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RASSEGNA STAMPA di venerdì 27 febbraio 2015 SOMMARIO A proposito di “dubbie interviste anonime pro-eutanasia” (v. Rassegna stampa di ieri) troviamo oggi su Avvenire il dialogo tra un lettore e il direttore del giornale. Scrive Carlo Santoro da Roma: “Caro direttore, sul giornale “Repubblica” il 25 febbraio è apparso un articolo, intitolato «Così stacco la spina ai malati senza speranze» che mi spinge a diverse riflessioni. L’articolo, non chiarendo le condizioni dei pazienti, non chiarisce nemmeno se si tratti di eutanasia o di astensione dall’accanimento terapeutico... L’intervistato sostiene, poi, di aver assistito a 30-40 casi di eutanasia silenziosa presso il grande ospedale fiorentino in cui lavora. Poiché in Italia uccidere un malato è considerato a tutti gli effetti un reato, i casi sono due. Se l’infermiere in questione, che dice di agire «per carità cristiana», materialmente e segretamente “staccasse la spina”, si renderebbe autore di un omicidio perseguibile a termini di legge. Se invece non fosse lui l’autore, ma comunque assistesse inerte a tali operazioni, sarebbe da considerare complice di un omicida o almeno reo di favoreggiamento. Due ultime osservazioni. Poiché non deve essere difficile per le forze dell’ordine individuare uno che dice di essere «caposala» al Careggi di Firenze (quanti caposala ci saranno mai?) e che sostiene di essere co-autore di reato, mi chiedo se verrà arrestato. L’anonimo caposala, sempre secondo il giornale che pubblica l’articolo, invocherebbe una “morte degna” in condizioni dignitose. Ma perché non fa un discorso più serio sulla necessità di diffondere maggiormente le cure palliative? A tal proposito aggiungo che si insinua un dubbio più sottile: mantenendo l’anonimato, chiunque potrebbe sostenere di essere un caposala del Careggi…. A parte questo, sarebbe bene chiedersi: davvero ogni anno decine di malati in stato di incoscienza vengono soppressi «per evitare di farli soffrire»? Fa una certa impressione sentir dire che si tratta di una pratica diffusa. Se lo fosse davvero, sarebbe per il bene dei malati? Oppure per ragioni puramente economiche? Certo costa tenere in vita un malato terminale. Ma sono soldi bene spesi, dal primo all’ultimo. O dobbiamo accettare passivamente che sulla pelle di chi è gravemente malato venga attuata una pratica di eliminazione fisica, frutto della spending review? Sono cattolico anch’io, come dice di sé l’infermiere sbandierato da “Repubblica”, e spero ancora che quando sarò molto malato, andando in ospedale, nessuno vorrà sopprimermi…”. Risponde così il direttore Marco Tarquinio: “Il genere dell’intervista anonima non mi è mai piaciuto e non mi convince, caro signor Santoro. Per questo non l’ho mai praticato e, da direttore, in genere, boccio ogni proposta in tal senso. Prima di tutto, come anche lei sottolinea, perché una persona “senza volto” può essere modellata a piacimento e le si può far dire ciò che fa più comodo all’intervistatore. Per nascondere l’identità di un intervistato, insomma, deve esserci un motivo di eccezionale rilevanza morale. Nel caso delle affermazioni riportate nell’articolo che lei cita, la rilevanza e la gravità sono di genere opposto a quello che io ho in mente. Il caso del (vero o falso?) «caposala del Careggi di Firenze» somiglia, infatti, maledettamente a quello di altri personaggi – medici e infermieri – che sono stati definiti “mostri” e che in mezzo mondo hanno subìto condanne perché si dedicavano a pratiche omicide, togliendo di mezzo persone da loro giudicate indegne di vivere a causa di malattia o disabilità. Tutto questo è semplicemente raccapricciante. Ed è il vero volto della tanto edulcorata e propagandata “eutanasia”. Comunque, se vuol conoscere il mio parere di non più giovane cronista, la storia non mi quadra e non penso che sia attendibile. Un «infermiere laureato» non confonde, come lei nota, eutanasia e rifiuto dell’accanimento terapeutico. Un infermiere laureato non definisce una persona seriamente disabile, quale era Eluana Englaro, una «malata». Un infermiere laureato non definisce «vegetale» una persona in stato di minima coscienza. Mi colpisce, inoltre, che alcune argomentazioni sembrino prese di peso dalla propaganda delle lobby che promuovono la «morte a comando» come servizio statale. I lineamenti dell’intervistato sembrano, insomma, disegnati a misura della tesi che si vuol

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 27 febbraio 2015

SOMMARIO

A proposito di “dubbie interviste anonime pro-eutanasia” (v. Rassegna stampa di ieri) troviamo oggi su Avvenire il dialogo tra un lettore e il direttore del giornale. Scrive Carlo Santoro da Roma: “Caro direttore, sul giornale “Repubblica” il 25 febbraio è apparso un articolo, intitolato «Così stacco la spina ai malati senza speranze» che mi spinge a diverse riflessioni. L’articolo, non chiarendo le condizioni dei pazienti, non

chiarisce nemmeno se si tratti di eutanasia o di astensione dall’accanimento terapeutico... L’intervistato sostiene, poi, di aver assistito a 30-40 casi di eutanasia silenziosa presso il grande ospedale fiorentino in cui lavora. Poiché in Italia uccidere un malato è considerato a tutti gli effetti un reato, i casi sono due. Se l’infermiere in questione, che dice di agire «per carità cristiana», materialmente e segretamente “staccasse la spina”, si renderebbe autore di un omicidio perseguibile a termini di

legge. Se invece non fosse lui l’autore, ma comunque assistesse inerte a tali operazioni, sarebbe da considerare complice di un omicida o almeno reo di

favoreggiamento. Due ultime osservazioni. Poiché non deve essere difficile per le forze dell’ordine individuare uno che dice di essere «caposala» al Careggi di Firenze (quanti caposala ci saranno mai?) e che sostiene di essere co-autore di reato, mi chiedo se verrà arrestato. L’anonimo caposala, sempre secondo il giornale che pubblica l’articolo, invocherebbe una “morte degna” in condizioni dignitose. Ma

perché non fa un discorso più serio sulla necessità di diffondere maggiormente le cure palliative? A tal proposito aggiungo che si insinua un dubbio più sottile: mantenendo l’anonimato, chiunque potrebbe sostenere di essere un caposala del Careggi…. A parte

questo, sarebbe bene chiedersi: davvero ogni anno decine di malati in stato di incoscienza vengono soppressi «per evitare di farli soffrire»? Fa una certa impressione sentir dire che si tratta di una pratica diffusa. Se lo fosse davvero, sarebbe per il bene dei malati? Oppure per ragioni puramente economiche? Certo costa tenere in vita un

malato terminale. Ma sono soldi bene spesi, dal primo all’ultimo. O dobbiamo accettare passivamente che sulla pelle di chi è gravemente malato venga attuata una pratica di eliminazione fisica, frutto della spending review? Sono cattolico anch’io,

come dice di sé l’infermiere sbandierato da “Repubblica”, e spero ancora che quando sarò molto malato, andando in ospedale, nessuno vorrà sopprimermi…”. Risponde così il direttore Marco Tarquinio: “Il genere dell’intervista anonima non mi è mai piaciuto

e non mi convince, caro signor Santoro. Per questo non l’ho mai praticato e, da direttore, in genere, boccio ogni proposta in tal senso. Prima di tutto, come anche lei sottolinea, perché una persona “senza volto” può essere modellata a piacimento e le si può far dire ciò che fa più comodo all’intervistatore. Per nascondere l’identità di un intervistato, insomma, deve esserci un motivo di eccezionale rilevanza morale. Nel caso delle affermazioni riportate nell’articolo che lei cita, la rilevanza e la gravità sono di genere opposto a quello che io ho in mente. Il caso del (vero o falso?)

«caposala del Careggi di Firenze» somiglia, infatti, maledettamente a quello di altri personaggi – medici e infermieri – che sono stati definiti “mostri” e che in mezzo

mondo hanno subìto condanne perché si dedicavano a pratiche omicide, togliendo di mezzo persone da loro giudicate indegne di vivere a causa di malattia o disabilità.

Tutto questo è semplicemente raccapricciante. Ed è il vero volto della tanto edulcorata e propagandata “eutanasia”. Comunque, se vuol conoscere il mio parere di non più giovane cronista, la storia non mi quadra e non penso che sia attendibile. Un

«infermiere laureato» non confonde, come lei nota, eutanasia e rifiuto dell’accanimento terapeutico. Un infermiere laureato non definisce una persona

seriamente disabile, quale era Eluana Englaro, una «malata». Un infermiere laureato non definisce «vegetale» una persona in stato di minima coscienza. Mi colpisce, inoltre, che alcune argomentazioni sembrino prese di peso dalla propaganda delle lobby che promuovono la «morte a comando» come servizio statale. I lineamenti dell’intervistato sembrano, insomma, disegnati a misura della tesi che si vuol

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sostenere. Mi si metta di fronte a un nome e a fatti verificabili e cambierò opinione. Immagino, però, che all’Ospedale di Careggi – descritto come mattatoio a richiesta di inermi malati – ci si stia attrezzando per rispondere sul piano mediatico e non solo ad accuse così pesanti (e, per intanto, prendo nota della molto politica e poco decisa

smentita dell’assessore regionale toscano alla Sanità). Coraggio, caro amico, purtroppo – soprattutto in tempi di “tagli” alla spesa sanitaria – dobbiamo cominciare a preoccuparci non di essere curati troppo e di essere accompagnati con tutte le giuste pratiche palliative nell’ultimo tratto della nostra vita terrena, ma di certe

logiche (ragionieristiche e niente affatto mediche) che il popolo chiamava e ancora chiama “spiccialetto”. C’è da scongiurare l’accanimento terapeutico, ma ancor di più l’abbandono terapeutico. Ed è proprio su questo, non sull’eutanasia, che si giudica

l’efficacia scientifica, la qualità umana e il grado di civiltà di una società e del servizio sanitario reso ai cittadini” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Nel solco del Vaticano II di Cyril Vasil Nuove norme per il clero orientale cattolico uxorato AVVENIRE Pag 1 Slancio agli ultimi di Massimo Calvi Cei-Caritas e Banca Intesa insieme 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 30 “Uniamo le migliori esperienze per avere un Bes a livello globale” di Daniele Zappalà Fitoussi: bisogna rendere omogenei gli indicatori di Benessere. Ci stiamo lavorando all’Ocse, primo rapporto pronto nel 2017 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 10 I profughi all’ex scuola di Trivignano. Pronta in un mese, i soldi dal ministero di Alice D’Este Zappalorto: devono lasciare il Morosini, lavori a giorni. Quattro migranti già scappati IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Baby gang, a Marghera torna la paura di Giacinta Gimma Il parroco pensa di chiudere almeno una parte del porticato 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 I tre binari del Carroccio di Stefano Allievi Dietro lo scontro padano 10 – GENTE VENETA Tutti gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 8 di Gente Veneta in uscita

sabato 28 febbraio 2015:

