Rassegna stampa 31 ottobre 2017...2017/10/31  · La città lagunare è terza in classifica, dietro...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 31 ottobre 2017 SOMMARIO “A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico?”, si chiede Luigino Bruni sulla prima pagina di Avvenire di oggi. E così prosegue: “Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle proposte della 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani di Cagliari, si direbbe che interessi soltanto al mondo cattolico, ai suoi media, ai suoi giornali. E questa non è una bella notizia per l’Italia. Quattro intensi giorni di dibattito, mille rappresentanti, proposte concrete per cambiare e migliorare il mondo del lavoro, l’economia e la società, che non hanno dunque meritato la dignità per entrare tra i fatti e i temi segnalati all’attenzione dell’opinione pubblica. Le ragioni di questa grave distrazione sono molte. Tra queste, forse, l’apparente semplicità delle (utili e realizzabili) proposte avanzate e l’assenza di proposte più 'profetiche' (come quelle, specialmente care anche a chi scrive, sull’«economia disarmata»), sulle quali il consenso all’interno del variegato mondo cattolico sarebbe stato probabilmente più difficile. O, forse, anche una serie di ospiti che stavolta non ha incluso personalità del mondo culturale laico italiano e internazionale. Altre volte e in altre sedi questo tipo di dialogo si era intessuto con particolare intensità, ma la disattenzione non era stata minore. Forse, dunque, per tutto ciò ci sono anche ragioni più profonde. La prima ha a che fare con il bizzarro concetto di laicità che si è affermato nel nostro Paese. Le contrapposizioni ideologiche del XIX e del XX secolo, hanno generato una cultura dove è sufficiente che in un discorso compaiano le parole 'Dio' o 'Bibbia', perché vengano automaticamente classificate faccende private di un sotto-insieme del Paese, non abbastanza 'laiche' per interessare tutti. Così, invece di intendere la vita democratica come la somma delle diversità civili, la si concepisce come una sottrazione per arrivare alla piccola zona comune fra tutti, che è sempre troppo piccola per la pubblica felicità che ha bisogno della «convivialità delle differenze» (Don Tonino Bello). La società perde biodiversità generativa, perché si eliminano le dimensioni più innovative e creative dei diversi mondi vitali. Ma se poi andiamo a scavare di più, troviamo qualcosa di ancora più puntuale. Ai cattolici, in realtà, si lascia un certo spazio e una certa libertà di esprimersi 'in pubblico', ma soltanto su temi inseriti in una lista chiusa di argomenti 'eticamente sensibili'. Se si esce da questa lista, anche se la Chiesa e i cattolici parlano è come se non parlassero: non hanno 'voce' in questi capitoli. Possono parlare di povertà, di vita (senza esagerare), un po’ di famiglia. Ma se iniziano a parlare di lavoro, di tasse, di scuola, addirittura di economia o di finanza, escono dalla lista bloccata e semplicemente vengono ignorati. Quindi, quando i cattolici si esprimono sui temi laicamente consentiti dalla lista si è legittimati, ma non ascoltati, perché considerati espressione di una visione culturale partigiana. Quando dicono la loro sui temi fuori lista, sono semplicemente bocciati perché fuori tema. Un segnale di questo è che tra le pochissime notizie di Cagliari che sono riuscite a passare tra le maglie di questa censura culturale, non sono le proposte concrete su economia e banche, ma il tema del lavoro domenicale, uno di quei pochissimi argomenti 'economici' presenti nella lista degli argomenti non all’Indice, perché, si pensa, ha a che fare con il culto - e quindi non preso sul serio, non capendo così che la sfida della domenica è esattamente la libertà dai 'faraoni' che vorrebbero che gli schiavi lavorassero sempre, e quindi l’essenza della democrazia. Il mondo cattolico è tra le poche 'agenzie globali' capaci, per vocazione, di portare avanti un discorso profetico sull’economia, sul lavoro, sulla finanza - e lo sta facendo, anche se pochi se ne accorgono, e le deve fare con sempre maggiore forza e profezia. Ma la laicità delle lobby preferisce lasciarlo parlare 'soltanto' di fine vita e di assistenza – senza ascoltarlo –, e così tenerlo ben distante dall’economia e dalla finanza. Perché intuisce che se gli riconoscesse diritto di parola su questi temi, dovrebbe fare i conti con i dogmi della sua propria laica religione. La nostra società non ascolta la voce dei cristiani sul capitalismo perché il

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RASSEGNA STAMPA di martedì 31 ottobre 2017

SOMMARIO

“A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico?”, si chiede Luigino Bruni sulla prima pagina di Avvenire di oggi. E così prosegue: “Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle

proposte della 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani di Cagliari, si direbbe che interessi soltanto al mondo cattolico, ai suoi media, ai suoi giornali. E questa non è

una bella notizia per l’Italia. Quattro intensi giorni di dibattito, mille rappresentanti, proposte concrete per cambiare e migliorare il mondo del lavoro, l’economia e la società, che non hanno dunque meritato la dignità per entrare tra i fatti e i temi

segnalati all’attenzione dell’opinione pubblica. Le ragioni di questa grave distrazione sono molte. Tra queste, forse, l’apparente semplicità delle (utili e realizzabili)

proposte avanzate e l’assenza di proposte più 'profetiche' (come quelle, specialmente care anche a chi scrive, sull’«economia disarmata»), sulle quali il consenso all’interno

del variegato mondo cattolico sarebbe stato probabilmente più difficile. O, forse, anche una serie di ospiti che stavolta non ha incluso personalità del mondo culturale laico italiano e internazionale. Altre volte e in altre sedi questo tipo di dialogo si era intessuto con particolare intensità, ma la disattenzione non era stata minore. Forse,

dunque, per tutto ciò ci sono anche ragioni più profonde. La prima ha a che fare con il bizzarro concetto di laicità che si è affermato nel nostro Paese. Le contrapposizioni

ideologiche del XIX e del XX secolo, hanno generato una cultura dove è sufficiente che in un discorso compaiano le parole 'Dio' o 'Bibbia', perché vengano automaticamente classificate faccende private di un sotto-insieme del Paese, non abbastanza 'laiche' per interessare tutti. Così, invece di intendere la vita democratica come la somma delle diversità civili, la si concepisce come una sottrazione per arrivare alla piccola zona comune fra tutti, che è sempre troppo piccola per la pubblica felicità che ha bisogno della «convivialità delle differenze» (Don Tonino Bello). La società perde

biodiversità generativa, perché si eliminano le dimensioni più innovative e creative dei diversi mondi vitali. Ma se poi andiamo a scavare di più, troviamo qualcosa di

ancora più puntuale. Ai cattolici, in realtà, si lascia un certo spazio e una certa libertà di esprimersi 'in pubblico', ma soltanto su temi inseriti in una lista chiusa di argomenti

'eticamente sensibili'. Se si esce da questa lista, anche se la Chiesa e i cattolici parlano è come se non parlassero: non hanno 'voce' in questi capitoli. Possono parlare

di povertà, di vita (senza esagerare), un po’ di famiglia. Ma se iniziano a parlare di lavoro, di tasse, di scuola, addirittura di economia o di finanza, escono dalla lista

bloccata e semplicemente vengono ignorati. Quindi, quando i cattolici si esprimono sui temi laicamente consentiti dalla lista si è legittimati, ma non ascoltati, perché

considerati espressione di una visione culturale partigiana. Quando dicono la loro sui temi fuori lista, sono semplicemente bocciati perché fuori tema. Un segnale di questo è che tra le pochissime notizie di Cagliari che sono riuscite a passare tra le maglie di questa censura culturale, non sono le proposte concrete su economia e banche, ma il

tema del lavoro domenicale, uno di quei pochissimi argomenti 'economici' presenti nella lista degli argomenti non all’Indice, perché, si pensa, ha a che fare con il culto -

e quindi non preso sul serio, non capendo così che la sfida della domenica è esattamente la libertà dai 'faraoni' che vorrebbero che gli schiavi lavorassero sempre, e quindi l’essenza della democrazia. Il mondo cattolico è tra le poche 'agenzie globali'

capaci, per vocazione, di portare avanti un discorso profetico sull’economia, sul lavoro, sulla finanza - e lo sta facendo, anche se pochi se ne accorgono, e le deve fare

con sempre maggiore forza e profezia. Ma la laicità delle lobby preferisce lasciarlo parlare 'soltanto' di fine vita e di assistenza – senza ascoltarlo –, e così tenerlo ben

distante dall’economia e dalla finanza. Perché intuisce che se gli riconoscesse diritto di parola su questi temi, dovrebbe fare i conti con i dogmi della sua propria laica

religione. La nostra società non ascolta la voce dei cristiani sul capitalismo perché il

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capitalismo del XXI secolo è diventato esso stesso una religione, con un culto severissimo che non ammette altri dèi al di fuori di esso. Il capitalismo non vuole il discorso religioso cristiano perché ha già il suo. Ma per capirlo ci vorrebbe proprio quella laicità che gli manca. Per questo, nonostante la disattenzione di media che vedono sempre più a stento e sempre più parzialmente il Paese reale, i cattolici

devono continuare a occuparsi dei temi della lista e, soprattutto, di quelli fuori lista. Perché, con le parole di Paolo VI, «se il mondo si sente straniero al cristianesimo, il

cristianesimo non si sente straniero al mondo»” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXI Caorle: “missione popolare” a dicembre per le comunità religiose locali di R.Cop. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Sulla strada del buon pastore Messa di Papa Francesco a Santa Marta Il grande comandamento All’Angelus il Pontefice ricorda che l’uomo è creato per amare LA REPUBBLICA Pag 52 A ciascuno il suo Lutero di Alberto Melloni I mille volti del ribelle che cambiò il mondo in nome della fede IL FOGLIO Pag 1 Lutero in affitto di Giuliano Ferrara Cattolici e protestanti vorrebbero celebrare insieme il quinto centenario delle tesi di Wittenberg contro le indulgenze, ma c’è qualche problema. Anche se nella chiesa c’è chi vuole farci credere che il vero cattolico fosse Lutero Pag I A 500 anni, i protestanti abbracciano l’ultima riforma: la morte per auto secolarizzazione di Giulio Meotti LA NUOVA Pag 36 Lutero, 95 tesi: il tormento di un monaco di fronte alla Chiesa di Francesco Jori Enzo Pace: “E’ la teologia senza mediazioni” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le solite trappole del fisco di Nicola Saldutti Manovra e rinvii AVVENIRE Pag 20 Tablet a scuola? Come la zappa all’inizio del ‘900 di Roberto Carnero Intervista a Lorenzo Tomasin 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 16 – 17 Venezia sbanca la top ten dell’Istat di Roberta De Rossi, Manuela Pivato, Enrico Tantucci e Giovanni Cagnassi

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La città lagunare è terza in classifica, dietro soltanto a Roma e Milano, ma le sorprese sono sul litorale: Cavallino-Treporti, Caorle, Jesolo e Bibione. “Statistiche superate, le presenze sono il triplo” Pag 22 Pellestrina e Malamocco, duecento giovani al lavoro per pulire la spiaggia libera di s.b. Pag 23 Divieto d’accesso a duemila loculi di Mitia Chiarin Diverse zone ancora chiuse per infiltrazioni, proteste dei cittadini. Veritas: “In primavera i cantieri”. Domani e giovedì le celebrazioni del Patriarca Pag 26 Delitto Cannizzaro, l’omicida dal giudice di ru.b. La pm chiede il processo ma il 21enne accusato è in carcere in Romania per violenza sessuale Pag 34 Eraclea: giovani volontari ripuliscono golena e Laguna del Mort di g.mon. Pag 39 I dipinti di Veronese da Murano a New York Alla Frick Collection le opere provenienti dalla chiesa di San Pietro e restaurate da Venetian Heritage IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Omicidio Cannizzaro, si avvicina il processo Chiuse le indagini a carico del 22enne Marcel Mustata, in carcere in Romania per un caso di violenza sessuale Pag XX Eraclea, Legambiente: i giovani ripuliscono il territorio di F. Cib. CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Fronte comune contro le case turistiche. Venezia seconda per visitatori stranieri di F.B. Vertice tra le città d’arte: proposta al ministero Pag 15 Omicidio Cannizzaro, indagini chiuse. Il killer è all’estero processo sospeso di A.Zo. Mustata detenuto in Romania per violenza sessuale. Accusato anche di un pestaggio 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 11 Veneto, l’autonomia vale 18,8 miliardi di Angela Pederiva Svelato in commissione il piano che quantifica la richiesta di trattenere i 9/10 delle tasse in cambio di 23 competenze. I dubbi del professor Buratti: “Difficile ottenere tutto” CORRIERE DEL VENETO Pag 5 L’autonomia di Trento e Bolzano vale per il Veneto oltre 18 miliardi di Marco Bonet Prima simulazione sui 9/10. Il ricercatore del Cnr: ne basterebbero 3. Governo contrario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le piccole librerie che tengono insieme l’Italia di Susanna Tamaro Orvieto e gli altri casi Pag 3 Perché può essere anche peggio del Watergate di Massimo Gaggi

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Pag 13 Legge elettorale, firma a fine settimana. Il Quirinale pensa alle urne il 4 marzo di Marzio Breda Pag 20 Il siciliano del “vietato lamentarsi” che ha conquistato Francesco di Alfio Sciacca Il cartello donato al Papa che l’ha appeso sulla sua porta. “Ora me lo chiedono tutti” AVVENIRE Pag 1 Difetto di laicità di Luigino Bruni Proposte dei cattolici e non-ascolto Pag 3 Il “gioco” di colpire lo straniero tra noi di Marina Corradi Il bengalese Kortik pestato a Campo de’ Fiori Pag 3 Il record di CO2 in atmosfera riporta il mondo al Pliocene di Pietro Saccò Il 2016 anno nero. Rischio climatico sempre più alto Pag 5 Rajoy e la mossa elettorale che stana i secessionisti (ma anche gli unionisti) di Sergio Soave Pag 10 “Il diavolo veste i panni dell’occulto” di Mimmo Muolo Il monito di padre Bamonte: evento negativo da non sottovalutare IL GAZZETTINO Pag 1 Sicilia al voto, un modello fallimentare di regionalismo di Gianfranco Viesti LA NUOVA Pag 1 Identità plurali in Europa di Giancarlo Corò Pag 1 Città-stato nel mondo globale di Renzo Mazzaro Il pensiero di Khanna in sedici punti Pag 5 Quei cavalli di battaglia diventati boomerang di Alberto Flores d’Arcais

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXI Caorle: “missione popolare” a dicembre per le comunità religiose locali di R.Cop. Una missione popolare per le comunità religiose di Caorle, Santa Margherita, Porto Santa Margherita e Brian. Dal 3 al 17 dicembre le parrocchie del vicariato di Caorle, i vari gruppi parrocchiali ed i movimenti daranno vita a due settimane di gesti ed iniziative ideato al fine di rilanciare il messaggio evangelico in vista del Natale. Questa iniziativa, intitolata Se tu conoscessi il dono di Dio, punta a far in modo che anche chi non vive in prima persona la vita delle parrocchie possa accorgersi che i cristiani ci sono e che custodiscono ancora la buona notizia dell'amore di Dio, come si legge nel volantino promozionale dell'evento. Lunedì 6 novembre, alle 20.30, nella sala cinema del patronato di Santo Stefano verrà presentato il programma della missione popolare che prevede vari atti di testimonianza, incontri, concerti, momenti di preghiera ed eventi. La missione comincerà il 3 dicembre alle 10.30 nel duomo di Caorle con la celebrazione presieduta da monsignor Luigi Negri; la conclusione sarà celebrata con la liturgia dei Vespri, sempre in duomo, il 17 dicembre alle ore 17. Torna al sommario

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3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Sulla strada del buon pastore Messa di Papa Francesco a Santa Marta Ci sono cinque verbi «di vicinanza» che Gesù vive in prima persona indicano i criteri del «protocollo finale»: vedere, chiamare, parlare, toccare e guarire. Su questo saranno giudicati non solo i pastori, i primi a correre il rischio di essere «ipocriti», ma tutti gli uomini. Con l’avvertenza che non bastano belle parole e buone maniere, perché Gesù ci chiede di toccare con mano la carne dell’altro, soprattutto se sofferente. È questa «la strada del buon pastore» che il Papa ha indicato nella messa celebrata lunedì 30 ottobre a Santa Marta. «In questo passo del Vangelo - ha subito fatto notare Francesco riferendosi al passo di Luca (13, 10–17) - troviamo Gesù non sulla strada com’era sua abitudine ma in sinagoga: il sabato la comunità va in sinagoga a pregare, ad ascoltare la parola di Dio e anche la predica; e Gesù era lì, ascoltando la parola di Dio». Ma «insegnava anche, perché siccome aveva un’autorità, autorità morale tanto grande, lo invitavano a dire una parola», proprio per «insegnare alla gente». E «in sinagoga c’era una donna che era curva, completamente curva, poveretta, e non riusciva a esser dritta: una malattia della colonna che da anni la tratteneva così». E «cosa fa Gesù? A me colpiscono - ha confidato il Papa - i verbi che usa l’evangelista per dire cosa ha fatto Gesù: “vide”, la vide; “chiamò”, la chiamò; “le disse”; “Impose le mani su di lei e la guarì”». Sono «cinque verbi di vicinanza». Anzitutto, ha spiegato il Pontefice, «Gesù si avvicinò a lei: l’atteggiamento del buon pastore, la vicinanza». Perché «un buon pastore è vicino, sempre: pensiamo alla parabola del buon pastore che Gesù ha predicato», così «vicino» alla pecora «smarrita che lascia le altre e va a cercarla». Del resto, ha affermato Francesco, «il buon pastore non può essere lontano dal suo popolo e questo è il segnale di un buon pastore: la vicinanza. Invece gli altri, in questo caso il capo della sinagoga, quel gruppetto di chierici, dottori della legge, alcuni farisei, sadducei, gli illustri, vivevano separati dal popolo, rimproverandolo continuamente». Ma, ha rilanciato il Papa, «questi non erano buoni pastori, erano chiusi nel proprio gruppo e non importava loro del popolo: forse importava loro, quando finiva il servizio religioso, andare a vedere quanti soldi c’erano nelle offerte, questo importava loro, ma non erano vicini al popolo, non erano vicini alla gente». Ecco che «Gesù sempre si presenta così, vicino», ha fatto presente il Pontefice. E «tante volte appare nel Vangelo che la vicinanza viene da quello che Gesù sente nel cuore: “Gesù si commosse”, dice per esempio un passo del Vangelo, sente misericordia, si avvicina». Per questa ragione «Gesù sempre era lì con la gente scartata da quel gruppetto clericale: c’erano lì i poveri, gli ammalati, i peccatori, i lebbrosi: erano tutti lì perché Gesù aveva questa capacità di commuoversi davanti alla malattia, era un buon pastore». E «un buon pastore si avvicina e ha capacità di commuoversi». «E io dirò - ha affermato Francesco - che il terzo tratto di un buon pastore è non vergognarsi della carne, toccare la carne ferita, come ha fatto Gesù con questa donna: “toccò”, “impose le mani”, toccò i lebbrosi, toccò i peccatori». È «una vicinanza proprio vicina, vicina». Toccare «la carne», dunque. Perché «un buon pastore non dice: “Ma, sì, sta bene, sì sì, io sono vicino a te nello spirito”». In realtà «questa è una distanza» e non vicinanza. Invece, ha insistito il Papa, «il buon pastore fa quello che ha fatto Dio Padre, avvicinarsi, per compassione, per misericordia, nella carne del suo Figlio, questo è un buon pastore». E «il grande pastore, il Padre, ci ha insegnato come si fa il buon pastore: si abbassò, si svuotò, svuotò se stesso, si annientò, prese condizione di servo». Proprio «questa è la strada del buon pastore» ha spiegato il Pontefice. E qui ci si può chiedere: «“Ma, e questi altri, quelli che seguono la strada del clericalismo, a chi si avvicinano?». Costoro, ha risposto Francesco, «si avvicinano sempre o al potere di turno o ai soldi e sono i cattivi pastori: loro pensano soltanto come arrampicarsi nel potere, essere amici del potere e negoziano tutto o pensano alle tasche e questi sono gli ipocriti, capaci di tutto». Di sicuro «non importa del popolo a questa gente. E quando Gesù dice loro quel bell’aggettivo che utilizza tante volte con questi - “ipocriti” - loro si sono offesi: “Ma noi, no, noi seguiamo la legge”». Invece «la gente era contenta: è un peccato del popolo di Dio vedere quando i cattivi pastori sono bastonati; è un peccato,

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sì, ma hanno sofferto tanto che “godono” di questo un pochettino». «Pensiamo - è il suggerimento del Pontefice - al buon pastore, pensiamo a Gesù che vede, chiama, parla, tocca e guarisce; pensiamo al Padre che si fa nel suo Figlio carne, per compassione». E «questa è la strada del buon pastore, il pastore che oggi vediamo qui, in questo passo del Vangelo: è una grazia per il popolo di Dio avere dei buoni pastori, pastori come Gesù, che non si vergognano di toccare la carne ferita, che sanno che su questo - non solo loro, anche tutti noi - saremo giudicati: ero affamato, ero in carcere, ero ammalato...». «I criteri del protocollo finale - ha concluso il Papa - sono i criteri della vicinanza, i criteri di questa vicinanza totale» per «toccare, condividere la situazione del popolo di Dio». E «non dimentichiamo questo: il buon pastore si fa vicino sempre alla gente, sempre, come Dio nostro Padre si è fatto vicino a noi, in Gesù Cristo fatto carne». Il grande comandamento All’Angelus il Pontefice ricorda che l’uomo è creato per amare L’amore di Dio e del prossimo è «il grande comandamento» che Gesù affida a ogni uomo. Lo ha ricordato il Pontefice all’Angelus del 29 ottobre, commentando con i fedeli in piazza San Pietro il brano evangelico di Matteo (22, 34-40) proposto dalla liturgia domenicale. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! In questa domenica la liturgia ci presenta un brano evangelico breve, ma molto importante (cfr. Mt 22, 34-40). L’evangelista Matteo racconta che i farisei si riuniscono per mettere alla prova Gesù. Uno di loro, un dottore della Legge, gli rivolge questa domanda: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (v. 36). È una domanda insidiosa, perché nella Legge di Mosè sono menzionati oltre seicento precetti. Come distinguere, tra tutti questi, il grande comandamento? Ma Gesù non ha alcuna esitazione e risponde: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». E aggiunge: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (vv. 37.39). Questa risposta di Gesù non è scontata, perché, tra i molteplici precetti della legge ebraica, i più importanti erano i dieci Comandamenti, comunicati direttamente da Dio a Mosè, come condizioni del patto di alleanza con il popolo. Ma Gesù vuole far capire che senza l’amore per Dio e per il prossimo non c’è vera fedeltà a questa alleanza con il Signore. Tu puoi fare tante cose buone, compiere tanti precetti, tante cose buone, ma se tu non hai amore, questo non serve. Lo conferma un altro testo del Libro dell’Esodo, detto “codice dell’alleanza”, dove si dice che non si può stare nell’Alleanza con il Signore e maltrattare quelli che godono della sua protezione. E chi sono questi che godono della sua protezione? Dice la Bibbia: la vedova, l’orfano e lo straniero, il migrante, cioè le persone più sole e indifese (cfr. Es 22, 20-21). Rispondendo a quei farisei che lo avevano interrogato, Gesù cerca anche di aiutarli a mettere ordine nella loro religiosità, a ristabilire ciò che veramente conta e ciò che è meno importante. Dice Gesù: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22, 40). Sono i più importanti, e gli altri dipendono da questi due. E Gesù ha vissuto proprio così la sua vita: predicando e operando ciò che veramente conta ed è essenziale, cioè l’amore. L’amore dà slancio e fecondità alla vita e al cammino di fede: senza l’amore, sia la vita sia la fede rimangono sterili. Quello che Gesù propone in questa pagina evangelica è un ideale stupendo, che corrisponde al desiderio più autentico del nostro cuore. Infatti, noi siamo stati creati per amare ed essere amati. Dio, che è Amore, ci ha creati per renderci partecipi della sua vita, per essere amati da Lui e per amarlo, e per amare con Lui tutte le altre persone. Questo è il “sogno” di Dio per l’uomo. E per realizzarlo abbiamo bisogno della sua grazia, abbiamo bisogno di ricevere in noi la capacità di amare che proviene da Dio stesso. Gesù si offre a noi nell’Eucaristia proprio per questo. In essa noi riceviamo Gesù nell’espressione massima del suo amore, quando Egli ha offerto sé stesso al Padre per la nostra salvezza. La Vergine Santa ci aiuti ad accogliere nella nostra vita il “grande comandamento” dell’amore di Dio e del prossimo. Infatti, se anche lo conosciamo fin da quando eravamo bambini, non finiremo mai di convertirci ad esso e di metterlo in pratica nelle diverse situazioni in cui ci troviamo.

