Rassegna stampa 30 gennaio 2017 · 2017-01-30 · RASSEGNA STAMPA di lunedì 30 gennaio 2017...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 30 gennaio 2017 SOMMARIO “Donald J. Trump sa che cosa vuole e chi non vuole sulla sua strada – scriveva ieri il direttore Marco Tarquinio sulla prima pagina di Avvenire -. Vuole un mondo che nessuno si azzardi a pensare come «casa comune» da difendere, da usare e da continuare a costruire insieme: il grido di battaglia è «ognun per sé», Stati e persone. Non vuole nel suo Paese, pur costruito dai migranti di tutto il mondo, una serie di persone che considera indesiderabili o, come ha proclamato ieri, «pericolose»: dai rifugiati, lavoratori e persino turisti di religione islamica sunnita e sciita ai migranti latino americani prevalentemente di religione cristiano cattolica (nel primo caso la discriminazione religiosa è esplicita, nel secondo è implicita e si mescola ad altri elementi ugualmente preoccupanti). Sta decidendo di conseguenza, il nuovo capo della Casa Bianca. Costruisce ogni giorno nuovi 'muri', materiali e ideali, commerciali e politici, culturali e religiosi. E si è persuaso che il «prezzo» di tutte queste barriere debba ricadere su quelli dell’«altra parte»: abitanti, emigranti, mercanti, governanti, credenti... Si sbaglia. Non sarà così, e non solo perché nessuno può e deve mettere arrogantemente le mani nelle tasche degli altri, ma perché il prezzo delle ingiustizie, prima o poi, lo pagano tutti, non solo i più deboli. Per intanto, però, il presidente Usa tira diritto. Confeziona persino «marchi» d’infamia verso popoli, comunità, etnie e organizzazioni sovrannazionali e li mette in circolazione con la potenza mediatica della parola dell’«uomo più potente del mondo». La questione è gravissima, e costa persino evocarla per gli echi terribili che scatena. Ma è inevitabile. Certo, potrebbe essere consolante pensare che si tratti solo di un pirotecnico spettacolo d’inizio mandato, ma non lasciano spazio a molte illusioni le aspre 'parole di disordine' – protezioniste, anti-umanitarie e contrarie a ogni «concerto delle nazioni» – che Trump continua a lanciare e che si vanno accumulando e insediando nei dibattiti politici non solo d’oltre Atlantico e alimentano i nuovi rivoli d’antagonismo e d’odio che hanno preso a scorrere in ogni dove. Come se non bastassero quelli ingrossati dalla propaganda dei fondamentalisti jihadisti... È infatti convinto, Trump, di sapere perfettamente l’effetto che tutto questo farà: la 'sua' America (che non è tutta l’America, ma nel Nuovo Mondo è dominante da circa due secoli) sarà più che mai 'prima' a livello globale: più ricca, più forte, più sicura. Fiat 'great America' et pereat mundus. Si sbaglia ancora una volta. E ce ne accorgeremo tutti, sperabilmente presto. Nessuno si salva da solo, neanche la superpotenza Usa. E non si rimedia ai guasti del lato oscuro della globalizzazione chiudendosi in recinti per (presunti) ricchi e recintando i poveri nelle loro sventure di miseria e di guerra. Anche nello sviluppato Nord del mondo – negli States come in Italia – i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi. Mentre nei troppi e derelitti Sud del mondo la caparbia e repulsiva «avarizia» dei pre-potenti di questo passo finirà davvero per suscitare – secondo la profetica constatazione di Paolo VI, scandita mezzo secolo fa nell’enciclica Populorum Progressio – «il giudizio di Dio e la collera dei poveri». Non bisogna nominare il nome di Dio invano. E allora è bene tornare su un punto già toccato e sulle argomentazioni usate ieri dal presidente Trump per decretare la porta chiusa in faccia per alcuni mesi ai richiedenti asilo, ma anche a lavoratori (addirittura con il permesso permanente, la famosa green card), di fede islamica provenienti da sette Stati, tutti Paesi d’Africa e Asia piagati dalla guerra tranne uno, l’Iran. La cosa che colpisce di più è che colui che è stato eletto a capo della prima e più grande democrazia d’Occidente si sta così mettendo, oggi, su un piano sinora proprio del califfo nero di Raqqa. Il marchio di identificazione e di rifiuto degli «islamici» idealmente impresso per ordine di Trump sul passaporto di una persona in fuga dalla Siria e dall’Iraq o dallo Yemen o dalla Somalia somiglia maledettamente alla «n» araba di nasara, nazzareno, imposta per ordine di al-Baghdadi sulle case dei cristiani di Mosul. Somiglia non è uguale. Perché gli Usa, così, rifiutano accoglienza, aiuto, la possibilità di una nuova vita a coloro che

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 30 gennaio 2017

SOMMARIO

“Donald J. Trump sa che cosa vuole e chi non vuole sulla sua strada – scriveva ieri il direttore Marco Tarquinio sulla prima pagina di Avvenire -. Vuole un mondo che nessuno si azzardi a pensare come «casa comune» da difendere, da usare e da

continuare a costruire insieme: il grido di battaglia è «ognun per sé», Stati e persone. Non vuole nel suo Paese, pur costruito dai migranti di tutto il mondo, una serie di persone che considera indesiderabili o, come ha proclamato ieri, «pericolose»: dai rifugiati, lavoratori e persino turisti di religione islamica sunnita e sciita ai migranti latino americani prevalentemente di religione cristiano cattolica (nel primo caso la discriminazione religiosa è esplicita, nel secondo è implicita e si mescola ad altri elementi ugualmente preoccupanti). Sta decidendo di conseguenza, il nuovo capo

della Casa Bianca. Costruisce ogni giorno nuovi 'muri', materiali e ideali, commerciali e politici, culturali e religiosi. E si è persuaso che il «prezzo» di tutte queste barriere debba ricadere su quelli dell’«altra parte»: abitanti, emigranti, mercanti, governanti, credenti... Si sbaglia. Non sarà così, e non solo perché nessuno può e deve mettere

arrogantemente le mani nelle tasche degli altri, ma perché il prezzo delle ingiustizie, prima o poi, lo pagano tutti, non solo i più deboli. Per intanto, però, il presidente Usa

tira diritto. Confeziona persino «marchi» d’infamia verso popoli, comunità, etnie e organizzazioni sovrannazionali e li mette in circolazione con la potenza mediatica

della parola dell’«uomo più potente del mondo». La questione è gravissima, e costa persino evocarla per gli echi terribili che scatena. Ma è inevitabile. Certo, potrebbe

essere consolante pensare che si tratti solo di un pirotecnico spettacolo d’inizio mandato, ma non lasciano spazio a molte illusioni le aspre 'parole di disordine' – protezioniste, anti-umanitarie e contrarie a ogni «concerto delle nazioni» – che Trump continua a lanciare e che si vanno accumulando e insediando nei dibattiti

politici non solo d’oltre Atlantico e alimentano i nuovi rivoli d’antagonismo e d’odio che hanno preso a scorrere in ogni dove. Come se non bastassero quelli ingrossati

dalla propaganda dei fondamentalisti jihadisti... È infatti convinto, Trump, di sapere perfettamente l’effetto che tutto questo farà: la 'sua' America (che non è tutta

l’America, ma nel Nuovo Mondo è dominante da circa due secoli) sarà più che mai 'prima' a livello globale: più ricca, più forte, più sicura. Fiat 'great America' et pereat mundus. Si sbaglia ancora una volta. E ce ne accorgeremo tutti, sperabilmente presto. Nessuno si salva da solo, neanche la superpotenza Usa. E non si rimedia ai guasti del

lato oscuro della globalizzazione chiudendosi in recinti per (presunti) ricchi e recintando i poveri nelle loro sventure di miseria e di guerra. Anche nello sviluppato Nord del mondo – negli States come in Italia – i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi. Mentre nei troppi e derelitti Sud del mondo la caparbia e repulsiva «avarizia» dei pre-potenti di questo passo finirà davvero per suscitare – secondo la

profetica constatazione di Paolo VI, scandita mezzo secolo fa nell’enciclica Populorum Progressio – «il giudizio di Dio e la collera dei poveri». Non bisogna nominare il nome di Dio invano. E allora è bene tornare su un punto già toccato e sulle argomentazioni

usate ieri dal presidente Trump per decretare la porta chiusa in faccia per alcuni mesi ai richiedenti asilo, ma anche a lavoratori (addirittura con il permesso permanente, la famosa green card), di fede islamica provenienti da sette Stati, tutti Paesi d’Africa e

Asia piagati dalla guerra tranne uno, l’Iran. La cosa che colpisce di più è che colui che è stato eletto a capo della prima e più grande democrazia d’Occidente si sta così mettendo, oggi, su un piano sinora proprio del califfo nero di Raqqa. Il marchio di

identificazione e di rifiuto degli «islamici» idealmente impresso per ordine di Trump sul passaporto di una persona in fuga dalla Siria e dall’Iraq o dallo Yemen o dalla

Somalia somiglia maledettamente alla «n» araba di nasara, nazzareno, imposta per ordine di al-Baghdadi sulle case dei cristiani di Mosul. Somiglia non è uguale. Perché gli Usa, così, rifiutano accoglienza, aiuto, la possibilità di una nuova vita a coloro che

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sono costretti a lasciare la propria terra e lo fanno in base a un’appartenenza religiosa di gruppo, non a una qualche colpa personale. E perché, invece, nel Siraq sotto il

califfato islamico per i cristiani «marchiati» non è più consentita la vecchia vita, e le alternative all’esilio sono la conversione, la sottomissione pagante o la morte. Il

significato delle due scelte (quella di Trump provvisoria, quella dei jihadisti strutturale) è però ugualmente devastante. Se la fede e la cultura di una persona o di

un gruppo di persone diventano il motivo di una discriminazione aspra e ingiusta, questo riguarda tutti, non solo i direttamente interessati. Se essere musulmano

diventa un «marchio» di pericolosità e un peccato civile, se per questo la condizione di persecuzione e di miseria di un essere umano diventano irrilevanti, nessuno è salvo

e nessuno è civilmente al sicuro, ma tutti – cristiani, ebrei, buddisti o di ogni altra tradizione e convinzione religiosa e filosofica – siamo in pericolo. Perché se non solo il

mondo dei tagliagole, ma anche il mondo che si è costruito sulla cultura dei diritti fondamentali della persona umana diventasse davvero un mondo di esseri

«marchiati», che in base a questo possono essere accettati e rifiutati, saremmo a un passo dall’incubo. Un incubo che abbiamo già affrontato e sconfitto. E che è assurdo

possa crescere di nuovo a partire dalla «terra della libertà»” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 9 Preti hard, la rabbia di Moraglia. «Comportamenti non umani» di Daniela Ghio Lo scandalo di Padova. Il patriarca di Venezia richiama la chiesa a un’operazione verità: “Bisogna conoscere come siano maturati episodi così inquietanti, era tutto organizzato”. Il ruolo dei seminari: “Dobbiamo capire chi bussa alla nostra porta” LA NUOVA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 13 «Comportamenti inquietanti e disumani che creano angoscia» di Nadia De Lazzari Monsignor Moraglia si scaglia contro i “preti delle orge”: «Cerchiamo la verità per capire come sia potuto accadere» CORRIERE DEL VENETO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 9 Moraglia e don Contin: «Un’isola di corruzione» di Alice D’Este Il Patriarca duro sui fatti di Padova: «È arrivato il momento di un’operazione verità» ANSA di sabato 28 gennaio 2017 Prete accusato orge canonica: mons. Moraglia, obbligo verità Dobbiamo capire chi bussa alla porta dei nostri seminari 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Lido. Volano per la pace i palloncini di 300 bambini. La festa al San Camillo e al Centro Morosini di L.M. 3 – VITA DELLA CHIESA IL FOGLIO Pag 1 Cosa sono i miracoli? di Matteo Matzuzzi Come si scelgono? Come si valutano? Chi li esamina? Chi decide quando sono veri o falsi? Inchiesta sul Mistero. Il marchio del Dio nascosto AVVENIRE di domenica 29 gennaio 2017 Pag 2 La fede che pone Dio tenacemente al centro di Marina Corradi Le sofferenze del Centro Italia, la forza della preghiera

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Pag 3 Il pane e gli occhiali (la forza dell’esempio) di Chiara Giaccardi Rilettura del messaggio del Papa ai comunicatori Pag 5 “La vita religiosa combatta mondanità e relativismo” Il Papa: gli abbandoni indeboliscono la Chiesa LA NUOVA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Lo scandalo dei preti disorienta di Mario Bertolissi L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 8 Anime ristrette Messa a Santa Marta AVVENIRE di sabato 28 gennaio 2017 Pag 19 La Chiesa e i gay: “Così accogliamo chi chiede aiuto” di Luciano Moia Parte dalla diocesi di Torino la nuova pastorale. Il responsabile, don Carrega: “”Insieme per riflettere” IL FOGLIO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Mons. Galantino e la pretesa di impartire lezioni di politica da un pulpito che ha rifiutato per definizione un ruolo politico di Giuliano Ferrara CORRIERE DEL VENETO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Ma sono preti o guru? di Gabriella Imperatori ANSA di sabato 28 gennaio 2017 Chiesa: Padre Lombardi, tre Papi diversi anche nel comunicare Esperienza forte riprendere immagini malattia Papa Wojtyla ITALIA OGGI di sabato 28 gennaio 2017 Via lo stipendio ai preti hard di Raffaele Porrisini Don Antoniazzi di Mestre apre un dibattito su 8x1000 e sostentamenti dei sacerdoti 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 13 I nuovi voucher. Che cosa cambierà? di Lorenzo Salvia 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 6 La versione di Mazzacurati e quelle amnesie nei verbali di Maurizio Dianese LA NUOVA Pag 1 Tangenti per il Mose. I rimedi di Francesco Jori IL GAZZETTINO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 11 Quel referto che può salvare gli imputati di Maurizio Dianese Un certificato medico due mesi prima dell’arresto: “Mazzacurati soffre di demenza senile” IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 29 gennaio 2017 Pag VI L’istituto Cavanis: “Tante falsità su quello sfratto” La replica Pag X Musulmani in preghiera all’aperto, scatta l’esposto di r.ros. LA NUOVA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 23 Nuovo negozio ai Frari con i prodotti dei detenuti di Enrico Tantucci

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Borse e cosmetici diventano un mezzo di riscatto sociale CORRIERE DEL VENETO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 9 La Basilica di San Marco sui due euro. La nuova moneta sarà Serenissima di Francesco Bottazzo Un milione e mezzo di pezzi. Brugnaro: orgogliosi di rappresentare l’Italia nel mondo IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 28 gennaio 2017 Pag II – III Brugnaro: “Pago io i funerali di Pateh” di Giorgia Pradolin La manifestazione in stazione. “Tuffarsi, scelta drammatica” LA NUOVA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 22 Il sindaco paga il funerale, è polemica di Vera Mantengoli In 500 a Santa Lucia per lanciare una corona in memoria di Pateh Sabally. Don Nandino: “Quei soldi non li prenderei” Pag 40 Tatuaggi e piercing per uno studente veneziano su cinque di Simone Bianchi Lo studio 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 La giustizia veneta a due facce di Massimo De Luca CORRIERE DEL VENETO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Demografia, la bomba profughi di Vittorio Filippi Subire o gestire … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le riflessioni che Renzi evita di Ernesto Galli della Loggia La sconfitta, le paure Pag 5 L’asse di Londra con l’America è meno forte delle apparenze di Sergio Romano Pag 28 L’illusione dell’uomo forte che tratta con le aziende di Roger Abravanel LA REPUBBLICA Pag 1 Avanti, verso il passato di Ilvo Diamanti IL GAZZETTINO Pag 1 Donald e la pericolosa ansia da prestazione di Massimo Teodori CORRIERE DELLA SERA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Frammenti di politica estera di Angelo Panebianco Partiti e alleanze Pag 1 Le promesse subito attuate di Massimo Gaggi Trump, le scelte e le incognite Pag 26 La retorica dell’uomo forte e gli errori da non ripetere di Giuseppe De Rita LA REPUBBLICA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 La sentenza della Corte, Gentiloni e i criteri di Mattarella di Eugenio Scalfari AVVENIRE di domenica 29 gennaio 2017

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Pag 1 Infame è il marchio di Marco Tarquinio I gesti di Trump, un incubo che torna Pag 2 Una città e una storia da capovolgere, ora di Maurizio Patriciello Napoli, il male per strada e nel cuore, lo Stato e noi Pag 19 La corsa del nuovo Iran verso la svolta di maggio di Claudio Monici Non c’è ancora chi possa sostituire Rohani. E il Paese, orfano di Rafsanjani, “si cerca” IL GAZZETTINO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Contro la crisi è meglio avere un sindacato forte di Romano Prodi Pag 19 Renzi, contro Grillo per drenare voti al centrodestra di Marco Conti CORRIERE DELLA SERA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Non tutti i vinti sono uguali di Dario Di Vico Globalizzazione Pag 1 La data del voto e il lungo pressing sul premier di Francesco Verderami Pag 8 Il centrodestra alle primarie? Testa a testa Berlusconi – Salvini di Nando Pagnoncelli LA REPUBBLICA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Giochi d’azzardo sull’Europa di Stefano Folli AVVENIRE di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Chi si cura del G7? di Andrea Lavazza L’Italia e il vertice “italiano” Pag 2 Nel dramma di Pateh evitiamo si ripeta la storia di Regina Catrambone Il gambiano suicida, l’indifferenza e la Giornata della memoria Pag 3 Meno numerosi ma più uniti. Aleppo, la forza dei cristiani di Fulvio Scaglione Dialogo anche con i musulmani. Ma tante incognite. Reportage dalla città assediata per 4 anni IL GAZZETTINO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Grande coalizione, per governare non è sufficiente di Bruno Vespa Pag 18 Usa - Europa, la nuova sfida passa per il commercio di Giulio Sapelli LA NUOVA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Lite che piace al partito del voto di Bruno Manfellotto

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 9 Preti hard, la rabbia di Moraglia. «Comportamenti non umani» di Daniela Ghio Lo scandalo di Padova. Il patriarca di Venezia richiama la chiesa a un’operazione verità: “Bisogna conoscere come siano maturati episodi così inquietanti, era tutto organizzato”. Il ruolo dei seminari: “Dobbiamo capire chi bussa alla nostra porta”

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Angoscia, disappunto e rabbia. Sono queste le sensazioni del patriarca di Venezia Francesco Moraglia, presidente della Conferenza episcopale del Triveneto, di fronte allo scandalo che ha colpito la Chiesa di Padova, con alcuni parroci coinvolti in incontri a luci rosse. «Questi sono i miei sentimenti di uomo spiega il patriarca , in certi momenti provo addirittura rabbia. Dall'altra parte, c'è l'atteggiamento del vescovo, di colui che si sente responsabile, e che in questa situazione deve fare una vera operazione di verità. Capire perché si è arrivati a questo punto». Ha parlato con estrema franchezza il prelato ieri nel tradizionale incontro con i giornalisti organizzato, a Venezia dall'Ufficio stampa e comunicazioni sociali della Diocesi insieme al settimanale Gente Veneta e in collaborazione con l'Ordine dei Giornalisti del Veneto e la sezione veneziana dell'Unione Cattolica Stampa Italiana, nelle vicinanze della ricorrenza di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Moraglia, ha ricordando anche gli interventi del vescovo di Padova, in merito alle vicende che investono un sacerdote padovano accusato di violenze sessuali da una parrocchiana, ma che ha tirato in causa anche altri sacerdoti. «Non c'è - ha aggiunto - da ricorrere alla questione del celibato come causa di questi comportamenti che, se sono veri, non solo non sono cristiani ma non sono neanche umani. Bisogna capire come possano essere maturati comportamenti così inquietanti che non sembrano investire solo un singolo comportamento o un singolo atto ma qualcosa di organizzato». «Come vescovo - ha precisato - ho l'obbligo di capire. Dobbiamo capire chi bussa alle porte dei nostri seminari. Abbiamo la responsabilità di formare preti che siano prima di tutto uomini di Dio, che pregano e stiano in mezzo alla gente, la fede deve divenire storia. Il seminario deve essere un tempo di verifica sul fronte della vocazione perché uno può essere un'ottima persona ma non essere adatto a fare il prete». Da parte della Chiesa, poi, su un piano generale, eventi come quelli che si sarebbero verificati a Padova non vanno tenuti nascosti. «Il Signore ci chiede un atto di umiltà e di verità nella riconciliazione - ha detto ancora il patriarca -. Le nostre chiese - hanno bisogno di atti di vera umiltà e nel contempo una operazione di verità. La rigenerazione comincia quando ci si mette sotto la luce delle verità». È stato padre Federico Lombardi, giornalista e sacerdote gesuita dal 2006 al 2016 direttore della Sala stampa vaticana sotto due Papi (Benedetto XVI e Francesco), l'ospite d'eccezione dell'incontro. Anche il gesuita ha sottolineato l'importanza della verità, soprattutto nell'informazione. «La cultura odierna ha affermato Lombardi ha bisogno di trasparenza, c'è attesa di ricerca di verità. Come informatori dobbiamo vivere la verità, dando un piccolo contributo al suo riconoscimento, e cercare di comunicare speranza e fiducia». Sull'argomento si è espresso anche il consigliere nazionale dell'Ordine dei Giornalisti, Maurizio Paglialunga, che ha richiamato l'essenzialità dell'informazione e il rispetto della privacy, soprattutto nei riguardi delle persone non indagate, mentre il rappresentante dell'Odg veneziano, Leopoldo Pietragnoli, ha denunciato il dilagare di notizie false sul web e le attuali difficili condizioni dei giornalisti. LA NUOVA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 13 «Comportamenti inquietanti e disumani che creano angoscia» di Nadia De Lazzari Monsignor Moraglia si scaglia contro i “preti delle orge”: «Cerchiamo la verità per capire come sia potuto accadere» Parole durissime. Contro i “preti dello scandalo” per i loro comportamenti «non umani». Il Patriarca di Venezia non ha fatto sconti. E ha chiesto che la verità venga appurata. Tutta. Per capire come sia potuto accadere. Duplice appuntamento, ieri, in laguna per la festa del patrono dei giornalisti San Francesco di Sales: alle 11 la messa nella cripta di San Marco presieduta da padre Federico Lombardi, giornalista e sacerdote gesuita, direttore della Sala stampa vaticana e alle 11,45 a Sant’Apollonia l’appuntamento con il Patriarca Francesco Moraglia, presidente della Conferenza episcopale del Triveneto. Che tra gli argomenti attuali ha affrontato, appunto, quello del recente “scandalo a luci rosse” che ha coinvolto alcuni sacerdoti della diocesi di Padova. Queste le parole del presule che è in continuo contatto con il Vescovo Cipolla: «La Chiesa del Nordest è la nostra Chiesa. Siamo implicati: non sono i vicini della porta accanto con cui non abbiamo nulla da fare». Il Patriarca evidenziando due livelli ha detto: «C’è una sensazione che mi intercetta come credente che è di angoscia, di disappunto, in certi momenti direi anche

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di rabbia. Dall’altra parte c’è l’atteggiamento del vescovo che, bene o male, si sente responsabile». «Quindi» ha continuato il Patriarca Moraglia, «un vescovo di fronte a queste situazioni deve fare una vera operazione di chiarezza, di verità, andare a vedere perché si è arrivati a questo punto». E ha precisato: «Ci può essere la caduta del singolo che addolora e ferisce. Per senso di giustizia siamo ancora in una fase di accertamento dei fatti e quindi non possiamo condannare nessuno, però vediamo un profilo che sta avanzando e che ci inquieta e ci preoccupa. Allora un conto è una scivolata di un singolo, un conto è qualcosa di più organizzato: un’isola - speriamo sia una sola - in cui c’è qualcosa che non funziona». Con chiarezza il Patriarca ha sottolineato: «Qui non c’è da invocare il celibato come causa di questi comportamenti perché questi comportamenti, se sono veri, come immagino che ci sia un fondo di verità, ma attendiamo che le cose si completino, sono atteggiamenti non solo non cristiani ma non umani. Quindi c’è da chiedersi come queste persone abbiano potuto maturare nel tempo stili, comportamenti che, se corrispondono a quello che noi leggiamo sui giornali, sono inquietanti. Sono realmente inquietanti». Poi il Patriarca Moraglia ha posto una lunga riflessione sul discernimento vocazionale, i seminari, la formazione reale, spirituale, antropologica dei preti che devono essere persone equilibrate, psicologicamente mature. E ha affermato: «Chi bussa alle porte dei nostri seminari? Il seminario deve essere un periodo di verifica, non di buonismo, un periodo in cui si mettono in evidenza le caratteristiche di una persona che può essere anche un’ottima persona ma non adatta a fare il prete. Molte volte chi crede di essere adatto, forse, è proprio colui che invece dovrebbe essere aiutato a prendere contatto con la realtà». Il problema fondamentale è di discernimento vocazionale. «La responsabilità nel formare i preti è forte: sono uomini di Dio, sono tali se pregano. Sacerdoti si diventa non prima dei 24, 25 anni dopo anni di preparazione. Si impegnano con Dio, con sé, con la comunità ad alcune linee fondamentali», ha spiegato il presule. Subito ha aggiunto: «Questa situazione - parlo di Padova ma potrei parlare, Dio non voglia della mia diocesi o di altre situazioni nel mondo - deve essere oggetto di una verifica, di rimettere al centro l’essenziale. Il prete è la sintesi di mille scelte, di una vera sobrietà. Non possiamo solo predicare la povertà in chiesa magari la povertà della Chiesa e poi le nostre canoniche sono porti franchi rispetto alla povertà, per esempio le nostre macchine. C’è uno stile vero da recuperare, c’è un rapporto con Dio senza il quale il prete diventa un assistente sociale, un uomo di cultura». Così ha concluso il presule: «Non dobbiamo nascondere questi eventi. Il Signore ci chiede un atto di umiltà e un’operazione di verità; le nostre Chiese ne hanno bisogno». Risale al 21 dicembre scorso la perquisizione eseguita dai carabinieri della stazione Padova Principale nella canonica della chiesa di San Lazzaro. Al piano superiore i militari hanno scoperto una vera e propria sala a luci rosse, piena di gadget e attrezzi per il sesso, dai vibratori di varie misure, ai capi in pelle, dai frustini ai videotape hot archiviati con il nome dei papi. Sotto inchiesta con l’accusa di violenza privata e favoreggiamento della prostituzione è finito don Andrea Contin. Una donna lo accusa di averla costretta a rapporti sessuali violenti, di averla picchiata e di averle imposto di fare sesso con altri sacerdoti. L’inchiesta si è già allargata: oltre a don Contin in Procura è già stato sentito anche don Roberto Cavazzana, ex prete a carbonara di Rovolon. La donna che ha denunciato la violenza ha raccontato di un rapporto a tre con i due preti. Ma ci sarebbero almeno altri due prelati pronti a sfilare davanti al pm. Per la chiesa padovana il colpo è durissimo e il vescovo Cipolla ha annunciato provvedimenti. Si svolgerà sabato 4 febbraio il tradizionale incontro del vescovo Claudio Cipolla con i giornalisti padovani in occasione della festa del patrono San Francesco di Sales, che proprio a Padova studiò e si laureò. In realtà il calendario ha celebrato San Francesco di Sales martedì 24 gennaio, ma di regola l’incontro si svolge di sabato. Il 21, nella basilica di Monte Berico, il vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, ha celebrato la messa per i giornalisti. Ieri, invece, nella cripta della basilica di San Marco, a Venezia, il patriarca Francesco Moraglia ha ospitato padre Federico Lombardi, già direttore della Sala Stampa Vaticana. CORRIERE DEL VENETO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 9 Moraglia e don Contin: «Un’isola di corruzione» di Alice D’Este

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Il Patriarca duro sui fatti di Padova: «È arrivato il momento di un’operazione verità» Venezia. «Ciò che sta accadendo in queste ore mi colpisce come rappresentante della Chiesa ma anche come persona di fede. Come credente mi crea angoscia, disappunto e anche rabbia. Come rappresentante della Chiesa, penso invece che sia il momento per un’operazione verità». Il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, ieri in dialogo con padre Federico Lombardi (a lungo direttore della Radio Vaticana e del Centro Televisivo Vaticano) ha affrontato il tema degli scandali a sfondo sessuale dei preti della Diocesi padovana, senza sconti. «Penso sia necessario capire perché si è arrivati a questo punto – ha detto Moraglia – non c’è da invocare il celibato come causa di queste azioni. Non si tratta della caduta di un singolo, che può colpire e dispiacere, ma di un’isola intera di corruzione, che mostra un profilo veramente preoccupante. Se fossero confermate le cose che si stanno leggendo in questi giorni, non solo si tratterebbe di comportamenti non cristiani ma anche di comportamenti non umani». Sulla vicenda di don Andrea Contin e degli scandali sessuali che lo hanno coinvolto, si è espresso in questi giorni anche il vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla. «Ci sentiamo continuamente per questa questione – dice Moraglia –, per me è come un fratello minore. Lui ora ha il compito di agire in prima persona come responsabile della sua diocesi e di aiutare l’operazione verità. La riflessione, poi dovrebbe essere più generale e partire dai seminari». Su questo, Moraglia è severo. A partire dalla formazione dei nuovi sacerdoti e passando per gli anni di studio. «Il fenomeno, se fosse confermato, è troppo allargato – dice Moraglia – dobbiamo ripensare a come accogliamo le vocazioni e a come ci occupiamo della formazione di queste persone. Perché tutte le canoniche possono essere luoghi in cui “nascondere” comportamenti. E quindi il passo va fatto prima, durante gli anni di seminario». Accanto a lui, padre Lombardi si dice d’accordo. Figura di spicco del Vaticano sul fronte della comunicazione, si è trovato accanto a tre papi, da Giovanni Paolo a Benedetto XVI e ora Papa Francesco. E durante questi anni ha incrociato anche momenti delicati come Vatileaks. «Ho imparato in quei momenti che il primo passo è dire la verità e fare chiarezza – dice padre Lombardi – ed è così anche sulla questione degli abusi sessuali. Benedetto XVI ha dato una testimonianza evangelica, ha cercato la verità prima dell’immagine ed è questo che la Chiesa dovrebbe fare sempre». Non solo, dunque, di fronte agli scandali più complessi ma anche nella vita di ogni giorno. «I giovani oggi (e non solo loro) hanno bisogno di una Chiesa vicina ma anche che la Chiesa sia in grado di mantenere il suo ruolo di guida – ha aggiunto Moraglia - La Chiesa deve essere capace di coraggio, di dare un segnale con chiarezza». ANSA di sabato 28 gennaio 2017 Prete accusato orge canonica: mons. Moraglia, obbligo verità Dobbiamo capire chi bussa alla porta dei nostri seminari "La sensazione che si intercetta come credente è di angoscia, disappunto, in certi momenti di rabbia; dall'altra parte, c'è l'atteggiamento del vescovo, di colui che si sente responsabile, e che in questa situazione deve fare una vera operazione di verità". A dirlo il patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, ricordando anche gli interventi del vescovo di Padova, in merito alle vicende che investono un sacerdote padovano accusato di violenze sessuali da una parrocchiana, ma che ha tirato in causa anche altri sacerdoti. "Non c'è - ha aggiunto - da ricorrere alla questione del celibato come causa di questi comportamenti che, se sono veri, non solo non sono cristiani ma non sono neanche umani": Per il patriarca c'è da capire come possano essere maturati "comportamenti così inquietanti" che non sembrano investire solo un singolo comportamento o un singolo atto "ma qualcosa di organizzato". "Come vescovo - ha poi aggiunto - ho l'obbligo di capire. Dobbiamo capire chi bussa alle porte dei nostri seminari". Da parte della chiesa,poi, su un piano generale, eventi come quelli che si sarebbero verificati a Padova "non vanno tenuti nascosti". "Le nostre chiese - ha detto ancora - hanno bisogno di atti di vera umiltà e nel contempo una operazione di verità. La rigenerazione comincia quando ci si mette sotto la luce delle verità". Tornando sulla questione della scelta e della formazione in seminario - "che deve essere un tempo di verifica" sul fronte della vocazione "perché uno può essere un'ottima persona ma non adatto a fare il prete" -

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mons. Moraglia ha detto che servono "persone che devono essere uomini di Dio, che pregano" e a quel punto "la fede diventa storia". Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Lido. Volano per la pace i palloncini di 300 bambini. La festa al San Camillo e al Centro Morosini di L.M. Trecento auguri e auspici di Pace sono volati in cielo dall'ospedale San Camillo degli Alberoni, ieri mattina al Lido, insieme a una miriade di palloncini colorati. A lanciarli bambini e ragazzi del catechismo delle sei parrocchie del Lido (nella foto). Una tradizione che si ripete ormai da alcuni decenni, nato da un'iniziativa della parrocchia di Sant'Ignazio. Per la prima vota questo incontro è stata l'occasione per proporre a tutte le famiglie della Comunità pastorale del Lido di una Domenica a tempo pieno. Dopo la messa, il lancio in cielo dei palloncini colorati, ognuno dei quali conteneva un augurio e auspicio di pace scritto dai bambini. Ogni bambino ha donato due euro per ciascun biglietto e l'importo raccolto andrà poi a sostenere iniziative di carità. Dopo il lancio, la giornata è proseguita nel vicino Centro soggiorno Morosini, con pranzo e giochi per bambini. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA IL FOGLIO Pag 1 Cosa sono i miracoli? di Matteo Matzuzzi Come si scelgono? Come si valutano? Chi li esamina? Chi decide quando sono veri o falsi? Inchiesta sul Mistero. Il marchio del Dio nascosto Sessantanove. Sono i miracoli accertati avvenuti a Lourdes, lì dove oggi sorge il Santuario di Nostra Signora con messe plurilingue e seguitissimo Rosario trasmesso in diretta tv, e poco più d'un secolo e mezzo fa c'era solo la grotta di Massabielle, dove Maria apparve per la prima volta l'11 febbraio del 1858 alla giovane e analfabeta Bernadette Soubirous. Sessantanove, catalogati in modo rigoroso dal Comitato medico internazionale locale: dottori e specialisti che esaminano i tanti dossier che di volta in volta finiscono sul tavolo dell'Ufficio delle constatazioni mediche del Santuario. Talmente certosine sono le indagini che guai a parlare di miracoli: questo è affare del vescovo diocesano, a loro compete solo prendere atto che di scientifico nelle guarigioni c'è poco. O che esse quantomeno non sono razionalmente ed empiricamente spiegabili. Si legge sul sito ufficiale: "I membri del Comitato medico internazionale di Lourdes rifiutano di argomentare sui qualificativi di una guarigione 'eccezionale, inattesa, inspiegabile o non spiegabile nello stato attuale della scienza'". Conta solo il dossier medico completo e conta, in fin dei conti, la statistica: quant'era probabile la guarigione data la situazione pregressa e la cartella clinica a disposizione? Obietta lo scettico: c'è sempre il classico fattore psicosomatico. E pure questo viene indagato, così come l'eventualità d'una guarigione spontanea, che è possibile a leggere la letteratura medica. La procedura è semplice: ci si riunisce una volta l'anno, si esamina tutto il materiale, si vota. A maggioranza dei due terzi si decide se la guarigione è spiegabile o non spiegabile. Fine. Dire che è (o non è) un miracolo sarà compito della chiesa, del vescovo titolare della diocesi in cui risiede il guarito. Non c'è altro. Dal febbraio del 2012 è attivo a Loreto, presso la delegazione pontificia del Santuario della Santa Casa, l'Osservatorio medico permanente "Paleani". Il suo fine è di valutare i casi di guarigione scientificamente inspiegati. "Prima di tutto, noi non usiamo la parola miracolo neanche per scherzo", premette il professor Fiorenzo Mignini, che dell'Osservatorio è il responsabile. "Parliamo di guarigioni in spiegate o inspiegabili. Procediamo con metodo clinico rigoroso, il lavoro è lungo. Definiamo una guarigione inspiegata se riteniamo che in questo momento (e