Pagg 1, 4 – 6 «Meno carne, siamo cristiani» di Paolo Fusco e Giorgio Malavasi Don Gianni Fazzini, Simone Morandini e Gianni Tamino: «Dietro a una bistecca molti squilibri». Mangiarne meno per custodire la Terra. E star bene tutti

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Pag 1 Marghera nel bianco della carta geografica di Paolo Fusco Pag 3 «L’educazione cristiana passa anche per la scuola» di Marco Monaco Sabato scorso presso il centro Urbani si è svolto il convegno dedicato alle scuole materne paritarie, promosso da Fism e Pastorale scolastica diocesana, con il Patriarca. Cecchin (Fism): «Le scuole cattoliche hanno una precisa identità che deve essere condivisa da insegnanti e famiglie». Stefano Giordano: «Dallo Stato sempre meno soldi. Occorre trovare altri finanziamenti» Pag 7 Dopo “Je suis Charlie”, parte da Venezia l’appello per un umanesimo nuovo di Maria Laura Conte Serve una doppia rivoluzione: nell’Islam e nella convivenza quotidiana. Al Goldoni un islamologo cristiano, un “foreign fighter”, un docente musulmano Pagg 14 – 15 Una fede che parla la lingua della casa di Paolo Fusco E’ l’esperienza che si fa nei Gruppi d’ascolto, che per il Patriarca sono una vera “esperienza di Chiesa”, dove si assume il pensiero di Dio sull’oggi. «La Chiesa ha una dimensione sempre familiare: la scelta della casa ha un fondamento biblico». Dai colloqui di Gesù nelle case all’esperienza delle “domus ecclesiae” dei primi secoli Pagg 16 – 17 Proposte e aiuti: dopo la protesta il Lido si mobilita di Giorgio Malavasi e Lorenzo Mayer Lisa (Lido solidale e accogliente), parrocchie e cittadini si danno da fare, insieme alla cooperativa Il Lievito, per le 32 persone sbarcate a Lampedusa e arrivate al Centro Morosini. C’è chi dà il benvenuto e chi rimane perplesso. La prima protesta è rientrata e ha lasciato spazio ad una vasta disponibilità ad aiutare. E c’è chi, anch’egli straniero, ricorda di essere passato per le stesse difficoltà: «Come sarei finito se un prete non mi avesse accolto?» Pag 26 Aldo sta col lettore di Lorenzo Brunazzo Cinquecento anni fa moriva Manuzio: fu rivoluzionario nel capire il bisogno di lettura di una nuova classe di cittadini … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le paure che sfilano nella capitale di Aldo Cazzullo La manifestazione leghista Pag 2 L’idolatria e il divieto che viene dal Corano. Ma questi jihadisti mirano alle nostre tv di Roberto Tottoli LA STAMPA La Storia vittima del fanatismo di Domenico Quirico

Il chiarimento nel Pd sarà duro più del previsto di Marcello Sorgi AVVENIRE Pag 2 Interviste anonime pro-eutanasia: l’orrore, il dubbio e una certezza (lettere al direttore) Pag 2 Quella nera miseria di chi vende e compra figli di Lucia Bellaspiga Pag 3 Sotto quel cappuccio c’è ancora un uomo di Marina Corradi “Jihadi John” e la seduzione del nulla Pag 13 Taylor: “Nell’età secolare la fede fiorirà” di Lorenzo Fazzini

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Per il filosofo canadese “l’apertura portata in Occidente dall’epoca della laïcité è un’opportunità: sta ai cristiani saperla cogliere”. Fra i cattolici dibattito aperto IL GAZZETTINO Pag 1 Mediaset, una mossa ad alta intensità industriale e politica di Osvaldo De Paolini LA NUOVA Pag 1 Conflitto di interessi cercasi di Andrea Sarubbi Pag 1 Costituzione, le riforme di cui pentirsi di Mario Bertolissi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Nel solco del Vaticano II di Cyril Vasil Nuove norme per il clero orientale cattolico uxorato Fino a qualche mese fa sembrava che sulla presenza e il servizio pastorale del clero orientale cattolico uxorato nella cosiddetta diaspora, fuori cioè dei territori orientali tradizionali, non fosse possibile aggiungere nulla dal punto di vista storico o normativo che non fosse già studiato e considerato. La questione è riassunta nel canone 758 paragrafo 3 del Codex canonum ecclesiarum orientalium che recita: «A riguardo dell’ammissione agli ordini sacri dei coniugati si osservi il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris o le norme speciali stabilite dalla Sede apostolica». Seguendo la prassi antica, tutte le Chiese orientali cattoliche (a eccezione di quelle siro-malabarese e siro-malankarese che hanno una normativa propria) possono ammettere gli uomini sposati non solo al diaconato ma anche al presbiterato. Per l’esercizio del ministero da parte del clero uxorato fuori dei territori tradizionali di queste Chiese, si faceva invece riferimento alle norme speciali stabilite dalla Sede apostolica. Un recente e importante sviluppo della relativa legislazione offre l’occasione per richiamare i punti principali della questione nella sua prospettiva storica e per la presentazione della nuova normativa entrata in vigore. A partire dal 1890 la Sede apostolica ha emanato direttive secondo le quali i presbiteri delle Chiese orientali cattoliche, che esercitavano o avrebbero voluto esercitare la cura pastorale dei loro fedeli orientali fuori dei territori tradizionali, erano vincolati all’obbligo del celibato come per i chierici latini. Sporadici casi di eventuale richiesta di dispensa erano sottoposti alla Sede apostolica. La sessione plenaria della Congregazione per le Chiese orientali, tenutasi dal 19 al 22 novembre 2013 presso il Palazzo apostolico, ha trattato ampiamente la questione ottenendo al riguardo un ampio consenso dei membri. Di conseguenza, il prefetto della congregazione ha presentato al Papa la richiesta di concedere alle rispettive autorità ecclesiastiche la facoltà di permettere, a determinate condizioni, al clero uxorato orientale l’esercizio del loro ministero anche fuori dei territori orientali tradizionali. Il Santo Padre, nell’udienza concessa al prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, cardinale Leonardo Sandri, il 23 dicembre 2013, ha accolto questa richiesta, contrariis quibuslibet minime obstantibus, e il testo delle nuove disposizioni è stato pubblicato negli «Acta Apostolicae Sedis» (106, 2014, pp. 496-499) con il titolo Pontificia praecepta de clero uxorato Orientali e la data del 14 giugno 2014. Per poter comprendere la portata di queste misure, sembra opportuno almeno sommariamente richiamare la storia della legislazione, dagli inizi all’attuale normativa, più corrispondente all’attuale situazione. Nascita della norma restrittiva - Alla fine del XIX secolo la migrazione in America di cattolici orientali, in prevalenza slavi (ucraini, ruteni, slovacchi, ecc.), colse la gerarchia latina locale del tutto impreparata ad affrontare tale flusso migratorio dal punto di vista pastorale e a comprenderne le peculiarità sociali ed ecclesiali. L’idea originale di conglobare tutti cattolici sotto la giurisdizione latina trovava il suo appoggio sia nella diffusa mentalità della prestantia ritus Latini, sia nella sottovalutazione delle particolari

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caratteristiche dei cattolici orientali. Ai vescovi americani di estrazione irlandese o tedesca la possibilità per il clero orientale di essere coniugato era praticamente sconosciuta, estranea e considerata inammissibile. Di conseguenza gli ordinari latini si rivolsero con veemenza alla Sede apostolica chiedendo di emanare norme restrittive che avrebbero eliminato la differenza disciplinare nei territori e tra i fedeli affidati alla loro cura pastorale. In seguito a tale insistenza la Sacra Congregazione di Propaganda Fide, con decreto del 1° ottobre 1890, proibì al clero ruteno uxorato di risiedere negli Stati Uniti d’America. Nel 1913 la Sede apostolica stabilì che in Canada solo i celibi potevano essere ordinati presbiteri e tra il 1929 e il 1930, la Sacra Congregazione per la Chiesa orientale emanò tre decreti: Cum data fuerit del 1° marzo 1929 proibì l’esercizio del ministero al clero ruteno uxorato in emigrazione nell’America del nord; Qua sollerti del 23 dicembre 1929 estese la proibizione del ministero a tutto il clero orientale uxorato emigrato in America del Nord e del Sud, in Canada e in Australia; Graeci-Rutheni del 24 maggio 1930 stabilì che solo gli uomini celibi potevano essere ammessi in seminario e promossi all’ordine sacro. Questi decreti, che inizialmente riguardavano solo il clero orientale negli Stati Uniti e nel Canada, per la prima volta introducevano l’obbligo generale del celibato per i chierici cattolici orientali e costituivano una sorta di precedente giuridico, che veniva poi esteso agli altri territori considerati non orientali. La normativa veniva motivata dalla difficoltà - ma forse anche con scarsa volontà - di spiegare ai fedeli latini che il celibato obbligatorio dei presbiteri vige solo nella Chiesa latina, con la preoccupazione e presunzione che la presenza del clero cattolico orientale uxorato sarebbe stata nociva al rispetto che i fedeli laici nutrono per il clero cattolico e che questa, inoltre, avrebbe messo in pericolo il celibato dei presbiteri latini. Tutto sommato, dunque, i motivi che hanno causato la nascita della norma restrittiva sembrano essere di natura pratica e pastorale piuttosto che teologica ed ecclesiologica. I risultati dell’introduzione dell’obbligo del celibato per il clero orientale cattolico sono stati controversi. Da una parte si arrivò all’uniformità della disciplina, ma dall’altra le comunità cattoliche orientali si divisero. Nei primi decenni successivi all’introduzione delle norme restrittive per il clero uxorato, circa duecentomila fedeli ruteni, vedendosi in pericolo di essere privato dei ministri del loro rito, passarono all’ortodossia. I fedeli e il clero rimasti nella Chiesa cattolica si sottomisero a tale normativa, ma restava un senso di disagio. Infatti, nella disputa che portò alla legislazione restrittiva, i fedeli orientali non furono sufficientemente consultati e le esigenze dei presbiteri e dei vescovi orientali non vennero prese in debita considerazione e perciò tale legislazione fu percepita come un’imposizione più che uno sviluppo organico corrispondente alle tradizioni. Il periodo postconciliare - Dopo il Vaticano II, anche sulla base delle affermazioni del decreto Orientalium ecclesiarum sul rispetto delle tradizioni orientali ubique terrarum, i capi di alcune Chiese orientali cattoliche e altri gerarchi si sono rivolti alla Sede apostolica chiedendo l’abrogazione della legislazione restrittiva. Infatti il concilio insegna che le discipline particolari degli orientali, raccomandate per veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle loro anime. Nonostante ciò, in varie lettere autografe di Paolo VI e Giovanni Paolo II ai presuli delle Chiese melchita e ucraina veniva ribadita la permanenza della norma restrittiva per il clero uxorato in diaspora. Le motivazioni addotte richiamavano la gerarchia orientale au sens de l’Eglise universelle e alla necessità di tenere conto des répercussions que peuvent provoquer chez d’autres rites de l’Eglise Catholique. Concretamente, viene specificato nella lettera della Congregazione per le Chiese orientali n. 344/70 del 30 gennaio 1980, di quelle ripercussioni que la présence de prêtres orientaux mariés, … pose des problèmes délicates aux communautés de rite latin. Come interpretare tale invito al senso del bene della Chiesa universale e quali sono stati i problemi delicati del rito latino all’epoca connessi con la presenza del clero sposato? Con ogni probabilità si può intravedere in tale invito l’ombra della grave crisi del celibato sacerdotale che ha scosso la Chiesa latina, specialmente in occidente nel periodo postconciliare, in particolare negli anni settanta del secolo scorso. I numerosi abbandoni del sacerdozio e la contestazione diffusa della normativa latina sul celibato sono stati un fenomeno che ha gravemente ferito la Chiesa cattolica. In quest’ottica si comprendono i timori che la revoca della normativa restrittiva per il clero orientale uxorato, richiesta dai presuli orientali, sarebbe stata in quel periodo probabilmente manipolata e interpretata come un argomento contro il celibato del clero latino e come un segno della vacillazione