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Al termine della preghiera mariana il Papa ha salutato i diversi gruppi di pellegrini, ricordando in particolare la beatificazione in Brasile di Giovanni Schiavo, sacerdote dei giuseppini del Murialdo, e sottolineando la presenza di fedeli togolesi e venezuelani, questi ultimi giunti in piazza dopo aver portato in processione lungo il Tevere l’immagine della Vergine di Chiquinquirá. Cari fratelli e sorelle, ieri a Caxias do Sul, in Brasile, è stato proclamato Beato Giovanni Schiavo, sacerdote dei Giuseppini del Murialdo. Nato sui colli vicentini all’inizio del ’900, fu inviato giovane prete in Brasile, dove ha lavorato con zelo al servizio del popolo di Dio e della formazione dei religiosi e delle religiose. Il suo esempio ci aiuti a vivere in pienezza la nostra adesione a Cristo e al Vangelo. Saluto con affetto tutti voi, pellegrini italiani e di vari Paesi, in particolare quelli provenienti da Ballygawley (Irlanda), Salisburgo (Austria) e dalla regione di Traunstein e Berchtesgaden (Germania). Saluto i partecipanti al Convegno degli Istituti secolari italiani, che incoraggio nella loro testimonianza del Vangelo nel mondo; e l’associazione donatori di sangue FIDAS di Orta Nova (Foggia). Vedo che ci sono colombiani lì! Saluto la comunità Togolese in Italia, come pure quella Venezuelana con l’immagine di Nostra Signora di Chiquinquirá, la “Chinita”. Alla Vergine Maria affidiamo le speranze e le legittime attese di queste due Nazioni! A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! LA REPUBBLICA Pag 52 A ciascuno il suo Lutero di Alberto Melloni I mille volti del ribelle che cambiò il mondo in nome della fede Aveva quarantacinque anni Lucas Cranach in quella fine ottobre del 1517. S'era guadagnato una prima fama dipingendo a Vienna crocifissioni originalissime, come quella del 1503 (ora a Monaco), con i condannati posti attorno a Maria e Giovanni. Dal 1505 era entrato a servizio dei principi elettori di Sassonia a Wittenberg: la "città" (duemila anime) in cui Federico il Saggio voleva far nascere un suo ateneo e dove era stato chiamato, poco dopo di lui, Martin Luder, monaco agostiniano, prima professore di etica e poi di sacra scrittura, autore di commentari biblici importanti. Figura inquieta e travolgente a cui viene attribuito un gesto che è entrato nell' immaginario collettivo: l'affissione, esattamente 500 anni fa, delle 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg. Un gesto mai avvenuto: Lutero non prese il martello né i chiodi, non numerò le tesi, e non affisse proprio nulla; semplicemente sollevò in una serie di punti, in una disputa accademica, il tema della disgustosa compravendita delle indulgenze che svenava la Germania e minacciava la fede. Un appello ai dotti e agli ecclesiastici, che però, dopo pochi anni, assunse nella leggenda la forma eroica dell'affissione e della sfida. Una scena immaginaria che altri artisti hanno ritratto, e che è diventata cinema con Joseph Fiennes (quello di Shakespeare in love, per intenderci) protagonista di Luther (2003). Un'iconografia fasulla opposta alla quale c'è la ritrattistica di Cranach (e dopo di lui dei suoi figli), diventati i gestori dell'"immagine" di Lutero nei dipinti: da quello dal fondo immobile in cui spiccano lo sguardo e le occhiaie del riformatore a quello funebre che lo ritrae morto, con la faccia gonfia e la testa sprofondata nel cuscino su cui si spense trentuno anni dopo l' inizio di quella che tutti, a buon diritto, chiamano "la" Riforma. Ecco perché adesso - ancora una volta, come a ogni celebrazione - il ricorrere dell' anniversario di quella svolta condita di leggenda interroga la coscienza delle chiese, la storiografia e la cultura: ponendo una di fronte all' altra le letture di quell' uomo, crinale e cerniera di mondi ed epoche. E ancora oggi, nel cinquecentesimo anniversario di quell' inizio la "cosa" Lutero domanda una interpretazione alla quale non sfugge nessuno: sia chi sa tutto di Lutero, sia chi ne sa niente, sia chi è a mezza via. Forte, fortissima è la tendenza a leggere Lutero come l'inventore della modernità e delle sue libertà. Era la tesi dei suoi nemici e lo è stata per tanto tempo dentro il confessionalismo cattolico: dove appunto si dava del protestante come un insulto a tutto ciò che sembrava dotato di una dose di libertà e di coscienza di sé superiore a quella accettabile dal bigottismo ideologizzato. Ma è stata anche la linea di un apprezzamento sincero per il monaco che, cercando di spogliare dagli orpelli la vita di fede, è stato posto all'inizio di una età della soggettività. Sono i sostenitori di questa tesi che nella frase detta da

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Lutero davanti all'imperatore ragazzino Carlo V a Worms, col rischio di diventare l'ennesimo arrosto di riformatore - «qui io sto e non posso far diverso, amen» - notano che l'unica parola ripetuta era appunto io: un "io" nuovo, distante da quello del Quattrocento. È questo Lutero che a differenza di Colombo, partito per il nuovo mondo in cerca dell'oro necessario a fare la crociata su Gerusalemme e incappato in un continente sconosciuto, avrebbe invece scoperto, come scrive l'ultimo bel lavoro di Adriano Prosperi, il continente della libertà. Falso? Assolutamente no: perché Lutero è personaggio così grande da portare e sopportare anche il rischio dell' eccesso di interpretazione. Così come è in grado di reggere e sorreggere la discussione sul suo essere l'ultimo dei medievali e il primo dei moderni, che vede dibattere in Germania i tre "tenori" della storiografia luterana, il grande storico berlinese Heinz Schilling (intervistato lo scorso giugno su queste pagine), Thomas Kaufmann e Volker Leppin. Ed è anche in grado si resistere alla insopportabile semplificazione che vede incarnata nella figlia del pastore Kasner (la cancelliera Angela Merkel) una cultura politica ispirata al rigore "luterano", e in noi, terroni europei, una "cattolica" inclinazione all'autoindulgenza. In realtà proprio le dimensioni teologiche, politiche, culturali di Lutero, domandano e impongono una lettura più profonda: che cerchi di capire non solo a cosa Lutero è "servito", o a cosa si vorrebbe fosse "servito". Ma cosa Lutero è stato e ha voluto essere: cioè un cristiano che in un mondo pronto ad accontentarsi di Erasmo e delle sue svenevoli finezze, ha travolto tutto ponendo davanti la fede, la scrittura, la grazia nella loro nudità. Con la durezza insopportabile di una persona insopportabile: insopportabilmente violento, insopportabilmente antiebreo, insopportabilmente ardente. Ma che dentro tutto questo ha portato una attesa di salvezza che ha cambiato il mondo e ha trascinato nella riforma anche il grande antagonista papista: perché, pur nella condanna e nel rifiuto, il papato dopo Lutero non è più stato quello di prima e ha dovuto iniziare una ricerca di autenticità evangelica di cui noi forse oggi vediamo non un approdo ma un frutto. IL FOGLIO Pag 1 Lutero in affitto di Giuliano Ferrara Cattolici e protestanti vorrebbero celebrare insieme il quinto centenario delle tesi di Wittenberg contro le indulgenze, ma c’è qualche problema. Anche se nella chiesa c’è chi vuole farci credere che il vero cattolico fosse Lutero Pace e bene, come dicono i francescani in segno di saluto. Pace e bene, nonostante tutto. Cattolici e luterani vorrebbero celebrare insieme, o quasi insieme, il quinto centenario delle 95 tesi di Wittenberg contro le indulgenze. Ma come vedremo c'è qualche problema, utile da ricordare in questo 31 di ottobre. Ecumenismo, si dice, unità dei cristiani. La fede pretende l'universalità, intanto quella dei credenti in Gesù Cristo figlio del Dio vivente, poi con il dialogo inter-religioso si vedrà come procedere. Il dialogo e la convergenza tendono a non avere confini né destinazioni finali. Il cardinale Walter Kasper, autore della teologia in ginocchio amata dal Pontefice e fautore del sacramento eucaristico libero per la somministrazione a coscienze peccatrici inquiete (relazione segreta al Concistoro, pubblicata dal Foglio a sorpresa, e Amoris laetitia), evoca una frase prestata al Riformatore o, come preferiva definirsi lui, che era un semplice professore di Teologia e pamphlettista di mostruosa fecondità, all'evangelico frate e dottore Martino: "Se l'Apocalisse fosse per domani, ancora oggi pianterei un melo". E il cardinale pianta un tiglio nel giardino del vecchio, colossale nemico della chiesa cattolica romana. Il Papa porta un suo busto nella sala Nervi, dove si fa la catechesi, l'istruzione orale della dottrina della fede cristiana. Francesco officia un anno fa un rito bilaterale a Lund, in Svezia, dove il luteranesimo è religione di stato nel paese più secolarizzato del mondo, con il capo delle chiese luterane. Non si spinge a presenziare alla Festa della Riforma che si tiene oggi con Angela Merkel, figlia di un pastore luterano, a Wittenberg in Sassonia, nella capitale del movimento riformatore, ma in fondo sarebbe nelle cose. Nel 1999 i due tronconi maggiori del cristianesimo che nel Cinquecento si era diviso, cattolico e protestante, si erano messi d'accordo su una dichiarazione comune, non univoca, che intendeva ratificare e porre in comune la scoperta dirompente e decisiva di Lutero, quella stessa scoperta che i teologi ecclesiastici e molti studiosi, ultimo il teologo Bruno Forte, si affannano da tempo a considerare soltanto il ribadimento della dottrina

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secolare e del vissuto della pietà cattolica. Dio, diceva Lutero, non salva per la carità, i meriti, le opere, l'azione dell'uomo, ma gratuitamente e per sola fede, e la grazia viene dall'esterno dell'uomo peccatore e lo fa giusto senza togliergli il peccato, anzi, lo salva nella misura in cui egli è capace di accusarsi del peccato suo costitutivo, pentirsi sempre e accettare anche la pena dell'inferno se Dio lo vuole, altro che indulgenze. Ma qui casca l'asino, parlando con rispetto della chiesa di rito latino ovvero dell'istituzione forse più erudita e colta del mondo occidentale, anzi, senza forse. Ai suoi reggitori pastorali e teologici piacerebbe probabilmente che passasse una vulgata, una semplificazione: la chiesa del papato rinascimentale era bella ma corrotta al punto di sostenere, con il predicatore Johann Tetzel, la bestia nera del monaco agostiniano in rivolta che affisse le tesi (o non le affisse, ma fa lo stesso): non appena la moneta sonante raggiunge il fondo della cassetta subito l'anima per cui si intercede se ne fugge. Pag I A 500 anni, i protestanti abbracciano l’ultima riforma: la morte per auto secolarizzazione di Giulio Meotti Roma. La Bbc pochi giorni fa ha rivelato che "non ci sono più bambini in un quarto delle congregazioni della Church of England. E di media, soltanto nove bambini frequentano una messa anglicana". A cinquecento anni dalla Riforma protestante, se Martin Lutero visitasse oggi una delle culle del protestantesimo farebbe fatica a immaginarvi alcun futuro. Lo stesso accadrebbe se facesse tappa a Wittenberg, dove si trova la Stadtkirche St. Marien, la basilica di San Pietro del protestantesimo, dove Lutero teneva i suoi sermoni incendiari contro il Vaticano, suggellò l'ascesa del movimento protestante e dove i primi pastori protestanti furono ordinati. In una tipica domenica, in chiesa non ci sono più di cento fedeli. Secondo Detlef Pollack, professore di sociologia religiosa presso l'Università di Münster, appena il quattro per cento dei protestanti tedeschi partecipa alla vita della chiesa oggi, contro il 10-15 per cento negli anni Cinquanta. Nello stato della SassoniaAnhalt, dove si trova Wittenberg, solo il 13,8 per cento della popolazione appartiene alla chiesa protestante; nella vicina Turingia, l'altra regione simbolo del luteranesimo, la cifra è del 23,6 per cento. Negli anni Cinquanta, quando Konrad Adenauer era cancelliere, 430 mila protestanti vivevano a Francoforte. Oggi sono 110 mila. E' uno scenario simile in tutta Europa: il protestantesimo "tiene" nel Global South africano e sudamericano, ma sta morendo letteralmente nella culla della Riforma di Lutero. Raccontano Thomas Howard e Mark Noll nel libro "Protestantism after 500 years" che "nel 1910 l'11 per cento dei protestanti viveva fuori da Europa e Nord America, mentre oggi quella cifra è al 73 per cento". Uno studio condotto Gallup International rivela che la Svezia, patria del protestantesimo, è "il paese meno religioso d'occidente". La chiesa di San Giacomo a Stoccolma, costruita per 900 fedeli, oggi la domenica non ne ospita più di 30. Solo il cinque per cento degli svedesi frequenta la chiesa. Di recente, migliaia di persone hanno lasciato la chiesa di Danimarca a seguito di una campagna pubblicitaria promossa dalla Società atea. Tra aprile e giugno 2016, diecimila persone hanno lasciato la chiesa, il più alto numero di ritiri di sempre. Anche la chiesa di stato norvegese ha perso più di 25 mila membri in un mese. Solo il tre per cento dei norvegesi va in chiesa per pregare più di una volta al mese. Più di 90 mila persone hanno scelto di uscire dalla Chiesa svedese nel 2016, quasi il doppio rispetto all'anno precedente. Due anni fa, Le Temps ha dedicato un dossier all'inesorabile declino del protestantesimo in Svizzera. Il 50 per cento dei protestanti svizzeri ha oggi più di 50 anni. "La Riforma ha le stesse caratteristiche della popolazione svizzera: persone anziane, qualificate, con pochi figli", afferma Christophe Monnot, sociologo della religione all'Università di Losanna. Battesimi e funerali parlano da sé: se nel 1950 la chiesa protestante ha battezzato 42 mila neonati in Svizzera e sepolto 28 mila fedeli, nel 2010 questa percentuale è scesa a 15 mila bambini a fronte dei soliti 28 mila funerali. Ha appena scritto Libération, in occasione dei festeggiamenti luterani a Strasburgo, che nel 2017 il protestantesimo francese rappresenta appena il due per cento della popolazione. Stando a un rapporto del quotidiano Trouw, un membro su sei del clero protestante olandese è oggi ateo o agnostico. La chiesa protestante olandese perde 60 mila iscritti ogni anno e a questo ritmo cesserà di esistere entro il 2050, secondo i funzionari ecclesiastici. Dal 1969, gli anglicani in Inghilterra hanno venduto oltre 1.600 chiese, il dieci per cento di tutte le chiese in loro possesso, e il numero aumenta di 20-

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25 ogni anno. Esiste anche un indirizzo web per avere tutte le informazioni. In Olanda, nell'ultimo decennio sono stati chiusi più di 600 luoghi di culto, per lo più luterani, protestanti e altri evangelici. Jan Fleischhauer sul settimanale Spiegel a metà giugno ha definito questo fenomeno "selbstsäkularisierung". E' l'autosecolarizzazione dei protestanti europei. L'ultima grande riforma luterana. A quel tempo (a quel tempo?) gli umani avevano molta paura della morte, e ridare la vita eterna alle anime in pena era un modo di rassicurarsi sulla propria pena di vivere, mettendo al sicuro con una lettera di indulgenza, un certificato ottenibile contro un tariffario preciso di versamenti, il perdono, appunto, dei propri peccati. Cristo e i santi, si diceva ormai da secoli, avevano costituito un tesoro di meriti esorbitanti, si poteva fare una redistribuzione. Si poteva, e come sempre quando si parla di Germania (specie dopo Lutero) questo è uno scandalo, ristrutturare e abolire il debito, die Schuld, la colpa (che poi è la stessa parola, come si sa dopo la crisi finanziaria greca). La semplificazione in realtà ebbe successo da subito, com' era naturale viste le circostanze. E accadde che le sottigliezze o i radicalismi teologici, che sono quel che conta davvero in tutta la storia, quel che ha accompagnato e formato caratteri decisivi dell' epoca moderna, fino a ieri, fino a oggi, furono trasformati in faccende per dotti e specialisti messi in ombra dallo scontro tra la riscoperta della Parola evangelica nella sua scabra nudità, da una parte, e la grande fiera o industria finanziaria, dall'altra, alimentata dai cospicui banchieri Fugger non meno che da vescovi e papi e religiosi e preti ordinati e certi principi, quella fiera popolare della monetina che libera le anime dei morti, concede l'assoluzione ai vivi e consente di costruire San Pietro e tenere sotto la "bestia germanica" (questa era l'opinione che dei tedeschi avevano a Roma, dove trionfava sotto il segno dell' umanesimo una paradossale "rinascita del paganesimo antico" fatta di sensualità e belle arti, molto belle). Ma se vuoi dialogare, ricucire, se vuoi una pastorale di tendenziale comunione con i fratelli separati, bisogna fare un passo avanti rispetto alla guerra tra il Bello e la Bestia, non ci si può limitare a dire che le cose sono cambiate, che a Roma c'è una chiesa "povera e per i poveri", come dice Francesco, e che i Giubilei non sono più da tempo opere di penitenza coatta e ben finanziata bensì segni di misericordia e di gaudio evangelico (Evangelii gaudium). Infatti luterani e affini in cinque secoli hanno generato una coscienza di sé o autocomprensione che va molto al di là della polemica furiosa e apocalittica contro la chiesa dell'Anticristo, la Babilonia delle opere monetizzate. Sono in questione, e lo furono da subito, nei primi decenni del Cinquecento, la natura della fede divina e la natura della ragione umana, la coscienza e il libero arbitrio, mica frottole. Lutero credeva di aver avuto una nuova rivelazione quando aveva scoperto che non sono le opere a fare l'uomo giusto con la gentile collaborazione della Grazia ma è la Grazia che rende giusto o salvo (e pur sempre peccatore) l'uomo e dunque fa buone le sue opere. Lutero agostiniano aveva incontrato il suo Cristo e la sua teologia della Croce come Paolo di Tarso caduto da cavallo, un incontro personale, esistenziale, di coscienza, sorretto da un metodo di lettura libera e senza intermediari della Parola, e per quanto civettasse con l'idea umana troppo umana di essere solo un dottore in teologia e un amabile sposo e padre di famiglia, il suo fu un comportamento di profeta. Non ce l'aveva con le indulgenze perché la chiesa era corrotta, ce l'aveva con la chiesa perché non aveva posto nella sua scoperta del vangelo come esperienza del soggetto credente, dell'uomo giusto e peccatore che può sperare il perdono di Dio solo in quanto accetta di accusarsi del peccato originale nel senso più profondo e comprensivo del termine, solo in quanto ama la sua pena e non vuole fuggirne, altro che indulgenze, è pronto anche ad andare all'inferno se Dio lo vuole, e con un cuore ardente che soffre con il Cristo crocifisso. Via le sottigliezze dell'aristotelismo cristiano, del tomismo scolastico, via la fede che dice la sua ragione, via i sacramenti e la pompa superstiziosa della chiesa di Roma. Con un tipo così e con il suo lascito non è facile sbrigarsela né in pastorale né in teologia. Cinquecento anni dopo il problema è ancora tutto lì, squadernato davanti ai maestri di dottrina che fanno speculazione teologica in ginocchio. E che cosa si sono inventati per tentare di risolverlo? Essendo persone di grande cultura e intelligenza, e in pari tempo furbissime, hanno rovesciato l'impostazione di un famoso domenicano della seconda metà dell' Ottocento (morto nel 1905), Friedrich Heinrich Suso De nifle. Questo formidabile confratello di Tetzel, quello del soldino che salva le anime, era il numero due all'archivio vaticano, un medievista di spicco, e pubblicò a sorpresa, su un argomento di cui non era specialista, un libro vivace ed erudito l'anno prima di morire, "Lutero e il

