sponsalità, fecondità e contraccezione – abbiamo già pubblicato due approfondimenti, il 29 luglio e l’8 agosto. E torneremo a dare spazio alle opinioni dei lettori la prossima settimana. Oggi è la volta dei divorziati risposati o, meglio, secondo la dizione teologicamente più corretta, dei “separati in nuova unione”. Durante la sessione di studi, don Giampaolo Dianin, docente di pastorale della famiglia e di morale familiare, rettore del seminario di Padova, aveva formulato una proposta per una “via discrezionale” in nove punti, dando concretezza a quella richiesta di percorso penitenziale auspicato anche dall’Instrumentum laboris. In estrema sintesi, don Dianin aveva ipotizzato: 1) la formazione in ogni diocesi di un’équipe guidata dal vescovo; 2) l’accertamento delle motivazioni della coppia; 3) la verifica della possibilità di vivere “come fratello e sorella”; 4) la proposta di un percorso penitenziale alternativo; 5) la distinzione tra coniuge “innocente” e coniuge “colpevole”; 6) la verifica del cammino di fede: 7) la responsabilità da parte del sacerdote- guida di fissare inizio e fine del cammino; 8) la possibilità di una riammissione anche parziale ai sacramenti; 9) la necessità che la nuova unione non abbia alcun carattere sacramentale, pur riconoscendone il valore umano e spirituale. Sulle proposte diamo spazio oggi a una serie di osservazioni da parte dell’Associazione famiglie separate cristiane e a una replica dello stesso don Giampaolo Dianin. «Mi sembra che si pretenda di fasciare le ferite prima di averle guarite». Ernesto Emanuele, presidente dell’Associazione famiglie separate cristiane, riflette sulla proposta per una “via discrezionale” formulata da don Giampaolo Dianin, nell’ambito dei convegni organizzati dal Pontificio consiglio per la famiglia in vista del Sinodo, e – pur apprezzando lo spirito costruttivo che ne caratterizza l’impianto – indica aspetti e particolari che, un po’ riaggiustati, potrebbero a suo parere migliorare il rapporto tra Chiesa e mondo dei separati. «Attenzione però – è la premessa dell’ingegnere Emanuele che da oltre 25 anni dedica buona parte del suo tempo ad aiutare le persone che, come lui, vivono sulla propria pelle le sofferenze della separazione – non intendo entrare nel merito dell’opportunità o meno di riammettere ai sacramenti le persone che vivono una nuova unione in modo irreversibile. Questa è una questione teologica che solo il Sinodo può affrontare e che toccherà poi al Papa decidere. Come presidente dell’associazione Famiglie separate cristiane mi limito a tradurre in osservazioni la mia esperienza che, in tutti questi anni, si è nutrita di accoglienza, ascolto e condivisione di tanto, tanto dolore». «E poi – fa notare ancora il presidente dell’associazione – del problema della riammissione ai sacramenti si è parlato davvero tanto. Forse troppo. Anche noi l’abbiamo sottolineato nel “Manifesto dei separati cristiani”, che già abbiamo consegnato alla segreteria del Sinodo». Difficile e impegnativo quindi – a parere di Emanuele – applicare alla complessità di ogni storia di fallimento, le modalità di riconciliazione previste dai nove punti di cui si compone la “via discretionis” di don Dianin. Ma il tentativo sicuramente andrà fatto. Con qualche piccola variante. Vediamo. «Mi sembra innanzi tutto che non si sottolinei abbastanza l’accoglienza insufficiente e le carenze legate all’ascolto che si registrano ancora in non poche comunità. Parlo di ascolto vero e profondo. Questo dovrebbe essere un punto irrinunciabile». A proposito della nascita in ogni diocesi di un’équipe sotto la guida del vescovo, proprio per valutare caso per caso, Emanuele ritiene corretto aggiungere la previsione di un percorso specifico di formazione per i sacerdoti che serva ad uniformare le risposte. «Oggi esistono diocesi dove le persone in nuova unione vengono ammesse alla comunione in modo sbrigativo e, altre

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comunità invece, dove il rigore è assoluto. Una varietà di approcci che disorienta. Per questo ritengo che la formazione per i sacerdoti che si occupano di separati, dovrebbe essere, almeno inizialmente, centralizzata, con indicazioni comuni per tutti». Altrettanto importante, in queste future équipe diocesane, la presenza di separati e divorziati. «L’accoglienza da parte di chi ha vissuto la stessa sofferenza è più autentica, più partecipata, non viene calata dall’alto. Le coppie regolarmente sposate non possono conoscere tutte le angosce, le amarezze, le angherie che molto spesso si scambiano i separati. E ignorano la delusione sul volto dei figli di fronte alla disgregazione delle famiglie. Ecco perché – sintetizza Emanuele – i separati devono esserci». Benissimo poi, come previsto dal punto due della “via discrezionale”, verificare le ragioni che hanno indotto la persona a intraprendere il percorso. «Sarebbe importante non solo approfondire la maturità cristiana della persona, ma anche il suo comportamento precedente, il suo atteggiamento nell’ambito della famiglia che ha contribuito a disgregare». Qualche perplessità sull’opportunità di verificare la possibilità di “vivere come fratello e sorella”, indicata al punto 3. «Tra la sessualità coniugale e l’atto sessuale vero e proprio – riprende Emanuele – c’è tutta una gradualità di comportamenti che rende di fatto impossibile stabilire dove porre il divieto. Per il solo fatto di essere un uomo e una donna che si amano, i due vivono una relazione segnata da una sessualità specifica, anche se non praticata. Può bastare l’astinenza per risultare buoni cristiani? Non è un po’ riduttivo?». Ma il punto che Emanuele ritiene formulato in modo più criticabile è laddove si accenna al “coniuge innocente”. «Ho conosciuto migliaia di persone separate, approfondendo la loro storia e – puntualizza con passione – posso dire di non aver mai trovato coniugi del tutto innocenti, né coniugi del tutto colpevoli. Ognuno aveva la sua buona percentuale di ragioni e di torti. Certo, c’è sempre uno che, ad un certo punto, decide di buttare all’aria il matrimonio e se ne va. Ma occorre esaminare le mancanze, le disattenzioni, spesso anche le vere e proprie angherie messe in atto dall’altro coniuge. E quello dovrebbe essere chiamato “innocente” solo perché non se n’è andato da casa?». Condivisibile invece la sottolineatura relativa alla richiesta di perdono reciproco, meglio ancora – sottolinea – se in questo gesto si comprendono anche i figli. «Mi piacerebbe che in questa riflessione sul perdono, si accennasse anche a chi decide di rimanere fedele al legame matrimoniale, pur infranto. Se in qualche caso è possibile puntare alla riconciliazione, è solo perché uno dei due ha fatto la scelta, spesso eroica, di non tradire il sacramento celebrato». Corretto anche, come previsto al punto 7, delegare al sacerdote – sempre che sia opportunamente formato – la decisione relativa alla durata del percorso. E, allo stesso modo, prevedere una riammissione piena o solo parziale. Magari limitata soltanto a una o ad alcune delle varie pratiche liturgico-pastorali oggi vietate (madrine o padrini nei Battesimi e nelle Cresime, far parte dei consigli pastorali, fare i catechisti, ecc.). E poi basta parlare di “divorziati risposati”. Il presidente dell’Associazione famiglie separate cristiane, crede più corretto parlare di persone separate che vivono una nuova unione. E, a suo parere, non si tratta solo di un puntiglio lessicale. «Una persona sposata, anche se non è separata – spiega – può avere una seconda relazione stabile e, da questa unione, può aver avuto dei figli. Il problema non è tanto il divorzio, quindi, quanto il fatto di aver avviato una nuova unione con caratteristiche di irreversibilità». Infine una richiesta che nasce dal cuore di un genitore separato: «A questo percorso non dovrebbe essere ammesso chi non permette al coniuge di vedere i figli, chi ne parla male, chi ostacola le telefonate, chi ignora le ricorrenze, i compleanni, i pranzi di Natale. Il perdono reciproco – conclude il presidente dell’Associazione famiglie separate – passa anche attraverso la riabilitazione del coniuge separato agli occhi dei figli». Nessuna confusione sull’indissolubilità del matrimonio, ma anche il desiderio di fare un passo avanti sull’accoglienza e sull’integrazione delle persone separate che hanno avviato una nuova unione. È l’obiettivo che sta alla base del cammino di riconciliazione messo a punto da don Giampaolo Dianin, docente di morale e pastorale familiare, oltre che rettore del seminario di Padova. Partiamo da una questione lessicale che forse è non soltanto formale. “Divorziati risposati” o “separati che hanno avviato una nuova unione”? Qual è la dizione corretta? Dal punto di vista della visione cristiana del matrimonio è più corretto parlare di “separati che hanno avviato una nuova unione” perché da una parte il matrimonio

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sacramentale è indissolubile, e quindi si può parlare solo di una separazione, dall’altra la nuova relazione non è, per la Chiesa, un matrimonio, ma una nuova unione. Lei ha proposto una “via discrezionale” per la riammissione ai sacramenti delle persone risposate. Come si concilia questa apertura con il principio dell’indissolubilità del matrimonio? Nessuno mette in discussione l’unicità e indissolubilità del sacramento. Si tratta del modo in cui la Chiesa attua la sua irrinunciabile mediazione pastorale e salvifica verso quei battezzati che ormai si trovano in una nuova unione da cui possono essere nati anche dei figli, e che per motivi seri legati alla fede, soffrono l’esclusione dal perdono sacramentale e dall’Eucaristia. Il percorso che abbiamo ipotizzato è così serio, lungo ed esigente che ci sembra metta ancora più in evidenza la serietà con cui la Chiesa intende rimanere fedele alle parole Perché ritiene che la disciplina attuale a proposito delle indicazioni pastorali fornite alle persone separate in nuova unione mostri “molte ambivalenze”? Senza entrare nelle questioni legate alla celebrazione del matrimonio e alla consapevolezza di ciò che si celebra, fa problema l’esclusione a vita dai sacramenti; e, per coloro che invece vorrebbero accostarsi all’Eucaristia, l’impegno di astenersi dai rapporti sessuali. I cristiani passati a una nuova unione possono vivere tantissimi aspetti della vita coniugale (tenerezza, complicità, condivisione…), potrebbero perfino adottare un figlio, ma non avere rapporti sessuali. È il caso di sottolineare altre possibili contraddizioni? C’è l’invito a vivere una vita cristiana, a educare i figli alla fede ma l’impossibilità, per esempio, di fare i catechisti. Sappiamo bene che tutte le “proibizioni” sono motivate dalla volontà precisa di non oscurare il valore dell’indissolubilità e di non dare scandalo, ma possiamo chiederci se non siano possibili nuovi approfondimenti? Pensare a un cammino di discernimento per divorziati risposati segna una frattura o un arricchimento rispetto alla dottrina espressa dall’esortazione apostolica “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II? Noi siamo partiti proprio da Familiaris consortio per cercare non di contraddirne le indicazioni ma di pensare a ulteriori approfondimenti che ne sviluppino le intenzioni di fondo che sono, da una parte la piena fedeltà al Vangelo, dall’altra l’accoglienza e l’integrazione nella comunità di questi fratelli. La storia mostra che ci sono sempre stati degli approfondimenti della dottrina del Magistero. Le nostre sono solo proposte con l’umile desiderio di consegnare il tutto nelle mani dei Padri sinodali. Siamo e saremo fermamente fedeli a ciò che la Chiesa ci dirà dopo aver riflettuto, pregato e fatto un serio discernimento; ma siamo grati al Papa per aver permesso e voluto questo dibattito nella Chiesa. Le associazioni dei separati colgono una contraddizione nella pretesa di imporre uno stile di vita fraterno, con l’astensione “dagli atti propri dei coniugi”, a chi vive una nuova unione? Come se la coniugalità si esprimesse solo nell’atto sessuale. E molti dubbi ci sono anche sull’equazione “astinenza cammino di fede”. Le sembrano osservazioni condivisibili? Certamente. Dove sta il confine tra ciò che è “permesso” e ciò che è “proibito” nell’indicazione di vivere come fratello e sorella nella nuova unione? Vivere sotto lo stesso tetto, condividere la vita nella gioia e nel dolore, amarsi ed educare i figli, tutto questo colloca i cristiani che vogliono essere fedeli alle indicazioni della Chiesa in una situazione piuttosto complicata e sempre sulle soglie di una potenziale doppia vita. E come Chiesa dobbiamo anche lavorare perché a un fallimento non ne debba seguire un secondo legato a scelte inopportune e difficilmente vivibili. Coniugi “colpevoli” e coniugi “innocenti”. Difficile, forse impossibile, arrivare a stabilire percentuali di colpa e di innocenza, perché dietro ogni separazione c’è una complessità di delusioni e di sofferenze nota soltanto alla coppia stessa. Nell’esame di queste situazioni non sarebbe il caso di avvalersi anche di un aiuto psicologico? Sì, la distinzione tra coniuge innocente e colpevole è molto problematica perché nessuno è mai pienamente innocente. Il Sinodo certamente dirà molte cose sull’accompagnamento, il sostegno, la cura e la prevenzione dei fallimenti coniugali. Va benissimo l’aiuto psicologico, ma altrettanto importante e a volte decisiva è la fede e la vita cristiana. Purtroppo quella fede che molte volte era solo embrionale quando ci si è sposati, non diventa una risorsa per lottare quando arrivano le difficoltà.

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Che tipo di formazione dovrà avere il sacerdote chiamato a valutare se il percorso penitenziale è stato realizzato in modo corretto e, soprattutto, se può dirsi concluso? Dobbiamo uscire dalla logica del rigorismo e del lassismo e diventare persone competenti delle dinamiche coniugali e consapevoli dei valori in gioco quando c’è di mezzo un sacramento. La “via discretionis” prevede tappe lunghe e passaggi precisi, ricerca della verità e disponibilità al perdono. Servono preti con una ricca spiritualità, consapevoli del tesoro prezioso che è il sacramento del matrimonio e con una grande umanità e saggezza. Pag 17 La sfida della Facoltà San Pio X: un corso di diritto canonico di Alessandro Polet L’animazione e la vivacità di questi giorni, con la presenza in laguna di allievi e docenti di diritto canonico provenienti da varie parti del mondo e impegnati in momenti di studio e confronto, fotografa bene la ripartenza della Facoltà San Pio X, dal gennaio 2015 sostenuta e promossa dal patriarcato di Venezia (da cui era nata più di un secolo fa per volontà dell’allora cardinale Giuseppe Sarto) affiancato anche dalle Chiese del Triveneto; il percorso accademico in diritto canonico era ripreso già nell’anno 2004 con il cardinale Angelo Scola, grazie al sostegno di sponsor anche esterni alla diocesi. Il Gran Cancelliere e patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, sottolinea la portata culturale ed ecclesiale del rinnovato impegno. «Fuori della città di Roma – spiega il patriarca – si tratta dell’unica facoltà di diritto canonico presente in Italia. Si è ritenuto importante mantenere tale servizio unico nel nostro Paese e, insieme, continuare a formare nel diritto canonico sacerdoti di altre Chiese in modo che non solo studenti italiani ed europei ma anche africani e asiatici possano beneficiarne. Si tratta - e oggi è particolarmente significativo - di una mano tesa verso Chiese emergenti che non hanno ancora la possibilità di istituire in loco tale impegnativo percorso di formazione. Le diocesi del Triveneto si sono rese disponibili ad affiancare il patriarcato partecipando al sostegno economico alla Facoltà; la nostra diocesi, comunque, è il soggetto portante sia per le responsabilità accademiche che per le risorse economiche profuse e le strutture messe a disposizione». Lo scorso 24 aprile, alla presenza del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, è stata firmata la convenzione con la Facoltà teologica del Triveneto che attiva una relazione stabile e proficua tra le due realtà ponendo in comune le risorse; gli studenti della Facoltà San Pio X potranno così frequentare il biennio teologico propedeutico alla licenza in diritto canonico presso gli istituti affiliati alla Facoltà teologica del Triveneto col pieno riconoscimento degli studi e senza necessità di integrazioni. Accordi simili erano già stati posti in essere con altre realtà accademiche italiane ed estere. L’auspicio è che, «oltre ai chierici, crescano gli iscritti religiosi, laici e laiche; non solo volti maschili, dunque, ma anche femminili, per un’immagine di Chiesa che sempre più sa esprimersi anche attraverso il ruolo specifico della donna». L’interesse per la proposta è confermata dal buon avvio delle iscrizioni per l’anno accademico 2015/16, come evidenzia il preside monsignor Giuliano Brugnotto. «Ad oggi, e siamo solo ai primi giorni di iscrizioni, abbiamo già una ventina di nuovi alunni che hanno fatto domanda per accedere al primo anno della licenza. L’organizzazione degli studi è pensata per favorire sia i laici laureati in giurisprudenza, omologando anche alcuni corsi sostenuti nelle università pubbliche, sia quei presbiteri (del Nord Italia o stranieri presenti nelle diocesi vicine a Venezia) che dovessero continuare ad esercitare il ministero in qualche parrocchia o negli uffici diocesani. Un certo numero di corsi, inoltre, è concentrato in determinati giorni della settimana». Su un altro nucleo di ricerca della Facoltà, rivolto a storia e didattica del diritto canonico, proprio questi primi giorni di settembre sono ricchi di attività: c’è il secondo anno della Summer School su «Il diritto canonico nella storia: studio e ricerca sulle fonti» con alunni e docenti di varie nazioni (Italia, Spagna, Portogallo, Austria, Francia, Giappone) e docenti italiani e stranieri impegnati ad esporre le principali fonti del diritto della Chiesa; in contemporanea si tiene l’incontro internazionale dei docenti di storia del diritto canonico di Facoltà ecclesiastiche italiane (Antonianum, Gregoriana, Lateranense, San Pio X, Urbaniana) e straniere (Francia-Lione, Spagna con Madrid e Navarra, Ungheria-Budapest, Cameroun-Yaoundè). Il 30 settembre poi, nel complesso veneziano a fianco della Basilica della Salute, vi sarà un doppio importante appuntamento: la lectio inauguralis del cardinale Francesco

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Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, e l’inaugurazione, da parte del patriarca Moraglia, della biblioteca e dell’archivio diocesano col nuovo accesso dal campo della Salute che così li renderà fruibili anche ad un pubblico esterno. Facoltà, biblioteca diocesana e archivio costituiranno così un polo culturale sempre più aperto e a servizio di Venezia. CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 settembre 2015 Pag 6 Il Papa e Putin, quell'intesa sulla Siria (per i cristiani) di Massimo Franco L’asse tra papa Francesco e Vladimir Putin contro il terrorismo islamico non è una novità. È affiorato esattamente due anni fa, quando il pontefice contribuì a scongiurare un intervento armato occidentale contro la Siria, appellandosi a Mosca e a Washington. È stato confermato dal rifiuto di aderire alla strategia di isolamento del Cremlino perseguita da Stati Uniti e Ue dopo l’invasione russa della Crimea tra gennaio e febbraio del 2014. E si ripropone adesso che si tenta di dare corpo ad una coalizione internazionale per arginare il terrorismo sunnita dello Stato Islamico. D’altronde, Vaticano e Federazione russa condividono l’analisi sugli errori dell’Occidente nelle cosiddette Primavere arabe; l’esigenza di difendere il regime siriano di Assad come «male minore» in funzione anti Isis; e i vantaggi che questo può comportare nei rapporti con una potenza regionale come l’Iran. Lo schema non entra necessariamente in rotta di collisione con gli Usa: di certo, non con Obama, che il 15 luglio scorso ha detto che la Russia «è stata d’aiuto» per siglare gli accordi nucleari con Teheran. In fondo, anche nel 2013 la mediazione di Francesco è stata preziosa al presidente Usa per sconfiggere la pressione di chi nel Congresso voleva i bombardamenti. Ma si indovina qualcosa di più di un’alleanza intermittente col Cremlino. Jorge Mario Bergoglio, l’uomo dell’«Occidente estremo» che in realtà è Sud australe, condivide con Putin un giudizio severo sulla politica europea e statunitense nell’area mediorientale. Ritiene che alla base di quanto accade ci siano gli errori commessi dalla guerra in Iraq in poi; e che il massacro delle minoranze cristiane ne sia l’effetto collaterale più preoccupante, per la Chiesa cattolica. Francesco vede in Putin, con tutti i suoi limiti, un difensore di queste comunità, siano esse ortodosse o cattoliche. E il presidente russo si sforza di accreditarsi come una sorta di «zar cristiano» che grazie ai legami militari ed economici in quell’area, può svolgere il ruolo che l’Occidente non sembra più in grado di avere. In questo dialogo, il Papa si pone non come «braccio morale» di alleanze imperniate sul dominio statunitense, ma come mediatore deciso a smaltire i residui della Guerra fredda. Lo fa in Occidente e in America Latina. Per questo è visto come un interlocutore, da Mosca all’Avana. IL FOGLIO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 "Qui si rischia lo scisma". La confessione choc del capo del Sant'Uffizio a un passo dal Sinodo. Torna B-XVI (contro il gender) di Matteo Matzuzzi Roma. Il cardinale prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller, avverte che c'è il rischio di uno scisma interno alla chiesa cattolica ora che il Sinodo ordinario sulla famiglia è alle porte (i lavori inizieranno tra un mese esatto e si protrarranno per tre settimane). "Non dobbiamo farci ingannare quando si ha a che fare con la natura sacramentale del matrimonio, la sua indissolubilità, la sua apertura alla procreazione, e la complementarietà fondamentale dei due sessi", ha detto il porporato intervenendo a Ratisbona, città di cui è stato vescovo dal 2002 al 2012, prima di essere chiamato a Roma da Benedetto XVI. A quanti sostengono che non è in discussione la dottrina ma solo la prassi pastorale che può essere adeguata alle mutate circostanze dei tempi, Müller risponde che "si dovrebbe essere molto vigili e non dimenticare la lezione della storia della chiesa", perché è sulla questione della separazione tra dottrina e pastorale che si è articolata la rivoluzione protestante del 1517. Un chiaro riferimento alla posizione della Conferenza episcopale tedesca, in prima fila nell'appoggiare l'aggiornamento ai tempi correnti della morale sessuale cattolica e che ha già fatto sapere - tramite il suo presidente, il cardinale Reinhard Marx - che qualunque cosa deciderà il Sinodo convocato dal Papa, andrà avanti per la sua strada: "Il Sinodo non può prescrivere nel dettaglio ciò che dobbiamo fare in Germania", sottolineava l'arcivescovo di Monaco e Frisinga in una conferenza stampa risalente allo

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scorso inverno, quando aveva anche chiarito che "noi non siamo una filiale di Roma". Fa specie, ha notato il capo dell'ex Sant'Uffizio, che a pretendere di voler delineare i contorni della chiesa rinnovata sia una realtà, come quella tedesca, che da anni ha a che fare con migliaia di fedeli che firmano dichiarazioni in cui rinunciano a essere credenti pur di non sborsare ogni anno la Kirchensteuer (la tassa che ha reso ricca la chiesa di Germania); una chiesa i cui confessionali sono vuoti, così come vuoti sono i seminari e le case per religiosi. Il porporato è intervenuto alla presentazione dell'edizione tedesca di "Dio o niente", il libro del cardinale guineano Robert Sarah anticipato in Italia dal Foglio il 13 marzo scorso. L'edizione americana, edita dalla Ignatius Press, è impreziosita da un commento al volume del Papa emerito Benedetto XVI, che scrive: "Ho letto 'Dio o niente' con grande profitto spirituale, gioia e gratitudine. La sua testimonianza del la chiesa in Africa, della sua sofferenza sotto il marxismo e il dinamismo della sua intera vita spirituale, hanno una grande importanza per la chiesa, che è un po' spiritualmente stanca in occidente. Tutto ciò che lei ha scritto riguardo la centralità di Dio, la celebrazione della liturgia e la vita morale dei cristiani è particolarmente rilevante e profondo. Le sue coraggiose risposte ai problemi della teoria gender mettono in chiaro, in un mondo obnubilato, una fondamentale questione antropologica". Il commento, che campeggia nella quarta di copertina, è solo una parte del più lungo messaggio che Joseph Ratzinger ha inviato a Sarah. I primi paragrafi, infatti, hanno carattere privato e non attengono al libro del prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. Pag 3 La chiesa tra Madre Terra ed enciclica Papa al convegno green, pellegrinaggi climatici e firme contro la CO2 I prossimi 10 e 11 settembre, si terrà a Roma, presso l'Istituto patristico Augustinianum, un meeting internazionale su "Giustizia ambientale e cambiamenti climatici", sottotitolo "verso Parigi 2015". A Parigi, tra fine novembre e inizio dicembre, avrà luogo la ventunesima conferenza sul clima organizzata dall'Onu. Al convegno romano parleranno molti fautori dello sviluppo sostenibile, qualche religioso, personalità politiche tra cui la socialista francese Ségolène Royal, il tecnocrate con la passione di raddrizzare il mondo Jeffrey Sachs (sostenitore convinto della pianificazione famigliare fatta a colpi di contraccettivi), il vegetariano Nicholas Stern, economista autore del rapporto che nel 2006 fece fare un salto di qualità all'allarmismo catastrofista attorno al tema del riscaldamento globale, alcuni responsabili di ong umanitarie, e il presidente ad interim dell'Ipcc (il predecessore, Rajendra Pachauri, è stato travolto da uno scandalo sessuale). A conclusione dei due giorni di lavori, è previsto un collegamento in streaming con Papa Francesco che parlerà del "tema della crisi climatica". Dalla pubblicazione dell'enciclica Laudato si', nel mondo vaticano, cattolico e cristiano in generale, si assiste a una corsa - spesso scomposta - per apparire il più ambientalisticamen te corretti possibile. Sembrerebbe infatti che nell' agenda di alcune conferenze episcopali si attenda con più tensione la conferenza sul clima di Parigi che non il Giubileo, tanto che i vescovi tedeschi hanno organizzato un "pellegrinaggio ecumenico" verso la capitale francese per sensibilizzare i leader del mondo ad agire per fermare i cambiamenti climatici. Lourdes evidentemente è passata di moda. La Caritas intanto - lo riportava nei giorni scorsi la Nuova Bussola Quotidiana - ha sottoscritto una Dichiarazione per la "giustizia climatica", il cardinale filippino Luis Antonio Tagle sta raccogliendo firme per chiedere al summit di Parigi di contenere il global warming, e sempre più spesso si sente parlare - anche da uomini di chiesa - di "Nostra Madre Terra": il cardinale Gianfranco Ra vasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura, è stato immortalato in un video in cui partecipa a un girotondo paganeggiante attorno al feticcio di Pacha Mama. Improbabile che Papa Francesco intendesse suggerire proprio questo nell' enciclica. Ma forse sostituire la Lettura di san Paolo con un passo della Laudato si' durante la messa della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, come ha fatto martedì scorso il Pontefice, non aiuta a evitare certe derive. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