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preciso, in questo dato momento) la letteratura internazionale e gli esperti non riescono a fornire un' ipotesi sulla guarigione. Parliamo invece di guarigione inspiegabile se di mezzo c'è il fattore tempo, e cioè se essa è avvenuta in un tempo inferiore a quello che di norma serve perché si verifichi. Faccio un esempio: se una frattura si rimargina in dieci minuti quando occorrerebbe molto più tempo, siamo davanti a un fenomeno che avviene in un lasso temporale troppo breve per essere scientificamente spiegata". A Loreto l'elenco di grazie ricevute è lungo, si perde in secoli di devozione, dal più semplice dei pellegrini a illustrissimi uomini di chiesa. Pietro Barbo, e siamo in pieno Quattrocento, fu colpito dalla peste mentre si trovava ad Ancona. Chiese, moribondo, d'essere portato a Loreto, sapendo che là qualcosa di misterioso c'era e che poteva mutare il corso della vita. Invocò Maria Santissima, guarì e fu eletto Papa col nome di Paolo II. La Madonna gliel' aveva predetto, disse poi. "Nel 2012 abbiamo sistemato l'archivio, che era in condizioni non buone, anche perché non esisteva una struttura definita come l'Osservatorio, che nasce con decreto del delegato pontificio", dice Mignini. "Abbiamo analizzato tutte le segnalazioni, ma da qui a parlare di guarigioni inspiegabili ce ne vuole. Il metodo è rigoroso", ripete ancora. Ed è quello, nelle sue linee essenziali, delineato nel Settecento da Prospero Lambertini, cardinale di Santa Romana Chiesa e poi Papa Benedetto XIV: Primo: la malattia deve essere grave, incurabile o difficoltosa a trattarsi. Secondo: la malattia non deve trovarsi all'ultimo stadio o al punto di poter guarire spontaneamente. Terzo: nessun farmaco o trattamento deve essere stato utilizzato, o in tal caso deve aver prodotto nessun effetto. Quarto: la guarigione deve essere avvenuta in modo istantaneo o con eccezionale rapidità. Quinto: la guarigione deve essere perfetta (non difettosa o parziale). Sesto: nessuna crisi deve aver preceduto la guarigione; in tal caso, essa potrebbe essere considerata come naturale. Settimo: non devono esserci una o due recidive. Insomma, parlare di miracoli è tutt'altro che semplice se si tratta la faccenda con serietà. Loreto parla chiaro: "1.256 segnalazioni esaminate in un lasso temporale che va dal 1886 al 2016. Tra queste - dice il prof. Mignini - 215 avevano una documentazione medica parziale, e quindi non erano esaminabili. 31 avevano una documentazione medica consistente, ma non completa. E pure con queste ci siamo fermati subito, non essendo esaminabili". Severità? Sì, perché solo così si fa un buon servizio alla chiesa. Fondamentale è che non ci sia recidiva nella malattia. Si spiega così il fatto che delle 1.254 segnalazioni di cui sopra, solo una, a oggi, abbia buone possibilità di essere giudicata inspiegabile. Il caso è ancora al vaglio degli esperti, manca poco per il verdetto. E' una guarigione che risale al 1997, tecnicamente si tratta della chiusura spontanea di un foro maculare miopico con recupero della capacità visiva. Evento (la spontaneità) considerato impossibile. La donna, affetta quindi da una cecità parziale per quattro anni, guarisce improvvisamente. Un recupero che si mantiene ancora oggi, senza segni di recidiva. Le segnalazioni sono tante, arrivano dai medici dei pellegrinaggi, sono loro a rappresentare un primo necessario filtro. Ma poi le indagini proseguono con meticolosità assoluta. Dopotutto, dice il prof. Mignini, "a Lourdes hanno esaminato circa settemila casi. Di questi, solo sessantanove sono stati giudicati come inspiegabili". Un numero infinitesimale rispetto alle tante segnalazioni finite sul tavolo del Bureau. E comunque sempre di casi, di guarigioni si tratta. Non di miracoli. Non ancora, almeno. Ma che cos'è un miracolo? Come può essere definito? Ha scritto san Tommaso che "si dice miracolo in senso stretto un fatto che si verifica fuori dell'ordine della natura. Tuttavia per parlare di miracolo non basta che il fatto avvenga fuori dell' ordine di una natura particolare, perché altrimenti scagliare una pietra in alto sarebbe un miracolo, essendo contrario alla natura della pietra. Si dice invece che un fatto è un miracolo se è al di là dell'ordine di tutta la natura creata". Cioè inspiegabile, non dimostrabile. Il caso più celebre, documentatissimo con atti notarili e testimonianze plurime (tutte univoche), è quello di Miguel Juan Pellicer, contadino spagnolo di Calanda che si vide ricrescere la gamba che tre anni prima, nel 1637, gli era stata amputata. Vittorio Messori raccontò la faccenda "sconcertante" in un libro di successo, Il miracolo, uscito per Rizzoli quasi vent'anni fa. L'evidenza costringe ad accettare il mistero: Miguel Juan quella gamba non ce l'aveva più e in un'ora se la vide ricrescere, per intercessione di Nostra Signora del Pilar, dedicataria del Santuario sulla cui soglia per anni il contadino mendicò. Tutto verificato e documentato, c'è il rogito del notaio reale. Il vescovo, prudentissimo com'era consuetudine, limitò al massimo i testimoni. Nessuna contraddizione nei racconti, troppi occhi avevano visto la stessa cosa per poter essere

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faccenda di truffatori, visionari o soggetti mentalmente disturbati. Pochi anni fa, qualcuno ha sostenuto che in realtà il fortunato aveva un fratello gemello e che, insomma, era tutto un bell'imbroglio. "Nessun fratello gemello", ci dice Messori: "I registri parrocchiali parlano chiaro, il ragazzo conservò per tutta la vita i segni sulla gamba, la cicatrice eredità dell' amputazione. E poi l' Inquisizione spagnola favoriva tutto meno che la superstizione. I grandi inquisitori erano essenzialmente degli scettici, prontissimi a mettere in gattabuia chi parlasse di miracoli. Il processo sul caso di Calanda si svolse sotto gli occhi sospettosi dell'Inquisizione e va ricordato che tale processo fu voluto e portato avanti dal comune, non dalla chiesa". Eppure c'è sempre chi diffida, non crede, cerca il cavillo che possa negare quella che appare anche a occhi neutrali e senza le lenti del fervore devozionale come una cosa inspiegabile. "Ma questo è un marchio del Dio cristiano. Pascal costruì la sua apologetica sul Deus absconditus, il Dio nascosto", osserva Messori. Tradotto: "Per preservare la nostra libertà, Dio non pone mai l'uomo dinanzi a un'evidenza schiacciante. Dio non vuole metterci con le spalle al muro, vuole che la nostra libertà sia salvaguardata. Per dirla ancora con Pascal, Dio dà abbastanza luce per credere ma lascia abbastanza ombre per non credere. Ergo, lo scetticismo è fisiologico". Vittorio Messori lo chiama "il Dio del chiaroscuro", e la definizione calza bene considerata la teoria (variegata) di miracoli o pseudo tali e di guarigioni che ogni giorno portano subito a intravedere l' intervento determinante della mano divina. Insomma, il cuore della questione sul credere o meno al miracolo è la libertà. "Ci si chiede spesso perché Dio non appaia dalle nuvole con il suo barbone dicendoci che esiste e che dobbiamo seguire la sua legge". Risposta: a Dio non serve. "Dopotutto, l' esistenza dell' Inferno è la massima prova che Lui, pur amando le sue creature, lascia che esse si dannino. Rispettando così la loro libertà. All'inferno non ci manda Dio, ma ci andiamo noi abusando di queste nostre libertà". Ciò detto, non c'è legge che abbia almeno un' eccezione. Il caso di Calanda, milagro de los milagros, è esemplare. Poi ci sono quelli noti, vuoi perché i media li rimbalzano e amplificano, vuoi perché sono quelli che attirano le masse adoranti. Madre Teresa di Calcutta è santa dopo la constatazione che la guarigione di un uomo brasiliano, ridotto in fin di vita da otto ascessi multipli cerebrali con (citiamo il referto medico) "idrocefalo ostruttivo". Speranze di sopravvivenza poche. Eppure guarì, in modo inspiegabile, ha certificato all'unanimità la consulta medica della Congregazione per le cause dei santi. Era il 2008, i chirurghi portarono il paziente in sala operatoria, estremo e disperato tentativo di salvargli la vita. La moglie, insieme a parenti e amici, si ritirò nella cappella dell' ospedale, invocando l'intercessione della beata Teresa. E qui il mistero entra in gioco: a causa d' un problema tecnico, l'intervento fu rimandato. Il chirurgo uscì dalla sala operatoria e quando vi rientrò, mezz' o ra più tardi, trovò il paziente sveglio, cosciente e seduto sul letto. La tac diede il responso: nel cervello non c' era più traccia del male. Sano come se nulla fosse accaduto. Come se il calvario umano fosse stato null'altro che un incubo notturno. Eppure, Messori è sicuro che anche qui, in casi come questo, andando a cavillare, si scoprirebbe qualcosa in grado di scalfire anche le più solide certezze. Si prenda Lourdes, cui Messori - oltre a decine di anni di studi sul tema - ha dedicato pure il libro Bernadette non ci ha ingannati (Mondadori): "Si calcola che i pellegrini che in un secolo e mezzo sono sfilati davanti alla Grotta siano più o meno settecento milioni. I fatti accertati sono pochissimi. Il che dimostra quanto alto sia il grado di severità. Ci sono ottomila dossier, ma ve ne sarebbero molti di più se i presunti miracolati denunciassero la guarigione avvenuta (non lo fanno perché temono di essere costretti a sottoporsi ad anni di visite e consulti). Eppure, se uno volesse andare a cercare il dubbio, lo troverebbe: in tutti questi prodigi si può trovare un qualche elemento contrario all'ipotesi soprannaturale". Cade il mito di Bernadette? No, semplicemente "anche a Lourdes continua a vigere la legge della libertà. L'atteggiamento del credente deve essere quello di non mettere l'interlocutore con le spalle al muro". C'è un'innata diffidenza della gerarchia verso i tanti episodi denunciati a ogni latitudine del globo terracqueo. Diffidenza "doverosa e benefica", sottolinea Messori, anche perché la gente "è fin troppo pronta a gridare subito al miracolo". La chiesa, da sempre, parte da un atteggiamento scettico. "E fa bene", chiosa lo scrittore cattolico. A Lourdes il più fiero avversario delle voci che circolavano sulle apparizioni fu il parroco del luogo, che considerava Bernardette non una veggente bensì una visionaria. Ai fenomeni di Massabielle non prese mai parte un sacerdote, perché il parroco (con l'appoggio del vescovo) l'aveva

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proibito. Esiste, in rete, una "Guida ai luoghi miracolosi d'Italia". Un elenco che cita seicento siti, con tanto di motivazione annessa. Esempi presi a caso: a Crema "la Madonna mosse gli occhi per molti mesi", a Cavalese "la statua mariana non vuole rimanere sepolta", a Cavarzere "il Crocifisso abbassò la testa". Seicento casi. A Lourdes i miracoli accertati sono conviene ripeterlo sessantanove. Gli ultimi tre riguardano donne italiane. Anna Santaniello, data della guarigione 19 agosto 1952 e riconoscimento avvenuto solo nel 2005. Citiamo: Affetta da dispnea intensa e persistente, conosciuta anche come malattia di Bouillaud, causa di disagio nel parlare, impossibilità a camminare nonché gravi attacchi di asma, cianosi del viso e delle labbra, edema crescente agli arti inferiori. Nel 1952 si recò a Lourdes in pellegrinaggio con l'Unitalsi, distesa su una barella. Portata alle piscine, ne uscì da sola, sulle sue gambe. Più tardi, Anna Santaniello avrebbe detto che davanti alla grotta non pregò per se stessa, ma per un tale Nicolino, un ventenne che aveva perso l'uso delle gambe. Il secondo caso risale al 1965. (riconoscimento avvenuto nel 2012). Si tratta di suor Luigina Traverso. Paralizzata e costretta a stare a letto, ottenne dalla Superiora della sua comunità il permesso di recarsi a Lourdes. Il 23 luglio durante la partecipazione, su di una barella, all'eucaristia, al passaggio del Santissimo Sacramento, sente una forte sensazione di calore e benessere che la spinge ad alzarsi. Il dolore è scomparso, il suo piede ha recuperato la mobilità. Guarigione inspiegabile numero sessantanove: Danila Castelli. Sottoposta a isterectomia e annessectomia, nel 1982 subì una parziale rimozione del pancreas. L'anno successivo, le viene diagnosticato un tumore nella zona rettale, vescicale e vaginale. I tanti interventi chirurgici non portano a nulla. Nel 1989 si recò a Lourdes, entrò nelle piscine e ne uscì completamente guarita. Nessuna traccia del male, certificò il Bureau delle constatazioni mediche. Guarita in modo completo e duraturo senza alcun rapporto con gli interventi e le terapie subite. Il caso forse più celebre, però, è quello di Jean Pierre Bély, il cinquantunenne francese affetto da sclerosi a placche che guarì dopo aver sentito, mentre era in pellegrinaggio al Santuario mariano, una voce interiore dirgli alzati e cammina. Numeri a ogni modo esigui. Si spiega presto, insomma, la prudenza della chiesa, che indaga, discute e decide se constat o non constat de supernaturalitate. Ne sanno qualcosa a Medjugorje, dove il nodo è ben lungi dall'essere sciolto, nonostante le rassicurazioni vaticane che entro la primavera del 2016 si sarebbe saputo qualcosa sulle apparizioni mariane in terra bosniaca. E' passato quasi un anno da quella data ipotizzata per l'annuncio e nulla s'è saputo. A Lourdes ci hanno messo quattro anni per dire che sì, Maria Immacolata era davvero apparsa a Bernadette Soubirous nella grotta di Massabielle. E gli scettici ci sono sempre stati. Emile Zola visitò la cittadina francese nel 1892, prese molti appunti per quello che sarebbe diventato un libro (Viaggio a Lourdes) e concluse ironico: Vedo soltanto stampelle, nessuna gamba di legno. Aggiunse: Mostratemi una gamba o un braccio ricresciuti e allora anche io crederò. In un certo senso concordavo con lo scrittore francese, dice Messori. Pensavo che se Dio avesse fatto ricrescere una gamba, lì tra tutti gli ex voto che un tempo popolavano la grotta di Massabielle, ci saremmo arresi all'evidenza. Il fatto di Calanda è nient'altro che un segno di sano materialismo cristiano. Beh, se sono cristiano sono necessariamente un materialista, osserva lo scrittore cattolico. Dopotutto, credo nel fatto che alla vita eterna sono chiamato con tutto me stesso, non solo lo spirito o solo la materia. E' proprio in questa unità che noi siamo salvati. Mi fa molto più paura un certo spiritualismo cristiano oggi così à la page. Quando si dice voglio salvarmi l'anima' direi che siamo fuori strada. Io voglio salvare me stesso, la resurrezione dei corpi lo sta a dimostrare, Gesù ha lasciato la tomba vuota, mica è volato in Cielo con il suo spirito senza il corpo!. E di diffidenza nella chiesa ce n'è tanta, anche se sarebbe buona cosa distinguere: un conto è la prudenza che pone un freno all'entusiasmo popolare, altra cosa è quella diffidenza clericale che fa parte della protestantizzazione del cattolicesimo, osserva Messori. Per il protestantesimo ufficiale, infatti, il miracolo non è possibile. Lo scriveva bene qualche decennio fa il celebre teologo evangelico Rudolf Bultmann nel saggio Neues Testament und Mythologie: Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nei miracoli proposti dal Nuovo Testamento. Affermazione del tutto ingiustificata, scrisse il padre gesuita Giovanni Blandino in un numero della Civiltà Cattolica del 1982, aggiungendo che la tendenza a negare il miracolo, cioè a negare la possibilità di una deroga (o eccezione) alle leggi naturali dovuta a un intervento

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immediato di Dio, è oggi abbastanza diffusa anche nell'ambito teologico cattolico e si può ritrovare sia in opere specialistiche di teologia sia in opere divulgative sia anche in catechismi. Qualche esempio? Per Kasper scriveva sempre Blandino un'analisi storico-critica della tradizione dei miracoli giunge alla conclusione che non è possibile negare un nucleo storico di questa tradizione. Gesù ha compiuto delle opere straordinarie che lasciarono stupefatti i contemporanei. E ancora, sempre Kasper sosteneva che un intervento divino, concepito come un agire immediato-visibile di Dio, è un assurdo teologico. Pure Bruno Forte, allora semplice giovane teologo, concordava con il collega tedesco, quando spiegava che parlare di miracoli come di sospensioni inspiegabili di leggi della natura significa porsi al di fuori dell'orizzonte della Scrittura. C'è poi quel legame, sottile e spesso confuso, tra i miracoli e le cosiddette esperienze di pre-morte, cioè di quelle persone ordinarie che si trovano in uno stato di morte clinica a che raccontano di essersi ritrovate in un altro mondo, un modo magnifico, e di aver dovuto abbandonarlo per tornare sulla terra. Di cose del genere sappiamo quasi tutto, anni fa (soprattutto d'estate) di programmi che trattavano esperienze di pre-morte, angeli misteriosi e spiritualismo con vaghi richiami alla fede cristiana ce n'erano a bizzeffe. Ora a parlarne esplicitamente è Patrick Theillier, che per dieci anni ha lavorato come medico proprio all'Ufficio delle constatazioni mediche del Santuario di Lourdes. E' appena uscito un suo libro per San Paolo, Quando la mia anima uscì dal corpo. Racconta proprio di questo e la prefazione fatto che merita segnalazione è di un alto esponente della gerarchia cattolica, il vescovo di Bayonne, mons. Marc Aillet. E' proprio il presule francese a definire i contorni della faccenda, scrivendo che una guarigione inspiegabile è dichiarata miracolo quando l'autorità ecclesiastica competente vi riconosce un segno della potenza e dell'amore di Dio presente nella vita degli uomini, in grado di fortificare la fede del popolo cristiano. Theillier scrive che le numerose testimonianze che sono state date a Lourdes a partire dal 1858 mostrano chiaramente delle similitudini fra le esperienze di premorte e le guarigioni miracolose. I miracoli, come tali esperienze, sono dei segni basati sulla testimonianza di coloro che li hanno vissuti. Qui Theillier compie forse un passo di troppo, se rimaniamo fedeli ai canoni citati prima dal professor Mignini, che di miracoli non vuol parlare ma solo di guarigioni inspiegate o inspiegabili. Il medico francese va oltre: I miracolati (non importa se riconosciuti ufficialmente o no, ma che vivono una guarigione inspiegabile dalla scienza) testimoniano un cambiamento completo nel loro modo di concepire la vita. Per tutti c'è un prima e un dopo, proprio per chi ha avuto una Nde (near death experience): la loro vita è trasformata a tutti i livelli. A parte questo, Theiller si chiede: Se non ci sono spiegazioni dal punto di vista medico a una guarigione miracolosa che presenta caratteristiche sconosciute alla medicina, in particolare l'istantaneità e perfezione della guarigione, senza convalescenza, perché non si dovrebbe cercare di capire ciò che avviene?. In fin dei conti, chi guarisce è una persona normale. E allora, da dove viene questa possibilità? L'origine scrive sicuro il medico è di un altro ordine. Certo, queste guarigioni avvengono in maggioranza in un contesto di fede. Ma alcune di esse avvengono altrove, per esempio durante il viaggio di andata o di ritorno, o in qualunque altro posto (sei episodi dei sessantanove accertati riguardano persone che non s'erano recate nella città francese, ndr). Alcune persone sono guarite a Lourdes senza sapere veramente che cosa rappresenta questo luogo, o senza la fede, o appartenendo a un'altra religione. Molti guariti prosegue non si aspettavano di guarire. Dunque non è determinante la fede nella guarigione, e si può dire che la guarigione miracolosa non dipende da colui che viene guarito. Eppure avviene in lui un processo guaritore. Se non viene né dal corpo né dallo psichismo, la sua origine non può essere che l'anima spirituale. Eppure, a Lourdes come in tanti altri santuari, a stupire sono spesso i miracoli invisibili, poco pubblicizzati, meno appariscenti. Adolphe Retté ne parla ne Il Vagabondo della Madonna. Un soggiorno a Lourdes (1912). Più che fermarsi a guardare le stampelle poste davanti alla grotta, su cui tanto ironizzò Zola, Retté rimase colpito dalle piccole storie di conversione o di rafforzamento della fede pur non avendo ottenuto un miglioramento delle condizioni fisiche. La battaglia allora era al culmine, gli avversari delle apparizioni s'impelagavano in spiegazioni razionali che venivano smontate l'una dopo l'altra. Gli uni dissero che è l'acqua delle piscine, scriveva Retté. Spiegazione la più debole, poiché se bastasse bagnare con acqua ghiacciata un tubercoloso all'ultimo stadio, ovvero un malato affetto da carie delle ossa, per guarirlo istantaneamente, perché la medicina non ricorrerebbe a questa rudimentale terapeutica?

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Altri increduli si appigliano all'autosuggestione. Non si è mai riusciti a suggerire a moribondi, colpiti da cancro o lupus, ma immuni da malattie nervose, di guarire subitamente e completamente per uno sforzo di volontà. Qualche anno fa ci fu un'altra disputa tra scienziati circa la possibilità di credere o meno ai miracoli. Iniziò il fisico Lawrence Krauss, secondo cui i miracoli hanno a che fare con la magia e l'irrazionale. Sulla rivista conservatrice First Things, giunse la replica di un suo collega, Stephen Barr: Non c'è alcuna contraddizione storica tra le due idee, come dimostra il fatto che molte delle leggi fondamentali della fisica sono state scoperte e prendono il nome da uomini che nei miracoli hanno creduto. Quindi l'ironica chiosa: Sarebbe senza dubbio una grande sorpresa, per Krauss, apprendere che tanti fisici nel campo della fisica delle particelle e della cosmologia sono devoti cristiani che credono nei miracoli. E la sorpresa sarebbe ancor maggiore se Krauss, aggiungiamo, leggesse la storia di Jacalyn Duffin, storica della medicina, presidente emerito dell'American Association for the History of Medicine e della Canadian Society for the History of Medicine e soprattutto atea. Trent'anni fa, in Vaticano era in ballo la causa di canonizzazione della beata Marie-Marguerite d'Youville, religiosa vissuta nel Settecento grazie alla cui intercessione si sarebbe verificata una guarigione. Era necessario un parere terzo, e alla professoressa Duffin fu inviato un reperto (anonimo) consistente in una parte di midollo osseo attaccato dalla leucemia. Il responso dell'esperta fu chiaro: impossibile che quel frammento appartenesse a un uomo o a una donna ancora in vita. Le spiegarono che, invece, quel midollo malato corrispondeva a una persona in forma, perfettamente guarita. Non so spiegarmi come quella paziente sia ancora viva. Anche se sono ancora atea, credo ai miracoli. Eventi straordinari che accadono e per i quali non vi sono spiegazioni scientifiche, avrebbe detto più tardi, aprendosi consapevolmente alla possibilità che il Mistero possa dire la sua anche dinanzi alle certezze, più o meno presunte, della scienza. 1.254 Sono le segnalazioni esaminate dall'Osservatorio medico permanente "Ottaviano Paleani" a Loreto, presso il Santuario della Santa Casa, diretto dal professor Fiorenzo Mignini. Di queste, solo una ha ad oggi buone possibilità di essere giudicata inspiegabile. Si tratta di una donna che, affetta da cecità parziale, ha recuperato l'uso della vista nel 1997. L'Osservatorio fu istituito con decreto del delegato pontificio nel 2012. I casi esaminati risalgono fino al 1886. 69 Le guarigioni scientificamente non spiegabili avvenute a Lourdes in poco più di un secolo e mezzo. Di queste, le ultime tre hanno riguardato donne italiane. Anna Santaniello (guarigione registrata nel 1952), suor Luigina Traverso (1965), Danila Castelli (1989). Il giudizio è rimesso al Comitato medico internazionale. La "dichiarazione" di avvenuto miracolo spetta invece al vescovo diocesano ove risiede la persona guarita. 1858 L'11 febbraio del 1858, Maria Immacolata (così scrisse dopo quattro anni di inchiesta la speciale commissione voluta dal vescovo locale) apparve per la prima volta alla giovane e analfabeta Bernadette Soubirous, contadina. Il suo più fiero avversario fu il parroco del luogo, che propose di farla internare in manicomio. 700 milioni Sono i pellegrini che, si calcola, hanno sostato dinanzi alla Grotta di Massabielle dal 1858 a oggi. Ogni anno, tra i 5 e i 7 milioni di persone si recano nella cittadina dei Pirenei francesi. La forma con più seguito è quella dei pellegrinaggi da ogni parte del mondo, soprattutto dall' Europa. 600 Sono i siti inclusi nella "Guida ai luoghi miracolosi d'Italia". Luoghi e motivazioni che definiscono il fatto "miracoloso". A Crema, ad esempio, "la Madonna mosse gli occhi per molti mesi". A Cavalese, "la statua mariana non vuole rimanere sepolta", a Cavarzere "il Crocifisso abbassò la testa". 1640 E' l'anno del "milagro de los milagros". Al contadino spagnolo Miguel Juan Pellicer ricrebbe la gamba amputata tre anni prima. Il fatto fu accertato alla fine di un processo durato anni e certificato dal notaio reale. Nessuna testimonianza contraria tra gli abitanti del piccolo villaggio di Calanda, in Aragona. Per lo scrittore Vittorio Messori, questo è davvero l'unico miracolo la cui certezza non può essere messa in discussione. XVIII secolo Il cardinale Prospero Lambertini, futuro Papa Benedetto XIV, stabilisce i criteri perché si possa parlare di miracolo. Innanzitutto, "la malattia deve essere grave,

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incurabile o difficoltosa a trattarsi". Poi, "la malattia non deve trovarsi all'ultimo stadio o al punto di poter guarire spontaneamente". 2008 E' l'anno in cui avvenne la guarigione scientificamente inspiegabile di un uomo brasiliano ridotto in fin di vita da otto ascessi multipli cerebrali con "idrocefalo ostruttivo". Poche speranze di salvarlo, fino a quando la moglie e i famigliari si ritirarono nell'attigua cappella invocando l'intercessione della beata Teresa di Calcutta. Poco dopo, il paziente si svegliò dal coma, s'alzo dal letto e la Tac riscontrò un cervello sano, senza più traccia del male. E' il miracolo che ha portato alla canonizzazione della religiosa albanese. 2 Sono i Papi che si sono recati a Lourdes. Il primo fu Giovanni Paolo II il 15 e 16 agosto 1983. Vi ritornò nel 2004, pochi mesi prima di morire. Benedetto XVI visitò il Santuario tra il 13 e il 15 settembre del 2008. Centosettantamila fedeli parteciparono alla messa celebrata davanti alla Grotta di Massabielle. 3 Le volte in cui dovrebbe avvenire, in un anno, il miracolo di san Gennaro, a Napoli. Il primo sabato di maggio, il 19 settembre e il 16 dicembre, "festa del patrocinio di san Gennaro", in memoria dell'eruzione del Vesuvio del 1631, che si fermò dopo le invocazioni al patrono. Oltre 200 Le guarigioni inspiegabili attribuite a Giovanni Paolo II i cui riferimenti furono portati all' attenzione del postulatore della causa di beatificazione del Pontefice polacco morto nel 2005. A confermarlo fu il professor Carlo Jovine, perito neurologo della congregazione per le Cause dei santi. AVVENIRE di domenica 29 gennaio 2017 Pag 2 La fede che pone Dio tenacemente al centro di Marina Corradi Le sofferenze del Centro Italia, la forza della preghiera A cinque mesi dal primo terremoto, dopo un interminabile stillicidio di scosse, di notti insonni in case con nere crepe nei muri, o nella provvisorietà delle tende; dopo che al sussultare della terra si è aggiunta la neve, metri di neve, ghiaccio, e paesi isolati, dopo tutto questo nel Centro Italia si potrebbe essere, e forse molti sono, disperati. Questi mesi possono ispirare nelle genti terremotate il grido di Isaia: «Il Signore mi ha dimenticato». Non avere speranza, sarebbe umanamente legittimo. Eppure l’altra sera in un oratorio di Spoleto è successo qualcosa di segno diverso. L’arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, dopo una giornata di digiuno ha convocato una veglia di preghiera “accorata e confidente” «perché si calmino le forze della natura e sia restituito alle popolazioni un tempo di serenità e pace». Ha un timbro antico questa preghiera popolare. E c’era molta gente in quell’oratorio, l’altra sera. Gesù, ha ricordato il vescovo, non è venuto per toglierci il male, ma per prenderlo su di sé, aiutandoci ad affrontarlo. Un’altra domanda che sorge, ha aggiunto poi, è «quando ne usciremo, e come?» Ma, ha risposto Boccardo, dobbiamo fidarci di lui «anche nel buio degli eventi, quando la tempesta, per noi il terremoto, sembra prendere il sopravvento». Poi, nella funzione si è svolto il rito del lucernario, quello della veglia pasquale: «Cristo, il vivente nei secoli, il vincitore del male e della morte, ci invita a non temere», è stato annunciato. E i paesi distrutti, le scuole in cui non si sa se i ragazzi possano tornare, e il ripetersi, più lieve ma sempre maligno, di tremiti della terra, ancora, come di un enorme animale imbizzarrito, non più affidabile? In questo Centro Italia devastato è lecito denunciare, protestare, forse anche maledire il destino. Ma quanto è più feconda e carica di speranza la preghiera di Spoleto, portata poi ieri in una processione mariana a Norcia. «Signore, ricordati di noi, comanda alle forze della natura di cessare, affinché la terra torni a essere madre, e non matrigna». E oggi, su invito dell’arcivescovo di Perugia, cardinale Gualtiero Bassetti, in tutte chiede dell’Umbria ci sarà una analoga preghiera: si invocherà «il cessare dei terremoti e un tempo di serenità per tanti fratelli e sorelle provati dalle forze della natura». Nella sofferenza, nella angoscia, una fede che pone Dio tenacemente al centro – e Cristo, vivo, in mezzo al dolore degli uomini. Pag 3 Il pane e gli occhiali (la forza dell’esempio) di Chiara Giaccardi Rilettura del messaggio del Papa ai comunicatori

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Il messaggio di papa Francesco per la 51ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ci offre due immagini preziose, nella loro quotidiana semplicità, per parlare di comunicazione oggi. La prima, in apertura: i comunicatori macinano notizie e sfornano il pane dell’informazione. Una metafora quanto mai appropriata: non solo perché l’informazione è 'buona' solo il giorno in cui è prodotta, come il pane, ma soprattutto perché ormai non possiamo e non dobbiamo farne a meno, se vogliamo vivere in questo mondo in modo consapevole. La seconda è quella degli occhiali. Mi ha fatto venire in mente un quadro che amo molto: l’autoritratto di Rothko, del 1936, dove l’artista si raffigura con un paio di occhiali dalle lenti azzurrate. Al di là dell’intenzione dell’autore, io interpreto l’opera così: l’artista, come ciascuno di noi, rappresenta la realtà non così com’è, ma come la vede. Ciascuno di noi vede attraverso delle lenti, che sono la lingua che parliamo, l’educazione che abbiamo ricevuto, le esperienze che ci hanno segnato, le categorie culturali della nostra epoca, la tradizione in cui ci riconosciamo. Prima ancora di capire quali occhiali indossare dobbiamo innanzitutto riconoscere che degli occhiali non si può fare a meno. Questo naturalmente non significa che la realtà non esiste o che le realtà sono tante quanti sono gli sguardi: piuttosto, che la sua ricchezza non può essere esaurita da nessuno che pretenda di vedere le cose come sono. Solo la pluralità – lo scriveva Romano Guardini – rende ragione della ricchezza della realtà, che è una. Dunque entrambe le immagini ci dicono, tra le righe, una cosa: la comunicazione, l’informazione sono sempre 'fatte', sono inevitabilmente filtrate. In un certo senso, paradossalmente, non esistono notizie 'vere', se per vero intendiamo capace di restituire la realtà com’è, senza mediazione. La notizia è sempre un artefatto, un manufatto. Non può essere diversamente, perché l’essere umano è un animale simbolico: non mangiamo il grano crudo, ma lo maciniamo, lo impastiamo, lo trasformiamo in pane. Allora facciamolo buono questo pane, facciamolo insieme, perché ci nutra e non ci avveleni. E le lenti? Diffidare di chi dice che non le porta. Ma quali scegliere? Il Papa ci dice di indossare le lenti del Vangelo, della buona notizia che Gesù ci ha portato con la sua persona in carne e ossa. Ricordo che in una delle meditazioni di Santa Marta papa Francesco aveva detto che «a volte le lenti per vedere Gesù sono le lacrime». Senza nessun masochismo, credo che indossare occhiali che permettano di comunicare davvero significhi non distogliere gli occhi dalla sofferenza, e piangere con chi piange. Ci sono luoghi dell’esistenza dove il confine tra la vita e la morte è così sottile che il cuore pulsante della realtà sta lì, aperto e fragile, davanti a noi. È dove la vita si rende più manifesta, in tutta la sua profondità irriducibile. Questi luoghi sono ovunque, anche molto vicini. Non scappiamo, non giriamo la testa, affondiamo le mani in questa vita e ciò che diremo avrà un sapore di autenticità. Un’altra cosa mi ha colpito del messaggio: il richiamo a quelle 'ristampe del Vangelo', quei 'canali viventi' che sono le vite dei santi. È un aspetto sul quale mi pare il Papa insista molto: la comunicazione non la si fa con le strategie o le tecnologie, ma con la forza dell’esempio, capace di essere contagioso. Perché i valori, sottolinea Francesco, «sono compiuti particolarmente da alcune persone molto esemplari» (Amoris laetitia 272). Nella sua concretezza, anche nei suoi limiti, la figura esemplare possiede una forza non autoritaria, una capacità di provocare che sollecita una trasformazione. Gli esempi, scriveva Hannah Arendt, sono «i principali cartelli stradali in campo morale». Esempio: da eximere, tirar fuori. Non mettere dentro. Tirar fuori la capacità di ciascuno, che è assolutamente singolare e irrinunciabile, di contribuire al mondo in cui viviamo insieme, alimentandone la pluralità e la ricchezza. E tirar fuori da questa unicità singolare una validità universale, un messaggio che parli a tutti. Abbiamo bisogno di concretezza, di verità incarnata. E l’esempio interpella ciascuno nella sua unicità. Non c’è contraddizione, ma implicazione reciproca tra concreto e universale: è il «concreto vivente» di cui parla ancora Guardini. E Arendt scriveva che anche nei tempi più bui la luce non manca mai, ma non proviene dalle teorie e dai concetti, bensì da quella fiammella a volte appena percepibile che alcune donne e uomini, con la loro vita e il loro lavoro, sono capaci di tenere accesa per tutti. Una figura esemplare è un compagno di viaggio. In fondo, le nostra decisioni sul bene e sul male dipendono molto dai compagni che ci scegliamo: con chi vogliamo stare in compagnia? Quali sono gli esempi con i quali vogliamo camminare insieme, e dialogare per sviluppare il nostro pensiero? Il Papa ha scelto san Francesco. Trovare una direzione, imparare a pensare confrontandosi con qualcosa che abbia valore sono vie per imparare a comunicare. Ben al di là di pessimismo e ottimismo, che come insegna

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Guardini, sono due modi di fraintendere l’essere. Perché comunicare è coltivare la nostra umanità. Una umanità, ancora con le parole di Guardini, cosciente del proprio significato e capace di futuro. Pag 5 “La vita religiosa combatta mondanità e relativismo” Il Papa: gli abbandoni indeboliscono la Chiesa Pubblichiamo il testo integrale del discorso del Papa ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Di seguito le parole del Papa. Cari fratelli e sorelle, è per me motivo di gioia potervi ricevere oggi, mentre siete riuniti in Sessione Plenaria per riflettere sul tema della fedeltà e degli abbandoni. Saluto il Cardinale Prefetto e lo ringrazio per le parole di presentazione; e saluto tutti voi esprimendovi la mia riconoscenza per il vostro lavoro a servizio della vita consacrata nella Chiesa. Il tema che avete scelto è importante. Possiamo ben dire che in questo momento la fedeltà è messa alla prova; le statistiche che avete esaminato lo dimostrano. Siamo di fronte ad una “emorragia” che indebolisce la vita consacrata e la vita stessa della Chiesa. Gli abbandoni nella vita consacrata ci preoccupano. È vero che alcuni lasciano per un atto di coerenza, perché riconoscono, dopo un discernimento serio, di non avere mai avuto la vocazione; però altri con il passare del tempo vengono meno alla fedeltà, molte volte solo pochi anni dopo la professione perpetua. Che cosa è accaduto? Come voi avete ben segnalato, molti sono i fattori che condizionano la fedeltà in questo che è un cambio di epoca e non solo un’epoca di cambio, in cui risulta difficile assumere impegni seri e definitivi. Mi raccontava un vescovo, tempo fa, che un bravo ragazzo con laurea universitaria, che lavorava in parrocchia, è andato da lui e ha detto: “Io voglio diventare prete, ma per dieci anni”. La cultura del provvisorio. Il primo fattore che non aiuta a mantenere la fedeltà è il contesto sociale e culturale nel quale ci muoviamo. Viviamo immersi nella cosiddetta cultura del frammento, del provvisorio, che può condurre a vivere “à la carte” e ad essere schiavi delle mode. Questa cultura induce il bisogno di avere sempre delle “porte laterali” aperte su altre possibilità, alimenta il consumismo e dimentica la bellezza della vita semplice e austera, provocando molte volte un grande vuoto esistenziale. Si è diffuso anche un forte relativismo pratico, secondo il quale tutto viene giudicato in funzione di una autorealizzazione molte volte estranea ai valori del Vangelo. Viviamo in società dove le regole economiche sostituiscono quelle morali, dettano leggi e impongono i propri sistemi di riferimento a scapito dei valori della vita; una società dove la dittatura del denaro e del profitto propugna una visione dell’esistenza per cui chi non rende viene scartato. In questa situazione, è chiaro che uno deve prima lasciarsi evangelizzare per poi impegnarsi nell’evangelizzazione. A questo fattore del contesto socio-culturale dobbiamo aggiungerne altri. Uno di essi è il mondo giovanile, un mondo complesso, allo stesso tempo ricco e sfidante. Non negativo, ma complesso, sì, ricco e sfidante. Non mancano giovani molto generosi, solidali e impegnati a livello religioso e sociale; giovani che cercano una vera vita spirituale; giovani che hanno fame di qualcosa di diverso da quello che offre il mondo. Ci sono giovani meravigliosi e non sono pochi. Però anche tra i giovani ci sono molte vittime della logica della mondanità, che si può sintetizzare così: ricerca del successo a qualunque prezzo, del denaro facile e del piacere facile. Questa logica seduce anche molti giovani. Il nostro impegno non può essere altro che stare accanto a loro per contagiarli con la gioia del Vangelo e dell’appartenenza a Cristo. Questa cultura va evangelizzata se vogliamo che i giovani non soccombano. Un terzo fattore condizionante proviene dall’interno della stessa vita consacrata, dove accanto a tanta santità – c’è tanta santità nella vita consacrata! – non mancano situazioni di contro-testimonianza che rendono difficile la fedeltà. Tali situazioni, tra le altre, sono: la routine, la stanchezza, il peso della gestione delle strutture, le divisioni interne, la ricerca di potere – gli arrampicatori –, una maniera mondana di governare gli istituti, un servizio dell’autorità che a volte diventa autoritarismo e altre volte un “lasciar fare”. Se la vita consacrata vuole mantenere la sua missione profetica e il suo fascino, continuando ad essere scuola di fedeltà per i vicini e per i lontani (cfr Ef 2,17), deve mantenere la freschezza e la novità della centralità di Gesù, l’attrattiva della spiritualità