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luteranesimo", che suscitò enormi controversie. Denifle mise a fuoco cultura e teologia perché il suo libro conteneva una sterminata sequenza di accuse alla persona dell' eresiarca e, per lui, di "demistificazioni" della sua leggenda in ambito protestante, leggenda ormai in procinto di essere almeno in parte incorporata anche dalla storiografia e dall'esegesi luterana di parte cattolica. Il grande storico del Novecento Lucien Febvre, fondatore della scuola delle Annales con Marc Bloch, a quelle pagine scandalose e apparentemente strambe dedicò vent' anni dopo un suo eccezionale libretto, "Martin Lutero, un destino", con capitoli critici, e rispettosi anche nel dissenso, di inarrivabile intelligenza. E segnalò che nella sostanza, alla fine, dopo una analisi storica ed esegetica della personalità per lui ribalda del cattivo monaco concupiscente, debole, un pazzo che voleva salvarsi da solo, Padre Denifle aveva tratto e argomentato questa conclusione: Lutero era un imbroglione di ricchi talenti, pretendeva di aver scoperto cose che la chiesa alla quale si ribellava aveva predicato nei secoli, prima di tutto il Dio misericordioso che rende l'uomo salvo o giusto nella e per la fede, altro che imputare blasfemia alle opere. Il severo teologo gesuita Hartmann Grisar subito corresse l'unilateralità di Denifle con tre volumi di storia luterana altrimenti orientati. Ma ora, cent'anni dopo quelle dispute, i gesuiti sono al potere in Vaticano e, mentre forme di evangelismo militante e altre derivazioni che una volta si sarebbero dette settarie o ereticali dilagano in quella fine di mondo da cui l'ultimo Conclave ha tratto il nuovo Papa, e nel Nordamerica e in Africa e altrove, la teologia cattolica ufficiale, di stampo tedesco, celebra i cinquecento anni delle tesi di Wittenberg rovesciando il giudizio fatale di Denifle con un salto acrobatico: Lutero, dicono, non era affatto un imbroglione, questi toni nel dialogo ecumenico per l'unità dei cristiani non si portano ovviamente più, e per fortuna, ma - ecco la trovata - frate Martino era cattolico, in un certo senso più cattolico dei cattolici. La ricerca più recente, avverte il cardinale Kasper citando il teologo Joseph Lortz e il suo libro del 1949 sulla Riforma in Germania (Lortz, uomo di buoni studi e rette intenzioni, era uscito nel 1938 dal Partito nazionalsocialista, ed era un ecumenista cattolico), ha stabilito che "Lutero ha denunciato un cristianesimo che non era davvero cattolico, e così ha riscoperto qualcosa di fondamentalmente cattolico". Oltre tutto, aggiunge Sua Eminenza, "sulla questione evangelica, nel senso originario del termine, Lutero era stato preceduto da una lunga tradizione di rinnovatori cattolici" e, dopo aver citato in merito Francesco d'Assisi, conclude che del caso luterano si parlerebbe oggi come di una "nuova evangelizzazione". Strano ma vero, eppure forse fondamentalmente falso. Spiace per l'ecumenismo, che è questione matura, anche se non si sblocca di molto perché certi dissensi e certe guerre teologali non sono facili argomenti da armistizio, ma fondare le celebrazioni unitive sull'idea che i papi medicei, i loro grandi teologi tomisti come il Caietano, primo interlocutore di Lutero, e le loro opere, a partire da San Pietro e da Raffaello Sanzio, per dire, si muovevano nell'ambito di un cristianesimo non cattolico, mentre il vero cattolico era quel meraviglioso e profetico monaco insubordinato ai sacramenti e alla chiesa nel nome di una relazione personale con Dio, bè, come sottigliezza questa è grossa, è troppo spessa per passare dalla cruna dell'ago. Più sottile dialogare su basi serie. Lutero fu l'esplosione del cuore credente contro la sapienza cristiana ed ecclesiale, fu l'individualizzazione esistenzialista della fede, e in questo raggiunse vette teologiche immense, e un "destino", per usare la celebre dicitura di Febvre, che ha pochi paragoni nella storia. Quel monaco fantastico si era stufato dell' essere, dell'oggetto speculativo, ed ebbe rivelata una fede solo scritturale, esterna all'uomo e al suo intelletto razionale. Nel suo discorso di Ratisbona Benedetto XVI aveva usato il dialogo tra l'imperatore bizantino e il dotto persiano, sul tema della violenza insegnata da Maometto che è contraria alla natura di Dio e della ragione umana, come sanno i meno sbrigativi tra i suoi lettori, per una tirata storica e teologica contro lo spirito dei tempi moderni. Alla base aveva messo l'idea luterana di una "forma primordiale della fede", legata alla sola scrittura biblica e de-ellenizzata, cioè bruscamente amputata del logos greco, di Aristotele, maestro di san Tommaso. Poi aveva citato Immanuel Kant, e il suo illuminismo epistemologico: per fare spazio alla fede, diceva il filosofo, devo rinunciare al pensare. Poi citava la teologia liberale protestante tra Ottocento e Novecento, che puntava sull'umanizzazione di Gesù Cristo, generativa di un culto semplice e moralmente ordinato, una specie di umanitarismo. Poi criticava il positivismo e il pensiero delle scienze naturali che anch' esso autolimita la ragione e la confina nell'esperimento, nei suoi indubbi successi tecnici, nel suo rapporto

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esclusivo e geloso con quel che è o sarebbe la verità, e nell' idea di una struttura matematica della materia. Poi tirava in ballo la pretesa de-ellenizzante di tornare alle origini neotestamentarie per fare spazio alla molteplicità culturale che non può riconoscersi nell'impianto di idee dell'occidente cristiano. Ratzinger concludeva citando Socrate, dico Socrate, che si rivolse a Fedone come lui si sarebbe rivolto in dialogo a Lutero, dopo aver sentito tanti discorsi filosofici sbagliati: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno". Bè, non si arrabbiarono solo gli islamici, e di brutto, per quel modo di rievocare il jihad musulmano, si arrabbiarono anche i protestanti liberali, e molto, sebbene in forme più civilizzate, perché con quelle tirate di Ratisbona Ratzinger, il Professore, aveva preso di mira il mondo e i postulati della Riforma protestante e i suoi sviluppi storici e ideologici. Era il 12 settembre del 2006, Cinquecento anni dalle tesi di Wittenberg meno undici. LA NUOVA Pag 36 Lutero, 95 tesi: il tormento di un monaco di fronte alla Chiesa di Francesco Jori Enzo Pace: “E’ la teologia senza mediazioni” 31 ottobre 1517. Sulla porta della chiesa di Ognissanti a Wittenberg compare un manifesto articolato in 95 tesi in latino "intese alla determinazione dell'efficacia delle indulgenze" ("Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum"), in vista di una pubblica assemblea. A compilarle è un frate agostiniano, Martin Lutero, "maestro di arti e di sacra teologia", nonché lettore ordinario nella stessa disciplina nel locale monastero. Con questo documento contesta l'insegnamento della Chiesa cattolica sulla natura della penitenza, l'efficacia delle indulgenze, e la stessa autorità del Papa. Prende avvio il protestantesimo. Come nasce il gesto di Lutero, quali connotati assume, e cosa comporta per la religione ma anche per la politica in Europa? Ne parliamo con il professor Enzo Pace, docente di Sociologia delle religioni all'università di Padova. Professor Pace, su che terreno maturano le 95 tesi di Lutero da cui nasce il protestantesimo? C'è già un proposito di rottura, o siamo ancora allo stato nascente? «Prima ancora di una crisi che poi sfocerà in un conflitto insanabile tale da portare alla spaccatura dell'Europa, le tesi sono il frutto del tormento interiore di un monaco che da buon agostiniano si arrovella sul tema della salvezza: ci si salva accumulando buone azioni, o per altre strade?». Ma cos'è che spinge Lutero su questo percorso interiore? «La lettura diretta della Bibbia, che studia e insegna nel monastero di Wittenberg. A illuminarlo in particolare è la lettera ai Romani, nel passaggio dove si afferma che l'uomo si salva per fede. Teniamo presente che all'epoca la Bibbia è un testo quasi clandestino e proibito ai più: il popolo deve fidarsi di ciò che gli dice il clero». La vulgata vuole però che a metterlo in crisi e a portarlo alla rottura siano il viaggio a Roma e lo scandalo che gli ispirano i costumi della Chiesa. «Non è così. Lutero va a Roma a piedi, da penitente; e non è che quell'esperienza gli provochi un particolare choc. Il trauma vero lo prova quando capisce che le opere non contano se non c'è a monte la scelta di rimettersi alla totale misericordia di Dio». E come si inserisce in questo lo spinoso tema delle indulgenze? «Quando la Chiesa lancia la campagna per le indulgenze, tutti sanno che è motivata da una questione di banche dell'epoca. È una vicenda legata ad Alberto di Hohenzollern, che aspira a ricoprire la prestigiosa sede episcopale di Magonza, ma non ha i capitali sufficienti per arrivarci. Quindi va a bussare a un banchiere, Fugger - ebreo, tra l'altro - che gli presta i soldi ma intende ovviamente rientrare, e con gli interessi. Alberto negozia con la sede pontificia, chiedendo a papa Leone X,a sua volta vicino a una banca, quella dei Medici, di indire una grande campagna per le indulgenze in occasione dell'anno giubilare. Ottenuta via libera, organizza una massiccia task force di predicatori che battono le campagne, invitando a pentirsi, e spiegando che la penitenza verrà commutata in offerte cospicue». Il che manda Lutero definitivamente in crisi.«È lì che gli cade la Chiesa in testa. La scelta di affiggere le tesi sulla porta del monastero di Wittenberg probabilmente era un metodo in vigore tra teologi per lanciare una disputa. In quel documento c'è in sostanza l'abbozzo di una teologia che si fonda sul principio che

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non c'è più bisogno di mediazioni per salvarsi». Un'autentica bomba, per la Chiesa ufficiale. «C'è in effetti la reazione sconcertata di alcuni cardinaloni che si chiedono chi sia questo oscuro insegnante della Bibbia che vive in uno sperduto monastero della bassa Sassonia. Lutero stesso d'altra parte fino al 1519 - verrà scomunicato l'anno seguente - si ritiene un figlio fedele alla Chiesa, cui contesta l'approccio teologico». Poi come viene maturando e crescendo il protestantesimo? «C'è uno sviluppo progressivo in cui gioca un ruolo di primo piano il braccio destro di Lutero, Melantone, fine teologo. Via via vengono smantellati una serie di capisaldi: il Purgatorio, la confessione, fino alla figura stessa del prete. È quest'ultimo passaggio che fa traboccare il vaso: Roma capisce che lì vengono minate le fondamenta della sacralità della figura del sacerdote». Spostandosi dal piano religioso a quello culturale, quali sono gli effetti del luteranesimo sull'Europa? «A differenza di quanto accade con lo scisma d'Oriente per le chiese ortodosse, che quando si staccano da Roma diventano diverse l'una dall'altra acquisendo ciascuna una dimensione nazionale, qui si registrano almeno tre varianti, con Calvino, Zwingli e il filone dell'anabattismo: ne derivano modelli spirituali ma anche organizzativi diversi, con un cristianesimo non più declinato al singolare. Ci sono modi diversi per interpretarlo, partendo da un ceppo comune. E per l'Europa si apre una storia che entra nel terreno di un pluralismo fino ad allora considerato eretico». E che impatto ha la scelta di Lutero sulla Chiesa? «Mette in crisi un modello di Chiesa che si era faticosamente affermato nel Medioevo, con il papato che giocava un ruolo da pivot di un'Europa religiosa ma anche politica. Da lì in avanti si apre il capitolo di una Chiesa sollecitata a rimanere sul terreno spirituale, senza interferire con la politica». Ha fatto rumore la dichiarazione del segretario della Cei Galantino secondo il quale il gesto di Lutero è stato un evento dello Spirito Santo. «Galantino è la figura che più aderisce alla linea espressa dalla "Nostra Aetate" in poi, e culminata nel documento siglato a Lund da papa Bergoglio e dal capo della chiesa luterana europea Jackelen: un gesto che ha rimosso una serie di equivoci maturati sulla base della "Dominus Jesus" di papa Benedetto XVI, in cui viene ribadita la tesi che c'è una sola Chiesa che salva. È una linea in cui finalmente cattolici e luterani riconoscono i rispettivi errori, sostenendo che fede e opere possono conciliarsi». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le solite trappole del fisco di Nicola Saldutti Manovra e rinvii Il Fisco ragiona sempre in modo tutto suo, bisogna dirlo. Anche questo sistema delle clausole di salvaguardia sembra diventato un meccanismo di tasse con l’elastico, un sistema di quasi-tasse. Si arriva al punto, sul bordo dell’aumento automatico, e poi i governi cercano (e talvolta trovano), ma sempre all’ultimo momento, la formula per disinnescare il rincaro. Disinnescare, non cancellare. Anche questa volta, se non ci saranno altri interventi, l’Iva aumenterà dal 2019. Da gennaio poteva scattare l’aumento delle due aliquote dell’Imposta sul valore aggiunto, del 10 e del 22%. Una revisione scongiurata con la legge di Bilancio, ma soprattutto perché i 15,7 miliardi di gettito che servivano sono stati trovati altrove. Ma ecco il punto: è stata solo modificata la data dell’aumento, c’è un anno di tempo in più. Queste clausole sono una specie di assicurazione che l’Italia offre all’Unione Europea, di salvaguardia appunto. Suonano così: se non riusciamo a mantenere gli impegni, allora più tasse. E a ben guardare la formula del rinvio va avanti ormai da sei anni. Il primo ad adottare il metodo fu il governo guidato da Silvio Berlusconi che nel 2011, alle prese con la prima crisi del debito sovrano, rispose con questa intuizione fiscal-amministrativa ai vincoli europei. Poi tutti i governi successivi si sono alternati nel tentativo di disinnescarla o di servirsene. Ma siamo sicuri che questo sia un modo efficace di salvaguardare i conti pubblici e la politica fiscale? E soprattutto siamo sicuri che questo sia il modo migliore per tenere in considerazione i diritti dei contribuenti? Certo, a scorrere la manovra, sono molti i provvedimenti che cercano di assecondare il tentativo di ripresa in atto. Dalle assunzioni

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ai terrazzi. Lette in controluce, per la verità, alcune misure hanno il sapore di scelte che arrivano a pochi mesi dal voto. Una volta si chiamavano mance elettorali. Una delle parole più frequenti, non a caso, è «bonus». Però su questo sarà decisivo il cammino parlamentare. La lunga notte degli emendamenti, degli scambi in commissione e poi il maxi-emendamento sul quale tutti i governi fin qui arrivano a porre la fiducia. Certo, far fronte ad una spesa per interessi che ogni anno impone di trovare quasi 70 miliardi di euro, con un’Europa che solo a fatica ci ha concesso qualche margine di flessibilità, non è arte facile. Ma sul fronte delle tasse la riflessione dovrebbe farsi più profonda. La scelta di affidarsi in passato alle clausole di salvaguardia poteva apparire obbligata, ma forse non lo era. Uno dei tentativi di compensare l’aumento automatico (seppure congelato) potrebbe ripassare attraverso la via maestra del programma di riduzione della spesa inutile, e qui la sensazione è che il percorso sia di molto rallentato. Stesso copione per le privatizzazioni, unico sistema che ha consentito nei primi anni Novanta di far scendere il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo sotto la fatidica soglia del 100% (mentre ora siamo intorno al 132%). La macchina delle dismissioni ha subìto un graduale ripensamento nei fatti, e sarà molto rilevante vedere in quanto tempo il Monte dei Paschi di Siena, diventato del Tesoro per effetto del salvataggio, tornerà sul mercato. E se lo Stato rallenta, gli enti periferici fanno proprio finta di niente: le privatizzazioni regionali o comunali sono praticamente inesistenti. Come dire: quella clausola di salvaguardia rappresenta una sorta di formula magica che consente di assicurarsi il via libera dell’Unione Europea senza però tener conto del fatto che lasciare aperta l’opzione dell’aumento delle tasse, non può esser l’unica strada di gestione del deficit. E soprattutto non può essere un alibi da fare ricadere sui contribuenti. C’è di positivo che almeno si è persa la cattiva abitudine dell’aumento retroattivo delle imposte. In questo caso si tratterebbe, se non interverranno misure in grado di cancellarlo, di un aumento fin troppo annunciato. AVVENIRE Pag 20 Tablet a scuola? Come la zappa all’inizio del ‘900 di Roberto Carnero Intervista a Lorenzo Tomasin Oggi in molti tendono a identificare l’innovazione col progresso tecnologico, e, a proposito di quest’ultimo, a confondere l’aumento delle possibilità dei mezzi tecnici di 'servire' all’uomo con l’idea che ogni ambito dell’istruzione e della ricerca debba necessariamente essere pervaso da abitudini mentali e condotte tipiche della cultura tecnologica. Ma siamo sicuri che questo modo di pensare sia davvero corretto? Certi eccessi in tal senso e i rischi a essi connessi sembrano sostenuti da alcune tendenze attualmente dominanti, nonché da un’intensa propaganda mediatica in questa direzione, che però potrebbe essere utile provare a smontare criticamente. Si è proposto di farlo, con indubbia competenza scientifica, ma anche con un’intelligenza acuta e spiazzante, Lorenzo Tomasin, professore di Filologia romanza e Storia della lingua italiana all’Università di Losanna (Svizzera), nel saggio L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia (Carocci, pagine 144, euro 12,00). Il libro si concentra in particolare sull’istruzione scolastica, sulla ricerca e sulle politiche dei governi in questi campi. Professor Tomasin, in che senso possiamo dire che l’informatica è 'il latino del nuovo millennio'? «La frase, che ricorre nel primo capitolo del libro, non è mia, ma di un illustre esponente della ricerca tecnologica, e attuale direttore di un politecnico federale svizzero: il rappresentante tipico di una nuova classe dirigente fatta di tecnici che, sprovvisti di una solida formazione nel campo della cultura umanistica (egli stesso, come molti suoi omologhi, ammette di non conoscere il latino; e ce ne sono altri che rivelano con orgoglio di non essere mai entrati in una biblioteca), tendono a esaltare la tecnologia e il suo ruolo nell’istruzione, nella società e nelle politiche culturali, attribuendole il ruolo centrale e vivificante svolto da sempre, almeno in Occidente, dalla cultura umanistica: una cultura che al centro non mette l’utilità concreta, ma la dignità dell’uomo. Di quella cultura, i nuovi tecnocrati percepiscono in qualche modo il fascino, ma ne equivocano la funzione e il valore, perché di fatto ne ignorano i contenuti e ne fraintendono il vero significato».

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La tecnologia sta influenzando, oltre che la nostra vita quotidiana, anche l’insegnamento e la stessa cultura umanistica. Tra gli 'apocalittici' e gli 'integrati' lei sembra assumere una via mediana. Qual è la sua proposta, il suo approccio a questa problematica? «Nessuna professione intellettuale e a fortiori nessuna attività di ricerca avanzata, può oggi fare a meno della tecnologia e dei mezzi che essa mette a disposizione. Rifiutare o disdegnare il necessario aggiornamento dei mezzi impiegati è assurdo, ma ciò non implica la necessità di stravolgere il fine del nostro lavoro. Né di trasformare i mezzi in fini, o peggio in padroni del campo. Nel caso della ricerca cosiddetta di base, l’impiego delle tecnologie non può condurre a cercare affannosamente ricadute applicative dei propri ritrovati, né può consistere nella riduzione dei contenuti culturali a inerti mezzi al servizio dello sviluppo di nuove tecnologie, magari concepite in funzione di un mero sfruttamento commerciale, oppure di una fruizione poco meno che ludica. Quindi, per rispondere alla sua domanda: la contrapposizione tra 'apoca-littici' e 'integrati', delineata nel secolo scorso, è oggi superata in un mondo che non può che dirsi necessariamente 'interconnesso', ma che proprio di questa interconnessione deve conoscere, assieme alle opportunità, anche i limiti e i rischi». Lei in particolare non manca di notare i rischi di una tecnicizzazione a oltranza dei saperi e della loro trasmissione. «Tali rischi sono già pienamente visibili nel discorso politico su istruzione e ricerca: un discorso che pare mettere al centro un modello, quello del tecnologo, unico vero ricercatore proteso verso l’unica vera forma di innovazione, che sta diventando un vero feticcio culturale. Per questa via, un fortunato acronimo come quello contenuto nella formula della Stem education (cioè l’istruzione fondata su scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, con le scienze ai margini e al centro le sovrane tecniche) assurge a modello insistentemente proposto dalle politiche di molti Stati. Per questa via, anche in Italia, il discorso pubblico sull’istruzione indulge colpevolmente, e sulla base di dati addomesticati dalla malafede, nella deplorazione pubblica di chi si dedica alle discipline umanistiche e nell’auspicio rivolto al sistema dell’istruzione a formare più laureati in discipline tecniche. Anziché cittadini migliori e più consapevoli. Quando poi simili discorsi piegano verso la proposta delle discipline tecnico-scientifiche come strumento di emancipazione opposto al modello culturale basato sulle scienze umane (evidentemente considerato retrivo perché poco remunerativo), si arriva a qualcosa di simile a un tentativo di pianificazione autoritaria delle coscienze». Nell’attuale sistema di istruzione, a tutti i livelli, si insiste molto sulla necessità di 'digitalizzare' la didattica e l’apprendimento. È davvero questa la 'buona scuola'? «Nel mio libro utilizzo un’immagine che può servire a rispondere a questa domanda. Quando nacque l’istruzione scolastica obbligatoria, portare i bambini a scuola significava strapparli ai campi o alle fabbriche, per mostrare loro un mondo e una realtà diversa da quella a cui li costringeva la loro condizione, aprendo loro la possibilità di passare il resto della vita altrove rispetto a un campo o a un’officina. Oggi portare a scuola i bambini significa (e ciò è tanto più vero, quanto più fragili sono le loro condizioni socioculturali di partenza) toglierli o distoglierli da un ambiente in cui schermi e display sono onnipresenti. In questa situazione, molti sono convinti che far trovare loro un tablet o un cellulare anche sul banco di scuola sia la cosa giusta. Ma forse qualcuno avrebbe pensato un tempo che sarebbe stato bene presentare loro una zappa anziché un libro?». Un’altra immagine molto efficace del suo libro è quella della ' plastificazione culturale': ce la vuole illustrare? «Con questa immagine ho provato a rispondere a chi parlando della cosiddetta rivoluzione tecnologica la paragona al mutamento epocale costituito dall’invenzione della stampa, che, assieme ad altre innovazioni tecniche, in un certo senso segnò il passaggio dal Medioevo all’età moderna. È evidentemente un paragone nobilitante, per bilanciare il quale si può però proporre un altro, e secondo me più calzante, parallelo storico. Anche l’invenzione della plastica ha segnato una svolta epocale, tanto che oggi non potremmo fare a meno di un materiale divenuto onnipresente e universalmente utile. Si dà il caso che abbastanza rapidamente ci siamo resi conto sia dell’universale utilità delle materie plastiche, sia del loro grave nocumento ambientale: se ciò non ha condotto né potrebbe condurre alla loro eliminazione, certo oggi nessuno ne esalterebbe incondizionatamente le proprietà. Ecco, trovo che l’avanzata delle tecnologie rappresenti qualcosa di simile a una plastificazione culturale, che potrà avere certo caratteri di utilità, di praticità e di