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CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Ritorno a scuola di Valentina Santarpia Viaggio tra novità e nodi da sciogliere nel giorno in cui ricominciano le lezioni Edifici da ristrutturare, insegnanti da collocare, materie da valorizzare, orari da riprogrammare: il vero cantiere Italia è nella scuola, che apre ufficialmente oggi i battenti del nuovo anno scolastico. Gli studenti della provincia di Bolzano saranno i primi a tornare, oggi, sui banchi, seguiti da quelli del Molise (mercoledì) e dai colleghi della provincia di Trento (giovedì). Gli ultimi, il 16, in Puglia e Veneto. In molte classi i problemi sono quelli di sempre: come il caro-libri, che per il Codacons è arrivato a 1.100 euro a studente, e il bullismo, che secondo uno studio Coldiretti/Ixé preoccupa il 45% delle famiglie. Ma molte altre dovranno affrontare le novità della riforma, tra minacce di boicottaggi e procedure da applicare. Con il rischio che proprio il primo giorno di scuola scoppi il caos: i sindacati hanno già organizzato assemblee locali all’inizio della giornata, con il paradosso di Firenze, dove la riunione durerà 4 ore, facendo slittare probabilmente al giorno dopo il suono della campanella. Le supplenze - Saranno almeno 50 mila i supplenti in cattedra quest’anno: altro che fine della supplentite, come aveva assicurato il governo. Il maxi piano di assunzioni, almeno per adesso, non produrrà gli effetti sperati. Il ministero dell’Istruzione (Miur) ha dato la possibilità ai professori di scegliere entro l’8 settembre una cattedra di una supplenza di un anno piuttosto che rischiare un trasferimento coatto. E così migliaia di docenti, sia quelli assunti nella prima fase che nella seconda che sta per concludersi, si sono orientati per quest’opzione. Tanto più che l’anno prossimo sarà un anno di mobilità straordinaria, in cui tutti i prof potranno chiedere di essere trasferiti: e c’è da giurare che lo faranno i settemila che saranno costretti a emigrare per avere una cattedra a tempo indeterminato. Con il risultato che molte classi avranno insegnanti «provvisori». In barba alla continuità didattica promessa con l’assunzione complessiva di 102 mila insegnanti. Proteste e mobilitazione - C’è il vademecum, e c’è anche il controvademecum. I sindacati hanno diramato una serie di indicazioni perché le nuove procedure della Buona scuola vengano boicottate da insegnanti e dirigenti. «Non vogliamo fare guerra a una legge dello Stato - sottolinea Francesco Scrima, Cisl - ma non alziamo bandiera bianca». E così il rischio è che le decisioni più importanti, come quelle legate al piano dell’offerta formativa, rimangano impantanate nei consigli dei docenti. È per questo che l’associazione Dirigenti scuola Confedir ha preparato un controvademecum per riuscire a togliere i presidi-manager (o presidi sceriffi, come li hanno ribattezzati gli anti-riforma) dal guado, evitando sanzioni e barcamenandosi per applicare comunque la legge. Che resta sotto la scure del referendum abrogativo: la raccolta firme è partita. Digitale sul filo - Mentre esiste un’app per tutto, 2 studenti su 3 dicono di non averne mai usata una durante le lezioni. Solo il 29% dei ragazzi l’ha fatto. Appena il 4% dei ragazzi adopera insieme ai prof questo materiale con regolarità. È l’esito di un sondaggio di Skuola.net su 4 mila studenti: il campione non è indicativo, ma è vero che la strategia digitale del governo è cambiata. Dagli investimenti per gli strumenti digitali si è passati a quelli nelle reti wi-fi. Si punta sull’innovazione delle reti, con 90 milioni quest’anno e 30 l’anno prossimo, sulla piattaforma code.org, e sulle figure dei digital makers, prof esperti che dovranno «contagiare» i docenti più anziani e meno preparati. Il neo di questi propositi è che l’autonomia scolastica gioca un ruolo fondamentale: laddove non ci sono spinte interne verso il digitale, si rischia l’isolamento. Il caso professori - L’organico dell’autonomia potrebbe giocare un ruolo interessante: tra i 55 mila professori che entro novembre dovrebbero essere assunti per l’organico funzionale potrebbero esserci anche tanti innovatori digitali. Ma il ruolo di integrazione che questi prof potranno avere nelle scuole è tuttora oscuro: alcuni dirigenti hanno già ben chiare le esigenze delle proprie classi e stanno, da bravi manager, organizzando progetti integrativi ad esempio per rinforzare l’italiano degli stranieri oppure aiutare un gruppo di studenti più lento in matematica o organizzare un gruppo sportivo. Ma molti altri non hanno idea di cosa chiedere e, oberati dalle incombenze amministrative, finiranno per farsi assegnare quella quota di prof in più - da due a sette - per coprire i buchi di ore o evitare il ricorso a brevi supplenze. Un’eventualità che potrebbe svilire gli obiettivi dell’organico funzionale.

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Per gli studenti - Più arte, musica, lingue, sport, diritto, economia, competenze digitali, educazione alla cittadinanza. E più stage - con 100 milioni all’anno per realizzarli - con l’alternanza scuola-lavoro. Ma anche scuole più sicure, con 40 milioni stanziati per i controlli a tappeto sui controsoffitti, 200 milioni per i mutui agevolati per la costruzione e la ristrutturazione delle scuole, 300 milioni sbloccati per la costruzione di strutture alternative. I propositi della riforma sono tanti per agevolare gli studenti. Ma gli interventi, spesso rallentati dalla burocrazia, fanno fatica ad essere realizzati. AVVENIRE di domenica 6 settembre 2015 Pag 2 Unioni e famiglie secondo giustizia di Gian Carlo Blangiardo Numeri e priorità a partire dal Censimento Le cronache dicono che all’ultimo 'Gay Pride' di Roma gli organizzatori hanno dichiarato 250mila presenze. Con il sindaco della città in testa al corteo, i partecipanti hanno rilanciato richieste di principio e concrete rivendicazioni in nome di una popolazione che, come spesso si ripete, rappresenta ormai una componente importante della società italiana del nostro tempo. La forza di quei numeri e il potere dell’immagine mediatica procedono dunque uniti nell’accreditare le coppie dello stesso sesso come 'fenomeno di massa' nell’Italia del XXI secolo e, in quanto tale, pienamente legittimato a ottenere il riconoscimento che spetta a un «nuovo modello familiare» che avrebbe conquistato ampio seguito entro la collettività. Proviamo tuttavia ad abbandonare per un attimo le immagini e i suoni della folla festante e colorata presentataci da quasi tutti i mezzi di comunicazione e chiediamoci quante siano realmente, oggi nel nostro Paese, le persone dello stesso sesso che vivono una condizione di coppia e dichiarano questa loro scelta. Ma come giungere a tale valutazione? Come misurare la frequenza con cui ricorre uno stile di vita che, quando non sbandierato in modo 'politico' e quasi provocatorio, viene mantenuto, come in fondo è ovvio, nel privato? In realtà, il compito si rivela meno difficile del previsto. Ci viene infatti in soccorso il sistema delle fonti statistiche ufficiali, cioè l’Istat, con nientemeno che la sua 'rilevazione principe': il Censimento della popolazione. Ossia quell’indagine che ogni dieci anni coinvolge l’intero Paese, l’ultima è del 2011, provvedendo alla conta del numero di residenti e indagando sulle loro principali caratteristiche familiari e socio-demografiche. Quello stesso Censimento che – è bene ricordarlo – ha determinato e ha autorevolmente certificato, attraverso le proprie risultanze, la «popolazione legale» di ogni Comune, con le relative conseguenze sia sul piano amministrativo che su quello della rappresentanza politica (le modalità di elezione del sindaco, così come la definizione del numero di consiglieri sono due esempi eloquenti). Forti dell’autorevolezza della fonte censuaria, proviamo dunque a verificare in che misura i cittadini che per legge sono tenuti a rispondere in modo veritiero alle domande poste dal Censimento hanno manifestato le loro relazioni in ambito familiare. Fissando particolare attenzione ai casi in cui, per l’appunto, è emersa la dichiarazione di convivenza in coppia tra persone dello stesso sesso. Il resoconto del Censimento 2011 – cui sembra giusto riconoscere autorevolezza anche su questo tema – mette in luce la presenza in Italia di 14 milioni di coppie, di cui 1,2 milioni non coniugate. Nell’ambito di queste ultime, quelle che si sono dichiarate dello stesso sesso sono, in tutto il Paese, appena 7.513. In particolare, sono 6.984 le coppie di persone dello stesso sesso senza figli e 529 quelle con figli di uno dei due partner. Di fatto, la rilevanza statistica del fenomeno è di 6 casi di coppia dello stesso sesso ogni mille coppie non coniugate ovvero, più in generale e indipendentemente dallo stato coniugale, di 5 casi ogni diecimila coppie. Naturalmente i dati si riferiscono solamente a partner dello stesso sesso che si sono dichiarati esplicitamente e, come cautamente avverte l’Istat, è possibile che molti abbiano preferito non farlo. Anche se verrebbe da chiedersi: perché mai? In fondo, ben più che partecipando a un corteo - con i soliti dati dubbi e ballerini sull’affluenza - quale migliore occasione ci sarebbe stata per dare ufficialità a un fenomeno 'ormai radicato' nella società italiana? Sempre che sia questa la 'verità vera'. Perché se può anche essere credibile che, nel caso specifico, i dati censuari siano in parte sottostimati è ancor più verosimile sospettare che, sul fronte opposto, siano esageratamente gonfiati i centinaia di migliaia di casi che vengono sbandierati con disinvoltura quando si afferma l’esistenza di un fenomeno di massa. Intendiamoci, non si tratta di mettere in discussione le libere scelte o condizionare a esse i fondamentali

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diritti delle persone, poche o tante che siano, bensì semplicemente di impiegare correttamente le informazioni disponibili al fine di conoscere e dare la giusta priorità alle istanze che provengono dai diversi segmenti della popolazione; magari anche tenendo conto della consistenza numerica dei gruppi che segnalano gli aspetti problematici per cui si richiede un intervento. Ad esempio, posto che, da un lato, si abbiano – basandoci doverosamente sulla certificazione di quella che è la fonte statistica per eccellenza – le circa 7mila coppie dello stesso sesso che richiedono attenzione perché vivono una condizione di disagio e, dall’altro, ci siano i 164mila nuclei familiari che hanno quattro o più figli – tanto per richiamare situazioni di contesto in cui il disagio è allargato a una potenziale platea di oltre 700mila minori – e che si battono per suscitare l’interesse verso i 'loro' problemi, quale dei due gruppi avrebbe i 'i numeri' per reclamare in via prioritaria considerazione e interventi adeguati? Una questione che da troppi anni, anche su queste colonne di giornale, si continua a porre senza ottenere risposta da coloro che si sono alternati sugli scranni del Governo e che siedono in Parlamento. Mentre si ragiona di ridistribuzione dei pesi fiscali sui contribuenti italiani quella risposta è tempo di metterla all’ordine del giorno. Con priorità e urgenza, secondo giustizia. CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Il paradosso del gender di Stefano Allievi Le insensate polemiche Per un sociologo, la polemica odierna sul gender ha qualcosa di surreale: non foss’altro perché il libro «Sesso e temperamento» di Margaret Mead, antesignano dei «gender studies», è del 1930. E il fatto che sesso e genere, biologia e cultura, siano due cose diverse, e la società abbia un ruolo decisivo nell’identificazione di genere, è un’ovvietà che si insegna all’università da mezzo secolo, senza proteste. Ci dev’essere allora qualcos’altro, a spiegare l’inspiegabile successo delle polemiche attuali: che ricordano quelle tra teorie evoluzioniste e creazioniste, considerate verità contrapposte ma equivalenti, e ugualmente esplicative – popolari negli Usa, ma che in Europa non hanno mai goduto di grande credito. Qualcosa del genere sta accadendo con le cosiddette teorie del gender. C’è intorno ad esse un sospetto che ha a che fare con la diffusa tendenza a immaginare complotti, con il bisogno di un nemico contro cui schierarsi e indignarsi: che rende popolari le cospirazioni, la propensione vagamente paranoica a inventarsi strategie subdole e nascoste come risposta alle proprie difficoltà di comprendere il presente, e a vedere dappertutto nemici che mettono in questione uno status quo stabile e felice. Questa tendenza generale si innesta sulla situazione specifica di una presunta maggioranza silenziosa, che propone un’interpretazione che per brevità chiameremo tradizionale dei ruoli sessuali e di genere (più forte in certo mondo cattolico, ma trasversale e non riducibile a una dinamica destra-sinistra o credenti-non credenti), messa nell’angolo da minoranze rumorose e invadenti. Una maggioranza – che forse non è tale – che nella sua componente più ideologizzata immagina il suo nemico nella forma di Satana o dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, della lobby omosessuale o del relativismo culturale (che svolgono il ruolo che in altri contesti giocano la massoneria, il gruppo Bilderberg, la Cia, le multinazionali, fino agli extraterrestri o al sempre popolare complotto sionista). Un atteggiamento che fa adottare comportamenti ossessivi perfino preventivi (come le lettere che i genitori sono invitati ad inviare ai dirigenti scolastici dicendo che non accetteranno iniziative sull’educazione all’affettività e simili), e che instilla il terrore nei confronti di tutto ciò che rischia di richiamare o semplicemente alludere alla diversità. Al punto che si costruiscono grottesche liste nere in cui, oltre ai testi che parlano esplicitamente di diversità sessuale. Come certi librettini frettolosamente «equivalentisti» (per i quali è tutto uguale: mamma e papà, due papà, una mamma e un semino, una madre biologica e una surrogata, domani un mammifero a scelta e un alieno) si accompagna la criminalizzazione precauzionale di tutti quelli che parlano di un’amicizia tra un orso e un topo, di un bambino con i capelli di un colore diverso o con la curiosa abitudine di andare in giro tirandosi dietro un pentolino, e tutto ciò che può far riferimento a una qualche diversità o disfunzionalità. Un atteggiamento insensato e intollerante, anche a fronte di quello che nei casi peggiori è lo speculare approccio ideologico di certo politicamente corretto vagamente indifferentista (per cui tutto va bene perché tutto è uguale: che è diverso dal

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dire che i diritti di tutti vanno tutelati), e nei casi migliori è la tendenza a dare risposte prima ancora che i bambini abbiano formulato alcuna domanda. Forse servirebbe altro che una sterile polemica. Da un lato la presa d’atto che la pluralizzazione dei modelli familiari (che include famiglie stabili e instabili, composite e ricostituite, con svariati riferimenti genitoriali o uno solo, eterosessuali o omosessuali), prima ancora che un timore o un auspicio, è un’evidenza culturale e anche statistica, di cui occorre tener conto. Dall’altro l’accettazione che ci sono questioni che toccano valori profondi, per le quali non esistono verità uniche e valevoli per tutti, in cui più che di risposte a senso unico c’è bisogno di buone domande e discussioni ben guidate, senza prevaricazioni culturali da parte di nessuno. Dando fiducia ai bambini, senza difenderli da nulla e senza voler inculcare loro una verità a tutti i costi, quale che sia, dato che spesso si mostrano più intelligenti di noi: nel fare domande senza pregiudizi e nel darsi le risposte, o valutare le nostre, senza necessariamente prenderle per buone. CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 settembre 2015 Pag 43 Papà part-time. La mia storia di separato di Giovanni Armando Costa I l contratto di genitore a tempo pieno mi è stato revocato una sera d’estate, il 17 luglio dell’anno 2010. La modifica del contratto è stata unilaterale. La donna che condivideva con me le vacanze, le cene, un letto ed una casa, dichiarava di non amarmi più e decideva di sciogliere il nucleo familiare. La catastrofe che è seguita ha comportato uscite notturne, irreperibilità telefonica, rientri a casa all’alba o mancati rientri, notti agitate e passate a dormire poco e male su di un divano; ferie estive precedentemente concordate, annullate all’ultimo minuto e poi riprogrammate da separati. Lo scempio a cui ho dovuto assistere fortunatamente è durato poco. L’improvvisa sciagura ha determinato l’allontanamento quasi immediato dalla casa coniugale. Subito dopo le prime ferie passate da separati, ero pronto a cambiare casa, traslocare altrove. La nuova abitazione - A settembre, a meno di due mesi dal congedo dal ruolo di marito, mi ritrovai in un bilocale arredato con dentro tutte le mie cose ed il necessario per vivere. Questo grazie a due fattori fondamentali: 1) la catena della solidarietà. Familiari, amici e colleghi si erano stretti intorno al papà affranto per sostenerlo; 2) la risolutezza. Gli eventi si erano succeduti senza garbo, mancavano di educazione e rispetto verso l’altro, erano malsani e fastidiosi. La situazione che si era creata non lasciava spazio al dialogo e per fronteggiare tutto questo la vicinanza di amici e parenti è stata fondamentale e provvidenziale. Risoluto davanti a ciò e anche davanti ai disperati pianti di un bimbo di 5 anni che assiste alla dipartita del papà e non ne comprende il motivo. Risoluto davanti al primogenito, di due anni più grande, che saluta il padre dalla porta di casa con le lacrime agli occhi ed in cuor suo si domanda dove va e se mai tornerà il suo papà. Risoluto nel fronteggiare il necessario dispendio economico per mettere su una nuova casa dove vivere come padre separato. Fermamente convinto che il viaggio in comunione tra un uomo ed una donna era giunto a termine ma determinato nel voler proseguire nel migliore dei modi con il ruolo di padre, anche se obbligatoriamente a tempo parziale. Il cambiamento - Periodo di difficoltà quello del cambiamento, per tutti. Bambini che si ritrovano ad avere due case, non più una; che cercano di adattarsi a diversi metodi educativi, costretti ad abituarsi a regimi alimentari differenti. Disturbati nelle loro attività da telefonate improvvise, a volte inopportune, per rendicontare con interrogatori ripetitivi e noiosi. Genitori singolarmente impegnati nell’accudire i figli, dal mattino con la sveglia e la colazione, la scuola ed i compiti, fino alla sera con cena e lettura di fiabe o storie ma con in mezzo una giornata lavorativa impegnativa. Solo alcuni giorni però; gli altri vissuti da veri e propri single, in una casa vuota, lontani dalla prole e dagli obblighi coniugali, a disposizione di amici, parenti, amanti o più semplicemente in pasto ai lupi. E gli anni passano. I bimbi crescono e tutti forzatamente si abituano al nuovo sistema di cose ufficializzato da un giudice. Affido condiviso al cinquanta per cento. Per metà anno padre con figli al seguito. Il rimanente tempo genitore a distanza. Ma ogni occasione è buona per aumentare le giornate da passare in compagnia dei bambini. «Ho prenotato il viaggio», «ormai ho il biglietto pronto», «puoi tenerli il fine settimana?». Tutte le volte che c’è da andare in vacanza con i nuovi amici si apre la possibilità di incrementare il cinquanta per cento.

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La famiglia si allarga - E sì, perché la famiglia si allarga. Compaiono nuove figure intorno ai genitori; nuove amiche, nuovi amici. «Chi viene a cena papà?». «chi è Angelina?», «sai papà, a pranzo la mamma ha invitato Marco», «me lo ha regalato Marco». E sì, i bambini assistono al turnover di queste figure intorno ai propri genitori e probabilmente si chiedono chi sarà il prossimo o la prossima. E sì, perché, se collante di coppia non è stato il contribuire a generare due vite umane, cos’altro di più forte può tenere insieme un uomo ed una donna per un lungo periodo? Ho tanto desiderato essere genitore, a tempo pieno, ma sono un papà part time. Papà part time, ma sempre papà - Anche un papà part time può essere un padre presente, attento, premuroso e ricambiato in amore dai propri figli. Che sacrifici però. È necessario: 1) resistere alla fatica; 2) non farsi travolgere dal risentimento; 3) evitare le ostilità; 4) accettare la nuova condizione; 5) considerare che entrambi i genitori sono una risorsa per i bambini; 6) individuare le azioni da intraprendere per non far pesare ai figli la doppia realtà. «Papà ci leggi una storia?» chiedono quando ancora tutta la cucina è da rassettare ed è già ora di andare a letto. Tra genitori ci si divide i compiti, ma chi è solo deve fare tutto da sé. Deve scegliere, costantemente. Si va per priorità. Si lasciano indietro i lavori di casa e si legge la storia. «Papà, la maestra mi ha caricato di compiti per il fine settimana», frase preludio del programma che andrà in onda durante il week-end. Seguire i ragazzi a scuola e nei compiti è impegnativo per un genitore part time; sei costretto a tralasciare tante altre cose ma il dialogo con i tuoi figli si rafforza. Cresce la complicità e loro sono più sereni. «Papà non imparerò mai ad andare in bici». Pessimistica frase di bambini che passano gran parte del tempo tra le pareti domestiche. Trovare il giusto luogo, sostenere, stimolare a cercare l’equilibrio, incoraggiare a proseguire fino al successo. Regalare urla di gioia e tanti sorrisi durante le pedalate veloci, senza il sostegno di mani adulte. «Papà, il prossimo fine settimana siamo con te o con mamma?», «papà, ma adesso facciamo due settimane di vacanza con te, dopo saremo due settimana con mamma?»,«papà, quest’anno il Natale lo passiamo con te o con la mamma?», «papà, sai che anche il mio compagno di classe ha due case come noi?», «papà, ma se oggi che è martedì doveva prenderci a scuola la mamma e invece sei venuto tu, domani che è mercoledì e dovresti venire tu, ci viene invece a prendere mamma?». Quotidianità di genitori separati, quesiti che diventano argomenti di conversazione, considerazioni che rattristano. Un desiderio di unione con i bambini sempre intralciato da una realtà che obbliga alla separazione, seppure temporanea. E quant’è difficile riprendere da dove si era rimasti, dopo giorni in cui non ci si vede. Ancora a casa - «Ah… finalmente a casa!» esclamazione che esce a volte dalla bocca dei bambini, di ritorno dopo giorni passati con l’altro genitore. La casa di papà è la loro casa. Sentirglielo dire è come una luce che si accende e mi indica che la strada lungo cui stiamo camminando è quella giusta. Non ci siamo fermati, la costruzione del nostro rapporto fra padre e figli va avanti: seppure al cinquanta per cento, in qualità equivale ad un rapporto continuativo. Facile a dirsi ma la realtà è dura. E trovarsi la sera a spuntare le cose da fare, per assicurarsi di averle fatte tutte - il necessario per la colazione, le cartelle pronte - coi bimbi già addormentati, dà soddisfazione e coraggio. E decidere di spegnere tutto ed andare a letto e notare che sul balcone c’è ancora lo stendibiancheria coi panni asciutti che chiedono di rientrare negli armadi e sorprendersi a pensare «che fantastica storia è la vita». AVVENIRE di sabato 5 settembre 2015 Pag 3 Il lavoro che cambia si misura in anni di Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi Come mettere la persona al centro del Jobs act Con l’approvazione degli ultimi decreti attuativi del Jobs Act, il processo legislativo di riforma del mercato del lavoro è formalmente chiuso. Si apre ora la delicata fase di implementazione che dovrebbe in pochi anni cambiare la faccia del nostro mercato del lavoro incidendo sulla vita di milioni di lavoratori e di persone in cerca di una occupazione. È qui, nella attuazione concreta, che si deciderà il successo o meno delle nuove regole. Invero, molte delle valutazioni degli ultimi giorni si sono incentrate sui risultati immediati, in termini di occupazione aggiuntiva ovvero di stabilizzazione di rapporti precari. Eppure è ancora troppo presto per dire qualcosa, perché riforme di