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della Chiesa di fronte alle pressioni indebite, o addirittura sarebbe stata guardata con una sorta di malcelata invidia da una parte del clero latino, contestatario nei riguardi della normativa tradizionale della Chiesa latina. Dalla crisi postconciliare del celibato clericale nella Chiesa latina sono passati decenni. Va poi ricordato che attualmente nell’occidente latino esercitano il servizio pastorale decine di sacerdoti provenienti dall’anglicanesimo e ordinati nella Chiesa latina, nonostante il loro stato coniugale. Questo fenomeno non sembra che perturbi minimamente i fedeli o il clero celibe. Una nuova situazione - Oggi esistono circoscrizioni ecclesiastiche orientali praticamente in tutti i continenti, e perciò la situazione dei cattolici orientali è del tutto differente da quella che esisteva negli Stati Uniti d’America verso la fine dell’Ottocento, quando nacque la legislazione restrittiva per il clero orientale uxorato, o negli anni settanta del secolo scorso, quando la Chiesa latina doveva affrontare la crisi dell’identità sacerdotale e le contestazioni al celibato. Negli ultimi decenni è cambiata anche l’opinione generale dell’episcopato latino a proposito della possibilità e/o opportunità della presenza del clero orientale uxorato nei Paesi occidentali. Questo è dimostrato anche dalle diverse conferenze episcopali nei Paesi con una significativa presenza degli orientali cattolici, che hanno espresso il loro nulla osta al ripristino della tradizionale prassi orientale, anche se si deve segnalare che in alcune conferenze episcopali ancora oggi prevale il desiderio di vedere i nuovi migranti orientali spiritualmente serviti dal clero esclusivamente celibe. Ma si deve rilevare che anche in queste nazioni, diversi membri delle stesse conferenze si rivolgono ripetutamente alla Congregazione per le Chiese orientali per chiedere la regolarizzazione della presenza dei singoli presbiteri uxorati che con successo, sacrificio e stima del popolo di Dio, lavorano nelle loro diocesi in favore dei fedeli delle loro Chiese e del proprio rito. Tutte queste considerazioni costituiscono il contesto della nuova normativa, che prevede una triplice modalità del rapporto con la presenza pastorale del clero orientale cattolico uxorato. Gli orientali cattolici non hanno dappertutto le loro strutture amministrative gerarchiche e perciò due punti delle norme pontificie contemplano i modi di procedere riguardo all’ammissione del clero orientale cattolico uxorato in queste situazioni. Nei territori dove i fedeli orientali sono privi di ogni struttura ecclesiastica specifica e sono affidati alle cure dei vescovi latini del luogo, la facoltà di consentire il servizio pastorale del clero uxorato orientale è riservata alla Congregazione per le Chiese orientali, che la eserciterà in casi concreti ed eccezionali dopo aver sentito il parere delle rispettive conferenze episcopali. In quest’ultima ipotesi, e solo in essa, si continuerà infatti ad applicare la normativa che è stata decisa nella sessione ordinaria della Congregazione per la dottrina della fede del 20 febbraio 2008, approvata da Benedetto XVI e che prima veniva applicata a tutte le richieste riguardo al servizio del clero orientale cattolico uxorato fuori dei territori tradizionali orientali. In alcuni Paesi gli orientali cattolici sono privi di un gerarca proprio e sono affidati alla cura di un ordinario, di solito un vescovo latino. In questi ordinariati per i fedeli orientali la facoltà sopra menzionata viene conferita agli ordinari, che la eserciteranno informando nei casi concreti la rispettiva conferenza episcopale e la Congregazione per le Chiese orientali. Nelle circoscrizioni ecclesiastiche orientali (metropolie, eparchie, esarcati) costituite fuori dai territori tradizionali, la facoltà di consentire il servizio pastorale del clero uxorato orientale viene conferita ai gerarchi orientali, che la eserciteranno secondo le tradizioni delle rispettive Chiese. Essi hanno altresì la facoltà di ordinare i candidati orientali uxorati provenienti dalla rispettiva circoscrizione con l’obbligo di informare previamente per scritto il vescovo latino di residenza del candidato, onde averne il parere e ogni informazione utile. Tale facoltà prevede perciò la possibilità sia di invitare il clero sposato dai territori considerati tradizionali sia di conferire gli ordini sacri agli uomini sposati provenienti da altri territori. Per quest’ultima ipotesi ovviamente valgono le stesse condizioni dei candidati celibi: percorso spirituale, pastorale vocazionale, iter degli studi filosofico-teologici e formazione seminaristica. Questa prassi è infatti comune anche nei territori tradizionali delle medesime Chiese che di regola prevedono un processo formativo comune e dello stesso spessore spirituale e intellettuale per tutti i candidati, sia quelli che si orientano verso la scelta del celibato sia coloro che prima della ricezione degli ordini sacri desiderano sposarsi. Unica differenza procedurale per i candidati al sacerdozio sposati consiste nell’obbligo per il vescovo orientale di informare previamente e per iscritto il vescovo latino del luogo di residenza del candidato, chiedendo il suo parere o eventuali informazioni utili. Tale dovere non è altro che una

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specificazione, che allarga e rende obbligatoria la procedura, che nel Codex canonum ecclesiarum orientalium è lasciata alla discrezione del vescovo se costui «lo giudica opportuno» (canone 769, paragrafo 1, 6). Il Papa, per ragioni prudenziali, ha deciso di rendere obbligatoria questa possibilità che ha il vescovo nel caso di candidati uxorati, quando l’ordinazione avviene fuori dei territori tradizionali orientali. La possibilità di soddisfare i bisogni pastorali con l’invito del clero uxorato proveniente dai territori tradizionali non dispensa i relativi gerarchi costituiti fuori del territorio dal dovere di una promozione delle vocazioni locali, anzi allarga questa pastorale vocazionale anche ai candidati che desiderano unire nelle loro vite entrambe le vocazioni. Il cambiamento della normativa restrittiva circa il servizio pastorale del clero orientale cattolico uxorato fuori dei territori orientali tradizionali costituisce un eloquente segno della fiducia che nutre il supremo legislatore nei confronti della gerarchia orientale cattolica e del riconfermato rispetto nei confronti della diversità disciplinare che vige fra le varie Chiese sui iuris orientali e la Chiesa latina. A mezzo secolo dalla pubblicazione del decreto conciliare Orientalium ecclesiarum viene in questo modo confermata la strada intrapresa da questo decreto che ha uno dei suoi capisaldi anche nella promulgazione nel 1990 del Codex canonum ecclesiarum orientalium: unica Chiesa cattolica, ma due codici di diritto canonico per questa varietas ecclesiarum, diversi approcci disciplinari, liturgici, spirituali e teologici per esprimere le stesse verità della fede. D’altra parte, di fronte a questo tanto atteso gesto di fiducia si deve sottolineare che una responsabile applicazione di tale facoltà non deve costituire, neppure minimamente, pregiudizio nei confronti del clero celibatario, orientale o latino, né tanto meno una occasione per rivendicazioni o speculazioni indebite riguardo alla prassi latina sul celibato e nei confronti dell’alta stima che gode il celibato sacerdotale anche nelle Chiese orientali cattoliche. AVVENIRE Pag 1 Slancio agli ultimi di Massimo Calvi Cei-Caritas e Banca Intesa insieme Da qualche tempo diversi indicatori economici segnalano che sull’Italia si sta finalmente per aprire una fase meno cupa. Le esportazioni, la produzione delle industrie, l’occupazione, mostrano cenni di ripresa che, nel contesto reso più favorevole dagli stimoli della Banca centrale europea, dall’euro più debole e dal calo dei prezzi petroliferi, possono far pensare a un 2015 di 'ripartenza'. Un altro elemento si è aggiunto ieri al quadro di moderato ottimismo, la fiducia dei consumatori tornata a salire dopo anni di depressione. La fiducia è un elemento decisivo in economia, e il segnale non è da sottovalutare, tuttavia questo scatto è più legato alle prospettive di lungo periodo che alla situazione attuale. Che resta abbastanza complicata, in molti casi drammatica. Prima che i segnali positivi possano trasformarsi in una condizione strutturale risollevando un Paese in ginocchio, dove un italiano su quattro è a rischio povertà, servirà del tempo. Saranno necessarie, soprattutto, piccole e grandi azioni capaci di aiutare dal basso, di tenere unite le comunità, di rafforzare le reti di sostegno vicino alle famiglie, di dare una mano in senso letterale alle persone quando il loro stato di bisogno diventa di ostacolo alla sopravvivenza e alla dignità. È, questo, il terreno dell’impegno delle nostre parrocchie, delle Caritas e delle migliaia di persone di buona volontà che fanno ricca l’Italia, persino più di tanti altri Paesi con Pil brillanti e conti pubblici virtuosi. Ed è l’esatta prospettiva nella quale si inserisce, coronando tante iniziative avviate nelle diocesi, il 'Prestito della speranza', il progetto di microcredito sociale promosso dalla Conferenza episcopale italiana in collaborazione con Banca Intesa Sanpaolo-Banca Prossima. Proposto la prima volta nel 2009, a 'Grande crisi' appena iniziata, il progetto ha erogato nelle sue prime fasi prestiti a 4.500 famiglie altrimenti escluse dal credito. Ora la Chiesa italiana assieme alla Banca partner, alimentando con l’8 per mille un fondo di garanzia di 25 milioni, punta molto più in alto: arrivare a prestare in due anni almeno 100 milioni di euro a 15mila soggetti, famiglie e coppie di fidanzati, ma anche piccole imprese, artigiani, nuove attività, giovani impegnati nel cercare o costruirsi un lavoro. Ci sono molti segnali di ripresa, oggi in Italia, ma la realtà, come ha ricordato il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, resta quella di «un Paese in affanno, che fatica a interpretare la ripresa e, quindi, a costruire il suo domani». Un contesto ancora caratterizzato, nonostante le previsioni incoraggianti, da disperazione, da una forte