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e la forza della missione, mostrare la bellezza della sequela di Cristo e irradiare speranza e gioia. Speranza e gioia. Questo ci fa vedere come va una comunità, cosa c’è dentro. C’è speranza, c’è gioia? Va bene. Ma quando viene meno la speranza e non c’è gioia, la cosa è brutta. Un aspetto che si dovrà curare in modo particolare è la vita fraterna in comunità. Essa va alimentata dalla preghiera comunitaria, dalla lettura orante della Parola, dalla partecipazione attiva ai sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, dal dialogo fraterno e dalla comunicazione sincera tra i suoi membri, dalla correzione fraterna, dalla misericordia verso il fratello o la sorella che pecca, dalla condivisione delle responsabilità. Tutto questo accompagnato da una eloquente e gioiosa testimonianza di vita semplice accanto ai poveri e da una missione che privilegi le periferie esistenziali. Dal rinnovamento della vita fraterna in comunità dipende molto il risultato della pastorale vocazionale, il poter dire «venite e vedrete» (cfr Gv 1,39) e la perseveranza dei fratelli e delle sorelle giovani e meno giovani. Perché quando un fratello o una sorella non trova sostegno alla sua vita consacrata dentro la comunità, andrà a cercarlo fuori, con tutto ciò che questo comporta (cfr La vita fraterna in comunità, 2 febbraio 1994, 32). La vocazione, come la stessa fede, è un tesoro che portiamo in vasi di creta (cfr 2 Cor 4,7); per questo dobbiamo custodirla, come si custodiscono le cose più preziose, affinché nessuno ci rubi questo tesoro, né esso perda con il passare del tempo la sua bellezza. Tale cura è compito anzitutto di ciascuno di noi, che siamo stati chiamati a seguire Cristo più da vicino con fede, speranza e carità, coltivate ogni giorno nella preghiera e rafforzate da una buona formazione teologica e spirituale, che difende dalle mode e dalla cultura dell’effimero e permette di camminare saldi nella fede. Su questo fondamento è possibile praticare i consigli evangelici e avere gli stessi sentimenti di Cristo (cfr Fil 2,5). La vocazione è un dono che abbiamo ricevuto dal Signore, il quale ha posato il suo sguardo su di noi e ci ha amato (cfr Mc 10,21) chiamandoci a seguirlo nella vita consacrata, ed è allo stesso tempo una responsabilità di chi ha ricevuto questo dono. Con la grazia del Signore, ciascuno di noi è chiamato ad assumere con responsabilità in prima persona l’impegno della propria crescita umana, spirituale e intellettuale e, al tempo stesso, a mantenere viva la fiamma della vocazione. Ciò comporta che a nostra volta teniamo fisso lo sguardo sul Signore, facendo sempre attenzione a camminare secondo la logica del Vangelo e non cedere ai criteri della mondanità. Tante volte le grandi infedeltà prendono avvio da piccole deviazioni o distrazioni. Anche in questo caso è importante fare nostra l’esortazione di san Paolo: «E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno» (Rm 13,11). Parlando di fedeltà e di abbandoni, dobbiamo dare molta importanza all’accompagnamento. E questo vorrei sottolinearlo. È necessario che la vita consacrata investa nel preparare accompagnatori qualificati per questo ministero. E dico la vita consacrata, perché il carisma dell’accompagnamento spirituale, diciamo della direzione spirituale, è un carisma “laicale”. Anche i preti lo hanno; ma è “laicale”. Quante volte ho trovato suore che mi dicevano: “Padre, Lei non conosce un sacerdote che mi possa dirigere?” – “Ma, dimmi, nella tua comunità non c’è una suora saggia, una donna di Dio?” – “Sì, c’è quella vecchietta che… ma… “ – “Vai da lei!”. Prendetevi cura voi dei membri della vostra congregazione. Già nella precedente Plenaria avete constatato tale esigenza, come risulta anche nel vostro recente documento Per vino nuovo otri nuovi (cfr nn. 14-16). Non insisteremo mai abbastanza su questa necessità. È difficile mantenersi fedeli camminando da soli, o camminando con la guida di fratelli e sorelle che non siano capaci di ascolto attento e paziente, o che non abbiano un’adeguata esperienza della vita consacrata. Abbiamo bisogno di fratelli e sorelle esperti nelle vie di Dio, per poter fare ciò che fece Gesù con i discepoli di Emmaus: accompagnarli nel cammino della vita e nel momento del disorientamento e riaccendere in essi la fede e la speranza mediante la Parola e l’Eucaristia (cfr Lc 24,13-35). Questo è il delicato e impegnativo compito di un accompagnatore. Non poche vocazioni si perdono per mancanza di validi accompagnatori. Tutti noi consacrati, giovani e meno giovani, abbiamo bisogno di un aiuto adeguato per il momento umano, spirituale e vocazionale che stiamo vivendo. Mentre dobbiamo evitare qualsiasi modalità di accompagnamento che crei dipendenze. Questo è importante: l’accompagnamento spirituale non deve creare dipendenze. Mentre dobbiamo evitare qualsiasi modalità di accompagnamento che crei dipendenze, che protegga, controlli o renda infantili, non possiamo rassegnarci a camminare da soli, ci vuole un accompagnamento vicino, frequente e pienamente adulto. Tutto ciò servirà ad assicurare un discernimento

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continuo che porti a scoprire il volere di Dio, a cercare in tutto ciò che più è gradito al Signore, come direbbe sant’Ignazio, o – con le parole di san Francesco d’Assisi – a “volere sempre ciò che a Lui piace” (cfr FF 233). Il discernimento richiede, da parte dell’accompagnatore e della persona accompagnata, una fine sensibilità spirituale, un porsi di fronte a sé stesso e di fronte all’altro “sine proprio”, con distacco completo da pregiudizi e da interessi personali o di gruppo. In più occorre ricordare che nel discernimento non si tratta solamente di scegliere tra il bene e il male, ma tra il bene e il meglio, tra ciò che è buono e ciò che porta all’identificazione con Cristo. Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio ancora e invoco su di voi e sul vostro servizio come membri e collaboratori della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica la continua assistenza dello Spirito Santo, mentre di cuore vi benedico. Grazie. Francesco LA NUOVA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Lo scandalo dei preti disorienta di Mario Bertolissi Non so quanto peso si debba dare alla comprensione. Mi riferisco alle vicende che hanno interessato il clero patavino e non solo. In mente mi vengono un’infinità di pensieri. Tra i primi, l’evangelico «chi è senza peccato…» e la distinzione di papa Giovanni tra peccato e peccatore. Quando si recò in visita al carcere romano di Regina Coeli, gli scappò detto: «Siamo nella casa del Padre!». E se siamo davvero convinti che il Signore è il Dio della misericordia, potremo anche concludere che la partita è chiusa. Tuttavia, dinanzi a ciascuno di noi c’è il futuro. La fa da padrone il disorientamento che ci rende incerti, sfiduciati, infelici. Ed io sono convinto, allora, che sia indispensabile una analisi spietata di quel che è accaduto, con l’obiettivo non di giudicare, assolvere o condannare, ma di capire. Allora, la memoria mi sottopone fatti che non solo documentano l’esistenza di ben altro, ma che dimostrano quali possono essere le ragioni che provocano condotte dissennate. Perché - sia ben chiaro -, non è la fornicazione - vogliamo chiamarla con il nome di lussuria? - che spaventa. Lo sono i modi in cui viene praticata: privi di affetti, di tenerezza, di comprensione, laidi. Tutto è soltanto disordine e caos. Ed ecco una prima testimonianza, che consiste in un evento e in un commento di stupefacente semplicità. Un vescovo pregò un sacerdote autorevole di recarsi presso alcune parrocchie per dare un aiuto a parroci in difficoltà. Il sant’uomo obbedì e mi confidò, all’esito di quell’esperienza: «Basta un nulla e nel loro animo nasce una tempesta, come nei mari poco profondi!». Chiaro, no? Facevano difetto lo studio, la riflessione critica, il dialogo con se stessi, l’osservazione attenta della realtà, il coraggio di affrontare la vita per quello che è, consapevoli di un’unica certezza: che «l’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé; ma ha bisogno del mondo per scoprire quello che ha dentro di sé; a questo sono però necessarie l’azione e la sofferenza» (Hugo von Hofmannsthal). Non si è in grado di affrontarla - la sofferenza - quando si sostituisce l’essere con l’avere. La vita diviene oscura e tutto è tormento. Si ha il “denaro in testa”, ha ammonito Vittorino Andreoli: «In questi casi il denaro finisce per essere l’idea dominante, in grado di modificare e condizionare persino la meccanica mentale che produce solo pensieri in valuta pregiata, riduce tutto il mondo in cartamoneta, e l’uomo a denaro. Ogni altra caratteristica scompare o viene coperta e si entra decisamente nella fase della malattia». Malati di che? Di conti correnti, di viaggi, di soggiorni costosi e d’altro ancora, secondo gli impulsi di Mammona. Un filosofo, in permanente contemplazione dell’Assoluto, mi raccontò quanto grande fosse, per sua diretta esperienza, il numero dei sacerdoti senza fede. Prigionieri di un ruolo e di riti, incapaci di liberarsi delle conseguenze terribili di una vocazione malata. Questo è di ogni luogo e di ogni tempo. Non è né bene né male: semplicemente è ed appartiene al mistero, di cui nessuno di noi può liberarsi. Dunque, una naturale inquietudine, che può stemperarsi e addirittura sciogliersi nel corso dell’esistenza, quando la vita diviene desiderio del bene, in nome di grandi ideali. Ma servono ideali e un’educazione costante, tenace nel cogliere il bene immenso che ogni giorno si compie. Ad esempio, che spettacolo i volontari della Protezione civile e quanti si preoccupano la notte dei senza-tetto! Deus caritas est. Dio è amore. O ti emozioni e credi o non ti emozioni e non credi. Preda di una fede solare, dedito all’uomo, soprattutto nello stato di bisogno, monsignor Giorgio Veronese fu parroco della chiesa dei Servi, in Padova. Se ne è andato nel luogo del suo desiderio

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nell’agosto del 2011. Ecco il suo testamento: «Non lascio nulla, perché non possiedo nulla. Ho solo una bicicletta: chi vuole, la trova nel cortile della canonica». Non aveva nulla e ci ha lasciato tutto! P.S. L’uomo ha estremo bisogno di parole buone e buoni esempi. I cattivi esempi possono impedire il diffondersi di parole buone. Un domani, qualcuno potrebbe, nella disperazione, trovarsi privo della parola del Vangelo. Da qui, enormi responsabilità per chi ne è stato la causa. L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 8 Anime ristrette Messa a Santa Marta Il vestito del cristiano deve essere cucito con «memoria, coraggio, pazienza e speranza» per resistere anche alle piogge più intense senza cedere e restringersi. È proprio dal «peccato della pusillanimità» - ossia «avere paura di tutto» e diventare «anime ristrette per conservarsi» - che il Papa ha messo in guardia nella messa celebrata venerdì mattina 27 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta, ricordando come Gesù stesso abbia ammonito che «chi vuol conservare la propria vita, senza rischiare e appellandosi sempre alla prudenza, la perderà». Per la sua meditazione Francesco ha preso le mosse dalle prima lettura del giorno che, ha subito fatto notare, è un passo della lettera agli Ebrei (10, 32-39): «Un’esortazione a vivere la vita cristiana, un’esortazione con tre punti di riferimento, tre punti temporali, diciamo così: il passato, il presente e il futuro». L’autore della lettera «incomincia con il passato e ci esorta a fare memoria: “Fratelli, richiamate alla memoria quei primi giorni”». Sono - ha spiegato il Papa - «i giorni dell’entusiasmo, di andare avanti nella fede, quando si incominciò a vivere la fede, le prove sofferte». Infatti «non si capisce la vita cristiana, anche la vita spirituale di ogni giorno, senza memoria». E «non solo non si capisce: non si può vivere cristianamente senza memoria». Si tratta, ha affermato Francesco, della «memoria della salvezza di Dio nella mia vita», della «memoria dei miei guai nella mia vita: come il Signore mi ha salvato da questi guai?». Per questo «la memoria è una grazia, una grazia da chiedere: “Signore, che io non dimentichi il tuo passo nella mia vita, che io non dimentichi i buoni momenti, anche i brutti; le gioie e le croci”». Dunque, ha spiegato il Pontefice, «il cristiano è un uomo di memoria». Tanto che «quando noi prendiamo la Bibbia, vediamo che i profeti sempre ci fanno guardare indietro: pensate questo che Dio ha fatto con voi, come vi ha liberato dalla schiavitù». Perché «la vita cristiana non incomincia oggi, continua oggi». E «fare memoria è saggezza: ricordare tutto, il buono, il non tanto buono, il brutto; tante grazie, tanti peccati, la famiglia, la storia personale di ognuno». Così «io vado davanti a Dio ma con la mia storia, non devo coprirla, nasconderla: no, è la mia storia, davanti alla mia anima, davanti a te». Ecco che «l’esortazione per vivere bene una vita cristiana incomincia con questo punto di riferimento: la memoria». Poi, ha proseguito il Papa, l’autore della lettera agli Ebrei «ci fa capire che siamo in cammino, e siamo in cammino in attesa di qualcosa, in attesa di arrivare o di incontrare». Vuol dire «arrivare a un punto: un incontro; incontrare il Signore». Si legge infatti nella lettera: «Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà». E subito «ci esorta a vivere per fede: “Il mio giusto per fede vivrà”». Qui entra in gioco «la speranza: guardare al futuro». Difatti, ha spiegato Francesco, «così come non si può vivere una vita cristiana senza la memoria dei passi fatti, non si può vivere una vita cristiana senza guardare il futuro con la speranza dell’incontro con il Signore». L’autore della lettera agli Ebrei scrive «una frase bella: “Ancora un poco...”». Sappiamo bene, ha ricordato il Papa, che «la vita è un soffio, passa: quando uno è giovane, pensa che ha tanto tempo davanti, ma poi la vita ci insegna quella parola, che diciamo tutti: “ma come passa il tempo, questo l’ho conosciuto da bambino, adesso si sposa, come passa il tempo!”». Dunque «la speranza di incontrarlo è una vita in tensione, tra la memoria e la speranza, il passato e il futuro». Il terzo punto «è nel mezzo: è oggi, cioè il presente», ha affermato il Pontefice. Si tratta di «un oggi fra il passato e il futuro». E «il consiglio per vivere l’oggi è continuare con questo atteggiamento, che descrive i primi cristiani, di coraggio, di pazienza, di andare avanti, di non avere paura». Perché «il cristiano vive il presente - tante volte doloroso e triste - coraggiosamente o con pazienza». Ci sono «due parole che a Paolo, e al suo discepolo che ha scritto questa lettera, piacevano tanto: coraggio e pazienza». Ed «è curioso», ha notato il Papa, che l’autore del testo per dire

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«pazienza, usa una parola in greco che vuol dire “sopportare”; e coraggio è franchezza, dice qui, dire chiaramente le cose, andare avanti con la faccia avanti». Sono «le due parole - ha proseguito - che lui usa tanto, tanto: la parresìa e la hypomoné, il coraggio e la pazienza». E «la vita cristiana è così». È vero, ha riconosciuto Francesco, che tutti siamo peccatori, «chi prima e chi dopo», e «se volete dopo possiamo fare la lista, ma andiamo avanti con coraggio e con pazienza; non restiamo lì, fermi, perché questo non ci farà crescere». Così dunque, ha spiegato il Pontefice, «è la nostra vita cristiana, così oggi la liturgia ci esorta a viverla: con grande memoria del cammino vissuto, con grande speranza di quel bell’incontro che sarà una bella sorpresa». Certo, ha insistito, «non sappiamo quando: può essere domani, può essere tra quindici anni, non si sa, ma è sempre domani, è presto, perché il tempo passa». In ogni caso ci deve sempre essere «la speranza dell’incontro». E anche l’atteggiamento di «sopportare, con pazienza; portare qui, pazienza, e coraggio, franchezza», con «la faccia avanti, senza vergogna». Proprio «così si porta la vita cristiana avanti». «C’è una piccola cosa, per finire - ha evidenziato il Papa - sulla quale l’autore» della lettera agli Ebrei «attira l’attenzione della comunità a cui sta parlando: un peccato». È un peccato «che non le fa avere speranza, coraggio, pazienza e memoria: il peccato è la pusillanimità». Si tratta, ha spiegato Francesco, di «un peccato che non lascia essere cristiano, è un peccato che non ti lascia andare avanti per paura». Per questa ragione «tante volte Gesù diceva: “Non abbiate paura”»: proprio per mettere in guardia dalla «pusillanimità» e così fare in modo di non cedere, di non andare «sempre indietro», custodendo «troppo se stessi» per «la paura di tutto», per «non rischiare» appellandosi alla «prudenza». Tanto che, ha affermato il Papa, uno può anche dire di seguire «tutti i comandamenti, sì, è vero; ma questo ti paralizza, ti fa dimenticare tante grazie ricevute, ti toglie la memoria, ti toglie la speranza perché non ti lascia andare». E «il presente di un cristiano, di una cristiana, è così come quando uno va per la strada e viene una pioggia inaspettata e il vestito non è tanto buono e si restringe la stoffa: anime ristrette». Proprio questa immagine esprime bene cos’è «la pusillanimità: il peccato contro la memoria, il coraggio, la pazienza e la speranza». Prima di riprendere la celebrazione eucaristica, Francesco ha invitato a chiedere nella preghiera al Signore che «ci faccia crescere nella memoria, ci faccia crescere nella speranza, ci dia ogni giorno coraggio e pazienza e ci liberi da quella cosa che è la pusillanimità», cioè dall’atteggiamento di quelli che hanno «paura di tutto» e finiscono per essere «anime ristrette per conservarsi». Invece Gesù ci fa presente che «chi vuole conservare la propria vita, la perde». AVVENIRE di sabato 28 gennaio 2017 Pag 19 La Chiesa e i gay: “Così accogliamo chi chiede aiuto” di Luciano Moia Parte dalla diocesi di Torino la nuova pastorale. Il responsabile, don Carrega: “”Insieme per riflettere” Omosessuali e credenti. Chi liquida la questione alzando le spalle con il solito e un po’ banale: «E allora? Che problema c’è?», ignora la complessità della questione. La persona omosessuale, profondamente convinta che sia proprio questo l’orientamento conforme al suo sentire – e non si tratta di un approdo scontato vista l’amplissima gamma di sfaccettature che segna la realtà omosessuale – vive solitamente un rapporto con la fede segnato da almeno tre disagi: emarginazione, conflittualità e, non di rado, rabbia. L’emarginazione nasce dal timore di accostarsi alla comunità ecclesiale. Dall’incertezza sull’opportunità di esprimere la propria condizione. Nella Chiesa le sensibilità, com’è noto, sono molte diverse e non ovunque si trovano sacerdoti e operatori pastorali disposti a mettere da parte pregiudizi e convinzioni sedimentate in una certa tradizione, per accostarsi in modo sereno alla realtà di persone che spesso portano nel cuore un vissuto difficile e complesso, offrendo loro un aiuto segnato da rispetto e dignità. È la ragione per cui papa Francesco ha dedicato al tema un paragrafo dell’Esortazione postsinodale Amoris laetitia – lo ricordiamo in questa pagina – e la pastorale familiare ha avviato già da alcuni mesi una ricognizione sulle proposte pastorali in atto. «Un’attenzione – spiega don Paolo Gentili, direttore nazionale dell’Ufficio Cei – che ha trovato nell’ottobre scorso, nel nostro convegno nazionale, un momento importante di riflessione, con l’obiettivo di valorizzare esperienze diocesane, ma non solo ». In quell’occasione era stato tra l’altro ribadito che una pastorale di frontiera non po- tesse

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caratterizzarsi se non con un volto amico, accogliente, non giudicante. Per questo l’approccio scelto da don Gianluca Carrega, responsabile dell’arcidiocesi di Torino per la pastorale delle persone omosessuali, in occasione del primo week-end di riflessione dedicato nei giorni scorsi a questi credenti, è stato di tipo umano e psicologico. «C’erano già stati nei mesi scorsi alcuni cicli pomeridiani. Adesso – racconta – ci è sembrato il momento di inaugurare questa nuova formula. Due giorni insieme a riflettere e a pregare». Si sono presentati in una trentina, non solo provenienti dall’arcidiocesi di Torino, a sottolineare un bisogno di cui spesso non si tiene conto. «Non nego – riprende don Carrega – che un buon numero di persone si siano presentate anche solo per la curiosità di verificare quale fosse la nostra proposta». L’annuncio dell’incontro era stato diffuso in tutta la diocesi attraverso i canali ecclesiali, ma anche attraverso il portale del Progetto Gionata, lo stesso che nella primavera scorsa aveva organizzato il Forum dei cristiani lgbt ad Albano laziale. La prima parte della giornata è stata dedicata alla riflessione personale, con l’intervento della psicologa Arianna Petilli, del gruppo Kairos di Firenze, che si è concentrata appunto sulla difficoltà di vivere la duplice dimensione: omosessualità e fede. «Troppo spesso, anche da parte di persone mature – spiega ancora il sacerdote torinese – si tende a sacrificare l’una a danno dell’altra. Si teme il rifiuto a priori, la paura di non trovare accoglienza». Nulla di simile a Torino. Di tono sereno e familiare anche il momento con l’arcivescovo Cesare Nosiglia che ha voluto intrattenersi con i partecipanti e ha risposto alle loro domande. Tra le questioni affrontate l’accompagnamento delle famiglie che si confrontano con la scoperta di un figlio omosessuale. Come comportarsi? Cosa dire? Da chi farsi aiutare quando ci sono punti di vista apparentemente inconciliabili? «Nosiglia – riferisce don Carrega – ha spiegato che occorrono sensibilità e delicatezza. Che colpevolizzarsi non serve a nulla. Che non bisogna mai considerare un figlio come perduto. Che nella riflessione, oltre alla preghiera e alla riflessione spirituale, può essere d’aiuto un sopporto psicologico ». E poi c’è lo spinoso, imbarazzante tema della sessualità omosessuale che, inutile negarlo, è l’aspetto più problematico. Quando ci si presenta in coppia, il rischio esclusione aumenta in modo esponenziale. Purtroppo il paradosso è in agguato e in qualche modo ricalca la contraddizione che già segna l’accoglienza in confessionale dei divorziati risposati, coloro perlomeno che ritengono in coscienza di non astenersi totalmente dai rapporti coniugali. L’atto singolo, anche se reiterato, trova più facilmente indulgenza che non la scelta meditata, e magari maturata nella preghiera, di una coppia stabile. «Non voglio entrare in questioni dottrinali – conclude il sacerdote torinese – ma non si può negare che esista un valore quando ci si trova di fronte a persone che vivono in modo stabile e dignitoso la loro condizione. La domanda che dobbiamo porci è molto semplice. Vogliamo accogliere chi con sincerità chi si rivolge a noi chiedendo un accompagnamento spirituale anche se vive una situazione sessualmente problematica?». Domanda che, soprattutto per un credente, non avrebbe bisogno di risposte. Ci sono esperienze radicate e importanti che viaggiano anche ai margini delle diocesi. Come quella proposta dall’Apostolato Courage, nato negli Usa nel 1980 e oggi presente in varie comunità italiane. Oppure quella avviata dai gesuiti con padre Pino Piva, responsabile nazionale degli Esercizi ignaziani e della pastorale di frontiera. Roma e Napoli le due sedi principali. E poi c’è la galassia del Forum dei credenti lgbt – sigla che in ambito ecclesiale fa arricciare il naso a non pochi – che trova la sua vetrina nel Progetto Gionata. Ma anche in ambito diocesano non mancano le proposte specifiche. Come quella presente a Pescara grazie a don Cristiano Marcacci, responsabile diocesano della pastorale familiare: «Siamo partiti ormai da anni – racconta – con l’aiuto ai genitori che scoprono di avere tendenze omosessuali. Numeri in crescita, come sappiamo, anche a causa della confusione a proposito dell’identità sessuale che coinvolge molti ragazzi». Per questi genitori, accolti sia dall’Ufficio famiglia, sia dal consultorio diocesano, vengono proposti laboratori specifici. «Il discorso è complesso, ma noi non pretendiamo di spiegare cosa fare o non fare, ma solo di accogliere, di aiutare ad elaborare una fatica, poi gli sviluppi sono mille e mille. La premessa è l’accoglienza offerta con amore. E questo fa cambiare le persone». Anche don Leo Santorsola, teologo e fondatore del movimento “Famiglia e vita” di Matera, segue genitori alle prese con il problema dell’omosessualità dei figli. Le richieste di aiuto arrivano allo sportello di ascolto del Centro Regina Familiae gestito appunto dal movimento. «La pastorale delle persone con

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orientamento omosessuale – osserva don Santorsola – deve rientrare nella pastorale della famiglia. Se fino a qualche anno fa il nesso tra pastorale della famiglia e questione omosessuale poteva apparire incomprensibile, oggi alla luce delle rivendicazioni, già accolte in alcune legislazioni nazionali, di un “matrimonio” per persone con inclinazioni omosessuali, non è più così. Questo spiega perché, in vista del Sinodo, il questionario preparatorio – ricorda l’esperto – prevedeva una serie di domande sulle unioni tra persone dello stesso sesso ». Tante le questioni per la cui la pastorale familiare non può che sentirsi coinvolta. Cosa fa una famiglia quando prende coscienza che un figlio ha orientamento omosessuale? E quale aiuto le viene offerto dalla comunità cristiana? E come rispondere a chi, anche in ambienti cattolici, vede nel matrimonio la soluzione all’orientamento omosessuale? Per tutte queste situazioni, ma non solo, don Santorsola sollecita l’impegno «per una formazione degli operatori pastorali. Si deve conoscere il fenomeno omosessuale con tutte le sue implicazioni, superando i tanti pregiudizi che ancora circolano nelle comunità cristiane. Bisogna saper distinguere ciò che è proprio dell’omosessualità e ciò che appartiene all’ideologia gay. Si deve conoscere l’insegnamento della Chiesa che ruota attorno alla distinzione tra orientamento omosessuale e atti omosessuali. Se l’orientamento omosessuale non è colpa ma “disordine oggettivo” che non dipende dal soggetto, gli atti omosessuali sono invece peccati che è nella facoltà delle persone, aiutate, evitare. Ascoltare, accogliere, accompagnare e integrare nella comunità, come vuole il Papa, vale anche per le persone con queste inclinazioni. Ma dobbiamo aiutarli – conclude – a liberarsi dell’ideologia gay con i suoi tanti stereotipi». «Con i padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli». È quanto si legge in “Amoris laetitia” (250) a proposito del rapporto tra pastorale e omosessualità. «Desideriamo ribadire che ogni persona – prosegue il Papa – indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto...». Nei riguardi delle famiglie «si tratta di invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possono avere gli stessi aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita». Nel paragrafo successivo si respinge poi ogni tipo di equiparazione tra matrimonio e unioni omosessuali. IL FOGLIO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Mons. Galantino e la pretesa di impartire lezioni di politica da un pulpito che ha rifiutato per definizione un ruolo politico di Giuliano Ferrara Sotto il regno di Angelo Bagnasco i vescovi italiani si pronunciavano con prudenza politica e teologica, sotto quello del cardinale Camillo Ruini davano battaglia e vincevano su temi etici decisivi per la chiesa e per il mondo, e facevano politica in modo scaltro, con monsignor Galantino furoreggia il vescovo predicatore politico. Va anche bene. Nonostante l'appello bergogliano al fideismo del Dio personale, corroborato dall'anima popolare più che da quella razionale, è sempre una buona notizia quando l'antica istituzione preposta alla salvezza delle anime e alla trasmissione della cultura, o tradizione, esercita il suo magistero nello spazio pubblico, come voleva Benedetto XVI. Le scuole cattoliche paritarie, soldi, la famiglia, altri soldi, e l'opposizione a tecniche eutanasiche o cacotanasiche di fine vita nella legislazione: grasso che cola. Non si capisce però perché i vescovi debbano impartire lezioni sulle leggi elettorali, che non sono loro a votare, votano i cittadini; sui tempi del voto politico, affare che non dovrebbe riguardarli; sulle sentenze della Corte costituzionale, che non sono una illegittima intrusione nella politica che dismette i suoi doveri, ma un dovere giurisdizionale della più alta forma e sede di controllo. Monsignor Galantino in modo rivelatore indica il pericolo di una vendetta di Tizio da consumarsi a caldo: che cosa voglia dire non si sa, ma quale animo manifesti nella dissimulazione è abbastanza chiaro. L'animo del retroscenista parlamentare, che non sarebbe il giusto dire di un prelato così teoricamente influente. Influente? I vescovi di questa chiesa hanno fatto la famosa scelta preferenziale per i poveri, concetto teologico e più che teologico, non hanno molta competenza in fatto di populismi della classe media e di pronunciamenti del

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corpo elettorale. Non dovrebbero né scimmiottare i grillozzi, come fanno quando parlano di banche, proprio loro, né castigarli in nome della lotta ai populismi, proprio loro; manca alla loro parola una qualsiasi autorevolezza civile, ne hanno altra, di autorevolezza. Credo si sia capito che con la vittoria di Trump la chiesa cattolica che aveva imprudentemente ammonito a mezzo intervista, "non è cristiano", ha perso una partita di un notevole peso, non ha senso che voglia rifarsi con Renzi nell'orticino biologico della nuova forma che sta assumendo l'italiana prima Repubblica dei partiti. Il problema del voto politico è questo. Si può fare un' altra legge ancora, dopo aver votato il maggioritario e dopo che esso è stato corretto dalla Corte in senso proporzionalistico, con un differenziale di impatto normale e costituzionale tra Camera e Senato? Solo i gonzi ci credono. E i vescovi o episcopi devono per statuto vedere lontano, sapere prima. Lo si può fare in nome dell' interesse a perseverare che affligge il casuale presidente del Senato, voglioso di continuare a pontificare, o della salvezza pro tempore dei parlamentari uscenti? No, sarebbe una immorale perdita di tempo. E allora torniamo alle paritarie, alla famiglia e al fine vita, dismettendo la pretesa incredibile di impartire lezioni di politica da un pulpito che ha rifiutato per definizione un ruolo politico e civile della religione e della chiesa, salvo che nella lotta alla povertà, peraltro nelle buone mani della globalizzazione economica e finanziaria (ogni giorno 250.000 esseri umani escono dall'estrema povertà secondo le statistiche della Banca mondiale). CORRIERE DEL VENETO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Ma sono preti o guru? di Gabriella Imperatori É una telenovela squallida, piena di dettagli hard, quella che da settimane riempie le pagine dei giornali locali nazionali e stranieri, a seguito delle denunce di una parrocchiana di Padova divenuta schiava del suo parroco, prima amata-amante, e non sarebbe la cosa più grave, poi insultata, picchiata, indotta forse alla prostituzione, tradita con un harem di altre donne, trattata come un animale (pare abbia perfino ricevuto in dono una ciotola e un collare per cani), pur con lo zuccherino di viaggi di lusso. Da questa storia non si può non essere turbati e desiderosi di esprimere sentimenti e pareri, come per altri fatti di cronaca sessuale o nera. La stampa fa il suo mestiere, che non è quello di lavare i panni sporchi in casa, ma è dei fatti narrati che si deve meravigliarsi. Ne han parlato psicologi, sociologi, scrittori, sacerdoti, ognuno con le proprie valutazioni. Il vescovo s’è scusato a nome di tutta la diocesi, ha scritto a tutti i chierici con toni molto duri, ha invitato i credenti a coinvolgersi, non lasciando solo chi ha scelto, forse immaturamente, di seguire la vocazione religiosa. Così il coinvolgimento sta avvenendo, nelle rubriche di lettere, in rete, nei negozi: ognuno dice la sua su don Andrea e su don Roberto. «Sarà vero?» o «Forse è solo una vendetta!» sono stati i primi commenti, poi si è scesi nel dettaglio. «A me don Andrea fa quasi pena, perché ci si dimentica quel che ha fatto di bene alla comunità, si dimentica il suo carisma, la sua oratoria, la sua capacità di riempire la chiesa». «É un uomo a due dimensioni, in cui convivono il dott. Jeckill e mr. Hyde». «Mi ha fatto perdere la fede». «No, non la fede, ma il rapporto di fiducia con la Chiesa». Pettegolezzi? Chiacchiere da bar? Mica tanto, e comunque c’è ancora chi lo ricorda con gratitudine… Più ancora si ricorda e rimpiange il parroco di Carbonara, il prete bello e amatissimo per il cui ritorno si organizzano raccolte di firme, e lo si «perdona», non si sa con quale autorità. Per lui una ragazza ha parole che lasciano basiti. «Ho sempre davanti i tuoi occhi ipnotici… sei un amante del bello e non è un peccato credere nel bello e nel pulito… come il corpo che hai vissuto in modo semplice (!), com’era nel tuo stile, elegante, sportivo, profumato, affascinante…». Ma siamo matti? È dunque l’eleganza, la bellezza, il profumo che deve attirarci in un prete, tanto puro da accettare rapporti sessuali e farli filmare da un confratello? Certo avrà avuto anche un fascino spirituale, una capacità oratoria che faceva, anche nel suo caso, radunare le folle. Ma è proprio questo che vogliamo dai preti? Dei guru che, nella caduta libera delle autorità e delle istituzioni e dell’etica comune, siano dei romantici - magari rockettari - capaci di far innamorare le donne, di riempire gli oratori? Di sostituire a scuola gli insegnanti di tutt’altre materie? Insomma dei personaggi autorevoli e in grado di parlare liberamente di sesso fuori-coppia, di aborto, di suicidio? dei tuttologi carismatici? Degli uomini di mondo, come gli altri, più degli altri? È questo che ci ha

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insegnato Gesù che aveva solo dodici apostoli? No, non è questo. E non di questo ci parla quella parte della Chiesa che si spende ancor oggi a fare e insegnare il bene. ANSA di sabato 28 gennaio 2017 Chiesa: Padre Lombardi, tre Papi diversi anche nel comunicare Esperienza forte riprendere immagini malattia Papa Wojtyla "Riprendere con le immagini la malattia di Papa Giovanni Paolo II. C'era un pontefice che voleva testimoniare la sua sofferenza e dovevamo farlo con rispetto della persona che soffre": padre Federico Lombardi non ha avuto dubbi nel ricordare quei momenti "come l'esperienza più forte" degli anni trascorsi alla guida della televisione vaticana. L'occasione è stata offerta dall'incontro a Venezia in occasione della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, alla presenza del patriarca, mons. Francesco Moraglia. Padre Lombardi ha ripercorso la sua esperienza giornalistica al servizio di tre pontefici, da Wojtyla a Benedetto XVI fino a Francesco, parlando di "tre personalità diverse" anche sul piano della comunicazione, rispetto ai quali si è sempre messo in una ottica di servizio cercando di capire i diversi stili. Riguardo al tema degli 'scandali', anche sessuali, che hanno investito la Chiesa, padre Lombardi ha indicato la regola seguita di "dire la verità, di essere trasparenti. Oggi c'è attesa che si dica la verità e io nel mio piccolo ho cercato, non da solo, di fare questo". Ha poi ricordato come Benedetto XVI abbia saputo assumere in sé la responsabilità della Chiesa davanti a queste vicende: "ha avuto incontri personali con le vittime, in ogni Paese in cui gli è stato chiesto". Non poteva mancare tra le domande quella riguardante la scelta di Papa Ratzinger di lasciare il Pontificato: "ho vissuto questo con serenità" ha risposto padre lombardi, ricordando che in una intervista di due anni prima Benedetto XVI aveva affrontato il tema con chiarezza, anche riguardo alle ragioni. "L'ho saputo - ha detto ancora - relativamente poco prima ma non è stato uno shock". ITALIA OGGI di sabato 28 gennaio 2017 Via lo stipendio ai preti hard di Raffaele Porrisini Don Antoniazzi di Mestre apre un dibattito su 8x1000 e sostentamenti dei sacerdoti «Finché il prete ha uno stipendio garantito può spendere energie e tempo per ogni stupidaggine e fantasia. Se invece fosse più povero e la sua vita dipendesse dalla gente sarebbe costretto a rispondere di ogni sua scelta ai parrocchiani». Sono parole pesanti come macigni quelle vergate da don Gianni Antoniazzi, sacerdote di 49 anni titolare della popolosa e importante parrocchia di Carpenedo a Mestre. È lui a squarciare il silenzio imbarazzato della Chiesa veneta sullo scandalo a luci rosse delle orge nella canonica di San Lazzaro a Padova organizzate da don Andrea Contin. Don Antoniazzi ha scritto nero su bianco queste parole nel bollettino parrocchiale Lettera Aperta, dove in maniera piuttosto inusuale prende posizione in merito alle polemiche scatenatesi sulla torbida vicenda, nella quale sono pure volate accuse di sfruttamento della prostituzione e sono emersi particolari piccanti puntualmente riportati dalla stampa. Un cocktail di notizie che ha letteralmente sconcertato i fedeli. Il vescovo di Padova monsignor Claudio Cipolla dopo lunghi giorni di «no comment» si è visto costretto a intervenire sull'incresciosa situazione venutasi a creare; lo ha fatto con una missiva in cui chiede perdono e ammette di vergognarsi profondamente per l'accaduto. Per il resto, i settimanali diocesani veneti hanno preferito non proferire verbo su una tale sconcertante storia. «Ogni giorno che passa cresce l'imbarazzo per le vicende legate ai due o più preti di Padova e a ciò che hanno potuto combinare persino in canonica» scrive invece don Antoniazzi nella Lettera Aperta di questo weekend rivelata dal Gazzettino. «Se le cose stessero come dicono i giornali - aggiunge il sacerdote -, non posso che esprimere una chiara e netta condanna per le azioni compiute, lasciando comunque a Dio il giudizio sugli uomini. In questi soggetti c' è evidentemente una personalità squilibrata e patologica. Forse serviva maggior giudizio prima dell' ordinazione. Non facciamo però d'ogni erba un fascio: anche fra gli apostoli ci furono i martiri e un traditore. Spiace dunque che si profitti di queste occasioni per screditare le migliaia di preti capaci di lavorare per il bene della gente». Il parroco di Mestre, originario di Conegliano, riferisce poi di quanto accaduto durante le benedizioni pasquali, già avviate in molte parrocchie.