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concreto vantaggio. Ma che è pur sempre una plastificazione, e come tale, più che esaltata, va possibilmente controllata. Se non proprio ecologicamente contenuta e disciplinata». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 16 – 17 Venezia sbanca la top ten dell’Istat di Roberta De Rossi, Manuela Pivato, Enrico Tantucci e Giovanni Cagnassi La città lagunare è terza in classifica, dietro soltanto a Roma e Milano, ma le sorprese sono sul litorale: Cavallino-Treporti, Caorle, Jesolo e Bibione. “Statistiche superate, le presenze sono il triplo” Che sul terzo gradino del podio - dopo Roma e Milano - ci sia Venezia, non è certo una novità. Ma che nella hit delle prime dieci località italiane più amate dai turisti, ben cinque siano Veneziane - con la città storica, le spiagge del Litorale: Cavallino-Treporti, Jesolo, San Michele al Tagliamento e Caorle - dice molto su quale sia la voce più importante dell'economia non solo della provincia, ma dell'intera regione. Venezia e il suo litorale catturano da sole quasi 33 dei 403 milioni di turisti registrati in Italia nel 2016, contando anche Chioggia (36ma in classifica) e il 1,3 milioni di bagnanti di Sottomarina. Il rapporto dell'Istat. Lo racconta l'Istituto di statistica nazionale, che per la prima volta ha deciso di diffondere i dati a livello comunale dell'Indagine sul "Movimento dei clienti negli esercizi ricettivi in Italiani": ben 403 milioni di persone l'anno scorso - si diceva - quasi equamente divisi tra italiani (203,5) e stranieri (199 milioni). Il che, naturalmente, lascia fuori dal rapporto le altre centinaia di migliaia di visitatori che alloggiano in un appartamento, per non dire dei milioni di pendolari mordi-e-fuggi della gita di un giorno, che tanto gravano su Venezia. È il turismo "buono", quello del quale si occupa l'Istat. I numeri di Venezia. Dopo Roma (in vetta con 25 milioni di presenze) e Milano (con 10,9), al terzo posto c'è Venezia: sono ben 10,5 milioni i turisti che hanno scelto di dormire in una struttura ricettiva in città nel 2016. Ma la città storica conquista la medaglia d'argento nella classifica delle località italiane più amate - scavalcando la più "affaristica" Milano - se si guarda ai soli turisti stranieri: il 4,5 per cento di quanti arrivano in Italia, trascorre almeno una notte in laguna. Spiagge da record. Sorprendente, nel suo complesso, è però trovare nella Top Ten delle 10 località turistiche più frequentate dello Stivale - subito dopo Firenze e Rimini e ben prima della decima Torino - tutte le spiagge del Litorale, con numeri in costante crescita. Cavallino-Treporti si piazza al sesto posto con oltre 6 milioni di presenze; Jesolo è settima, con 5,347 milioni di villeggianti; San Michele al Tagliamento si trova ottava nella classifica stilata dall'Istat, grazie a Bibione e i suoi 5,317 milioni di turisti. Infine, la piccola Caorle al nono posto italiano, con 4,284 milioni di presenze turistiche. Veneto in vetta. Numeri imponenti che confermano anche la posizione del Veneto al primo posto assoluto tra le regioni italiane più frequentate e amate dai turisti. "Cattura", infatti, il 16,2 per cento dei turisti di tutta la Penisola, in crescita dell'1,5 per cento rispetto al 2015. Nello specifico, scelgono il Veneto il 22 per cento dei turisti stranieri e il 10,5 per cento degli italiani. Venezia e l'Italia. Roma resta naturalmente la principale destinazione turistica in Italia, richiamando oltre 25 milioni di presenze, che rappresentano il 6,3% del totale nazionale. Milano è il secondo comune italiano per numero di presenze turistiche (2,7% sul totale nazionale), seguito in termini assoluti proprio da Venezia (2,6%), che però sale dal terzo al secondo posto se si considerano solo i turisti stranieri (4,5% delle presenze straniere). Al quarto e quinto posto della classifica delle mete preferite, si trovano Firenze (9,3 milioni di turisti) e Rimini (7 milioni). A chiudere la Top Ten, c'è Torino, con 3,6 milioni di visitatori. In generale, negli esercizi ricettivi dei primi 50 comuni italiani si concentrano circa 162 milioni di presenze, pari al 40,3% del totale: un terzo dei villeggianti italiani e quasi la metà di quelli che arrivano d'oltre confine. Venezia. «I dati Istat sul turismo per l'area veneta e veneziana - oltre che italiana - sono già superati e le presenze indicate per la città storica, sono più o meno solo un terzo di

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quelle reali, perché non comprendono naturalmente parte dei bed & breakfast, gli alloggi turistici e soprattutto l'onda lunga dei turisti giornalieri che arrivano a Venezia e pernottano magari nell'area metropolitana. Sono statistiche fatte come negli anni Cinquanta, tenendo sostanzialmente conto solo delle presenze alberghiere, e così servono francamente a poco». È molto critico il professor Jan Van der Borg - docente di Ca' Foscari specializzato in Economia del Turismo e in particolare su tutti i problemi legati al controllo dei flussi - sulle rilevazioni Istat sulle presenze turistiche italiane e venete nel 2016 e la polemica è soprattutto sulle metodologie, a suo avviso superate, di rilevazione di presenze e flussi. «Ho già progettato un osservatorio del turismo in tempo reale, che permetta, grazie a una serie di indicatori di sapere in ogni momento quanti turisti si trovano a Venezia, individuare i picchi di criticità e adottare le misure conseguenti», spiega Van der Borg, che per la Regione Veneto ha appena curato anche una ricerca sul fenomeno degli alloggi turistici legati a Airbnb. «Ma da noi non è mai stato attuato, mentre l'hanno "adottato" in Cina, ad Hangzhou, città da dieci milioni di persone della provincia dello Zhejiang, circondata da un famoso lago panoramico che può ospitare sino a 800 mila turisti al giorno». «Con le tecnologie di cui disponiamo, con i big data», continua il docente di Ca' Foscari, «possiamo raccogliere informazioni legate alle presenze e ai flussi turistici quasi in tempo reale, se solo volessimo organizzarci e Adottare così anche le misure conseguenti di contenimento dei flussi. Ma che ce ne facciamo di dati come quelli Istat che "fotografano" solo una fetta di presenze turistiche - legata alla ricettività alberghiera e extralberghiera ufficiale - di un anno prima? A cosa ci servono per programmare politiche e decisioni adesso?». Van der Borg ha anche elaborato per conto di Actv uno studio sui flussi di passeggeri agli imbarcaderi, ancora tre anni fa, ma a cui poi non è stato dato seguito con misure concrete per quanto riguarda la riorganizzazione delle linee. E il problema è ancora la mancanza di interventi concreti sui flussi turistici. La costa veneziana fa il pieno e nella lista delle prime dieci località italiane più amate dai turisti in Italia secondo l'Istat ci sono Cavallino Treporti, Jesolo, San Michele al Tagliamento-Bibione e Caorle. I dati sono relativi al 2016, ma poco cambieranno nel 2017 e danno l'idea delle potenzialità del litorale veneziano punteggiato dalle sue città balneari, ognuna con le sue peculiarità. Nella top ten, oltre a Venezia, al terzo posto dopo Roma e Milano, con 10,5 milioni di presenze, ci sono tutte le principali spiagge del litorale. Cavallino-Treporti è sesta con oltre 7 milioni di presenze, Jesolo al 7° posto, con 5,347 milioni di villeggianti, San Michele al Tagliamento con Bibione ottava con 5,3 milioni di turisti. Infine Caorle al nono posto, con 4,284 milioni di presenze turistiche. «Peccato che i dati siano del 2016», analizza il presidente di Federalberghi Veneto, Marco Michielli, «perché vorrei poter vedere anche i dati di una stagione come il 2017 che, se non ci fosse stato un settembre così piovoso, sarebbe stata straordinaria. Dalla classifica vedo Jesolo e Bibione sostanzialmente sulle stesse posizioni e stabili in questi anni con i loro ottimi risultati. Caorle in pochi anni ha raddoppiato il suo flusso turistico e credo che questo sia un dato davvero importante. Poi Cavallino-Treporti che merita un capitolo a parte perché con il suo turismo all'aria aperta direi che è uno dei centri più importanti in Europa per non dire il primo». I punti di forza delle spiagge in classifica sono sempre gli stessi, ma non vanno dati per scontati. Il mare pulito, i servizi e le spiagge attrezzate con il salvataggio, la pulizia e l'ambiente, le piste ciclabili e poi una sanità all'avanguardia sia nelle emergenze sia nelle dotazioni mediche e ospedaliere di riferimento sul territorio. La costa veneziana è tra le mete europee che in questi anni di terrorismo internazionale ha saputo capitalizzare le sue bellezze naturali e anche i servizi consolidati nel tempo. La prossima sfida è per tutti l'allungamento stagionale. «Se avessimo delle evidenze scientifiche sul clima del mese di ottobre», conclude Michielli, «dovremmo ragionare su una stagione lunga che contempli almeno tutto il mese di ottobre. In questi ultimi tre anni è stato un mese caratterizzato da sole e il clima ancora temperato. Io credo che gli operatori debbano assolutamente considerare di tenere aperte le strutture almeno a tutto questo mese. Questo in termini di dati percentuali potrebbe rappresentare da solo un più 20 per cento». Da Jesolo capitale in pectore della costa veneziana, il presidente dell'Aja, Alessandro Rizzante, è soddisfatto: «Sono tutti ottimi risultati», commenta sportivamente, a vantaggio della costa veneziana in generale. Per quanto ci riguarda, a Jesolo abbiamo puntato e stiamo puntando molto

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sulla qualità di servizi e strutture e questo è un obiettivo che ci prefissiamo per il futuro, crescere ancora». «I dati Istat del 2016 per quanto riguarda Venezia e il Veneto confermano una tendenza di crescita di presenze turistiche che stiamo registrando sicuramente anche quest'anno - in proporzione persino superiore al previsto - e ci sono tutte le premesse perché anche il 2018 si riveli un anno di crescita per il turismo veneziano e Veneto». È la valutazione di Mara Manente, direttore del Ciset, il Centro studi per l'economia turistica collegato all'Università di Ca' Foscari, che da anni segue l'andamento dei flussi turistici anche nella nostra regione. «Il podio che vede al primo posto Roma, seguita d Milano e Firenze per le presenze turistiche 2016» commenta Manente, «è destinato a ripetersi anche quest'anno, anche per la presenza di tre grandi scali aeroportuali nelle tre città, che fanno da traino. Ma è significativa anche la presenza tra le prime dieci località italiane di centri come Cavallino-Treporti, Jesolo e Caorle, che confermano anche l'importanza e lo sviluppo della ricettività legata al sistema dei campeggi nell'area veneziana e la scelta anche di mete minori e che si considerano forse meno congestionate». Per la ricercatrice di Ca' Foscari hanno contato e contano anche le mutate condizioni economiche generali che hanno favorito una ripresa del turismo di cui sta beneficiando in particolare la nostra regione, al primo posto in Italia per presenze turistiche. «Anche fattori di destabilizzazione internazionale come quelli avvenuti di recente in Spagna con l'attentato alle Ramblas e la questione Catalogna» spiega ancora Mara Manente, «hanno contribuito a favorire in parte le nostre mete italiane e venete». Un tavolo comune per affrontare la pressione del turismo, dai grandi numeri alla vivibilità dei centri urbani, dai flussi sempre più massicci di visitatori alla loro gestione. Si chiama "Grandi destinazioni italiane per un turismo sostenibile" ed è il protocollo d'intesa deliberato in giunta la settimana scorsa e firmato ieri in laguna dall'assessore al Turismo Paola Mar, dalla sua collega di Firenze Paola Concia, e dai rappresentanti dei Comuni di Milano, Roma e Napoli, le cinque città che marceranno compatte per trovare una soluzione ai rispettivi problemi accomunati, seppure con impatti molto diversi, dalla sovrabbondanza di presenze che anno dopo anno sono destinate ad aumentare. Nel corso dell'incontro con il direttore generale del ministero del Turismo, Francesco Palumbo, è stato dato l'avvio a tavoli tecnici che, nei prossimi mesi, affronteranno la questione. A un anno dalla prima commissione riunitasi a Ca' Farsetti proprio con lo scopo di arginare un fenomeno che a Venezia è ormai fuori controllo, arrivato a 27 milioni di visitatori all'anno e che non conosce più basse stagioni, ciascuna città metterà a disposizione delle altre i propri studi, le proprie conoscenze, i dati raccolti, le proposte, le cose urgenti da fare, a cominciare dalla comunicazione rapida con le infrastrutture (stazione, porto e aeroporto) per arrivare a conoscere il numero degli arrivi in tempo reale.«Un'attenzione particolare sarà riservata alla questione delle locazione turistiche», spiega l'assessore Paola Mar, «per la quale abbiamo chiesto l'impegno da parte del Governo a normarle, di concerto con le Regioni, e in maniera particolare a Venezia, dove la residenzialità è messa in pericolo dagli affitti turistici. Non dimentichiamo che la locazione è la chiave di volta per la trasformazione delle città». Pag 22 Pellestrina e Malamocco, duecento giovani al lavoro per pulire la spiaggia libera di s.b. Lido. Duecento giovani volontari hanno lavorato da venerdì a domenica per ripulire la spiaggia libera di Pellestrina e l'area dei Murazzi dietro Malamocco. Hanno aderito al progetto dell'associazione Prove di un nuovo mondo, e riempito in tre giorni centinaia di sacchi delle immondizie con rifiuti e plastica di ogni tipo, ma raccogliendo anche boe e altri materiali di grosse dimensioni giunti dal mare fino a riva. I giovani sono stati ospitati al Centro Soggiorni Morosini degli Alberoni e nelle strutture di Santa Maria del Mare, hanno condiviso ogni momento in questi tre giorni: non solo lavoro, ma anche divertimento e scoperta, cultura e amicizia. Per gli studenti intervenuti sono state infatti organizzate anche delle uscite, come ad esempio la visita al Piccolo Museo della Laguna Sud per far conoscere le origini di Pellestrina. E al fianco dei ragazzi si è schierata anche Veritas, che ha messo a disposizione mezzi e materiali per la raccolta e lo smaltimento

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successivo dei rifiuti. Il consigliere comunale delegato per le isole, Alessandro Scarpa Marta, osserva: «I ragazzi hanno fatto un lavoro encomiabile, dando una mano a migliorare l'ambiente». Pag 23 Divieto d’accesso a duemila loculi di Mitia Chiarin Diverse zone ancora chiuse per infiltrazioni, proteste dei cittadini. Veritas: “In primavera i cantieri”. Domani e giovedì le celebrazioni del Patriarca Anche quest'anno la ricorrenza di tutti i defunti, il 2 novembre, al cimitero di Mestre si vive in mezzo alle difficoltà. Duemila loculi transennati da anni perché le infiltrazioni hanno messo in pericolo la tenuta delle coperture delle strutture che ospitano i loculi dei morti.E così anche quest'anno il rito di portare un fiore al caro estinto a Mestre nel giorno tradizionalmente dedicato ai defunti nell'ala più vecchia del cimitero di Mestre diventa un percorso ad ostacoli. Chi passeggia nella zona dietro la vecchia chiesetta del cimitero non può non notarlo.Caro estinto tra le transenne. Transenne in mezzo ai fabbricati che ospitano i loculi oppure a ridosso delle due ali di lapidi sotto gli archi della vecchia chiesetta. E ancora vecchie cappelle di famiglia chiuse alle visite così come tratti del vecchio muro di cinta che ospitano vecchie sepolture. Tutte sono chiuse al pubblico dalle transenne. Avvisi disattesi. E gli avvisi mettono in guardia i visitatori: "Attenzione! Fabbricato chiuso per motivi di sicurezza", è la scritta che si ripete. Ma con il tempo, donne e uomini hanno imparato a spostare le transenne e fare comunque visita al caro estinto. Il rispetto per chi se ne è andato produce una sorta di "ribellione" a una situazione di degrado che va avanti da anni, oramai. Donne e uomini, molti anziani, si muovono tra le transenne, decisi ad accudire la tomba di un parente caro, tenendola pulita e portando fiori. Una situazione al limite che va avanti da troppo tempo. I cantieri dal 2018. Ma il 2018 porterà i tanto attesi cantieri di sistemazione. Lo conferma Veritas che ha in gestione i cimiteri della città e spiega che tra poco partirà la gara di assegnazione dei lavori e, valutati i tempi tecnici, la previsione è che entro la primavera 2018 dovrebbero iniziare i lavori. Un milione dal Comune. A garantire il finanziamento era stata lo scorso agosto la giunta Brugnaro con uno stanziamento da un milione di euro per intervenire su quei 2 mila loculi inaccessibili, perché transennati causa pericoli causati da infiltrazioni. Altri 115 mila euro serviranno per sistemare il muro di cinta. Un altro milione va alle manutenzioni nei cimiteri di terraferma, aveva deciso l'amministrazione comunale veneziana su proposta dell'assessorato ai Lavori pubblici di Francesca Zaccariotto che aveva criticato il mancato intervento delle precedenti amministrazioni. Nel frattempo la situazione, nota a tutti, ha potuto solo peggiorare. Portando anche a casi limite. Il caso delle ossa In container. Lo scorso febbraio avevamo denunciato la assurda vicenda di cui è protagonista Lucia Chiavegato, consigliera cinque stelle a Chirignago-Zelarino, che a gennaio 2017 aveva spostato i resti del padre, morto 25 anni fa, dal cimitero di Venezia, dove era sepolto, a quello di Mestre per ospitarlo nella stessa cassetta che ospita i nonni, i genitori del padre. Proprio a causa dell'inagibilità dei loculi, la donna a Mestre si è vista negare la tumulazione e i resti del padre sono finiti depositati, senza alcuna scadenza temporale, in un container che non si può né visitare. Chiuso a tutti, parenti compresi anche nel giorno dedicato ai morti. Mesi dopo la Chiavegato ha dovuto scegliere. «Stanca di avere le ossa di mio padre dentro un container alla fine ho deciso di acquistare un altro ossario e ho pagato a Veritas 500 euro», spiega la Chiavegato. «Alle mie rimostranze non ci sono mai state risposte. Ora so che il Comune ha deciso di intervenire ma non potevo aspettare oltre». Ora tutti sperano che nel 2018 quei duemila defunti trovino pace, davvero. Saranno tre i principali appuntamenti religiosi che coinvolgeranno direttamente il patriarca Francesco Moraglia in occasione dell'annuale commemorazione dei santi e di tutti i fedeli defunti. Appuntamenti molto attesi e partecipati che, tradizionalmente, richiamano centinaia di fedeli nell'ambito delle tradizionali visite ai cimiteri. Si comincia domani pomeriggio alle 15, quando il patriarca Moraglia presiederà la Santa Messa della solennità di tutti i Santi nella chiesa di Santa Maria della Consolazione nel cimitero di Mestre insieme ai sacerdoti della città e alle autorità. Un momento tradizionalmente molto atteso e partecipato dai fedeli. Giovedì alle 10 monsignor Moraglia presiederà quindi la celebrazione eucaristica in programma nella chiesa di San Michele, con la

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partecipazione delle autorità e delle confraternite cittadine. Al termine, il Patriarca si recherà alla cappella di San Cristoforo per la benedizione a tutti i defunti del cimitero. Ultimo appuntamento religioso alle 18 di giovedì si terrà, infine, nella cattedrale di San Marco, dove sarà celebrata la messa in suffragio per tutti i Patriarchi, i canonici, i sacerdoti e i diaconi diocesani defunti. Anche questa celebrazione sarà presieduta dal Patriarca Francesco Moraglia che concluderà così le celebrazioni per tutti i santi e i defunti. Ieri è stata un'impresa raggiungere il cimitero di San Michele. File di turisti, arrivati per il ponte, si confondevano con quelle dei residenti che andavano a sistemare la tomba dei propri cari. «Ormai si perde sempre due volte il motoscafo da quanto è pieno» racconta la muranese Anna Statua «Ma oggi (ieri, ndr) è proprio impossibile». Da oggi comunque la situazione dovrebbe cambiare. Da oggi fino al 2 novembre incluso, sono state istituite corse speciale per San Michele, il cimitero di Mestre e quello di Marghera. Gratuiti i collegamenti da e per San Michele con la linea Defunti (DE). Dalle Fondamenta Nove (approdo D) i vaporetti partiranno per il Cimitero (B) alle 9 e 9.20, dalle 9.40 alle ore 12 ogni dieci minuti; alle 12.20, 12.40 e 13; dalle ore 13.20 alle ore 15.10 ogni dieci minuti e dalle ore 15.20 alle ore 17.40 ai minuti 0, 20 e 40 di ogni ora. Dal cimitero (B) invece partenza verso Fondamenta Nove alle ore 9.10 e 9.30; dalle ore 9.50 alle ore 12.10 ogni dieci minuti; alle ore 12.30, 12.50 e 13.10; dalle ore 13.30 alle ore 15.20 ogni dieci minuti e dalle ore 15.30 alle ore 17.50 ai minuti 10, 30 e 50 di ogni ora. La linea DE (Piazzale Roma D, Ferrovia C, Guglie, Crea, Tre Archi) per il Cimitero (A) parte da P. Roma (Scomenzera, C) dalle ore 9.10 alle ore 16.50 ai minuti 10, 30 e 50 di ogni ore. Dal Cimitero (A) dalle ore 9.35 alle ore 17.15 ai minuti 15, 35 e 55 di ogni ora. Sempre la linea DE (Lido, S. Pietro, Celestia e Cimitero A) parte dal Lido ai minuti 10 dalle ore 10 alle 16 (escluso alle 13.10) per poi tornare dall'approdo Cimitero A ai minuti 40 di ogni ora dalle 10 alle 16 (escluso 13.40). La linea 81 da Piazza 27 Ottobre al cimitero di Marghera e viceversa passerà ai minuti 00 dalle 8 alle 17. Dalle 8 alle 15 di oggi effettua la deviazione per il mercato di Marghera. Pag 26 Delitto Cannizzaro, l’omicida dal giudice di ru.b. La pm chiede il processo ma il 21enne accusato è in carcere in Romania per violenza sessuale Marghera. La pubblico ministero Laura Cameli ha chiuso le indagini e chiesto il processo per Marcel Mustata, romeno di 21 anni accusato di essere l'assassino di Alberico Cannizzaro, il 79enne trovato morto nella sua abitazione in piazzale Radaelli, a Marghera, il 2 luglio 2015. Oltre che di omicidio, la Procura veneziana accusa il giovane anche di rapina. Ma il 21enne si trova in carcere in Romania, dove deve scontare nove anni di reclusione per violenza sessuale e rapina. L'udienza preliminare a suo carico sarà celebrata prossimamente davanti al gup Massimo Vicinanza. Ma in assenza di un accordo internazionale tra Italia e Romania, Mustata è impossibilitato a venire nel nostro Paese per partecipare al processo. E per questo la macchina della giustizia sta lavorando a pieno perché si arrivi quanto prima a una soluzione che potrebbe essere una sorta di "teleconferenza". Il delitto Cannizzaro aveva particolarmente colpito la comunità: l'anziano era stato ucciso a coltellate mentre la moglie era a un campo estivo con il figlio prete. Dalla casa erano spariti alcuni monili d'oro. Mustata era stato incastrato grazie alle impronte digitali trovate dalla polizia nell'abitazione dell'anziano e sul manico del coltello usato per il delitto. La comparazione con le impronte nelle banche dati internazionali delle forze dell'ordine aveva permesso di arrivare a Mustata, già in cella in Romania. Ieri l'uomo era a processo per tentata rapina e lesioni davanti al giudice monocratico Fabio Moretti. Ma l'udienza è stata rinviata sempre per lo stesso motivo del legittimo impedimento. L'episodio in questione risale al 25 ottobre 2013, alle 5.30. Un ferroviere stava andando al lavoro in stazione a Mestre quando, all'altezza di via Monte Sabotino, una laterale di via Piave, era stato avvicinato da Mustata che aveva chiesto al ferroviere di consegnargli quello che aveva. E per farlo gli aveva tirato un pugno in faccia e gli aveva lesionato il polso. In soccorso del ferroviere erano poi arrivate alcune persone, tanto che Mustata aveva desistito e si era allontanato. Era stato individuato poche ore dopo dagli agenti della Polfer, a cui il ferroviere si era rivolto. Il romeno,