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«incidenza della povertà e una diseguaglianza nella distribuzione del reddito». È per questo che il 'Prestito della speranza', nella sua riproposizione, ha deciso di portare in primo piano l’emergenza drammatica del lavoro. Perché se la fiducia è una forma di credito che si attribuisce fondamentalmente a qualcun altro, una sorta di patto tra adulti destinato a migliorare la superficie dei rapporti, la speranza – virtù spontanea per natura – è come un credito che si concede alla propria anima, nella più profonda delle relazioni, ciò che rende possibile non solo rimettersi in cammino, ma l’idea stessa di futuro. Il microcredito è uno strumento semplice. Occorrono una dotazione iniziale e un istituto bancario disposto a superare gli schemi tradizionali dell’attività creditizia, oltre alla disponibilità di persone desiderose e capaci di accompagnare – e non di abbandonare, come accade in altri casi – chi ottiene il sostegno (qui i volontari di 'Vobis', tutti bancari in pensione). L’esemplarità del 'Prestito della speranza' è nella sua spinta a rendere universale l’accesso al credito, guardando in basso, tra i più deboli del tessuto sociale ed economico, dove la positività degli indicatori non riesce a farsi sentire né a essere capita. Ma dove è la rinascita della speranza, in genere, ad anticipare ogni altro tipo di ripresa, nella consapevolezza che se non si riparte dagli ultimi, nessuno di noi riparte veramente. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 30 “Uniamo le migliori esperienze per avere un Bes a livello globale” di Daniele Zappalà Fitoussi: bisogna rendere omogenei gli indicatori di Benessere. Ci stiamo lavorando all’Ocse, primo rapporto pronto nel 2017 «Non è un cantiere titanico. Grazie a ricercatori da tempo sul piede di guerra, disponiamo di tanti lavori scientifici seri. Adesso, mancano le risorse a disposizione degli istituti nazionali di statistica. Ma resto convinto che entro un decennio potremo disporre di una serie di nuovi indicatori condivisi di ricchezza per condurre politiche migliori». Parola di Jean-Paul Fitoussi, il noto economista francese, docente anche alla Luiss di Roma, da tempo in prima linea nella riflessione per 'andare al di là del solo Pil'. Fra il 2008 e il 2009, aveva pilotato con i nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen la 'Commissione sulla misura della performance economica e del progresso sociale' voluta dall’allora presidente Nicolas Sarkozy. E adesso, prosegue quella riflessione sotto l’egida dell’Ocse, coordinando un gruppo di lavoro indipendente internazionale accanto a Stiglitz e a Martine Durand, direttrice della statistica per l’Ocse. L’Assemblée nationale, camera bassa del Parlamento francese, ha appena adottato una proposta dei Verdi per tener conto di nuovi indicatori di ricchezza nelle politiche pubbliche. Che ne pensa? Sono stato ascoltato dalla commissione parlamentare che ha proposto il testo. È un passo in avanti importante, perché il governo dovrà impegnarsi su delle cifre che riflettono il benessere e l’impatto ambientale. Queste dimensioni non potranno più essere dimenticate. Sono passati 5 anni dalla 'Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi'. Si sta davvero avanzando? Senz’altro. E adesso, all’Ocse, approfondiamo quel lavoro soprattutto per proporre a tutti gli istituti nazionali di statistica dei protocolli comuni, in modo da poter confrontare i dati statistici di ciascun Paese. Perché l’Ocse? Il segretario generale Angel Gurria si era appassionato al nostro lavoro. E fin dall’inizio, pensavamo che solo un’organizzazione internazionale potesse permetterci di raggiungere tutti gli istituti nazionali di statistica. L’Ocse ci sostiene e fornisce i propri dati. Ma lo scopo è di occuparsi di tutti i Paesi, non solo di quelli membri dell’Ocse. Consegneremo un primo rapporto nel 2017 e avvertiamo un interesse crescente di molti governi che cercano di approntare sistemi di misura del benessere, come l’Italia. Quali fattori frenano maggiormente la fine del monopolio del Pil?

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Ci troviamo in una situazione finanziaria particolare in cui mi sembra che tutti i governi stiano comprendendo l’utilità di avere altri indicatori per elaborare le proprie politiche. Al contempo, proprio a causa del-l’austerity, il vero freno è la riduzione delle risorse dedicate a questo cantiere e agli istituti nazionali di statistica. Occorrono più risorse, anche se l’obiettivo non è di abbandonare il Pil. Resterà un indicatore chiave? Resterà fondamentale soprattutto per le sue conseguenze sull’occupazione. Ma occorre migliorare il suo calcolo e affiancarlo con indicatori di benessere e sostenibilità. Intravede un gruppo di Paesi pionieri? Diversi Paesi hanno già creato a livello nazionale gruppi di lavoro ad hoc, come Gran Bretagna, Canada, Cina. E naturalmente l’Italia, con l’importante riflessione guidata da Enrico Giovannini. Adesso, il problema centrale è rendere omogenei gli indicatori di benessere finora elaborati. Non servirebbe a nulla restare con indicatori diversi per ciascun Paese. Qual è il nocciolo dell’argomentazione a favore di un superamento del Pil? Il nodo teorico fondamentale è quello della sostenibilità, secondo il quale ogni generazione dovrebbe consegnare alla seguente una quantità di capitale almeno equivalente a quello di cui ha beneficiato. Ma in realtà, non sappiamo ancora misurare bene il capitale in senso lato. Questo comprende il capitale economico, privato e pubblico, quest’ultimo già problematico da misurare. E ancor più lo è misurare il capitale umano, quello sociale e quello ambientale. Partendo da una teoria della sostenibilità, dobbiamo misurare meglio queste diverse componenti del capitale per poter dire se viviamo in situazioni sostenibili. Ciò significa che è difficile dire oggi se il sistema economico è davvero in crescita? La crescita è un concetto che si applica ai redditi. Ma certe politiche economiche possono condurre alla crescita, distruggendo al contempo il capitale. Quello naturale, com’è ormai evidente, ma pure il capitale umano e sociale. L’austerity che provoca picchi di disoccupazione sta distruggendo capitale umano e sociale. E si pensi al fattore dell’instabilità legata alla cosiddetta flessibilità dei lavoratori. Non li abbiamo considerati semplicemente perché non li misuravamo. Ma se dicessimo ai governi che per un punto in più di Pil occorre distruggerne 10 di capitale umano e sociale, forse si condurrebbero politiche diverse. In fondo, lo scopo della svolta è di giungere a migliori politiche pubbliche, economiche e sociali. Tanti governi hanno già capito di aver perduto le elezioni per non aver preso in considerazione fattori come le disuguaglianze. Nell’applicazione, su quale scala di grandezza occorre puntare? Occorrerebbe puntare su quella mondiale, perché tanti beni pubblici non si fermano di certo alle frontiere degli Stati o dei continenti. Sono essenzialmente mondiali, come l’ambiente. Ma trovare un accordo già in Europa sarebbe un passo enorme. Non abbiamo ragioni per privarci del ruolo di precursori. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 10 I profughi all’ex scuola di Trivignano. Pronta in un mese, i soldi dal ministero di Alice D’Este Zappalorto: devono lasciare il Morosini, lavori a giorni. Quattro migranti già scappati Venezia. Nel mese di luglio si era parlato a lungo di farla diventare uno degli hub di smistamento regionali. Ora invece le cose sono cambiate e la ex scuola elementare di via Ca’ Lin a Trivignano diventerà un centro di accoglienza per i profughi veneziani. La decisione è stata presa dopo i sopralluoghi, c’è anche il progetto tanto che il Ministero ha già dato il via libera per finanziare i lavori (200 mila euro) necessari per restaurare la struttura. Lì verranno spostati, entro un mese, i 32 profughi che ora si trovano al Lido al centro Morosini e gli altri che arriveranno nelle prossime settimane.«Devono spostarsi dal Lido entro un mese, andranno nella scuola di Trivignano - ha detto ieri il commissario Vittorio Zappalorto - il cantiere partirà a giorni». La scuola infatti, pur in ottime condizioni, ha bisogno di un adeguamento strutturale, a partire da un

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ampliamento dei servizi igienici. «Che vogliamo o no arriveranno - ha detto ieri Domenico Cuttaia durante una riunione in prefettura - se li ospiteremo saremo anche in grado di controllare i flussi e di gestire l’accoglienza, se diremo di no saranno per strada senza nulla di che mangiare e senza un tetto. Come possiamo pensare che le cose migliorerebbero? Avere strumenti migliora la gestione delle emergenze». Il prefetto già mercoledì aveva ricordato che l’accoglienza potrebbe essere un’opportunità su due fronti. Quella degli alberghi, per i quali sono previsti 35 euro al giorno per dieci mesi di ospitalità ma anche quella delle amministrazioni pubbliche, che potrebbero accedere ai finanziamenti per manutenzioni impossibili altrimenti, viste le sempre maggiori difficoltà dei bilanci. L’appello del prefetto ai Comuni è rimasto però praticamente inascoltato. Dei 44 comuni della provincia solo 8 accolgono i profughi. Dalla sua il Lido già «preme». «Ho scritto una richiesta formale alla prefettura - spiega Anna Maria Miraglia, presidente del Cda dell’istituzione Centri di soggiorno del Comune di Venezia -. In questo momento ci sono 32 persone, alcune se ne sono andate. Nei prossimi giorni ne arriveranno altri ma non possono fermarsi a lungo. Abbiamo bisogno di preparare la struttura per l’estate, di fare lavori sul tetto, di sistemare alcune cose. Ospitiamo ogni anno 500 persone, è chiaro che i lavori vanno fatti. Abbiamo accettato i migranti perché c’era un’emergenza ed è una scelta di civiltà. Ora però dobbiamo riavere la struttura». E’ solo una questione di tempo anche se il problema della gestione dell’emergenza ripartirà. «I conti sono presto fatti . dice Sergio Pomponio subcommissario del Comune -. Una decina di giorni fa si è parlato di 500 arrivi in Veneto, di cui 110 a Venezia. Considerato il numero delle persone ospitate finora mancano ancora un’ottantina di migranti: 50 andranno a Trivignano, gli altri? E’ una domanda che i nostri interlocutori istituzionali non vogliono porsi». Oggi intanto il prefetto incontrerà i sindaci per l’esame delle problematiche connesse all’accoglienza di migranti. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Baby gang, a Marghera torna la paura di Giacinta Gimma Il parroco pensa di chiudere almeno una parte del porticato Marghera, torna la paura. Il pestaggio di un paio di senzatetto da parte di una nuova baby gang nella notte tra martedì e mercoledì, riaccende le preoccupazioni tra gli abitanti. E induce il vicepresidente della Municipalità Bruno Polesel a lanciare ad amministratori e rappresentanti di forze politiche un appello rispetto alla moderazione quando si affrontano temi legati all'immigrazione. «Questo episodio feroce ai danni di un senzatetto che dormiva sotto i portici della chiesa di S. Antonio - commenta - suscita emozione. Ho avuto modo di parlare con l'uomo, vittima dell'aggressione: aveva il viso sfigurato dalle botte, segno di una violenza che sembra impossibile sia opera di adolescenti». Di qui l'appello alle figure di riferimento nel territorio a misurare le parole. Nei giorni precedenti all'aggressione, infatti, un paio di consiglieri municipali avevano sottolineato l'urgenza di allontanare il senza dimora dal porticato della chiesa. «Erano stati usati commenti pesanti, che sconfinavano con il razzismo e che vanno evitati a tutti i costi per evitare che possano suscitare istinti violenti in persone dalla mente disturbata» denuncia Polesel. Lo stesso vicepresidente di Marghera stava seguendo la questione della presenza del senza fissa dimora di origine rumena che, da qualche settimana, dorme sotto i portici della centralissima chiesa, insieme ad una donna italiana. Lo stesso parroco fra Roberto Benvenuto aveva cercato di convincerli a trascorrere la notte in un dormitorio, in un luogo più protetto per evitare il possibile accanimento da parte di qualche violento. E aveva comunicato questo suo tentativo andato a vuoto sul bollettino parrocchiale. Per evitare che la coppia permanesse sotto i portici aveva anche ottenuto l'autorizzazione ad installare, in futuro, pannelli di ferro battuto per impedire l'accesso sui due lati più nascosti del porticato, usati anche come latrina e, spesso, come luogo di spaccio. «Sono preoccupato per la loro incolumità. Malintenzionati - aveva scritto sul bollettino "In cammino" fra Roberto - potrebbero far loro del male». Un timore divenuto realtà. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST