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«Qualcuno mi confida che non firmerà più l'8/1000. Da principio ne ero dispiaciuto, ma capisco che non si tratta di un ragionamento del tutto balordo». Il motivo? «Finché il prete ha uno stipendio garantito può spendere energie e tempo per ogni stupidaggine e fantasia. Se invece fosse più povero e la sua vita dipendesse dalla gente sarebbe costretto a rispondere di ogni sua scelta ai parrocchiani». In buona sostanza, un prete dovrebbe mantenersi solo con le offerte e il sostentamento elargitogli in maniera del tutto gratuita dai suoi parrocchiani; un modo molto concreto per indurlo a comportarsi in maniera corretta e coerente con la sua vocazione, altrimenti gli verrebbero tagliati i viveri. Chissà, magari da questa riflessione potrà scaturire una proposta da avanzare agli organi nazionali della Cei. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 13 I nuovi voucher. Che cosa cambierà? di Lorenzo Salvia Roma. La proposta è arrivata sul tavolo del presidente del consiglio. Come chiesto dallo stesso Paolo Gentiloni, il documento dei tecnici disegna una stretta severa per i voucher , i buoni per pagare i lavoratori a ore. Perché l’obiettivo non è solo correggere il tiro su alcune regole che hanno consentito un uso distorto dei buoni. Ma soprattutto disinnescare il referendum abrogativo promosso dalla Cgil. Nel governo si è fatta largo la convinzione che un stretta radicale potrebbe spingere lo stesso sindacato a non insistere per il voto, nel timore di non raggiungere il quorum. Ma al di là degli scenari politici, cosa cambierà in concreto sui voucher ? La parola «occasionale» - La prima modifica, in realtà, è più una bandierina politica che una misura con effetti concreti. Ma è da qui che parte il ragionamento. L’utilizzo dei voucher sarà limitato alle prestazioni «occasionali», con buona soddisfazione di quella sinistra pd che preme di più per limitarne l’impiego. Cosa vuol dire? Anche nella versione originaria, introdotta nel 2003, i voucher erano utilizzabili solo per le prestazioni occasionali. Allora con quell’espressione si intendevano i «lavoretti», come il giardinaggio o la vendemmia. Stavolta per rientrare tra le prestazioni occasionali bisognerà rispettare quattro limiti ben precisi. I limiti ai giorni e alle ore - Il primo tetto riguarda il cosiddetto monte ore: fatto cento il totale delle ore di lavoro in un’azienda, non sarà possibile pagarne sotto forma di voucher più del 10%. C’è anche chi preme per una soglia più bassa, il 5%, ma la decisione non è stata ancora presa. Il secondo limite riguarda il numero di giorni che possono essere retribuiti con i buoni: non più di 10 al mese, anche non consecutivi. Questo per impedire che nella stessa azienda, magari uno vicino all’altro, ci siano persone che fanno lo stesso lavoro ma vengono trattate in modo diverso: una pagata con i voucher, l’altra inquadrata con un contratto vero e proprio. I tetti di reddito - Il terzo criterio riguarda la somma massima, sotto forma di buoni, che il singolo lavoratore può ricevere in un anno dalla stessa azienda. Oggi è fissata a 2 mila euro. Scenderà almeno 1.500 euro, forse a mille. Anche in questo caso la decisione finale non è stata ancora presa. L’ultimo tetto riguarda la somma massima, sempre sotto forma di voucher , che il singolo lavoratore può ricevere in un anno anche da più aziende. Oggi è fissata a 7 mila euro. Potrebbe tornare a 5 mila, come era fino a due anni fa. Non avrebbe grandi effetti visto che oggi il 93% dei lavoratori pagati con i voucher incassa con i buoni meno di 2 mila euro l’anno. Ma sarebbe un segnale politico. L’eccezione per i commercianti? - È il nodo più importante da sciogliere. Nel documento preparato dai tecnici non se ne parla. Ma le associazioni di categoria dei commercianti chiedono che per loro i vincoli sui voucher non cambino. Quindi niente 10% del monte orario, niente tetto di 10 giorni al mese. E soglie di reddito ferme. Difficile che la richiesta venga accolta senza battere ciglio. Probabile un compromesso. Per i commercianti i nuovi limiti arriverebbero ma in modo meno stringente: il limite sul monte ore, ad esempio, potrebbe essere non del 10% del 15%. I divieti, tra edilizia e statali - L’utilizzo dei voucher sarà vietato nei cantieri edili. Anche il presidente dei costruttori si è detto d’accordo. Nella pubblica amministrazione sarà

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possibile utilizzarli solo per i disoccupati. Le aziende non potranno usarli per pagare quelli che sono già loro dipendenti e nemmeno ex dipendenti ormai in pensione. In questi casi i buoni orari potrebbero coprire di fatto un rapporto di lavoro dipendente, un trucco per risparmiare su buste paga, tasse e contributi. C’era anche l’ipotesi di un divieto per le attività a maggior rischio di incidenti sul lavoro, secondo la classificazione Inail. Ma è stata scartata perché il controllo sarebbe troppo complesso. Blocco automatico e ricorsi - Cosa succederà in caso di violazione delle nuove regole? Per le aziende scatterà un blocco automatico, che impedirà loro di comprare nuovi voucher . Per il lavoratore che riuscirà a dimostrare di essere stato pagato con i buoni in modo illegittimo, invece, sarà possibile ottenere un contratto di lavoro stabile facendo ricorso al giudice. Proprio per questo, dal punto di vista dei tecnici, è fondamentale definire con criteri oggettivi la prestazione occasionale: altrimenti la decisione rientrerebbe nel margine di discrezionalità del magistrato, con tutta l’incertezza del caso. Decreto o emendamento? - In che modo saranno introdotte queste modifiche? L’ipotesi preferita è un emendamento al Jobs act degli autonomi, disegno di legge che riscrive le regole per professionisti e partite Iva, che ha il vantaggio di essere già in Parlamento. Ma il tempo stringe e non si può escludere a priori il ricorso a un decreto legge a parte. La data del referendum non è stata ancora fissata, ma per le modifiche c’è tempo fino al giorno prima. Il nodo del quorum - Una volta cambiata la legge, sarà la Cassazione a stabilire se le modifiche superano il referendum oppure no. Per la decisione sarà fondamentale il parere del comitato promotore, cioè della Cgil, che può chiedere di spostare il quesito sulla nuova legge. A quel punto gli elettori dovrebbero decidere se abrogare i voucher non come sono ora ma come saranno dopo la stretta del governo. La data del voto resterebbe la stessa. Nessuno lo dirà mai, almeno non adesso. Ma a quel punto anche nella Cgil molti considererebbero difficile raggiungere il quorum, la metà degli aventi diritto più uno. E si potrebbe far largo l’idea di «accontentarsi» delle modifiche del governo. È proprio a questo che punta il documento sul tavolo di Palazzo Chigi. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 6 La versione di Mazzacurati e quelle amnesie nei verbali di Maurizio Dianese Quando non si ricorda quanti soldi ha dato al generale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante 400, forse 500mila, quando cerca nella memoria, senza riuscire a trovarlo, il nome di un presidente del Magistrato alle acque che sostiene di aver corrotto, quando confonde lire con euro e milioni con migliaia, Giovanni Mazzacurati è in pieno Alzheimer oppure sta menando il can per l'aia? Ecco, il Tribunale di Venezia che giudica tra gli altri l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e l'ex ministro dell'ambiente Altero Matteoli, in un processo che arriva dopo una raffica di patteggiamenti, cioè di imputati che hanno ammesso di aver incassato le mazzette, dovrà sciogliere questo nodo. Perché i tre verbali di Mazzacurati 29 e 30 luglio e 9 ottobre 2013 si prestano a opposte interpretazioni e sui verbali di Mazzacurati si gioca l'ultimo braccio di ferro in aula. Letti nel giugno del 2014, quando veniva giù il mondo della corruzione legato al Mose e si aprivano le patrie galere per politici del calibro di Giancarlo Galan e Renato Chisso, di alti funzionari statali come il presidente del Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta e del generale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, sembravano assolutamente coerenti, riletti adesso che in discussione c'è la demenza di Mazzacurati, dichiarato definitivamente incapace di intendere e di volere, è più difficile dare un giudizio definitivo. Il quesito infatti è il seguente: fino all'ottobre del 2013 Mazzacurati era lucido ed ha iniziato a perdere la memoria a partire da gennaio 2014 come sostiene la Procura o già nel 2013 dava segni di collasso mnemonico, come sostengono i difensori di Orsoni & C.? Prendiamo un passaggio del primo verbale. MAZZACURATI - Allora in questo frangente successe qualcosa di nuovo, nel senso che il dottor Meneguzzo, amministratore delegato della Palladio Finanziaria, ci ha detto che

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bisognava dare dei soldi per poter avere queste cose, che questi discorsi noi potevamo continuare a farli, ma non si sarebbe andati da nessuna parte e mi disse che il chip di apertura doveva essere sull'ordine di 500 milioni di euro... aspetta... P.M. - 500mila euro. MAZZACURATI - 500mila euro. Ho fatto confusione con gli zeri. Ci si può sbagliare tra 500 milioni di euro e 500mila euro? Ho fatto confusione con gli zeri, ammette il presidente del Consorzio Venezia Nuova che, poco più in là, a proposito di Alessandro Mazzi, uno dei soci del Consorzio, dice che non ha più tirato fuori la sua quota per pagare le mazzette. Quando ha smesso di pagare? P.M. - Ha detto a un certo punto ha smesso, in quale anno? MAZZACURATI - Nel 2003... no scusi... P.M.- Nel 2003 è iniziato. MAZZACURATI - Nel 2003 è cominciato il lavoro del Mose, ma i soldi che avevamo bisogno ce li davano anche prima, però dal 2003 è stato approvato il progetto di massima e quello è stato un momento che ha incrementato questo giro di soldi, insomma. P.M. - Quindi fino a quando ha pagato Mazzi? MAZZACURATI - Mazzi ha smesso metta 5 anni fa, 6 anni fa. P.M. - Quindi dal 2003 fino a che anno? MAZZACURATI - Metta 2005. P.M. - 2005 sono 8 anni fa. MAZZACURATI - Dal 2003 al 2005... dal 2005 sono 8 anni, sì. Sarà stato meno, ma insomma. E ancora, parlando dei rapporti tra Baita e Mazzi, a Mazzacurati viene chiesto se Baita chiedeva come mai Mazzi non pagava la sua quota. Risponde Mazzacurati. Certo, voleva sapere come mai Baita non tirava fuori i soldi e glielo dicevo. Difesa: No, Mazzi forse. Volevano sapere perché Mazzi non tirava fuori. MAZZACURATI - Sì, sì, perché cosa ho detto? Difesa: Baita. MAZZACURATI - Scusi, ho sbagliato. Non sono tantissimi i passaggi nei quali Mazzacurati appare confuso, ma non sono nemmeno pochi. Un altro verbale. P.M. - Scusi, chi è lo sponsor politico di Erasmo Cinque? MAZZACURATI - Eh? P.M. - Chi è lo sponsor politico di Erasmo Cinque? MAZZACURATI - Baita. Difesa: No, no, chi è il referente politico di questo Cinque? MAZZACURATI - Matteoli. P.M. - I lavori di bonifica di Marghera da che Ministero sono stati pagati? MAZZACURATI - Dall'Ambiente. P.M. - Il cui ministro all'epoca? MAZZACURATI - Era... era coso sì. P.M. - Era Matteoli? MAZZACURATI Sì. Ecco, passano meno di 20 secondi tra il primo Matteoli e era coso... lì e ci saranno neurologi che leggeranno in queste risposte la prova provata dell'Alzheimer e altri che invece giustificheranno le incertezze con l'età e lo stress. Resta il fatto che oggi qualche perplessità nasce, mentre a leggere i verbali nel 2013, Mazzacurati dava l'impressione, semmai, di fare il furbo. E anche i pm avevano avuto questa impressione se è vero come è vero che ad un certo punto, nel secondo verbale, il pubblico ministero Stefano Ancillotto ad un certo punto perde la pazienza. P.M. - Ma ingegnere, in altre occasioni avrei già chiuso il verbale e me ne sarei già andato. Lei non vuole dirmi chi lo sapeva? (delle mazzette ndr). Benissimo, se lo tenga per lei, io non ho interesse a porle dieci volte la stessa domanda, sentirmi dire ogni volta: Sì, ma Baita lo sapeva, sì, ma Baita dava provvista, sì ma Baita pagava. Chi sono gli altri?, Gli altri non sapevano. A chi lei l'ha confidato?, L'ho confidato ad altri, Ma chi sono gli altri?, Ma non lo so, ma non lo dicevo. Le sembra una risposta che io debba

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trarre delle conclusioni che il suo interrogatorio è un interrogatorio sincero e leale? Mi sembra che lei stia... MAZZACURATI - Ha ragione. P.M. - ...coprendo decisamente determinate persone, questa è la sensazione che io ho e ce l'ha pure la collega. MAZZACURATI - Sì, sì, ma avete perfettamente ragione, no... però vorrei chiedere un momento di comprensione su questo mio imbarazzo, che però sciolgo rapidamente, insomma, cerco di... lei prima diceva con chi mi confidavo, adesso avrei proprio bisogno di una persona con cui potermi... Subito dopo Mazzacurati inizia a fare i nomi di Luciano Neri, di Federico Sutto, poi della Brotto, poi di Savioli, di Mazzi. E di Galan e Chisso, di Lia Sartori e Orsoni. Insomma costruisce il quadro che porterà agli arresti del 4 giugno 2014 e al crollo dell'impero del malaffare costruito sul Mose. E allora? Come interpretare le amnesie, le incertezze, le confusioni, di Mazzacurati? I medici messi in campo dalla difesa dell'ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, che è assistito dall'avvocato Muscari Tomaioli, hanno sentenziato che fino alla fine del 2013 Mazzacurati aveva i tipici disturbi legati all'età avanzata e basta. Anche i disturbi nell'andatura e le cadute, una a gennaio e l'altra a giugno 2013 potevano trovare una spiegazione nella cardiopatia e nella vecchiaia. Il quadro clinico, invece, sempre secondo i periti di Mazzacurati, si aggrava a partire da gennaio 2014, quando muore il figlio Carlo e in America inizia a perdere completamente la memoria. Gli avvocati che difendono gli odierni imputati, da Matteoli a Orsoni, invece sostengono esattamente il contrario e cioè che l'Alzheimer era evidente proprio in quei tentennamento, in quei vuoti di memoria. Ma da quando? Chiaro che è difficile se non impossibile stabilire una data esatta nella quale Mazzacurati diventa incapace di intendere e di volere ed è altrettanto chiaro che i tre verbali saranno passati al microscopio dal Tribunale. Resta comunque il dato di fatto: i verbali di Mazzacurati vanno a completare un quadro accusatorio che per la stragrande maggioranza degli imputati è senza scampo, ma per almeno un paio di quelli sotto processo oggi, invece, quei verbali potrebbero fare la differenza tra una condanna e una assoluzione. LA NUOVA Pag 1 Tangenti per il Mose. I rimedi di Francesco Jori Venezia Nuova? Grazie no, ridateci la vecchia. Rigorosa con le leggi: tant’è che arrivò a tagliare la testa a un doge reo di averle trasgredite (Marin Falier, 1355); perché in tal modo i suoi successori avrebbero imparato che a loro si richiedeva di «essere le guide, non i padroni dello Stato», come annota in una sua lettera Petrarca. Lezione esemplare, dalla quale i tanti ribaldi implicati nello scandalo del Mose andranno esenti; anzi, potranno addirittura vantarsi non solo di averla fatta franca, ma addirittura di essere riusciti a camparci sopra alla grande. L’inevitabile prescrizione dei reati che si va profilando consentirà loro di sottrarsi a una qualsivoglia pena; semmai alimenterà l’invidia di chi ha imboccato la scorciatoia del patteggiamento: con un po’ di pazienza in più, nessuno di loro avrebbe pagato dazio. A turbare i sonni rimarrà solo l’azione della magistratura contabile che intende presentare loro il conto del danno arrecato alla cosa pubblica. Ma i provvidenziali bunker protetti all’estero consentiranno a più di qualcuno di proteggere buona parte dei propri maleodoranti risparmi. E tuttavia, l’interesse primario della comunità non è individuare e punire i colpevoli, ma impedire che ciò possa di nuovo accadere. La strada maestra c’è, ed è quella indicata da una figura del valore e della credibilità del giudice Carlo Nordio: semplificare le leggi. L’ha spiegato in termini chiari e inequivocabili nel recente incontro promosso da Confindustria Venezia su impresa e legalità: nelle vergognose scorrerie ruotate attorno al Mose c’è una precisa responsabilità dello Stato, che ha consentito ai manovratori della corruzione di «avvelenare i pozzi», per ricorrere a una sua efficace immagine. Perché nel tempo ha affastellato un groviglio di norme tali da rendere di fatto impossibili gli interventi più complessi; e anziché sfrondarlo, ha rimediato varando una regola ad hoc per by-passare ogni legalità. Col risultato di dare via libera a un sistema di appalti gestito senza controlli, o peggio ancora con controlli addomesticati a colpi di mazzette. E in taluni casi con l’aggravante della complicità, in cui si sono esibiti «illustri rappresentanti dello Stato indegni dell’incarico che ricoprivano». Con tutta evidenza, questa impietosa analisi

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contiene già in sé la soluzione: disboscare la giungla delle leggi, soprattutto per impedire che ci sia, a partire dai pubblici ufficiali, chi usa gli strumenti forniti dallo Stato stesso per esercitare un arbitrio che porta dritto alla corruzione sistemica. È un compito che spetta alla politica: la quale peraltro è largamente inadempiente, per ignavia o peggio per interesse; e si limita semmai alle pagliacciate di piazza, come la farsa del rogo delle leggi messa in scena dall’allora ministro Calderoli. Ma una questione così complessa chiama in causa anche la società civile: a partire dalle associazioni di categoria, che devono sanzionare in modo esemplare i propri iscritti coinvolti nella corruzione; se non per scelta etica, per il danno irreparabile che recano agli imprenditori onesti e corretti, messi arbitrariamente fuori mercato. Rimane e rimarrà peraltro aperta una doppia profonda ferita. Quella subìta da Venezia, marchiata in modo indelebile dallo scandalo Mose, come ha sottolineato il presidente degli industriali Matteo Zoppas. E quella inferta al Paese intero, perché come ha annotato monsignor Vincenzo Paglia, «illegalità e corruzione uccidono non solo le imprese, ma tutto il popolo». Parole dure e chiare: con la speranza che servano ad evitare altri piccoli e grandi crimini. Ma che comunque non scalfiranno la coscienza di chi ha alimentato la greppia veneziana, e di chi vi ha copiosamente attinto. Perché è gente che conosce un rimedio infallibile per tenere la coscienza pulita malgrado tutto: basta non usarla. IL GAZZETTINO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 11 Quel referto che può salvare gli imputati di Maurizio Dianese Un certificato medico due mesi prima dell’arresto: “Mazzacurati soffre di demenza senile” Il paziente durante il ricovero è stato sottoposto a visita neurologica per rivalutazione di patologia neurologica nota (instabilità nella marcia, deficit episodici di memoria, con encefalopatia con ischemia sottocorticale possibile ipertensiva ed entroventricolare). Il dott. Fattorello concludeva per: condizioni cliniche stabili, con marcia un po' rallentata e lieve trascinamento dei piedi associato ad iniziale deficit mnesico. La lettera di dimissione dal reparto Cardiologia dell'ospedale di Mirano, porta la data dell'8 giugno 2013 ed è intestata a Giovanni Mazzacurati, ricoverato una settimana prima in Cardiologia per un forte dolore al petto. La mattina dell'1 giugno Mazzacurati era anche caduto a terra. Stamattina peggioramento della situazione neurologica annotava la cartella clinica. E nella scheda di valutazione all'ingresso del reparto si legge che necessita di aiuto per vestirsi, ma compie almeno metà del compito in tempo ragionevole, necessita di aiuto anche per andare in bagno e per salire le scale. Teniamo presente che nel giugno del 2013 Mazzacurati ha 81 anni, essendo nato il 23 aprile del 1932 e che fra 3 mesi ne avrà 85. Quando viene stilata la cartella clinica mancano due mesi Mazzacurati sarà arrestato il 12 luglio ai primi verbali di interrogatorio del presidente del Consorzio Venezia Nuova. E la diagnosi del neurologo di Mirano è chiara: Mazzacurati soffre di demenza senile (o Alzheimer, visto che quando la malattia inizia a manifestarsi è difficile distinguere tra questa e quella). Siamo agli inizi e infatti Mazzacurati comincia a camminare male, cade a terra, ha bisogno di aiuto anche per vestirsi e, elemento più importante di tutti, ha deficit di memoria episodica. Vuol dire in sostanza che non si ricorda interi episodi. Ecco, questa è la cartella clinica che rischia di far estromettere dal processo in corso a Venezia contro l'ex sindaco Giorgio Orsoni e l'ex ministro Altero Matteoli, i verbali di interrogatorio di Mazzacurati che vengono resi a partire da luglio 2013. Mazzacurati è stato dichiarato di fatto incapace di intendere e di volere adesso che ha 85 anni, ma mostrava i segni della demenza senile già nel 2013, questo dice la cartella clinica. E a questo punto il Tribunale deve decidere se in quel luglio 2013 Mazzacurati era ancora nel possesso delle sue facoltà mentali. Stando alle relazioni dei medici però già un paio di mesi prima Mazzacurati perdeva colpi. E' vero che normalmente va in tilt prima la memoria a breve non ci si ricorda che cosa si è fatto il giorno prima e poi la memoria a lungo termine, ma resta il fatto che gli avvocati difensori degli imputati si attaccheranno a questa cartella clinica e non molleranno facilmente l'osso. Anche perché avranno gioco facile nel sostenere che la Procura, proprio in presenza di un responso medico di questo genere, avrebbe dovuto fare l'incidente probatorio e cioè cercare di cristallizzare per sempre le deposizioni di Mazzacurati. Invece, dopo quattro interrogatori, il presidente del Consorzio Venezia

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Nuova viene autorizzato ad espatriare in America per farsi curare. Ma dei problemi cardiaci dal 2007 data del primo ricovero al 2013, si era sempre curato a Mirano e dunque, se andava in America, era per curarsi dell'Alzheimer, no? Ovvero, la Procura sapeva che Mazzacurati stava iniziando a far confusione. Questo diranno i difensori degli imputati e per alcuni di loro Lia Sartori e Maria Giovanna Piva che sono stati arrestati esclusivamente sulla base delle dichiarazioni di Mazzacurati potrebbero uscire dal processo senza troppi problemi. Discorso diverso ovviamente per gli altri imputati che hanno più di un accusatore, oltre a Mazzacurati. Ma è chiaro che una volta tolto di mezzo il patron del Consorzio Venezia Nuova, per le difese la strada sarà tutta in discesa. E non solo per gli imputati di questo processo, ma anche per chi come Giancarlo Galan e Renato Chisso, punta alla revisione del processo. Che cosa succederà, adesso? Che i difensori chiederanno di ascoltare in aula le registrazioni degli interrogatori di Mazzacurati. Se il Tribunale autorizzerà l'ascolto, allora ogni volta che l'ex presidente del Consorzio Venezia Nuova mostrerà un tentennamento o una indecisione, succederà il finimondo. E siccome a leggere le trascrizioni questi tentennamenti e confusioni sono parecchi, sono da prevedere udienze al fulmicotone. E intanto la prescrizione si avvicina. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 29 gennaio 2017 Pag VI L’istituto Cavanis: “Tante falsità su quello sfratto” La replica Non sono tutte vere le cose affermate sull'istituto Cavanis a proposito dello sfratto intimato alla famiglia composta da Ileana Manfren e dalla figlia Claudia Scarpa. Dopo le dichiarazioni di quest'ultima e una lettera di un ex consigliere di Municipalità, Franco Vianello, l'istituto ha deciso di replicare, affidandosi alle parole dell'avvocato Michele Maturi, il quale chiede ufficialmente le scuse a Vianello. «La signora - dice - a causa dello scarso reddito familiare, dapprima ha autoridotto il canone e successivamente ha cessato del tutto di corrisponderlo, cumulando un debito di oltre 20mila euro. Madre e figlia occupano una casa di 140 metri quadri, esorbitante per le loro necessità e le loro possibilità. Sicché l'Istituto ha loro offerto tempo addietro un'altra soluzione abitativa più adeguata, che peraltro è stata categoricamente rifiutata». Poi, Maturi mette i puntini sulle i parlando di carità cristiana: «L'appartamento in questione fu donato all'Istituto per il mantenimento, con gli introiti ricavati dalla sua locazione, alle Case do menhor brasiliane per il mantenimento dei ragazzi di strada e la morosità della Manfren ha vanificato questo scopo. L'Istituto ha, ciononostante, omesso di attivarsi nel confronti della signora per oltre quattro anni, confidando che reperisse altra soluzione abitativa, ma la colpevole inerzia della stessa ha reso ciò impossibile». Infine, sul riferimento della figlia alla mancanza di ricevute, il legale è fermo: «Il contratto è registrato, sono sempre rilasciate regolari fatture. Infine, dopo aver insultato l'economo dell'istituto, fu la signora a chiedere di attivare lo sfratto, allo scopo di acquisire maggior punteggio per l'assegnazione di un alloggio pubblico». Pag X Musulmani in preghiera all’aperto, scatta l’esposto di r.ros. Si torna a pregare in massa nel centro culturale islamico di via Fogazzaro e tra i residenti scoppia di nuovo la protesta. Tutto accade due giorni fa, venerdì, quando per tutto il mattino i locali occupati da quello che si professa un punto di ritrovo per comunità islamica (ma in realtà è una sala di preghiera), sono stati presi d'assalto dagli osservanti occupando anche il marciapiede esterno alla palazzina che ospita il centro culturale. Un disagio aumentato dal fatto che, secondo quanto documentato dalle immagini scattate da alcuni residenti, a intralciare il traffico sia veicolare che pedonale si è messo un furgoncino carico di arance con alla guida un immigrato che si è messo a vendere la merce ai presenti che attendevano di entrare a pregare. Secondo quanto riferisce il Comitato a difesa del cittadino, quanto accaduto sarebbe stato segnalato alla centrale operativa della Polizia locale che però non è intervenuta. Il centro culturale nei mesi scorsi è stato al centro di alcune verifiche amministrative sull'utilizzo che venivano fatti dei locali, registrati per una attività ma poi utilizzati per un'altra, ovvero come centro di preghiera. Ma non è mai scattato alcun provvedimento di sequestro che non è previsto per le violazioni di carattere amministrativo. Il comitato chiede comunque

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maggiori controlli nella zona per contrastare non solo il sovraffollamento nel centro culturale ma anche la situazione di degrado dovuta agli episodi di spaccio che, malgrado i controlli si ripetono ancora nella via. LA NUOVA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 23 Nuovo negozio ai Frari con i prodotti dei detenuti di Enrico Tantucci Borse e cosmetici diventano un mezzo di riscatto sociale L’arte e la solidarietà sociale si fonderanno concretamente a Venezia in occasione dell’ormai non lontana Biennale Arti Visive - che si aprirà a maggio - grazie a una bellissima iniziativa voluta dall’artista statunitense Mark Bradford, scelto per rappresentare il suo Paese nel padiglione ai Giardini, che coinvolgerà anche la Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, che da anni si occupata dei reinserimento lavorativo dei detenuti di Santa Maria Maggiore e di quelle del carcere femminile. Bradford, afroamericano è uno dei più significativi "neoespressionisti astratti" della sua generazione, noto per i grandi dipinti a griglie in cui il collage e la pittura si fondono in un'unica composizione. Ma è anche un artista fortemente impegnato sul sociale. Per questo a Venezia - accanto al suo intervento nel padiglione statunitense, che si chiamerà Tomorrow Is Another Day, Domani è un altro giorno - lancerà anche un progetto che durerà sei anni che si chiamerà “Processo collettivo”, che coinvolgerà appunto la Cooperativa Rio Terà dei Pensieri e detenuti e detenute che già “producono” borse con materiale riciclato, oggetti in pelle e prodotti di cosmetica che poi vendono attraverso i negozi o in spazi provvisori, come quello allestito in Campo Santo Stefano. «Bradford» spiega la presidente della Cooperativa Liri Longo «finanzierà l’apertura di un negozio vero e proprio ai Frari dove potremo vendere stabilmente i nostri prodotti e impiegare anche ex detenuti come commessi. Stiamo ultimando i lavori, ma il negozio dovrebbe aprire prima dell’inaugurazione della Biennale. Ma con Bradford c’è anche un progetto di più lunga durata per produrre insieme altri oggetti, ad esempio delle borse che riprodurranno i suoi dipinti e che saranno vendite già in occasione della Biennale. È già venuto diverse volte a Venezia, ha incontrato i detenuti e vuole tornare a parlare con loro della sua arte e del suo progetto che si propone di lanciare anche un programma che si propone di diffondere la consapevolezza dei limiti del sistema penale. Attualmente sono circa 25 i detenuti o gli ex detenuti - tra uomini e donne - che collaborano con la Cooperativa. È stato Bradford a venirci a cercare proprio per proporre questa collaborazione, a cui tiene molto e che andrà avanti nel tempo». La Cooperativa Rio Terà dei Pensieri vende tra l’altro i suoi prodotti artigianali anche all’interno del bookshop della Fenice. Nella Venezia in cui aprono in continuazione i negozi di paccottiglia a un euro che sommergono la città arriva da un artista americano come Mark Bradford un esempio concreto di come si possa contribuire invece all’apertura di esercizi che si basano su una produzione locale e artigianale e favoriscono contemporaneamente il reinserimento di chi vive anche socialmente in condizioni di particolare difficoltà. Un esempio da imitare, superando anche le difficoltà burocratiche, visto che i permessi per l’apertura del negozio ai Frari sono già stati ottenuti. La prova che se si svuole e si è disposti a investire anche in modo creativo, è ancora possibile dare spazio ad attività che non sacrifichino ogni dignità al turismo di passo. La Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri è stata costituita nel 1994 e annovera tra i propri soci sia detenuti e detenute che persone libere. Le attività sono iniziate per offrire alle persone detenute un’alternativa alla cella, in un’ottica prevalente di risocializzazione e attingendo alle risorse del volontariato. Nel tempo si è sviluppata attorno a due fulcri principali, la formazione professionale e il lavoro, considerandoli gli strumenti principali per avviare percorsi di responsabilizzazione ed inclusione sociale. Attualmente la cooperativa lavora all'interno dei due Istituti Penitenziari di Venezia ed in area penale esterna. Le attività sono state avviate a partire dalle caratteristiche dei luoghi in cui erano inserite, e con particolare attenzione alla relazione con il territorio circostante: la città di Venezia. I detenuti e le detenute quindi, anch’essi soci lavoratori della cooperativa, coadiuvati da docenti, collaboratori e volontari, producono oggi articoli serigrafati, borse e pelletteria, creano linee di cosmetici e coltivano ortaggi biologici nell’orto che possiedono alla Giudecca. Il loro lavoro viene commercializzato sia

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attraverso la vendita al dettaglio che commissioni pubbliche e private. La cooperativa è oggi un’organizzazione forte di vent’anni di esperienza, creativa e vivace, partecipata da soci lavoratori giovani e motivati che hanno sviluppato da una parte il radicamento sul territorio, anche attraverso l’adesione a reti locali di economia solidale, e dall’altra la promozione a livello extraterritoriale ed internazionale, attraverso l’utilizzo dei moderni mezzi di comunicazione e promozione. Mark Bradford è un artista afroamericano di 56 anni, che vive e lavora a Los Angeles. È noto soprattutto per i suoi grandi dipinti a griglia astratti, in cui la pittura si fonde e si alterna con il collage, ma si dedica anche al video e all’installazione, come la grande arca creata recuperando il materiale da palizzate esistenti realizzata dopo il grande uragano Kathrina che aveva in pratica inondato New Orleans. Ma si è sempre interessato anche ai temi sociali, creando quattro anni fa con il filantropo Eileen Harris Norton l’organizzazione «Art + Practice» , che incoraggia l'impegno artistico dei giovani dai 16 ai 24 anni che si trovano a vivere una transizione difficile. CORRIERE DEL VENETO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 9 La Basilica di San Marco sui due euro. La nuova moneta sarà Serenissima di Francesco Bottazzo Un milione e mezzo di pezzi. Brugnaro: orgogliosi di rappresentare l’Italia nel mondo Venezia. Pagheremo il caffè con «la Basilica di San Marco». Un milione e mezzo di pezzi, accanto a quelli tradizionali raffiguranti il volto di Dante, realizzato da Raffaello, che la Zacco dello Stato ha coniato. E’ dedicata a Venezia infatti la prima moneta della collezione numismatica del 2017 emessa dal ministero dell’Economia e delle Finanze. «Orgogliosi e fieri di rappresentare l’Italia nel mondo», dice con soddisfazione il sindaco Luigi Brugnaro. I due euro hanno corso legale da ieri e saranno messi in circolazione nei prossimi giorni quando potremmo ritrovarceli in tasca senza saperlo. La moneta realizzata dall’artista Luciana De Simoni, commemora il quattrocentesimo anniversario del completamento della Basilica di San Marco, la cui bellezza delle cupole è esaltata dalla scintillante versione «proof» da collezione. Venezia, proprio nei giorni in cui è ritornata ad essere centro del mondo per la sua salvaguardia con la missione del sindaco all’Unesco, è la prima città ad essere raffigurata nelle monete «speciali» da due euro, che fino a ieri hanno dedicato la seconda faccia solo a personaggi ed eventi. Dal conte Camillo Benso di Cavour (per il duecentesimo anniversario della nascita) a Giovanni Boccaccio (settimo centenario), dai XX Giochi olimpici invernali di Torino all’Expo di Milano, ma mai nessuno raffigura totalmente il simbolo, com’è San Marco, di una città. «Una cosa che inorgoglisce i veneziani, ma anche un popolo, quello veneto, che si riconosce attraverso Venezia - commenta il delegato leghista alle tradizioni Giovanni Giusto -. Questo non è solo un riconoscimento alla città, che per il suo valore storico non ne aveva bisogno, ma per la considerazione di cui nutre. E’ la dimostrazione che Venezia non è morta, ma viva». E’ quello che ha cercato di presentare martedì Luigi Brugnaro ai delegati dell’Unesco che avevano minacciato di inserire la città lagunare all’interno della black list dei siti monumentali a rischio. Dalle grandi navi all’acqua alta, fino alla difficile convivenza con il turismo sono tutti problemi da risolvere per poter salvaguardare Venezia e la sua piazza famosa in tutto il mondo, dai prossimi giorni ancor di più con la moneta Serenissima. A testimoniare l’importanza dell’avvenimento, il conio dedicato a San Marco, verrà presentato in esclusiva il prossimo 3 febbraio al World Money Fair di Berlino, l’appuntamento numismatico annuale tra i più prestigiosi al mondo. E c’è da scommetterci che a Ca’ Farsetti ci sarà la gara tra chi riuscirà ad avere tra le mani la nuova moneta «veneziana», pronta a terminare in bacheca. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 28 gennaio 2017 Pag II – III Brugnaro: “Pago io i funerali di Pateh” di Giorgia Pradolin La manifestazione in stazione. “Tuffarsi, scelta drammatica” Il sindaco Luigi Brugnaro è disponibile a farsi carico del funerale di Pateh Sabally, annegato domenica scorsa in Canal Grande e per il quale il magistrato ha disposto l'autopsia che verrà affidata questa mattina. Un gesto di disperazione, forse di disagio