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questo tipo, che ambiscono a essere epocali, richiedono anni per fornire i primi stabili risultati e cambiare una mentalità molto radicata in Italia come quella del posto fisso. Abbiamo invece tutti gli elementi per valutarne i pilastri di struttura e, esercizio poco praticato nel nostro Paese, analizzarne la visione e l’idea di lavoro che contiene. La riforma ha nel suo impianto molti elementi positivi a partire dalla volontà, attraverso il nuovo contratto a tutele crescenti, di non considerare la durata a tempo indeterminato come la caratteristica centrale dei moderni rapporti di lavoro. Rapporti di lavoro più brevi, transizioni tra un lavoro e l’altro, acquisizione di competenze sul posto di lavoro da spendere poi in un altro, processi continui di riqualificazione professionale e ricollocazione. Il mercato del lavoro contemporaneo sembra muoversi secondo queste linee guida. Qui sorgono però due problematiche da non sottovalutare. La prima è che spesso e volentieri questa 'rivoluzione copernicana' non è stata comunicata per quello che veramente è, si è anzi preferito dipingere la riforma come una vittoria del lavoro stabile sul pericoloso lavoro precario. Al contrario la norma sembra voler proprio affermare, attraverso il meccanismo delle tutele crescenti, che la stabilità del posto è una categoria del passato. Il secondo problema è il più complicato e anche il più urgente: se da un lato i lavori saranno più brevi e si passerà più spesso da un lavoro all’altro è necessario un sistema di politiche attive e di inclusione che accompagnino i lavoratori in questi periodi di transizione soprattutto i gruppi più deboli e ai margini della società. Un sistema che aiuti l’incontro tra disoccupati e imprese, non in modo meccanico e burocratico ma formando nuove competenze e ad aggiornando quelle oramai obsolete. Tutto questo sembra mancare nella struttura della riforma, come del resto anticipato dal fallimento di Garanzia Giovani, creando uno squilibrio tra robuste riduzioni di vecchie tutele e assenza di tutele di nuova generazione. Alcuni passi sono comunque stati fatti, l’importante è come verrà attuato il Jobs Act, sia dalle imprese che dalle parti sociali e dai lavoratori. Anche in questo caso le strade sono due. O l’ennesima riforma presentata come epocale ma dai pochi effetti concreti e, paradossalmente, peggiorativi. O la possibilità di iniziare a costruire un mercato del lavoro più moderno perché efficiente ma anche giusto e inclusivo. Questo non può che basarsi sulla centralità della persona e non del contratto con cui viene assunto: della sua responsabilità personale unita al rispetto della sua libertà e dignità e alla valorizzazione delle sue competenze professionali. Mettere al centro la persona significa considerare il mercato del lavoro come un sentiero a tappe, dove ogni tappa è una parte del percorso di realizzazione personale grazie a nuove competenze, nuove responsabilità e nuove forme di partecipazione alla vita dell’impresa con la quale si condivide la tappa in relazione con altri lavoratori e con lo stesso datore di lavoro secondo logiche partecipative e redistributive. Oggi più che mai la meta del sentiero è imprevedibile e la situazione di continuo cambiamento può creare piccole frane e incidenti di percorso. Proprio per questo motivo è necessario un aiuto e una guida che si può trovare in quelle politiche che, rivolgendosi direttamente alla persona del lavoratore, riescano a rimetterlo in carreggiata, con tutti gli sforzi necessari. Questo sentiero, diverso per ciascun lavoratore, può essere o meno sostenuto dal Legislatore a seconda di come interpreta il mercato del lavoro. Ci auguriamo che nel suo processo di attuazione il Jobs Act possa avere come chiave di interpretazione la semplice osservazione della realtà del lavoro. Basta parlare con imprese, parti sociali e lavoratori per accorgersi di come sia normale che le norme colgano i cambiamenti in ritardo e debbano per questo piegarsi a guardare il mondo reale. Con questi presupposti si potranno correggere gli aspetti più critici della riforma, a patto di riconoscerli con umiltà e spirito collaborativo, e valorizzare al meglio quelli positivi. Per costruire insieme un mercato del lavoro che ci porti nel futuro e non in un passato che non c’è più. Pag 6 Tutele, congedi, controlli. Le grandi novità della riforma di Francesco Riccardi Cambiate le norme su licenziamenti, carriera e sussidi. Famiglia e lavoro, meno ostacoli. La sfida ricollocamento Con gli ultimi 4 decreti attuativi del Jobs act approvati ieri è terminato il processo di riforma del mercato del lavoro avviato dal governo Renzi. Ecco una panoramica delle principali novità.

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L’ASSUNZIONE: CON QUESTI CONTRATTI - Con il Jobs act sono cambiate in maniera significative le assunzioni e i contratti di lavoro. Dopo la semplificazione di quelli a termine operata lo scorso anno, l’ultima riforma ha riportato al centro il contratto a tempo indeterminato o meglio a 'Tutele crescenti' rendendolo più appetibile per le imprese. Anzitutto attraverso una generosa decontribuzione, cioè uno sconto sui contributi sociali che il datore di lavoro deve pagare fino a 8.000 euro che dovrebbe essere confermato anche per il 2016. E poi con il cambio delle norme sul licenziamento. Cancellate invece le associazioni in partecipazione, il Job sharing e dal 2016 le collaborazioni a progetto. Con l’eccezione di quelle relative ad iscritti ad albi professionali, per consigli d’amministrazione, società sportive o regolate da contrattazione collettiva. L’apprendistato con alternanza scuola-lavoro potrà partire dai 15 anni. I contratti a termine non potranno eccedere il 20% del personale (esclusi gli over50). LE MANSIONI POSSONO CAMBIARE - La vita professionale di un lavoratore potrebbe non essere più sempre lineare, con una progressione certa di carriera. In caso di crisi aziendale o di necessità di riorganizzare l’impresa, il datore di lavoro potrà infatti unilateralmente 'ri-mansionare' il dipendente adibendolo a una diversa mansione che non dovrà più essere «equivalente», come prevedeva prima la legge, ma semplicemente «riconducibile » alla precedente. Il nuovo incarico potrà dunque essere anche un de-mansionamento di un livello contrattuale, ma sempre all’interno della stessa categoria di inquadramento (operaio, impiegato, quadro). Aspetto più importante: anche in caso di de-mansionamento lo stipendio deve restare il mede- simo della precedente qualifica. Se il lavoratore è a part-time, il datore di lavoro può chiedere una prestazione supplementare ma di non più del 15% delle ore. NASCE UN FIGLIO: PIÙ TEMPO A CASA - Ora ci sono maggiori possibilità per conciliare famiglia e lavoro. Con il Jobs act, infatti, sono stati incrementati i periodi in cui è possibile godere dei congedi parentali. Oltre all’astensione obbligatoria, è previsto il congedo pagato al 30% fino ai 6 anni del bambino (prima era 3 anni) e quello non retribuito (e non in casi particolari) fino ai 12 anni (prima 8 anni). Sarà possibile godere di questi periodi di astensione anche frazionati ad ore (ma l’Inps dovrà rendere operativa la norma). Tutti i trattamenti sono equiparati tra genitori naturali e adottivi. Alle lavoratrici autonome sarà pagata la maternità anche se il datore di lavoro non ha versato i contributi. In caso di parti prematuri o di ricovero del neonato non si perdono i giorni di congedo. Sarà possibile in caso di grave malattia ottenere il part-time. Previsto un nuovo meccanismo, tramite un modulo datato, per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco che penalizza particolarmente le donne. ATTENZIONE: L’AZIENDA TI TIENE D’OCCHIO - Cambia anche la normativa riguardo ai controlli a distanza, finora completamente proibiti dallo Statuto dei lavoratori. In realtà anche adesso sarà vietato 'spiare' i dipendenti attraverso telecamere o altri mezzi che possano violare la privacy del lavoratore. Telecamere potranno però essere installate per il controllo dei mezzi di produzione, se in accordo coi sindacati o con autorizzazione ministeriale. All’imprenditore sarà invece possibile controllare – anche senza preventivo accordo con i sindacati – i mezzi di produzione forniti ai lavoratori come personal computer, smartphone, tablet eccetera. Continuerà a non essere possibile per il datore di lavoro leggere la posta del dipendente, ma l’azienda potrà verificare se il lavoratore utilizza in maniera impropria lo strumento di lavoro. Le informazioni raccolte, poi, potranno essere utilizzate «a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro», quindi potenzialmente anche a fini disciplinari. L’impresa dovrà consegnare al lavoratore un documento in cui precisa la politica aziendale al riguardo. BASTA CASSA INTEGRAZIONE 'A VITA' - In caso di difficoltà dell’impresa, non sarà più possibile finire in cassa integrazione per lunghissimi periodi, anche 6-7 anni, come avvenuto in passato, né ricorrervi per le aziende che cessano l’attività. La nuova Cig, infatti, sarà al massimo di 24 mesi in un periodo mobile di 5 anni. Se però prima di ricorrere alla cassa integrazione l’azienda utilizza i contratti di solidarietà, allora il periodo può essere elevato a 36 mesi. Scompare anche la 'Cassa in deroga' che era finanziata solo dal fisco, ma la Cig ordinaria viene estesa pure alle aziende con più di 5 dipendenti. Le imprese artigiane e del commercio dovranno aderire a un fondo bilaterale. Cambia anche il costo per le aziende: quelle che vi ricorrono più

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frequentemente dovranno pagare un’aliquota maggiorata, quelle che la utilizzano meno godranno di uno sconto. LICENZIAMENTO: REINTEGRA SOLO IN POCHI CASI - La tutela in caso di licenziamento illegittimo è l’aspetto maggiormente toccato dalla riforma. La reintegra prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori avverrà solo in caso di licenziamenti discriminatori o nulli e nel caso di manifesta infondatezza di una contestazione disciplinare, senza però che il giudice possa valutare l’entità del fatto. Al posto della reintegra nel caso di licenziamento illegittimo ci sarà sempre un risarcimento crescente a seconda dell’anzianità da 4 a 24 mensilità (da 2 a 6 per le piccole imprese). È prevista una conciliazione facoltativa incentivata: l’impresa offre una somma esente da imposizione fiscale e contributiva da 2 a 18 mensilità. Modificati pure i licenziamenti collettivi: non è più prevista la reintegra, ma solo un risarcimento, quando il datore non rispetta le procedure sui criteri di scelta del personale da licenziare. La nuova disciplina sui licenziamenti si applica anche ai sindacati e ai partiti politici. NUOVO SUSSIDIO PER TUTTI I DISOCCUPATI - Per chi perde il lavoro è previsto un nuovo assegno universale di disoccupazione che avrà una durata di due anni al termine dei quali sarà possibile avere una proroga al sostegno. La Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego) riguarderà tutti i lavoratori dipendenti che abbiano perso l’impiego e che hanno cumulato almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 4 anni di lavoro ed almeno 18 giornate effettive di lavoro negli ultimi 12 mesi. L’ammontare dell’indennità è commisurato alla retribuzione e non può eccedere i 1.300 euro. Dopo i primi 4 mesi di pagamento, la Naspi viene ridotta del 3% al mese e la durata prevista è di un numero di settimane pari alla metà di quelle contributive degli ultimi 4 anni di lavoro. Il nuovo sistema sarà meno favorevole, rispetto a quello attuale, per i lavoratori stagionali perché per chi lavora ad esempio 6 mesi ne prevede solo 3 di sussidio. Per quest’anno, però si procederà con una copertura più ampia. SEI SENZA LAVORO? CERCO DI RICOLLOCARTI - La parte più innovativa, ma anche la più difficile da realizzare, è quella che riguarda le politiche attive e il tentativo di farsi carico di chi un lavoro lo perde o non l’ha mai avuto. Nasce per questo il contratto di ricollocamento. Prevede che il lavoratore divenuto disoccupato sia preso in carico da un ufficio del lavoro che ne traccia il profilo di occupabilità. Dopo la firma di un patto di attivazione, al quale è condizionato la corresponsione dei sussidi di disoccupazione, al lavoratore viene assegnato un voucher, grazie al quale potrà usufruire di servizi di formazione e ricollocazione appunto in un altro posto di lavoro. Sarà sempre il lavoratore a scegliere se avvalersi dei servizi per l’impiego pubblici o delle agenzie per il lavoro private accreditate, ai quali verrà corrisposto il compenso del 'buono' solo a risultato ottenuto. Per coordinare le politiche attive viene creata un’Agenzia nazionale. Contro gli abusi, invece, vengono accorpati in un’unica Agenzia ispettiva i servizi di ministero, Inail e Inps. CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Genitori uno e due? Meglio zii di Gabriella Imperatori Gender e bambini Si fa sempre più accesa, addirittura violenta, la polemica sui libri «gender» da utilizzare o censurare nelle scuole d’infanzia. Libri spesso belli e delicati, alcuni addirittura premiati, e certo non tali da turbare piccole anime innocenti. Alle quali però, l’ho già detto e lo ribadisco, il tema incriminato interessa assai meno di quelli di altri racconti, classici o contemporanei. Coinvolge invece molti adulti, a volte più di altri temi attuali obiettivamente più tragici: dalle guerre alle migrazioni apocalittiche, dalla violenza delle repressioni alle immagini insopportabili di bimbi morti in mare o marchiati come animali, fino a quelle diversamente sconvolgenti del passato storico/artistico fatto a pezzi per paleolitica ignoranza e per bestiale violenza. Ma dietro l‘interesse, diciamo così, didattico per inculcare rispetto teorico per ogni differenza, ci sta un problema sociale a più preciso raggio: quello dei diritti degli omosessuali a «fare famiglia», con un compagno/a e possibilmente con dei figli. In Italia, anche se in misura inferiore ad altri paesi occidentali, la maggioranza della popolazione è favorevole ai diritti civili per tutti: diritto alla convivenza, all’assistenza, all’eredità… Resta contraria una minoranza di bacchettoni più affezionati al prete che a Dio, secondo i quali l’omosessualità è ancora, come si

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recitava ai tempi del catechismo di Pio X, «peccato impuro contro natura» (incluso con l’omicidio fra quelli «che gridano vendetta al cospetto di Dio»). Sarà un’altra colpa della Chiesa di cui chiedere, in futuro, perdono? In realtà l’omosessualità non è «contro natura», come dimostrano molte specie viventi. Rappresenta una minoranza nella natura stessa, al massimo una «diversità». Ma se la natura l’ha creata Dio, chi ha voluto questa «diversità»? Altra cosa, e più complessa, è quella del diritto al matrimonio gay, che se non si vuol chiamarlo così, o inventare un termine meno ridicolo di quel «formazione sociale specifica» o simili, può essere chiamato semplicemente unione civile, uguale per omo ed etero. La famiglia tradizionale non rischia nulla se accetta famiglie diverse, come un etero non rischia di diventare gay se non lo è. Il problema più spinoso è quello dei figli, perché il desiderio di diventare genitori c’è indubbiamente in molti omosex, ma fa parte dei desideri di onnipotenza, anche se è vero che certi genitori gay possono essere migliori di certi etero. Però è stato ripetutamente detto che un bambino ha bisogno di un papà e di una mamma, non di due genitori dello stesso sesso, e quindi si tratta di far prevalere il desiderio degli adulti o i bisogni dei bambini. Si dirà che un bimbo cresce meglio in una famiglia diversa che lo ama piuttosto che in un istituto, e forse è vero. Ma le coppie gay, più che accontentarsi dell’adozione, pretendono spesso una sorta di «naturalità» parziale, conquistata con uteri in affitto o altri espedienti più o meno artificiali. E allora come conciliare il naturale desiderio di crescere dei bambini con il diritto degli stessi ad avere un padre e una madre piuttosto che un genitore 1 e un genitore 2? Il problema sta, in fondo, in quel desiderio, appunto, di onnipotenza riscontrabile ormai in tanti altri aspetti della vita («Vorrei occhi turchesi e non castani»; «vorrei essere un genio e non un uomo qualsiasi»; «vorrei essere il capo dello Stato»; «vorrei figli anche se sono gay»…). Forse una soluzione ci sarebbe: perché, invece di voler essere genitori a tutti i costi, non ci si può contentare di essere tutori e farsi chiamare «zii»? Ho conosciuto più di un orfano cresciuto da due zie, o da un nonno e uno zio: amati, coccolati, sereni quanto può esserlo una persona normale. Il bambino sarà un nipotino, non un figlio: ma non avrà problemi a farlo sapere, sentendosi in sostanza uguale agli altri. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI Due euro per aiutare i tornadati. Ecco il numero solidale: 45500 Riviera. Attivo in tutta Italia con sms o telefonate Venezia - È già attivo per sms e chiamate da tutta Italia il numero solidale 45500, attivato in collaborazione tra la Protezione Civile Nazionale, la Regione del Veneto e gli operatori di telefonia mobile, per contribuire alla ricostruzione della Riviera del Brenta, distrutta dal tornado l’8 luglio scorso. Componendo il 45500 con un sms da cellulare, o con una telefonata da rete fissa, tutti possono donare 2 euro fino al 15 settembre prossimo. «Ringrazio ancora una volta tutti i partner, dalla Protezione Civile Nazionale agli operatori telefonici coinvolti – dice il Presidente della Regione, Luca Zaia – per aver reso possibile il coinvolgimento della generosità di tutti gli italiani e di tutti i veneti nella ricostruzione di un territorio ricco di arte, beni ambientali, imprenditoria, e di tutti i suoi abitanti, messo in ginocchio dalla furia degli elementi. Grazie anche alla Regata Storica di Venezia, che nel giorno del lancio ha fatto da straordinaria cassa di risonanza all’iniziativa. È la storia millenaria del Veneto che si mette al servizio del Veneto di oggi». «Cento milioni di danni, sfollati, cento feriti e un morto – ricorda Zaia – sono un bilancio pesante e doloroso. La gente della Riviera, com’è tradizione di tutti i Veneti, non si è fermata a piangere ma si è già rimboccata le maniche e sta già facendo miracoli. Ma tutta la loro forza d’animo non basta. La gravità della situazione è tale che rivolgo un nuovo accorato appello a tutti perché aderiscano all’sms 45500, sin da questi minuti e fino all’ultimo minuto disponibile il 15 settembre. Con il costo di un paio di caffè – conclude il Governatore – tutti potremo aiutare una popolazione a rialzarsi dal dolore e a ricostruire le macerie».

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LA NUOVA Pag 10 Il rabbino: “Ebrei, fratelli maggiori dei musulmani” di Nadia De Lazzari In duemila alle iniziative della giornata europea della cultura «Per Venezia propongo l’assegnazione del premio Nobel per la Pace e per un dialogo fecondo chiedo ai grandi Imam, cito ad esempio quelli del Cairo e di Istanbul, di pronunciare questa espressione: gli ebrei sono i fratelli maggiori dei musulmani. Lo disse Papa Giovanni Paolo II durante la sua storica visita alla sinagoga di Roma nel 1986». Applausi scroscianti. Sono le due proposte (la prima l’aveva anticipata in un intervista alla Nuova Venezia rilasciata alcuni giorni fa) lanciate dal rabbino capo della Comunità ebraica Scialom Bahbout durante la tavola rotonda “Venezia, un ponte tra le religioni?”. L’occasione: la 16ª edizione della Giornata europea della cultura ebraica. Proposte-provocazioni che sono state subito accolte dall’imam Yahya Abd al-Abd Zanolo, responsabile Veneto della Comunità religiosa islamica italiana (Coreis). L’Imam ha sottolineato: «Venezia quale premio Nobel per la Pace: costruiamolo assieme come la pace. Venezia è sempre stata una città ponte tra le nazioni, luogo concreto di convivenza. Addirittura, dicono gli storici, durante i momenti di tensione era comunque garantita la permanenza a tutti, anche ai musulmani. È già una realtà storica che va riattualizzata. Gli ebrei sono, per noi musulmani, i fratelli maggiori al quadrato nel senso che sono ancora “più” maggiori rispetto ai cristiani». Densi gli interventi e le tematiche affrontate dai relatori. La pastora Caterina Griffante ha posto domande: «La città ha nel suo dna l’accoglienza. Qual è e dov’è il ruolo del popolo di Venezia?». Il docente universitario Giovanni Levi ha affermato: «Le religioni sono cultura». Il professor Simone Morandini: «Soffia un vento fresco portato da Papa Francesco. In twitter ha scelto non a caso il nome di Pontifex, costruttore di ponti». Numerosi i saluti e le presenze delle autorità civili e militari: il presidente della Comunità ebraica Gnignati, il prefetto Cuttaia, il sindaco Brugnaro, il questore Sanna, il professore Luzzatto, il responsabile di CoopCulture Rizzi. Dal Lido al Ghetto: l’antico cimitero ebraico, le sinagoghe, il museo, i gazebo con i dolcetti kosher:.grande successo e partecipazione, ieri. Oltre duemila visitatori hanno scoperto il patrimonio ebraico, culturale, storico, architettonico, artistico, gastronomico. Per tutta la giornata la Comunità ebraica ha aperto le sue porte. Veneziani e non si sono riversati prima in riviera San Nicolò poi in Ghetto Vecchio e Novo collegati da un ponticello. In questi stessi spazi dove sono visibili i “grattacieli”, edifici altissimi, la Serenissima decretò di accogliere il popolo ebraico. Era il 1516. È’ parte della storia degli Ebrei e di Venezia. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 settembre 2015 Pag VI San Teodoro, un santo per Venezia di m.t.s. San Teodoro è un santo con due identità? O sono due i santi? Come mai Teodoro ha «soppiantato» Marco? Quest'ultima domanda comporta anche il problema della nascita di Venezia, città nata bizantina, ma forse, prima romana. Questi gli enigmi sui quali si è basata la giornata di studio «Il Tesoro »scomparso» della Scuola Grande di San Teodoro. Una città e un santo tra Oriente e Occidente" a cura di Letizia Caselli e Sebastiano Scarpa, promossa da Ateneo Veneto con la Scuola Grande di San Teodoro e l'Istituto Ellenico, svoltasi a San Teodoro. Hanno presentato le loro relazioni, frutto di studi approfonditi, oltre a Caselli e Scarpa, Giorgio Fedalto e Athanasios Dolaptsoglou. Sono state raccontate le vicende della Scuola dalla sua fondazione nel 1258 sino allo spoglio napoleonico; analizzata la figura del santo, soldato romano martirizzato (293-305), e di un Teodoro generale «stratelates», le cui reliquie sarebbero giunte a Venezia (1267) nella chiesa di San Salvador. Infine una sorpresa: Jacopo Scarpa ha presentato un dipinto del 1260 prestato per l'occasione, con la bella immagine di san Teodoro. Pag XIV Marghera, trovato l'accordo per il restauro della storica chiesetta della Rana di Giacinta Gimma Marghera - L'anno che verrà sarà quello buono per la chiesetta della Rana a Marghera. Il tempio del Cinquecento che si affaccia su via Fratelli Bandiera, a pochi passi dalla vecchia portineria Enichem, dovrebbe essere restaurato entro il 2016. Un impegno che

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molti soggetti si sono assunti, nei giorni scorsi, durante una riunione tenutasi in municipio a Marghera con vertici degli assessorati ai Lavori Pubblici e al Patrimonio, con i responsabili della Società Sonora dell'Interporto, proprietaria della chiesetta, con il parroco di "Gesù Lavoratore" Luca Biancafior, in rappresentanza anche della Curia, e con Nicola Torricella, direttore tecnico dell'Autorità Portuale che finanzierà il restauro della chiesa intitolata alla Beata Vergine delle Grazie. «Il manufatto - spiega il presidente della Municipalità di Marghera Gianfranco Bettin - rappresenta un bene raro nel territorio di Marghera oltre ad essere un luogo storico della vicenda secolare della terraferma. Giungere al suo recupero, impedendone la distruzione, è significativo». Un obiettivo da raggiungere dopo aver completato un preciso iter burocratico: la stessa Municipalità riformulerà al Comune la richiesta di un uso pubblico per il piccolo tempio di via Fratelli Bandiera. La richiesta verrà accolta dalla società Sonora, proprietaria dello stabile, e che si trova in una situazione di concordato fallimentare. L'assessorato al Patrimonio e l'Autorità Portuale, che procederà al restauro, definiranno una bozza di convenzione per l'utilizzo pubblico della struttura che, stando alle intenzioni della Municipalità e dal momento che la Curia non ne reclama l'uso religioso, potrebbe diventare anche sala espositiva o sala concerti. Entro il 2016, giusto in tempo per i cento anni di Marghera che scoccheranno nel 2017. LA NUOVA di domenica 6 settembre 2015 Pag 11 Conca di Malamocco, danneggiata la porta. Un conto da 10 milioni di Renzo Mazzaro Dighe mobili, nuovo incidente. Una mareggiata ha fatto ballare la struttura lunga 50 metri Venezia. Chiamali «incidenti di percorso», come si ostinano a definirli al Consorzio Venezia Nuova. Prima il cassone alla bocca di porto di Chioggia, che non sarà esploso ma ha fatto la pancia per 70 metri quadrati: di solito succede al legno, non al cemento armato. C’è voluto un anno per venire a capo dei danni e 12 milioni per ripagarli. I lavori termineranno solo il 20 ottobre prossimo. Poi la porta della chiusa nella conca di navigazione a Malamocco. Anche questa classificata come una quisquilia, per tenere bassa l’attenzione dei pochi che fanno ancora domande. Finora l’incidente è rimasto nell’ombra, invece è un danno serio. Potrebbe costare come e forse più del cassone di Chioggia, ma è molto più grave quanto a immagine: durante un maltempo dello scorso febbraio, la porta a mare che ha un fronte di 50 metri, dunque caratteristiche oceaniche, ha ballato picchiando sul fondo ed è rimasta danneggiata. C’è incertezza sulle cause, due commissioni al lavoro e poca voglia di dare risposte circostanziate. Si può capire: il sistema che deve proteggere Venezia dalle acque alte, non ce la fa neanche a tenere in piedi correttamente la porta di una chiusa, davanti ad una mareggiata da laguna? Dopo tutto quello che è successo, manca solo che il Mose faccia nascere dubbi di questo genere. La conca di Malamocco è progettata per consentire l’ingresso delle navi nel canale dei petroli anche con le paratoie anti-acqua-alta alzate. E’ lunga 380 metri, larga 50 e ha già fatto discutere perché l’allineamento dei natanti più grandi è reso problematico dalla scogliera di protezione, che è troppo vicina. Morale: i portacontainer saranno costretti a rimanere alla fonda fuori in mare, aspettando che le paratoie vengano abbassate. La questione è saltata fuori all’inizio dell’anno, posta dai piloti che hanno già problemi a timonare nello stretto navi più piccole. Per evitare che il Mose in funzione blocchi ogni attività, l’Autorità Portuale ha proposto di “fasciare” una sponda della conca per consentire un ormeggio morbido (mooring dolphin) alle grandi navi. Succede anche nel Canale di Panama, fanno sapere gli esperti. Il progetto sta andando avanti, con il piccolo particolare che costa dai 10 ai 15 milioni e non si sa bene chi deve scucirli. Per i guai della mareggiata di febbraio invece non ci sono dubbi. «Il danno sarà imputato al Consorzio», precisa Fabio Riva, l’ingegnere capo del Mose, versante controllori. Riva è l’uomo che l’ingegner Giovanni Mazzacurati non voleva assolutamente alla presidenza del Magistrato alle Acque. Appena si profilò la possibilità – si legge nelle intercettazioni telefoniche riportate dall’ordinanza di custodia cautelare del 4 giugno 2014 del tribunale di Venezia – si fiondò a Roma a parlare con Ercole Incalza per bloccare la nomina. Gli fece una guerra spietata. Sgradimento totale. Riva ha ancora scritto “verboten” sulla fronte. E’ rimasto nell’ufficio che occupava al Magistrato alle