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CORRIERE DEL VENETO Pag 1 I tre binari del Carroccio di Stefano Allievi Dietro lo scontro padano Sbaglia chi crede che la partita nella Lega veneta sia solo una questione personalistica, di ambizioni concorrenti. Certo, c’è anche questo: Zaia e Tosi si sopportano senza stimarsi, e sanno da sempre di essere potenzialmente alternativi per i medesimi ruoli. Ma la loro collaborazione forzata aveva portato finora reciproci vantaggi, e avrebbe potuto continuare. Zaia è un governatore popolare, con una forte base elettorale. La sua presenza quasi sempre in testa nei sondaggi di popolarità tra i presidenti di regione mostra se non altro la capacità di mettersi in sintonia con il suo elettorato. In ogni caso, spicca per personalità rispetto al ceto politico del suo e degli altri partiti che ha intorno, proveniente da una stagione politica che sembra oggi lontanissima. In più è riuscito a rimanere estraneo, e non è un piccolo merito, agli scandali che pure hanno travolto personaggi della sua amministrazione e di quella Galan precedente, in cui era vice-presidente. Scontato quindi, e ragionevole, che si presenti per un secondo mandato: è il candidato che può raccogliere più consensi. Tosi è un sindaco altrettanto popolare, e si ritiene probabilmente un cavallo di razza più forte, costretto in spazi angusti rispetto alle sue potenzialità: è evidente che il ruolo di sindaco, da tempo, gli sta stretto, anche se le sue ambizioni di leader nazionale sono andate incontro a più di un flop. E non è nemmeno estraneo al potere regionale: anche se non direttamente, Tosi un posto di rilievo nella giunta Zaia l’ha tenuto per interposte persone, con i suoi fedelissimi in ruoli chiave, a cominciare dalla sanità. Non può quindi proporsi come alternativo al governatore, di cui ha condiviso l’azione, anche come leader della Lega veneta. Ma la partita è anche di visibilità rispetto a futuri ruoli nazionali, e autenticamente politica, di obiettivi e di strategia. Ed è qui che entra in campo il terzo protagonista di questo triangolo, tutto tranne che amoroso: Matteo Salvini. Salvini ha riportato la Lega a livelli impensabili dopo gli scandali vissuti nell’era dell’ultimo Bossi. Con Maroni la Lega ha ripreso smalto e raccolto il primo grande successo: la conquista della Lombardia. Ma è con Salvini che oggi si presenta come un protagonista con fondate ambizioni nazionali: un potenziale leader della destra (quella populista, non quella liberale), in alternativa a un Berlusconi in crollo verticale di popolarità. Tutto questo però a prezzo di una trasformazione sostanziale della linea politica della Lega: da tempo i discorsi in positivo sul federalismo, e quelli in negativo contro il Sud o Roma ladrona, sono stati sostituiti da quelli contro l’euro e contro l’immigrazione e l’islam, visto che a Sud e a Roma ci si vuole pre sentare a raccogliere voti, con buone possibilità di successo. Il federalismo, l’autonomia, sono spariti dall’orizzonte degli obiettivi percorribili, in favore di una svolta di fatto lepenista che oggi porta Salvini a schiacciarsi sulla destra radicale. Questo rafforza la Lega a livello nazionale (una Lega tuttavia d’opposizione, non di governo: più potente ma fuori dai meccanismi decisionali), e quindi il suo leader; ma rischia di indebolire le Leghe di governo a livello regionale, alleate con gli stessi partiti con cui a livello nazionale si vuole rompere. Tosi, che ha costruito il suo successo su un’idea di Lega trasversale e pigliatutto, più vicina all’originale modello del partito territoriale, politicamente moderata e di fatto centrista (in questo, non diversamente da Zaia), è tra i pochi che si oppone apertamente a questo disegno, criticando proprio l’operazione politica, non solo la leadership che la propone. E questo è un problema, in una Lega che nella prassi interna è sempre stata un partito fortemente personalistico e centralistico. Quello che Tosi rivendica, anche strumentalmente, è il ritorno alle ragioni originarie, statuto alla mano. Ma è proprio ciò che è meno tollerabile da parte di Salvini, che sulla trasformazione della Lega gioca la propria partita politica nazionale. Sul modello di partito territoriale e le alleanze, tra Zaia e Tosi ci sono probabilmente più somiglianze che differenze. Li divide la linea nazionale, che uno appoggia senza troppo esporsi e l’altro contesta esplicitamente, e lo scontro di potere interno sul controllo del partito, in particolare su liste e candidature. E’ perfettamente ragionevole infatti che Zaia voglia metterci mano, essendo la spina dorsale della sua futura squadra; ma non stupisce che il segretario «nazionale» veneto voglia fare altrettanto, pena il rischio di una marginalizzazione silenziosa; e il segretario federale pure, portando egli avanti una linea politica diversa dal segretario veneto. Lo scontro sarà quindi lì, perché lì si gioca tutto. E

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i sotterranei riposizionamenti di non pochi tosiani in queste ore sono lì a dimostrarlo: e a mostrare l’aria che tira. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le paure che sfilano nella capitale di Aldo Cazzullo La manifestazione leghista La Lega che sfila a Roma come la Cgil è una novità non banale. Domani andrà in scena la rappresentazione della svolta di Salvini. Finora la Capitale era l’altrove, il nemico. Ma ora il nemico non è più lo Stato nazionale, divenuto semmai un rifugio; è l’Europa, la Germania, la moneta unica, la finanza internazionale. La Lega non vuole più abbattere Roma, la vorrebbe amministrare, insieme con la Meloni, scalzando Marino; e intanto la sceglie come fondale del corteo che apre la nuova stagione, con il corollario di artisti indignati e neofascisti scalpitanti. Lo sbarco di Salvini nel Centro-Sud è molto difficile. La Lega del Mezzogiorno prima o poi nascerà, ma non come sottomarca di un partito - si pensi al fallimento di Micciché - o come agenzia in franchising della Lega Nord. In attesa di un Bossi romano o napoletano, la nuova strategia del Carroccio, che ieri è arrivato a un passo dalla rottura con Forza Italia, va seguita con attenzione. Troppo facile liquidarla come «deriva lepenista». Il successo di Salvini è tutto dentro un tempo segnato sia dalla rivolta contro l’ establishment non solo politico, sia dalla domanda di protezione che arriva dalla provincia impaurita da fenomeni globali - la distruzione del lavoro, l’impoverimento del ceto medio, le ondate migratorie, la guerra sull’altra sponda del Mediterraneo - che l’Europa non tenta neppure di governare. Il Nord che si affaccia a Roma è un territorio uscito sfibrato da due decenni di bassa crescita e da cinque anni di recessione. La Lega non può certo rivendicarne la rappresentanza esclusiva. Ma la sua buona salute è lo specchio capovolto di un disagio sociale che il governo farebbe bene a prendere molto sul serio. Appena tre anni fa, la Lega padana di Bossi affondava nel discredito di una penosa storia familista sin troppo italiana. Se adesso la Lega nazionalista di Salvini supera Berlusconi nei sondaggi e conquista città che finora le avevano tenacemente resistito, come Padova, questo non si deve solo alla dialettica dell’«altro Matteo» - che anzi a volte lo porta a straparlare, ad esempio su Lampedusa - o all’attivismo di un Tosi alla disperata ricerca di un ruolo oltre le mura di Verona. La Lega tiene la scena perché la «questione settentrionale» è lì, intatta, e se possibile aggravata. La richiesta che sale dalle regioni più dinamiche del Paese - uno Stato più leggero, una Pubblica amministrazione più efficiente, un Fisco più equo - è rimasta inascoltata. Lo Stato continua a considerare i produttori, anziché benemeriti da proteggere, pecore da tosare; ognuno di loro ha l’impressione di procedere trascinando il peso di lavori improduttivi, di burocrazie che si autoalimentano, di privilegi castali che le recenti liberalizzazioni non hanno neppure scalfito. La questione non è solo economica, ma culturale. Il Nord si sente sottorappresentato nella vita pubblica, segnata da una sorta di «egemonia mediterranea», da una Tv di Stato la cui lingua ufficiale è il romanesco, da un’industria cinematografica che se mette in scena un piemontese o un veneto ne fa un gretto sfruttatore o un mona . Al di là del folklore - c’è da augurare ai leghisti che nessuno si presenti sotto il Colosseo con elmi cornuti; le telecamere non aspettano altro -, le paure e le rivendicazioni che saranno espresse domani a Roma meritano una risposta più seria delle solite battute. Pag 2 L’idolatria e il divieto che viene dal Corano. Ma questi jihadisti mirano alle nostre tv di Roberto Tottoli Le immagini delle statue distrutte a Mosul ricordano la furia contro i Buddha di Bamiyan. In quel caso, più di dieci anni fa, furono i talebani in Afghanistan a decapitare statue. Oggi i militanti del califfato ne imitano le gesta e prendono a picconate reperti e oggetti millenari. La proibizione è la stessa delle immagini e ancora più forte: la paura è che riproduzioni tridimensionali di esseri viventi e soprattutto uomini possano indurre