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psichico o problemi mentali, come sostenuto dal cugino Muhammed Sabally. Fatto sta che Brugnaro non è rimasto insensibile alla tragedia, e se la famiglia del ragazzo non reclamerà la salma in Gambia (o non avesse le disponibilità economiche per la cerimonia funebre), ci penserà lui. Come? Attingendo al Fondo di solidarietà del Comune, quel tesoretto dove il sindaco versa ogni mese la sua indennità da primo cittadino. «È un gesto di rispetto di Venezia verso Pateh Sabally e i suoi sogni infranti - ha dichiarato Brugnaro - La morte di questo giovane ha lasciato in tutti noi un sentimento di tristezza e di umana pietà verso chi, di fronte alle avversità della vita, non trova più la forza di reagire alla disperazione». Brugnaro ha anche colto l'occasione per tornare sul tema dell'immigrazione. «Alla politica buonista - ha aggiunto il sindaco - voglio ricordare che non si possono continuare ad alimentare le speranze di mezzo mondo di venire in Italia. Bisogna che tutti si rendano conto dell'impossibilità, per il nostro Paese, di continuare a gestire un tale fenomeno di massa come si è fatto finora. Bisogna capirne le implicazione future, soprattutto le tragedie e le sofferenze che vengono subite da queste persone». Anche il governatore Luca Zaia è intervenuto ieri sul drammaa del 22enne del Gambia. «Il suicidio del migrante in Canal Grande è una tragedia umana - ha detto Zaia - Ho letto molto, non ho visto i video, ma se ci sono stati effettivamente gli insulti, soprattutto a sfondo razziale, che si dice ci siano stati, questi sono tutti da condannare, senza se e senza ma». «Il rispetto della vita e della dignità umana - ha aggiunto Zaia - va oltre il colore politico, il colore della pelle e il credo religioso. Posso comunque capire la titubanza a gettarsi in acqua da parte dei possibili soccorritori: ho vissuto dal vivo, qualche anno fa, la tragedia dell'imprenditore Giorgio Panto precipitato in laguna con il suo elicottero e vi assicuro che i soccorsi in acqua, il 26 novembre, sono stati anche allora molto complicati». E il presidente della Municipalità, Giovanni Martini, ha espresso un «senso di grande dolore, di sconcerto per quanto non è stato fatto. La nostra è una città accogliente - ha detto Martini - ma non può esserlo solo come formula retorica. Qualsiasi forma di razzismo, di discriminazione deve essere assolutamente condannata». Intanto sull'intenzione di pagare il funerale al 22enne suicida però, la rete si è nuovamente divisa. Pochi minuti dopo l'annuncio partito da Ca' Farsetti i commenti hanno nuovamente iniziato a piovere sul portale del Gazzettino e sui social network. Anche a distanza di una settimana è difficile mettersi nei panni di chi c'era e non è intervenuto. Dopo le polemiche che hanno seguito la morte di Pateh Sabally in Canal Grande, ieri è stata la giornata dedicata al cordoglio e al raccoglimento: una corona di fiori con i colori della bandiera del Gambia lasciata galleggiare in quel tratto di laguna in cui il giovane africano si è lasciato annegare. Un piccolo gesto simbolico che ha visto la presenza di centinaia di persone (oltre 550 per gli organizzatori) con provenienza e religione diverse, strette sui gradoni della stazione in silenzio per ricordare il 22enne africano e il suo gesto che urlava disperazione, forse solitudine. Nessuno però, è in grado di dire con certezza: «Se fossi stato lì, io mi sarei buttato a salvarlo». Perché tra l'acqua gelida e la stazza di un ragazzo che annega e forse non vuole essere portato a riva, nessuno si esprime con eroismi o ipocrisie che potrebbero offendere la memoria del defunto. »Non lo so cosa avrei fatto afferma don Nandino Capovilla - ma vedendo una persona in difficoltà, anzi in pericolo di vita, forse sì, mi sarei buttato». Il presidente della Municipalità di Venezia Andrea Martini: «Avrei fatto di tutto perché qualcuno lo soccorresse, si buttasse. Forse mi sarei tuffato? Non lo so». Il presidente della comunità islamica veneziana, Mohamed Amin Al Ahdab: «Se una persona non è esperta e si nell'acqua gelida rischia di avere un blocco totale. Se fossi stato a bordo del vaporetto forse non mi sarei buttato in acqua ma avrei chiesto di avvicinarsi di più al ragazzo, di fare qualcosa». Tra i presenti anche il deputato Pd Giuseppe Civati: «Di sicuro avrei fatto qualcosa. Non so come avrei reagito e non mi sento di dare giudizi su chi non è intervenuto. Forse c'era modo di avvicinare chi stava in acqua con più prontezza e forse qualcuno dovrebbe anche essere più predisposto a farlo. Non voglio dare giudizi, è solo una riflessione: quando c'è un uomo in mare, una città come Venezia forse ha le qualità per intervenire». Il gesto simbolico ieri nella fondamenta di Santa Lucia è stato organizzato dai ragazzi del progetto La Casa di Amadou, un gruppo che fa base alla Cita a Marghera, di cui è parroco e fondatore don Capovilla. Hanno parlato anche i fratelli di Pateh che però non l'hanno conosciuto, mentre il cugino, Tejan Sabally, giunto dal centro d'accoglienza di Frosinone, ha preferito rimanere defilato tra la folla. «Abbiamo

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attraversato il deserto del Sahara e siamo sopravvissuti ha raccontato uno degli africani - abbiamo lasciato tutto, terre e famiglie». Tra i partecipanti, nessun membro della giunta comunale nonostante l'offerta del sindaco di pagare le spese del funerale. C'erano invece i ragazzi del centro sociale Morion con le bandiere colorate, e i fotografi di Awakening. LA NUOVA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 22 Il sindaco paga il funerale, è polemica di Vera Mantengoli In 500 a Santa Lucia per lanciare una corona in memoria di Pateh Sabally. Don Nandino: “Quei soldi non li prenderei” Venezia. Una corona con i colori del Gambia è stata gettata nel Canal Grande in ricordo di Pateh Sabally, il richiedente asilo che ha voluto farla finita. Le stesse acque che la scorsa domenica hanno inghiottito il giovane davanti a centinaia di persone immobili e ad alcuni agghiaccianti commenti razzisti, ieri pomeriggio sono state testimoni di chi ha voluto invece mostrare il volto umano della città. La manifestazione “Pateh, amico nostro fragile”, organizzata da don Nandino Capovilla e dalla Casa di Amadou della Cita, è iniziata alle 17 sulla scalinata della stazione. Secondo i promotori erano oltre cinquecento le persone arrivate per Pateh. La corona di rose blu, rosse e verdi, tenuta con onore nelle mani dei suoi connazionali, è stata sollevata più volte prima che venisse lasciata ondeggiare sull’acqua, accompagnata da un applauso. Ieri mattina il sindaco Luigi Brugnaro si è dichiarato disponibile a provvedere per le spese del funerale, ma le parole usate hanno scatenato dei malumori, non solo in quanto ha voluto precisare che i soldi sarebbero stati presi dal Fondo di solidarietà del Comune «alimentato dall’intero importo della propria indennità di primo cittadino». Dopo aver detto che si trattava di un gesto di rispetto nei confronti dei sogni infranti di Pateh, che bisogna stigmatizzare chi fa sciacallaggio sulle tragedie, che la sua morte ha lasciato in tutti un sentimento di tristezza e di umana pietà, ha ribadito che «alla politica buonista voglio ricordare che non si possono continuare ad alimentare le speranze di mezzo mondo di venire in Italia e che bisogna che tutti si rendano conto dell’impossibilità di continuare a gestire un tale fenomeno di massa come si è fatto finora (…)». Parole considerate da molti fuori luogo, come per don Nandino che ha margine ha espresso il suo commentato: «Oggi (ieri, ndr) abbiamo letto testimonianze di persone che devono attraversare il Sahara a piedi e vengono ammassate come bestie nelle barche. L’associazione Migrantes di Lampedusa ci ha inviato un messaggio: nessuno che ha dovuto sfondare porte per sopravvivere avrà l’egoismo di sbatterne altre in faccia a chi soffre. È di pochi giorni fa la notizia che Yahya Jammeh, dittatore noto per la sua ferocia, è scappato dal suo Paese. Ci rendiamo conto cosa devono subire queste persone? Non li prenderei quei soldi. Mi sembra che con quelle parole si strumentalizzi la morte del ragazzo». I connazionali hanno letto un pensiero per ogni colore della corona: Yakoba il blu per il fiume Gambia, Soriba il rosso per le fatiche sopportate e Amadou il verde per il sogno di aiutare le famiglie che devono lasciare. Betta della Cita ha scritto una lettera a nome dei cittadini, ricordando le parole di disprezzo sentite nel video di chi lo ha ripreso: «El fa finta disgraxià!» ha detto «Ma non facevi finta. Non fingevi quando sei partito dalla tua terra in subbuglio, non fingevi quando ti sei trovato nel deserto. Non fingevi dentro al barcone. Se all’ultimo minuto della tua breve esistenza sei diventato fragile è perché il salvagente dei diritti, dell’accoglienza umana è stato lanciato tardi. Vorremmo averti conosciuto il giorno prima Pateh, per abbracciarti». Nessuno ha fiatato. Mentre i connazionali leggevano dal piazzale, la gente in piedi sugli scalini ascoltava in silenzio, molti guardando il canale e rivedendo quel minuto di agonia di Pateh che ora sembra un’eternità. «La Casa di Amadou», ha concluso don Nandino, «è una stanza della parrocchia dedicata a un ragazzo gambiano dove faccio la pastasciutta e si sta insieme. Ogni casa può essere la Casa di Amadou». Venezia. Pateh si sarebbe potuto salvare? È questa la domanda che assilla chi ha guardato i filmati. «I nostri sentimenti sono intrecciati nella corona» ha letto Alice Chamila Marianni della Casa di Amadou, un posto dove si riuniscono immigrati di varie nazionalità nella parrocchia della Resurrezione «Proprio ora che ci rattristiamo di non aver conosciuto Pateh, possiamo diventare amici di tanti giovani profughi come lui che

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scappano da situazioni difficili». «L’ho visto alla BBC» afferma il gambiano Lamin Camara, 20 anni, regolarmente in Italia «Sono rimasto sconvolto, come si possono dire certe parole? Se fosse stato un italiano lo avrebbero lasciato morire?». Alla manifestazione non era presente nessun rappresentante della giunta. Gli unici politici erano il presidente della Municipalità di Venezia Murano e Burano Giovanni Andrea Martini, la consigliera Monica Sambo del Pd e Pippo Civati e Giulio Marcon di Possibile. Sambo e Martini hanno detto che qualsiasi forma di razzismo e discriminazione debba essere condannata. «Non si criminalizza la città perché qualcuno tra le centinaia di persone presenti ha fatto dei commenti razzisti» ha detto Civati «Ma siamo qui perché non dobbiamo perdere l’umanità. Si è perso tempo prima di accogliere il modello Sprar sui servizi di accoglienza integrata per gli enti locali, ma adesso c’è e va applicato». «Siamo qui per dare un segno contrario alla disumanità rispetto a quanto è successo» hanno spiegate le cittadine Marilisa Brussato e Teresa Salvagno. «In un mondo in cui siamo sempre connessi e informati in tempo reale su tutto, mancano le azioni e relazioni vere». Tante associazioni, il Centro Sociale Rivolta. Moltissimi i cittadini di diverse nazionalità e religioni, come Amin Al Ahdab, presidente della Comunità islamica di Venezia: «Il nostro imam Hamad ha dedicato il sermone del venerdì al ragazzo». Per la religione musulmana la preghiera alla salma viene fatta davanti al corpo, ma in questo caso molti connazionali ne hanno sussurrato una anche dopo aver gettato la corona. Pag 40 Tatuaggi e piercing per uno studente veneziano su cinque di Simone Bianchi Lo studio Tra gli studenti delle scuole veneziane sta prendendo sempre più piede la moda di riempirsi qualsiasi parte del corpo di tatuaggi e piercing. Ben uno studente su cinque ha infatti dichiarato si aver scelto di modificare in questo modo l’aspetto del suo corpo per sentirsi meglio e farsi riconoscere dagli altri. È questo il dato che emerge da uno studio concluso recentemente dall’Istituto Universitario Salesiano di Venezia, che ha sondato il terreno tra i giovani di età compresa tra 14 e 19 anni in numerosi istituti superiori della provincia. Il risultato è che il 16% di loro ha scelto di farsi un piercing (soprattutto le ragazze), il 6,1 invece un tatuaggio, mentre solo il 2 per cento ha entrambi sulla pelle. In tutto i questionari distribuiti dallo Iusve sono stati 1.274. «Si tratta di due scelte diverse» afferma Salvatore Capodieci, docente di Psicologia dello Iusve e coordinatore scientifico del progetto. «Nel caso del piercing è una decisione reversibile e quindi i giovani sono più portati a sceglierla, mentre con i tatuaggi no. I dati rilevati finora indicano il tatuaggio come una rivendicazione del giovane della propria capacità di decidere su se stesso. Una scelta adulta, un segno di affermazione». Ed è il braccio la parte del corpo preferita per tatuarsi dagli studenti intervistati dal personale dello Iusve, seguito dal polso, le costole e il polpaccio. I meno gettonati sono nuca e piedi. Tra chi ha deciso invece per il piercing, primo per distacco è ovviamente l’orecchio nei suoi vari punti in cui può essere perforato attorno al lobo o nella parte interna, quindi naso e ombelico. Ci sono poi la lingua e il capezzolo per i più azzardati. Senza contare che per un piercing ai minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori, e tanti intervistati avevano meno di 18 anni. L’indagine verrà ripresa nei prossimi anni, sottoponendo agli stessi soggetti le medesime domande a distanza di tempo. Obiettivo: quello di individuare le motivazioni che spingono gli adolescenti a prendere questa decisione. I dati si infittiscono man mano che l’età dello studente aumenta, con un punto di svolta intorno ai 16 anni, che si conferma l’età più attiva in questo contesto specifico di scelte. Se in prima superiore solo il 2,5% degli alunni pensa a tatuaggi e piercing da apporre al proprio corpo, in terza classe arriva già al 18%, supera quindi il 33% in quarta e il 42% l’anno successivo, l’ultimo prima di uscire dalla scuola. Accanto a questo aumenta anche la propensione al rischio, ovvero la ricerca di esperienze nuove, eccitanti anche se illegali, l’apprezzamento per le feste sfrenate e per il brivido che si può provare. «L’unicità di questa ricerca», sottolinea infine Nicola Giacopini, direttore del dipartimento di Psicologia dello Iusve, «è di aver considerato il fenomeno dei tatuaggi nel contesto dello sviluppo personale, familiare e sociale degli adolescenti, per poter progettare e proporre insieme ai ragazzi esperienze di tempo libero allo stesso tempo attraenti e positive».

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Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 La giustizia veneta a due facce di Massimo De Luca Gli interventi all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte d’appello di Venezia ci danno l’immagine di una giustizia veneta a due facce, in miglioramento nel settore civile, stazionaria se non peggiorata nel settore penale. In campo civile da due/tre anni il numero delle cause in entrata diminuisce, i giudici hanno incrementato la loro produttività, il processo telematico è ormai a pieno regime e ciò ha fatto sì che la durata media dei procedimenti sia in diminuzione e l’arretrato sia complessivamente calato. In campo penale il problema principale sono le prescrizioni in grado d’appello che fanno andare in fumo un processo su due. Il primo motivo è di ordine legislativo. L’Italia è il solo paese al mondo in cui la prescrizione corre per tutti e tre i gradi di giudizio. Basterebbe fermare il termine della prescrizione con il rinvio a giudizio dell’imputato o almeno dopo la sentenza di primo grado e finalmente l’appello diventerebbe un serio riesame del merito della vicenda, quando si hanno buoni motivi da spendere, e non un mezzo di impugnazione cui tutti ricorrono per allungare i tempi del processo. La prescrizione combinata con il principio che la sentenza è esecutiva solo dopo il suo passaggio in giudicato ha un effetto micidiale. Tutti i condannati in primo grado hanno interesse ad impugnare sperando che in appello o cassazione scatti la prescrizione, dato che le Corti superiori sono intasate di cause. Se non cambiamo questo meccanismo il processo penale continuerà ad essere una macchina che gira a vuoto. Il secondo motivo è di ordine locale e riguarda gli organici della giustizia veneta. Da anni i vertici giudiziari del Veneto denunciano la mancanza di magistrati e personale amministrativo. La nostra è la regione che ha il peggior rapporto tra numero di magistrati, numero della popolazione ed imprese di tutta Italia. Negli ultimi cinquant’anni la nostra regione ha conosciuto la più grande trasformazione socio-economica della sua storia, divenendo una delle maggiori aree industriali d’Europa, mentre i nostri tribunali sono rimasti sostanzialmente nelle dimensioni di quando il Veneto era una zona agricola. Tutta la giustizia veneta ha sofferto dell’immobilismo dell’amministrazione centrale nel rivedere le piante organiche ed adeguare il numero dei giudici alle mutate esigenze del territorio. Finalmente qualcosa si è mosso e le piante organiche dei tribunali veneti sono state aumentate di 40 unità. È una buona notizia ma va detto che se non verranno aumentate velocemente anche le piante organiche della Corte d’appello quest’ultima sarà ancora più intasata di quanto non lo sia ora. La situazione del personale amministrativo è ancora peggiore. Per vent’anni non si sono fatti concorsi, l’età media degli impiegati è sopra i cinquant’anni e le scoperture di organico nel Veneto sono drammatiche. Ciò costringe i magistrati a fare spesso i cancellieri e qualche volta anche i commessi. Efficace il paragone fatto dal presidente dell’Anm veneta nel suo discorso di sabato: «Chi potrebbe immaginare un chirurgo che porta il paziente in sala operatoria, pulisce i ferri e fa anche l’anestesista?». Questo nei tribunali italiani succede tutti i giorni. Altro grosso problema è l’assistenza per l’informatica. I tecnici nell’intero Nordest sono solo 17 contro i 77 della Sicilia, che ha metà abitanti, e ormai se si bloccano i computer si bloccano anche i processi. In ambito penale un dato sicuramente positivo di quest’ultimo biennio è il considerevole calo della popolazione detenuta, attualmente nell’ordine di circa cinquantatremila persone in tutta Italia, a fronte degli oltre sessantacinquemila detenuti di due anni fa e ovviamente anche le carceri venete hanno beneficiato di questo trend positivo. Le recenti modifiche in materia di misure alternative alla detenzione e l’alleggerimento delle pene in materia di stupefacenti, hanno dato risultati, consentendo così al sistema carcerario di respirare. Insomma un quadro a luci e ombre. La giustizia veneta sta recuperando efficienza rispetto alla situazione disastrosa di qualche anno fa, ma il cammino da percorrere è ancora lungo e irto di ostacoli. CORRIERE DEL VENETO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Demografia, la bomba profughi di Vittorio Filippi

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Subire o gestire Esattamente cento anni fa il Montello conosceva l’inferno della rotta di Caporetto. Oggi c’è ancora qualcuno che ripropone l’inferno su questo ameno colle lambito dal Piave: «Benvenuti nel Montello, sarà il vostro inferno», recitava infatti uno striscione qualche settimana fa. Un inferno destinato non agli austro-ungarici, ma ai profughi, anche loro «invasori» pur senza uniforme. Qualche giorno fa una contromanifestazione detta dei «millepiedi» (cinquemila partecipanti) ha voluto respingere simbolicamente le pulsioni intolleranti. Pulsioni che esistono, ma che sono in realtà del tutto minoritarie. Lo afferma un recentissimo sondaggio di Demos & Pi in cui il 54 per cento degli intervistati del nordest pensa che la soluzione migliore del problema profughi sia quella della loro distribuzione «spalmata» sui territori comunali in rapporto alla densità degli abitanti. C’è poi un 31 per cento che ritiene invece migliore la scelta di concentrare i profughi in poche grandi strutture mentre il rimanente 10 per cento semplicemente nega ogni forma di accoglienza: vanno rispediti a casa, punto e a capo. Ovviamente – dice il sondaggio – le tre posizioni risentono delle diverse appartenenze ideologiche e sociali: così ad esempio la maggioranza dell’accoglienza diffusa è sostenuta perlopiù dai giovani, da studenti, imprenditori, autonomi e professionisti e da chi vota PD e 5 Stelle. Ma al di là delle opinioni vi sono due tendenze solide con cui fare i conti. La prima è che i flussi migratori sono in aumento. In Italia lo scorso anno (dicembre escluso) sono arrivati 173 mila persone, il 20 per cento in più del 2015. Il Veneto ne ospita 14 mila, terza regione dopo Lombardia e Sicilia. Poi il discorso è anche qualitativo: gli arrivi si stanno «africanizzando», soprattutto con partenze dall’Africa centrale. In testa la Nigeria, con il 21 per cento dei migranti. Il fatto non è casuale: perché mentre la crescita della popolazione mondiale sta decisamente rallentando, è nell’Africa sub-sahariana che pompa un potente motore demografico. Entro i prossimi 35 anni quasi metà dell’incremento della popolazione del pianeta verrà proprio da lì, con un aumento di 1,16 miliardi di cui 658 milioni in età lavorativa. La Nigeria toccherà i 400 milioni di abitanti, il Congo i 195. Per fare un confronto, l’Italia perderà 3,3 milioni di abitanti e 7,3 in età lavorativa. Grandi squilibri ci aspettano. Squilibri demografici (ma non solo) e soprattutto strutturali. Ma anche terribilmente complessi da capire e da affrontare. Ma, si sa, le soluzioni ai problemi complessi non possono essere semplici né tantomeno semplicistiche. O risibili, come il minacciare l’inferno ai migranti. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le riflessioni che Renzi evita di Ernesto Galli della Loggia La sconfitta, le paure Sabato scorso a Rimini, nel primo discorso pubblico dopo il 4 dicembre, al di là della sua nota capacità di un eloquio popolarmente accattivante e al di là di alcuni prevedibili strali polemici, Matteo Renzi non è andato. Insomma: nessuna riflessione di qualche spessore sull’Italia e sul mondo; solo l’auspicio di elezioni il più presto possibile. È stata la conferma della scelta, da parte dell’ex presidente del Consiglio, di una delle due strade che gli si sono aperte davanti in seguito alla sconfitta sul referendum istituzionale. La prima strada era quella della Grande Assenza. Ritirarsi da tutte le cariche (inclusa dunque la segreteria del Pd) e raccogliersi in un non breve silenzio a meditare sulle cause della vittoria del No, per capire gli errori commessi e poi rientrare sulla scena in modo realmente diverso da come ne era uscito. In certo senso come un’altra persona. Cioè dopo aver compreso che per essere fedele alla sua immagine iniziale di «uomo nuovo» in lotta contro il «sistema» (l’immagine delle ormai mitiche elezioni europee) era necessario reinventarsi interamente rispetto al Renzi che era andato perdendosi e spegnendosi nella seconda parte del suo governo. Ma per imboccare questa strada erano necessarie due premesse. Convincersi che quello del 4 dicembre non era stato un incidente di percorso ma una vera e propria Waterloo; e poi credere fino in fondo, orgogliosamente, nelle proprie idee: come i veri politici sanno fare, come i veri politici

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devono saper fare. Egli insomma avrebbe dovuto dare una sorta di appuntamento ai suoi avversari: «Avete vinto. Bene, ma la vostra vittoria (con in più la sentenza della Corte costituzionale sull’«Italicum») vi consegna un sistema ingovernabile, mentre il Paese è ancora alle corde. Vediamo che cosa riuscite a fare. Arriverà presto il giorno in cui vi accorgerete che sono io la sola risorsa di cui in realtà disponete». Renzi invece ha imboccato la seconda strada. Ha mostrato di credere che il 4 dicembre non fosse stato altro che un incidente di percorso, un noioso contrattempo. Si è dimesso sì, ha lasciato il governo, ma solo per battezzarne uno pieno di gente sua a lui fedele e restare quindi come un’ombra dietro le quinte nella parte non proprio esaltante dell’aspirante burattinaio. Ha fatto capire che al massimo intendeva saltare un giro - nel partito neppure quello - ma nulla di più. Dopo pochissimo ha ricominciato a twittare, a far trapelare, a lasciar capire. Insomma: piuttosto che la parte del Grande Sconfitto ritiratosi sotto la tenda ha deciso di fare la parte del capo corrente attaccato al telefono. Con l’obiettivo, sabato apertamente dichiarato, di andare al più presto ad elezioni anticipate: quasi per cancellare con un nuovo appuntamento elettorale, egli spera coronato dal successo, quello precedente andato così male. Ma è una strada con due incognite non da poco. Innanzi tutto: e se alla fine le elezioni anticipate non dovessero esserci? E ancora: e se Renzi dovesse perderle? Circa la prima eventualità basta una considerazione: per segni espliciti o impliciti presidente della Repubblica e presidente del Consiglio non sembrano essere per nulla d’accordo sulle elezioni anticipate. Ebbene: si può immaginare uno scioglimento delle Camere contro la loro volontà? Sembra alquanto difficile. Circa la seconda eventualità, per parlare realmente di vittoria - dato che se si va alle elezioni in tempi brevi vi si andrà per forza con una legge elettorale ispirata in linea di massima ai criteri stabiliti dalla Corte costituzionale - sarà necessario, come ha detto lo stesso Renzi, raggiungere il 40 per cento dei voti. Un’impresa, però, che con il Pd da solo appare impossibile. Alleandosi con chi, allora, dando tra l’altro per scontato che qualunque alleanza sulla destra o sulla sinistra comporterà inevitabilmente un’emorragia di voti sul lato opposto? E quale richiamo potrà poi avere una lista elettorale, in caso di alleanza necessariamente fondata sul compromesso dei programmi e su un’ovvia eterogeneità di nomi? Davvero Renzi pensa di poter raggiungere il 40 per cento dei consensi presentandosi insieme ad Alfano o, in alternativa, insieme a Vendola? Comunque la si consideri, insomma, senza l’elemento del ricatto implicito nel meccanismo del ballottaggio (se non voti per me vince il tuo nemico assoluto), la prospettiva della rivincita elettorale si presenta altamente problematica. Ma che ne sarebbe di Renzi se non vincesse neppure stavolta? In realtà, scegliendo le elezioni anticipate egli si sta giocando la carta principale della sua fortuna politica: la diversità delle origini. Lo fa, sospetto, perché ha avuto paura. La paura di essere fatto fuori ma soprattutto la paura di tutti i politici italiani: quella di non apparire più nei telegiornali, di non essere più intervistati e di non sentire più ogni minuto lo squillo del cellulare. La paura del vuoto. Che pure è quel vuoto che serve a pensare, magari anche a leggere un libro, e dunque a capire, a liberarsi dagli errori passati. Insomma Matteo Renzi non se l’è sentita di essere il Cincinnato della Repubblica. È proprio così, però, che rischia di finire come un Bersani di Pontassieve . Pag 5 L’asse di Londra con l’America è meno forte delle apparenze di Sergio Romano Con il suo viaggio a Washington e la calorosa visita alla Casa Bianca, Theresa May non si è limitata a scattare in prima fila tra i conservatori-populisti che vogliono incontrare Donald Trump. Ha anche negoziato indirettamente la Brexit con altri interlocutori e ha cercato di dimostrare a Bruxelles che la Gran Bretagna può giocare carte di cui i Paesi dell’Unione Europea non dispongono. Mentre sette Paesi dell’Europa meridionale si riunivano a Lisbona per ribadire la loro diversità dal nuovo presidente americano, il premier britannico assolveva Trump da quasi tutti i suoi peccati. Ha manifestato un certo dissenso sulle relazioni con Putin e sui decreti che chiudono le porte degli Stati Uniti alle persone provenienti da alcuni Stati musulmani. Ma gli ha riconosciuto implicitamente un ruolo non diverso da quello che gli Stati Uniti hanno avuto nella politica internazionale dopo la Seconda guerra mondiale. Il messaggio indirizzato a Bruxelles e alle altre capitali europee è chiaro. Soltanto la Gran Bretagna può smussare gli angoli, rendere

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Trump meno irragionevole e imprevedibile, ricomporre il quadro di una solidarietà euro-atlantica che sembra oggi alquanto precaria e traballante. Naturalmente, secondo la signora May, questo provvidenziale intervento nei rapporti euro-americani ha un prezzo che gli europei dovranno pagare quando Londra chiederà di conservare alcuni dei privilegi che le sono stati garantiti nell’ambito dell’Unione. Accanto al messaggio per Bruxelles vi è nella sua mossa un messaggio nazionale. Ai suoi compatrioti il primo ministro dice che il loro Paese è ancora capace di recitare una parte decisiva negli affari del mondo. La riconquista della propria sovranità, dopo il referendum dello scorso giugno, insieme alla creazione di una nuova «anglozona», composta dalle due maggiori potenze di lingua inglese, renderanno la Gran Bretagna ancora più autorevole. Uscire dall’Unione Europea, quindi, non sarebbe un rischio ma una occasione da cogliere per ridare smalto e lustro alla vecchia Albione. Quella a cui stiamo assistendo è la versione aggiornata del rapporto speciale che Winston Churchill instaurò con il presidente Roosevelt durante la Seconda guerra mondiale e che Margaret Thatcher ebbe con due presidenti: Ronald Reagan negli anni Ottanta e George H. W. Bush dopo l’occupazione irachena del Kuwait nell’agosto 1990. Vi sono stati momenti, soprattutto durante il governo di Tony Blair, in cui la Gran Bretagna sembrò disposta ad accettare una più incisiva politica europea. Ma la sua linea è sempre fondamentalmente quella dell’epoca in cui decise di entrare nella Comunità europea dopo il fallimento del suo «mercato comune» (la Zona europea di libero scambio). Da allora non ha mai smesso di usare la sua presenza a Bruxelles e a Strasburgo per impedire tutte le cessioni di sovranità che avrebbero aperto la strada a una unione federale. Ma non vi sarebbe riuscita, forse, se in tutti questi anni non avesse potuto contare, nel rapporto con i suoi partner, su una deferenza e un timore reverenziale che le hanno garantito, in molte circostanze, un trattamento di favore. Potrebbe accadere ancora una volta? Credo che la situazione sia oggi diversa per almeno due ragioni. In primo luogo la scelta emersa dal referendum dello scorso giugno ha messo a dura prova l’unità nazionale. Hanno votato per l’uscita dalla Ue gli elettori delle regioni meno moderne e più ostili alle comunità straniere; hanno votato per rimanere i giovani, i cittadini di Londra, gli esponenti di una Inghilterra cosmopolita e dinamica. Non basta: il voto del referendum ha messo in luce l’esistenza di un Regno Disunito in cui la Scozia e l’Irlanda del Nord preferiscono conservare uno stretto rapporto con l’Europa continentale. Più recentemente la Corte Suprema del Regno Unito ha costretto il governo a rivedere la sua tabella di marcia e a interpellare il Parlamento di Westminster prima di avviare la procedura per la uscita dalla Ue. Ma non ha concesso gli stessi diritti al Parlamento scozzese e a quello della Irlanda del Nord: una sentenza che rafforzerà probabilmente i sentimenti separatisti delle due nazioni. In secondo luogo Theresa May spera di compensare i possibili danni economici provocati dalla rinuncia al Mercato unico con una politica di larga apertura commerciale. Il viaggio a Washington, quindi, serviva anche a creare le condizioni per un trattato commerciale con gli Stati Uniti che sarebbe divenuto il modello di altri trattati da stipulare con l’Ue e le maggiori aree commerciali del mondo. Ma i trattati commerciali, come è stato ricordato recentemente dal «New York Times», sono fatti di reciproche concessioni e aperture. Resta da vedere quale accordo possa essere stipulato con un presidente isolazionista e protezionista come quello che siede oggi alla Casa Bianca. L’Europa, in questa situazione, ha interesse ad andare per la sua strada il più rapidamente possibile verso altri obiettivi unitari, senza troppo preoccuparsi di ciò che la Gran Bretagna farà nei prossimi anni. Pag 28 L’illusione dell’uomo forte che tratta con le aziende di Roger Abravanel Le tv di mezzo mondo hanno mostrato le immagini di Trump con i capi delle aziende automobilistiche americane, mentre discutevano un probabile deal in base al quale offrirebbe agevolazioni fiscali in cambio di maggiori produzioni in Usa. Il nostro Sergio Marchionne sta considerando di investire 1 miliardo di dollari (neanche tanto: 300 dollari per vettura) in cambio di riduzione di tasse e magari anche di un aiuto con l’Epa (l’agenzia per la protezione dell’ambiente) che sta tartassando Fca sulle emissioni diesel. Trump non è il solo. Theresa May sta probabilmente offrendo incentivi simili ai capi delle grandi banche internazionali se lasciano i loro quartier generali nella Londra del dopo-Brexit. Questo rapporto di deals basati su minacce, ritorsioni e compensazioni è stato

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abbastanza raro negli Usa, al punto che fa ancora storia la guerra tra Kennedy e la Bethlehem Steel nel 1961, quando JFK obbligò i produttori di acciaio a non alzare i prezzi, bloccando gli acquisti di acciaio nazionali della Difesa americana. Meno raro è stato da noi. Silvio Berlusconi ha organizzato un grande deal sull’Alitalia, in questi giorni emulato da un rinnovato attivismo del governo attuale sulla compagnia di bandiera. E hanno fatto sorridere i tentativi (un po’ patetici) di diversi politici di presentarsi come i campioni della italianità di Mediaset nella scalata di Vivendi. Perché succede? Perché il politico «forte» piace agli elettori che amano vedere un premier che chiama i potenti capi delle imprese, fa la voce grossa, li minaccia e poi li costringe ad accettare le sue richieste. Per questo Trump e Putin sono oggi osannati dai politici di ogni colore, tra cui Beppe Grillo. Non bisogna stupirsi che ciò avvenga. La gente comune che legge che metà della ricchezza è detenuta dall’1% della popolazione e che le banche sono salvate senza che nessun banchiere o grande debitore paghi, ha la chiara sensazione che le elite politico-finanziarie si sono messe d’accordo per proteggersi a vicenda e arricchirsi ancora di più a danno dei cittadini. E in Italia , dove la crisi ha falcidiato i redditi più che altrove e i «salotti buoni» hanno fatto la storia economica del Paese, il sospetto è ancora più forte che all’estero. Per questo alla gente piace l’uomo «forte» in politica, che piega i potenti delle aziende agli interessi della gente comune e delle piccole imprese («hire american», «buy American», «tv italiana»). I liberal di tutto il mondo accusano Trump e i suoi emulatori di «populismo», ricordando che la globalizzazione ha reso tutti più ricchi e che il protezionismo va contro lo sviluppo, ma nessuno spiega perché i «deals» del politico «forte» sono una grande bufala. Lo sono innanzitutto perché gli accordi tra un’impresa e uno Stato, quando lo Stato è quello di un Paese grande, fanno notizia ma sono poca cosa per l’economia. Bill Clinton ha creato 21 milioni di posti di lavoro e Barack Obama 15. Lo strombazzato accordo tra il neoeletto Trump e la Carrier ne ha salvati 300. Per fare lo stesso ritmo di creazione di posti di lavoro, servirebbero 15 accordi così al giorno, sabati e domeniche compresi. E gli esuberi dell’Alitalia? 1.600, quando in Italia ogni anno trovano (e perdono) il lavoro 10 milioni di persone. Bisogna poi considerare che, se le aziende hanno a cuore i profitti, ai politici interessa solo apparire sui giornali facendo bella figura con i lettori /elettori; ci guadagnano entrambi, ma nessuno evidenzia il costo per la collettività (più deficit perché si incassano meno tasse o prezzi più alti di prodotti prima importati e adesso «made in Usa»). E allora? La politica non deve fare deals con le aziende ma solo regolarle. Per proteggere la concorrenza (e l’evidenza è che i megamerger tra aziende e i colossi della new economy la stiano riducendo). Per proteggere i consumatori e non solo i lavoratori. Per proteggere l’ambiente. Per formare i lavoratori di domani con le scuole giuste. Così è stato nel secolo scorso e così deve essere nel XXI, solo che adesso è tutto più difficile e non solo per via della globalizzazione. Ne è stato un esempio la crisi della «finanza senza regole» che invece le regole le aveva, solo che erano sbagliate. Il politico giusto del XXI secolo sarà quello capace di avere mandati lunghi per sviluppare e attuare regole difficili e legittimarle agli elettori, non l’«uomo forte» che fa i deals con le aziende. LA REPUBBLICA Pag 1 Avanti, verso il passato di Ilvo Diamanti In meno di due mesi è cambiato molto, se non tutto, nel sistema politico italiano. Quantomeno, sono cambiati il percorso e le destinazioni che lo orientavano. Fino a pochi mesi fa si marciava verso un bicameralismo, finalmente, imperfetto. Con un Senato ridimensionato. Con poteri limitati. A sostegno di una democrazia maggioritaria e "personalizzata", per effetto dell'Italicum, una legge elettorale a doppio turno. Che, nella versione originaria, prevedeva un ballottaggio fra i primi due partiti, nel caso, probabile, che nessuno superasse la soglia del 40% al primo turno. Si trattava della soluzione finale del percorso "renziano". Passato attraverso la "personalizzazione" del Pd e del governo. Ma negli ultimi due mesi questo "viaggio" si è interrotto. Complicato da due incidenti. Anzitutto: la bocciatura del referendum, che ha mantenuto il Senato. E, dunque, il bicameralismo. Così com' è adesso. Poi, è giunta la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l'Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio. Così, se oggi si votasse, come auspicano alcuni leader e alcuni partiti, ci troveremmo (troveremo?) in una prospettiva, a dir poco, confusa. Senza maggioranze né leadership