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Acque di Venezia, mentre l’allora candidato di Mazzacurati, Paolo Emilio Signorini, è oggi segretario generale della Regione Liguria. Così va il mondo. Ma almeno questo stop alla carriera vale per Riva da certificato di garanzia, di una persona che pensa con la propria testa e non prende ordini da terzi, meno ancora se sono i controllati. L’ingegnere presiede la commissione che sta valutando i danni denunciati nei lavori del Mose: «Abbiamo fatto alcune riunioni, non solo sulla porta della conca di Malamocco ma anche su altri incidenti, per dare istruzioni in proposito. La linea è che se si rompe il parafango della macchina, non cambio tutta la macchina. Per Malamocco l’entità del danno non verrà stimata, perché quello è un costo ribaltato esclusivamente sul Consorzio, che si è preso anche la briga di verificare che cosa funzionava o meno». Al Consorzio Venezia Nuova la linea sembra quella di attribuire la responsabilità al costruttore della porta, il gruppo Cordioli di Verona, anche se il commissario Luigi Magistro si tiene sulle generali: «La Cordioli ha vinto una gara europea per le due porte della chiusa. Il costo complessivo dell’aggiudicazione è stato di 11 milioni di euro per la fornitura, più altri 5 di progettazione, montaggio e meccanismi vari. Nella peggiore delle ipotesi, se anche il danno comportasse la sostituzione della porta che non si può più riparare, non si andrebbe oltre i 10 milioni di euro». Va da sé che il costruttore avrà buon gioco a replicare che, una volta consegnata, la struttura andava tenuta in funzione correttamente. Dunque chi l’aveva in carico, sia chi sia, dovrà spiegare l’accaduto. Per la precisione, l’intero impianto della conca di Malamocco, in sigla Op 457, è costato 24.561.723, 34 euro. Questa la cifra pagata dal Magistrato alle Acque, dunque dall’erario. Come il Cvn si sia poi gestito al suo interno, non ha rilievo per il contribuente. La base d’asta per le due porte era di 14 milioni. Gli altri 10 sono andati per funi, arganti, impianti vari, montaggio. Ne consegue che ogni porta è costata 7 milioni di euro, più 5, totale 12. Se la riparazione dovesse comportare smontaggio e rimontaggio completo, sotto 5 milioni non si andrà. Venezia. «Se la storia del cassone fosse successa a noi», mugugnano nei dintorni dell’impresa Mantovani, «la notizia avrebbe fatto il giro d’Italia in un minuto». Invece è capitato a Condotte, sono romani e il fatto si è saputo solo pochi giorni fa, dieci mesi dopo che era successo. E’ scattata la copertura nazionale perché il Mose deve restare confinato nel Veneto, benché sia al di là di ogni ragionevole dubbio uno scandalo italiano? «Beghe tra imprese», liquida la faccenda l’ingegner Fabio Riva, responsabile unico del procedimento (Rup) dopo che il Magistrato alle Acque ha perso autonomia per le note vicende giudiziarie ed è stato ridotto a costola del Provveditorato alle opere pubbliche del Triveneto. Giovedì scorso Riva ha fatto un sopralluogo alla bocca di porto di Chioggia, assieme al professor Francesco Ossola, uno dei tre commissari del Consorzio Venezia Nuova. Si conferma che i lavori termineranno il 20 ottobre. La “campana” in acciaio, costruita dall’impresa Cimolai, che ha permesso agli operai di lavorare all’asciutto sopra la parete immersa del cassone, verrà rimossa il 30 ottobre. La progettazione e la realizzazione della “campana” ha richiesto quasi 8 mesi. Il lavoro di ripristino della copertura del cassone è iniziato solo 3 mesi fa. «Non imperizia ma problema tecnico» è la classificazione della causa del danno. Avvenuto mentre si procedeva a zavorrare il cassone immerso. L’operazione avviene iniettando calcestruzzo in celle predisposte e contemporaneamente aspirando l’acqua e la sabbia di cui sono riempite. Il lavoro si fa con due pompe. Quella di aspirazione è rimasta bloccata mentre quella di iniezione continuava a spingere, fino a sollevare il “soffitto” in cemento armato del cassone, che cominciava a sbriciolarsi, per una superficie di 70 metri quadrati. Con una colonna d’acqua di 15 metri sopra. Non sarà stata un’esplosione, come sostiene l’ingegner Moroni, direttore dei lavori di Condotte, ma quanta pressione c’è voluta? Non c’era neanche un manometro, un allarme qualunque, neanche un cicalino, che avvisasse del sovraccarico? Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 settembre 2015

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Pag 3 La fuga solitaria dei baby migranti: “Un investimento per le famiglie" di Gloria Bertasi Dall'Africa al Pakistan, in Veneto i minori non accompagnati sono 183 (e tutti maschi). Viaggio nella comunità di Venezia Venezia. Mobarig e Massoud arrivano dall’Africa subsahariana, Azouz è egiziano e ha attraversato il canale di Sicilia in barca e, sempre via mare, è sbarcato a Napoli dieci mesi fa. Mobarig, Massoud e Azouz, quando avranno compiuto 18 anni, cercheranno casa e lavoro qui in Veneto. «Andrò a San Donà», dice in un italiano ancora stentato Azouz, maggiorenne il 20 settembre. La sua faccia pulita e l’aspetto da bambino non devono trarre in inganno: dal 1997, quand’è nato, al suo arrivo nel 2014 a Venezia ha vissuto drammi più vicini a quelli provati dai nostri nonni negli anni della grande guerra. Non è mai andato a scuola, ad esempio, e solo oggi sta imparando a leggere e scrivere. «Qui sto bene - racconta - seguo laboratori all’orto (al forte c’è BioRossarol, progetto di avviamento all’agricoltura bio, ndr ), un conoscente mi aveva detto di venire al nord». Le storie di Mobarig, Massoud e Azouz, pur diverse, hanno tutte un tratto in comune: i loro genitori o i parenti (Mobarig ha perso mamma e papà) li hanno «imbarcati» poco più che bambini nella speranza di un futuro migliore in quell’Europa che, vista da lontano, appare ricca e benestante ma, soprattutto, è lontana da guerre e miseria. Immerso nel verde, a pochi passi dalla laguna e dall’aeroporto Marco Polo, a Tessera c’è Forte Rossarol e qui, dal 2005, vivono – la maggior parte per pochi giorni, al massimo qualche mese - i minorenni stranieri senza genitori che la legge protegge e tutela. La comunità ha fatto suo il motto di don Lorenzo Milani, «I care» (Mi importa) e i suoi diciotto operatori provano ad accompagnare quegli adolescenti che scelgono di restare in un progetto di vita autonomo e, possibilmente, integrato nel territorio. Oltre agli orti, ci sono un laboratorio di panificazione e pizzeria e tirocini in aziende. Il loro lavoro non è tuttavia facile. I ragazzini, proprio come gli adulti in fuga da fame e conflitti, non vogliono restare in Italia. «I tre bambini afghani trovati a Venezia cinque giorni fa sono già andati via - dice Renato Mingardi, uno dei responsabili della struttura d’accoglienza -. Non possiamo impedire che scelgano altri percorsi, denunciamo la loro assenza ma non li obblighiamo a restare». Altri tre ragazzi afgani, di etnia hazara da sempre vittima di persecuzioni, sono nelle stanze di «Cavana», il settore della primissima accoglienza. Anche loro hanno fatto capire (non parlano lingue europee) che non hanno ancora raggiunto la loro destinazione finale, ossia il nord Europa. Dal 2013 gli arrivi di minori stranieri non accompagnati in Italia sono aumentati del 44% passando da 6.319 a 10.536 a fine 2014 mentre al 31 agosto erano 8.944. In Veneto però, complice la carenza di fondi pubblici per l’accoglienza, gli stranieri under 18 senza genitori sono diminuiti: due anni fa erano 278, nel 2014 sono scesi a 192. Oggi, sono 183, tutti maschi in 23 comunità distribuite nella regione. «Al pari degli adulti, ci sono due tipi di migrazioni che riguardano i minori stranieri: il 90% si muove per motivi economici e solo il 10% per persecuzioni o guerre – continua Mingardi -. Le norme però non differenziano il tipo di accoglienza e non va bene, i loro vissuti sono troppo diversi». In Veneto, arrivano ragazzini albanesi, kosovari, bengalesi e nord africani e sono qua per ragioni squisitamente economiche, i loro parenti hanno cioè investito su di loro, forti del fatto che un minore non può essere espulso, nella speranza in un’emancipazione economica per l’intera famiglia. Ci sono poi pakistani, eritrei, sudanesi e afghani in fuga da guerre e che per arrivare qui impiegano dai quattro mesi ai cinque anni. Di bimbi o adolescenti siriani (come il povero Aylan, annegato sulla spiaggia turca) invece, nemmeno uno. «Quella siriana è un altro tipo di immigrazione, è più simile a quella iraniana negli anni ‘80 - dice Mingardi -, sono intere famiglie in fuga, non mandano i figli da soli». Chi sceglie di fermarsi a Forte Rossarol segue un percorso preciso: a fianco della scuola di italiano e della formazione professionale, è assistito nella rielaborazione del proprio percorso migratorio. In termini spicci, i giovani sono riportati «con i piedi per terra». «Rispetto al passato “pre-crisi” hanno idee più confuse su cosa troveranno in Europa», dice Mingardi. Molti pensano che lavoro e guadagno siano facili e non tengono conto delle differenze culturali con il paese d’origine. Un aneddoto, alcuni ragazzi in gita alle spiagge del Lido hanno avuto problemi alla vista di donne in bikini. E a una educatrice è stato fatto notare che non è giusto che lavori. «In Italia si opera sempre nell’emergenza - aggiunge Mingardi - così manca la programmazione di azioni puntuali che facilitino

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l’integrazione, non dimentichiamoci - conclude - che a 18 anni i nostri ragazzi devono avere casa e lavoro, ossia l’autonomia di un 30enne italiano». Qualche storia a lieto fine c’è: un ex ospite, Ramat, ha aperto una sua pizzeria d’asporto a Mestre e due afghani il ristorante Orient Experience in Strada Nuova a Venezia. Altri però, ammettono gli operatori, sono finiti male, magari in strada a spacciare. Pag 5 Il Veneto crea nuovo lavoro. Più assunti che licenziati, ma i livelli del 2008 sono lontani di Gianni Favero Venezia. Che nell’arco di un anno le assunzioni in Veneto fossero superiori ai licenziamenti non accadeva dall’estate del 2011, e il 30 giugno scorso, pur per una quantità esigua, il fenomeno finalmente si è ripresentato. Lo rileva Veneto Lavoro quantificando in 200 unità il saldo positivo in un movimento di circa 700 mila ingressi e altrettante uscite, analizzando i contratti da dipendente a vario titolo declinati (tempo indeterminato, a termine, somministrazione, apprendistato etc.). In realtà un piccolo balzo sopra lo zero si era avuto anche un anno fa, sottolinea il responsabile dell’indagine, Bruno Anastasia, «ma era durato poco e comunque si trattava di un effetto connesso ai contratti a tempo determinato». La differenza, questa volta, è che si parla di assunzioni stabili e in tale dinamica giocano un ruolo pesante le incentivazioni riconosciute dalla legge di stabilità 2015 sotto forma di decontribuzioni Inps per tre anni a favore delle imprese che assumano ex novo o che rendano definitivi rapporti precari. Così nel secondo trimestre di quest’anno le assunzioni hanno superato quota 200 mila e questo non accadeva dal 2008, il saldo fra queste e i licenziamenti è risultato positivo per 30.200 unità e su base annua si torna in zona verde. Ricordando sempre, comunque, che negli ultimi sette anni, i posti di lavoro perduti in regione sono stati 78 mila, ma intanto la disoccupazione è scesa al 6,6% dal 7,1% di un anno fa. «Ci aspettiamo che il saldo fra assunti e licenziati nell’anno sia ancora positivo nel prossimo trimestre – aggiunge Anastasia – e poi dipenderà da cosa vorrà fare il governo per il 2016». Nel senso di mantenere gli incentivi alle assunzioni oppure dirottare le risorse su altri fronti, ad esempio l’abbattimento della tassazione sulla casa. «Detassino piuttosto i capannoni – è la posizione su questo tema espressa dall’assessore veneto alle politiche del lavoro, Elena Donazzan – e lo dico pur provenendo da un’area politica che, quando era al governo, la tassa sulla casa l’aveva tolta. Il capitolo casa può rilanciare l’edilizia, questo è vero, ma il mercato immobiliare è soprattutto un campo finanziario e uno sbilanciamento su questo fronte mi piace poco. Detto questo, per ragionare sull’effetto del Jobs Act e delle altre misure va detto che il 25% di chi ha assunto quest’anno sostiene che lo avrebbe fatto comunque. Mi propongo anche di avviare un’indagine per vedere quanti dei nuovi contratti provengano da trasformazioni e quanti, invece, rappresentino davvero nuove posizioni d’impiego». Dall’osservatorio di chi dialoga con le imprese tutti i giorni, cioè quello dei consulenti del lavoro, l’opinione è che se dovesse terminare l’incoraggiamento contributivo la curva delle assunzioni si attenuerebbe. «Personalmente nella tendenza di oggi intravedo anche qualche segno di ripresa genuina dell’economia veneta – sostiene Stefano Dalla Mutta, presidente della consulta degli Ordini veneti – ma gli zero virgola fanno oscillazione, non un trend affidabile». Numeri a parte, il mercato del lavoro è fatto però di altre dinamiche e fra le condizioni che possono generare nuova occupazione c’è il turn over fra lavoratori anziani e giovani. Più in là si sposta il momento della pensione, cioè, più difficile è la creazione di posti da occupare ed il tema, in questi giorni, è al centro di un tentativo di accordo sul contratto integrativo alla Luxottica. Nella sua essenza l’intesa potrebbe condensarsi attorno ad uno schema che prevede un nuovo assunto a tempo pieno per ogni addetto vicino alla pensione che accetti di dimezzare l’orario ma senza conseguenze sull’assegno pensionistico a fine carriera. Per Onofrio Rota, segretario generale aggiunto della Cisl del Veneto, sarebbe un «meccanismo virtuoso che andrebbe incoraggiato dal governo con misure dedicate. Laddove, in passato, si sono potuti adottare sistemi di ‘staffetta generazionale’ si è sempre notata una crescita della produttività». «Il limite di un simile patto – osserva però Maurizio Castro, già manager delle relazioni industriali in gruppi come Electrolux - è che questo funziona solo se avviene attraverso la contiguità familiare. Per essere gratuito per l’azienda occorre che chi cede metà del suo contratto

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lo faccia spinto da una forte motivazione affettiva. Comunque sia è un concetto che non sarà facile far passare». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La rottura che serve sulle tasse di Angelo Panebianco Il premier e la sinistra La disputa sulle tasse è uno dei due temi (l’altro è l’immigrazione) al centro dell’agenda politica. Renzi vi si giocherà il proprio futuro politico oltre che quello del Paese. La «battaglia delle tasse» si preannuncia come un conflitto epocale. Non solo interessi ma anche incompatibili visioni del mondo si affronteranno in una lotta senza esclusione di colpi. Volendo aggredire l’ideologia del «tassa e spendi», Renzi sembra deciso a una definitiva resa dei conti con quella parte della sinistra che lo odia e vorrebbe sbarazzarsi di lui. Si tratta appunto di una resa dei conti perché, più che sulle riforme costituzionali, più che sulla scuola, sulle tasse si combatte una battaglia per l’identità della sinistra. Non si scherza con le identità: una volta che siano entrate in gioco, nessuno è più disposto a fare prigionieri. Fondamentalmente, lo scontro è fra chi propone di abbassare la pressione fiscale allo scopo di rilanciare la crescita economica (e quindi allargare la torta della ricchezza nazionale) e chi, invece, non è interessato alla crescita ma alla sola ridistribuzione del reddito (che verrebbe garantita, secondo tale ideologia, da tasse alte e da alta spesa pubblica) pur in presenza di una torta che va riducendosi, di una ricchezza nazionale in declino. È il conflitto fra una visione che apprezza il dinamismo sociale e una visione che preferisce le società statiche, a bassa crescita, ove i conflitti sono a somma zero (togliere a Tizio per dare a Caio anziché fare in modo che - ampliando la torta - ottengano di più entrambi). Commentando un mio editoriale su questo tema (Corriere, 28 agosto), Eugenio Scalfari (La Repubblica, 30 agosto), ha osservato che Renzi avrebbe mostrato molta più coerenza a suo tempo se, anziché impegnare risorse nella distribuzione degli ottanta euro a certe fasce di lavoratori dipendenti, avesse puntato a una seria riduzione del cuneo fiscale. Concordo con Scalfari. La misura degli ottanta euro (presentata come una riduzione delle tasse ma, in realtà, un classico caso di ridistribuzione del reddito), come mostrato anche dallo studio - di cui ha dato conto due giorni fa il Corriere -, diretto e coordinato da Luigi Guiso, ha avuto effetti ambigui: gli ottanta euro sono stati per lo più impegnati in consumi da coloro che ne hanno beneficiato, il che ha aiutato, in un momento di grave difficoltà, la domanda interna. Però, all’effetto positivo si è sommato un effetto negativo dovuto al varo di diverse misure, ivi compresi aumenti delle tasse, necessario per reperire le risorse. In realtà, quella degli ottanta euro fu una mossa spiegabile soprattutto in termini politici: servì, nelle consultazioni europee di due anni fa, per mantenere ancorato al Pd un elettorato che, senza quella misura, forse, lo avrebbe abbandonato (per l’astensione o per i Cinque Stelle). Non mi pare però che questo cambi sostanzialmente il quadro. Se Renzi si impegnerà sul serio nella battaglia delle tasse, sarà coinvolto in uno scontro durissimo. Peraltro, con non molte probabilità di farcela: è possibile che in un Paese che invecchia coloro che scommettono sul futuro, che puntano su dinamismo e innovazione, risultino in minoranza. In ogni caso, egli dovrà consumare definitivamente quella «rottura sentimentale», di cui ha parlato Massimo D’Alema, con la tradizione post-comunista. Pag 1 La memoria tedesca e la svolta di Angela Merkel di Ernesto Galli della Loggi Etica e politica La cancelliera Merkel non è una reincarnazione tedesca del dottor Jekyll e Mister Hyde: una santa donna o un’inflessibile virago a seconda che si tratti di aprire le porte ai rifugiati del Medio Oriente o di chiedere i conti a quegli scialacquatori di greci. Essa è l’attento e intelligente capo politico di un grande Paese che ha interessi, ambizioni, progetti. Che soprattutto ha una forte consapevolezza di sé e del proprio ruolo, insieme

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però a lunga memoria della propria storia.Una lunga, indelebile, memoria. Quella fotografia del bimbo siriano riverso senza vita sulla riva turca deve aver ricordato immediatamente alla cancelliera quella di un altro bambino, questa volta ebreo, ripreso tra le fiamme del ghetto di Varsavia, nel 1942, con le mani alzate in un patetico segno di resa alla ferocia della soldataglia nazista. Merkel ha capito che quell’immagine, e poi l’immagine di quelle colonne di disperati in fuga tra fili spinati e vagoni piombati, e poi ancora quella della loro corsa verso la terra promessa di un’irraggiungibile Germania, stavano sul punto di coinvolgere pericolosamente il suo Paese in una sorta di remake storico di una violenza simbolica insopportabile. Forse ha anche ricordato, lei figlia della Ddr comunista, di quando i suoi concittadini cominciarono a segnare la fine del regime recandosi a migliaia sotto le mentite spoglie di turisti proprio a Budapest, dove si accamparono sotto l’ambasciata della Bundesrepublik per chiedere un visto d’ingresso verso la libertà. Ancora drammatici ricordi insomma. Ancora ciò che stava accadendo minacciava di mettere in gioco non tanto l’immagine dell’Europa quanto, per una singolare logica del contrappasso, quello della Germania. Era sul punto di tramutarsi in un boomerang contro Berlino e il suo governo: i politici di rango certe cose le capiscono in un attimo. Per istinto. E agiscono. Ecco allora che con un colpo a sorpresa la cancelliera ha deciso di aprire ai disperati le porte del suo Paese. Con un gesto che in qualche modo è la prosecuzione emblematica di quello compiuto nel dicembre del 1970 da Willy Brandt, quando s’inginocchiò a Varsavia davanti al memoriale delle vittime del ghetto. Con un gesto che per l’appunto chiude il cerchio: dopo il perdono chiesto allora agli ebrei, alle sue vittime per antonomasia, la Germania oggi addirittura apre le braccia ai reietti della terra, diviene lei una novella Sion per i nuovi perseguitati. Ottenendo peraltro con ciò un enorme guadagno politico: e anche questo, io credo, la cancelliera deve averlo subito intuito. D’un tratto, infatti, Il Paese che nell’ambito dell’Unione Europea è stato considerato da sempre come attento soprattutto al rigore finanziario e ai suoi interessi economici, il Paese che da sempre ha avuto il problema di trasferire la sua potenza produttiva in un rango politico corrispondente, che ha incontrato una costante difficoltà a far riconoscere ed accettare la propria leadership, è divenuto l’indiscussa guida del continente. E lo è divenuto grazie all’esibizione di un’alta ispirazione morale: capace di costringere l’Inghilterra di Cameron, così tradizionalmente gelosa della sua diversità, ad adeguarsi benché solo in parte, precipitosamente; d’indurre il patetico Hollande a immaginare di infliggere improbabilissimi sfracelli militari alla Siria di Assad pur di far vedere che la Francia ancora esiste. È difficile dire, però, se tutto questo segna davvero un nuovo inizio. È difficile prevedere, infatti, se Merkel e l’élite tedesca (una democrazia non è governata certo da una persona sola) saranno in grado di far seguire alla svolta clamorosa dell’altro giorno e al risultato ricavatone una conseguente linea d’azione eticamente orientata e al tempo stesso condivisa sul piano interno e su quello internazionale. Specialmente in ragione di un elemento decisivo e drammatico che domina l’intero scenario della migrazione in atto verso il nostro continente: la sua imprevedibilità quantitativa. Con quanti migranti deve prepararsi a fare i conti l’Europa? Decine di migliaia? Centinaia? Milioni? Nessuno può dirlo. Quello che possiamo dire con sicurezza, però, è che non esiste al mondo decisione politica riguardante un qualunque fenomeno, la quale possa essere indifferente all’entità quantitativa del fenomeno stesso, praticabile cioè qualunque sia l’entità di questo. Inevitabilmente, insomma, ogni decisione politica è, e sarà sempre, soggetta alla valutazione di tale circostanza: dal momento che a dispetto di ogni miglior proposito l’etica della convinzione continua ad essere cosa ben diversa dall’etica della responsabilità. Pag 25 Quel reclamo di due mamme gay: “La bimba è nera” di Elvira Serra Lascia perplessi la storia di Jennifer Cramblett e Amanda Zinkon, la coppia che ha fatto causa alla Midwest Sperm Bank dopo la nascita di una bellissima bambina «nera». Le due donne, bianche, si erano rivolte alla banca del seme chiedendo il materiale biologico di un uomo caucasico, biondo e con gli occhi azzurri, e si aspettavano, dunque, una figlia che gli somigliasse. Invece, per un errore umano (un numero trascritto male: donatore 380 afroamericano anziché 330 caucasico), Jennifer è stata fecondata con lo sperma sbagliato e tre anni fa è nata Peyton. Un arrivo comunque meraviglioso che, hanno detto le due mamme, ha cambiato in bene le loro vite. Jennifer non scambierebbe la sua