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infatti, faceva parte di un gruppetto dedito alla microcriminalità che all'epoca colpiva nella zona attorno alla stazione. Pag 34 Eraclea: giovani volontari ripuliscono golena e Laguna del Mort di g.mon. Eraclea. Un fine settimana all'insegna del volontariato e dell'impegno per l'ambiente, ripulendo la golena del Piave a Eraclea e la Laguna del Mort. Protagonisti della bella esperienza sono stati 22 giovani volontari, tra i 16 e i 17 anni, che hanno deciso di aderire al progetto "72 ore con le maniche in su". Quest'iniziativa formativa e sociale, organizzata dal gruppo "Prove di un mondo nuovo", è possibile grazie al contributo della Caritas veneziana. Nel caso di Eraclea l'iniziativa si è svolta con la collaborazione del circolo di Legambiente Veneto Orientale, che ha coadiuvato nell'organizzazione i due responsabili del gruppo di 22 giovani. I ragazzi hanno eseguito la pulizia di alcuni luoghi del paese, dedicandosi prima al tratto di golena del Piave lungo via Anafesto, per poi concentrarsi sulla Laguna del Mort e la spiaggia di Eraclea Mare, con particolare attenzione all'area dopo l'ex Fornace. Pag 39 I dipinti di Veronese da Murano a New York Alla Frick Collection le opere provenienti dalla chiesa di San Pietro e restaurate da Venetian Heritage I dipinti di Paolo Veronese volano a New York grazie a Venetian Heritage. E' stata inaugurata nei giorni alla Frick Collection la mostra dedicata ai due dipinti di Paolo Veronese provenienti dalla chiesa di San Pietro Martire a Murano, restaurati da Venetian Heritage con il sostegno di Bulgari alla presenza, tra gli altri, della presidente del comitato di salvaguardia Valentina Nasi Marini Clarelli, del direttore Toto Bergamo Rossi e di sostenitori e amici del comitato, come l'archistar Peter Marino. Le grandi tele raffiguranti San Girolamo nel deserto e Sant'Agata in prigione visitata da San Pietro furono dipinte da Paolo Veronese nel 1566 e commissionate da Francesco Degli Alberi, confessore del convento di Santa Maria degli Angeli in Murano. Originariamente si trovavano nella cappella privata edificata per volontà del sacerdote a lato della chiesa. Nel 1667 i dipinti furono trasferiti nella vicina chiesa di Santa Maria degli Angeli. Probabilmente in questo stesso periodo furono intagliate le ricchissime cornici lignee dorate. Durante la dominazione francese all'inizio dell'Ottocento, la chiesa di Santa Maria degli Angeli fu sconsacrata e alcune delle opere ivi conservate furono trasferite nella vicina chiesa di San Pietro Martire. L'intervento di restauro ha riportato alla luce due importantissime testimonianze della pittura veneta del Cinquecento. Questa iniziativa si inserisce nell'ampio programma di Venetian Heritage dedicato alla conservazione e promozione del patrimonio storico-artistico veneziano. La mostra, che rimarrà aperta fino a metà marzo 2018, sarà poi allestita presso il New Orleans Museum of Art. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Omicidio Cannizzaro, si avvicina il processo Chiuse le indagini a carico del 22enne Marcel Mustata, in carcere in Romania per un caso di violenza sessuale Venezia. Indagini chiuse per l'omicidio di Alberico Cannizzaro, il 79enne di Marghera sgozzato in casa il 2 luglio del 2015. Il pubblico ministero Laura Cameli ha chiesto il rinvio a giudizio per Marcel Mustata, 22enne rumeno, che nel frattempo è finito in carcere in Romania, dove deve scontare una condanna a 9 anni per violenza sessuale e sequestro di persona ai danni di una giovane connazionale. Un legittimo impedimento - l'incarcerazione in Romania - a partecipare all'ormai prossima udienza preliminare per l'omicidio in Italia, che si cercherà in qualche modo di superare. Forse con una videoconferenza o con una consegna temporanea. Si vedrà. Intanto anche ieri Mustata non si è presentato a un altro processo, davanti al giudice monocratico di Venezia, Fabio Moretti, che lo vede accusato di lesioni e rapina ai danni di un ferroviere, nel 2013, nei pressi della stazione di Mestre. Perché Mustata, già prima del delitto di Marghera, si era fatto notare in città.

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L'OMICIDIO - Un delitto efferato, quello di Marghera, che aveva particolarmente scosso l'opinione pubblica. Ex sarto, padre di due figli sacerdoti, Cannizzaro era noto e benvoluto. Quel pomeriggio probabilmente aprì la porta al suo assassino. Mustata, stando alla ricostruzione dell'accusa, colpì l'anziano alla gola con una violenza tale che la lama del coltello da cucina si spezzò, restando conficcata in gola. Il tutto per arraffare pochi gioielli di nessun valore. Felice fu poi l'intuizione della polizia che andò a cercare indizi tra il gruppetto di ventenni, per lo più dell'Est, che bazzicavano in zona. Vite di espedienti, tra furti, rapine, alcol, droga. Fu così che le impronte trovate in casa e sull'arma del delitto furono fatte risalire proprio a uno di quei giovani, Mustata, appunto. Nel novembre 2015 venne emesso un mandato di arresto europeo a suo carico, notificatogli direttamente in carcere in Romania, dove il giovane era già finito. L'AGGRESSIONE - Ma l'omicidio del 2015 era arrivato dopo un altro episodio di violenza, che è approdato ieri nelle aule del Tribunale. Un'aggressione in via monte Sabotino, a Mestre, alle 5.30 del mattino del 25 ottobre del 2013. Mustata, all'epoca 18enne, aggredì un ferroviere che stava andando al lavoro, gli tirò un pugno in faccia, l'altro reagì, intervennero i passanti e poco dopo Mustata fu bloccato. Pag XX Eraclea, Legambiente: i giovani ripuliscono il territorio di F. Cib. I ragazzi ripuliscono il territorio dai rifiuti. Grazie al circolo Legambiente del Veneto Orientale, che ha collaborato con i volontari di Prove di un mondo nuovo al progetto con le maniche in su, 22 giovani tra i 16 ed i 17 anni hanno potuto rendersi utili per il loro territorio, liberandolo dai rifiuti. Il tutto si è svolto lo scorso fine settimana. Una significativa esperienza formativa e sociale, resa possibile grazie al contributo della Caritas Veneziana. «Il progetto ha spiegato Maurizio Billotto prevede che vari gruppi di giovani siano operativi, (con le maniche in su), per tre giorni, (72h), in varie comunità della provincia realizzando attività utili alle persone ed al territorio che li ospita». Legambiente ha coadiuvato i due responsabili del gruppo di giovani, ospitati all'oratorio di Eraclea, nelle iniziative di pulizia di alcuni luoghi del paese rivolgendo in particolare l'attenzione al fiume e al litorale. «Le attività continua Billotto sono state precedute da un breve incontro formativo sull'impatto che hanno i rifiuti abbandonati ed in particolare nell'ambiente fluviale e marino. Il venerdì mattina si sono dedicati al tratto di golena della Piave lungo via Anafesto. Il pomeriggio di venerdì e la giornata del sabato, sono stati dedicati alla Laguna del Mort e della spiaggia di Eraclea Mare con particolare attenzione all'area dopo l'ex Fornace. Sono state raccolte, purtroppo, grandi quantità di rifiuti, soprattutto nel tratto urbano lungo via Anafesto». Una utile esperienza per i ragazzi, che hanno dovuto scontrarsi con l'inciviltà delle persone che utilizzano il territorio come discarica. «A noi è rimasto il piacere dell'incontro ha concluso il portavoce di Legambiente e di aver collaborato ad un progetto così importante che attiva e sensibilizza gruppi così numerosi di giovani e giovanissimi». CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Fronte comune contro le case turistiche. Venezia seconda per visitatori stranieri di F.B. Vertice tra le città d’arte: proposta al ministero Venezia. Attacco alle locazioni turistiche con buona pace di Abbav (l’associazione di b&b e case in affitto) e Confedilizia (proprietari). Questa volta non c’è solo la giunta fucsia, ma sono le città d’arte e Città metropolitane, che ieri hanno presentato una proposta al governo per limitare gli alloggi turisti sotto accusa per l’impoverimento del tessuto urbano. Fronte comune di Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli, considerando che le criticità sono simili, le cinque città sono passate dallo scambio di idee alle buone pratiche. «Dobbiamo ragionare a 360 gradi mettendo insieme le esperienze - spiega l’assessore veneziano al Turismo Paola Mar -. Abbiamo dato la nostra disponibilità ad essere luogo di sperimentazione». Adesso la palla passa al governo dopo il vertice di ieri con il direttore generale del ministero dei Beni culturali in cui sono state stilate una serie di priorità su cui intervenire. La prima riguarda appunto le locazioni turistiche: «E’ il punto che contrasta di più con la residenzialità», sottolinea Mar, proprio nei giorni in cui

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il centro storico veneziano scende sotto i 54 mila abitanti. Anche perché a vedere i dati resi noti da Istat Venezia è terza nella speciale classifica delle presenze (le notti trascorse nelle strutture) con dieci milioni e mezzo di turisti. E se in Italia hanno pernottato 403 milioni di turisti nel 2016, Venezia è al secondo posto per presenze straniere (il 4,5 per cento sul totale, Milano ha il 3,6). Una sproporzione molto marcata, visto che meno dell’uno per cento degli italiani pernotta nel territorio comunale. A stupire è che nelle prime dieci posizioni cinque sono occupate proprio da località veneziane. Non c’è infatti solo il capoluogo (dopo Roma e Milano), ma anche Cavallino (sesto con sei milioni di presenze), Jesolo (settimo con 5,34), Bibione (ottavo con 5,31), Caorle (nona con 4,28), c’è anche Chioggia al 36esimo con 1,3 milioni. E qui il dato sugli stranieri è evidente soprattutto se confrontato con altre località balneari d’Italia, come ad esempio Rimini (quinta) dove gli italiani la fanno da padrone: nelle nostre coste invece capita esattamente il contrario. E’ la conferma che l’industria del turismo è di primaria importanza per l’economia del Veneziano, ma che allo stesso tempo va governata. Non è un caso che ieri all’ora di pranzo i garage di piazzale Roma erano già tutti esaurirti costringendo i vigili a dirottare le automobili al Tronchetto. «Lo diciamo da tempo, serve una gestione dei flussi che possa far vivere meglio turisti ma anche veneziani - dice Mar-. La collaborazione tra le città d’arte serve proprio a questo». Nell’incontro di ieri oltre a provvedimenti sulle locazioni turistiche le cinque città hanno parlato di gestione, conteggi e comunicazione proponendo protocolli con Autostrade, Ferrovie, porti e aeroporti, in modo da dare un’informazione corretta e precisa ai visitatori, sconsigliandoli di recarsi in città nei giorni da bollino rosso, quando muoversi diventa un’impresa più che un piacere. Pag 15 Omicidio Cannizzaro, indagini chiuse. Il killer è all’estero processo sospeso di A.Zo. Mustata detenuto in Romania per violenza sessuale. Accusato anche di un pestaggio Venezia. Il pm Laura Cameli ha chiuso le indagini e lo accusa di aver ucciso a coltellate Alberico Cannizzaro, 79enne di Marghera, nella sua abitazione il 2 luglio del 2015. Per questo il 22enne romeno Marcel Mustata dovrebbe essere processato di fronte al gup Massimo Vicinanza, che ha già fissato l’udienza preliminare per le prossime settimane. Ma il condizionale è d’obbligo perché Mustata, già da quando la squadra mobile di Venezia e la procura lo identificarono e ottennero l’ordinanza di custodia cautelare dal gip il 21 novembre 2015, è detenuto in Romania per scontare una condanna successiva per violenza sessuale a 9 anni. E per questo il processo rischia di essere sospeso fino a data da destinarsi. Essere detenuti all’estero, secondo il nostro ordinamento, è infatti una causa di «legittimo impedimento» a partecipare al processo. Lo ha stabilito la Cassazione con una sentenza del 2014, affermando che il processo può andare avanti solo nel caso in cui l’imputato dica esplicitamente di voler rinunciare ad assistervi: altrimenti viene sospeso per tutta la durata della detenzione. Non che ci siano problemi di prescrizione, vista la gravità del reato contestato, cioè l’omicidio volontario, ma resta il fatto che il processo rischia di slittare, come peraltro è accaduto ieri in un’altra vicenda che aveva portato Mustata di fronte al giudice Fabio Moretti. Il giovane, che faceva parte di un gruppo di sbandati che viveva nella zona della stazione, dedito alle rapine e alla prostituzione, il 25 ottobre del 2013 aveva aggredito alle 5 e mezza di mattina in via Monte Sabotino un ferroviere, assalendolo alle spalle, colpendolo con un pugno al volto e gettandolo a terra, tanto da lussargli anche un polso. Il tentativo di rapina era fallito solo perché in quel momento erano arrivate altre persone e lui era scappato. Gli agenti della polizia ferroviaria si erano però subito messi sulle sue tracce dopo aver ascoltato la testimonianza del malcapitato, proprio perché si trattava di una persona nota alle forze dell’ordine. Ben più grave però quello che era accaduto il 2 luglio 2015, quando Mustata, secondo la ricostruzione della polizia, si era introdotto in casa di Cannizzaro, sarto in pensione e padre dei due sacerdoti mestrini Corrado e Stefano, e forse al termine di una lite lo aveva accoltellato più volte. Poi se ne era scappato con alcuni monili di scarso valore. A incastrarlo era stata un’impronta digitale rinvenuta nell’abitazione, forse sul coltello. Quando la squadra mobile ha cercato dove fosse, ha scoperto che successivamente era stato arrestato in Romania. Dove si trova tuttora.

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Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 11 Veneto, l’autonomia vale 18,8 miliardi di Angela Pederiva Svelato in commissione il piano che quantifica la richiesta di trattenere i 9/10 delle tasse in cambio di 23 competenze. I dubbi del professor Buratti: “Difficile ottenere tutto” Venezia. Ma in soldoni, cosa vorrà dire l'autonomia? La domanda che dal 22 ottobre si fanno tutti è stata al centro ieri della seduta della commissione Affari Istituzionali del consiglio regionale, dove si è incardinato il progetto di legge statale su cui sarà costruita la trattativa con il governo. La risposta di Palazzo Balbi è che i famosi «nove decimi di Trento e Bolzano» varranno per il Veneto 18 miliardi e 803 milioni di euro, ma è un conto che non soddisfa l'opposizione, secondo cui prima di andare a Roma servirà anche una quantificazione delle risorse necessarie per ciascuna delle 23 competenze richieste. LA PRESENTAZIONE - In programma c'era la presentazione, in sede referente, della proposta della giunta. «Un testo che rende concreta l'indicazione ricevuta dal referendum», ha esordito il presidente della commissione Marino Finozzi (Lega Nord). «Un momento fondamentale per la nostra Regione», ha aggiunto l'assessore ai Rapporti con il consiglio Manuela Lanzarin (Zaia Presidente). Inevitabilmente l'attenzione si è concentrata sulle finanze, tema tanto cruciale quanto mutevole nel corso del negoziato: «Come direbbero gli azzeccagarbugli, si tratta di una fattispecie a formazione progressiva», ha (auto)ironizzato al riguardo il costituzionalista Mario Bertolissi, ospite di Palazzo Ferro Fini insieme all'economista Carlo Buratti, entrambi componenti della delegazione trattante. In aula c'erano anche i dirigenti regionali Maurizio Gasparin (Programmazione e sviluppo strategico) e Gianluigi Masullo (Risorse strumentali). Ed è stato proprio quest'ultimo ad illustrare la scheda di analisi economico-finanziaria del pdl 43, documento su cui si basano le aspettative autonomiste. IL GETTITO - Masullo ha premesso che non è stato un conteggio facile, frutto com'è di un complesso intreccio fra analisi delle dichiarazioni dei redditi, estrapolazione delle statistiche fiscali, stima dei consumi delle famiglie. Il tutto, peraltro, su dati relativi all'ultimo anno disponibile che è il 2015, quando i nove decimi del gettito significavano 12.546 milioni di Irpef, 2.461 di Ires e 9.506 di Iva, per un totale di 24.512 milioni, dai quali vanno però detratti i 5.709 di Imposta sul valore aggiunto già corrisposti dallo Stato alla Regione per il finanziamento del servizio sanitario nazionale e di alcuni trasferimenti extra-sanitari. Conclusione: «Le maggiori risorse per il bilancio regionale derivanti dalla devoluzione dei nove decimi di Irpef, Ires e Iva, al netto delle quote attualmente attribuite, risultano stimabili pertanto in 18 miliardi e 803 milioni». IL DIBATTITO - Il calcolo ha lasciato insoddisfatte le minoranze. «Mi sarei aspettato delle tabelle puntuali sulle singole materie: stiamo chiedendo allo Stato di acquisire dei pezzi di azienda, ma solo un pazzo comprerebbe un'azienda senza conoscere i suoi bilanci», ha lamentato Marino Zorzato (Area Popolare). «Serve un piano economico-finanziario dettagliato, altrimenti rischiamo di ritrovarci brutte sorprese alla trattativa», ha concordato Jacopo Berti (Movimento 5 Stelle). Una posizione condivisa a valanga dal Partito Democratico. Stefano Fracasso: «Se al gettito dei nove decimi sommiamo gli 804 milioni di addizionale Irpef, i 2.753 di Irap e i 594 del bollo auto, otteniamo 22.954 milioni di entrate, contro gli attuali 14.383, dunque con una differenza di 8.571: siamo sicuri che 8 miliardi e mezzo saranno sufficienti per gestire le 23 competenze?». Claudio Sinigaglia: «Non bisogna partire dai nove decimi, ma dalle funzioni che si intende incamerare, per valutare quanti soldi richiedono». Bruno Pigozzo: «Certe materie comporteranno trasferimenti di fondi, certe altre solo di poteri di nomina: i numeri certi ci servono per non arrivare deboli al negoziato». Queste argomentazioni hanno irritato Alessandro Montagnoli (Lega Nord): «Fino a dieci giorni fa per qualcuno il referendum non serviva a nulla perché l'Emilia Romagna aveva già l'autonomia, invece ora vi dimostriamo con un documento di 128 pagine quanto seria è la nostra proposta e voi sapete collaborare solo in senso negativo?». Boato di dissenso dai banchi delle minoranze, quindi replica delle dem Francesca Zottis («Vogliamo solo essere sicuri che 8 miliardi basteranno per gestire tutto quello che chiediamo?») e Orietta Salemi («È

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interesse di tutti arrivare al negoziato il più forti possibili»). Il presidente Finozzi ha cercato un punto di equilibrio: «Fissare i nove decimi è importante per non essere costretti ad elemosinare anno per anno le disponibilità finanziarie, dopodiché sono d'accordo sul fatto di quantificarle competenza per competenza». Troppo poco per convincere Graziano Azzalin (Pd): «Il quesito referendario non verteva sui nove decimi. Se bastasse un referendum per consentire ad ogni Regione di trattenere quel gettito, il giochetto verrebbe scoperto subito». Punzecchiatura di Sergio Berlato (Fratelli d'Italia): «Il referendum c'è già stato, lo dico ai colleghi rodigini che hanno ancora dei dubbi...». L'assessore Lanzarin ha assicurato che «ci sarà il momento per approfondire la parte finanziaria». Non adesso, ha però spiegato il dirigente Masullo, «perché è impossibile avere dati certi dal bilancio dello Stato: contiamo di ottenerli in fase di trattativa». Venezia. Giovedì scorso il professor Carlo Buratti era stato nominato dal governatore Luca Zaia quale componente della delegazione trattante per l'autonomia. Una scelta che non aveva suscitato alcuna meraviglia: insieme ai costituzionalisti Luca Antonini e Mario Bertolissi, l'ordinario di Scienza delle finanze all'Università di Padova faceva già parte del comitato strategico che aveva curato il percorso del referendum. Quello che ha stupito molti è stato piuttosto l'intervento del docente ieri, nella seduta della prima commissione a Palazzo Ferro Fini, dove ha espresso dubbi sull'attuale impostazione della trattativa con il governo. LE RETI - Buratti ha preso la parola dopo che vari esponenti dell'opposizione avevano lamentato la mancata indicazione delle risorse necessarie per le singole materie richieste. «È assurdo ha premesso l'esperto che Regioni così diverse abbiano le stesse competenze. Non è una questione di egoismo, è che Roma deve prendere atto che l'economia italiana si regge solo su Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, Regioni che hanno bisogno di ossigeno». Fin qui tutto bene. Ma arrivando al progetto di legge statale in esame, il professore ha spiazzato diversi dei presenti, sia nell'aula del consiglio che nella saletta del pubblico: «L'ho letto frettolosamente, ma questo pdl mi sembra molto ambizioso, non sarà facile ottenere tutto». Pura cautela negoziale? Buratti è andato oltre: «Non aspettatevi che sulle reti di trasporto dell'energia elettrica e del gas e sulla rete stradale dell'Anas ci sarà una risposta positiva da parte di Roma, perché non è pensabile un loro smembramento, come difatti era emerso nella formulazione della riforma costituzionale Renzi-Boschi». E ancora: «In parlamento non troverete un ambiente molto favorevole al trasferimento alla Regione della competenza su quelle reti. Può darsi che io mi sbagli, ma questa è la mia forte impressione». I COSTI - Buratti ha mostrato di nutrire perplessità anche sulla condizione dei nove decimi: «Si è detto che saremmo simili al Trentino Alto Adige, ma se nella trattativa il governo cominciasse a tagliare qualche funzione, saremmo un po' meno simili... e attenzione, perché i ministeri sono molto furbi nel quantificare i costi». Per questo l'accademico ha auspicato una sollecita indicazione delle singole risorse: «Mi associo alla richiesta dei consiglieri, ci dobbiamo attivare molto rapidamente per stimare il più precisamente possibile i costi per ciascuna funzione. Certi slogan sono buoni per il popolo, ma non per i palazzi romani». Oltre alle parole messe a verbale, ci sono poi quelle pronunciate a microfono spento, in risposta al dem Graziano Azzalin che chiedeva cosa succederebbe se anche Lombardia ed Emilia Romagna trattenessero i nove decimi: «Fallirebbe l'Italia». CORRIERE DEL VENETO Pag 5 L’autonomia di Trento e Bolzano vale per il Veneto oltre 18 miliardi di Marco Bonet Prima simulazione sui 9/10. Il ricercatore del Cnr: ne basterebbero 3. Governo contrario Venezia. Se il Veneto fosse come Bolzano, ogni anno, nelle sue casse, entrerebbero 18 miliardi di euro. E l’Italia andrebbe in default, sicché non ha tutti i torti chi dice che l’autonomia fiscale spinta, «speciale», equivarrebbe nei fatti ad una secessione, con la Libera (e ricca) Repubblica Veneta determinata a mollare l’Italia, dopo averla mandata in malora. Senza contare che quei 18 miliardi, secondo gli studiosi, sono una cifra enormemente superiore a quella davvero necessaria per gestire le 23 competenze chieste dal governatore Luca Zaia. Sono, queste, alcune delle riflessioni nate dalla