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precise. Perché questi passaggi a vuoto hanno complicato - se non compromesso - il progetto renziano della personalizzazione dei partiti e del governo. D' altronde, Matteo Renzi, per primo, è stato "sconfitto", insieme al referendum. Un referendum, peraltro, senza "vincitori". Perché mentre i Sì sono, in larga misura, riconducibili al Premier (precedente), i No avevano - e hanno - molti volti. Molti riferimenti politici. Largamente incompatibili. In altri termini, il referendum ha espresso una larga maggioranza anti-renziana. Ma la minoranza renziana appare, senza dubbio, la più coerente e identificata. E, in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria. Comunque, il soggetto maggiormente dotato di capacità coalizionale, in un contesto politico e istituzionale che imporrà mediazioni e alleanze, dato che non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno. Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall' appannarsi della prospettiva "personale". Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono, semmai, il ritorno dei "partiti", come ha suggerito, con qualche ironia, Giuliano Ferrara, intervistato dall' Unità. D'altra parte, gli "uomini forti" oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli. Lontani dalla società e dal territorio. Il Pd, in particolare. Erede e confluenza dei due partiti di massa. Appare sempre più diviso, all'interno. Il malessere delle componenti di sinistra è palese. Espresso, come altre volte, da Massimo D' Alema. D'altra parte, il "radicamento" del Pd nella società e nel territorio declina. I suoi iscritti sono in calo sensibile. Da anni. Anche (forse, tanto più) vicino alle "radici". Nelle zone di forza tradizionali. In Emilia Romagna, negli ultimi tre anni gli iscritti si sono dimezzati. Erano 76 mila del 2013. Nel dicembre 2016 si sono ridotti a 37mila. D' altronde, non è solo un problema italiano. La Sinistra "riformista" è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un'intervista su Le Monde. In Francia, anzitutto, dove, in vista delle presidenziali, il Ps non mai apparso tanto debole, nelle stime elettorali. Stretto fra la Sinistra di Mélenchon e il Centro di Macron. Ma anche altrove. In Germania, in Spagna. E, ovviamente, in Gran Bretagna. Quanto agli altri soggetti politici in campo, il M5s è, per (auto)definizione, un non-partito. Meglio, un "partito-non-partito". Forza Italia, idealtipo del "partito personale", si è afflosciata, dopo il declino del suo "capo". E la Lega, il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa, è cambiata profondamente. Si è, a sua volta, personalizzata e, con fatica, insegue la prospettiva di una Destra lepenista-nazionale. Non è un caso che a guidare il governo, oggi, sia Paolo Gentiloni. Un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare. Lontano dall' icona del Capo, oggi di moda. Così, in vista di possibili, prossimi, appuntamenti elettorali, dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti. Dis-organizzati e poco radicati. Anzi, s-radicati nella società e sul territorio. E mentre si cerca - e insegue - un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti. I modelli, positivi e negativi, di conseguenza, vengono cercati altrove. Soprattutto, negli Usa. Da noi, però, non c' è un Trump - per fortuna, aggiungo. Ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste. Così, due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato. IL GAZZETTINO Pag 1 Donald e la pericolosa ansia da prestazione di Massimo Teodori A qualcuno può sembrare che gli ordini esecutivi di Trump per la sospensione dei visti d’ingresso ai cittadini di sette paesi islamici e lo screening degli immigrati rispondano a un criterio di efficienza e rapidità nella lotta al terrorismo. Ma, in realtà, non è affatto così. Già in queste ore i giudici federali di New York e altre città hanno dichiarato nullo il provvedimento di espulsione degli immigrati bloccati negli aeroporti, e tutto lascia pensare che sentenze simili saranno pronunziate nei prossimi giorni. Si ha così la sensazione che le precipitose misure presidenziali hanno per lo più un carattere dimostrativo mirato a soddisfare le promesse elettorali, mentre producono l’effetto di aprire una brutta pagina per l’immagine dell’America nel mondo. Perfino lo specifico obiettivo antiterroristico appare aleatorio. Infatti gli atti dei terroristi islamisti all'interno degli Stati Uniti non sono stati fin qui compiuti da esterni ma da cittadini residenti, e nella lista dei cittadini esclusi dall'ingresso in terra americana non figurano quelli

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dell'Arabia saudita, il paese che maggiormente ha alimentato il terrorismo. Paradossalmente vengono invece colpiti gli iraniani di fede sciita che sono i principali nemici dell'Isis d'origine sunnita. Il maggiore danno provocato da Trump, oltre alla disperazione di migliaia di persone che avevano le carte in regola per l'immigrazione, consiste tuttavia nell'annullamento della tradizione dell'America come società aperta, pronta ad accogliere senza discriminazione di razza e religione tutti coloro che aspirano ad approdare nella patria della libertà e della democrazia. Gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati senza i quali lo stesso sviluppo della moderna repubblica non avrebbe avuto luogo. Ed è noto che tuttora molti immigrati, anche dell'ultima generazione, siano essi islamici o ispanici, orientali o europei, ebrei o indiani, sono alla testa di grandi aziende, di centri di ricerca, di dipartimenti universitari e delle straordinarie corporations informatiche che fanno il futuro dell'America. Anche noi italiani continuiamo ad esportare oltreatlantico i migliori ingegni giovanili che conquistano posizioni eminenti in molti settori della vita sociale, economica e culturale senza dovere sottostare a trafile burocratiche. Gli ordini presidenziali di Trump sull'immigrazione, dopo quelli sul muro con il Messico e sull'Obamacare, stanno già avendo un effetto negativo sia all'interno che all'estero. Per la legge sui diritti civili del 1965, ora applicata dai giudici federali che hanno emesso le sentenze per far entrare in territorio americano le persone bloccate negli aeroporti, è illegale qualsiasi discriminazione nei visti d'ingresso per ragioni di sesso, nazionalità, luogo di nascita e residenza. Dopo le recentissime sentenze, vi saranno molte azioni legali che renderanno vani anche altri ordini esecutivi del presidente. Reazioni negative si stanno già manifestando in altri paesi, soprattutto tra gli alleati storici degli Stati Uniti. L'America da paese leader delle liberalizzazioni e fondatore degli organismi internazionali rischia così di divenire la nazione di retroguardia abbarbicata a posizioni isolazionistiche e protezionistiche che in altri tempi non hanno portato a nulla di buono. La svalutazione dei trattati politici, commerciali e militari proprio da parte di chi li ha promossi, rischia di provocare il rafforzamento delle forze radicali nei paesi islamici a cominciare dall'Iran, oltre alla rinascita nel mondo della mala pianta dell'antiamericanismo. Donald Trump con la raffica degli ordini presidenziali sembra muoversi non come il presidente di una repubblica liberale in cui gli atti del legislativo e dell'esecutivo, compresi gli ordini esecutivi sono sottoposti al vaglio delle leggi e dei principi costituzionali, ma come il capo di una repubblica autoritaria che esercita i pieni poteri senza alcun limite e controllo. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Frammenti di politica estera di Angelo Panebianco Partiti e alleanze I giochi sono ormai chiusi. Siamo tornati, dopo un giro durato quasi un quarto di secolo, alla casella di partenza. L’esito del referendum e la sentenza della Corte sulla legge elettorale fanno rinascere la «democrazia proporzionale» in stile italiano: le alleanze di governo si decidono dopo il voto, mai prima e i governi che si formano sono fragili, incoerenti, soggetti ai ricatti quotidiani dei vari gruppi parlamentari (opposizioni comprese), per lo più di vita breve. Quella forma di governo ci accompagnò per tutta la Guerra fredda e solo la sua fine ci permise di abbandonarla. È utile confrontare le condizioni internazionali del momento (primi anni Novanta) in cui ci sbarazzammo della democrazia proporzionale con quelle di oggi, mentre indossiamo di nuovo quel logoro vestito. E cercare di capire come potrà una democrazia siffatta fronteggiare le sfide internazionali che ci aspettano: sarà in grado di condurre una politica estera efficace, saprà tenere a galla la barca in quell’oceano in tempesta che è oggi il mondo esterno? Fu il cambiamento internazionale a imporci all’inizio degli anni Novanta l’abbandono della proporzionale e l’avvio di un tentativo (riuscito solo parzialmente) di creare una democrazia maggioritaria. Il muro di Berlino non era caduto solo in testa ai comunisti italiani obbligandoli a cambiare «ragione sociale», era caduto addosso al nostro intero sistema politico. Quel sistema politico era stato forgiato dalla Guerra fredda (la contrapposizione fra comunisti e anticomunisti) e non potè resistere alla sua

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conclusione. Finita la politica dei blocchi voltammo pagina. Era anche chiaro a molti che entrando in una fase internazionale più complicata e turbolenta della precedente, occorreva cambiare spartito, era richiesta molta più concentrazione del potere nelle mani del governo (del capo del governo): esattamente ciò che si verifica nelle democrazie maggioritarie. Questo perché, in un mondo internazionale instabile, occorrono mani salde per condurre una politica estera efficace. All’epoca della Guerra fredda, pur nel quadro di stabili alleanze, avevamo una politica estera spesso oscillante e incerta (soggetta alle spinte e alle controspinte interne alle coalizioni di governo, soprattutto alle lotte di corrente entro il partito dominante, la Democrazia Cristiana). La stabilità del quadro internazionale lo consentiva: finita quella stabilità non ci potevamo più permettere troppe oscillazioni e incertezze. Realizzammo però una democrazia maggioritaria assai imperfetta. La competizione partitica diventò bipolare, si ebbe anche una maggiore concentrazione del potere nelle mani del governo ma, sia per la frammentazione delle coalizioni sia per il fatto che non ci fu un mutamento della Costituzione in grado di dare più forza istituzionale agli esecutivi, non fu possibile fare di più. Il tentativo di perfezionare e stabilizzare la democrazia maggioritaria, dopo un quarto di secolo, è fallito. Ritorniamo, per contraccolpo, alla democrazia proporzionale. Ma lo facciamo in un mondo internazionale che non si è stabilizzato, anzi. Il disordine del sistema internazionale è in crescita. Sta finendo la Pax americana, dal Medio Oriente vengono minacce mortali, l’Unione Europea è a rischio di dissoluzione, la Russia di Putin incombe. Non è difficile immaginare cosa comporterà per noi la combinazione fra il ritorno della democrazia proporzionale e l’aumento del disordine mondiale. Le varie fazioni, anche entro le coalizioni di governo, si sceglieranno differenti referenti esteri. C’è da aspettarsi conflitti fra amici e nemici della Russia, fra amici e nemici degli americani, fra europeisti e antieuropeisti, fra i fautori di diverse ricette per fronteggiare la crisi medi-orientale. Mentre i primi ministri - per definizione deboli nella democrazia proporzionale - faticheranno a imporre linee di azione unitarie ed efficaci. La situazione, peraltro, è più grave rispetto ai tempi della Guerra fredda. Allora non c’erano soltanto un quadro internazionale stabile e sistemi di alleanza bloccati. C’erano anche partiti politici solidi che contenevano, almeno entro certi limiti, le oscillazioni e le incertezze della nostra politica estera a loro volta generate dalla conflittualità entro le coalizioni di governo. Quei partiti solidi oggi non ci sono. Né mai torneranno. Ci aspetta un futuro di frammentazione partitica. L’economia italiana è terra di conquista per le imprese straniere. Ciò deve essere accettato da chi crede nel libero mercato. Molto meno accettabile sarà invece lo «shopping politico», le pressioni che gli altri governi eserciteranno (anche con finanziamenti ad hoc) su varie fazioni italiane. Con gli ostacoli che ciò porrà a una conduzione efficace della politica estera. All’epoca della competizione fra Usa e Urss, la democrazia proporzionale fece il miracolo di fare coesistere comunisti e anticomunisti, rispettivamente alleati dei due blocchi contrapposti. La rinata democrazia proporzionale, in un quadro internazionale molto più confuso, vedrà proliferare, presumibilmente, le connessioni estere delle varie fazioni. Speriamo che qualcuno, nella classe politica, si ponga il problema di come limitare i danni. Pag 1 Le promesse subito attuate di Massimo Gaggi Trump, le scelte e le incognite È bastata una settimana a Trump per demolire l’eredità di Obama, con i provvedimenti su sanità e immigrazione. Quando la polvere si depositerà dovremo prendere atto che d’ora in poi avremo a che fare con uno stile di governo e con un’America molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Donald Trump a passo di carica e America sull’ottovolante nella prima settimana della nuova presidenza. Alle raffiche di tweet sparati a tutte le ore che non sono cessati né sono diventati meno aggressivi col trasloco dell’imprenditore miliardario alla Casa Bianca, si è sommata l’onda degli ordini esecutivi presidenziali coi quali è stata avviata la sistematica demolizione di quanto fatto da Obama negli ultimi otto anni, dalla sanità all’immigrazione. Una settimana avvolta in un gran polverone sollevato dagli scontri quotidiani con la stampa, dall’estrema suscettibilità di un presidente ossessionato dalla sua immagine, dall’improvvisazione di alcune misure apparse subito di difficile applicazione o con un impatto negativo: dal conflitto col Messico, un partner e alleato essenziale, agli iracheni che hanno servito gli

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Stati Uniti bloccati ieri al loro arrivo in America per effetto dei nuovi ordini di Trump sull’immigrazione dai Paesi islamici. Quando la polvere si depositerà dovremo, però, prendere atto che d’ora in poi avremo a che fare con uno stile di governo e con un’America molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni perché Trump, dopo averci sorpreso vincendo le primarie e poi le elezioni, ci sta sorprendendo per la terza volta dando attuazione (o almeno provandoci) alle promesse fatte al suo elettorato durante la campagna per le presidenziali, comprese quelle più estreme. Difficile dire dove tutto questo porterà a livello di relazioni internazionali: dipenderà dalla velocità e profondità dell’alterazione, già iniziata, degli equilibri mondiali attuali, costruiti proprio con la regia americana. E bisognerà vedere quali saranno le reazioni dei Paesi che Trump mostra di voler contrastare con una contrapposizione muscolare, Cina in testa. Ma una cosa è chiara: Trump, capo di un Paese che rimane molto potente militarmente e anche commercialmente per la vastità del suo mercato, ma con gran parte della popolazione che si è impoverita negli ultimi decenni, è convinto che il mondo sta beneficiando di una generosità - import senza limiti e «ombrello» difensivo per gli alleati - che gli Stati Uniti non sono più in grado di finanziare. Ed è deciso a cambiare questa situazione a partire dalla sostituzione del libero scambio dell’era della globalizzazione, con accordi bilaterali nei quali far pesare di più la forza del mercato Usa. Le incognite sono, ovviamente, molte: dal rischio che tutto questo inneschi una nuova ondata di antiamericanismo, ai dubbi sull’efficacia delle mosse di Trump che non ha esperienza di governo e ha firmato ordini esecutivi senza consultare le agenzie federali competenti per verificarne la praticabilità. Sullo sfondo, poi, la questione del rapporto col Congresso repubblicano: Trump lo ha già messo sotto pressione e lui per ora applaude anche misure che non condivide. «Il presidente - dice il repubblicano Jason Chaffetz, presidente della Commissione Riforme della Camera - è un imprenditore che vuole tutto e subito, come in azienda. La politica non funziona così: si renderà conto che è capo di un’azienda con 535 consiglieri d’amministrazione». Pag 26 La retorica dell’uomo forte e gli errori da non ripetere di Giuseppe De Rita Il tema dell’uomo forte è vecchio e senza sbocco. Non sono riuscito a capire perché nei giorni scorsi sia riesplosa sui giornali la segnalazione di una diffusa domanda di una intensa decisionalità politica, fino a riproporre l’ipotesi dell’esigenza di un «uomo forte». Il tono usato dalla stampa, con l’impegno di direttori, giornalisti, sondaggisti e commentatori, mi è sembrato molto funzionale a rendere attrattiva l’ipotesi. Ma mi è difficile sfuggire alla sensazione che il tema sia decisamente vecchio; e che vecchie siano le considerazioni usate per rimetterlo all’onor del mondo, magari richiamando quanto una offerta politica aggressiva sembra vincente in altri Paesi (dagli Usa di Donald Trump alla Russia di Vladimir Putin). È un tema certo di moda, ma mi spingo a dire che è vecchio e senza sbocco. Non soltanto perché siamo usciti di recente da una non felice governance personalizzata e verticalizzata (resta comunque la fila per riprovarci); ma specialmente per due ragioni più profonde: vedo infatti usato da un lato un ragionamento politico di quasi quaranta anni fa; e dall’altro una concezione dell’Italia di oggi che non ritrovo nella realtà. Si rimette anzitutto sul tavolo una filosofia di governo che risale alla comparsa sulla scena di Bettino Craxi. Ho in proposito un ricordo ancora vivido, di quando nel dicembre 1978, dopo aver discusso come il Rapporto Censis aveva trattato la tragedia Moro, mi trattenne a lungo su questo concatenato ragionamento politico: il Paese è «sfinito» dalla continua mediazione democristiana; occorre quindi perseguire un alto tasso di decisionismo; per far questo occorre una verticalizzazione delle decisioni; per tale verticalizzazione occorre una spinta personalizzazione del potere; e di conseguenza una consistente presenza mediatica. Sappiamo che Craxi «uscì dall’uscio, ma la cosa rimase»; e fa impressione ritrovare un po’ dovunque oggi le singole proposizioni linguistiche di allora (decisionalità, personalizzazione, verticalizzazione, mediatizzazione) come se fossero nuove e innervassero uno statu nascenti. Allora potevano dare spinta ad un lungo ciclo sociopolitico, oggi no, specialmente dopo che su di esse sono state costruite avventure che non hanno sfondato. E non è cinismo dire che, se una scelta non sfonda per lungo e troppo tempo, è inutile riproporla ancora. Eppure qualcuno ci prova, o ci spera, nella speranza che se nel mondo succedono cose che nessuno «aveva neppure immaginato» (la vittoria di

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Trump è l’esempio più gettonato) può accadere che un politico italiano possa ritenere che ci sia anche per lui un futuro che oggi sembra inimmaginabile. E così si tenta di applicare la logica craxiana (decisionismo, verticalizzazione, personalizzazione) ai due aspetti più drammatici delle società moderne e di quella italiana in particolare: la perdita della sovranità nazionale e la perdita dell’identità nazionale. Due problemi tanto «mostruosi» che io mi sentirei un irresponsabile se mi gettassi a coltivare o esercitare su di essi una leadership politica, magari esaltando l’orgoglio nazionale e il «sovranismo». Si tratta infatti di due concetti ambigui ed inservibili: da un lato, la sovranità in Italia è parola vuota, visto che tutti i grandi soggetti vedono slittare il proprio potere verso l’alto (le grandi strutture finanziarie sovranazionali, i trattati internazionali, gli organismi sovranazionali, ecc.) o verso il basso (gli individui e le famiglie nella crescente molecolarità del sommerso); dall’altro lato, l’esasperazione dell’identità nazionale non può avvenire senza lo sfruttamento di un ciclo di grande sviluppo e senza l’utilizzo di una efficiente macchina pubblica. Si tratta di due «fondamentali» oggi a disposizione dei grandi leader dell’attuale congiuntura internazionale, ma non mi sembrano operanti in una Italia adeguata ad essere un grande paesone, con una sua «chimica» di crogiolamento nell’esistente, nella agiata prudenza. È possibile che all’Italia non serva un uomo forte, sovranista e nazionalista, ma si abbia solo bisogno di un podestà morbidamente pre-fascista, senza l’alterigia della divisa sovranista. LA REPUBBLICA di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 La sentenza della Corte, Gentiloni e i criteri di Mattarella di Eugenio Scalfari La sentenza della Corte costituzionale ha suscitato una notevole sorpresa. È rimasto un punto soprattutto: è vietato che si facciano coalizioni tra diverse liste. Si potranno certamente fare dopo il voto ma prima no. Francamente non so se la Corte abbia rispettato il suo ruolo o sia andata oltre. Ai tempi di De Gasperi le coalizioni erano costituzionalmente praticate ed anzi erano rappresentative della vera democrazia: l’elettorato sapeva prima del voto quale fosse l’orientamento della coalizione. Anche a quei tempi e cioè nei primi anni Cinquanta, le alleanze tra partiti erano liberamente stipulate. Nel 1953 De Gasperi realizzò una coalizione che, oltre alla Dc comprendeva anche i cosiddetti partiti minori, partiti laici dai liberali ai socialdemocratici ai repubblicani. Dai sondaggi la Dc avrebbe annoverato circa il 40 per cento, i minori erano stimati al 10 per cento complessivamente. Se l’insieme della coalizione avesse ottenuto il 50 per cento più un voto avrebbe incassato un premio del 65 per cento per assicurare la governabilità. Se avesse avuto soltanto il 49,99 il premio non sarebbe stato concesso. Questo era il meccanismo elettorale. Naturalmente le alleanze tra partiti o movimenti potevano avvenire una sola volta ma con una doppia funzione: la vittoria oltre il 50 assicurava il premio di governabilità, la vittoria sotto il 50 attribuiva i seggi secondo le reali forze ottenute dagli elettori. Il vantaggio era soprattutto per fare chiarezza nel corpo elettorale. Il voto effettivo dette all’intera coalizione oltre il 49 per cento, di cui il 40 ai Dc e il resto ripartito tra i laici. Ma nonostante questo parziale insuccesso, il successo di fatto ci fu perché con il 49 per cento complessivo la coalizione tenne banco fino al 1962 poiché le altre forze erano molto diverse tra loro e non alleate: da un lato c’era la sinistra riformista e socialista che aveva rotto il patto d’unità d’azione con il Pci (il quale ovviamente aveva votato contro la Dc); a destra c’era invece l’onorevole Covelli che capitanava conservatori e monarchici. L’obiettiva coincidenza tra il voto contrario dell’estrema destra e quello altrettanto contrario tra le varie forme di sinistra sconfisse la coalizione guidata dalla Democrazia cristiana ma non riuscì ad impedirle di governare insieme ai suoi alleati fino al 1962 quando l’onorevole Fanfani presiedette un governo che fu il primo del centrosinistra: il Partito socialista appoggiava il governo ma non ne faceva parte. Le convergenze parallele durarono poco più di un anno, poi cedettero il posto ad un nuovo governo formato da Aldo Moro e dai socialisti del quale Pietro Nenni fu vicepresidente, Emilio Colombo ministro del Tesoro, Antonio Giolitti del Bilancio. Per bilanciare questo ingresso Moro aveva a suo tempo favorito la nomina di Antonio Segni alla presidenza della Repubblica dove durò non molto poiché un suo malore non gli consentì di proseguire ed a lui subentrò il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Nel decennio precedente il governo presieduto da De Gasperi aveva governato con la proporzionale dominata dalla Dc. Il modello proporzionale caratterizzò dunque tutta la

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Prima Repubblica senza premi di sorta ma semplicemente per il fatto che i comunisti erano nel ghetto politico del loro accordo con Mosca e il resto dell’opposizione era frammentata fra piccole formazioni di estrema destra. La Dc guidò dal ’48 in poi con diverse alleanze: prima i minori laici, poi i socialisti del Psi, infine perfino con il Pci di Enrico Berlinguer il quale non entrò nel governo ma lo appoggiò soprattutto quando le Brigate rosse cominciarono il loro percorso e continuò anche dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, e si estinse poco dopo. La sentenza della Corte costituzionale ha cancellato il ballottaggio ma questa è in realtà la sola anche se molto importante decisione. Ci sono alcune forze politiche che vogliono votare immediatamente. Sono soprattutto i grillini che non amano esser chiamati così per non sembrare un partito succube di un personaggio il quale tuttavia, insieme al Casaleggio jr, è il proprietario del partito. Dico proprietario in senso tecnico e come tale riconosciuto dal suo stato maggiore che del resto si compone di pochi, anzi pochissimi, dirigenti, quattro o cinque che conoscono benissimo la realtà e ci si adattano. Vanno a caccia di voti e quindi di potere, sia pure subordinati alla coppia proprietaria. Di qui alcune diffidenze ed anche alcuni successi che recentemente sono avvenuti a Torino e a Roma. I grillini o cinquestellati che dir si voglia vogliono elezioni immediate. Non importa con quale legge elettorale e non importa se, dopo la sentenza della Corte, essa sia in armonia o meno con il Senato. L’esistenza dei cinquestellati configura un sistema tripolare dove è il terzo che detta la legge a meno che il primo non abbia raggiunto il 40 per cento con relativo premio lasciato in piedi dalla sentenza della Corte. La stessa situazione è condivisa dalla Lega di Salvini la quale è antieuropea, antiimmigrati e dominante nei Comuni di gran parte dell’Italia settentrionale e governa due Regioni tra le più importanti del Paese: Lombardia e Veneto. Un’alleanza eventuale e naturalmente post-elettorale tra Salvini e Meloni con i cinquestellati è molto probabile ma neanche quella raggiungerebbe la maggioranza assoluta qualora si andasse immediatamente al voto. Quanto a Renzi e al suo partito la situazione è alquanto più complessa. Renzi vorrebbe votare a giugno o al più tardi ad ottobre e naturalmente auspica di farlo con il pieno accordo di Gentiloni. Al momento del voto il premier dovrebbe dare spontaneamente le dimissioni e tornare al servizio del suo partito e quindi di Renzi che potrebbe compensarlo in modo adeguato probabilmente affidandogli una carica importante in Europa o nel partito stesso in nome e con l’appoggio del quale ha governato. Che tutto ciò accada è possibile ma non sicurissimo. Gentiloni sta esercitando il suo ruolo in modo molto scrupoloso. Va dovunque, nei paesi colpiti e devastati dal terremoto e dalle valanghe, in Europa dalle autorità che la guidano con la Commissione di Bruxelles, si incontra con il premier greco, con quello spagnolo, con quello francese. In questi giorni ha visto a lungo Merkel e si trovano assai d’accordo. Più volte lo stesso Gentiloni ha detto che lui sta pensando alle cose da fare e lascia agli altri le manovre e le strategie che le ispirano. Lui non pensa alle strategie ma fa il presidente del Consiglio e naturalmente adotta le direttive del presidente della Repubblica il quale, pur limitandosi alle prerogative che la sua carica gli riconosce, ha di mira la fine della legislatura nel 2018, essendo pienamente consapevole che elezioni fatte prima lascerebbero il Paese in uno stato di molto discutibile governabilità. Che gli piaccia o no, Gentiloni sta in qualche modo adottando i criteri di Sergio Mattarella. Non è ancora chiaro se se ne andrà quando Renzi glielo chiederà, è probabile ma incerto; molti sostengono che l’incertezza è assoluta. Si vedrà entro le prossime settimane. A parte la riforma elettorale esistono molte altre questioni politiche, economiche, sociali, sindacali. Esiste il tema dei terremotati. Esistono poi questioni fiscali di non lieve entità per quanto riguarda la crescita del debito e dello spread. Esiste anche un recente intervento di papa Francesco sul tema della unità cristiana e del Dio unico che dovrebbe affratellare la Chiesa cattolica con i cristiani non cattolici cercandone l’unità e l’affratellamento con ebrei e musulmani nel nome del Dio unico. Mi permetto di fare un’aggiunta personale che citai in un mio libro una decina di anni fa e che è sempre più attuale. Si narrava, anzi lo narra lui stesso, che Denis Diderot il pomeriggio verso le cinque andava a sedersi su una panchina nei giardini del Palace Royal e pensava alle cento cose che gli venivano in mente. I pensieri si alternavano l’uno all’altro e lui non riusciva a capirne il perché. Nel frattempo vedeva in fondo ai cancelli d’ingresso nel giardino molte ragazze di vita (così si diceva allora) che agganciavano i clienti casuali e stavano con loro per una mezz’ora, poi tornavano e ne agganciavano altri e questo spettacolo durava più o meno tutto il pomeriggio. Diderot guardava questo traffico e

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raccontandolo agli amici collaboratori con l’Encyclopédie disse con aria al tempo stesso ironica e sconsolata: «Mes pensées sont mes putains». Capita anche a me di avere pensieri che vanno e vengono come le puttane ed anche a me capita d’essere allegro o sconsolato. Anzi di spirito malinconico. Mi vengono in mente le canzoni del Cavalcanti alla sua bella e le Lezioni americane del carissimo Italo Calvino. E La casa dei doganieri di Eugenio Montale ed infine l’Alcyone di Gabriele D’Annunzio. Malinconico, ma in buona compagnia. Ora, tornando all’attualità, dirò soltanto quel che penso delle future elezioni e di ciò che ruota intorno a questo tema. Grillo vuole subito le elezioni e Matteo Salvini ( con la Meloni) altrettanto. E la legge elettorale? Per Grillo l’obiettivo sono elezioni immediate. E va bene anche la legge prodotta dalla Consulta. Il Senato ha un suo assetto in piena disarmonia con la Camera dei deputati? E chissenefrega. Grillo e la Lega se ne infischiano. Semmai si alleeranno dopo affinché rimanga un sistema triplice che favorisce chi è l’ultimo arrivato che poi può diventare il primo. Nel tripolare è il terzo che ha sempre la meglio. Torino insegna. Grillo poi è un caso eccezionale, in parte analogo a quello di Donald Trump. Sono non solo i capipopolo ma ( nel caso di Trump) anche i capi del governo, all’interno del quale fanno quel che vogliono. Capipopolo e capi di governo. Possono cambiare la politica del governo purché restino capipopolo. Questo è il punto. Ma a Grillo non serve neppure questo, perché lui è pure sì capopolo, ma soprattutto è proprietario del movimento. È lui che decide come si è visto in Europa con Farage. Non si era mai visto un caso simile né in Italia né nel mondo occidentale. Esiste nell’Africa centrale, in tutta la fascia che va dall’Atlantico all’oceano Indiano. Lì il potere è in mano ai capitribù che comandano, fanno soldi e ammazzano gli oppositori. Il caso di Grillo per fortuna non è affatto sanguinario anzi è gentile, gli altri dirigenti sono pochi e sono lieti di partecipare al potere. Draghi è stato insignito del premo Cavour. Il discorso del presidente della Bce è diventato estremamente importante perché non parlava come presidente della Bce ma come italiano e cavouriano. Quindi liberale in patria. Draghi ha messo l’accento sulla produttività e in piccola parte la si deve anche ai lavoratori dipendenti ma soprattutto agli imprenditori i quali debbono aggiornare i metodi di produzione sia tecnicamente e sia come politica economica, bancaria, sociale. Debbono offrire nuovi prodotti o migliorare profondamente quelli già esistenti e debbono soprattutto puntare sulla maggiore domanda dei consumatori e sulla migliore offerta degli imprenditori con particolare attenzione alle diseguaglianze che dominano in tutto l’Occidente ma in particolare nel nostro Paese. In passato, personalmente, ho anch’io affrontato questo problema raccomandando un forte taglio del cuneo fiscale, di almeno il 25 per cento ma anche più basso intorno al 15 con l’impegno del governo di applicarne un ulteriore aumento anno per anno. Draghi non ha usato la parola cuneo fiscale ma qualche cosa di simile, soprattutto con la sua insistenza sulla lotta contro le diseguaglianze e contro il lavoro nero. Per quanto riguarda l’Europa ricordiamo che Draghi ha sempre voluto un ministro del Tesoro unico e raccomanda ora all’Italia una presenza europea sulla disciplina delle quote di immigrazione. Che sia soprattutto attuata congiuntamente da Italia, Grecia, Spagna, Francia e Germania. In particolare la Germania la quale, qualora Merkel riuscisse a vincere le elezioni, dovrebbe farsi carico di un’Europa che punti finalmente e veramente su una federazione. Draghi ovvviamente non è stato così esplicito ma il succo del suo discorso è quello poiché anche lui ha sempre puntato su un continente sovrano, indispensabile in una società globale. Vengo ora a papa Francesco che ha parlato lungamente di San Paolo e della seconda Lettera ai Corinzi. Citando le seguenti frasi scritte in quella lettera: “L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione. Non si tratta del nostro amore per Cristo ma dell’amore che Cristo ha per noi. La parola di Dio ci incoraggia a trarre forza dalla memoria, a ricordare il bene ricevuto dal Signore; ma ci chiede ancora di lasciarci alle spalle il passato per seguire Gesù nell’oggi e vivere una vita nuova in lui”. San Paolo sottolinea in quella lettera che i cristiani non debbono mai basarsi sulle mode del momento ma cercare la via pensando sempre alla riconciliazione di tutte le religioni a cominciare da quelle cristiane ma anche a quella ebraica e a quella musulmana. Integrazione e mai divisione: questo è quanto Francesco esorta, e in tutti i modi pratica nella sua vita. AVVENIRE di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Infame è il marchio di Marco Tarquinio I gesti di Trump, un incubo che torna