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piccolina per niente al mondo. Tuttavia questa nascita è stata, ed è, fonte di molto stress. Pare che i capelli di Peyton siano indomabili e per tagliarli adeguatamente la bambina debba essere portata da un parrucchiere di colore, nel quartiere nero di una cittadina piuttosto razzista. Inoltre, la famiglia di origine di Jennifer è «inconsciamente insensibile», già poco disponibile ad accettare l’omosessualità della figlia, figuriamoci la pelle caffellatte della nipote. Di qui, la decisione presa l’anno scorso di fare causa alla banca del seme chiedendo 50 mila dollari di danni per «nascita erronea». Ronald Sutter, il giudice della DuPage County, Illinois, ha appena deciso che la rivendicazione non si può applicare al caso specifico, perché la bambina è nata sana, solo del colore sbagliato. Jennifer e Amanda non si arrendono e torneranno in tribunale a dicembre, puntando, questa volta, sulla negligenza della banca (che nel frattempo ha risarcito la coppia con metà delle spese affrontate per l’inseminazione). Le due mamme hanno spiegato di voler giustizia per evitare che quanto successo a loro possa capitare ad altri. Eppure resta un dubbio: come è possibile che una coppia gay, immaginiamo abituata a vivere in prima persona la discriminazione, possa in qualche modo inciampare sul colore della pelle della propria bimba? IL GAZZETTINO Pag 1 Guerra in Siria, la Francia sfida con la Germania di Mario Del Pero Con un attento timing, i governi britannico e francese hanno fatto filtrare sulla stampa la notizia della loro intenzione di alzare la soglia dell’intervento contro l’Isis, attraverso una campagna di raid aerei estesa ora alla stessa Siria. La Francia, in particolare, pare prossima ad annunciare ufficialmente l’escalation. Come si spiega questa decisione e quali sono gli obiettivi che essa si propone e i suoi potenziali rischi? Agisce, in primo luogo, la pressione di un’opinione pubblica interna divisa tra la necessità di dare risposta alla crisi dei profughi siriani, l’ostilità diffusa verso politiche di accoglienza più ampie e flessibili e la paura nei confronti di un terrorismo interno che nella palestra siriana trova fonte costante di reclutamento e strumento di efficace addestramento. La via, o meglio la scorciatoia, militare si spera possa garantire molteplici risultati: alleggerire la catastrofe umanitaria, e il peso conseguente sull’Europa; rendere accettabile a una parte del mondo conservatore un aumento del numero di profughi accolti nel Paese; colpire un jihadismo interno che in Siria trova uno dei suoi serbatoi primari e che - stando ai rapporti dei servizi d’intelligence e ad alcune dichiarazioni dello stesso primo ministro Valls - ha di molto rafforzato la sua capacità di colpire. Le dinamiche intraeuropee offrono una spiegazione aggiuntiva. La Francia utilizza lo strumento di cui dispone (e che ancora in parte la distingue dentro la Ue), quello militare. Per intervenire in una crisi che ha ulteriormente accresciuto l’influenza della Germania nell’Unione. Si può leggere l’iniziativa francese, e la sua accorta pubblicizzazione, come complementare alla politica d’accoglienza di Angela Merkel ovvero si può enfatizzare la sua natura quasi competitiva. Resta il fatto che la Francia agisce anche per cercare di riequilibrare un asse franco-tedesco nel quale il peso di Parigi è andato progressivamente affievolendosi. La geopolitica mediorientale ci fornisce un terzo elemento utile a comprendere la decisione di Hollande. Con un Iran che si riavvia ad essere interlocutore, e talora addirittura partner, fondamentale per l’Europa e gli Stati Uniti e con una Russia sempre più attiva in Siria, si spera che intervenire voglia dire maturare un capitale politico da utilizzare nei successivi negoziati sul futuro del Paese e della regione. Infine, vi sono il quadro transatlantico e le relazioni con gli Stati Uniti. La Francia ha svolto un ruolo importante, e per certi aspetti sorprendente, sul dossier iraniano, assumendo una posizione di durezza negoziale che è tornata assai utile a Washington. Appare chiaro come questa linea così come quella assunta nei confronti dell’Isis, sia originata anche dalla volontà di costruire una sorte di asse con l’amministrazione Obama. La quale da tempo chiede ai propri alleati europei un impegno maggiore in Siria e in Iraq, condividendo costi, responsabilità, oneri e conseguenze di un’azione coordinata e multilaterale contro il radicalismo islamico. I rischi sono però elevatissimi e la lezione libica - con tutti i necessari distinguo e le rilevanti differenze - dovrebbe essere lì a ricordarli. L’Italia subì gravi conseguenze - come vediamo oggi sul fronte immigrati - dall’azione militare decisa da Cameron e Sarkozy, con l’avallo Usa. E oggi sarebbe intollerabile assistere a uno scellerato bis. Negli Usa dentro il fronte repubblicano c’è chi si è immediatamente spinto

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più in là, come il candidato alle primarie del 2016 Bruno Le Maire, chiedendo anche un intervento delle truppe di terre. L’utilizzo della sola arma aerea è infatti di dubbia efficacia. Il rischio di provocare un alto numero di vittime civili rimane elevatissimo. Inefficacia e danni collaterali tendono ad aumentare quando minori sono i mezzi e la sofisticatezza tecnologica di chi agisce, e proprio la Libia evidenziò ancora una volta il pesante gap esistente tra le forze aeree statunitensi e quelle francesi e britanniche. Se una cosa si dovrebbe aver appreso da questo quindicennio di guerra è che lo strumento militare, soprattutto quando poggia primariamente o esclusivamente sul bombardamento dal cielo, agisce da moltiplicatore di quel terrorismo che s’intende debellare: costituisce, cioè, un potente veicolo di reclutamento di un fenomeno che della guerra - e di questa guerra asimmetrica e “santa” - si alimenta, in Siria, Iraq e oggi anche nelle banlieues di tante città francesi. LA NUOVA Pag 1 Immigrazione, la svolta e le domande di Andrea Sarubbi Per certe cose ci vuole un po’ di coraggio, o almeno di abitudine. Tipo una manifestazione come quella di ieri a Stoccolma, con la gente in piazza per dire di sì all’accoglienza: da noi verrebbe etichettata come tafazzismo, come tentativo di regalare voti agli xenofobi, e certamente nessun partito di governo penserebbe di organizzarne una in campagna elettorale. L’idea che gira, infatti, è che l’immigrazione faccia perdere voti: un tema eticamente giusto, per carità, ma da trattare un po’ sottovoce, senza dare troppo nell’occhio, perché la pancia degli italiani non lo digerisce e perché le elezioni senza pancia non si vincono mai. Accade invece che, nel nostro stesso pianeta e addirittura nel nostro stesso continente, migliaia di cittadini decidano di rompere gli indugi della politica e facciano il primo passo, urlando il proprio benvenuto ad altre donne e altri uomini come loro, nati però da una parte meno fortunata del mondo. Tutti membri dell’associazionismo, tutti casa, parrocchia e diritti umani? Macché: gli striscioni di benvenuto ai rifugiati cominciano ad apparire anche nelle curve degli stadi, non certo il prototipo di quella società civile impegnata con cui la politica gioca spesso di sponda. Non è il solito appello dei professoroni, per dirla alla Renzi, o dei mangiatori di tartine ai convegni, ma un grido diffuso del cuore che interroga qualsiasi governante. Nel giro di pochi giorni - per dirla con l’accetta: dalla foto del piccolo Aylan, trovato morto sulla spiaggia di Bodrum - la narrazione è cambiata radicalmente. Forse un po’ troppo radicalmente, perché è difficile pensare che un’immagine possa modificare così tanto e così in fretta l’atteggiamento di un continente intero, ma l’Europa che i media raccontano oggi sembra la sorella buona di quella della settimana scorsa: striscioni negli stadi, piazze piene, cartelli di benvenuto e inni alla gioia, bambini siriani avvolti da bandiere dell’Unione che trascinano zaini del Real Madrid pieni di vestiti e giocattoli. Ma non sono gli stessi cittadini di cui i governi temono il giudizio, quando partecipano ai vertici sui migranti con il freno a mano tirato? E come mai l’accoglienza è improvvisamente diventata facile e indolore? La risposta facile, ma sbagliata, sarebbe quella di contrapporre l’Europa dei popoli (buona, generosa) da quella dei governi (arcigni, preoccupati solo dell’economia). La realtà, invece, è che i popoli non sono sempre così buoni e i governi non sempre così cattivi, e che le responsabilità sono diverse: l’accoglienza dal basso - così come ogni mobilitazione popolare dopo le tragedie, dalle alluvioni ai terremoti - è per sua natura emotiva, ma per quanto massiccia non ha mai rappresentato la soluzione definitiva ai problemi; spetta infatti alla politica il compito più difficile di occuparsi della seconda fase, quando l’emergenza non sarà più trovare un vestito o un pacco di biscotti, ma una sistemazione duratura e sostenibile per i disperati in fuga dalle guerre in attesa di tempi migliori. Sarebbe altrettanto superficiale, però, che la politica e i mezzi di comunicazione facessero oggi finta di niente, di fronte a questa solidarietà diffusa e per certi versi imprevista nel cuore dell’Europa: le vicende attuali, infatti, dimostrano chiaramente che gli elettori - di qualsiasi convinzione - sono prima di tutto donne e uomini dotati di un cuore, pronti a commuoversi (nel senso etimologico del termine, ossia a muoversi insieme) quando sentono le sofferenze dell’altro sulla propria pelle. Anche il cuore, come la pancia, risponde al pulsante dell’emotività, e non è dunque sufficiente per governare uno Stato o un continente, attività che richiede una notevole dose di testa. Ma un po’ più di

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attenzione al cuore dell’elettorato, e un po’ meno alla sua pancia, farebbero bene a molti leader europei e al dibattito politico in diversi Paesi, compreso il nostro. CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Che cosa ci insegna quella stazione di Claudio Magris Esistono dunque, ogni tanto, anche le belle notizie, non solo le sciagure che ci fanno aprire il giornale come se fosse quasi tutto un annuncio funebre di disastri, delitti individuali e collettivi, stragi terroriste, ecatombi di vittime senza nome per fame o epidemie, crudeli violenze nei confronti dei deboli d’ogni genere. Solo pochi giorni fa quello che è accaduto e sta accadendo a Monaco sarebbe stato impensabile e chi l’avesse ipotizzato o sperato sarebbe stato preso per un pazzoide fuori della realtà. Ma la realtà, con cui l’onestà esige di fare i conti senza illusioni, è più imprevedibile di quanto credano tanti falsi realisti, incapaci di pensare che le cose possano cambiare, come molti di noi erano incapaci di pensare che il muro di Berlino potesse presto cadere. Welcome to Munich , dicono i cartelli alla stazione di Monaco mentre dal treno scendono folle di fuggiaschi respinti da ogni parte, forse non ben consapevoli di dove esattamente si trovino, in buona parte ignoranti la lingua del Paese in cui posano il piede, coscienti soltanto di voler sopravvivere e non come bestie. Centinaia di persone, centinaia di cittadini tedeschi che si sono passati la parola, accolgono miserabili immigrati confusi e frastornati portando viveri, vestiti e coperte, giocattoli per i bambini, cantando l’ Inno alla gioia e inni europei scandendo «Germania», nome che si è abituati - con l’ottusità di chi pensa soltanto a un immutabile ieri - a sentire con diffidenza e avversione, mentre la cancelliera Merkel dichiara che la Germania è un Paese sano che conosce i propri doveri ed è in grado di assolverli. Ciò che è accaduto poche ore fa non cancella le colpe del passato né trasforma la Germania in un popolo di santi, ma dovrebbe far capire la stoltezza del diffuso pregiudizio antitedesco, così spesso ripetuto come una litania meccanica e stereotipata da chi in tal modo si dimostra non meno ignorante della folla senza nome che scende a Monaco da quei treni. Non è la prima prova di civiltà data dalla Germania negli ultimi decenni. Di recente una germanista come Maria Fancelli ricordava, contro tante indiscriminate e supponenti denigrazioni, come la Germania abbia ad esempio affrontato e risolto il difficilissimo problema della riunificazione tedesca - denso di retaggi di odio e violenza acuiti dallo scontro ideologico - con umanità ed efficienza, senza che quel benefico ma drammatico terremoto costasse una goccia di sangue e smentendo le profezie di crisi economiche e politiche che quel grandioso evento, un sommovimento in tutti i sensi, avrebbe, secondo i profeti di sventura - la sventura è la specialità dei profeti - provocato. Anche l’attenta severità propugnata dalla Germania in campo economico nei confronti delle crisi e difficoltà di vari Paesi europei è stata criticata con faciloneria sentimentale e ideologica, come se l’attenzione ai conti e ai costi non fosse il primo dovere morale di chi è responsabile di una collettività. L’identificazione della Germania con un arido egoismo economico, un’identificazione spesso interessata, stava indebolendo l’immagine e il prestigio della cancelliera Angela Merkel, che ora invece sbanca di colpo queste critiche recuperando un ruolo di eminente statista. Ovviamente la reale emozione per quanto è accaduto a Monaco non può degenerare a sua volta in vacuo ottimismo, colpevole perché irresponsabile. Le ondate dell’immigrazione sono un problema gravissimo, che potrebbe portare a un’inconciliabilità fra l’accoglienza e la solidarietà e il numero di immigrati, che potrebbe renderle impossibili. Gli impoetici costi e il loro calcolo, pacato e non eccitato, sono il primo dovere politico e morale, un’urgenza che si dimostra sempre più drammatica e che proprio per questo va affrontata con chiarezza, senza sentimentalismi e senza isterismi viscerali. È doveroso fare i conti con quanto costano o costeranno gli immigrati e quali effetti essi avranno, in un tempo di crisi, sul mercato del lavoro e sulle tasche dei cittadini, così come l’umana e toccante accoglienza a quei diseredati non può avere nulla in comune con una lacrimevole indulgenza nei confronti di eventuali reati che alcuni di essi possono commettere e che vanno puniti e repressi come i reati di chiunque altro. Ma perché non si fanno i conti con gli alti costi, ovvero con i furti dalle nostre tasche, che ad esempio ogni domenica vengono causati dalle bestiali violenze contro persone e cose dai cosiddetti tifosi e dal necessario e costoso impiego straordinario delle forze dell’ordine che quelle violenze esigono? In quella stazione di Monaco è esistita, speriamo

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non solo per alcune ore, l’Europa, della cui reale esistenza politica troppo spesso è lecito dubitare. All’incubo del passato di un’Europa tedesca sembra contrapporsi la realtà confortante di una Germania europea. Pag 1 La crescita ha bisogno dei governi di Lucrezia Reichlin Non basta la Bce Giovedì scorso il presidente della Bce Mario Draghi, al termine della riunione del Consiglio, ha spiegato ai giornalisti che la ripresa nell’area euro delude, l’inflazione rimane pericolosamente vicina allo zero e preoccupa la volatilità causata dal rallentamento dei Paesi emergenti (in particolare la Cina). Per questa ragione - ha detto Draghi - la Banca centrale europea non cambia per il momento politica. Anzi, si deduce dalla conferenza stampa, nel futuro sarà probabile un aumento del volume degli acquisti dei titoli di Stato e un prolungamento oltre il 2016 del cosiddetto Quantitative easing. Nonostante i timidi segni di ripresa, il messaggio che viene dalla Bce è molto cauto. Anche il messaggio del Fondo monetario internazionale (Fmi) ai Paesi del G20, riuniti ad Ankara in questi giorni, rivela preoccupazione. Il Fmi incita le Banche centrali, anche quelle dei Paesi la cui ripresa è più robusta (come Usa e Regno Unito) a continuare a mantenere i tassi di interesse a zero fino a che il quadro economico globale non si rischiari. Le Banche centrali sono chiamate a fare la loro parte, ma ancora una volta i governi dei Paesi coinvolti sembrano avere grandi difficoltà a coordinarsi in modo efficace e costruttivo su politiche in grado di sostenere la crescita globale. La storia di questi anni insegna che quando i governi, divisi da interessi contrapposti, non riescono a percorrere questa strada, le Banche centrali, per evitare il peggio, sono costrette a riempire il vuoto lasciato e a intraprendere azioni che vanno al di là della politica monetaria in senso stretto. Il paradosso è che nonostante dalla crisi del 2008 l’azione delle Banche centrali sia stata essenziale per evitare un collasso dell’economia ancora più devastante di quello che abbiamo vissuto, i cittadini (e si sentono in Italia queste voci sia a destra che a sinistra) non si fidano di istituzioni guidate da tecnocrati non eletti, così potenti da poter creare moneta dal niente. Le loro azioni sono in grado di salvare banche e Stati ma i cittadini non capiscono chi, alla fine, sarà chiamato a pagare i conti. Nell’area dell’euro questa contraddizione tra l’irrilevanza di governi che non riescono ad agire in modo coordinato e la Banca centrale che, come unica istituzione federale, diventa onnipotente e garante della sopravvivenza della moneta unica, si sente più che mai. Ma ha ragione chi diffida dell’enorme peso che hanno acquistato le Banche centrali nella politica economica mondiale e, in particolare, in Europa? Da un lato, se la Bce non continuasse a sostenere l’economia garantendo tassi bassi e indirettamente un tasso di cambio favorevole per gli esportatori, buone condizioni di liquidità per le banche e non scoraggiasse il crollo delle aspettative di inflazione, la nostra economia sarebbe probabilmente ancora in recessione. Dall’altro, però, c’è una certa saggezza nello scetticismo di molti. L’Europa, ma anche tutti i Paesi seduti intorno al tavolo del G20, può riprendere la strada della crescita in modo convincente solo se i governi saranno in grado di fare la loro parte. Se le Banche centrali possono mettere olio sulla ruota, non possono essere loro ad affrontare i grandi problemi della crescita e della distribuzione del reddito tra Paesi e, all’interno di ognuno di essi, tra differenti segmenti della società. Su questi temi devono essere i governi eletti a pronunciarsi e a formulare politiche percorribili. La verità è che non bisogna essere ingenerosi con i tecnocrati delle Banche centrali. Piuttosto dobbiamo riflettere sull’inadeguatezza di chi ci governa e ci rappresenta e, in particolare, sulla generale incapacità a dare maggiore contenuto alla nostra democrazia, a comunicare con i cittadini in modo più onesto e trasparente, ad ammettere le difficoltà oggettive e l’incertezza del contesto in cui si è chiamati a decidere ma senza rinunciare al coraggio di scegliere. È un tema nazionale ed europeo. Per l’Europa le difficoltà non sono finite. È essenziale che alla azione della Bce si affianchi anche una iniziativa volta ad aumentare gli strumenti di politica economica a livello europeo, in particolare nei campi della spesa pubblica e della tassazione. Nel contesto della crisi greca si sono sentite in estate voci incoraggianti, disposte ad andare avanti su questa strada. Mi auguro che simili attese non vadano deluse.

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Pag 33 L'esempio tedesco deve fare riflettere un'Italia ancora divisa di Maurizio Caprara Emergenze storiche È in corso un tardivo risveglio davanti alla realtà, adesso l’Italia dovrebbe fare il possibile per non ritrovarsi in ruoli secondari di fronte a un capitolo storico della politica internazionale nel quale avrebbe titoli per essere Paese di primo piano. A quattro anni da quando cominciò la guerra civile in Siria, intensificatasi via via con il coinvolgimento sotterraneo di altri Stati arabi, ci siamo accorti che tra quanti bussano alle porte dell’Europa in cerca di pace, pane e asilo sono tante le persone costrette a fuggire di casa dalle fiamme di combattimenti o da persecuzioni. Ci siamo resi conto che, in fondo, potremmo identificarci con quanti scappano da punti di un Maghreb e di un Medio Oriente resi instabili da rigurgiti di arretratezza, zampilli tossici scaturiti dopo proteste di piazza applaudite nel 2011 anche da noi. Nelle famiglie di parecchi italiani, il genitore o i nonni che durante la Seconda guerra mondiale furono sfollati non sono una rarità e il nostro popolo ha alle spalle gli esodi da Istria, Dalmazia e la cacciata degli italiani dalla Libia nel 1970. Durante questo sobbalzo di consapevolezza, una signora dipinta come arcigna e a tratti crudele, la cancelliera tedesca Angela Merkel, ci ha scavalcato in magnanimità: ha aperto le porte del suo Paese ai profughi siriani mentre noi ancora dedichiamo stanchi dibattiti e ore di talk show a un’immigrazione in modo improprio definita biblica, grossolanamente paragonata a invasioni come se molti di noi non avessero o avessero avuto una madre o un padre assistiti da badanti stranieri o figli allevati con l’aiuto di bambinaie provenienti da fuori d’Italia. Sia chiaro, nulla va compresso dei diritti dei nostri connazionali alle prese con i punti di impatto diretti dei flussi di profughi o migranti. Disagi autentici esistono ed è dovere dello Stato alleviarli e affrontarli, ma ammettiamo che l’Italia non è tutta Lampedusa o i paesi e i quartieri di Sud, Nord e Centro nei quali si ingorga una migrazione mal distribuita. Soprattutto nella scena pubblica, il senso delle proporzioni non ha abbondato nel descrivere e giudicare quanto accade davvero. In questo contesto, è il caso di tenere presenti le nostre responsabilità davanti a quanto accade nel Mediterraneo. Le postazioni di Muammar el Gheddafi in Libia nel 2011 le abbiamo bombardate anche noi italiani. Il tappo alle energie compresse dalle dittature, tra le quali molte pulsioni non erano buone, lo abbiamo fatto saltare anche noi, salvo disinteressarci poi degli effetti e di quanto si stava sprigionando. Le nuove crepe negli equilibri politici e in filtri di sorveglianza già dilatati hanno accresciuto gli spazi per flussi di profughi, oltre che di migranti, in partenza da Africa e Asia. Il Mediterraneo è un mare dal quale ricaviamo introiti per i turisti che vengono in Italia, è un bacino dal quale importiamo gas e petrolio, è talmente importante per gli assetti dell’Europa e del Medio Oriente che nel 2015 le forze armate di Cina e Russia, estranee alle sue sponde, vi hanno organizzato esercitazioni militari congiunte. La politica estera dell’Italia, che godette di una rendita di posizione quando eravamo una frontiera tra Est e Ovest nel mondo diviso in due blocchi, non può che imperniarsi in gran parte su tormenti e opportunità di questo mare. La storia talvolta riserva a ciascun Paese o a più Paesi chiamate a compiere scelte, ad assumere un ruolo. Parti sofferenti di Sud e Sudest del Mediterraneo, da anni, chiamano l’Europa a dare aiuto, favorire sicurezza, contribuire a mettere pace. Ci sono vari modi per farlo, vanno discussi e comportano rischi, non si tratta di dedicarsi a passeggiate o a veleggiate tranquille. Ma noi italiani dobbiamo decidere se non ci sentiamo pronti o adatti a rispondere alla chiamata o se lo siamo. Se vogliamo risultare avanguardie o passeggeri accodati in un auspicabile recupero di funzioni dell’Unione Europea in scenari cruciali. Se restiamo a guardare, altri potrebbero rispondere all’appello meglio di noi. E incamerarne più di noi i risultati. Come noi e peggio di noi, la Germania è un Paese uscito sconfitto dalla Seconda guerra mondiale. Da decenni, in campo internazionale ha mantenuto prudenza e si è tenuta defilata rispetto alle missioni militari. Oggi gioca la carta dell’apertura ai profughi. Sarebbe stato meglio se quella carta fosse uscita dal nostro mazzo. Sarebbe bene tenersi pronti alle prossime mani della partita. LA REPUBBLICA di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Un fiume vivo può liberare i migranti dai ghetti di Eugenio Scalfari