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commissione Bilancio che ieri, per prima, ha potuto discutere in consiglio regionale il progetto di legge che Zaia vorrebbe utilizzare come base di trattativa col governo. Stando ai numeri presentati dai professori del Bo Mario Bertolissi e Carlo Buratti, insieme ai dirigenti del Bilancio Gianluigi Masullo e della Programmazione Maurizio Gasparin, l’applicazione del principio dei 9/10, quello per cui verrebbe trattenuto in Veneto il 90% del gettito Iva, Irpef e Ires prodotto qui, porterebbe nelle casse della Regione 24,5 miliardi di euro l’anno (9,5 miliardi dall’Iva, 12,5 miliardi dall’Irpef, 2,5 miliardi dall’Ires). Da questi andrebbero detratti i 5,7 miliardi già oggi oggetto di compartecipazione Iva, arrivando così ai 18,8 miliardi di cui si diceva, ma poi sommati i tributi propri della Regione, dal bollo auto (594 milioni) all’Irap (2,7 miliardi), per una cifra finale, alla voce «entrate», di 22,9 miliardi. Per capirsi, nel 2018 il bilancio della Regione, tolte le partite di giro (2,8 miliardi), ammonterà a 12,8 miliardi di euro. La metà. Ma per gestire le 23 competenze chieste da Zaia occorrono tutti questi soldi? La risposta, secondo lo studio pubblicato su laVoce.info da Andrea Filippetti, economista dell’Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e le Autonomie del Cnr, è no. Filippetti ha calcolato la quota di bilancio statale (in termini di spesa) riferibile alle competenze che la Regione chiede allo Stato. La cifra che ne esce, come si vede nella tabella, è complessivamente di 2,9 miliardi, di cui 2,7 miliardi (il 93%) per la sola istruzione. «L’ammontare delle funzioni addizionali da svolgere per le Regioni risulta una quota risibile rispetto al totale delle spese regionali» fa notare Filippetti, secondo il quale «piuttosto che partire dai saldi fiscali, il ragionamento su una maggiore autonomia dovrebbe basarsi sulle materie e sulle funzioni che le Regioni desiderano gestire in proprio, quantificarne l’ammontare, e poi discuterne le modalità di finanziamento». Altro che 9/10. Il punto, però, è dibattuto: altri studiosi includono nella cifra anche i costi generali, che pure verrebbero regionalizzati, salendo così da 2,9 a 13 miliardi, mentre Zaia continua a ripetere che il suo board tecnico (di cui fanno parte Buratti e Bertolissi) ritiene i 9/10 «indispensabili» per finanziare le 23 competenze richieste. «E però lo stesso Zaia, nei suoi progetti di legge del 2012, si basava su cifre assai diverse e più contenute - chiosa il capogruppo del Pd Stefano Fracasso - l’istruzione era sempre la voce più consistente, con 3,3 miliardi, ma le altre materie ammontavano a poche decine di milioni, come la tutela dei beni culturali, 33 milioni, o la ricerca scientifica, 39 milioni. Numeri lontanissimi dai 18 miliardi pretesi ora dallo Stato». Per questo l’opposizione ha chiesto (richiesta accolta dal presidente della commissione Marino Finozzi, Lega) di poter disporre di un report che a fronte delle maggiori entrate previste dai 9/10 indichi puntualmente le voci di uscita, competenza per competenza. Fermo restando che il governo, al riguardo, è già stato chiarissimo: l’autonomia non può mettere a rischio gli equilibri di finanza pubblica né derogare al principio costituzionale di solidarietà. Che significhi, l’ha spiegato il ministro per la Coesione Claudio De Vincenti: «Poniamo che in materia ambientale lo Stato oggi spenda 80 e le Regioni 20; se si concorda una diversa ripartizione delle competenze, la Regione salirà per esempio a 50 e lo Stato scenderà, in pari misura, a 50. E alla fine sempre 100 si spenderà». Più chiaro di così. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le piccole librerie che tengono insieme l’Italia di Susanna Tamaro Orvieto e gli altri casi Orvieto è la mia città di riferimento da quasi trent’anni. E trent’anni sono un tempo abbastanza lungo per avere una visione di insieme della capacità di crescita e di valorizzazione di una piccola città. Crescita e valorizzazione che purtroppo, nel corso di questi stessi anni, non sono mai avvenute né state incoraggiate. E dire che Orvieto, con il suo Duomo, la sua storia, i suoi monumenti, il suo centro storico, avrebbe tutti i numeri per essere considerato un irrinunciabile gioiello del patrimonio culturale italiano, capace di attrarre visitatori da tutto il mondo. Ma l’Umbria - soprattutto questa parte dell’Umbria - sembra essere preda di un’arcaica sonnolenza. Abbiamo il più alto numero di addetti alla Pubblica amministrazione in relazione a quello degli abitanti, ma purtroppo

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questa abbondanza di impiego non si è mai trasformata in una realtà di efficiente attivismo, piuttosto in una moltitudine di burocrati capaci, con il loro piccolo potere, di rendere difficoltosa ogni iniziativa. Se la questione fosse la classica mors tua, vita mea , sarebbe ancora un segno di vitalità, per quanto darwiniana. Invece qui siamo al mors tua, supravivo ego. Un nuovo motto araldico che credo si potrebbe adattare a molte realtà nazionali. Dico questo perché ho appena appreso con estrema tristezza che la Libreria dei Sette, che quest’anno avrebbe festeggiato i 95 anni di attività, sarà costretta a chiudere i battenti dopo Natale. A dare il grido di allarme è stato Riccardo Campino - appassionato gestore della libreria dal 1994 insieme alle sorelle Enza e Monica - in un affollato incontro tenuto il 21 ottobre all’interno del Palazzo dei Sette, sede della libreria. Fino al 2016 le librerie sulla Rupe erano tre. La prima a chiudere è stata «Parole ribelli». Quando sparirà quella dei Campino, ne rimarrà aperta soltanto una minuscola, gestita con grande passione e professionalità. Ma fino a quando, mi chiedo, potrà resistere anche questa realtà residua all’inarrestabile avanzata delle catene di mutande che stanno colonizzando tutti i corsi principali delle nostre città? La chiusura di un negozio storico è sempre un impoverimento per questo tipo di comunità ma, quando si tratta di una libreria, le cose diventano tristemente più gravi. Che cos’è infatti una libreria se non il cuore pulsante di una piccola città di provincia? Grazie al lavoro e alla passione dei fratelli Campino, in questi venticinque anni sono passati per Orvieto ben 75 autori, da Tiziano Terzani a Vasquez Montalban, da Tahar Ben Jelloun a David Grossman ad Amin Maalouf, per non parlare degli italiani: Ammaniti, Carofiglio, Mazzucco, De Carlo, Faletti, Mazzantini, Uto Ughi, Tabucchi e via dicendo. Questo a significare che una libreria non è solo una mera rivendita commerciale ma è una realtà in grado di produrre - e proporre - cultura. E la cultura, continuo caparbiamente a credere, è l’unico argine in grado di porre un freno al dilagare della barbarie che sta montando da ogni dove. In questi venticinque anni la Libreria dei Sette non è stata soltanto un punto di incontro letterario ma ha lavorato anche moltissimo con le scuole, a partire dai bambini dell’asilo, facendo così una preziosa opera di alfabetizzazione a favore delle nuove generazioni. Inutile dire che tutte le spese di queste molteplici iniziative sono sempre state unicamente a carico dei librai, spese che sicuramente non possono essere state compensate dalla vendita dei libri, data la modesta dimensione della cittadina e dei suoi abitanti. Le spese, appunto. Nota dolente di ogni libraio. Già perché, nel frattempo, negli ultimi dieci anni tre grandi sventure si sono abbattute sulla categoria: il crollo verticale dei lettori - in Italia una percentuale già risicatissima - l’avvento della lettura digitale e soprattutto l’irrompere prepotente di Amazon. Se aggiungiamo il costo esorbitante dell’affitto - in questo caso il proprietario della Libreria dei Sette è il Comune - il peso degli stipendi, delle spese vive e delle tasse, che nel nostro Paese gravano in maniera direi patologica su qualsiasi attività, non è difficile capire che l’unica strada da percorrere per chi ha una libreria è la chiusura. È il mercato, bellezza. Torniamo sempre al solito discorso. Il Comune di Orvieto ha già risposto ai Campino che non è in grado di abbassare l’affitto perché è congruo a quello del mercato. Ma siamo sicuri che la nostra vita sia tutta riconducibile alla voce mercato? E siamo sicuri che accettare supinamente questo genere di cose, con la scusante che il mondo va così e non ci si può fare niente, sia l’atteggiamento più saggio da mantenere? In altri Paesi europei, Germania, Francia e Spagna ad esempio, le librerie godono di sostegni statali sotto forma di sgravi fiscali, di affitti controllati, proprio perché viene riconosciuta la loro particolare fragilità e la loro insostituibile funzione sociale. Da noi si finanziano giustamente i teatri, gli enti lirici, i musei, le biblioteche (a cui vanno le briciole) - Orvieto ne ha una splendida aperta con orari risicatissimi perché il Comune non è in grado di pagare il personale - ma a nessuno è venuto in mente di aiutare le librerie, in quanto considerate puri esercizi commerciali, quindi estranei al modesto ombrello statale. Salviamo la Libreria dei Sette e tutte le librerie nelle stesse condizioni! Non possiamo continuare ad assistere passivamente all’avanzare del degrado culturale e dell’analfabetismo di ritorno. La chiusura di una libreria, infatti, è sempre una sconfitta di civiltà, un arrendersi al mondo che ci vuole trasformare tutti in compulsivi compratori di mutande. Pag 3 Perché può essere anche peggio del Watergate di Massimo Gaggi

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Uno scandalo che potrebbe rivelarsi più grave del Watergate che portò alle dimissioni del presidente Nixon: questa la previsione di James Clapper, che è stato per anni ai vertici dell’intelligence Usa. Adesso che è stato arrestato, tutti si chiedono se Manafort, rischiando anni di galera per riciclaggio ed evasione fiscale, metterà sotto accusa il presidente da lui aiutato ad arrivare alla Casa Bianca. Trump disinnescherà la mina concedendogli il perdono presidenziale? E, se lo farà, questo significherà solo il trasferimento del detenuto Manafort da un carcere federale a uno dello Stato di New York? La Casa Bianca, infatti, può perdonare solo i reati federali, non quelli statali. Mentre l’ex capo della campagna elettorale di Trump è stato incriminato anche a New York. Ma per capire la gravità del Russiagate, la scossa che ha dato alle principali istituzioni americane facendole vibrare fin nelle fondamenta, più ancora che osservare il volto di Manafort che va a consegnarsi o quello di George Papadopoulous, il consigliere di politica estera della campagna di Trump che ha ammesso di aver mentito all’Fbi sui suoi contatti con emissari russi con legami al Cremlino, bisogna osservare i lineamenti glaciali di un oracolo cupo: James Clapper, l’ex capo della National Intelligence, la sala comando dei servizi segreti federali. L’accusatore - Per decenni anima oscura e silenziosa dello spionaggio, incarnazione del deep state, il cuore del sistema americano, da alcuni mesi Clapper fa una cosa per lui innaturale: parla coi giornalisti. Ed è anche divenuto una presenza abituale negli studi della Cnn. Non solo: questo personaggio di estrazione militare (30 anni nella US Air Force prima di passare ai servizi segreti civili) che di certo non era un progressista e venne messo sotto accusa dai democratici quando Edward Snowden rivelò l’estensione dello spionaggio telefonico e di Internet condotto dalla Nsa, ora è divenuto un implacabile accusatore di Trump. Nelle stesse ore in cui sono stati eseguiti i primi arresti nell’ambito dell’inchiesta di Robert Mueller sul Russiagate, Clapper, intervistato dal sito Politico.com, ha detto che la vicenda delle infiltrazioni russe nelle presidenziali del novembre scorso «ha implicazioni più gravi di quelle del Watergate perché stavolta a muoversi è un avversario straniero che interferisce in modo diretto, aggressivo, nel nostro processo politico mirando chiaramente a minare il sistema democratico Usa». Mentre lo scandalo che nel 1974 costrinse alle dimissioni il presidente Nixon «fu un imbroglio politico tutto interno al Paese». L’attacco alle reti social - Colpisce soprattutto l’ammissione che i servizi segreti più potenti del mondo non avevano capito, fino a qualche mese fa, la profondità, la ramificazione e la raffinata logica dell’infiltrazione russa nelle reti sociali americane: «Sapevamo che usavano i social media ma ci sfuggiva quanto sofisticata fosse la loro azione, basata su pubblicità indirizzata a gruppi mirati di utenti e sull’azione di falsi gruppi di attivisti americani a sostegno di cause di segno opposto, da Black Lives Matter alle campagne contro gli immigrati». Manovre che, secondo Clapper, non solo hanno influenzato il voto di un anno fa ma hanno «avuto pieno successo nell’accelerare la polarizzazione e le divisioni nella politica americana». «Ha vinto Putin» - Da quando ha lasciato i servizi segreti, Clapper è finito nel mirino di Trump che gli ha dato anche del nazista e l’ha accusato di averlo spiato fin dentro la Trump Tower (accusa rivelatasi infondata). Per nulla intimorito e rompendo con le abitudini di una vita vissuta nel riserbo, Clapper ha spiegato che ha deciso di uscire allo scoperto davanti a una situazione che giudica pericolosissima per la democrazia e la sicurezza dell’America, aggravata dall’assenza di reazioni della Casa Bianca: «Li abbiamo informati subito dopo l’elezione di Trump, ma il presidente ha minimizzato, ha detto che il Russiagate è una presa in giro, una caccia alle streghe. Putin fin qui ha vinto. E ora si sente incoraggiato a continuare. Tanto più che il presidente, mentre attacca l’accordo atomico con l’Iran, nonostante Teheran lo abbia rispettato, ignora le più gravi violazione russe del Trattato sulle armi nucleari di medio raggio». Clapper termometro della volontà del «deep state» di andare fino in fondo contro Trump? Probabilmente sì, anche se lui non considera un toccasana un eventuale impeachment: «Farebbe esplodere ancora di più polarizzazioni e divisioni, alimenterebbe la teoria delle cospirazioni. Non sono sicuro che la rimozione del presidente sarebbe una buona cosa». Pag 13 Legge elettorale, firma a fine settimana. Il Quirinale pensa alle urne il 4 marzo di Marzio Breda

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Ancora pochi giorni e, tra venerdì e sabato, si saprà qual è la valutazione di Sergio Mattarella sul nuovo sistema elettorale. Due sono i nodi sotto la lente del Quirinale. Gli stessi su cui premono alcune forze politiche, a partire dal Movimento 5 Stelle, che chiedono al capo dello Stato di non firmare. Ma, anche per l’analisi congiunta svolta nel frattempo da un vasto fronte di costituzionalisti (su tutti Massimo Luciani, per il quale il Rosatellum bis soffre di diverse criticità e avrebbe potuto «esser scritto molto meglio», senza però giudicarlo «palesemente e gravemente incostituzionale»), è scontato che la legge sia promulgata. L’unica incognita, comunque improbabile, è se il via libera potrà esser accompagnato da una lettera con la segnalazione di qualche profilo da sanare, secondo una prassi che abbiamo visto consolidarsi nella stagione di Giorgio Napolitano sul Colle. Rilievi magari sul paio di nodi contestati. Il primo - cavalcato dai 5 Stelle, che non intendono allearsi con nessuno - riguarda le liste che, alla prova delle urne, si attesteranno sotto il 3 per cento ma sopra l’1. In base al Rosatellum non porteranno in Parlamento propri rappresentanti, tuttavia, se il partito escluso farà parte di un’alleanza, consegneranno i loro consensi in dote alla coalizione, così che quei voti non andranno dispersi. Il secondo nodo è quello dei cosiddetti nominati, ossia della quota (molto alta) di coloro che saranno candidati dalle segreterie dei partiti, scelta che di fatto condiziona la libertà degli elettori. Questioni assai dibattute e di cui è facile pensare a iniziative giudiziarie che investiranno la Corte costituzionale, con i suoi tempi. E sulle quali il potere di Mattarella ha precisi confini perché, come ha ripetuto anche nei giorni scorsi, non è lui il giudice delle leggi. A questo punto gli compete, semmai, predisporre una road map per le elezioni. Si sa che, sentiti gli altri vertici istituzionali, il capo dello Stato ha già ipotizzato un percorso che prevede lo scioglimento delle Camere tra Natale e l’Epifania, in modo da far aprire le urne domenica 4 o domenica 11 marzo. Date in cui ha tenuto conto che la XVII legislatura è cominciata il 15 marzo di cinque anni fa e che a norma di Costituzione quel termine non può esser travalicato (tranne in caso di guerra). Anche in questo caso, però, le sue decisioni dipenderanno da diversi fattori. Se, infatti, dopo aver varato la Finanziaria l’inquilino di Palazzo Chigi intendesse lavorare a qualche diverso provvedimento (per esempio la legge sullo ius soli o quella appena rinviata sulle mine o qualche altra), Mattarella potrebbe dargli respiro fino a marzo. Per far scattare il tutti a casa entro il 6 gennaio ci vuole insomma un innesco da parte del premier, che formalizzi in Parlamento d’aver esaurito il compito. Su questo Paolo Gentiloni si sta mantenendo piuttosto enigmatico. Ieri, da New Delhi, dov’è in missione, ha detto: «Gli sforzi del governo hanno due fattori chiave. Da un lato continueremo a lavorare per migliorare le condizioni interne, portando il Paese alla conclusione naturale della legislatura nella primavera 2018. L’altro punto di riferimento ispiratore per noi è il mondo, attraverso l’Europa e attraverso speciali relazioni bilaterali». Pag 20 Il siciliano del “vietato lamentarsi” che ha conquistato Francesco di Alfio Sciacca Il cartello donato al Papa che l’ha appeso sulla sua porta. “Ora me lo chiedono tutti” Da quando quel cartello è apparso sulla porta dell’appartamento privato di papa Francesco, nella residenza di Santa Marta, è scattato una sorta di contagio virale. Anche se in questo caso i Social c’entrano poco. Piuttosto è stata la reazione del Papa nel corso dell’udienza dello scorso 14 giugno in Piazza San Pietro a innescare qualcosa di imprevisto. Quel cartello che il Papa ha voluto venisse affisso alla porta del suo appartamento contiene un’esortazione secca: «Vietato lamentarsi». E a seguire: «I trasgressori sono soggetti a una sindrome da vittimismo con conseguente abbassamento del tono dell’umore e della capacità di risolvere i problemi. Smettila di lamentarti e agisci per cambiare in meglio la tua vita». In barba agli stereotipi che vogliono i siciliani campioni nazionali di piagnisteo l’idea è di Salvo Noè, 47 anni, psicologo di Acireale (Catania), che sul tema ci ha scritto pure un libro. Assieme al cartello li ha donati al Papa quella mattina di giugno raccogliendo un riscontro inaspettato. «Ancora oggi mi viene la pelle d’oca - racconta -. Appena lo ha letto il Santo Padre mi fa tatto un gran sorriso. Poi ha cominciato a fare domande. Prima di andar via gli ho mostrato anche il braccialetto con la stessa scritta. “Mettimelo al polso” mi ha detto. E io, emozionatissimo, gli ho preso la mano per mettergli il braccialetto tra la curiosità dei presenti che non capivano cosa stese accadendo. Un’emozione indescrivibile». Ma la

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sorpresa arriva qualche settimana dopo quando un anziano prelato in visita al Santo Padre si incuriosisce per quell’inconsueto cartello e chiede se può fotografarlo e renderlo pubblico. In pochi giorni quel «Vietato lamentarsi» comincia diventare virale. E col passare dei giorni accende la curiosità persino di alcuni giornali stranieri. «Continuo a ricevere richieste per avere questo cartello da ogni parte d’Italia e dall’estero. Ormai è stato tradotto in varie lingue». In più, («su esortazione del Papa») Noè ha rimesso mano al suo libro che a breve sarà pubblicato da «San Paolo Editore». Insomma una scommessa partita dalla patria del vittimismo e andata ben al di là delle sue intenzioni. «Io sapevo che questo è un tema molto caro a Francesco, ancor prima che diventasse Papa - spiega Noè -. In tantissimi suoi interventi pubblici lui ci sprona a non adagiarci sulla lamentazione. In particolare c’è una sua omelia, a Pasqua del 2013, in cui dice che le lamentele fanno male al cuore». Noè, oltre ad insegnare all’Università di Enna è consulente dell’Arma dei carabinieri e della Finanza per i quali tiene corsi motivazionali. Ma come è nata l’idea? A un siciliano poi? «Proprio perché sono siciliano - si illumina - . Sin da piccolo sono cresciuto in un contesto in cui era imperante il detto popolare “lamentati per stare bene”. Un vero paradosso. In pratica se non ti lamenti stai male. Ad un certo punto mi son detto: non può andare così, bisogna provare a cambiare questo modo di vedere il mondo. Da li è cominciato tutto, nel lavoro e anche nel privato». La ricetta per battere il vittimismo? «Non si tratta di ricette. La questione è che tutti noi, non solo i siciliani per la verità, ci concentriamo troppo sul problema e poco sulle soluzioni. Va ribaltato l’approccio e se lo facciamo ci rendiamo conto che molto spesso una soluzione ai problemi la si trova. La vita ti chiede, per quelle che sono le tue possibilità, di agire e non di adagiarti sul vittimismo. Penso che questo sia anche l’insegnamento che ci arriva da papa Francesco». AVVENIRE Pag 1 Difetto di laicità di Luigino Bruni Proposte dei cattolici e non-ascolto A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico? Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle proposte della 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani di Cagliari, si direbbe che interessi soltanto al mondo cattolico, ai suoi media, ai suoi giornali. E questa non è una bella notizia per l’Italia. Quattro intensi giorni di dibattito, mille rappresentanti, proposte concrete per cambiare e migliorare il mondo del lavoro, l’economia e la società, che non hanno dunque meritato la dignità per entrare tra i fatti e i temi segnalati all’attenzione dell’opinione pubblica. Le ragioni di questa grave distrazione sono molte. Tra queste, forse, l’apparente semplicità delle (utili e realizzabili) proposte avanzate e l’assenza di proposte più 'profetiche' (come quelle, specialmente care anche a chi scrive, sull’«economia disarmata»), sulle quali il consenso all’interno del variegato mondo cattolico sarebbe stato probabilmente più difficile. O, forse, anche una serie di ospiti che stavolta non ha incluso personalità del mondo culturale laico italiano e internazionale. Altre volte e in altre sedi questo tipo di dialogo si era intessuto con particolare intensità, ma la disattenzione non era stata minore. Forse, dunque, per tutto ciò ci sono anche ragioni più profonde. La prima ha a che fare con il bizzarro concetto di laicità che si è affermato nel nostro Paese. Le contrapposizioni ideologiche del XIX e del XX secolo, hanno generato una cultura dove è sufficiente che in un discorso compaiano le parole 'Dio' o 'Bibbia', perché vengano automaticamente classificate faccende private di un sotto-insieme del Paese, non abbastanza 'laiche' per interessare tutti. Così, invece di intendere la vita democratica come la somma delle diversità civili, la si concepisce come una sottrazione per arrivare alla piccola zona comune fra tutti, che è sempre troppo piccola per la pubblica felicità che ha bisogno della «convivialità delle differenze» (Don Tonino Bello). La società perde biodiversità generativa, perché si eliminano le dimensioni più innovative e creative dei diversi mondi vitali. Ma se poi andiamo a scavare di più, troviamo qualcosa di ancora più puntuale. Ai cattolici, in realtà, si lascia un certo spazio e una certa libertà di esprimersi 'in pubblico', ma soltanto su temi inseriti in una lista chiusa di argomenti 'eticamente sensibili'. Se si esce da questa lista, anche se la Chiesa e i cattolici parlano è come se non parlassero: non hanno 'voce' in questi capitoli. Possono parlare di povertà, di vita (senza esagerare), un po’ di famiglia. Ma se iniziano a