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all’idolatria. E l’idolatria fu il grande avversario del monoteismo coranico predicato da Maometto. Il Corano, come la tradizione ebraica, descrive il patriarca Abramo distruggere idoli. Quando riconquistò la Mecca, Maometto fece immediatamente abbattere idoli e mai concesse alle tribù che a lui si sottomisero di conservare statue e oggetti che li riproducevano. La tradizione più tarda ha rafforzato e specificato i termini della proibizione. Con le consuete differenti interpretazioni. Per alcuni giuristi o esperti di tradizione islamica statue senza testa sono ammissibili, così come giochi e oggetti per bimbi che riproducono il corpo umano. Oggetti d’arte o antichi reperti raccolgono pareri diversi, ma nei secoli passati, che ce li hanno tramandati fino a oggi, vi è stata tolleranza. Il fermo divieto religioso ha piuttosto riguardato la realizzazione di nuove statue e busti, anche di personaggi eminenti, che l’Islam tradizionale ha sempre visto con sospetto, ancor più di immagini e illustrazioni nei libri. La proibizione di riprodurre esseri animati ha dato così vita a una delle peculiarità più importanti dell’arte islamica: l’aniconismo e la stilizzazione che trovano la massima espressione nei virtuosismi calligrafici. Se l’Islam medievale ha conservato punti di vista diversi e tolleranza verso reperti antichi, forme di tradizionalismo più radicale hanno invece condannato senza mezzi termini statue e riproduzioni. Il wahhabismo nacque nella penisola araba proprio lanciando violente campagne e promuovendo distruzioni di pietre o altri manufatti in odore di essere utilizzati simbolicamente da uomini. La repulsione per idolatria e costruzioni monumentali li ha spinti ad abbattere anche quel che vi era sulla tomba di Maometto a Medina. Il salafismo contemporaneo ne segue le orme e abbraccia le interpretazioni più restrittive, guardando con sospetto a ogni riproduzione tridimensionale del corpo umano. Ogni statua non può che essere abbattuta e rigettata perché anti-islamica. Gli efferati atti dell’Isis cercano spasmodicamente l’effetto mediatico. Le martellate alle statue di Mosul vogliono scioccare come le esecuzioni e colpire l’immaginario occidentale. Usano però argomenti tradizionali sensibili e sfidano concezioni musulmane diffuse e centrali nella storia islamica. Come i talebani a Bamiyan, l’Isis lancia la sfida al mondo e vuole dire agli altri musulmani che il suo credo è netto e non conosce mediazioni. LA STAMPA La Storia vittima del fanatismo di Domenico Quirico Perché il bassorilievo di un toro antropomorfo del primo millennio assiro fa paura al califfato? Perché statue della meravigliosa arenaria di Mosul spaventano lo stato islamico, occupano i suoi sgherri come i bombardamenti americani: tanto che li fanno a pezzi, si accaniscono sudando nella polvere, li gettano al suolo sbriciolati come se fossero nemici armati o ribelli? Perché la Storia è il principale avversario dello stato totalitario, di ogni Stato totalitario: come gli uomini, più degli uomini. Per il califfato c’è, infatti, una Storia impura come ci sono uomini impuri: ed è tutto quello che è esistito prima della linea tracciata sul passato, il nostro e il loro. Le pietre, le statue, i templi parlano. Tutti li possono leggere. Parlano più dei sermoni e dei discorsi: sono lì, esistono per smentire chi vuole semplificare, annullare, maledire: chi esige un passato senza sfumature periodi svolte. Allora bisogna ucciderle, quelle pietre, polverizzarla per affermare che la Storia è stata scritta di nuovo e definitivamente. Altrimenti l’impalcatura della finzione cade, l’avvento islamista diventa arbitrario, incerto, una parentesi che finirà, prima o poi. Per questo in Iraq, come prima in Afghanistan, e poi per i libri e le tombe di Timbuctu, la storia e l’archeologia sono diventate ostaggi e vittime: come gli uomini, anche loro sono finite nella lista di ciò che contamina la società perfetta. Che è solo quella omologata da questa sterminata ubriacatura di fanatismo che, come la peste, marcia dall’oriente verso occidente. Hanno scelto male il luogo del loro primo califfato, gli uomini di Daesh: hanno scelto proprio la terra tra i due fiumi dove la Storia è nata, si è composta e scomposta mille volte, ha cancellato imperi e città, invasori e vittime nutrendosi delle pietre dove passavano il vento e la sabbia, ne ha consumato le brevi glorie per trasformarsi e costruire di nuovo. Continuamente. Intarsiata come le opere della partica Hatra, ieri distrutte, di innumerevoli vibrazioni interne. Altre civiltà, altri mondi, altri uomini. Per secoli, qui, sul ciglio del deserto e delle montagne dove si annidavano i nomadi, gli invasori, affacciata sul verde come sul mare, la civiltà ha ordito il tempo mai omogeneo dell’uomo. Dietro, il deserto; come riserva

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inesauribile di fame di sete di morte. In mezzo il fiume con le città, la scrittura, i templi di dei sempre diversi, le palme, i canali per l’irrigazione, la vita. E poi il verde dell’altra riva e poi, subito dopo, come un bastione, l’altro deserto, quello degli arabi invasori. Senza questo spazio fisico non si può leggere ciò che nei millenni è stato costruito, ricostruito, copiato. Gli scalpellini assiri rinettavano i blocchi di materia non ancora incompiuti. Sembra di udire il suono argentino di quei colpi minuti levarsi nell’aria come il frullare delle ali di uccelli. I raggi del sole come zagaglie sembrano scheggiare ancora la pietra arrostita dolcemente, cotta e ricotta e poi mielata. Quei raggi sembrano ancora sfiorare, dopo secoli, la materia di quei tori giganteschi che, all’ingresso del Palazzo, scandivano magiche formule di buona fortuna e di benevolenza degli dei. Erano divinità crudeli, spietatamente immanenti sugli uomini come il dio che, illecitamente arruolato, muove il trapano iconoclasta di questi lanzichenecchi che credono di essere santi. Ancora, come per le infami esecuzioni degli ostaggi, non siamo noi i destinatari di questi delitti. Sono gli altri musulmani. Sono loro che devono imparare il brusco messaggio: la Storia non esiste più, è iniziata la Storia nuova, assoluta e unica, che è quella dello Stato islamista. Forse i fanatici possono cacciare e uccidere tutti i cristiani, gli alauiti, gli yazidi, i musulmani tiepidi. Ma la Storia è troppo grande per essere uccisa. Ogni qualvolta, grattando la terra come accade in Siria e in Iraq, spunta un frammento di argilla o di arenaria, grida la irrevocabile complessità del Tempo dell’uomo. Il chiarimento nel Pd sarà duro più del previsto di Marcello Sorgi Il chiarimento chiesto da Renzi ai gruppi parlamentari del Pd si annuncia più duro del previsto. Bersani e Fassina hanno annunciato che non parteciperanno all'assemblea convocata da Renzi per oggi. E in un'intervista l'ex segretario ha detto che non ci sta a fare il «figurante» e non condivide le ultime mosse del premier, il varo dei decreti del Jobs Act senza tenere conto delle riserve emerse nel dibattito alla Camera e il modo in cui ha fatto votare la riforma del Senato. La questione, nuda e cruda, è questa: il Pd può - o deve - trasformarsi nel partito del Presidente? La minoranza bersaniana è entrata in agitazione, anche perché la convocazione da Palazzo Chigi è arrivata insieme con un serrato ordine del giorno dell'assemblea e con la raccomandazione a fornire al dibattito contributi brevi ed espressi in linguaggio chiaro. Un messaggio considerato sfottente, al quale Bersani e i suoi intendono reagire ponendo il problema dell'eccessivo uso di decreti da parte del governo e della velocità con cui Renzi pretende sia portato a termine l'esame dei testi. Parola più, parola meno è ciò che le opposizioni di destra e di sinistra sono andate a dire al Quirinale dopo il duro confronto sulla riforma del Senato alla Camera, che ha portato il premier a chiedere la seduta fiume e il contingentamento dei tempi per battere l'ostruzionismo del largo fronte - da Forza Italia ai 5 stelle - che ha finito per mettere in scena l'Aventino, cioè a costringere la maggioranza ad approvarsi da sola la riforma in un'aula rimasta vuota a metà. Porre lo stesso tipo di obiezione è ovviamente più complicato per il Pd, dato che Renzi sostiene che la pressione del governo sul Parlamento, soprattutto sulla Camera, dove sulla carta può disporre di numeri più forti, è causata dal fatto che l'opposizione, invece di confrontarsi, sceglie troppo spesso l'ostruzionismo. Ma Bersani e i suoi intendono farlo egualmente e senza dirlo si rivolgono anche a Mattarella. Ad alimentare l'inquietudine della minoranza è anche un movimento di truppe nei gruppi che ha visto la creazione di una corrente renziana, a cui hanno lavorato il sottosegretario Graziano Delrio e Matteo Richetti, aperta a diverse componenti interne e con l'obiettivo di ridurre l'influenza della minoranza tra deputati e senatori. Alla vigilia di scadenze importanti come la legge elettorale e adesso anche la riforma della regolamentazione delle tv, il rapporto tra Renzi e le sue truppe parlamentari necessita insomma di un tagliando che tuttavia non sarà tanto facile. AVVENIRE Pag 2 Interviste anonime pro-eutanasia: l’orrore, il dubbio e una certezza (lettere al direttore) Caro direttore, sul giornale “Repubblica” il 25 febbraio è apparso un articolo, intitolato «Così stacco la spina ai malati senza speranze» che mi spinge a diverse riflessioni.