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Il tema dei migranti ha di fatto spostato profondamente tutte le priorità finora dominanti. Restano certamente del massimo rilievo i problemi della crescita economica, la crisi di tutti i Paesi emergenti a cominciare dalla Cina e dal Brasile, gli interventi delle Banche centrali per sostenere l'assetto sistemico delle forze produttive, dei debiti sovrani, del credito bancario. Queste realtà richiedono, anzi impongono attenzione e concreti interventi ma, nonostante la loro rilevanza, passano in seconda linea di fronte al tema dei migranti. Le realtà sistemiche riguardano interessi generali ma non valori etico-politici; il tema delle migrazioni di massa investe invece direttamente e drammaticamente i valori, che non sono ideali astratti, ma incidono anche sugli interessi collettivi e individuali; chiamano in causa il destino e la vita delle persone, delle famiglie, delle comunità, dei popoli. Interi popoli sono in movimento in tutto il pianeta e in modo particolare in Africa, nel vicino Oriente, nell'Asia centrale e nell'Asia del Pacifico. Fuggono da guerre, stragi, povertà; hanno come destinazione i Paesi e i continenti di antica opulenza, suscitando rari sentimenti di accoglienza e molto più frequentemente reazioni di chiusura e respingimento. Questo tema ha ripercussioni sociali, economiche, demografiche, politiche; durerà non meno di mezzo secolo, cambierà il pianeta, sconvolgerà le etnie vigenti, accrescerà ovunque le contraddizioni che sono il tratto distintivo della nostra specie; tenderà ad avvicinare le diverse religioni ma contemporaneamente ecciterà i fondamentalismi e i terrorismi che ne derivano.Esalterà le libertà individuali e le mortificherà con nuove e diffuse forme di schiavismo e traffico di persone; configurerà nuovi diritti e cancellerà i vecchi che ne costituiscono la base. Ieri sul nostro giornale il direttore Ezio Mauro ha descritto con eccezionale efficacia la storia di quegli individui che vengono ridotti a nudi corpi, marcati sulla pelle da numeri per distinguerli e perseguitarli con maggiore determinazione. Quelle operazioni di massa avvengono al centro dell'Europa, in nazioni che sessant'anni fa giacevano ancora in una servitù etnica e politica e si ribellarono proprio per recuperare quella libertà che oggi conculcano per difendersi dai migranti. Così facendo - scrive Mauro - quei popoli non si rendono conto di ridurre essi stessi a nudi corpi privi di valori; creano ghetti dove rinchiudere i nuovi arrivati, ma quel che resta a loro è un altro ghetto dove si auto-rinchiudono di propria iniziativa. Dove andranno i polacchi, gli ungheresi, gli slovacchi, se l'Occidente li isola per loro stessa scelta? Andranno verso la Russia? Escluso, è la storia che glielo impedisce. Ecco perché anche i loro Paesi rischiano di diventare nient'altro che ghetti. Ma spesso le contraddizioni sono anche positive. Questa, descritta da Mauro, porta con sé la riscoperta dei valori europei ed è stata la Germania della Merkel a farsene promotrice avendo con sé il grosso dell'opinione pubblica del suo Paese e del resto d'Europa: società civili, istituzioni, forze produttive, club sportivi, studenti, intellettuali. Nella conferenza di due giorni fa a Francoforte sulla situazione monetaria europea, un giornalista ha chiesto a Mario Draghi una parola che definisse che cosa pensava degli avvenimenti nell'Est europeo contro gli immigrati. La risposta è stata la parola "orripilato" scandita e ripetuta due volte. Così lo siamo tutti, con tre eccezioni, due delle quali sono purtroppo italiane: Salvini, Grillo, Le Pen. Ma è lecito prevedere che una parte dei loro attuali consensi populisti li abbandoneranno al momento del voto. L'aspetto positivo dello sconquasso in corso è il risveglio dell'Europa e dell'Occidente, non soltanto dei valori dei quali abbiamo già detto ma del suo massimo rafforzamento in termini di governo. L'Unione politica ed economica fin qui ha fatto passi avanti, limitatamente, per quanto riguarda l'economia, ma assai pochi nelle cessioni di sovranità politiche. Già il terrorismo dell'Is aveva sottolineato questa necessità, ma dopo un'esaltazione transitoria quel risveglio si è nuovamente appisolato. Ora però si tratta di migranti, di centinaia di migliaia di persone che dal Sud e dall'Est bussano alla porta d'Europa e i membri dell'Ue - in certi casi perfino dell'eurogruppo - che si chiudono nel loro ghetto senza vie di uscita. Si aggiunga a questa insensata diffidenza l'atteggiamento quasi analogo della Danimarca e quello decisamente inaccettabile della Gran Bretagna. Il premier inglese Cameron aveva promesso un conservatorismo moderato; invece sul tema delle immigrazioni è andato molto al di là. Di fatto ha chiuso la porta in faccia alla Germania, ha ribadito l'intangibilità del trattato di Dublino, ha ricordato che la Gran Bretagna accoglie più immigrati di qualunque altro Paese europeo e forse mondiale. Quella affermazione è vera e non è vera. Gran parte di quelli che oggi Cameron definisce immigrati sono cittadini britannici da quando sono nati nei loro Paesi di origine che non erano più colonie ma membri dei Commonwealth con tutti i diritti che quello "status" gli

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aveva concesso, tra i quali la cittadinanza. Alla fine del colonialismo molti di quelli (indiani soprattutto) si trasferirono in Gran Bretagna. Sono immigrati? No, non lo sono. Cameron in realtà si sta staccando dall'Unione mentre era sembrato che volesse semmai stringere di più i vincoli d'appartenenza europea. Sarebbe interessante sentire in proposito che cosa ne pensa Tony Blair. I voti, dice lui, si prendono al centro e anche a destra. Con questi bei risultati? Resta comunque il tema dei popoli migranti, che va molto al di là perfino della buona volontà della Merkel. Non si tratta purtroppo del milione di migranti in fuga dalla Siria, dalle coste greche e libiche, dalla Turchia, dalla Somalia, dal Sudan. E neppure si tratta di quei cinque milioni che già preparano la fuga dall'Africa subsahariana. In realtà, soltanto in quell'Africa, i potenziali migranti sono un popolo di cinquanta milioni e si va ben oltre se si aggiungono le popolazioni addensate in Pakistan, in Indonesia, nell'India meridionale, nelle Filippine. Le regole che l'Europa dovrà approvare nello stato attuale delle nostre istituzioni riguardano sostanzialmente l'emergenza. Ma quest'emergenza, anche se continuiamo a chiamarla così, durerà a dir poco mezzo secolo e se l'Europa non accelera il mutamento della sua governance, affonderà in un pantano. Prendo un esempio italiano. Il nostro presidente del Consiglio è pienamente d'accordo con la Merkel e con Hollande per quanto riguarda gli immigrati in fuga da paesi di guerra e di strage e sta facendo allestire in Italia presto e bene capacità di accoglienza anche maggiori di quelle attuali. Contemporaneamente però manda più o meno a quel paese la Commissione europea per quanto riguarda la politica fiscale italiana che la Commissione gli rimprovera (con molta moderazione). La cosa preoccupante è che anche il nostro ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, è in questo caso d'accordo con lui. In più si attende maggiore flessibilità dalla Commissione per attuare una politica di "deficit spending". Può darsi che quella politica sia ciò che è ora necessario. Personalmente ne dubito. La sola vera politica per rilanciare gli investimenti sarebbe nel concentrare tutte le risorse sul cuneo fiscale: una decontribuzione di massa, questa è la soluzione, non di abolire l'imposta sulla prima casa. Ma il punto vero è questo: dove si discute questo problema ed altri analoghi? In uno Stato federale? Allora non sarebbero né Renzi né Hollande né la Merkel a discutere, ma un Parlamento europeo, una Presidenza europea e un governo europeo, cioè la Commissione eletta dal Parlamento. Per l'intanto ci vogliono leggi che diano slancio agli investimenti pubblici e interventi di incentivo a quelli privati. Draghi il suo "bazooka" sulla liquidità, l'acquisto di titoli di Stato, le facilitazioni ai privati, li sta spingendo al massimo. Una parte cospicua del famoso tesoretto che fa diminuire il nostro deficit tra Pil e debito viene dagli interventi di Draghi ed anche il ministro dell'Economia lo ammette. Ma solo l'abbassamento del cuneo fiscale procurerebbe la creazione di nuovi posti di lavoro. Il resto sono chiacchiere. Quanto ai migranti, le voci che sono in grado di parlare al mondo sono due soltanto: quella del presidente Usa, che a questo punto è il capo della sola, unica potenza mondiale. Dunque Barack Obama. L'altro, perfino più di lui, è papa Francesco. Il solo modo non di abolire ma di moderare le migrazioni di interi popoli è di educarli civilmente e professionalmente sulle terre dalle quali vogliono andarsene. Bonificare eticamente quelle terre. Trasformare le loro plebi in popoli. Domenica scorsa scrissi che il mondo aveva bisogno di migliaia e migliaia di angeli custodi, cioè d'un volontariato capace di svolgere quella funzione educativa, protetto dalla sponsorizzazione delle grandi potenze. Il plurale è d'obbligo ma è metaforico: la grande potenza è una sola. Unita a quella d'un Papa come l'attuale, quegli angeli custodi sarebbero l'aiuto del quale il mondo ha bisogno in questo fine d'epoca che stiamo vivendo. In un messaggio inviato ieri alla Chiesa argentina, Francesco ha parlato d'un fiume di acqua viva che nel suo scorrere irrora uomini, terre, natura e vita. Eraclito aveva scritto "Tutto scorre". E questa è l'immagine con la quale chiudiamo queste considerazioni. AVVENIRE di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Per non dimenticare di Gianfranco Marcelli Un mausoleo al piccolo Aylan A Bodrum, a non molte centinaia di metri dal lembo di spiaggia dove è stato ritrovato il corpo del piccolo Aylan Kurdi, sorgeva alla metà del quarto secolo avanti Cristo una delle sette meraviglie del mondo antico. Era una tomba, la tomba del re-satrapo Mausolo,

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signore della Caria, che aveva voluto trasferire la sua capitale ad Alicarnasso, come si chiamava all’epoca l’attuale città turca di Bodrum. Di essa rimangono oggi poche rovine sul posto e qualche splendido elemento decorativo al British Museum di Londra. Dal suo costruttore e futuro ospite quel monumento prese il nome di mausoleo. E dopo di allora tutte le grandi costruzioni funerarie si sono chiamate così. Ma nessuna ha più raggiunto la magnificenza di quell’edificio, che agli occhi dei Greci e poi dei Romani rivaleggiava con le piramidi d’Egitto, il Colosso di Rodi e la biblioteca di Alessandria. Visto il moto universale di pietà che la vicenda del bambino curdo annegato ha destato in tante opinioni pubbliche, e considerati i meno diffusi ma non trascurabili segnali di resipiscenza indotti in tanti governanti soprattutto occidentali, sia lecito fantasticare su un’ipotesi di modesto risarcimento morale a favore della piccola vittima e dei suoi familiari. Forse, è davvero fantasioso pensare che la Turchia di Recep Tayyip Erdogan voglia destinare un pezzetto del suo territorio a una sorta di 'Memorial Aylan', un semplice e umile mausoleo che ne renda imperituro il sacrificio di un bimbo curdo. Tanto meno nel bel mezzo di quel litorale che presto tornerà a popolarsi di schiere turistiche in arrivo dai Paesi nordici o dalla Russia. Figurariamoci! Una stele funebre o qualcosa del genere proprio nel cuore della 'Portofino dell’Egeo', come i tour operator descrivono con buona dose di esagerazione il litorale di Bodrum. In effetti, è del tutto impensabile che si prenda in considerazione un’idea del genere. Rischierebbero di far ricordare al mondo intero che la tragedia della città curda di Kobane si deve soprattutto al via libera che il governo turco diede alle milizie islamiche del Daesh (o Is). Fu infatti Erdogan a lasciarle entrare in Siria dai suoi confini, forse per pagare il prezzo della precedente liberazione di 300 funzionari turchi presi in ostaggio dai tagliagole nerovestiti. È vero che in seguito i peshmerga sono riusciti a riconquistarla, ma al prezzo di una sua quasi totale distruzione. E da dove, se non da quelle rovine, fuggivano Aylan e la sua famiglia per cercare una nuova vita? Ma allora, visto che il papà del bambino ha rinunciato a cercare asilo in Europa e ha già sepolto i suoi cari nella città di origine, può essere un po’ meno irrealistico realizzare un piccolo e semplice mausoleo presso il luogo dove riposano le sue spoglie mortali. Niente di monumentale per carità, niente colonne né quadrighe di cavalli scalpitanti. Si potrebbe, al più, riprodurre in qualche modo il peluche bianco che compare nella foto di Aylan con il fratellino maggiore Galip, anche lui ingoiato dalle onde. Resterebbe solo il problema di chi dovrebbe pagare l’opera. E qui la fantasia non ha bisogno di correre a briglia sciolta. Un primo consistente contributo potrebbe venire dal governo canadese, i cui funzionari hanno negato il visto alla famiglia di Abdullah Kurdi, inducendolo alla tragica fuga attraverso l’Egeo. Ma quanto a code di paglia per gli errori e le omissioni commessi nella vicenda siriana, tante autorità nazionali, europee e non solo, ne hanno più che a sufficienza per giustificare un modesto esborso. Non basterebbe a tacitare tante coscienze. Tanto meno, come già ricordato, a risarcire un danno irreparabile fatto ad Aylan e alle innumerevoli altre vittime di Kobane e di tante località oggi assoggettate alla bandiera nera dell’Is. Ma se un giorno la comunità internazionale volesse darsi dei nuovi simboli di solidarietà universale, qualche nuova 'meraviglia' morale da lasciare ai posteri, quel minuscolo mausoleo a Kobane meriterebbe sicuramente di aprire la serie. Torna al sommario IL GAZZETTINO di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Una mossa da vera leader, ma il problema resta di Romano Prodi Per anni l'ondata di migrazioni verso l'Europa è stata ritenuta un problema dei singoli paesi. Anzi, nonostante il crescente numero dei migranti e dei morti nel Mediterraneo, un problema sostanzialmente italiano. La solidarietà poteva al massimo esprimersi in un aiuto finanziario o in una partecipazione al soccorso di naufraghi, che venivano successivamente scaricati sulle nostre coste. Bisognava che l'ondata prendesse anche altre strade, dilagando verso i paesi dell'Europa Orientale, perché la coscienza europea finalmente si svegliasse. Come ormai sempre più spesso avviene, la necessaria iniziativa politica è partita dalla Germania. La proposta della signora Merkel di una strategia europea per i rifugiati è stata opportuna, coraggiosa e, nello stesso tempo, generosa e intelligente. Opportuna perché ormai il problema stava esplodendo con esiti imprevedibili

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ma in ogni caso tragici. Coraggiosa perché la Cancelliera tedesca ha preso la difficile decisione di opporsi ad alcuni dei suoi più stretti alleati come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la stessa Gran Bretagna. Generosa perché ha enormemente moltiplicato il numero di coloro a cui è concesso il diritto d'asilo, accogliendo in Germania centinaia di migliaia di persone in pericolo di vita. Allo stesso tempo intelligente perché si tratta di un'ondata di rifugiati generalmente forniti di un alto livello di istruzione: essi possono essere quindi bene inseriti, attraverso un'attiva politica di accoglimento, nel sistema produttivo tedesco che ne ha sempre più bisogno. Questa decisione, che ha ridato finalmente dignità all'Europa e di cui siamo grati alla Cancelliera tedesca, ha naturalmente un'efficacia parziale e limitata nel tempo. Limitata nel tempo perché, se i conflitti del Medio Oriente dureranno ancora, i milioni di rifugiati in Turchia e negli altri paesi al confine della Siria, premeranno sulle frontiere europee in una tale quantità che sarà impossibile gestire. Questo problema può essere risolto (e lo può essere davvero) solo se le grandi potenze eserciteranno le dovute pressioni nei confronti della Turchia, dell'Arabia Saudita e dell'Iran perché pongano fine alla loro lotta per la supremazia nel mondo islamico, una lotta che sempre più destabilizza il Medio Oriente. Obiettivo possibile solo partendo da un necessario accordo fra Stati Uniti e Russia, accordo reso difficile principalmente dal caso ucraino. La soluzione della migrazione originata dalla guerra risolverebbe tuttavia solo una parte del problema perché appare sempre crescente (e illimitata nella sue prospettive temporali) la migrazione spinta dalla fame e dalla povertà. Una migrazione che arriva soprattutto dall'Africa, continente che supererà i due miliardi di abitanti entro la metà del secolo. Paesi come il Niger e il Mali raddoppieranno la loro popolazione in diciotto anni: essi non hanno alcuna credibile alternativa all'emigrazione, così come è in gran parte il caso del Senegal e dei duecento milioni di nigeriani. Di fronte alle dimensioni di questa tragica prospettiva non si sta preparando alcuna soluzione. Tutto il mondo dovrebbe essere interessato allo sviluppo africano ma il peso maggiore non può che cadere sulle spalle dell'Europa non solo per motivi storici ma perché è verso di noi che si dirige (e ancora più si dirigerà) questa marea umana. È chiaro che premessa per gestire civilmente questo enorme problema è la soluzione del dramma libico ma non pensiamo che, anche in caso di pacificazione di questo paese, la spinta migratoria si rallenti. Ormai si tratta di un'ondata della storia a cui si può porre ordine solo cambiando la storia, cioè con un impegno di cooperazione politica ed economica intenso e prolungato fra l'Unione Europea e i paesi africani. Sotto quest'aspetto l'Europa non ci sente e, in fondo, non ci ha mai sentito. Ho di questo un'esperienza personale. Mentre è stato possibile organizzare una politica di apertura e di accoglienza dei paesi in precedenza parte dell'Unione Sovietica (paesi che sembrano dimenticare quanto è stato fatto per loro) non si è mai trovato un accordo per una politica africana, nemmeno limitata ai paesi della sponda sud del mediterraneo. I leader del Nord Europa si sono sempre opposti alla creazione della Banca del Mediterraneo. Hanno ugualmente respinto il progetto di creare università comuni con professori e studenti europei ed africani. Non è stato nemmeno preso in esame un progetto (chiamato l'anello degli amici) che prevedeva la possibilità di accordi bilaterali e volontari fra l'Unione Europea e tutti i paesi con essa confinanti, dalla Bielorussia fino al Marocco, passando per l'Ucraina, la Siria, l'Egitto, Israele e la Libia. Il risultato di tutto questo è che di amici attorno a noi ne abbiamo sempre meno, soprattutto a Sud, proprio di fronte alle nostre coste. Occorre quindi un cambiamento radicale della politica europea. Sarà certo complesso e costoso ma costerà sempre meno della gestione di un flusso di migranti senza limiti e senza regole. I tragici avvenimenti di questi giorni ci hanno obbligato a prendere atto della necessità di gestire l'emergenza. Ora bisogna prepararci a costruire il futuro di un mondo ormai irresistibilmente globale. LA NUOVA di domenica 6 settembre 2015 Pag 1 Quei governi smemorati dell'est Europa di Gian Cesare Flesca Se è vero come è vero che l’emergenza migranti è riuscita a trasformare Angela Merkel da leader politico in una statista, è vero anche la crisi ha messo in risalto tutte le rughe e le pieghe di un’Unione europea afflitta da governanti populisti, preoccupati soltanto di non perdere voti alle prossime elezioni per non aver tenuto profughi e richiedenti asilo abbastanza lontani dalle proprie barriere nazionali. Primo fra tutti il britannico Cameron,

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che dopo aver minacciato addirittura di abbandonare Schengen, si è commosso alla vista del povero bimbo morto in mare dicendo anche il suo conservatorismo ha un volto umano. Ma che volto hanno personaggi come il premier ungherese Victor Orbàn, che non ha esitato a trattare questo popolo dolente con uno stile a dir poco fascista, costringendo tutti, donne e bambini inclusi ,a furibondi scontri alla frontiera meridionale e a surreali attese nelle stazioni ferroviarie tornate a essere, ancora una volta in Europa, simbolo di persecuzione e di ignavia? E il premier cèco Bohuslav Sobotka come ha potuto concepire di marchiare sul polso degli esseri umani, ignorando quale tragedia evochi quel gesto? Per non dire poi dei governanti slovacchi fra i quali spicca Robert Fico, che ieri si è incontrato col suo omologo di Praga ,normalmente detestato, per affermare d’amore e d’accordo che i loro paesi non accetteranno quote di migranti. Pagheranno, perché l’Europa minaccia sanzioni per chi non rispetterà le sue decisioni in materia, ormai abbastanza chiare. Soldi benedetti, pensano a Praga e a Bratislava, pur di non trovarsi in casa contingenti di “brutti,sporchi e cattivi”. Non parliamo poi della Polonia.Il suo presidente Andrzej Duda è stato eletto capo dello Stato per volontà della parte più retriva della popolazione e della Chiesa polacca, che spesso si identifica in un nazionalismo clericale. Fra poco ci saranno le elezioni politiche. Inevitabile quindi che anche Varsavia rifugga dalle quote e accetti piuttosto di pagare la sanzione che verrà comminata dall’UE: ma chi dà a questi paesi tanti soldi? L’Europa stessa, che li ha accolti molto generosamente impinguando le loro casse, senza chiedere come contropartita l’adozione dell’euro. Grazie alla buona volontà e all’ingegno dei loro cittadini, queste realtà si sono trasformate, almeno in apparenza, nel segno di una modernizzazione e di una maggior efficacia del sistema. Guai però a ricordare a un abitante di Budapest l’intervento militare russo del 1956, cui fece seguito la fuga di 250 mila persone accolte ovunque nel mondo libero. E guai se accusi un polacco di scarsa sensibilità cristiana o se gli rammenti che dal suo paese, fra il 1980 e il 1989, fuggirono quasi due milioni di profughi i quali, grazie anche al Papa polacco, si sono integrati nei luoghi della loro diaspora. La fetta d’Europa che tutti costoro rappresentano, con l’aggiunta dei paesi baltici, di Bulgaria e Romania, ha però mostrato scarsa riconoscenza all’Europa. Più che a Bruxelles, la loro politica estera ha guardato a Washington, condividendo anche oltre le richieste all’isolamento dell’odiata Russia dopo il blitz in Ucraina e alle crescenti sanzioni che hanno colpito sì Mosca, ma per noi si sono rivelate spesso un boomerang. E’ determinato almeno in parte al loro timore (peraltro comprensibile) il riarmo della Nato e l’invio da parte di Obama di soldati e mezzi blindati nei loro territori, per scoraggiare ogni ambizione di Putin. Tutto questo è vero, ma appare secondario rispetto all’imponenza del fenomeno migratorio cui stiamo assistendo e che, stando ai calcoli del Pentagono, dovrà durare ancora per molti anni. Tanti quanto sono durate le guerre dei Bush , che hanno ridotto alla condizione di rifugiati politici anche gli iracheni e gli afghani. Frau Merkel accetterà sul suo territorio anche loro,o si limiterà ai martiri di Damasco, sia detto per inciso, i più assimilabili alla nostra cultura? Al vertice Onu di fine settembre gli europei dovrebbero richiamare gli Stati Uniti alle loro responsabilità in una tragedia che è nata per colpa dell’Occidente. Pag 1 Grillo e le 5 Stelle del Sud di Fabio Bordignon Del recente, significativo “ritorno” del Movimento 5 stelle, c’è un aspetto passato quasi inosservato. Esso riguarda la geografia del partito di Grillo, che descrive un progressivo spostamento verso Sud. Una dinamica che rende ancora più evidente il suo profilo di “imprenditore della crisi”. E una sorta di divisione del lavoro con la Lega, nel ruolo di partito della protesta. La mappatura del voto 5S racconta molto delle trasformazioni vissute in un arco temporale relativamente breve. Chi ha seguito il Movimento fin dalla fase nascente sa come i primi insediamenti territoriali si siano formati nelle regioni del Centro-Nord. In particolare, nella “rossa” Emilia-Romagna. Al momento della grande espansione elettorale, il M5S esonda: è uno tsunami che sommerge la penisola. Già alle Politiche 2013, è dappertutto. Anzi, ottiene risultati leggermente più elevati nel Centro-Sud e nelle Isole. Le cinque province con le percentuali più alte sono tutte province siciliane. Del resto, nel precedente autunno Grillo aveva conquistato l’isola, attraversando a nuoto lo Stretto di Messina. La fase successiva, con i suoi alti e bassi elettorali, vede proseguire questo riposizionamento territoriale. Alle Europee 2014, le