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parlare di lavoro, di tasse, di scuola, addirittura di economia o di finanza, escono dalla lista bloccata e semplicemente vengono ignorati. Quindi, quando i cattolici si esprimono sui temi laicamente consentiti dalla lista si è legittimati, ma non ascoltati, perché considerati espressione di una visione culturale partigiana. Quando dicono la loro sui temi fuori lista, sono semplicemente bocciati perché fuori tema. Un segnale di questo è che tra le pochissime notizie di Cagliari che sono riuscite a passare tra le maglie di questa censura culturale, non sono le proposte concrete su economia e banche, ma il tema del lavoro domenicale, uno di quei pochissimi argomenti 'economici' presenti nella lista degli argomenti non all’Indice, perché, si pensa, ha a che fare con il culto - e quindi non preso sul serio, non capendo così che la sfida della domenica è esattamente la libertà dai 'faraoni' che vorrebbero che gli schiavi lavorassero sempre, e quindi l’essenza della democrazia. Il mondo cattolico è tra le poche 'agenzie globali' capaci, per vocazione, di portare avanti un discorso profetico sull’economia, sul lavoro, sulla finanza - e lo sta facendo, anche se pochi se ne accorgono, e le deve fare con sempre maggiore forza e profezia. Ma la laicità delle lobby preferisce lasciarlo parlare 'soltanto' di fine vita e di assistenza – senza ascoltarlo –, e così tenerlo ben distante dall’economia e dalla finanza. Perché intuisce che se gli riconoscesse diritto di parola su questi temi, dovrebbe fare i conti con i dogmi della sua propria laica religione. La nostra società non ascolta la voce dei cristiani sul capitalismo perché il capitalismo del XXI secolo è diventato esso stesso una religione, con un culto severissimo che non ammette altri dèi al di fuori di esso. Il capitalismo non vuole il discorso religioso cristiano perché ha già il suo. Ma per capirlo ci vorrebbe proprio quella laicità che gli manca. Per questo, nonostante la disattenzione di media che vedono sempre più a stento e sempre più parzialmente il Paese reale, i cattolici devono continuare a occuparsi dei temi della lista e, soprattutto, di quelli fuori lista. Perché, con le parole di Paolo VI, «se il mondo si sente straniero al cristianesimo, il cristianesimo non si sente straniero al mondo». Pag 3 Il “gioco” di colpire lo straniero tra noi di Marina Corradi Il bengalese Kortik pestato a Campo de’ Fiori È magro e piccolo di statura, sembra un ragazzino. Forse lo hanno scelto per questo. Era appena uscito dal locale di Campo de’ Fiori dove lavora come lavapiatti fino alle due di notte, insieme a un egiziano, aspettava l’autobus che in chissà quante fermate lo avrebbe riportato alla sua periferia romana. Un branco di dodici ragazzi lo ha aggredito: insulti, «sporco negro», e poi giù botte, calci e pugni, tutti assieme, un grappolo di furia sopra a quel corpo già a terra, mentre l’amico riusciva a defilarsi. Due ragazze del gruppo, in un sussulto di ragione o di pietà, si sono interposte. Gli aggressori se ne sono andati, uno però è tornato indietro, a sferrare all’uomo sanguinante un altro calcio che poteva ammazzarlo. Kortik Chondro, 26 anni, bengalese, regolare, da sei anni in Italia, ha la mandibola, il naso, le arcate degli occhi perfino, fratturate dai colpi. Quasi non riesce a parlare. Non capisce perché. Balbetta: «Non gli avevo fatto niente. Io sono uno che, se per caso urta qualcuno, subito chiede scusa...». Non è la prima volta, in questi mesi a Roma, che uno straniero-tra-noi viene aggredito senza una ragione. Nemmeno a Campo de’ Fiori, l’altra notte, i gestori dei locali erano più che tanto stupiti dell’accaduto. Succede, nelle ore piccole della movida, che i giovani bengalesi che girano vendendo rose siano insultati e minacciati. Sono minuti anche loro come Kortik, che nel locale in cui lavora chiamano 'micio' perché, dicono, è mite e dolcissimo. Dall’altra parte del bancone ci sono i clienti. Al sabato, convergono sul centro da ogni dove. Qualche ora di gran vita. Birra, superalcoolici, spesso altra roba. La testa che va in barca, i pensieri che si sfaldano lasciando solo pochi brandelli, slogan, rabbia, in un cortocircuito pronto a scoppiare. Ma, prima, cosa c’è? Cosa c’è prima di una esplosione come questa? Quattro ragazzi denunciati hanno fra i 17 e i 19 anni. Studenti, disoccupati. L’unico arrestato per tentato omicidio ha 18 anni. Tutti tifosi della Roma. A pochi giorni dalla vicenda di Anna Frank, si torna a parlare di curve calcistiche. Come di un possibile terreno di coltura di pulsioni violente e razzismo, quasi che lo stadio fosse solo il pretesto per ritrovarsi e cercare propri simili. Ragazzi di periferia, annoiati, frustrati. Ragazzi che magari, come l’arrestato dell’altra notte, hanno sul profilo Facebook la foto di Hitler e Mussolini. Nazifascisti immaginari forse, ma violenti veri, che si scatenano, d’improvviso, contro uno che ha la pelle più scura. Poi, presi dalla polizia, in caserma quasi si stupiscono:

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«Ma che gli ho fatto? Gli ho dato solo un calcio...». Trasecolati che il loro 'gioco' di pugni e d’alcool sia qualcosa di così grave. Contro quello lì, poi, quel morto di fame straniero, uno da niente. Una gran pena. Per questo immigrato arrivato a vent’anni in Italia, da sei anni intento a lavare i piatti nel retro dei locali dove noi andiamo a cena. Pena per la sua giovane moglie in Bangladesh, che ancora non sa. Per i genitori di questi diciottenni, che ora si chiederanno smarriti che cosa possono fare, e forse non lo capiranno. Pena perfino per gli stessi teppisti: da quali famiglie, amicizie, scuole a 18 anni ci si ritrova in un branco di pestatori sbandati? E pena per Roma, la grande capitale di un grande Paese, una storia gloriosa che brilla ancora nelle sua bellezza, Roma cuore della cristianità. Dove questo gioco sinistro da un po’ di tempo, qui e là, si fa strada. A notte fonda, il cervello annegato nella birra, come uno strano odio sommerso si leva nei pensieri. Un odio solitamente tranquillo, che abita ragazzi come tanti altri, inosservato. 'Guardalo, quello. Ehi tu, negro, morto di fame, vieni qua che ti diamo una lezione...'. Passi di corsa sui sampietrini, e urla. Roma che quasi, piano piano, inavvertitamente si sta abituando. A Campo de’ Fiori, si sa, certe notti ce l’hanno coi ragazzini bengalesi. Perché loro? Sono gli ultimi. Quelli che girano con un fascio di rose rosse tra i tavoli dei ristoranti sorridendo ed elemosinando un euro, e a cui quasi tutti, senza nemmeno guardarli, distrattamente dicono di no. Pag 3 Il record di CO2 in atmosfera riporta il mondo al Pliocene di Pietro Saccò Il 2016 anno nero. Rischio climatico sempre più alto L’ultima volta che la concentrazione di anidride carbonica nell’aria è stata superiore agli attuali livelli, sulla terra comparivano i primi elefanti, gli ippopotami e probabilmente i cavalli, mentre le creature più simili agli esseri umani erano gli australopitechi e altri ominidi, che oggi definiamo homines abiles. Allora le temperature erano in media di due o tre gradi centigradi superiori a quelle dei nostri tempi, molti dei ghiacci oggi presenti in Groenlandia e nell’Antartide erano 'sciolti' e il livello del mare era di dieci o venti metri più alto di quello attuale. Era l’epoca che i geologi chiamano Pliocene, ed è finita da circa 3 milioni di anni. Ma a livello climatico ci stiamo tornando, ha avvertito ieri l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) delle Nazioni Unite presentando l’ultima edizione del bollettino sulle emissioni di gas serra. Un documento pieno di dati allarmanti, per quanto da tempo siamo abituati ai toni apocalittici sulle prospettive del pianeta. Le stazioni di controllo che raccolgono i dati sulla qualità dell’aria in tutti i continenti nel 2016 hanno rilevato una media globale di 403,3 particelle di CO2 per milione di particelle d’aria (l’unità di misura è ppm). Sono 3,3 ppm in più rispetto ai livelli del 2016 ed è un livello del 145% superiore a quello dell’epoca “pre industriale”, cioè prima del 1750. In media nell’ultimo decennio la quantità di anidride carbonica nell’aria è aumentata di 2,21 ppm all’anno. Lo stesso bollettino ricorda che il “forzante radiativo” dei gas serra, cioè la loro capacità di alterare il bilancio tra l’energia che entra e quella che esce nello scambio tra terra e atmosfera, è aumentata del 40%. L’80% di questo aumento si può attribuire all’anidride carbonica. Non si può parlare di un mutamento fisiologico della chimica dell’aria del pianeta. L’Omm da diversi anni è in grado di calcolare quanti gas serra ci fossero nell’aria fino a 800mila anni fa, analizzando l’aria intrappolata in bolle nei più profondi ghiacci dell’Artico. In nessuna di queste analisi si ottengono tassi di concentrazione di CO2 più elevati di quelli attuali. Anche l’aumento di anidride carbonica che è avvenuto dopo il termine dell’ultima era glaciale, circa 12mila anni fa, non è paragonabile a quello attuale: allora si era passati nel giro di un millennio da 240 a 270 ppm, mentre solo dal 1960 ad oggi c’è stato un aumento da 320 a 400 ppm. Nella storia i rapidi aumenti naturali di CO2 hanno sempre preceduto aumenti delle temperature. Considerato che stiamo assistendo all’aumento più rapido mai rilevato, è impossibile prevedere verso cosa stiamo andando. «C’è il potenziale – avverte l’Omm – per un imprevedibile cambio nel sistema climatico, che può portare a profondi sconvolgimenti economici ed ecologici». L’agenzia dell’Onu non si dilunga nell’elenco dei colpevoli di questa situazione critica. La correlazione con l’industrializzazione è evidente. Gli altri fattori sono quelli noti: «L’aumento della popolazione, le pratiche di agricoltura intensiva, l’aumento nell’uso dei terreni e della deforestazione, e l’associato uso di energia da fonti fossili hanno tutti contribuito all’aumento nella concentrazione di gas serra nell’atmosfera». Nell’aumento del 2016 ha le sue colpe anche El Niño, il fenomeno

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di riscaldamento delle acque degli oceani che si verifica in media ogni cinque anni e che ha effetti globali. Però il grosso delle responsabilità nell’aumento delle emissioni è riconducibile all’attività umana. Ed è su queste che si può agire. Non è un caso che il bollettino dell’Omm lanci il suo allarme a una settimana dall’apertura del vertice annuale dell’Onu sul clima, il Cop23 che si apre a Bonn il prossimo 7 novembre. Un vertice su cui l’attenzione della stampa per il momento è scarsa, e non solo in Italia. Probabilmente anche perché è per l’appuntamento dell’anno prossimo – il Cop24 che sarà ospitato a Katowice, in Polonia – che è stato previsto il primo bilancio degli impegni concreti che ogni nazione ha preso dopo l’accordo di Parigi. Ma non è certo il caso di stare a perdere tempo. «Più aspettiamo ad applicare l’accordo di Parigi, più grandi saranno gli impegni e più drastiche (e costose) le future riduzioni di emissioni necessarie per mantenere il cambiamento climatico all’interno dei limiti critici» avverte l’Omm, concludendo che «senza rapidi tagli nelle emissioni di CO2 e degli altri gas serra siamo diretti verso un pericoloso aumento delle temperature per la fine di questo secolo, molto oltre gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi». In Francia, nel 2015, centonovantacinque capi di Stato hanno impegnato i loro paesi a collaborare per tagliare le emissioni di gas serra con l’obiettivo di “emissioni nette zero” per il 2050, cioè un completo equilibrio tra le emissioni prodotte e quelle riassorbite dall’atmosfera. In questo modo, secondo i calcoli scientifici su cui si appoggia l’impegno delle Nazioni Unite, il riscaldamento delle temperature può essere contenuto ben al di sotto dei 2 gradi e auspicabilmente sotto gli 1,5 gradi nel confronto con i livelli pre-industriali. Già oggi un nuovo documento che sarà pubblicato dal l’Unep, il programma per l’ambiente dell’Onu, farà il punto sugli impegni politici che le nazioni hanno preso per ridurre le emissioni e analizzerà in che modo queste politiche si tradurranno in effettivi tagli dei gas serra da qui al 2030. Sarà curioso vedere che cosa scriverà l’Unep a proposito degli Stati Uniti di Donald Trump. Perché, non è certo un mistero, sono loro la grande incognita rispetto all’impegno globale sul clima. Se il grande produttore di gas serra è la Cina, che da sola conta per il 30% delle emissioni globali, gli Stati Uniti, con il loro 15%, sono al secondo posto, davanti al 10% dell’Europa. Difficilmente senza il contributo di Washington si possono centrare gli obiettivi di Parigi. Trump, il primo giugno, ha annunciato che intende tornare a negoziare gli impegni volontari presi dagli Stati Uniti con gli altri membri dell’Onu. Il suo predecessore, Barack Obama, aveva promesso un taglio delle emissioni del 26-28% entro il 2025. Il nuovo presidente non ha dato molti dettagli sulle sue intenzioni ma sembra determinato. A fine settembre dalla Casa Bianca hanno rapidamente smentito le indiscrezioni che parlavano di un possibile ripensamento dopo che un funzionario dell’amministrazione, Everett Eissentat, a un convegno sul clima a Montreal aveva dato modo di sperare in un passo indietro. E a inizio ottobre Scott Pruitt, numero uno dell’Agenzia ambientale Epa, ha promesso davanti ai minatori del Kentucky la «fine della guerra al carbone». Pruitt, attaccato fin dall’inizio della sua nuova carica dagli ambientalisti per essere stato per anni sponsorizzato dall’industria petrolifera, il giorno seguente ha firmato la proposta di legge in cui si chiede la cancellazione delle norme sui limiti alle emissioni introdotte con il cosiddetto Clean Power Plan. D avanti alla prospettiva di un ritiro degli Stati Uniti dagli accordi, il taglio del 40% delle emissioni entro il 2030 promesso dall’Europa rispetto ai livelli del 1990 o il -35% e -37% promessi rispettivamente da India e Brasile, quarto e quinto grande produttore di gas serra, diventano sforzi che esagereremmo a definire inutili, ma sicuramente saranno insufficienti a raggiungere il traguardo. Viviamo tempi di inedite divisioni. Lo sappiamo bene in Europa, dove non solo nell’Unione europea, ma anche all’interno dei singoli Stati nazione esplodono volontà separatiste che per anni erano rimaste sotto controllo. Tristemente, non si può che constatare che non è questo il clima giusto per un progetto di collaborazione mondiale. Anche su un obiettivo lontano nel tempo come quello di lasciare in eredità alle prossime generazioni un mondo più vivibile di quello che gli stiamo confezionando. Pag 5 Rajoy e la mossa elettorale che stana i secessionisti (ma anche gli unionisti) di Sergio Soave La decisione assunta da Mariano Rajoy, premier spagnolo e paradossalmente presidente della disciolta Generalitat catalana, di indire elezioni già per il 21 dicembre impone alle

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varie formazioni politiche, indipendentiste e unioniste, di decidere come partecipare alla prova elettorale. Anche se infuriano le polemiche sull’incriminazione dei leader indipendentisti da parte della procura, l’attenzione dei partiti si concentra sulle elezioni. Il fronte indipendentista, unito nella denuncia della sospensione dell’autonomia catalana, è piuttosto diviso sulle modalità di partecipazione alla contesa elettorale. La Cup sembra orientata disertare le urne perché non riconosce la legittimità di una consultazione indetta da Madrid. Le altre due formazioni indipendentiste, il PDeCat dell’ex presidente Carles Puigdemont e Erc dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras parteciperanno alle elezioni, ma non pare che si presenteranno in coalizione, come avvenne nelle ultime consultazioni catalane. Junqueras, in un articolo pubblicato da “El Punt Avui”, aveva accennato invece a una possibile alleanza con la versione catalana di Podemos, che però è in rotta con il segretario nazionale che dichiara furi dal movimento chi sostiene l’indipendenza catalana. PDeCat, per parte sua, deve definire le liste e gli assetti interni, il che non è semplice per la presenza di una corrente, quella legata a Santi Vila, che intende chiudere la parentesi indipendentista e aprire un vero negoziato con il governo di Madrid. Se riuscisse a imporsi come candidato alla presidenza della Generalitat, questo renderebbe assai difficile la conquista di una maggioranza da parte del fonte indipendentista. Se il problema della coalizione è complesso per gli indipendentisti, è tutt’altro che semplice anche per gli unionisti. Anche questa parte ha trovato l’unità nel sostegno all’intervento spagnolo, che in Senato è stato approvato dal Partido Popular, dai socialisti e da Ciudadanos ed è stato applaudito da una manifestazione popolare di massa unitaria nelle piazze di Barcellona domenica scorsa. Ma in Catalogna i rapporti di forza tra questi tre partiti sono invertiti rispetto a quelli nazionali: qui al primo posto c’è Ciudadanos, al secondo i socialisti e solo al terzo il Pp. La leader di Ciudadanos in Catalogna, Inés Arrimadas, ha chiesto a popolari e socialisti un accordo preventivo perché la formazione costituzionale più votata possa costituire il prossimo governo catalano. Ha esteso la richiesta anche a Podemos, ma questa formazione in Catalogna è divisa tra unionisti e separatisti. L’appello della Arrimadas, però, difficilmente potrà essere accolto: si tratta di tre partiti nazionali che a Madrid stanno uno, il Pp, al governo, uno, il Psoe, all’opposizione e il terzo, Ciudadanos, dà un appoggio esterno, ma spesso critico, all’esecutivo di Rajoy. Una convergenza preventiva in Catalogna contrasterebbe con la collocazione sulla scena nazionale. Però le difficoltà nel costruire coalizioni non sono una specialità catalana, e il fatto che questo stia diventando il tema su cui si impegnano le rappresentanze politiche è un primo segnale di normalizzazione, in quanto tale positivo. Dopo le scelte traumatiche della dichiarazione unilaterale di indipendenza e dell’applicazione dell’articolo 155, c’era e c’è tuttora in rischio che la tensione esca dall’alveo della contrapposizione politica. Anche le vicende giudiziarie del governo catalano sospeso potrebbero accendere gli animi. Da questo punto di vista, la decisione di Rajoy di indire le elezioni catalane nella prima data possibile, che a molti era sembrata un’accelerazione pericolosa, sembra invece una mossa azzeccata. Le elezioni sono comunque un’espressione di democrazia e sollecitano le forze politiche ad agire per conquistare il consenso degli incerti, che restano un serbatoio assai ampio e come sempre decisivo. Per allargare il consenso è sempre utile presentare un’immagine rassicurante, il che sconsiglia le forze più rappresentative di adottare posizioni estremistiche e laceranti. Pag 10 “Il diavolo veste i panni dell’occulto” di Mimmo Muolo Il monito di padre Bamonte: evento negativo da non sottovalutare Altro che Prada. Il diavolo veste Halloween. E non è uno «scherzetto », tanto meno un «dolcetto», perché alla base di un fenomeno che molti considerano alla stregua di una semplice carnevalata possono esserci realtà amarissime. Parola di padre Francesco Bamonte, presidente dell’Associazione Internazionale Esorcisti, che sulla festa di stasera lancia un monito a tutti e in special modo agli educatori. «Non sottovalutatene gli effetti». Padre Bamonte, sta dicendo che Halloween non è un innocuo svago per bimbi, ma qualcosa di realmente pericoloso? Io non mi limiterei a considerare la festa di Halloween come un prodotto o una proposta di svago destinata al solo mondo dell’infanzia, perché di fatto è una proposta che si

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dirige a tutti privilegiando certamente i bambini, ma anche il mondo dell’adolescenza e della gioventù. Se sia poi uno svago innocuo o qualcosa di veramente pericoloso, più che da principi o da pregiudizi lo si può dedurre o affermare dagli effetti. Quali implicazioni negative? A me sembra che Halloween di fatto non proponga niente di vero, niente di buono e non mi mostri niente di bello. Di conseguenza non mi sento aiutato ad essere più vero, più buono e a percorrere un cammino di bellezza e questo mi preoccupa dal momento che mi è stato insegnato che è la Bellezza che salverà il mondo. La sua esperienza di esorcista che cosa le dice a tal proposito? La mia esperienza come quella di altri esorcisti, mostra soprattutto come la ricorrenza di Halloween incluso il periodo di tempo che la prepara, sia di fatto per alcuni giovani, un momento privilegiato di contatto con realtà settarie o comunque legate al mondo dell’occultismo, con conseguenze anche gravi non solo sul piano spirituale, ma anche sul piano dell’integrità psicofisica. È ormai ben noto che la ricorrenza di Halloween è nel calendario degli occultisti, dei maghi e dei cultori di satana, una delle 'festività' più importanti. Dicendo questo non si vuol affermare che tutti quelli che festeggiano Halloween hanno esperienze negative, ma certamente il contenuto della festa e le modalità con le quali la si vive, abbassano se non addirittura tolgono le difese. Come 'esorcizzare' i pericoli? Per me cristiano, sacerdote ed esorcista ciò che è essenziale per 'esorcizzare' i pericoli di Halloween è conoscere e amare per davvero Gesù e la sua dolcissima incomparabile Mamma. Gesù che è Dio è la Verità, la Bontà, la Bellezza e la sua Mamma lo riflette pienamente. Guardando alla loro bellezza e innamorandosene, non si riesce se non con una grande fatica a guardare anche per un solo istante ad Halloween. Chi deve aiutare i bambini e i giovani a comprendere il pericolo? Sono innanzitutto i genitori, padre e madre, e tutti coloro che hanno responsabilità nella formazione alla vita dei bambini e dei giovani. Costoro dovrebbero aver chiaro il tentativo in atto di portare il mondo dei bambini e dei giovani tra le braccia del nemico di Cristo. Basti pensare che negli Stati Uniti, qualche anno fa è stata esibita pubblicamente, con grande clamore mediatico, una scultura dedicata al diavolo. Si tratta del baphomet, simbolo adorato come dio dagli iniziati alle scienze occulte, un essere metà uomo e metà capra, che rappresenta i poteri dell’oscurità. Nella scultura sono presenti due bambini dallo sguardo sorridente e compiacente. Questa presenza ha lo scopo di abituare le nuove generazioni a non temere le sue proposte, ma a seguirlo ed accettarlo come guida, come leader. Inoltre, oggi, alcune importanti aziende produttrici di giocattoli, soprattutto per i più piccoli, hanno ideato tra i nuovi personaggi per il gioco, guarda caso proprio il baphomet. Halloween quindi predispone all’accoglienza di queste proposte, e favorisce questo indirizzo culturale. Come rilanciare il culto dei santi, 'scippato' da questa pratica pagana? Bisogna conoscerli e di stringere amicizia almeno con qualcuno di loro. In passato questa conoscenza era alimentata dalle loro feste e dalla concomitante predicazione che esponeva la loro vita, le loro opere, il modo concreto con cui essi si relazionavano con Dio e con gli uomini. Per molte famiglie cristiane un aiuto grande era dato dalla lettura e dall’ascolto delle loro vite, fatte o dai genitori o da qualche figura rappresentativa della famiglia (penso allo zio Saverio per Papa Giovanni XXIII). Anche i sacerdoti dovrebbero tornare a parlare dei santi e condurre i fedeli e specialmente i bambini e i giovani in pellegrinaggio nei luoghi della loro vita o dove sono venerati i loro resti mortali. Ci sono tanti santi bambini e giovani che aspettano di essere conosciuti e che potrebbero diventare grandi amici dei loro coetanei. In questo modo quando si arriva alla Festa liturgica di Tutti i Santi, si ha già la preparazione di base per comprenderne il significato e per viverla in modo adeguato. IL GAZZETTINO Pag 1 Sicilia al voto, un modello fallimentare di regionalismo di Gianfranco Viesti La Sicilia si avvia al voto di domenica prossima senza grandi entusiasmi. E non è difficile capire perché: è nel pieno di una grande trappola del sottosviluppo da cui la sua autonomia non è in grado di tirarla fuori. L'azione dell'Amministrazione Regionale con brevi eccezioni ha prodotto principalmente il consolidarsi di un settore pubblico e para-