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L’articolo, non chiarendo le condizioni dei pazienti, non chiarisce nemmeno se si tratti di eutanasia o di astensione dall’accanimento terapeutico... L’intervistato sostiene, poi, di aver assistito a 30-40 casi di eutanasia silenziosa presso il grande ospedale fiorentino in cui lavora. Poiché in Italia uccidere un malato è considerato a tutti gli effetti un reato, i casi sono due. Se l’infermiere in questione, che dice di agire «per carità cristiana», materialmente e segretamente “staccasse la spina”, si renderebbe autore di un omicidio perseguibile a termini di legge. Se invece non fosse lui l’autore, ma comunque assistesse inerte a tali operazioni, sarebbe da considerare complice di un omicida o almeno reo di favoreggiamento. Due ultime osservazioni. Poiché non deve essere difficile per le forze dell’ordine individuare uno che dice di essere «caposala» al Careggi di Firenze (quanti caposala ci saranno mai?) e che sostiene di essere co-autore di reato, mi chiedo se verrà arrestato. L’anonimo caposala, sempre secondo il giornale che pubblica l’articolo, invocherebbe una “morte degna” in condizioni dignitose. Ma perché non fa un discorso più serio sulla necessità di diffondere maggiormente le cure palliative? A tal proposito aggiungo che si insinua un dubbio più sottile: mantenendo l’anonimato, chiunque potrebbe sostenere di essere un caposala del Careggi…. A parte questo, sarebbe bene chiedersi: davvero ogni anno decine di malati in stato di incoscienza vengono soppressi «per evitare di farli soffrire»? Fa una certa impressione sentir dire che si tratta di una pratica diffusa. Se lo fosse davvero, sarebbe per il bene dei malati? Oppure per ragioni puramente economiche? Certo costa tenere in vita un malato terminale. Ma sono soldi bene spesi, dal primo all’ultimo. O dobbiamo accettare passivamente che sulla pelle di chi è gravemente malato venga attuata una pratica di eliminazione fisica, frutto della spending review? Sono cattolico anch’io, come dice di sé l’infermiere sbandierato da “Repubblica”, e spero ancora che quando sarò molto malato, andando in ospedale, nessuno vorrà sopprimermi… (lettera di Carlo Santoro, Roma) Risponde il direttore Marco Tarquinio: Il genere dell’intervista anonima non mi è mai piaciuto e non mi convince, caro signor Santoro. Per questo non l’ho mai praticato e, da direttore, in genere, boccio ogni proposta in tal senso. Prima di tutto, come anche lei sottolinea, perché una persona “senza volto” può essere modellata a piacimento e le si può far dire ciò che fa più comodo all’intervistatore. Per nascondere l’identità di un intervistato, insomma, deve esserci un motivo di eccezionale rilevanza morale. Nel caso delle affermazioni riportate nell’articolo che lei cita, la rilevanza e la gravità sono di genere opposto a quello che io ho in mente. Il caso del (vero o falso?) «caposala del Careggi di Firenze» somiglia, infatti, maledettamente a quello di altri personaggi – medici e infermieri – che sono stati definiti “mostri” e che in mezzo mondo hanno subìto condanne perché si dedicavano a pratiche omicide, togliendo di mezzo persone da loro giudicate indegne di vivere a causa di malattia o disabilità. Tutto questo è semplicemente raccapricciante. Ed è il vero volto della tanto edulcorata e propagandata “eutanasia”. Comunque, se vuol conoscere il mio parere di non più giovane cronista, la storia non mi quadra e non penso che sia attendibile. Un «infermiere laureato» non confonde, come lei nota, eutanasia e rifiuto dell’accanimento terapeutico. Un infermiere laureato non definisce una persona seriamente disabile, quale era Eluana Englaro, una «malata». Un infermiere laureato non definisce «vegetale» una persona in stato di minima coscienza. Mi colpisce, inoltre, che alcune argomentazioni sembrino prese di peso dalla propaganda delle lobby che promuovono la «morte a comando» come servizio statale. I lineamenti dell’intervistato sembrano, insomma, disegnati a misura della tesi che si vuol sostenere. Mi si metta di fronte a un nome e a fatti verificabili e cambierò opinione. Immagino, però, che all’Ospedale di Careggi – descritto come mattatoio a richiesta di inermi malati – ci si stia attrezzando per rispondere sul piano mediatico e non solo ad accuse così pesanti (e, per intanto, prendo nota della molto politica e poco decisa smentita dell’assessore regionale toscano alla Sanità). Coraggio, caro amico, purtroppo – soprattutto in tempi di “tagli” alla spesa sanitaria – dobbiamo cominciare a preoccuparci non di essere curati troppo e di essere accompagnati con tutte le giuste pratiche palliative nell’ultimo tratto della nostra vita terrena, ma di certe logiche (ragionieristiche e niente affatto mediche) che il popolo chiamava e ancora chiama “spiccialetto”. C’è da scongiurare l’accanimento terapeutico, ma ancor di più l’abbandono terapeutico. Ed è proprio su questo, non sull’eutanasia, che si giudica l’efficacia

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scientifica, la qualità umana e il grado di civiltà di una società e del servizio sanitario reso ai cittadini. Pag 2 Quella nera miseria di chi vende e compra figli di Lucia Bellaspiga Che cosa avrà avuto in cuore quella madre, una donna rumena, raccogliendo le poche cose di suo figlio in una valigia e partendo con lui per l’Italia, sapendo bene che a casa sarebbe tornata senza di lui? Con che animo avrà chiuso la porta, conscia che non sarebbe più rientrato? E a lui, al suo bambino, che cosa avrà spiegato? Perché forse gli avrà detto di salutare per l’ultima volta il padre e i fratelli, prima di cedere alla miseria nera, quella che affama ma ancor più anestetizza i sentimenti, e di venderlo a una ricca coppia di italo-svizzeri. Un dramma emerso ieri in Sicilia, dove il traghetto è approdato a Messina con a bordo il piccolo, sua madre e la coppia di italiani. Se non che i carabinieri erano già lì, pronti ad arrestare gli otto adulti, tutti in maniera diversa complici e colpevoli di quel turpe baratto: un essere umano indifeso in cambio di trentamila euro. In carcere sono finiti i due coniugi acquirenti, la madre e il fratello maggiore del bambino, i pregiudicati messinesi autori della tratta e i loro intermediari italiani. Un’operazione “brillante”, come si usa dire, cui i militari dell’Arma sono arrivati intercettando le telefonate in un’indagine su un traffico di auto rubate. Quale allora la loro sorpresa quando, durante una di queste telefonate, si sono resi conto che il «pacchetto» di cui si parlava non era una macchina ma un figlio. Perché così i trafficanti chiamavano Angelo (nome di fantasia), «pacchetto», o in alternativa «cosetto». E quel pacco, quella cosa, non sapeva di avere il destino già segnato dalla nascita, se è vero che la coppia di ricchi acquirenti, abituati a pensare che il denaro compra tutto, fin dal 2008 aveva dichiarato la nascita di un figlio “fantasma”, in realtà mai esistito, pre-meditando con agghiacciante cinismo quel baratto avvenuto solo adesso. Così si spiega anche la strana scelta di “comprarsi” un bambino in fondo attempato, forse difficile da “far affezionare”, che solo con gli anni avrebbe finalmente dimenticato il volto di quella madre che un tempo lo aveva tenuto per mano salendo su una nave bianca e poi si era dissolta fino a confondersi con un pallido sogno. Non chiamiamolo amore, non 'desiderio di avere un figlio': la ricca coppia siciliana, che in Svizzera gestisce alberghi e night club, e ha già una figlia maggiorenne, non volendo perder tempo con procedure legali di adozione, si è rivolta ai due ladri di auto, che a loro volta hanno coinvolto i complici in Romania. Pago e compro, pago e ho diritto. Nessuna pena per quel figlio preteso, non un attimo di compassione pensando che anche lui, come ogni bambino, amava sua mamma e l’avrebbe invocata per giorni e notti, disperato e impaurito. E che cosa gli avrebbero spiegato, una volta in Svizzera? Che se n’era andata abbandonandolo con loro, che era cattiva ed era meglio dimenticarla, che gli conveniva il prima possibile affezionarsi a loro, i nuovi padroni, perché se compri una cosa questa è tua... Lo avrebbero consolato, certamente, comprando (di nuovo questo verbo) i suoi sorrisi: è facile – si saranno detti – con un bambino così povero che non ha avuto mai un vestito nuovo, figuriamoci un iPad. Perché è questa, infatti, la vigliaccata: il sottile ricatto del ricco verso il povero. Per nera miseria la mamma di Angelo ha accettato di cederlo ad altri, forse ascoltando chi le diceva che con quei signori sarebbe stato meglio. La stessa nera miseria che convince altre madri, tutte del Terzo Mondo, a separarsi dal figlio non appena lascia il loro grembo: utero in affitto, lo chiamano, come fosse un lecito commercio, un contratto alla pari, tu produci io ti pago. Ma il “prodotto” (il “cosetto”, il “pacchetto”) è un figlio. E nessuna madre arriverebbe a venderlo se non fosse sadicamente sfruttata nella sua povertà. Certo mondo ricco lo chiama “diritto”: infastidito da quell’“utero a noleggio” troppo realista, preferisce parlare di “madre portante” o “gestazione di sostegno”. Lo denuncia la più bella, e non a caso la meno pubblicata, tra le vignette di Charlie: una donna nera, gravida, è tenuta al guinzaglio da due opulenti gay occidentali. Loro sorridono con fare filantropico e si definiscono genitori, lei spezza l’ipocrita eufemismo: «Io sono una schiava». Schiava lei, schiavo il suo bambino: che sia comprato al concepimento o invece a otto anni. Pag 3 Sotto quel cappuccio c’è ancora un uomo di Marina Corradi “Jihadi John” e la seduzione del nulla

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Quella sagoma nera senza un volto, con un pugnale che luccica nella mano sinistra e accanto, in ginocchio, un prigioniero atterrito, era diventata per noi occidentali una sorta di spettro. Il simbolo di un terrore cieco e di una barbarica violenza. Il boia, peraltro, parlava un inglese perfetto, e anche questo ci smarriva: dunque, in quell’oscuro esercito militano uomini nati e cresciuti fra noi. E ora 'Jihadi John', il boia della decapitazione dei giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff e di almeno altri quattro ostaggi, ha un nome, ha rivelato la Bbc. Mohamed Emwazi, 27 anni, cittadino britannico originario del Kuwait. Cresciuto a Londra, in un tranquillo quartiere che niente ha a che fare con le periferie degli emarginati, in una dignitosa casa di mattoni rossi, in una famiglia della classe media. Laureato in informatica alla Università di Westminster. Per il resto, poco è rimasto di lui nel suo quartiere: un ragazzo gentile, dicono, con un debole per i bei vestiti. Musulmano praticante, andava alla moschea di Greenwich, come migliaia di pacifici islamici londinesi. Fin qui il ritratto del boia della porta accanto. Fino ai vent’anni e oltre, un ragazzo così normale. Poi Emwazi si fa irrequieto: va in Tanzania, lo espellono, va a lavorare in Kuwait e vuole sposarsi, ma, rientrato a Londra, gli viene vietato l’espatrio. I servizi ormai lo tengono d’occhio. Non si sa come, poi, riesca a raggiungere la Siria. Ma quest’ultima parte della storia è per noi meno misteriosa della prima, di quel 'prima' da studente londinese di informatica: la più nuova delle scienze, l’alfabeto del futuro. Uno studia per anni la tecnologia digitale, diventa un maestro della comunicazione virtuale, e poi lo ritroviamo come un unno: con un pugnale in mano, mentre si prepara a sgozzare un uomo inerme. C’è un salto, fra la storia occidentale di 'Jihadi John' e quella violenza barbarica, che non riusciamo a comprendere. Che ci smarrisce, come un beffardo tornare indietro della storia; dove la scienza e la tecnologia compiono meraviglie, e gli uomini, invece, possono restare bestiali come millenni d’anni fa. Un poco, forse, ci conforta che il boia jihadista dall’ottimo accento londinese abbia ora un nome. Con un nome, un passato, una famiglia, è un po’ meno un fantasma. Tuttavia, indecrittabile e sbalorditivo ci resta il suo percorso: gli studi, i vestiti firmati, il metrò mattina e sera, e poi? Poi che succede, in questi ragazzi come gli altri? Potremmo capire un malvivente, e perfino forse un terrorista, ma ammutoliamo di fronte all’odio totale per il nostro mondo che quel boia in nero, cittadino britannico, rappresenta. Che virus è, quale pestilenza? Ieri su 'Le Monde' un ex militante di un gruppo islamico armato raccontava la sua storia. Un ragazzo di provincia, la madre impiegata, il padre che non c’è, una vita noiosa. L’ex terrorista non spiega chiaramente la sua scelta, ma pronuncia una frase che colpisce. L’idea del 'martirio' islamico, racconta, a un certo punto comincia a affascinarlo: gli succede, dice, di arrivare a desiderare di «dare un senso alla morte, piuttosto che alla vita». Affascinati dalla morte, dunque, una morte spettacolare, sfidata nella guerra, se non addirittura cercata e corteggiata? Riguardando i video delle decapitazioni si nota che, alle spalle di vittima e carnefice, c’è solo il deserto. Né vegetazione né villaggi né uomini, solo sassi e polvere, soltanto il nulla. Così come la maschera nera nasconde e rinnega ogni fattezza umana. L’adorazione del nulla. Cosicché, saputo il nome del boia dal perfetto accento British, ci resterebbe un desiderio: vederne la faccia. La guarderemmo a lungo, ostinatamente. Certi di trovare, alla fine, un tratto ancora quasi infantile, un segno di espressione, o uno spiraglio nello sguardo ostile: che ci dicano che sotto il cappuccio del boia, nascosto e censurato e negato, tuttavia c’è ancora un uomo. Pag 13 Taylor: “Nell’età secolare la fede fiorirà” di Lorenzo Fazzini Per il filosofo canadese “l’apertura portata in Occidente dall’epoca della laïcité è un’opportunità: sta ai cristiani saperla cogliere”. Fra i cattolici dibattito aperto Studioso del multiculturalismo, tra i maggiori esponenti della corrente filosofica che va sotto il nome di “comunitarismo” (celebre il suo Radici dell’io, Feltrinelli), negli ultimi anni Charles Taylor ha incentrato il suo studio sul rapporto tra religione, spazio pubblico e cultura. Il suo poderoso L’età secolare (uscito in inglese nel 2007, poi tradotto da Feltrinelli) è diventato in poco tempo una pietra miliare nella riflessione sulle relazioni tra fedi e storia. Docente emerito all’Università McGill di Montréal, Taylor ha accettato di rispondere ad Avvenire mentre è in procinto di arrivare a Roma dove parteciperà ad alcuni eventi di alto profilo (vedi box).