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perdite del Movimento sono più contenute proprio nel Mezzogiorno. Dal Lazio (compreso) in giù, il risultato si mantiene sopra il 25%. A Nord di Roma, scende sotto il 20%. É un trend che si conferma, e si accentua, negli ultimi mesi. Il M5S è tornato a crescere, riportandosi sui livelli del 2013. Ancora una volta, a fare da traino sono le regioni meridionali, dove sembra poter sfondare il tetto del 30%. Le stessa tornata amministrativa della primavera, del resto, ha fornito chiare indicazioni in questo senso. Cinque nuovi municipi conquistati, quattro dei quali nel Mezzogiorno: Quarto, in Campania, Porto Torres, in Sardegna, Augusta e Gela, in Sicilia. Non possiamo (ancora) parlare di una Lega Sud, nel caso di una formazione che conserva un impianto nazionale. Ma questa dinamica é complementare allo sfondamento della Lega nel Nord e nel Centro. Il che delinea una precisa articolazione territoriale della protesta e delle spinte anti-sistema. Con diversi interpreti in diverse aree. Lo meridionalizzazione del M5S, peraltro, investe anche la dimensione organizzativa. Basti pensare alla composizione del Direttorio: cinque nuovi leader, tutti provenienti dalle regioni del Sud. Addirittura quattro dalla Campania. Come Luigi di Maio, la più luminosa tra le cinque nuove stelle. Stelle del Sud, come i cinque astri che compongono la nota Croce. Nuovi riferimenti, nel cielo della politica: aiutano a tracciare il percorso di una formazione che vede ridimensionarsi alcuni dei tratti originari. Così come l’asse Milano-Genova: la diarchia Grillo-Casaleggio, che per la prima volta accetta di mettere in discussione il dogma della non-organizzazione, della non-gerarchia, della non-leadership. La “croce” del Sud evoca, al contempo, i travagli di un’area che - come testimonia l’ultimo rapporto Svimez - mantiene un marcato gap competitivo. E fatica ad intercettare i timidi segnali di ripresa. Il Sud «è sparito» dalla mappa dell’Italia, come titola questa settimana L’Espresso. Per ritrovarlo, dobbiamo seguire le 5 stelle. In fondo, a fare da incubatore al Movimento è la grande crisi - economica, politica, dello Stato - che ha colpito l’Italia a partire dal 2008. Il M5S ha interpretato la frattura tra la parte “alta” e la parte “bassa” della società. Ha dato voce ai left behind. Insieme a quei settori che dovrebbero rappresentare la componente più dinamica del Paese: i giovani, le piccole imprese, le persone di istruzione medio alta, le cui aspettative di futuro e ascesa sociale sono state progressivamente frustrate. La crisi li ha re-spinti verso il basso. Come la parte bassa di una cartina dell’Italia ancora così diseguale. Come la parte bassa di una Europa sempre più spaccata: tra un Sud (in)sofferente e un Nord germanocentrico. Navigando verso Sud, seguendo le 5 stelle: ritroviamo il principale punto di forza del Movimento. Ma anche, forse, il suo più evidente problema: dover continuare a scommettere sulla grande crisi. CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 L'amara sorpresa dell'Est di Gian Antonio Stella Sotto le macerie del muro di Berlino, un quarto di secolo fa, non restarono sepolti solo il comunismo, i suoi errori, i suoi crimini. Il crollo si tirò dietro, purtroppo, molto di più. L’idea stessa, in larghe sacche dell’Europa orientale, della solidarietà. Quella che va oltre l’egoismo di bottega, di contrada, di paesotto. Ieri, mentre si allungava la marcia dei profughi verso Vienna, la Repubblica ceca e la Slovacchia hanno respinto come inaccettabili le «quote» da ripartire fra tutti i Paesi Ue, fornendo l’ennesima conferma: i Paesi post-comunisti, recuperati dalla polvere i vecchi miti e riti nazionalisti con l’aggiunta di derive xenofobe, non hanno intenzione di farsi carico del loro pezzo di un problema epocale che va oltre eventuali responsabilità, pavidità e inettitudini e di questo o quel governo. Stiamo vivendo una tragedia continentale e planetaria? Ci pensino gli altri. Unica risposta, spesso, quella del manganello imparata sotto i vecchi regimi. La barriera di filo spinato di 160 chilometri, in parte già costruita, decisa dalla Bulgaria lungo il confine turco. Il progetto d’un muro di quattro metri lungo 175 chilometri sulla frontiera dell’Ungheria con la Serbia. La marchiatura col pennarello (così simile alle procedure nei lager di Himmler) di ogni immigrato finito sotto mano ai poliziotti cechi. Dice l’Alto Commissariato per i rifugiati che le persone costrette a fuggire dalle loro case, nel mondo, è salito nel 2014 a 59,5 milioni: ventidue milioni in più rispetto a dieci anni fa. Quasi 14 milioni a causa di guerre e persecuzioni. Il premier ungherese Viktor Orbán, tra gli applausi dei nostalgici delle Croci Frecciate filonaziste, invita i profughi: «Restate in Turchia!». Eppure sa che la Turchia ospita già oggi due milioni di rifugiati. Nella

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stragrande maggioranza in fuga dai tagliagole dell’Isis. Son quattro milioni i siriani costretti a cercare scampo nei Paesi vicini. Quelli che premono verso l’Europa, puntando su Germania e Svezia, 300 mila. Più o meno quanti gli ungheresi che scapparono in Europa dopo la repressione del 1956. Un sesto dei polacchi che nel ventennio a cavallo della caduta del muro (ricordate le polemiche francesi sull’«idraulico polacco»?) si sparpagliarono per il continente contando sulla solidarietà europea. Eppure, è un dolore dirlo, pare che un po’ tutti quei Paesi che hanno contato sulla simpatia, l’amicizia, l’appoggio della «nostra» Europa, siano percorsi da tempo da rigurgiti xenofobi più gravi che altrove. Che poi pesano maledettamente sulle scelte dei governi, anche quando non sono di estrema destra come a Budapest. È come se, spazzata via la parola d’ordine del «siamo tutti uguali», tradotta burocraticamente in un delirio oppressivo, fosse passata l’idea che non solo non siamo uguali, ma c’è chi è superiore e chi inferiore. Vale per la Russia che, ha scritto tempo fa il Sunday Times, «è diventata un luogo mortalmente pericoloso per gli immigrati dalla pelle scura». Decine e decine di omicidi, almeno 140 gruppi xenofobi censiti, esecuzioni di avvocati e giudici, campagne terrificanti di odio online verso i «ciorni» (i «neri» uzbeki, tagiki, kirghisi) calate solo di recente perché l’odio si è rovesciato soprattutto verso gli ucraini. Vale per la Polonia, indicata da chi monitora il razzismo come «il maggior produttore europeo di oggetti storici e imitazioni del periodo nazista» anche se «la maggior parte dei clienti arriva dalla Germania dell’Est», quella per decenni sotto il tallone della Stasi. E vale ancora per la Bulgaria, dove qualche anno fa il leader del partito Ataka!, Volen Siderov, uno che ha scritto un libro contro gli ebrei rei di una «cospirazione contro i bulgari ortodossi», è riuscito addirittura ad arrivare al ballottaggio delle Presidenziali. O per la Boemia, dove i razzisti del Děelnická strana (Ds, partito operaio), sciolti dalla Corte Suprema, hanno semplicemente cambiato nome: Dsss, con l’aggiunta beffarda di quelle due «ss» che richiamano le Schutzstaffel naziste. Ed ecco nazionalisti contrapposti che in nome della Grande Romania, la Grande Ungheria, la Grande Bulgaria odiano le rispettive minoranze di confine ma tutti insieme odiano quelli che vengono da «fuori». «Dimmi bel giovane / onesto e biondo / dimmi la patria / tua qual è? / Adoro il popolo / la mia patria è mondo / il pensier libero / è la mia fé», diceva una canzone del pisano Francesco Bertelli del 1871. E non erano solo i socialisti e gli internazionalisti a pensarlo. I confini, per milioni di emigranti italiani, tedeschi, slavi, ungheresi, sono stati considerati a lungo semplici e odiosi ostacoli burocratici che era legittimo superare. Anche a dispetto (e lasciamo stare le aggressioni coloniali in casa altrui...) dei Paesi d’accoglienza. Tutto cambiato. Tutto rimosso. Sia chiaro: l’Europa non può farsi carico di tutti. E non può andare avanti tamponando le emergenze giorno dopo giorno. La morte di Aylan, il bimbo annegato con la mamma e il fratellino ci ricorda che se noi avessimo sul serio «aiutato a casa loro» i siriani, come Estonia, Lituania e Lettonia han ripetuto due mesi fa rifiutando di accogliere 700 profughi («Possiamo accettarne fra 50 e 150»), la famigliola di Abdullah Kurdi non sarebbe venuta via da Kobane per andare incontro alla strage. Vogliamo entrare in guerra in Siria, in Iraq, in Libia? La sola ipotesi ferma il fiato. Ma sarebbe, almeno, una scelta spaventosamente seria. Buttarla in cagnara per motivi di bottega elettorale, da noi e altrove, non lo è. Pag 1 La forza della lentezza nel cuore dell'Europa di Pierluigi Battista La marcia ha un impatto simbolico fortissimo, più di un banale corteo, o del solito comizio. I reietti, i dannati della terra, i profughi in fuga da fanatici e tiranni e che non vogliono rinunciare a percorrere quei 250 km che li separano dalla libertà, scendono dai treni e si mettono in marcia da Budapest. Usano la forza lenta e inesorabile delle loro gambe per trasmettere un messaggio travolgente. La marcia resta sempre qualcosa di memorabile. Questa che si snoda con le lacrime agli occhi di chi non si piega all’ultimo diktat, ancora di più. Le bandiera dell’Europa sventolata con un pathos che nessun europeo ha mai provato ci commuove e ci emoziona. Un popolo in marcia. Sembra il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Impossibile girarsi dall’altra parte e far finta di niente. Una marcia può servire una buona causa o può servire finalità abiette. Può dare forza a un sogno, come quella che invase Washington sotto la guida di Martin Luther King contro lo scandalo della segregazione razziale («I have a dream»). O può essere uno strumento formidabile di ricatto e di pressione, come quella dell’ottobre del ’22

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condotta dalle camicie nere e che terrorizzò il Re e il fragile palazzo romano. Questa marcia dà invece una forza irresistibile a chi usa l’unica risorsa di cui dispone, la disperata energia delle proprie gambe, per raggiungere una meta, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’incubo atroce della guerra e della persecuzione, vittime incolpevoli di uno scontro immane tra chi non tiene in nessun conto il valore della vita, e figurarsi della libertà. Una determinazione possente di chi si mette in marcia e non vuole accettare l’ultima sconfitta dopo aver lasciato per terra e per mare i bambini che non ce l’hanno fatta, le persone tradite e maltrattate da mercanti d’umanità senza scrupoli. Sono lì, a un po’ di decine di chilometri da un traguardo sognato, e qualcuno può pensare che si vogliano fermare proprio adesso, che non sono capaci di portare a compimento la loro anabasi, di non saper replicare l’epopea dei contadini di Faulkner e di Steinbeck, la marcia verso l’Ovest di chi sui miseri carri non aveva nient’altro che la propria miseria da trascinare per ricominciare daccapo, per raggiungere una meta? La forza di una marcia come questa è più poderosa di un treno che non vuole partire dalla stazione di Budapest, dove hanno soppresso i convogli «destinazione Ovest». La marcia è faticosa, massacrante, selettiva. Ma è una lezione che si imprime nella memoria. Che mette a tacere gli indifferenti e i paurosi. Che ci interroga sulla nostra passività, sulla nostra acquiescenza di fronte alle atrocità compiute non lontano da qui e il cui peso, anche militare ed economico, siamo incapaci di sostenere. Senza capire da cosa scappano questi nostri fratelli in marcia, cosa chiedono, cosa non possono più sopportare mentre in Europa, la cui bandiera viene sventolata dai profughi, domina l’immobilismo e l’ipocrisia. Ecco il messaggio di chi marcia, la forza dei loro passi. E la vergogna di chi è costretto, finalmente, a guardare in faccia la realtà. Pag 1 Quel tifo bipartisan in Aula per le elezioni nel 2018 di Francesco Verderami Il Parlamento è come un’unica curva da stadio dove si fa il tifo per un solo risultato: le elezioni nel 2018. Per quanto sventolino bandiere diverse e abbiano obiettivi diversi, tutti sono impegnati nell’intrapresa sotto l’ombrello protettivo delle riforme. Basta vedere il rapporto tra Renzi e Berlusconi, mai così distanti nel linguaggio eppure mai così vicini negli interessi politici. Perché se il segretario del Pd vuole prolungare la sua permanenza a palazzo Chigi per vincere la sfida di governo, il leader di Forza Italia - che oggi sarebbe ineleggibile - non ha alcun motivo di sabotarlo: da venti anni lavora solo per se stesso, figurarsi se ora si mette al servizio di Salvini. Anche Bersani sta dentro questa paradossale e granitica alleanza, se - come dice il suo fedelissimo Gotor - «le riforme che erano state il pretesto per far iniziare la legislatura sono diventate ora il pretesto per farla durare». Il braccio di ferro al Senato sembrerebbe dunque solo un gioco di Palazzo, se non fosse che il voto sugli equilibri costituzionali sarà determinante per gli assetti politici. E lo sarà ancor di più il successivo referendum, che di fatto s’incaricherà di definire le alleanze tra partiti e dentro i partiti. Perciò sembra inevitabile un accordo nel Pd, perché se la minoranza dovesse distinguersi in Parlamento, sarebbe poi chiamata a comportarsi allo stesso modo al referendum: a quel punto - dinnanzi a una diversa visione dello Stato - la scissione diverrebbe inevitabile. Come sembra inevitabile il voto contrario di Forza Italia, visto che Berlusconi tiene all’asse con la Lega, sebbene il centrista Lupi si auguri ancora che «altre forze di centrodestra convergano sulle riforme per ricostruire un fronte moderato». Quello sarà il bivio, perciò ieri Alfano ha rimarcato la valenza dell’appuntamento, posticipato all’ottobre del prossimo anno. È vero che Renzi avrebbe preferito arrivarci in primavera, ma il ritardo è come un’assicurazione sulla vita per deputati e senatori, perché garantisce sulla durata della legislatura. Tutto insomma si tiene, mentre tutti si interrogano se il premier aprirà o meno alle modifiche sull’Italicum. Secondo il segretario dell’Udc Cesa, «il primo a volerle è proprio il signor Renzi», che in attesa del voto al Senato tiene appesi alleati e avversari: sul rimpasto di governo come sulle nomine nelle commissioni parlamentari, se ne riparlerà a ottobre. Tattica che ricorda Berlusconi. Sia chiaro, il premier è preoccupato per un eventuale passo falso a palazzo Madama sulle riforme, visto il mezzo milione di emendamenti presentato. Però fa mostra di essere «occupato» - così dice di sé - dalle questioni europee: «Ho l’ambizione di far cambiare certe idee a Bruxelles», tanto sull’immigrazione quanto sull’economia. E se sul primo tema la Merkel è «finalmente arrivata sulle posizioni dell’Italia», sul secondo fa affidamento sui dati

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dell’Istat che annunciano una crescita superiore alle stime, e confida che la stagione estiva abbia inciso sulla domanda interna grazie ai buoni risultati del turismo. Così Renzi vorrebbe presentarsi a Bruxelles per ottenere il primo via libera a quel piano triennale che considera «ambizioso» e che parte con il taglio delle tasse sulla casa. Era scontato l’appoggio di Alfano, «l’abolizione di Imu e Tasi così come una politica a sostegno delle famiglie sono cose di centrodestra». Meno scontato è stato il modo in cui il premier ha incontrato a palazzo Chigi la delegazione di Ncd, e la pubblicità che è stata data al vertice: in altri tempi Renzi avrebbe avuto un attacco di orticaria, stavolta ha offerto un riconoscimento politico agli alleati. Si vedrà se i centristi saranno con lui alle elezioni, oggi sono fondamentali per bilanciare la minoranza interna, alla quale non manca mai di dedicare un pensierino: «Per mesi mi hanno attaccato sul tesseramento, dicendo che era crollato perché avevo provocato la disaffezione dei militanti. E l’altra sera questi geni l’hanno ripetuto alla festa dell’Unità proprio quando sono stati resi noti i dati del due per mille: 540 mila persone hanno versato al Pd 5,5 milioni di euro. Ne avevamo previsti a bilancio solo 200 mila. Magari i nostri non si tesserano ma ci danno i soldi». Pag 5 La grande spaccatura di Luigi Offeddu La mappa della nuova frattura europea Il popolo europeo più ospitale verso gli immigrati non vive nell’Unione Europea: in Islanda, 120mila abitanti, Paese cui Bruxelles domanda di accettare 50 richiedenti asilo, già 12mila persone hanno chiesto al governo di poter ospitare personalmente i profughi siriani, offrendo le loro case. Di queste contraddizioni è fatto il dramma di 28 governi che si sono autobattezzati Unione, ma che ora sono chiamati a dimostrare di esserlo davvero: si potrebbe compilare un elenco lungo come il Regolamento di Dublino, il terzo, rimodellato appena qualche settimana fa e già pronto al suo funerale guidato dai Paesi più importanti. Quest’ultima è già una bella contraddizione. Ma poi c’è il resto: tutti chiedono oggi con urgenza un sacrosanto diritto d’asilo europeo, ma è dal 1999 che il Ceas («Sistema di asilo comune europeo») sta sulle scrivanie dei leader Ue, in attesa di diventare un fatto compiuto. Sedici anni: nel frattempo, 18 Paesi sono stati messi sotto inchiesta dalla Commissione Europea con l’accusa di aver violato, appunto, le regole del diritto d’asilo. E si è festeggiato - il 14 giugno 2015 - il trentesimo compleanno di Schengen, che la stessa Angela Merkel vede in pericolo di morte. Dal 2014 al 2015, i migranti ai confini dell’Ue si sono triplicati. E mai il caleidoscopio delle regole è stato così frammentato. A cominciare dalle quote obbligatorie di migranti, che la Commissione Europea sta per riproporre su scala molto più vasta di prima. Paesi come la Francia, la Germania e l’Italia, le accettano e le propongono per primi. Altri, come i 4 del «gruppo di Visegrad» - Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria - le hanno appena dichiarate «inaccettabili». Praga, Bratislava e Budapest, la capitale che ha eretto un muro con la Serbia, sono le fortezze anti migranti della Ue. Anche Sofia, cioé la Bulgaria, che ha foderato di fili spinati il suo confine con la Turchia. Così i Paesi baltici: la Lettonia offre permessi di residenza di 5 anni ma a chi investe almeno 150mila euro in una società e ne paga 25 mila per un visto. Quanto ai profughi dai Paesi in guerra, ha promesso di accoglierne 250 nei prossimi 2 anni, e vi sono state subito proteste di piazza. Ma anche fra le «fortezze», non passa giorno senza uno scarto: poche ore fa, Bratislava e Praga - che aveva numerato 2000 profughi con sgorbi di pennarello - hanno annunciato l’apertura di un «corridoio ferroviario di solidarietà» verso la Germania per i profughi siriani. Poi ci sono i «duri» come la Polonia, l’Austria, il Regno Unito. Nel 2014 la Polonia ha ricevuto 2.318 richieste d’asilo, per il 34% da profughi ucraini, e ne ha accolto solo 6, più 11 «permessi limitati»: gli altri richiedenti sono in attesa. L’Austria ha dimostrato al Brennero, con i controlli sui treni poi interrotti, come interpreta Schengen. Il Regno Unito, fuori da Schengen, ha annunciato ieri sera che accoglierà «migliaia di profughi siriani». Ma prima di allora, ha minacciato di respingere anche i cittadini Ue senza contratto di lavoro. A metà strada, in una specie di limbo, stanno Grecia e Spagna. Paesi di prima linea, hanno accolto centinaia di migliaia di migranti, e in via di principio non considerano le norme Ue una carta da parati: ma anche Atene ha eretto il suo muro con la Turchia, e anche a Madrid lo ha fatto nelle sue enclave africane di Ceuta e Melilla. Poi c’è la Francia: ora schierata con Berlino nell’apertura ai profughi, ma prima guardiana dei disperati arroccati sulle scogliere di Ventimiglia, e di quelli di Calais. Ha la porta

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socchiusa: ma fino al marzo 2014 non accoglieva i profughi ucraini perché classificava la loro terra come «Paese sicuro». Al Nord, i «moderati» scandinavi: come la Svezia, che ha in proporzione più richieste d’asilo della Germania: 8 ogni mille abitanti. O l’Olanda, già apertissima, che però adesso fornirà tetto e cibo ai profughi in attesa di permesso solo in 5 città. Le vere «porte aperte», nei fatti, restano quelle di Germania e Italia. Anche se Berlino, nelle ore scorse, ha chiesto più controlli sui migranti «economici» di Albania o Macedonia, i nuovi candidati orientali alla Ue. Non trova mai pace, il caleidoscopio sotto assedio delle regole europee. Pag 29 Solo una rivoluzione legale può sconfiggere il caporalato di Goffredo Buccini Questione meridionale Si scrive «paga di piazza», si legge (ancora) questione meridionale. Ci racconta ben più di cento trattati di sociologia la storia di Paola Clemente, morta di fatica nelle campagne di Andria, in Puglia, per guadagnare 27 euro al giorno (sì, ventisette). Ci spiega come in Italia più si scenda a Sud e più s’abbassi la retribuzione reale percepita dai più deboli, le donne e gli immigrati, diventando infine sottosalario, paga di piazza, appunto, stabilita dai caporali e applicata, ad esempio nelle campagne pugliesi, a otto rapporti di lavoro su dieci. Ci dice molto quella busta paga, pubblicata ieri dal Corriere: Paola, addetta all’acinellatura dell’uva (lo scarto degli acini più piccoli per migliorare il grappolo), era costretta a subire un carico di trattenute che finiva per portare quasi tutto il suo stipendio in altre tasche. Quali? La procura di Trani accenderà infine un faro sul groviglio di agenzie interinali e mediatori travestiti, distinguendo pesi e responsabilità; ma, dietro questa come dietro altre mille storie simili e mai raccontate, sappiamo da sempre cosa ci sia: l’illegalità diffusa al Sud come una tabe, l’assenza di controlli che corrisponde anche all’assenza di denunce e, infine, alla mancanza di speranza che qualcosa possa cambiare sul serio. Gaetano Salvemini (che era pugliese di Molfetta) sapeva che è la speranza a tenerci vivi: «Bisogna essere santi per vivere tutta una vita di sacrifici disperati. E anche il santo, alla fine, abbandona la vita del suo tempo e se ne va nel deserto». Beh, sotto il Garigliano i santi sono spariti da un pezzo e la desertificazione, delle fabbriche come delle coscienze, avanza. Una legge contro il caporalato, fa notare Gianna Fracassi della Cgil, «è infine passata dopo battaglie interminabili, ma la responsabilità non è mai stata estesa all’estremo capo della filiera, alle aziende che il caporalato sfruttano». Proprio nelle prossime settimane, certo anche per effetto della storia di Paola Clemente, si andrà a una revisione (e un inasprimento) della norma. Ma la mancanza di legalità resta il vero gap che sconta il Sud. La crisi dell’Ilva, per dire, narrata talvolta come scontro tra economia e oltranzismo giudiziario, è stata soprattutto crisi di legalità, pluridecennale umiliazione delle regole e corruzione del ceto politico locale: e ha mandato in fumo dieci miliardi di euro di Pil in tre anni, secondo i calcoli della Svimez per conto del Sole 24 Ore. Proprio da un rapporto Svimez, a fine luglio, sono arrivati dati che hanno trasformato un’immagine paradossale - il Mezzogiorno d’Italia come la Grecia - in una prospettiva concreta e agghiacciante. Con una crescita largamente inferiore a quella greca, un cittadino su tre a rischio povertà (contro uno su dieci al Nord), una disoccupazione selvaggia e il paradosso di non riuscire neppure a spendere miliardi di fondi strutturali per la pura incapacità della classe politica di programmare e fare sistema, il Mezzogiorno si colloca in cima alle emergenze nazionali rischiando, ancora secondo Svimez, «il sottosviluppo permanente». Renzi, che aveva semplicemente omesso di nominarlo nel suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio 2014, ha dovuto precipitosamente occuparsene alla sua maniera, bandendo il «piagnisteo» come elemento anti-crescita, lasciando intravedere un tesoro da 80-100 miliardi di risorse europee vecchie e nuove e comunque da sbloccare e, infine, promettendo un masterplan (in inglese il messaggio colpisce di più, come il Jobs act ) frutto di una grande discussione, dentro il partito e con i governatori pd. Era agosto. I risultati della discussione sarebbero previsti per metà settembre. Ma domani, a Potenza, si svolgerà intanto un incontro politicamente assai curioso. Attorno a Susanna Camusso, alla festa della Cgil lucana, si riuniranno per la prima volta tutti i governatori delle Regioni meridionali (tutti pd e non certamente renziani doc, Emiliano e De Luca in testa). La Cgil non nasconde l’ambizione di fare dell’incontro, «Laboratorio Sud», un tavolo