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pubblico ipertrofico: la più recente rilevazione registra 258 addetti delle amministrazioni regionali e locali ogni centomila abitanti, contro una media di 218 in Italia, ma ad essi sono da aggiungere quelli della ancora vasta rete delle società partecipate, e i tanti che con le pubbliche amministrazioni hanno rapporti precari. Ha instaurato un rapporto distorto fra la politica e i cittadini, fatto più di intermediazioni e favori che di diritti; e con le imprese, favorendo i fornitori dell'apparato pubblico e un'edilizia spesso fuori controllo; creando così spesso le condizioni per un rafforzamento della criminalità organizzata. Non è riuscita invece a romperne l'isolamento. Quello interno, per cui oggi è certamente la regione italiana con meno relazioni fra le sue città e i suoi territori, anche per la debolezza dei sistemi di collegamento stradale e la sostanziale assenza di quelli ferroviari: sei ore per i 250 chilometri fra Ragusa e Palermo. E quello esterno, con il resto del paese e dell'Europa; solo negli ultimi è stata la liberalizzazione europea del trasporto aereo a consentire una migliore e più accessibile rete di collegamenti. I siciliani sono certamente gli italiani più isolati dai grandi flussi di idee, di capitali, di persone che innervano l'economia europea. La situazione di oggi ha molte cause, e non è certo addebitabile solo alla Regione Siciliana: ma complessivamente il suo ruolo non è stato positivo. Il sistema ha retto a lungo: l'autonomia garantiva più risorse che per le regioni a statuto ordinario. Il forte controllo politico, consenso per gli schieramenti governativi a Roma. Poi, con le crescenti difficoltà della finanza pubblica, si è rotto. Svanite fondamentali istituzioni: a partire dal Banco di Sicilia, la cui controversa ma interessante storia è ricostruita in un recente volume della Fondazione Res di Palermo. Si è dovuto riportare in pareggio il sistema sanitario (nel 2013 quando nel 2006 c'era ancora un deficit di oltre un miliardo); sono molto cresciute le imposte locali: stime della Banca d'Italia mostrano che per la famiglia-tipo sono oggi superiori del 6% alla media italiana; allo stesso tempo la spesa pubblica regionale e locale è scesa molto più velocemente che nel resto del paese, e ha raggiunto un valore per abitante inferiore alla media italiana. C'è ormai ben poco da distribuire all'insieme dei cittadini; si interviene spesso per assicurarsi il consenso di piccoli gruppi, influenti elettoralmente. Il PIL è ancora oggi del 12% inferiore rispetto all'inizio della crisi. Il modello siciliano non ha prodotto un sistema di imprese capaci di vendere fuori dall'Isola e assicurare sviluppo e occupazione. Anzi, si sono perse fondamentali presenze: non si è riflettuto a sufficienza sulla circostanza che la Fiat ha investito e rilanciato le sue produzioni in Campania, Basilicata, Molise, basso Lazio, ma ha chiuso Termini Imerese; produrre auto nell'Isola è stato giudicato impossibile. E dunque nella società siciliana si colgono tutti i segnali di un grande ripiegamento: flettono del 15% i valori immobiliari e quindi la ricchezza delle famiglie; la natalità è sempre più scarsa; forte, e crescente, è la fuga dei giovani che possono permetterselo: da qualche anno anche appena conclusi gli studi alle superiori. Eppure, nell'economia e nella società si colgono segnali interessanti: nel turismo, nelle città, nelle differenze interne; nei tentativi di valorizzazione delle risorse disponibili, ancora enormi. Ma essi non possono aver successo solo con le proprie deboli gambe: esprimono una domanda di politiche pubbliche assai diverse da quelle di ieri e di oggi. Fatte da un lato di diritti di cittadinanza garantiti senza intermediazione politica (negli asili nido, nelle scuole, nell'assistenza agli anziani); e dall'altro di strumenti e azioni per collegarsi sempre più al mondo, mantenere il capitale umano, attirare idee, persone, investimenti. Non potrà essere il vecchio modello della regione autonoma, concepito settanta anni fa, a garantirle. Ma questo vale, mutato quel che c'è da mutare, anche per le altre autonomie speciali. Le sfide dell'economia contemporanea richiedono una intelligente organizzazione delle politiche pubbliche su più livelli di governo: forme di autonomia regionale e locale sono utili in diversi casi, ma l'azione delle istituzioni nazionali resta indispensabile. Non vanno create nuove regioni speciali, ma eliminate quelle esistenti. Per motivi diversi da quelli che valgono per la Sicilia, ma ugualmente importanti. Anche dove i percorsi di sviluppo hanno avuto maggior fortuna, esse sono frutto di congiunture storiche ormai lontane, e quindi oggi poco giustificabili, di condizioni internazionali ormai tramontate. Producono disparità di trattamento fra i cittadini italiani non accettabili, segmentando quei diritti di cittadinanza che vanno invece garantiti. Da questo punto di vista è pienamente giustificata l'insofferenza in Veneto per le condizioni di maggior favore nelle regioni vicine; che ha provocato più di un caso di Comuni che vogliono essere adottati dai vicini più ricchi. Questo non si risolve aggiungendo specialità a specialità. Si può invece discutere di un regionalismo differenziato su alcune specifiche

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politiche, come consentito dalla Costituzione. Ma la strada è quella di una forte collaborazione fra istituzioni nazionali, regionali e locali, di regole semplici e trasparenti per l'allocazione delle risorse, di meccanismi per garantirne l'uso efficace, dalla Sicilia alle Alpi. LA NUOVA Pag 1 Identità plurali in Europa di Giancarlo Corò Nei momenti difficili della storia il popolo riesce talvolta a mostrare più intelligenza e razionalità delle forze politiche che pretendono di rappresentarlo. Sembra così anche nel conflitto che da mesi infiamma la Spagna, dove fra gli slogan usati dagli unionisti che hanno sfilato a Madrid e Barcellona, ce n'era uno che indica con saggezza l'unica soluzione possibile: "Orgogliosi di essere catalani, onorati di essere spagnoli" . L'errore degli indipendentisti catalani è stato contrapporre due appartenenze che, nella vita concreta della maggior parte dei cittadini, non sono affatto alternative, potendo coesistere insieme nello spirito di identità plurali e consapevoli, che costituisce il tratto distintivo di un patriottismo moderno. D'altro canto, l'errore del governo spagnolo è stato contrapporre la superiorità della legge dello Stato alle legittime istanze di autonomia dei catalani, frustrando le richieste di un nuovo statuto e imponendo un assurdo aut-aut fra le due appartenenze. Questi due errori si sono auto-alimentati fino a portare sull'orlo di un pericoloso conflitto civile, che minaccia la pace interna di uno dei più importanti paesi europei. Di fronte a tale situazione sarebbe dunque tempo che in Europa qualcuno si desse la sveglia. Non ha alcun senso limitarsi oggi a difendere come unica struttura istituzionale quella degli Stati nazionali, nel momento in cui i processi di globalizzazione e la stessa costruzione dell'Unione Europea ne stanno fatalmente ridimensionando le funzioni. Paradossalmente, le istanze di autonomia dei territori nascono dalla consapevolezza che la politica - intesa come ambito in cui si assumono decisioni collettivamente vincolanti - è oggi sempre più importante. Lo è perché la competizione è diventata più aperta e difficile, perciò cittadini e imprese hanno bisogno di migliori beni pubblici e di un'amministrazione più efficiente e flessibile che solo un più stretto rapporto con le comunità locali può assicurare. Pensiamo all'istruzione, ai progetti di alternanza scuola-lavoro, alle politiche attive per l'occupazione e, più in generale, a un sistema di welfare che dia, allo stesso tempo, più sicurezza e flessibilità di risposta a esigenze mutevoli nel tempo. Pensiamo anche alle infrastrutture per una mobilità urbana più intelligente, alle reti di connettività, alla qualità dell'ambiente, alle nuove esigenze abitative e di assistenza di una società che invecchia. Tutte queste funzioni richiedono una politica vicina ai cittadini, che trova nelle città e nelle regioni, piuttosto che negli apparati centrali dello Stato, gli interlocutori istituzionali più appropriati. Allo stesso tempo, in un quadro geopolitico sempre più turbolento, temi come difesa, lotta al terrorismo, governo delle migrazioni, norme fiscali per i gruppi multinazionali, politiche per la stabilità finanziaria non sono più gestibili all'interno dei vecchi confini nazionali, e richiedono perciò il ricorso a una sovranità europea. La resistenza degli stati nazionali a cedere potere decisionale e risorse fiscali sarà inevitabile, ma i processi in direzione di una maggiore autonomia territoriale e per una più forte integrazione europea non si possono bloccare. Altrimenti, gli strappi istituzionali come quello catalano rischiano di diffondersi in Europa. Al riparo di tale pericolo rimangono gli Stati federali come Germania o Svizzera, o paesi che, come Olanda, Danimarca e Svezia, hanno di fatto una dimensione regionale. Anche l'Italia, con i referendum sull'autonomia di Veneto e Lombardia, ha mostrato di muoversi nella direzione giusta. Adesso bisogna dare seguito alla domanda di autonomia che questi territori hanno manifestato in modo pacifico e democratico. Evitando sia le strumentalizzazioni sul residuo fiscale - il cui ammontare, se calcolato correttamente, deve tenere conto delle funzioni statali e del principio di solidarietà nazionale -, sia le accuse di "egoismo territoriale" messe in campo per conservare al centro le rendite di posizione. La ripresa del percorso federalista in Italia può perciò indicare la strada al resto d'Europa. Ma, come nelle manifestazione di Madrid e Barcellona, anche da noi, alla fine, è stata la determinazione e la saggezza dei cittadini a spingere la politica. Pag 1 Città-stato nel mondo globale di Renzo Mazzaro

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Il pensiero di Khanna in sedici punti Ha 40 anni, ha viaggiato in più di 100 paesi per vedere da vicino i sistemi di governo e metterli a confronto. Si chiama Parag Khanna, è nato a Kanpur in India ma vive tra Singapore e Berlino. Questo ragazzone scuro di capelli e il sorriso stampato in viso, potrebbe sembrare uno dei tanti giovani italiani a spasso, invece è uno stratega geopolitico tradotto in tutto il mondo. Per le idee innovative è stato preso come consulente da generali e da politici di carriera. Khanna ha scelto due città italiane, Roma e Venezia, per presentare il suo ultimo libro, che pare scritto apposta per la nostra classe dirigente regionale e nazionale: «La rinascita delle città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution». Alla presentazione a Venezia è emerso che anche il ministro Graziano Delrio è un suo grande estimatore. Bene, immaginiamo che Delrio potrà mettere al passo Gentiloni, nel caso il premier si sia preso indietro su questi temi. Ma confidiamo che lo stesso accada a Luca Zaia, perché le suggestioni di Parag Khanna inserite nel Veneto del referendum conferiscono una nobiltà sconosciuta al dibattito in corso. Non vorremmo essere dissacranti ma rispetto a certe interviste vagamente agghiaccianti della campagna elettorale, il Veneto fa un salto dalle stalle alle stelle. L'indipendenza delle città-stato descritta da Parag non nasce dalla chiusura verso l'esterno, dalla paura del diverso, sia l'immigrato o chi altro. Non è la difesa nostalgica di una identità perduta, meno ancora la volontà rabbiosa di un revanchismo di provincia. Al contrario, nasce per rompere l'isolamento, per uscire dai confini nazionali e confrontarsi meglio con il resto del mondo. La dimensione della città-stato è opposta alla struttura elefantiaca dello stato nazionale, partorito nell'ottocento da ragioni non più attuali. Oggi le aree metropolitane possono competere nel mondo globale senza bisogno dell'organizzazione nazionale, che anzi le frena. Parag Khanna è definito un visionario ma ci piace ricordare che le sue tesi hanno un precedente tutto italiano. Nel 1971 usciva da noi un libro intitolato «Medioevo prossimo venturo», scritto da Roberto Vacca, un ingegnere. I titoli di alcuni capitoli, a rileggerli oggi, sembrano cronaca di questi giorni: «L'ingovernabilità dei grandi sistemi», «L'impotenza elettrica», «Congestione urbana e paralisi dei trasporti», «Scarsezza d'acqua ed eccesso di immondizie», «Inutilità della guerra come mezzo di distruzione», e perfino «La crisi del management, causa remota della degradazione dei sistemi», che potrebbe spiegare il fallimento delle banche popolari. Roberto Vacca non era un visionario, portava semplicemente a conclusione premesse che già esistevano 46 anni fa. Oggi Parag Khanna le mette a sistema, le organizza per un nuovo ordine mondiale. «Benvenuti nel nuovo Medioevo», ricordava nel 2011 in un'intervista a Il Sole 24 Ore, «perché l'età buia si è evoluta nel Rinascimento e noi dobbiamo garantire che accada di nuovo nella nostra epoca». Il suo punto di partenza è che la crisi delle democrazie occidentali è sotto gli occhi di tutti. La scorsa primavera l'Espresso intervistandolo ricordava una ricerca Demos del 2016 secondo la quale solo il 6% degli italiani ha un'alta fiducia nei partiti e l'11% nel Parlamento. Ma 8 italiani su 10 vogliono un uomo forte al comando. «La democrazia si sta uccidendo con le proprie mani», dice Parag, «il futuro sarà di quei sistemi che riescono a combinare democrazia partecipativa e tecnocrazia diretta». I suoi modelli sono la Svizzera e Singapore, «il riccio corazzato e il gambero velenoso» come li definisce. La Svizzera dei referendum a ogni piè sospinto, massimo di democrazia e Singapore, città-stato governata dalla stessa famiglia di tecnocrati da 40 anni. In realtà anche a Singapore il governo promuove referendum a ogni piè sospinto e la Svizzera è molto più tecnocratica di quello che pensano gli autori italiani che ne fanno argomento di sketch umoristici per le tv. Aggiungiamo che i confini tra gli stati nazionali sono ormai superati dalla connessione tra le reti e questo riduce di molto la necessità di governi centrali. Dove non si coglie questo passaggio, sostiene Parag, la deriva populista è inevitabile e fa l'esempio degli Stati Uniti. Dove invece si riesce a coniugare democrazia e tecnocrazia le cose funzionano. E fa l'esempio della Cina, paese che l'Occidente è abituato a considerare in arretrato sul rispetto dei diritti umani. Non è stata l'unica fuga in avanti. «I veneti sono le persone più globali che io conosco», ci ha gratificati ad un certo punto Parag, «assieme a catalani e scozzesi, perché pensano al di là dello Stato. Vogliono connettersi con il mondo intero». Ma ci meritiamo davvero questo complimento? Davanti a un folto pubblico, hanno dialogato con l'autore il consigliere regionale Antonio Guadgnini (nessun altro politico veneto si è visto), il sociologo Luca Romano, il presidente di Assoporti Zeno

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D'Agostino, il docente del Marcianum Andrea Favaro, il docente di filosofia del diritto Carlo Lottieri e l'imprenditore vicentino Roberto Brazzale. Autore, quest'ultimo, di un atto concreto di innovazione: la sua azienda paga uno stipendio in più ai dipendenti quando nasce un figlio. Per la serie fatti e non parole, meriterebbe un convegno da solo. 1 La questione centrale nei paesi occidentali è la confusione tra democrazia e governance. Si può avere uno stato molto democratico ma ingovernabile: c'è da esserne contenti? 2 Per il semplice fatto di essere stati eletti, non significa che si è anche capaci di governare. 3 Non è mai esistito uno stato di successo senza una città di successo. 4 Ricerche in Svezia, Australia, Olanda, Usa, Nuova Zelanda e Gran Bretagna dimostrano insoddisfazione crescente, in particolare tra i giovani, verso i governi. Questo si traduce in crisi delle democrazie. 5 Ogni Paese dovrebbe avere almeno tre partiti, non solo due, altrimenti si cade in mano ad un duopolio. 6 L'idea delle società occidentali governate dalla ragione e di quelle orientali governate dal dispotismo, ormai è un trito cliché. 7 La democrazia non basta, quello che conta è il progetto di governo. 8 Chiediamoci che tipo di leader vogliamo: negli Usa gli eletti al congresso trascorrono molto più tempo a cercare fondi per essere rieletti che a occuparsi dei problemi degli elettori, con il risultato di vivere in una campagna elettorale permanente. 9 Scegliere le persone per meritocrazia non significa usare sempre gli stessi criteri. A Singapore la domanda oggi è quanto tempo viene dedicato al volontariato, perché cercano gente con molti contatti sociali. 10 Si può misurare in modo rigoroso se si sta fornendo un servizio importante al maggior numero di cittadini. A Singapore usano fare referendum continui su tutto. 11 Votare è obbligatorio, altrimenti si viene multati. Situazioni come l'Italia dove vota il 50% degli aventi diritto sono impensabili: che democrazia è se non vota il 100%? 12 Solo 2 Paesi al mondo sono in testa a tutte le classifiche per coefficiente di democrazia e tecnocrazia: Svizzera e Singapore. 13 La combinazione di questi due modelli dà come sistema di governo una tecnocrazia diretta da elezioni con voto obbligatorio e da referendum frequenti su tutto: prezzi, parcheggi, asili, servizi sociali, infrastrutture... 14 Una volta presa la decisione un'agenzia indipendente si occupa della realizzazione e non si cambia idea finché l'opera non è completata. 15 L'identità è importante ma la vera questione è il denaro: la contrapposizione, a Roma come a New York, riguarda sempre il modo in cui viene usato dal governo centrale. 16 Singapore guida le classifiche anticorruzione perché ministri e funzionari hanno gli stipendi più alti al mondo, anche dopo il taglio di un terzo o di metà avvenuto nel 2012 (non osiamo pensare a cosa succederebbe in Italia con una proposta del genere). Pag 5 Quei cavalli di battaglia diventati boomerang di Alberto Flores d’Arcais Il Russiagate miete le sue prime vittime e i nomi non sono da poco. Paul Manafort, il potente capo della campagna elettorale di Donald Trump (fino all'agosto 2016, quando venne sostituito da Steve Bannon) si è consegnato al Fbi alle otto del mattino, per evitare l'umiliazione delle manette e forse anche per iniziare a trattare (in cambio di qualche importante rivelazione) uno sconto della pena. I capi di imputazione nei suoi confronti (e in quelli del suo "braccio destro" Rick Gates, anche lui ex consigliere del presidente) sono dodici, di cui tre assai pesanti che possono costare decenni di carcere (oltre a milioni di dollari di multa): cospirazione contro gli Stati Uniti, riciclaggio di denaro, evasione fiscale. Trump ha subito reagito (via Twitter) sostenendo che tutte le accuse vanno riferite ad anni lontani, quando Manafort (e Gates) non lavoravano per lui e la campagna elettorale era ancora lontana. Reagendo d'istinto, il presidente Usa ha commesso un errore (i documenti sull'incriminazione parlano di un periodo che va dal 2008 al 2017, quindi compresi i mesi della primavera-estate 2016) che rischia di essere il primo di una lunga serie. Mentre The Donald si affrettava ad una pasticciata difesa, George Papadopolous, altro collaboratore della sua campagna elettorale, si dichiarava

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«colpevole» per aver reso "false dichiarazioni" agli agenti del Fbi - sempre all'interno delle indagini sulle interferenze della Russia di Putin sulle elezioni per la Casa Bianca - condotte dal procuratore speciale Robert Mueller. L'ex direttore del Fbi non ha fretta, il Russiagate (con relative incriminazioni) può durare molti mesi e non è detto che debba arrivare per forza fino a lambire lo stesso Trump, che al momento non è direttamente sotto accusa. Il numero degli amici, consiglieri e anche parenti (figlio e genero) del presidente coinvolti è però una spada di Damocle perenne, il carattere fumantino del presidente non lo aiuta e anche il momentum politico non è (per lui) il migliore. Trump è il più debole presidente (al primo mandato) dell'ultimo secolo, con una popolarità ai minimi storici; il suo partito, che ha una grande maggioranza al Congresso, è profondamente diviso e cresce il numero di coloro che vedrebbero volentieri al suo posto il vice-presidente Mike Pence; politicamente The Donald è già una "anatra zoppa", dopo appena dieci mesi dal giuramento e non ha mai avuto la tradizionale luna di miele con il paese di cui è diventato Commander in Chief; i suoi cavalli di battaglia elettorali si sono trasformati in boomerang con cocenti sconfitte parlamentari (riforma sanitaria anti-Obama) o giuridiche (il "muslim ban"); la prevista riforma delle tasse rischia di inimicargli anche quella classe bianca media "impoverita" decisiva per il suo futuro; la sua politica estera viene considerata "pericolosa" anche da esponenti di primo piano delle forze armate e della diplomazia. Tutto questo vuol dire che Donald Trump ha i giorni contati? Al momento no, il presidente resta ancora bene in sella, perché l'impeachment è una possibilità assai remota (lo decide il Congresso a larga maggioranza) e solo un clamoroso - e al momento poco probabile - ribaltone tra repubblicani e democratici potrebbe renderlo attuale. Più semplice sarebbe fare ricorso al 25esimo emendamento con cui il presidente in carica può essere deposto in quanto "non in grado di esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio". Ma per questo occorrerebbe il totale tradimento dei suoi uomini (partendo dal vice Pence) fino al coinvolgimento di oltre metà governo, praticamente un golpe istituzionale. Al momento sembra fantascienza, ma se il procuratore speciale Robert Mueller (che pur essendo dello stesso partito di Trump ha fama di incorruttibile) troverà nelle carte del Russiagate una qualche "ostruzione alla giustizia" da parte del presidente, il futuro di The Donald alla Casa Bianca potrebbe essere seriamente a rischio. Torna al sommario