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Donald J. Trump sa che cosa vuole e chi non vuole sulla sua strada. Vuole un mondo che nessuno si azzardi a pensare come «casa comune» da difendere, da usare e da continuare a costruire insieme: il grido di battaglia è «ognun per sé», Stati e persone. Non vuole nel suo Paese, pur costruito dai migranti di tutto il mondo, una serie di persone che considera indesiderabili o, come ha proclamato ieri, «pericolose»: dai rifugiati, lavoratori e persino turisti di religione islamica sunnita e sciita ai migranti latino americani prevalentemente di religione cristiano cattolica (nel primo caso la discriminazione religiosa è esplicita, nel secondo è implicita e si mescola ad altri elementi ugualmente preoccupanti). Sta decidendo di conseguenza, il nuovo capo della Casa Bianca. Costruisce ogni giorno nuovi 'muri', materiali e ideali, commerciali e politici, culturali e religiosi. E si è persuaso che il «prezzo» di tutte queste barriere debba ricadere su quelli dell’«altra parte»: abitanti, emigranti, mercanti, governanti, credenti... Si sbaglia. Non sarà così, e non solo perché nessuno può e deve mettere arrogantemente le mani nelle tasche degli altri, ma perché il prezzo delle ingiustizie, prima o poi, lo pagano tutti, non solo i più deboli. Per intanto, però, il presidente Usa tira diritto. Confeziona persino «marchi» d’infamia verso popoli, comunità, etnie e organizzazioni sovrannazionali e li mette in circolazione con la potenza mediatica della parola dell’«uomo più potente del mondo». La questione è gravissima, e costa persino evocarla per gli echi terribili che scatena. Ma è inevitabile. Certo, potrebbe essere consolante pensare che si tratti solo di un pirotecnico spettacolo d’inizio mandato, ma non lasciano spazio a molte illusioni le aspre 'parole di disordine' – protezioniste, anti-umanitarie e contrarie a ogni «concerto delle nazioni» – che Trump continua a lanciare e che si vanno accumulando e insediando nei dibattiti politici non solo d’oltre Atlantico e alimentano i nuovi rivoli d’antagonismo e d’odio che hanno preso a scorrere in ogni dove. Come se non bastassero quelli ingrossati dalla propaganda dei fondamentalisti jihadisti... È infatti convinto, Trump, di sapere perfettamente l’effetto che tutto questo farà: la 'sua' America (che non è tutta l’America, ma nel Nuovo Mondo è dominante da circa due secoli) sarà più che mai 'prima' a livello globale: più ricca, più forte, più sicura. Fiat 'great America' et pereat mundus. Si sbaglia ancora una volta. E ce ne accorgeremo tutti, sperabilmente presto. Nessuno si salva da solo, neanche la superpotenza Usa. E non si rimedia ai guasti del lato oscuro della globalizzazione chiudendosi in recinti per (presunti) ricchi e recintando i poveri nelle loro sventure di miseria e di guerra. Anche nello sviluppato Nord del mondo – negli States come in Italia – i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi. Mentre nei troppi e derelitti Sud del mondo la caparbia e repulsiva «avarizia» dei pre-potenti di questo passo finirà davvero per suscitare – secondo la profetica constatazione di Paolo VI, scandita mezzo secolo fa nell’enciclica Populorum Progressio – «il giudizio di Dio e la collera dei poveri». Non bisogna nominare il nome di Dio invano. E allora è bene tornare su un punto già toccato e sulle argomentazioni usate ieri dal presidente Trump per decretare la porta chiusa in faccia per alcuni mesi ai richiedenti asilo, ma anche a lavoratori (addirittura con il permesso permanente, la famosa green card), di fede islamica provenienti da sette Stati, tutti Paesi d’Africa e Asia piagati dalla guerra tranne uno, l’Iran. La cosa che colpisce di più è che colui che è stato eletto a capo della prima e più grande democrazia d’Occidente si sta così mettendo, oggi, su un piano sinora proprio del califfo nero di Raqqa. Il marchio di identificazione e di rifiuto degli «islamici» idealmente impresso per ordine di Trump sul passaporto di una persona in fuga dalla Siria e dall’Iraq o dallo Yemen o dalla Somalia somiglia maledettamente alla «n» araba di nasara, nazzareno, imposta per ordine di al-Baghdadi sulle case dei cristiani di Mosul. Somiglia non è uguale. Perché gli Usa, così, rifiutano accoglienza, aiuto, la possibilità di una nuova vita a coloro che sono costretti a lasciare la propria terra e lo fanno in base a un’appartenenza religiosa di gruppo, non a una qualche colpa personale. E perché, invece, nel Siraq sotto il califfato islamico per i cristiani «marchiati» non è più consentita la vecchia vita, e le alternative all’esilio sono la conversione, la sottomissione pagante o la morte. Il significato delle due scelte (quella di Trump provvisoria, quella dei jihadisti strutturale) è però ugualmente devastante. Se la fede e la cultura di una persona o di un gruppo di persone diventano il motivo di una discriminazione aspra e ingiusta, questo riguarda tutti, non solo i direttamente interessati. Se essere musulmano diventa un «marchio» di pericolosità e un peccato civile, se per questo la condizione di persecuzione e di miseria di un essere

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umano diventano irrilevanti, nessuno è salvo e nessuno è civilmente al sicuro, ma tutti – cristiani, ebrei, buddisti o di ogni altra tradizione e convinzione religiosa e filosofica – siamo in pericolo. Perché se non solo il mondo dei tagliagole, ma anche il mondo che si è costruito sulla cultura dei diritti fondamentali della persona umana diventasse davvero un mondo di esseri «marchiati», che in base a questo possono essere accettati e rifiutati, saremmo a un passo dall’incubo. Un incubo che abbiamo già affrontato e sconfitto. E che è assurdo possa crescere di nuovo a partire dalla «terra della libertà». Pag 2 Una città e una storia da capovolgere, ora di Maurizio Patriciello Napoli, il male per strada e nel cuore, lo Stato e noi Ho paura del male quando non fa più male. Ho paura della violenza quando non scandalizza più. Ho paura dei poveri quando non hanno più la forza di lottare, si arrendono e cadono nel fatalismo. Ho paura quando a Soccavo, quartiere popolare, Renato, un pregiudicato di 20 anni, viene massacrato a colpi di pistola tra la folla, a mezzogiorno. Se le vite sono tutte preziose, quelle dei giovani e dei bambini lo sono di più. Vedere adolescenti, ragazzi, giovani riversi in una pozza di sangue mette paura, addolora, fa rabbia. Guai a noi se perdiamo la capacità di scandalizzarci per questa guerra. Guai a noi se cediamo al fatalismo e alla rassegnazione sino a convincerci che la camorra non la sconfiggeremo mai. No, non è dei rassegnati, dei buontemponi e degli illusi che la città e la terra di Napoli hanno necessità, ma di una diagnosi seria, ponderata, fondata. Napoli ha bisogno di uomini e donne che facciano il proprio dovere con magnanimità, coraggio, severità. Ha bisogno di complicità buona tra la politica locale, regionale e nazionale dove i responsabili sappiano ascoltarsi e rispettarsi e non litigare come sta avvenendo tra il governatore e i commissari della sanità inviati dal governo. I cittadini hanno il diritto di essere tutelati. I quartieri ghetto-fortezza-dormitori hanno bisogno di essere sorvegliati: da più uomini, con maggiori risorse, con più mezzi. Chi delinque sa bene che prima o poi sarà ingoiato dal carcere o finirà ammazzato. E, vi assicuro, non vuole arrivare a tanto. C’è un’età sulla quale ancora è possibile intervenire con efficacia. Quando il delinquente è ancora novello, quando non ha ancora fatto il callo alla violenza, quando il sangue sull’asfalto ancora lo impietosisce. Quando una scintilla di bontà brucia ancora nel suo animo. Quella persona è recuperabile. Verso di lei la società ha dei doveri da osservare. Occorre intercettarla in fretta, prima che il nemico l’agguanti definitivamente. Prima che il giuramento fatto al capo la vincoli per sempre. Lo Stato, la comunità civile, deve arrivare prima. Questa è educazione, questa è prevenzione, una prevenzione che ai bambini e ai ragazzi napoletani oggi non viene assicurata. Gli agguati per le strade, in pieno giorno, continuano come se niente fosse. Ed è impensabile, inconcepibile, scandaloso che le strade di una città, di qualunque città, non siano sicure. Nel giro di pochi giorni una bambina di dieci anni è stata ferita in un mercatino rionale, un’altra di otto anni è stata scoperta mentre confezionava bustine di cocaina. Un giovane di 21 anni è rimasto ferito in un locale per difendere la sua ragazza presa in ostaggio da un pregiudicato e usata come scudo durante una sparatoria. Renato è stato ammazzato venerdì. E siamo solo al primo mese di questo anno 2017. Per questo sempre più cittadini, e noi con loro, chiedono ad alta voce che lo Stato – attraverso i suoi tutori della legge, i suoi insegnanti, l’alleanza concreta e salda coi suoi cittadini – metta fine a tanta inconcepibile barbarie. Se un pericolo viene taciuto a chi lo corre, si diventa complici. Non bisogna allarmare e nemmeno negare. Occorre guardare negli occhi la realtà e agire di conseguenza. L’equilibrio, il buon senso, la sete di verità debbono orientare le nostre scelte. La povertà di tanti, che negli ultimi anni si è trasformata in miseria nera, è la migliore alleata di questa sempre più sanguinaria e assurda camorra cittadina. Mettiamo la gente in condizione di guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte. Diamo ai giovani l’opportunità di vivere una vita normale. Deprechiamo, eliminiamo, spezziamo la maledetta corruzione che puzza, anzi «spuzza», come disse il Papa. La buona volontà non basta. Nemmeno le parrocchie e il mondo del volontariato bastano. Se non si mette mano a tessere una rete per risolvere il problema tutti insieme, e non la si sostiene, alimenta e difende con l’impegno delle istituzioni, saremo costretti a piangere ancora molti morti ammazzati. Sotto gli occhi dei bambini terrorizzati che, lentamente, si convinceranno che violenza, sopruso, omicidi, camorra, altrove deprecabili, a Napoli diventano qualcosa di normale, un futuro possibile. In realtà

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un presente e un futuro così sono insopportabili. C’è una città da capovolgere. C’è una storia fatta di tante storie da rimettere nel verso giusto. E va fatto adesso: per la sua gente, con la sua gente. Pag 19 La corsa del nuovo Iran verso la svolta di maggio di Claudio Monici Non c’è ancora chi possa sostituire Rohani. E il Paese, orfano di Rafsanjani, “si cerca” Teheran. Lontana da ogni mare, da ogni fiume, sulla strada del Caucaso, Teheran sorprende il viaggiatore ogni qual volta metterà piede in questa metropoli, così lontana dall’Oriente, così affiatata d’Occidente, ma sempre e solo così abbracciata alla sua hovviyat, entità culturale. E con un forte vatan parasti uno straordinario attaccamento alla patria e alla sua forte identità. Certo, una Repubblica islamica, con i suoi rigidi codici, da cui non si tergiversa, e il velo è obbligatorio anche per le donne straniere, e non propriamente in linea sui diritti umani, ma a democrazia parlamentare e con un forte impegno elettorale, quando l’iraniano è chiamato alle urne. Come accadrà a breve scadenza, il prossimo mese di maggio, con 40 milioni di elettori che decideranno il futuro del presidente uscente Hassan Rohani. Lui che va a lavorare in metropolitana per non inquinare, mentre i pasdaran, la galassia di religiosi, mullah e apparati conservatori, lo giudicano un pericoloso Gorbaciov da fermare, «altrimenti l’Iran farà la fine dell’ex Unione Sovietica». All’indomani della morte, per infarto, l’8 gennaio scorso, dell’ayatollah Hashemi Rafsanjani, 82 anni, la situazione sì è complicata. Era stato uno dei padri fondatori dell’Iran nato dalla rivoluzione che porta il nome dell’ayatollah Khomeini nel 1979, ma anche un leader considerato un faro per i cosiddetti «riformisti », per la sua ostinata idea di riqualificare i rapporti con l’Occidente. Uomo pragmatico, nel 2009 aveva compreso la rabbia del «Movimento verde» insorto contro l’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad accusato di frodi elettorali, ma questo gli costò anche l’allontanamento dal massimo esponente del clero sciita, l’ayatollah Ali Hoseyni Khamenei, guida suprema dell’Iran, quindi ago della bilancia. La scomparsa di Rafsanjani ha creato un vuoto politico, non solo perché la sua figura era fondamentale per le elezioni di maggio, ma soprattutto perché lui era consapevole che la sopravvivenza dell’Iran, tradizionale e moderno, per non rischiare un tracollo traumatico del regime, passasse attraverso il cambiamento. Ricucendo e migliorando le relazioni internazionali, soprattutto dopo la firma sul nucleare con gli Stati Uniti, e rilanciando l’economia afflitta da anni di embargo. La domanda ora è: c’è qualcuno che lo può sostituire? Teheran, megalopoli da 13 milioni di abitanti, e altri quattro milioni che ogni giorno si aggiungono per lavoro, è in mutevole trasformazione: nuovi quartieri sorgono come satelliti, soprattutto sulla collina, verso nord, un tempo esclusiva della nobiltà e delle residenze diplomatiche, attorno a lussuosi centri commerciali. Una decina quelli che già s’impennano al cielo della Persia. Più di trecento quelli in fase di realizzazione e anche questi si coniugheranno a polo aggregativo di nuove aree commerciali e residenziali, dove l’eleganza e i benestanti si siedono ai tavoli di una varietà di ristoranti alla moda, e alquanto poco convenienti alle tasche di un iraniano medio, quale un impiegato di banca con un salario di 400 dollari al mese. Ma i business ora sono altri. E poi le boutique che espongono i più prestigiosi nomi della moda italiana e internazionale. È la nuova e potente rivoluzione che sta cambiando il volto, ma soprattutto le abitudini, se non di tutto l’Iran, certamente quello della capitale. In un centro commerciale come l’“Iranian” ci si può ubriacare di una moltitudine di piccoli bazar, posti a fisarmonica uno accanto all’altro, e avere solo l’imbarazzo della scelta di fronte agli ultimi modelli, pure di lusso estremo, della moderna tecnologia telefonica. Che fanno la gioia e sono l’energia delle nuove generazioni. La parte predominante della popolazione con un’età media di 25 anni, e che sono quasi i due terzi dei circa ottanta milioni di abitanti. Una passeggiata a piedi, immergendosi tra la gente che non fatica a regalare sorrisi e ospitalità, girando tuttotondo alla grande piazza Vali e Asr, riesce a fare luce sul presente di questo Paese, più attento a ciò che offre il moderno piuttosto che alla ridondanza degli slogan bellicosi. Seppure resta viva la retorica anti-Usa come quel gigantesco murales appeso a un centro commerciale, che tiene vivo l’episodio dei dieci marinai americani, un anno fa fatti prigionieri per un giorno, tenuti in ginocchio sulle loro motovedette, capo chino e mani ben in vista sulla testa, dopo la cattura da parte dei Guardiani della rivoluzione, per avere sconfinato nelle acque del Golfo Persico. In nemmeno dieci anni sono state

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costruite cinque linee della ghatare zirzamini metropolitana. Una vera boccata d’ossigeno che ha alleggerito, seppure senza avere risolto il grave e mefitico avvelenamento da inquinamento atmosferico, provocato dal pesante flusso automobilistico che giornalmente si calcola in una decina di milioni di vetusti automezzi in movimento continuo. La cittadella universitaria con i suoi ottantamila studenti è solo una porzione dell’Iran che nel 2016 ha laureato un milione e 200mila studenti universitari, di cui il 70 per cento erano donne, ed è un altro di quei luoghi dove ascoltare il cuore e la pancia di questa metropoli «da sempre considerata una vivacità più vicina al mondo riformista, soprattutto per la presenza di una buona borghesia islamica istruita, rispetto al resto del Paese dove è più solido l’Iran conservatore», ci dice il giovane Alireza, studente di medicina, mentre ci spiega che «quando si arriva all’università, non ci sono tasse da pagare, e neppure occorre sostenere spese per l’alloggio nel pensionato o per i pasti alla mensa statale». L’università statale è gratuita. Lo studente si deve solo impegnare in due cose. Prestare la sua opera volontaria, e di formazione, nelle infrastrutture pubbliche, e ricordarsi che al terzo esame fallito, perderà ogni privilegio e tornerà a casa. L’Iran oggi non fa più paura. L’Iran è considerato un interlocutore necessario per risolvere il «dossier Siria». Teheran è coinvolta direttamente con personale militare inviato a difendere Damasco, e con un prezzo pagato di più d’un migliaio di morti in divisa. Dopo l’accordo sul nucleare con Obama e la cancellazione dell’embargo – spiega una fonte occidentale – e ora con l’insediamento del presidente americano Donald Trump – al netto degli attriti sul bando agli ingressi negli Usa, decisi venerdì, e la reazione di reciproca chiusura agli americani da parte del regime, che ha definito «ingiuriosa » la scelta –, «sarebbe un grave errore tornare alla stagione delle incomprensioni e delle ostilità. Certo esiste anche un contenzioso regionale con l’Arabia Saudita: lo storico dissidio tra sciiti e sunniti, che si esercita su teatri terzi, come nel disastro dello Yemen. Ma non spetta a noi occidentali dirimere quella diatriba storica». Sono molte le domande che si affacciano sull’Iran che va a riprendersi i suoi spazi in ambito internazionale, e un diplomatico straniero, pur ammettendo che «alcune linee della politica di questo Paese restano rigide e inconciliabili, tipo la posizione su Israele», sottolinea che «sarebbe un errore perdere anche questo treno», e ci tiene a ricordare un episodio della moderna diplomazia: «È il 1971. L’America di Nixon comincia a dialogare con la Cina comunista. Il segretario di Stato Usa Henry Kissinger a colloquio con Chou En-Lai, al leader cinese chiede un parere sull’importanza e gli effetti della Rivoluzione francese del 1789. Chou En-Lai risponde così: “È ancora troppo presto per dirlo”». Qui a Teheran, se a un uomo tra i trenta e i quarant’anni si domanderà dove si trova «il covo dello spionaggio», l’ex ambasciata americana, quella assaltata dagli studenti nel 1979 e che dette origine alla lunga crisi diplomatica Usa-Iran degli ostaggi statunitensi, trattenuti fino al gennaio 1981, e oggi riconvertita in «Museo giardino della menzogna e dell’arroganza», oppure in che via si trova il «Museo della shohada », dei martiri della guerra Iran-Iraq, è molto probabile che la risposta sarà uno sguardo smarrito e di perplessità. È infatti questa la grande incognita sul futuro degli ayatollah. Perché dopo la generazione dei cinquantenni, non si sa che linguaggio usare per tenere l’impatto con le nuove generazioni. IL GAZZETTINO di domenica 29 gennaio 2017 Pag 1 Contro la crisi è meglio avere un sindacato forte di Romano Prodi Negli scorsi tre decenni tutto questo è stato spesso accompagnato da un sentimento di soddisfazione, come se l'indebolimento del sindacato fosse correlato a un rafforzamento dell'economia. Casi di irresponsabilità del sindacato non sono certo mancati. Si può anzi dire che il processo della loro generale decadenza sia simbolicamente cominciato dall'umiliazione del sindacato dei minatori da parte della signora Thatcher nel lontano 1985. Una sconfitta frutto di politiche sbagliate da parte del leader sindacale Scargill, che non aveva capito l'inarrestabile rivoluzione delle tecnologie estrattive e del mercato del carbone. Da allora il processo di indebolimento è diventato generale, fino a fare del sindacato un protagonista quasi marginale della vita economica. Questo processo non ha tuttavia portato all'età dell'oro che si prevedeva e nemmeno agli aumenti di produttività che l'indebolimento del sindacato avrebbe dovuto produrre. L'indebolimento è tuttavia continuato, spinto dalla forza della globalizzazione, che rendeva molto più facile lo

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spostamento delle imprese, e quindi dei posti di lavoro, verso le regioni dove minore era il costo e più deboli i sistemi di protezione sociale. Recuperare il terreno perduto non sarà certo facile anche se sta via via maturando la convinzione che la destrutturazione del lavoro presenti elementi negativi sia dal punto di vista politico che da quello economico. Sotto il primo aspetto questa destrutturazione ha infatti contribuito all'insoddisfazione sociale e all'indebolimento della classe media, favorendo la nascita e la crescita dei partiti anti-sistema. Sotto il secondo aspetto essa ha favorito il rallentamento dello sviluppo della produttività e del potere d'acquisto dei lavoratori, che è all'origine dei bassi consumi e della minore crescita. Il sindacato che rimane più forte in Europa è quello tedesco perché, anche se con qualche passo indietro rispetto al passato, è stato più degli altri in grado di conciliare gli interessi dei suoi iscritti con quelli generali del paese. Per il sindacato italiano è assai più difficile svolgere questo compito perché si trova di fronte a situazioni e problemi particolari. Il primo problema è quello del pluralismo sindacale che, generato dalle grandi divisioni del dopoguerra, è purtroppo durato nel tempo, anche in conseguenza del consolidarsi degli interessi delle differenti strutture organizzative. Tutto ciò ha finito col fare spesso prevalere gli interessi particolari a danno di quelli generali, offuscando l'immagine del sindacato e paralizzandone l'efficacia propositiva. Tutta la nostra storia è piena delle conseguenze negative di questa concorrenza ma, dato che è meglio guardare il presente, voglio richiamare due casi di grande attualità. Il primo, che ritengo positivo, riguarda il recente contratto dei metalmeccanici che, contravvenendo la comune prassi, è stato condotto in modo sostanzialmente unitario e che contiene accordi utili tanto all'allargamento della protezione sociale dei lavoratori quanto all'aumento della produttività delle imprese. Il secondo, a mio parere fonte di tensioni negative ed evitabili, è il conflitto sui vaucher. Quest'istituto, nato per venire incontro alla necessità di ridurre il lavoro-nero e garantire una maggiore copertura assicurativa per occupazioni temporanee o saltuarie, è stato certamente applicato ben oltre i suoi obiettivi. In molti casi ha finito quindi con il raggiungere il risultato opposto, sostituendosi ai regolari contratti di lavoro. Ne è scaturita una lotta senza tregua fra coloro che li vogliono abolire del tutto, arrivando fino a proporre un referendum popolare, e coloro che li difendono così come sono. Un'elementare saggezza consiglierebbe invece di mettersi attorno a un tavolo per cercare la soluzione concreta nei confronti di uno strumento certamente utile. Capisco come sia difficile convergere verso una comune direzione dopo tanti decenni nei quali si sono battute strade diverse e capisco come questo cambiamento di rotta richieda una comune riflessione e un comune dialogo da parte dei sindacati. Se vogliamo uscire dalla crisi abbiamo tuttavia bisogno di un sindacato forte nell'elaborazione delle proposte e nella capacità di interpretare tanto l'interesse dei suoi rappresentati quanto l'interesse comune. Pag 19 Renzi, contro Grillo per drenare voti al centrodestra di Marco Conti In prima fila ad ascoltare e ad applaudire Matteo Renzi - seppur con discernimento - Roberto Speranza e Nico Stumpo. Quattrocento i chilometri che i due esponenti della minoranza interna del Pd hanno percorso ieri tutti d'un fiato per poter essere nello stesso giorno sia alla kermesse romana voluta da Massimo D'Alema, sia all'assemblea a Rimini degli amministratori del Pd nel momento del discorso del segretario. Quattrocento chilometri che scavano un fossato tra la vecchia guardia della sinistra interna, che D'Alema intende guidare ancora, e i più giovani con i quali, malgrado le differenze, Renzi non ha mai smesso di interloquire contando sulla scarsa voglia dei quarantenni di tornare sotto la guida dell'attuale ispiratore del gruppo Consenso. E così ieri mattina al segretario del Pd è bastata una chiacchierata telefonica con Speranza per avere conferma della presenza in sala dell'ex capogruppo e dell'ex responsabile organizzativo del Pd. Un divide et impera che funziona tanto più in vista di elezioni, della compilazione delle liste elettorali e della scelta dei capilista bloccati. Una decina di posti da capolista dovrebbero essere riservati alla minoranza interna. Altri correranno in lista cercando le preferenze, ma i numeri degli eletti del Pd in Parlamento sono destinati a scendere notevolmente se non si arriverà al 40% e quindi al premio di maggioranza. Resta il fatto che ieri pomeriggio a Rimini il segretario del Pd non dedica nemmeno una parola a D'Alema e alla sua iniziativa mattutina. Si limita ad osservare che il Pd non ha «bisogno

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di chiamare i riservisti» e che parlare di «povertà sui divanetti di Montecitorio a voce alta per poter essere sentiti dai giornalisti, non serve a nulla». Renzi evita polemiche dirette, e i toni scandalizzati di Ernesto Carbone e del capogruppo Ettore Rosato, anche se manda a dire all'ex esponente del Pci che la sfida alle prossime elezioni «sarà a tre». Nell'elenco Renzi mette il M5S, il Pd e FI, ma ieri, tracciando i temi della prossima campagna elettorale ha indicato Trump, i populismi e la deriva dell'Europa. Ovvero Renzi considera la prossima sfida uno scontro di fatto a due tra Pd e le forze antisistema incarnate dal M5S e da Lega e FdI. A patto che questi ultimi due non finiscano per restare sotto l'ombrellone berlusconiano. Di fatto uno scontro molto maggioritario che il premio alla Camera e lo sbarramento al Senato riducono a due competitor principali: M5S e Pd. Uno schema che dovrebbe spingere verso il «voto utile» visto che a palazzo Madama entreranno solo i partiti che supereranno l'8% e che, secondo le ultime indicazioni, potrebbero essere solo il Pd, M5S, FI e Lega. Un'asticella che rende difficile non solo l'iniziativa dalemiana - che ieri si è tenuta nel luogo simbolo della sinistra comunista scissionista - ma anche la presenza in tutti e due i rami del Parlamento dei partitini di centro e di quelli a sinistra del Pd. «O il 40% o il caos» rappresenta di fatto, da parte di Renzi, la riproposizione del ballottaggio in versione post-Consulta che punta a mettere in secondo piano anche lo scenario della grande coalizione. Una prospettiva che potrebbe essere ancora meno potabile, almeno per la sinistra e per parte del blocco moderato, qualora FI finisse per allearsi con la Lega e non restare ancorata al blocco del Ppe che a Bruxelles ha portato Antonio Tajani alla guida del Parlamento. Ieri sera Renzi, salvo qualche passaggio nostalgico sugli 80 euro e voucher, ha sviluppato uno schema di campagna elettorale che punta a drenare voti anche al centrodestra berlusconiano proprio in funzione anti-grillina. Per Renzi il 40% non è un azzardo, ma il numero che serve per governare, per evitare inciuci con Berlusconi, ma soprattutto per non consegnare il Paese al M5S. Convinto che parte della sinistra riunitasi ieri ai Frentani preferisca - pur senza dirlo a voce troppo alta - far vincere Grillo piuttosto che il Pd, Renzi punta a drenare il massimo dal centrodestra. Un po' come la Dc ha fatto per anni. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Non tutti i vinti sono uguali di Dario Di Vico Globalizzazione Nel discorso pubblico italiano si parla con una certa frequenza dei «vinti della globalizzazione» e il rischio di un’overdose di retorica è già dietro l’angolo. Lo dimostra la confusione nella quale si incorre nell’individuare quali siano veramente i nostri perdenti e di conseguenza è ancora più arduo immaginare le policy anti esclusione. Prendiamo la figura chiave dell’operaio dell’industria automobilistica che in Gran Bretagna ha votato per la Brexit (soprattutto contro i londinesi ricchi e cosmopoliti) e il suo collega del Wisconsin che ha scelto Donald Trump per fermare la delocalizzazione in Messico. Da noi le cose stanno diversamente: le misure di protezione delle tute blu hanno sostanzialmente tenuto e le categorie industriali hanno rinnovato quasi tutti i contratti nazionali strappando soluzioni vantaggiose. Più sotto però nel mondo delle piccole imprese l’occupazione manifatturiera è diminuita drasticamente e si è perso un quarto della capacità produttiva. Sono andate fuori mercato molte aziendine che si sono trovate di fronte a una doppia pressione combinata: la concorrenza delle produzioni asiatiche a basso costo del lavoro e la debolezza della domanda interna. L’universo operaio però (finora) non si è spaccato, si è diviso in più segmenti e le differenze diverranno più evidenti solo in un futuro prossimo. Le tecnologie del 4.0 faranno emergere una figura polivalente e moderna, il grosso delle tute blu dovrà lottare nei confronti di un nuovo ciclo di automazione sostitutiva, ma dove si è espressa una vera frattura e troviamo già dei «vinti» è in un altro segmento di classe operaia, quello dei servizi a basso valore aggiunto come la consegna merci e i call center. Qui la pressione della globalizzazione è diretta, determina il livello delle paghe ma soprattutto l’insicurezza del posto di lavoro e una forma organizzativa che puzza di sommerso. Chi ha pagato un’altra rata onerosa del conto globale è il ceto medio. La piccola manifattura e il piccolo commercio non hanno retto la pressione del low cost asiatico o dei

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minimarket. Per le professioni del terziario professionale è stata invece la crisi della domanda interna a vestire i panni del carnefice generando una retrocessione di mercato e di sicurezze. Troppa offerta e poca domanda e del resto il numero di avvocati e architetti che c’è in Italia è da record europeo. Ad aggravare la condizione del ceto medio c’è poi un elemento psicologico: la diffusa percezione di un ulteriore slittamento prossimo venturo. Non abbiamo toccato il fondo, pensano, anzi. Arriviamo ai giovani: su di loro non si è esercitata una pressione diretta della globalizzazione, eppure sono quelli che stanno pagando il prezzo più salato. Il Censis ha calcolato che rispetto a 25 anni fa i giovani di oggi hanno perso il 26,5% di reddito in confronto ai coetanei di allora, contro un calo per l’universo della popolazione dell’8,3% e un incremento del 24,3% degli over 65. Nel calvario della nuova generazione quindi più che i cinesi pesano i vecchi ritardi italiani, quelli che ci hanno impedito di crescere negli ultimi venti anni. Sono quei ritardi che fanno ammattire i liberal - che Trump vede come il fumo negli occhi - e rispondono ai nomi di scarsa concorrenza, eccesso di burocrazia, avversione per la libera iniziativa, bassa mobilità sociale. Ovviamente ragionando per grandi aggregati sociali si rischia di mettere in secondo piano le condizioni pressoché emergenziali di alcuni segmenti più bassi: la povertà assoluta è cresciuta, così come è aumentata incredibilmente quella minorile. La ricognizione sui «vinti» non è completa se si omette di ricordare come negli anni della Grande Crisi si sono creati fenomeni di polarizzazione che non possono essere sintetizzati nella mera formula dell’arricchimento dei Paperoni, dell’1% ultraricco. Pescando dalla fenomenologia più recente capita di constatare come sia durante il ponte dell’Immacolata sia nelle feste di fine anno il numero degli italiani andati in vacanza abbia ampiamente superato i livelli dell’anno precedente e anche la loro spesa media è aumentata. Per carità, si tratta di una rimodulazione del modo di fare le ferie, meno estero e più soluzioni intelligenti, ma comunque il dato non va rimosso. Lo stesso indice di Gini negli anni della Grande Crisi in Italia non si è mosso, fotografa le differenze di reddito delle famiglie e quindi non riesce a restituirci la fotografia delle disuguaglianze interne (ai nuclei familiari) e dell’arbitraggio che avviene ogni giorno tra i soldi dei nonni e il non-reddito dei nipoti (per inciso la maggiore curva dell’indice di Gini risale in Italia agli anni 90 con la politica dei redditi pre-euro). Non bisogna dimenticare infatti che i nuclei con capofamiglia pensionato possiedono il 51,3% dei titoli di Stato, il 41% delle obbligazioni private e persino il 21% delle azioni (dati Censis). La mappa delle disuguaglianze e delle contraddizioni sociali come si può vedere è assai variegata, per questi motivi la retorica sui «vinti» deve lasciar spazio a una ricognizione puntuale e all’individuazione di policy su misura, quasi sartoriali. La spesa pubblica a pioggia purtroppo le disuguaglianze tende ad acuirle e non a temperarle. Pag 1 La data del voto e il lungo pressing sul premier di Francesco Verderami I confratelli bussano ogni giorno alla sua porta per rammentargli il suo destino: Delrio lo fa a ogni intervista, Orfini a ogni dichiarazione. Nel Pd c’è pure chi anticipa «come» avverrà l’evento. Perché il «quando» è scontato, dato che a giugno Renzi vuole votare. E Gentiloni, senza lasciar mai trasparire emozioni, ogni giorno ascolta e sorride: «È il mio memento mori quotidiano». Il presidente del Consiglio convive con la data di scadenza del suo governo da quando il segretario del Pd l’ha scelto per formare il governo. Da allora dedica parte del suo tempo ad appuntarsi il giorno delle urne, che Renzi gli anticipa sempre come definitiva. Così in un mese e mezzo ha finito per scarabocchiare sull’agenda quasi tutte le domeniche di aprile e di maggio. Imbrattata anche la pagina dell’11 giugno, riteneva che il calendario elettorale si fosse esaurito. Invece no, perché ha dovuto aggiornare l’appuntamento al 25 giugno. «Ma saremmo in estate...», ha esitato il premier prima di scrivere. «Sì, ma ci sono dei precedenti», gli ha spiegato l’ex premier. E il premier ha scritto. Scontato il suo «memento mori quotidiano», ha ripreso a fare ciò che deve fare: incurante dei confratelli che gli bussano alla porta, delle lusinghe berlusconiane, delle battute con cui nel partito e nel governo dirigenti e ministri provano a saggiare i suoi nervi. Appena attorno a Gentiloni si forma un capannello e si pronuncia il nome di Renzi per vedere l’effetto che gli fa, il presidente del Consiglio si produce nel più classico repertorio romanesco: «A rega’, nun ce provate...». E l’adunanza si scioglie con una grassa risata. Ma la risposta di Gentiloni non appare dettata dall’istinto di sopravvivenza, sembra piuttosto un documento politico con cui

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ribadisce il suo rapporto di lealtà con il segretario del Pd. È un’intesa che traspare soprattutto quando non si scherza, quando un ministro lo chiama per sottoporgli una questione delicata, e il premier chiede di pazientare: «Devo parlarne con Renzi». E proprio qui sta la difficoltà del leader dem, che - più passano i giorni - più avrà difficoltà a mettere in atto il piano per arrivare al voto in giugno. L’idea che nei tanti «memento mori» è stata resa nota dai renziani, e cioè che basterà riunire la direzione del partito e officiare il rito di fine legislatura - «perché a quel punto Gentiloni salirà al Colle per rassegnare le dimissioni» - appare una scorciatoia impraticabile. E Renzi è consapevole che non sarà facile trovare un modo per staccare la spina al governo senza che l’evento non si trasformi in un passaggio politicamente traumatico. Non c’è in Gentiloni una forma di resistenza passiva e non ci sono tracce di reazione alle sortite del segretario: né quando riproduce battute che evocano la fine del gabinetto Letta («il governo deve andare avanti per fare delle cose? Bene»); né quando dal Nazareno filtra la lista dei parlamentari che hanno troppe legislature alle spalle e dunque avranno bisogno della deroga del partito per poter essere ricandidati. La pubblicazione della lista ha mandato però in bestia alcuni ministri del Pd, che l’hanno vissuta come una forma di pressione. Anche perché erano stati già consultati da Renzi, e non si erano opposti al suo progetto di votare il 25 giugno: data scelta anche per distanziare quanto più possibile l’appuntamento delle urne dal G7 di Taormina. Gentiloni ha preso l’appunto della data sull’agenda, continuando ad applicare la separazione delle funzioni tra questioni di governo e questioni politiche. Quando ieri a Madrid ha detto che «noi ci occupiamo solo delle cose che ci riguardano», è perché in Consiglio dei ministri aveva avvisato che «qui non si parlerà di politica o di partito», malgrado attorno a lui siedano tutti i capicorrente del Pd. Le strade della politica sono però infinite, e c’era un motivo ieri se - al termine della discussione sulle concessioni demaniali - i ministri si scambiavano occhiate furtive e sorrisini: il provvedimento appena varato prevede che il governo debba esercitare la delega «entro sei mesi». Cioè entro agosto... Dai verbali della riunione non risulterà mai che qualcuno abbia tentato di farlo notare a Gentiloni, né che Gentiloni abbia risposto con un «nun ce provate». Perché tanto da Renzi non si staccherà, nonostante i confratelli bussino ogni giorno alla sua porta. Per il resto si adopera perché il leader del Pd risolva il rebus della legge elettorale: Renzi sa che deve passare dal Parlamento, perché così chiede il capo dello Stato. Ma sa anche che, se ci entra, rischia di non uscirci in tempo per il 25 giugno. Pag 8 Il centrodestra alle primarie? Testa a testa Berlusconi – Salvini di Nando Pagnoncelli Più volte in questa rubrica si è richiamata l’attenzione sullo scenario tripolare che caratterizza l’attuale stagione politica, come si è potuto verificare in occasione delle elezioni amministrative della scorsa primavera e, soprattutto, del referendum costituzionale. In realtà mentre due dei tre poli (M5S e Pd) sono facilmente identificabili, il terzo - quello di centrodestra - al momento è solo virtuale, non rappresenta un progetto politico ma la somma dei voti che otterrebbero i tre partiti che lo compongono (Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia), secondo i più recenti sondaggi. Sulla carta, quindi, il centrodestra dispone di un bacino elettorale sostanzialmente equivalente a M5s e Pd ma è attraversato da molte divisioni: di programma, strategia, leadership e persino di stile di comunicazione. È trascorso poco più di un anno ma sembrano lontani i tempi della foto dei tre leader in piazza Maggiore a Bologna quando Berlusconi proclamò dal palco: «Io, Salvini e Meloni vinceremo le elezioni con il 40% dei voti». Basti pensare alla recente decisione della Lega di non votare lo storico esponente di FI Antonio Tajani come presidente del parlamento europeo. Da tempo si parla della possibilità di indire elezioni primarie nel centrodestra per eleggere il candidato della coalizione. È un’ipotesi che incontra il consenso del 41% degli italiani e nel centrodestra vede gli elettori di FdI (67%) e della Lega (52%) nettamente più favorevoli rispetto a quelli di FI che risultano divisi (40% favorevoli e 35% contrari). Coerentemente, l’interesse per le primarie è più elevato tra chi vota FdI (65%) e Lega (61%) mentre l’elettorato di FI si conferma dibattuto, con una lieve prevalenza dei non interessati (52%). Tra coloro che si dichiarano interessati a partecipare alle primarie abbiamo voluto verificare gli orientamenti di voto per i tre leader principali: ne esce un testa a testa tra Salvini (29%)