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permanente. Insomma di andare ad attaccare il premier ormai nemico laddove s’è dimostrato fin qui più debole, facendo da mastice tra i governatori meridionali sul tema più sensibile: il lavoro. La corsa verso il Sud è ottima cosa a due condizioni. Che non sia tattica d’una stagione (forse) pre-elettorale. E che non si traduca in una manciata di benefici a pioggia. Già l’idea del governo di annacquare i vincoli di bilancio delle Regioni premierà alla fine le meno virtuose e le più indebitate (in buona parte, purtroppo, al Sud). Per scacciare l’incubo greco, il Mezzogiorno non ha bisogno di regalie ma di una rivoluzione di legalità. L’esercito di maestri vagheggiato da Gesualdo Bufalino va accompagnato, intanto, da legioni di carabinieri. Finché la speranza non sia più segno di santità ma di normalità, persino nei campi di Andria. LA REPUBBLICA di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Il corpo degli altri di Ezio Mauro Come in guerra, contano solo i corpi. I corpi, l'acqua che li porta e la terra: come se fosse da difendere o da riconquistare, adesso che i corpi la attraversano. Naturalmente ci sono i numeri, che danno la dimensione del fenomeno che chiamiamo migrazione, e le sue proiezioni politiche. Ma parlano il linguaggio della razionalità, dunque contano poco, di fronte alla forza simbolica dei corpi e alle paure che suscitano. I corpi degli altri, naturalmente. Noi siamo un insieme, una collettività, una società, una serie di appartenenze e di identità di gruppo che consentono di agire attraverso i nostri rappresentanti, senza spingere i corpi in prima linea. Loro - gli altri - non sono nulla di tutto questo. Non persona, non individuo, non cittadino, senza qualcuno che li rappresenti e spieghi i loro diritti o anche soltanto le loro ragioni: né un partito, né uno Stato, né un sistema d'informazione. Così per forza i corpi agiscono e insieme spiegano se stessi. CORPI disarmati, nudi, senza nient'altro che una pretesa ostinata e incontenibile di sopravvivere, aprendosi uno spazio nella porzione di terra che consideriamo nostra, dopo essere scampati al mare. Mentre guardiamo quei corpi azzerando per loro ogni valenza umanitaria, giuridica, civile, cioè eliminando l'universalità dei diritti dell'uomo e la soggettività del cittadino, noi azzeriamo senza accorgercene la politica, la mettiamo fuorigioco. Se non ha a che fare con persone, individui, cittadini ma con cose - strumenti scomodi d'ingombro - la politica infatti è impotente, anzi inutile. Così i corpi possono mostrarsi in tutta la loro evidenza: neri, diversi, straccioni, disperati, affamati, disposti a tutto. Senza la mediazione della politica agiscono in proprio come messaggio d'allarme per la popolazione indigena che siamo noi. Soprattutto la parte più fragile, sola e indifesa, anziani che vivono nei piccoli centri e magari non sono mai usciti dal Paese, e oggi trovano gli "altri" sulle panchine delle aiuole sotto casa. Una fascia di cittadini che si sente minacciata dalla contiguità della diversità, teme confusamente per la sicurezza, per le infiltrazioni jihadiste, per il lavoro, in realtà per la perdita di uniformità, nella paura che venga meno la coesione di esperienze condivise, di fili biografici intrecciati in una unità di luogo, di storia, di esperienza e di tradizione. Come perdere la memoria, e con la memoria il futuro. Senza la politica in gioco, una sua sottospecie domina intanto il campo. Sono i piazzisti della paura, che non vogliono rispondere a queste inquietudini diffuse ma coltivarle, per trarne un grasso quanto ignobile reddito elettorale. Dunque non propongono soluzioni, ma immagini fantasmatiche, come le ruspe, slogan che non reggerebbero ad una prova di governo ma sono perfetti per raggiungere la solitudine delle paure domestiche dallo schermo tivù. Sono commercianti di corpi, ne hanno bisogno per trasformarli in ideologia nel senso più classico: l'impostura di un blocco sociale che costruisce il dominio attraverso un sistema di credenze erronee e di pregiudizi. Ma la debolezza culturale della sinistra, che non ha saputo elaborare un pensiero autonomo sulle migrazioni, sugli ultimi, capace di rassicurare la parte più debole ed esposta dei cittadini - i penultimi - e di ricordare nello stesso tempo i doveri di una democrazia occidentale, fa sì che quell'ideologia sia diventata dominante, e costituisca il substrato di ogni ragionamento politico corrente, senza più distinzioni. Ciò significa che la posta in gioco delle future elezioni - tutte, dalle comunali alle politiche - è già fin d'ora fissata sulla paura e sulla sicurezza, dunque sull'uso di quei corpi più che sul destino di quelle persone, che sembra non interessare a nessuno. È un problema politico, ma può diventare un problema della democrazia, chiamata a dare una doppia risposta, con una contraddizione evidente:

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deve rispondere al sentimento diffuso d'insicurezza dei suoi cittadini, e non può non rispondere alla domanda di disperazione e di libertà che viene dai migranti. Può la democrazia restare insensibile ad uno di questi suoi doveri contrapposti e rimanere intatta, o almeno innocente, dunque credibile? Quando tutto ritorna agli elementi primordiali - il mare, la terra, i corpi, l'acqua, i muri, il commercio di uomini, il filo spinato - la democrazia entra in difficoltà, come se fosse soltanto un'infrastruttura della modernità, incapace di governare questa regressione a condizioni estreme non previste dal sistema politico, istituzionale, culturale che ci siamo faticosamente costruiti nel dopoguerra per garantire noi e gli altri, e per proteggerci nel nostro tentativo di vivere insieme. Valori che abbiamo sempre professato come universali alla prima grandiosa prova dei fatti - un'emergenza demografica, politica, umanitaria - ripiegano su se stessi e rattrappiscono, perché sembrano riservati solo a noi. Le garanzie per i garantiti: che non le vogliono spartire, hanno paura di condividerle, e ne svalutano il valore globale nell'uso privato e parziale. Quei corpi segnalano infatti prima di tutto la differenza e la difficoltà (che ne deriva) di condividere il concetto di libertà, la sua traduzione pratica. Camminando in Occidente, se fossero accolti, i corpi riscoprirebbero di avere dei diritti, di poter diventare cittadini attraverso il rispetto delle costituzioni e delle leggi, di poter crescere nell'autonomia attraverso il lavoro: di ritornare uomini. Ma quando arrivano in Europa cercano molto meno, pretendono soltanto libertà, una sponda sicura dove appoggiare il futuro dei loro figli. Anzi, quando sbarcano sul nostro suolo inseguono qualcosa di ancora più primitivo e disperato, la sopravvivenza. Perché spogliati della cittadinanza, della soggettività dei diritti, di ogni condizione giuridica se non quella di clandestino, come spiega Giorgio Agamben sono «nuda vita di fronte al potere sovrano». Vita che vuole vivere, nient'altro. C'è qualcosa di evidentemente sacro in questa interpellanza che ci giunge da una condizione così radicale ed estrema. E c'è dunque qualcosa di sacrilego nel considerare ciò che è una riduzione violentemente elementare dell'individuo-cittadino alla nuda vita, soltanto come un corpo. Corpi che possono essere marchiati fisicamente, numerati e catalogati nella loro estraneità da bandire, perché portatori della forma nuovissima e definitivamente incancellabile del peccato originale: il peccato d'origine. Nel momento in cui accettiamo di fissare fisicamente questa differenza come discrimine nell'utilizzo della libertà, reso parziale, e dei diritti, non più universali, noi non ci accorgiamo che simmetricamente questa operazione sta agendo anche su di noi. E sta agendo con modalità diverse ma sulla stessa scala primordiale che applichiamo agli altri, dunque interviene anche per noi sulla fisicità, addirittura sul nostro corpo, se solo sapessimo vederlo. Tutte le nostre reazioni e le nostre separazioni dal fenomeno migranti, l'affermazione della nostra diversità fissa silenziosamente anche noi in un'identità bio-politica come quella che attribuiamo agli altri, soltanto rovesciata: risveglia infatti il fantasma dell'uomo bianco, qualcosa che l'Italia non aveva ancora vissuto nelle sue mille convulsioni e anche nelle sue tentazioni xenofobe. Non ci chiediamo infatti mai che cosa significano quei muri (di filo spinato o d'indifferenza) per chi giunge fin qui dalla disperazione e ci guarda da fuori, respinto. Testimoniano paura, privilegio, egoismo, parzialità nell'esercizio dei diritti. Quel muro tiene fuori i corpi altrui. Ma nello stesso tempo recinta i nostri, li perimetra e li rinchiude, riducendo la nostra identità a quella fisica del bianco indigeno, ciò che certamente noi siamo - la maggioranza di noi - ma che non ci accontentiamo di essere, perché abbiamo rivestito quel carattere originario di sovrastrutture culturali, storiche, politiche che hanno dato forma ad una figura articolata e in movimento, aperta, autonoma e complessa. L'uomo bianco, nella regressione identitaria delle paure, viene dopo l'uomo occidentale ed europeo, è una sua riduzione unidimensionale, dunque una sconfitta. Rinasce come figura biopolitica quando neghiamo i valori dell'Occidente, i doveri dell'Europa: garantire sicurezza, ordine e governo a chi lo chiede (soprattutto se è un cittadino disorientato e spaventato), ricostruire la proporzione dei fenomeni tra le cause e l'effetto, rispondere a quella domanda biblica ma anche politica di libertà e di umanità che arriva dalle migliaia di vite nude ammassate sui barconi, in fila davanti a un recinto, accampati in una stazione in attesa di un treno europeo. In nome di una fiducia ostinata, contro la storia contemporanea, nell'universalità della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni. Una democrazia che, mentre tiene fuori i dannati credendo di difendere se stessa, rischia di perdere l'anima occidentale dell'Europa, riducendosi a un corpo di leggi inutili e di principi ipocriti: anch'essa un corpo vuoto.

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AVVENIRE di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 Ora picconi morali di Paolo Lambruschi Profughi: mezza Ue si scuote La foto choc del corpicino di Aylan annegato sulla spiaggia di Bodrum, l’esodo disperato del popolo dei profughi in Ungheria, in Boemia e nei Balcani, a piedi e in treno, inneggiante alla Germania e ad Angela Merkel, l’inconcepibile e insopportabile marchiatura con pennarello dei migranti da parte degli agenti di Praga. Ancora, nuovi muri e leggi speciali proprio nel Paese dove la Cortina di ferro s’iniziò a sgretolare nell’estate del 1989. E un’Europa sempre divisa davanti alla crisi migratoria più grave dal 1945. Nonostante questo, nonostante il bilancio di una settimana tra le più drammatiche degli ultimi 25 anni, si registrano movimenti e novità sul tema dell’accoglienza civile, sulla quale da mesi si batte il governo italiano. La svolta, prima ancora delle tremende immagini di questi giorni, l’ha impressa la Germania. La cancelliera Merkel davanti all’esodo dei siriani sulla rotta balcanica verso Vienna e Berlino ha optato decisamente per le braccia aperte. Oltre alla motivazione morale c’è quella economica. Da anni si sapeva che alla locomotiva tedesca, demograficamente spenta, servono circa sei milioni di persone da qui al 2020 per reggere la crescita. Quest’anno Berlino si aspetta 800 mila domande di asilo ed evidentemente punta sui siriani - istruiti, in migrazione per gruppi familiari, più facilmente integrabili – anche come preziosa risorsa. Una scelta già compiuta con i profughi dell’ex Jugoslavia 20 anni fa. La svolta di Merkel, che ha vinto la paura della migrazione e ha parlato con decisione alla propria opinione pubblica e alla Ue, ha innescato un processo politico. Immediatamente è seguita la dichiarazione congiunta con Roma e Parigi sulla necessità di aprire maggiormente le porte e poi si è saldato un asse con Hollande, alle prese con il problema dell’Eurotunnel di Calais, assieme al quale ha chiesto quote obbligatorie per tutti i membri. Un clima mutato rispetto ai veti delle scorse settimane sulla spartizione di 40mila richiedenti asilo approdati in Italia e Grecia. Buoni segnali in vista del vertice del 14 settembre. Poi c’è stato, un po’ in tutta l’Europa occidentale, un 'effetto Aylan'. Le strazianti foto del piccolo curdo annegato e la tragedia della sua famiglia - lui, la madre e il fratellino di cinque anni sono fuggiti da Kobane e sono morti per raggiungere la Grecia hanno commosso l’opinione pubblica globale. E, insieme al cambio di marcia di Merkel hanno mutato le carte in tavola. Anche a Londra, dove David Cameron - offrendo una spiegazione emozionale - ha cambiato linea, aprendo all’accoglienza di diverse migliaia di profughi provenienti dalla Siria, smentendo le tesi piuttosto rozze del suo ministro dell’Interno Theresa May – che ama presentarsi come nuova Thatcher con il tacco 12 – favorevole a «sparare sui barconi» per porre fine agli arrivi. Per contro si arriva al vertice del 14 con una divisione netta con il blocco orientale. Oltre all’Ungheria, che ha eretto un muro e ha risposto con leggi speciali ai giorni di tensione e agli assalti ai treni per la Germania (poi fermati nei campi di raccolta) e ora assiste senza batter ciglio alla marcia dei 200 (uomini, donne, bambini, molti storpi) verso Vienna. Repubblica Ceca e Slovacchia hanno solo aperto corridoi ferroviari verso ovest, niente di più. Una chiusura inaccettabile, nel 2014 il 72% di tutti i richiedenti asilo è stato accolto in 5 Paesi: Germania, Svezia, Italia, Francia e Regno Unito. Solo la Polonia si è mossa e ieri si è detta disposta a ricevere 30mila persone. Ma il segnale più forte di questa settimana viene alla mobilitazione solidale di tanti europei, pari a quella avvenuta in Italia ai primi di giugno nelle stazioni dove si erano accampati i migranti e come quella che quotidianamente continua soprattutto in Sicilia, a Lampedusa, in Calabria. Domani parte da Vienna una carovana di volontari per andare ad accogliere in Austria la colonna in marcia dall’Ungheria. E il 12 a Londra ci sarà una manifestazione frutto del fortissimo impatto delle immagini di Aylan, che il quotidiano britannico 'Independent' ha pubblicato per primo. L’Europa solidale sta prendendo forza dopo il diluvio di insulti xenofobi. La potenza delle immagini di questi giorni aiuta a smuovere le coscienze. E forse aiuta a trovare i 'picconi morali' di cui abbiamo bisogno per abbattere i nuovi muri. Pag 2 Aylan di Ernesto Olivero Ho tre anni mi chiamo Aylan

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Sono morto annegato insieme a mia mamma e a mio fratello e sono arrabbiato Un bimbo morto come me fa notizia centomila bimbi come me solo una statistica Eppure come me muoiono ogni giorno Perché loro no e io sì sbattuti in prima pagina? Perché loro no e io sì faccio piangere potenti e capi di stato? Perché loro no e io sì devo diventare un simbolo? Ho tre anni mi chiamo Aylan e sono morto di notte annegato Perché nessuno è venuto a prendermi al di là del mare? Perché nessuno è venuto a fermare la mano assassina che ci ha fatti fuggire? Perché nessuno si è commosso prima? Ho tre anni mi chiamo Aylan Perché parlate di me piccolo portato dal mare su una spiaggia? Io sono in pace voi no Parlate dei bimbi come me come me non vogliono morire Vogliono continuare a giocare come avrei voluto io vogliono sognare diventare grandi e magari forse anche liberi come siete voi Ho tre anni mi chiamo Aylan e non ho bisogno delle vostre lacrime ipocrite Vi servite di me per voi stessi Alzatevi muovetevi migliaia di bambini come me non vogliono come io non volevo arenarsi senza vita su una spiaggia IL GAZZETTINO di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 La svolta di Angela aiutata dalla forza di quella foto di Bruno Vespa In ogni momento decisivo, Angela Merkel è coerente con la sua storia. Da ragazza, nei corsi di nuoto della Germania Est, non amava tuffarsi. Ma quando il tuffo era obbligatorio, aspettava l’ultimo secondo utile prima che scadesse il tempo. “Agire con calma” è il suo motto. Ha aspettato l’ultimo secondo utile per risolvere la crisi greca, lo ha fatto anche per arginare lo spaventoso esodo dei migranti. La foto di un bimbo siriano che la pietà crudele del mare ha adagiato dolcemente su una spiaggia è servita più di cento inutili vertici internazionali. Ancora una volta la Cancelliera si è dimostrata la vera, unica padrona d’Europa. E se dopo centinaia di naufragi e migliaia di morti la piega dell’accoglienza sta faticosamente mutando, il merito è suo. Tardivo, ma indiscutibile. Francois Hollande è il suo prestigioso attendente. Rappresenta un paese, la Francia, che dai tempi di Mitterrand – dopo la caduta del Muro - ha deciso di costruire con Kohl una nuova Europa che arginasse la potenza del marco con la nascita dell’euro. L’esperienza ci ha detto che l’euro è un marco ribattezzato e che nessuno dei presidenti francesi è stato nell’ultimo decennio in grado di fronteggiare la potenza economica e politica della Germania. Perciò tra Hollande e Merkel è sempre quest’ultima a decidere. E’ accaduto con la Grecia, dove Hollande aveva ragione a difendere una certa flessibilità europea. Ed accade con i migranti dove Hollande aveva torto a chiudere di fatto le frontiere. Merkel ha dalla sua la gran parte dell’opinione pubblica tedesca disposta ad ospitare e a trovare progressivamente un lavoro a 800mila migranti. Le persone generose in Germania sono tante, al punto che le autorità devono pregarli di non mandare più cibo e giocattoli. Come accade talvolta, la generosità ha tuttavia qualche risvolto d’interesse. Nei prossimi decenni la popolazione tedesca è destinata a contrarsi e gli immigrati serviranno sempre di più a sostenere l’economia. La lezione tedesca dovrebbe far riflettere i tanti italiani che vedono i migranti solo come un pericolo pubblico. I centri d’accoglienza – spesso fonte di ruberie – dovrebbero funzionare meglio, ma in un paese come il nostro con uno dei tassi di natalità più bassi del mondo, avremo sempre più bisogno di stranieri che lavorino, non solo nei settori in cui gli italiani si rifiutano di farlo (Gli indiani sikh mungono le mucche quasi in esclusiva, in alcune zone regioni e guadagnano benissimo). L’Italia, esclusa ancora una volta dal vertice decisivo tra Merkel e Hollande, può rallegrarsi della soluzione. Con un filo di amarezza: quando eravamo il solo porto di sbarco, tutti si giravano dall’altra parte. Appena il fenomeno è dilagato, c’è stato un salutare ripensamento. Meglio tardi... LA NUOVA di sabato 5 settembre 2015 Pag 1 La cattiva coscienza dell'Europa di Francesco Jori

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Guardiamoci dentro, senza farci sconti. Dobbiamo davvero essere vittime di un’anestesia civica virale, se abbiamo bisogno della foto di un bambino di tre anni morto su una spiaggia per dare una scossa alle nostre intorpidite coscienze. Quanti ce ne sono, e da anni, in fondo al Mediterraneo, senza diritto nemmeno ad avere un nome da ricordare, un volto da portarsi nel cuore? E tra chi riesce a sopravvivere, quanti ragazzini fantasma ci sono che la burocrazia definisce «minori non accompagnati», e che i loro genitori hanno messo con strazio su un barcone, perché era la sola possibilità rimasta per garantire loro almeno uno straccio di futuro? Sui profughi, anzi sugli immigrati in genere, l’Europa sta perdendo la faccia ma soprattutto l’anima. Negli ultimi decenni, le floride economie dei suoi Paesi si sono salvate, riuscendo a mantenere i livelli di produttività e quindi di benessere, solo perché hanno reclutato dal mondo povero milioni di braccia a basso costo che hanno compensato il massiccio calo delle nascite interno. E adesso che la crisi batte, chi arriva diventa scomodo, anzi da molti viene vissuto come una minaccia: vengono a portarci via del nostro, è l’obiezione. Senza nemmeno ragionare su quel “nostro”, se per esempio non siano da rivedere gli stessi stili di vita: per stare in Italia, un terzo della produzione alimentare finisce nei cassonetti dei rifiuti. E per i telefonini di nuova generazione, si arriva a far la fila davanti ai negozi dalla notte prima. Stiano o tornino a casa loro, è uno dei ritornelli ricorrenti. Dimenticando che a casa loro noi ci siamo andati per secoli, e fino a meno di cent’anni fa, non per aiutarli a rimanere ma per depredarli delle risorse delle loro terre, e per reclutarli in massa come schiavi. Dopo, anziché la gente abbiamo lautamente appoggiato dittatori sanguinari che la tenevano nella miseria: o ci siamo dimenticati, solo per fare un esempio tra i molti possibili, delle onorificenze e dei cerimoniali con cui il presidente francese Giscard d’Estaing accoglieva Bokassa, l’imperatore-cannibale, ricevendone in cambio sacchi di diamanti? La cattiva coscienza dell’Europa si maschera oggi dietro le grida dei regimi populisti che insultano la loro stessa storia anche recente. A partire dai muscolari governanti ungheresi che oggi guidano la rivolta anti-profughi, dimenticando i clandestini che scappavano dal loro Paese dopo l’invasione dei carri armati sovietici per rifugiarsi altrove, trovando piena accoglienza. Ma il problema non è polemizzare con i pasdaràn del respingimento: quelli non cambieranno idea di sicuro. La questione vera è parlare all’Europa incerta, balbettante e confusa, dove troppi presunti leader sono portati a cavalcare la linea dura, temendo di perdere voti. La Politica con la maiuscola è quella che sa guardare al futuro anziché arrivare al massimo a stasera. E il futuro ci dice che il vero grande problema dei prossimi anni è proprio questo: nel 2014, riferisce l’apposita agenzia dell’Onu, i migranti costretti a scappare dalle loro case (costretti, non volontari) sono stati quasi 60 milioni, 9 in più dell’anno precedente, 23 in più di dieci anni fa. In tutto il mondo, una persona ogni 122 oggi è un rifugiato o un richiedente asilo. Metà di questi derelitti sono bambini; alcuni muoiono subito, molti altri moriranno lentamente negli anni, nel fisico o nell’anima, in un silenzio così in stridente contrasto con il fragore delle nostre miserande polemiche di giornata. Un’Europa ignava litiga su qualche centinaio di migliaia di arrivi. I Paesi poveri, a ridosso delle zone di guerra, accolgono senza polemiche nove rifugiati su dieci; qualcuno di loro, Libano e Giordania in testa, ne ospita più dei 28 Stati della Ue messi assieme. Sulla spiaggia della storia, il vero cadavere siamo noi. Pag 1 Le scelte affidate ai sondaggi di Bruno Manfellotto Romano Prodi, con uno dei suoi larghi sorrisi, li chiama “leader barometrici” (e indovinate a chi pensa...), e definisce “barometria” la scienza poco esatta ma di grande successo mediatico che di quei politici sostiene fortune e disastri, ascese e cadute, inciampi e rinascite. Si parla, naturalmente, dei sondaggi che spesso decidono svolte politiche, alleanze, talvolta perfino il destino dei governi. E comunque alimentano giorno dopo giorno uno degli sport preferiti dagli italiani (e da noi giornalisti): descrivere scontri, scenari politici, cambi di verso, che qui da noi si traducono quasi sempre nell’evocare nuove elezioni. Reali, sognate o minacciate. Non è manìa solo nostra, intendiamoci. Ieri, per esempio, si è appreso che alla vigilia del voto anticipato in Grecia, Syriza è in caduta libera (dal 36 al 25,3 per cento), vuoi per la scissione a sinistra che mangerebbe 4-5 punti, sia per la gestione confusa della crisi, sia per l’affermazione di

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Nuova Democrazia, il partito conservatore, che insegue a solo tre decimali di distanza. E beffa delle beffe, il leader che ai greci ispira oggi più fiducia non è Alexis Tsipras, ma il moderato Vaghelis Meimarakis. Sapremo la verità il 21 settembre. Intanto, però, parliamone. Dalla Grecia alla Spagna. Qui si vota a dicembre. Secondo le rilevazioni, si sarebbe arrestata la marcia trionfale dei simil-grillini di Podemos, sui quali certamente hanno pesato i guai di Syriza: il movimento è dato in calo, dal record lontano del 28 per cento al 16,7. Intanto il conservatore Rajoy si conferma in testa e addirittura cresce al 29,5 per cento guadagnando sei punti in cinque mesi. Evidentemente la politica di austerità paga. Almeno per lui. Negli Stati Uniti invece si voterà solo tra un anno, ma laggiù i sondaggi accompagnano anche la scelta dei candidati. I più recenti, per esempio, vedono sempre Hillary Clinton in testa nella corsa alla nomination democratica, contro il vicepresidente in carica Joe Biden. In Inghilterra, invece, i “polls” indagano dentro il partito laburista, decapitato dalla cocente sconfitta del maggio scorso, e danno per vincente Jeremy Corbyn detto “il rosso”, socialista vecchio stampo, vegetariano, ambientalista, ecologista. Tony Blair è disperato. E in Italia? Qui non si voterà che nel 2018, dice il calendario; non ci sono in vista né nomination, né primarie, né congressi, parola cancellata dal vocabolario politico. Eppure al rientro delle vacanze la “barometria” ha ripreso a impazzare, grazie a due vecchie volpi del sondaggismo italico, Nicola Piepoli e Roberto Weber, che concordano sulla tendenza - ancora giù il Pd, stabile Grillo - ma non sulle percentuali. Weber, per esempio, assegna al partito di Matteo Renzi il 33,1 per cento; Piepoli si ferma al 32,5. Ma il raffronto è con il 40 e rotti conquistato alle ultime Europee. Perciò D’Alema dice acido che in un anno sono sono stati persi due milioni di voti. Virtuali. E gli altri? In caduta libera Forza Italia intorno al 9 per cento; in crescita la Lega tra il 14 e il 16 per cento; tenacemente stabile il Movimento 5Stelle stimato tra il 22,5 del prudente Weber e il 25,5 del più deciso Piepoli. Comunque sia, Beppe Grillo sarebbe al secondo posto. E il leader più apprezzato? Vince Renzi su Salvini 30 a 22 (Grillo al 20), anche sulla politica nei confronti degli immigrati: il 34 per cento degli italiani sta con le scelte del premier, il 19 con le ruspe della Lega. Allora, un gioco e basta? Magari. Perché se i barometristi vedono giusto, Renzi ha oggi due bei problemi: se davvero perde consensi, ma è ancora il più apprezzato e in testa nella corsa, forse potrebbe essere tentato dalle elezioni anticipate (visto? Si finisce sempre lì) per liberarsi delle opposizioni e consolidarsi con il voto; se lo tallona Grillo, però, è con lui che dovrebbe andare al ballottaggio previsto dall’Italicum: pericoloso, perché non è detto che leghisti e destra sarebbero disposti a votare Renzi. E dunque gli converrebbe rivedere la legge elettorale appena approvata. Deve decidere presto la sua strategia. O aspettare il prossimo sondaggio. Torna al sommario