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e Berlusconi (28%) che prevalgono su Giorgia Meloni (19%), mentre un quarto dei potenziali votanti si dichiara incerto. Si tratta prevalentemente dei sostenitori delle altre liste di centrodestra ma anche di centro. La fedeltà al leader del proprio partito sembra prevalere nettamente su qualsiasi altra considerazione, dal ricambio generazionale, alla proposta politica, alla possibilità di successo contro Renzi e il candidato del M5s. Infatti il 92% degli elettori di FI voterebbe Berlusconi, l’82% di quelli della Lega sceglierebbe Salvini e l’80% di FdI Meloni. In base all’applicazione della legge Severino e in attesa della sentenza della corte di Strasburgo, Berlusconi non sarebbe candidabile alle prossime elezioni, pertanto nel sondaggio abbiamo considerato due esponenti alternativi, portatori di linee politiche diverse: Stefano Parisi, inizialmente visto da Berlusconi come futuro leader e Giovanni Toti, presidente della Liguria a capo di una coalizione di centrodestra allargata ai centristi. Ebbene, nel confronto a quattro Salvini con il 33% dei consensi prevarrebbe su Meloni (26%) mentre i due esponenti alternativi a Berlusconi si attesterebbero rispettivamente all’8% (Parisi) e al 3% (Toti), preceduti dai leader del Carroccio e di Fratelli d’Italia persino tra gli elettori di Forza Italia. Ad oggi Berlusconi sembra difficilmente sostituibile alla testa del suo partito: d’altra parte se dopo la diaspora dei principali esponenti politici di Forza Italia che hanno dato vita a nuovi soggetti - da Ncd, ad Ala, a Conservatori e Riformisti - il partito di Berlusconi oggi può contare su circa il 12% delle preferenze, il motivo risiede nel forte legame tra il leader e i suoi elettori. Insomma, un «partito personale», come fu definito dal politologo Mauro Calise. Chiunque si affermi come leader della coalizione, mediante una consultazione o meno, dovrà fare i conti con almeno due questioni: innanzitutto la ricomposizione delle divisioni interne che rischiano di acuirsi con le primarie; è un’impresa complicata dalla mancanza di precedenti nel centrodestra e dalla forza di Berlusconi presso il proprio elettorato, in larga misura indisponibile a cambiamenti di leadership. In secondo luogo, la definizione di una proposta politica in grado di armonizzare le aspettative e i bisogni espressi dalle diverse anime dell’elettorato (la componente moderata, quella radicale, ecc.) e nel contempo sia sufficientemente distintiva e attrattiva rispetto a quella degli avversari. Ed è forse questo il compito più difficile: infatti, dopo quasi un ventennio nel quale l’agenda politica è stata dettata in larga misura da Berlusconi e dalla sua coalizione, dal 2013 in poi il centrodestra appare in crisi di identità. E dalla crisi si esce con idee e proposte convincenti, non con il casting del nuovo leader. LA REPUBBLICA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Giochi d’azzardo sull’Europa di Stefano Folli L'ipotesi che la prossima campagna elettorale - quando sarà, magari ai primi di giugno - si giochi contro l'Europa, nell'insofferenza delle regole e dei vincoli, è rischiosa soprattutto per una ragione: finirebbe per legittimare le posizioni di Cinque Stelle e Lega, i due partiti più aspramente contrari alla moneta unica e più tentati dagli scenari neo nazionalisti. Non è un caso se Beppe Grillo ha riproposto in questi giorni l'impossibile referendum sull'euro. Impossibile perché investe un trattato internazionale, ma simbolico per la sua carica anti-Unione. Ed è vagamente umoristico che il drappo referendario sia sventolato dallo stesso personaggio che un paio di settimane fa aveva tentato di iscriversi al gruppo dei liberali - custodi dell'ortodossia europeista - prima di rifluire fra gli euro-antagonisti di Farage. In ogni caso, Grillo e Salvini hanno la loro linea. Si sono resi conto che il tema europeo sarà al centro dello scontro e si affrettano ad anticipare i loro avversari. Tanto più che l'avvento di Trump negli Stati Uniti sta cambiando il perimetro del campo. Un presidente americano nemico in modo così esplicito e conclamato dell' Unione e della moneta unica non si era mai visto. In Italia c'è chi immagina di ricavarne un vantaggio e quindi si muove per tempo. Il problema è che non sono solo i Cinque Stelle e la Lega, o i Fratelli d'Italia, ad attrezzarsi in tal senso. Ormai si va definendo la concreta possibilità che anche il Pd renziano, sia pure con uno stile diverso e toni meno violenti, si prepari a una campagna elettorale in chiave polemica verso l'Europa. In tal modo sarebbe giustificato e, per così dire, nobilitato il tentativo di evitare la manovra correttiva sui conti pubblici, un fardello che porterebbe con sé, come è prevedibile, una sensibile caduta del consenso popolare. In altre parole, un braccio di ferro elettorale fra Pd, da un lato, e M5S, dall' altro, potrebbe trasformarsi

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in una gara di populismo euroscettico dagli sbocchi incerti. Nella convinzione che Trump, sull'altra sponda dell'Atlantico, vedrebbe di buon occhio un attacco politico alla Germania. Se così fosse, le conseguenze sarebbero abbastanza imprevedibili. Al momento è abbastanza scontato che il prossimo Parlamento, sulla base del doppio Consultellum, non sarà in grado di esprimere una maggioranza. Ciò esporrebbe l'Italia a subire i riflessi finanziari, e non solo, di un gioco d'azzardo un po' troppo spregiudicato. Non si può dimenticare infatti che tra la primavera e l'inizio dell'autunno andranno a votare i francesi e i tedeschi, per cui quello che accade nel nostro Paese suscita molto interesse a Berlino e a Parigi. Peraltro l'esperienza insegna che inseguire i Cinque Stelle sul loro terreno è quasi sempre controproducente. Il referendum del 4 dicembre lo ha dimostrato. Gli ammiccamenti anti-casta e gli argomenti secondo cui la nuova Costituzione avrebbe ridotto il numero dei politici e quindi il loro costo non sono serviti a consolidare il Sì. A quanto pare, non sono stati utili nemmeno a ridurre l'ondata della cosiddetta anti-politica. Si capisce quindi che Grillo e lo stesso Salvini insistano per correre alle urne con il duplice schema elettorale figlio delle sentenze della Corte (soprannominato "Legalicum"): un sistema paralizzato tipo Spagna non spaventa l'opposizione mentre dovrebbe intimorire chi avrà la responsabilità di governare, vale a dire il Pd o il centrosinistra in generale, ma anche la parte più moderata del centrodestra. A maggior ragione se i Cinque Stelle avranno imposto nel frattempo una sorta di egemonia culturale nel dibattito pubblico: il "no" all'Europa, la ripresa della lotta all'establishment, la delegittimazione delle istituzioni. Non si tratta quindi solo di imporre lo scioglimento delle Camere. C'è da capire fino a che punto saranno rese "omogenee" le due leggi elettorali, il che equivale a chiedere un modello non insensato e non suscettibile di deludere e allontanare altre categorie di cittadini. E c'è forse da interrogarsi sull'ultima illusione: che il 40 per cento sia a portata di mano per il Pd, grazie al carisma del leader e a qualche lista allargata. Ma Pisapia ha subito giudicato un «incubo» l'alleanza con i centristi, da questi ricambiato: e con ciò il tema sembra esaurito. AVVENIRE di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Chi si cura del G7? di Andrea Lavazza L’Italia e il vertice “italiano” In vista della prossima riunione del G7, fissata per il 26 e il 27 maggio a Taormina sotto la presidenza italiana, l’unica casella vuota tra i leader che vi prenderanno parte è quella francese. A Parigi si vota per le presidenziali il 23 aprile e dopo due settimane si svolgerà il ballottaggio. Il nuovo inquilino dell’Eliseo arriverà quindi fresco di investitura al tavolo più importante del Pianeta. Ma avrà la garanzia, salvo clamorosi incidenti di percorso, di sedervisi anche nei successivi 4 o 5 appuntamenti (secondo la data del vertice 2022 e delle elezioni dello stesso anno). Sicuro di parteciparvi è il premier italiano Paolo Gentiloni che però, in caso di voto anticipato a giugno, potrebbe arrivare ai colloqui con gli altri leader segnato da una data di scadenza a pochi giorni. E nel pieno di una campagna elettorale che verosimilmente risparmierà ben pochi colpi bassi. Quello siciliano è peraltro il primo consesso dell’anno in cui si confronteranno l’«asse atlantico » con nuove venature populiste tra Donald Trump e Theresa May e il blocco europeo continentale, con Giappone e Canada interlocutori importanti nel rimescolamento delle partnership privilegiate (mancherà la Russia, esclusa dal G8 nel 2014 come sanzione per l’annessione della Crimea). Sorprende dunque la scarsissima attenzione a questo appuntamento internazionale, di cui siamo padroni di casa e responsabili, nel dibattito sulla data in cui chiamare il Paese alle urne. Quanto è opportuno indebolire la nostra partecipazione al summit in un momento di oggettivo e rilevante riassetto degli equilibri mondiali? Basti pensare a quanto “debole” è stata la presenza di Barack Obama agli ultimi incontri con rappresentanti esteri, quando risultava ormai noto che il suo successore Trump aveva tutt’altra visione strategica e avrebbe ribaltato impegni eventualmente assunti dall’allora capo della Casa Bianca. È la fisiologia democratica, si può obiettare, i capi di Stato e di governo cambiano e le politiche messe in atto dalle nazioni possono mutare. Vero, ma i calendari dei vertici sono costruiti su scadenze preventivate a lunga gittata. L’8 novembre 2016, giorno del voto americano, era ben scolpito da tempo nei calendari della diplomazia e dei mercati finanziari. La data delle

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elezioni italiane, invece, è spesso incline a spostarsi indietro o a dipendere da altri eventi, in questo caso dalla combinazione di un referendum confermativo e della decisione della Consulta sull’Italicum. Tuttavia, provando ad astrarre da quanto detto finora, facciamo un’ipotesi di pura accademia (perché praticamente di non agevole realizzazione). Gentiloni scrive una lettera ai colleghi del G7 e propone di spostare l’appuntamento di Taormina a metà luglio. «Avremo la scelta del nuovo Parlamento e, di conseguenza, del nuovo esecutivo; 40 giorni dopo la data fissata, vi accoglierà un premier con saldi poteri e una prospettiva di lungo raggio». Ma queste righe suonerebbero tanto false quanto menzognere, perché è chiaro pure agli osservatori più distratti che un voto con le due leggi elettorali attualmente vigenti non condurrebbe ad alcuna maggioranza, e che un eventuale governo di coalizione esprimerebbe un leader tutt’altro che forte, non destinato a una serena navigazione di cinque anni. Ma se la legislatura prosegue, il nostro premier si presenta a Taormina quale interlocutore solido, garante di una linea di continuità per la politica estera italiana? Non del tutto, è certo. A ben vedere, si tratta comunque dell’alternativa probabilmente meno dannosa per il ruolo italiano all’interno del G7. E ciò si collega a una serie di altre, e forse più importanti, valutazioni. Una riguarda l’armonizzazione delle regole per l’elezione di Camera e Senato, un processo in cui il Parlamento riprenda in mano l’iniziativa politica e ricucia il sistema di regole del voto che i giudici costituzionali hanno, in tempi diversi, sforbiciato. L’altra, sottolineata giovedì anche dal segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, ha a che fare con alcuni provvedimenti – tanti urgenti per molti italiani quanto trascurati da numerosi nostri rappresentanti – che si chiamano “Piano nazionale contro la povertà” e decreti attuativi per dare sostanza agli interventi promessi a favore della famiglia. Se poi arrivassero anche qualche misura per provare a dare impulso all’economia e una soluzione “forte” (nel segno dello sviluppo) ai contrasti con l’Europa sui conti pubblici, il premier che si presenterà a Taormina per il G7 apparirebbe più credibile e affidabile di uno sbattuto e distratto dai venti della campagna elettorale. Pag 2 Nel dramma di Pateh evitiamo si ripeta la storia di Regina Catrambone Il gambiano suicida, l’indifferenza e la Giornata della memoria Caro direttore, non riesco a togliere questa immagine dai miei pensieri. Il video della morte per annegamento di Pateh Sabally mi perseguita. Pateh è scomparso domenica nelle acque lagunari del Canal Grande a Venezia sotto gli occhi indifferenti delle persone che hanno assistito alla scena e che, in alcuni casi, hanno trovato il tempo di girare video per riprendere la tragica fine di una vita umana. Pateh Sabally veniva dal Gambia, era sbarcato a Pozzallo due anni fa e aveva solo 22 anni. Cinque di questi video sono attualmente al vaglio della Procura e in alcuni si sentono grida, commenti razzisti da cui non traspare alcuna empatia verso un ragazzo che si è gettato nelle acque fredde del Canal Grande in una domenica pomeriggio affollata dai turisti. Cerco di ricostruire questa storia nei dettagli, dopo aver letto anche le considerazioni che su questo giornale hanno svolto prima Alessandro Zaccuri e poi il viceministro degli Esteri, Mario Giro. Pateh era un ragazzo giovanissimo, aveva ricevuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari che poi gli era stato ritirato. Mi accorgo tristemente che su molti articoli non viene nemmeno riportato il nome. Viene etichettato come 'migrante', 'profugo'. Essere umano, dico io. Un essere umano che ha perso la speranza a tal punto da decidere di lasciarsi morire in acqua. Tutto avviene in pochissimo tempo. Dai video risulta che Pateh Sabally si sia buttato in acqua, quindi si sia tolto il giubbotto. Il giovane volontariamente finisce sott’acqua con la testa, poi riaffiora. Vedo il vaporetto molto vicino, qualcuno lancia dei salvagenti in acqua: Pateh ne viene quasi circondato, le sue mani sono molto vicine ai salvagenti ma non li raggiungono e pian piano vengono sommerse dall’acqua mentre il corpo affonda. Il marinaio apre il barcarizzo per un ultimo, disperato tentativo di salvare il giovane. Tutto inutile. In quel momento Pateh finisce sotto il vaporetto e non riemerge più. Una fitta mi trapassa il cuore. Immaginare la scena dei sommozzatori che recuperano il corpo incastrato fra i pali per ormeggiare le gondole mi indigna profondamente e mi interroga sulla nostra stessa umanità. Provo un’enorme tristezza nel costatare come siamo divenuti indifferenti nei confronti delle altrui vite. Che questa persona anneghi sotto gli occhi di tutti senza che nessuno si tuffi per aiutarlo mi sembra assurdo e incredibile allo stesso tempo. Mai avrei potuto immaginare che nel mio Paese

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un giovane ragazzo, salvatosi dal terribile viaggio attraverso il deserto e il mare, dovesse morire d’indifferenza e disperazione sotto gli occhi di centinaia di persone incuranti. Mentre cerco di capire qualcosa in più della vita di Pateh penso ai suoi genitori, parenti, amici, penso all’impegno di chi ogni giorno si adopera per salvare, integrare, accogliere, curare e nutrire chi arriva sulle nostre coste sperando in un futuro migliore. Sono molte le domande che mi assalgono alle quali non riesco a trovare una risposta: e se fosse stato italiano? O anche semplicemente bianco? La sua pelle ha giocato un ruolo nella mancata reazione di chi osservava? Di certo ha scatenato alcune frasi razziste difficili da digerire o giustificare. Credo sia necessario riscoprire la misericordia, la fratellanza universale, l’empatia che oltrepassa ogni barriera e ci fa riscoprire la nostra vera essenza di uomini e donne che condividono speranze, sogni, paure, desideri e che pertanto non possono rimanere indifferenti alla sofferenza di chi gli sta accanto. Oggi, mentre scrivo, si celebra la Giornata della Memoria per ricordare la tragedia dell’Olocausto perpetrato dai nazisti nel silenzio anche dei Paesi europei che fingevano di non vedere, di non sapere. Ma che senso ha ricordare un passato di cui non riusciamo a riconoscere le minacce che ritornano? Che senso ha piangere ascoltando una testimonianza di un sopravvissuto ai lager e ignorare il dolore silenzioso di Pateh Sabally che si sente così disperato da lanciarsi nelle acque gelide della laguna da cui nessuno lo salva? Forse sarebbe bastato solo un abbraccio, una parola amica, un gesto di umanità per consolare Pateh, ma questo non lo sapremo mai perché ora lui non c’è più. (*Co-fondatrice e Direttrice MOAS www.moas.eu) Pag 3 Meno numerosi ma più uniti. Aleppo, la forza dei cristiani di Fulvio Scaglione Dialogo anche con i musulmani. Ma tante incognite. Reportage dalla città assediata per 4 anni Fuori è pieno di guardie armate che pattugliano nel buio. Dentro la sala è fredda. Ma per un paio d’ore gli spiriti sono più lievi e i sorrisi più frequenti. Krikor Bedros XX Ghaboyan, dal 2015 patriarca di Cilicia degli Armeni, nativo di Aleppo ma insediato a Beirut, non era ancora riuscito a tornare nella città natale sconvolta da quattro anni di battaglia. Ora ce l’ha fatta e per celebrare ha voluto incontrare tutti gli esponenti delle Chiese cristiane di Aleppo, tra i quali sei vescovi cattolici, tre ortodossi e i rappresentanti di due Chiese protestanti. Non è un’occasione solo formale, però. Si tratta anche di riconoscere, e tutti i presenti lo fanno, che la guerra ha cambiato, se non le menti, almeno certi usi e costumi. Le Chiese cristiane si sono strette l’una all’altra, partecipi di un comune destino e di una sola preoccupazione, quella per la gente in pericolo. E il loro atteggiamento è stato notato e apprezzato. Dal gran muftì di Aleppo, Mahmud Akkam, ai fedeli musulmani qualunque che spesso, in questi anni, hanno trovato in chiese, parrocchie e conventi un’oasi di speranza e aiuto immediato. L a domanda che ora tutti si fanno, in questa Aleppo dove il mormorio dei discorsi di pace fatica a superare il frastuono dei combattimenti ancora in corso, è semplice e drammatica insieme: durerà? Questo stato d’animo sopravvivrà alle difficoltà oggettive, ai rancori, ai rimescolamenti che questa guerra brutale ha portato con sé? Com’è già successo in Iraq, i primi a essere interpellati dalla sfida sono proprio i cristiani. Molti se ne sono andati. Ancora pochi sono quelli che, sfollati in città più sicure, stanno tornando. È presto per fare un bilancio ma il quadro ha tinte fosche. Si parla di due terzi dei cristiani fuggiti lontano da qui. Monsignor Antoine Audo, gesuita, vescovo caldeo cattolico di Aleppo, aleppino per nascita e discendente di una famiglia irachena che ha dato alla Chiesa caldea illustrissimi esponenti, sintetizza così: «Prima della guerra, Aleppo era una città ricca, dove non mancava nulla. Ora i ricchi se ne sono andati, la classe media è diventata povera e i poveri sono diventati miserabili». E poi i giovani scappati per non andare al fronte, i professionisti emigrati per ritrovare il benessere perduto, i tecnici che non hanno più potuto lavorare. Come i suoi compagni di fede in tutto il Medio Oriente, monsignor Audo non teme la sparizione dei cristiani di Siria ma «la riduzione a una comunità troppo piccola e debole per esercitare una qualche influenza. Per dare un senso alla nostra presenza dobbiamo poter disporre di parrocchie, scuole, istituti. E mi creda, se noi siamo qui e contiamo qualcosa, facciamo un grande servizio sia all’islam sia all’Occidente. All’islam perché possiamo fargli apprezzare i valori positivi della modernità. All’Occidente

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perché, senza questa nostra mediazione, avrà sempre problemi a trovare una giusta relazione con l’islam». Anche monsignor George Abu Khazen, francescano, amministratore apostolico di Aleppo dei latini, sottolinea la piccola ma importante breccia che certi valori, normali nella cultura cristiana ma non in quella musulmana, complice l’impatto sconvolgente della guerra civile, hanno aperto nella società siriana. «Per la prima volta – ricorda – abbiamo sentito il gran muftì della Siria, Ahmad Badreddine Hassoun, parlare di Stato laico e di distribuzione dei poteri alle autorità locali». E Badreddine è l’uomo che nel 2012 ha pubblicamente perdonati i terroristi, già catturati, che avevano ammazzato suo figlio Sariah, una feroce ritorsione per le posizioni lealiste e filo-Assad del padre. Questi sono i principi e le attese. Ma nei quartieri e sulle strade che cosa registra il sismografo della speranza? La brutalità di questo conflitto senza quartiere ha precipitato Aleppo in un esperimento sociale con pochi uguali. I cristiani, indeboliti dalla diaspora e delusi dalla modesta solidarietà raccolta in un Occidente che avrebbe voluto vederli schierati contro il governo di Damasco e non ha nemmeno provato a intendere le loro ragioni, hanno comunque saputo dialogare con tutti, ma oggi sono alla prova di una realtà tutta nuova. La fuga davanti ai ribelli e ai jihadisti di quattro anni fa, e oggi lo spostamento massiccio a Ovest della popolazione che abitava nei quartieri Est ridotti in macerie, sta cambiando la fisionomia dei loro quartieri. V ivere in un quartiere cristiano, per un cristiano, voleva dire godere di un ambiente conosciuto, protetto da abitudini, costumi e anche riti comuni. Un modo per sentirsi più sicuri, anche in una città dove convivevano 23 gruppi etnico-religiosi diversi. Ora le cose stanno cambiando e molti musulmani si stanno trasferendo, o stanno arrivando, in quei quartieri. Diffidenza e disponibilità s’incrociano, ma questo, per Aleppo, è comunque un clima da dopoguerra in cui tutti sono ancora traumatizzati. Che succederà se e quando le cose torneranno alla normalità, magari anche nel pregiudizio e nell’invidia? Come sempre il bisogno rema contro. Il primo ministro Imad Khamis è arrivato ad Aleppo insieme con sei ministri e ha incontrato gli esponenti delle Chiesa cristiane. A loro ha detto chiaramente che la priorità è la ricostruzione delle strutture produttive, per dare lavoro alla gente e rimettere in piedi la città. Alle chiese, scuole, mense, orfanotrofi, ospedali e case per anziani distrutte da missili e bombe si penserà dopo, appena possibile. Comprensibile ma... quando? Si capisce, dunque, la preoccupazione di monsignor Audo: niente strutture, comunità più debole. E viceversa. Ma anche i musulmani hanno problemi non da poco. Per quanto sia convinzione comune che la guerra sia stata anche e soprattutto il frutto di ingerenze esterne tese a distruggere la Siria, nessuno può negare che da anni siriani uccidono altri siriani, in un fiume di violenza che ancora non è arginato. Questo divide gli animi e via via spacca vecchie amicizie, rapporti di colleganza o vicinato, persino le famiglie. Ad Aleppo, poi, ci sono quattro anni di separazione forzata da rimontare. Come avranno vissuto coloro che erano rimasti a Est? Che cosa avranno dovuto fare per sopravvivere nei quartieri dominati da ribelli e jihadisti? Chi sono, in realtà, queste centinaia di migliaia di persone che, con la vittoria dell’esercito regolare e dei russi, ora devono essere assistite o integrate nel tessuto urbano e sociale, anch’esso lacerato, di Aleppo Ovest? Suona tutto molto ingeneroso ma anche inevitabile. Basma è un’infermiera. Ha un fratello nell’esercito e un altro fratello bloccato a Deir Ezzor, città della Siria da quattro anni assediata dall’Isis. «Nel mio palazzo – racconta – è venuta a vivere una famiglia uscita da Aleppo Est. Dicono di aver sofferto molto, di essere ora aiutati dai parenti dell’Ovest. Il padre sostiene di aver avuto un negozio di souvenir non lontano dalla Cittadella. Però fanno tante domande: che cosa fate, che cosa succedeva qui da voi... Non mi fido, ho troppa paura. E se questi hanno ancor simpatia per i ribelli? Se denunciano mio fratello ai jihadisti di Deir Ezzor? O vanno a dire in giro che mio fratello fa i soldato?». Sono sentimenti diffusi, che solo la pace e il tempo potranno stemperare. Il problema è che la pace non c’è ancora e il tempo non basta mai. Per ricostruire la Siria bisognerà ricostruire gli animi. IL GAZZETTINO di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Grande coalizione, per governare non è sufficiente di Bruno Vespa I partiti si accapigliano sulla data del voto. Renzi vuole correre e far la festa alla sinistra giocando sui capilista bloccati. La sinistra vuole fare la festa a Renzi e per questo votare

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il più tardi possibile sperando che il segretario arrivi cotto alle elezioni. Forza Italia temporeggia, le altre opposizioni dicono di voler votare domattina, anche se i loro peones sperano nell’esatto contrario. Il punto centrale, tuttavia, è che la legge elettorale rivista dalla Consulta non garantisce nelle condizioni attuali nessuna coalizione di governo. Per conquistare la maggioranza assoluta alla Camera, la lista vincitrice deve raggiungere il 40 per cento dei voti. Ci sono riusciti la Dc di De Gasperi nel ’48 e nel ’53 e Renzi alle ‘europee’ del 2014. Oggi sia il Pd che il M5S sono quotati dieci punti sotto. Nemmeno un listone che vada da Pisapia ad Alfano ci riuscirebbe, ma il primo ha già detto che stare col ministro degli Esteri sarebbe un incubo. Quindi, niente da fare. Niente da fare nemmeno per un ipotetico listone che unisca tutto il centrodestra (oggi peraltro politicamente impensabile). Alla Camera ogni partito avrebbe perciò soltanto i parlamentari eletti col sistema proporzionale, tranne quelli che non dovessero raggiungere la soglia minima del 3 per cento. Sia il partito di Alfano che la Sinistra di Pisapia ballano intorno a quella cifra. Le cose non cambierebbero se fosse approvata una legge che trasformi il premio di maggioranza alla lista in premio alla coalizione. Nessuna coalizione ragionevole può infatti contare sul 40 per cento dei consensi. Ho detto ragionevole: se Grillo si alleasse con Renzi o con Salvini sfonderebbe il tetto richiesto. Ma entrambe le soluzioni sono allo stato irragionevoli. La soluzione ragionevole, di cui si è lungo discusso, sarebbe quella Pd-Ncd-Forza Italia , ma i sondaggi - anche se il partito di Alfano superasse il 3 per cento- non accreditano una somma dei seggi superiore a 300. La maggioranza richiesta è di 316. Diverso il discorso del Senato dove le soglie più alte di sbarramento e soprattutto la maggiore anzianità degli elettori favorisce sia il Pd che Forza Italia garantendo a una loro possibile coalizione una maggioranza di 10-15 seggi. Siamo tuttavia in un sistema bicamerale paritario e dunque occorre trovare una soluzione per la Camera. Ne proponiamo una folle, che costerebbe un certo pedaggio ai contraenti, ma sarebbe accolta con sollievo dai mercati e da chi crede che soltanto una Grande Coalizione possa fare le riforme che ancora occorrono per restituire velocità a un Paese che cresce poco o niente da quasi vent'anni. Il Pd, Forza Italia e i centristi dovrebbero concordare nei dettagli un programma prima delle elezioni e qui sta la lucida follia della nostra ipotesi l' assegnazione preventiva degli incarichi di un governo che dovrebbe essere fortissimo. Infine, lista comune dei tre partiti. Il Pd pagherebbe un prezzo a sinistra, Forza Italia lo pagherebbe a destra, i centristi guadagnerebbero qualcosa, ma questa sarebbe la sola possibilità di superare (probabilmente) il 40 per cento, contando sui voti di chi negli ultimi anni non è andato a votare e dovrebbe essere convinto dalla forza politica di un sacrificio fatto davvero nell'interesse pubblico. Sappiamo che questa ipotesi ha possibilità di realizzazione prossime allo zero. Ma dobbiamo sperare che qualcuno abbia idee migliori per garantire una ragionevole governabilità. Pag 18 Usa - Europa, la nuova sfida passa per il commercio di Giulio Sapelli La politica commerciale degli Stati Uniti è il cavallo di battaglia di Donald Trump. E' questo, unitamente al problema dell'immigrazione e dell'aborto, il cuore essenziale del cambiamento che il neopresidente vuole realizzare. Riflettiamo in una prospettiva di lungo periodo e tutto ci apparirà più convincente. Gli Stati Uniti hanno ricostruito il mondo dopo la seconda guerra mondiale non in base ai propri immediati interessi, come alcuni superficialmente affermano, ma nella prospettiva della guerra civile europea che dopo la vittoria contro il nazifascismo europeo e asiatico diveniva ancora più dura. Il problema era l'Unione Sovietica e come combatterla per difendere l'Occidente e i suoi valori. L'America scelse il commercio mondiale come principale arma strategica: l'Europa doveva divenire l'antemurale allo stalinismo grazie alla sua crescita economica, da cui sarebbe (così si credeva) scaturita un'impetuosa crescita democratica che avrebbe vinto la guerra civile contro l'Urss anche sul piano delle idee. Quali strade percorrere? In primo luogo si doveva rendere più coesa l'alleanza militare ed economica con l'Europa, da cui sarebbe poi discesa l'unità politica. Il commercio internazionale fondato su una chiara asimmetria era l'asse della nuova politica internazionale: asimmetrico perché permetteva agli alleati occidentali e asiatici di esportare senza limite alcuno nell'area nord americana, asimmetrico perché questa politica commerciale non chiedeva agli alleati alcuna controprestazione. A riprova di ciò, l'Unione Europa si costruì passo passo

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come uno Zollverein (unione doganale) in un'aerea continentale prima con basse poi con nessuna tariffa daziaria, così da favorire la libera circolazione delle merci all'interno dell' Unione, ma nel contempo erigendo attorno al perimetro continentale un muro protezionistico che creò non pochi problemi alle produzioni agricole e manifatturiere non europee che volevano dirigersi verso i mercati del Vecchio Continente. Forte dei guadagni realizzati con l'esportazione, l'Europa poteva in tal modo creare un sistema di welfare su cui costruire un consenso e una coesione sociale essenziale per fronteggiare la minaccia dei sovietici e dei loro partiti comunisti, forti in primo luogo in Italia e in Francia. Oggi questa politica deve mutare in senso non più anti russo. La Germania fu ed è tuttora la potenza continentale che più trae vantaggio da tale commercio asimmetrico per la sua eccezionale potenza di fuoco nel settore delle esportazioni a livello mondiale. Quello che valeva e vale per l'Europa valeva e vale per gli alleati asiatici più importanti, ossia Giappone e Thailandia, che esportano i loro prodotti in Usa ma mantenevano e mantengono rigide misure protezionistiche. I contadini del Mississippi non possono esportare i loro prodotti in Giappone e in Europa mentre le auto giapponesi invadono il mercato nord americano assieme a quelle tedesche, sradicando in tal modo posti di lavoro destinati agli operai nord americani che, come sappiamo, costituiscono, con gli impiegati pubblici, il cuore delle cosiddette classi medie Usa. Tutto questo aveva le sue arterie finanziarie: si pagava in dollari e questi, dopo aver invaso i mercati non Usa, ritornavano nel paese di origine reinvestiti dagli esportatori europei e asiatici nel sistema finanziario più redditizio del mondo, con quello del Regno Unito, ossia Wall Street. Ma se da una parte questa giostra monetaria ha rifinanziato senza sosta il debito Usa, dall'altra ha deindustrializzato l'America con una forza e una rapidità impressionante che nessuno aveva previsto, creando quella disuguaglianza nei redditi e nei sistemi di status che è stata tanto studiata da un pugno di accademici, quanto vissuta da milioni di persone che con Trump si sono messe in marcia in una misura e in una forma che non era mai accaduta prima. E' una lunga storia che con Trump è tornata a scuotere nelle fondamenta il sistema delle élite di potere, con conseguenze che sono per ora imprevedibili ma che vanno nel senso di chiudere definitivamente l'era della guerra civile europea e di aprirne un'altra, fondata su una sorta di risarcimento nei confronti degli Stati Uniti dei pesi che essi hanno sopportato nel periodo della cosiddetta guerra fredda. Da questa crisi non uscirà di certo vittoriosa l'Europa, prostrata dalla politica commerciale fortemente imposta dai tedeschi. Sarà probabilmente la Cina a goderne i frutti. E ciò costituisce un pericolo non lieve per la stessa civiltà occidentale. E' questo che il Regno Unito non comprende ed è questo il cuore pulsante probabilmente destinato all'infarto della Brexit. Essa si spiega non guardando all'Europa, ma agli Stati Uniti e a quanto sin qui detto. Con la stessa logica prima illustrata, Trump vuole abolire il (mai firmato) patto commerciale TransPacific. Ed ecco la contraddizione: esso poteva sì costituire un'arma contro la Cina, ma già prima di Trump si era rivelato inattuabile per il distacco dagli Usa di nazioni come le Filippine, la Malesia e la Thailandia. Il Regno Unito si illude di poter dare vita a un nuovo impero grazie all'accordo con la Cina perché ne sottovaluta fortemente l'ambizione imperiale e l'aggressività militare, a differenza di Trump. Appare dunque chiaro che sul commercio estero si sta delineando uno scenario interamente nuovo e che vuol lasciare dietro di sé un passato che era inevitabilmente destinato, Trump o non Trump, a scomparire. LA NUOVA di sabato 28 gennaio 2017 Pag 1 Lite che piace al partito del voto di Bruno Manfellotto Per mesi, diciamo la verità, i guai sono stati messi da parte, spazzati via come la polvere sotto il tappeto, per il referendum. C’era da scegliere tra Sì e No, tra innovazione e conservazione, tra bicameralismo perfetto e monocameralismo imperfetto, meglio mettere da parte deficit di bilancio e debito pubblico monstre. Girata la boa del 4 dicembre, però, ecco la Commissione europea presentare il conto: mancano all’appello 3,4 miliardi. Non è bastata una manovra finanziaria, ci vuole il bis. E proprio adesso che l’unico argomento di cui si parla è la data delle elezioni… Per capire come stanno le cose è però necessario, come in certi film gialli, fare un passo indietro. Fino alla stagione Renzi, che sembra lontana anni luce e che invece si è chiusa solo due mesi fa. Che l’Italia sia afflitta da un debito fuori controllo - 2.173 miliardi di euro, più o meno 4

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milioni e mezzo di miliardi delle vecchie lire… - ingigantito nei decenni da governi di ogni razza, non è una novità. Come non è una novità il defatigante rituale che anno dopo anno ha visto il premier di turno trattare con i censori di Bruxelles un progressivo rientro dal debito. Quasi mai raggiunto… Arrivato a Palazzo Chigi per aggredire il problema che vincola e paralizza il Paese, Matteo Renzi ha scelto la strada del braccio di ferro. Portando a casa buoni risultati. A maggio 2016, per esempio, la Commissione europea ha dato credito alle sue promesse di riforma e ha concesso un po’ di flessibilità in più, uno sconto di 7 miliardi sul debito da ridurre, quasi mezzo punto di Pil. Non poco. Specie considerando che pochi mesi prima, a fronte di un carnet di impegni, il presidente della Commissione Ue si era speso per ridurre di altri 19 miliardi i tagli chiesti all’Italia. Una significativa apertura di credito. Ad agosto poi, a bordo della portaerei Garibaldi al largo di Ventotene, il premier aveva provato a convincere Hollande e Merkel a tenere conto di due nuove emergenze che affliggevano l’Italia: i massicci sbarchi di migranti e le scosse di terremoto che avevano ferito a morte Norcia e Amatrice. Anche se la missione non era riuscita (un mese dopo il vertice di Bratislava si concluderà con una clamorosa rottura con i due partner), una garanzia Renzi l’aveva strappata: che di conti non si parlasse più fino al referendum di dicembre dal quale i leader europei si aspettavano che il premier italiano uscisse rafforzato, con la strada delle riforme spianata. E invece… Adesso che la tregua è finita, i tecnocrati europei battono cassa, tutti d’accordo su un punto: basta sconti, basta aiuti, non c’è emergenza che tenga. Che comunque c’è: la seconda ondata di terremoti; il crac delle banche, il cui costo è stimato in 20 miliardi, il flop di Alitalia, i cui esuberi saranno necessariamente a carico dello Stato. Stavolta, però, il presidente Juncker e il commissario Moscovici non sembrano più disposti a farsi commuovere, le promesse vanno mantenute: è vero che sulla tragedia dei migranti l’Italia è stata lasciata sola, ma è anche vero che su debito e deficit la Commissione ha chiuso un occhio mentre Roma non ha dato segni di ravvedimento. Le possibilità di un’ulteriore trattativa, insomma, sono ridotte al lumicino, e l’eventualità che l’Italia subisca l’onta di una procedura d’infrazione si fa maledettamente concreta. Ora, direte voi, che c’entra questa generale esibizione di muscoli con le elezioni? C'entra. La vicenda rafforza il partito del voto subito, il più presto possibile: a nessuno piace avviare una campagna elettorale dopo aver chiesto lacrime e sangue ai cittadini. E infatti già fa capolino l’intenzione di rinviare ogni decisione al governo che verrà. Già, però anche i fan dei tempi lunghi hanno le loro preoccupazioni. Manovra bis o no, toccherà dopo l’estate alla legge di Stabilità che, per tutto ciò che è stato fin qui detto, si preannuncia dura, grave, pesantissima. Tale da condizionare anche la campagna elettorale per il voto nel 2018. Molto lavoro per Sergio Mattarella. E momento decisivo per un’Italia economicamente lacerata, senza riforme e, per ora, senza una coerente legge elettorale. Torna al sommario