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Professor Taylor, “Rinnovare la Chiesa in un’epoca secolare” è il titolo del convegno cui lei partecipa settimana prossima all’Università Gregoriana. Questo slogan ci fa pensare subito ai due anni di papa Francesco, da molti considerato un segno di questo rinnovamento. In che modo viene considerato papa Bergoglio negli Stati Uniti e in Canada? «In Nord America papa Francesco viene visto come un grande propugnatore del rinnovamento della Chiesa. Egli ha rotto con le istanze di un’autodifesa conservatrice e di un’autogiustificazione che prima apparivano prevalenti. Inoltre sta sempre più mettendo in primo piano la missione della Chiesa a favore delle persone svantaggiate». Lei sostiene – e credo che lo farà anche nell’intervento che terrà a Roma – che uno dei compiti della Chiesa oggi è creare “ponti” tra coloro che, in quanto credenti, sono aperti al dialogo e al confronto e quanti, invece, hanno più timore del “secolo”. In che modo operare, concretamente, questa unità? «Nella Chiesa vi sono persone che hanno approcci diversi rispetto alla situazione contemporanea. Eppure io non rinuncio alla speranza che essi possano accettare di essere parte della stessa Chiesa. Questo può avvenire se in ogni Chiesa locale, nelle diocesi, vi sono istituzioni dove queste persone con posizioni differenti possono lavorare insieme e prendere delle decisioni insieme. Il problema in questo caso è che la Chiesa è diventata, sotto certi aspetti, una monarchia assoluta, almeno da alcuni secoli a questa parte. La situazione dei nostri giorni sottolinea la necessità di una de-centralizzazione, che del resto era stata già decisa dal Concilio Vaticano II, ma che è stata in un certo senso bloccata successivamente. Abbiamo bisogno di sinodi su base regionale con maggiori poteri decisionali. E in questi sinodi è necessaria una spinta più forte da parte dei laici. Questo presuppone degli organismi in cui i laici possano possano elaborare insieme il loro contributo. I laici dovranno trovare un modus vivendi per arrivare a queste decisioni comuni. In realtà, finora, i laici sono ancora rinchiusi in gruppi per affinità e così non incontrano persone che hanno punti di vista diversi. Non ho nulla contro questi gruppi che si riuniscono in base alla loro sensibilità ma è necessario arrivare a creare organismi che costringano quanti hanno prospettive diverse ad incontrarsi». Lei è famoso, tra l’altro, per aver lavorato in prima fila nella Commissione governativa in Québec sul tema della laicità e del pluralismo culturale e religioso, questione emersa con forza a causa della presenza islamica in Canada. L’Europa è rimasta scioccata dai fatti di Parigi, con la strage di Charlie Hebdo e nel negozio ebraico. In che modo si può operare un’integrazione positiva per i migranti di fede musulmana in Europa? «L’integrazione in Europa è un grande interrogativo. La maggior parte delle società europee hanno ancora esperienze recenti nell’integrazione degli immigrati, come invece hanno altre società occidentali. Ma il primo punto dovrebbe essere smetterla di prendere di mira e colpire gli immigrati, come invece ha fatto la recente legge francese in materia». La cronaca internazionale vede la recrudescenza del fenomeno del terrorismo islamico, con i gruppo dell’Is e di Boko Haram che seminano morte e violenza in Medio Oriente e Africa. Come valuta questo fenomeno? È il segnale di ciò che sarà l’islam un domani oppure solo una sorta di reazione estrema all’età secolare? «L’Is, come lei giustamente fa notare, è una reazione estrema. Si tratta di una minaccia per chiunque, ma soprattutto per le società islamiche, e in modo particolare per le società arabe. Non rappresenta in realtà una reazione all’epoca secolare, ma alla percezione della dominazione delle società occidentali sulle società arabe o che un tempo erano colonie dell’Occidente». Lei a Roma parteciperà anche ad una tappa del Cortile dei gentili, intitolata “Il tempio e la piazza”. Questa coppia richiama per assonanza la prospettiva “del cubo e della cattedrale” di George Weigel, che metteva forse più in contrasto laïcité e religione. Lei ha una visione più positiva della laicità: perché? «Sì, io vedo spunti molto positivi per la vita spirituale di ogni persona nella grande apertura che l’età secolare ha portato in Occidente. La fede cristiana può fiorire in questo contesto come mai prima era avvenuto. I cristiani, e i cattolici tra essi, stanno diventando minoranze in certe società, invece in altre raggiungono la maggioranza».

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Di certo, non lascia indifferenti. Già nel 2012 il cardinale Gianfranco Ravasi, “ministro” vaticano per la Cultura, immaginava, in un’intervista ad Avvenire, di poterlo coinvolgere in una riflessione pubblica su secolarizzazione e indifferenza religiosa. Charles Taylor e le sue tesi su religione e cultura (in sintesi: oggi credere è una delle opzioni possibili, ma il postmoderno non cancella il sacro) fanno dibattere (anche) il mondo cattolico. Diversi cardinali citano la chiave interpretativa tayloriana della relazione tra fedi e società contemporanea. Ad esempio Angelo Scola, che in un intervento a Lublino (quando gli venne conferito il dottorato honoris causa all’Università che fu di Karol Wojtyla) affermava che Taylor ha visto giusto nel sostenere che «siamo passati da una società in cui era “virtualmente impossibile” non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre». Da parte sua Camillo Ruini, nel convegno “Dio oggi” del 2010, concordava con il filosofo canadese su un punto: «Taylor nega che esista un rapporto automatico tra modernità e perdita o diminuzione della fede in Dio». Un porporato che si è confrontato direttamente con lui è stato Christoph Schönborn a Vienna nel 2010: del loro colloquio ha dato conto La Civiltà Cattolica. Nell’articolo padre Giandomenico Mucci segnalava concordanze e divergenze tra il porporato già allievo di Joseph Ratzinger e il pensatore del Québec. Il nodo tra i due, sosteneva Mucci, era il rapporto tra libertà, cristianesimo e illuminismo. Secondo Mucci, Schönborn aveva ragione nel sostenere che tanti, in Occidente, sbagliano nel pensare che il valore della libertà personale e sociale sia nata dallo scontro tra illuminismo e cristianesimo, trascurando il ruolo liberante avuto nella storia dalla fede cristiana. Mentre Taylor non centrava il punto quando accusava il cristianesimo di aver «contratto la libertà» e applaudiva l’età secolare, con la quale la singolarità dell’io «veniva meglio recuperata dall’esperienza di quanti sono impegnati in una ricerca spirituale». Una delle voci cattoliche intervenute su Taylor è stata quella di Ann Mary Glendon, giurista americana, docente ad Harvard, già presidente dell’Accademia pontificia di Scienze sociali e ambasciatrice degli Stati Uniti in Vaticano. In un articolo pubblicato nel 2013 da Vita e Pensiero la Glendon notava come la diagnosi di Taylor sulla secolarizzazione fosse di sostanziale “rassegnazione”: «Non sembra considerare la perdita dei “codici dei genitori” un problema serio da affrontare, una perdita che porta a quello che il Catechismo della Chiesa cattolica definisce “indifferentismo, una fuga dalla domanda ultima dell’esistenza”». Alla Glendon ha fatto eco di recente il mensile Usa First Things, diretto da George Weigel, tra i più importanti intellettuali cattolici americani. Nel suo intervento, polemicamente intitolato Tayloring Christianity, Matthew Rose critica le teorie di Taylor: «Incoraggia i lettori ad abbracciare un modo moderno di credere che lo rende accomodante alla cultura contemporanea». Forse per trovare un Taylor condiviso in casa cattolica bisogna indagare le sue riflessioni sul rapporto tra laicità e religioni. Ad esempio, in un’intervista da poco uscita su Esprit, la rivista francese fondata da Emmanuel Mounier, lancia una nuova prospettiva, lui che per anni ha propugnato il multiculturalismo. Parlando di come integrare i migranti nelle società occidentali, specie se di religioni diverse, afferma: «Mi sembra che il mezzo per giungere a costituire una nuova comunità al di là delle differenze identitarie sia quello di lasciar fare al tempo. L’interculturalismo, cioè la coesistenza di culture differenti, sfocia in una nuova identità sintetica, che si crea attraverso l’aggiunta di popolazioni diverse». IL GAZZETTINO Pag 1 Mediaset, una mossa ad alta intensità industriale e politica di Osvaldo De Paolini Dalle parti di Cologno, alle porte di Milano dove ha sede il quartier generale di Mediaset, nemmeno lo prendono in considerazione il primo no del governo, peraltro scontato. E, com'era prevedibile, hanno deciso di tirare dritto: muoveranno avvocati e ragioni di mercato, coinvolgendo le grandi istituzioni internazionali azioniste di Ray Way in una battaglia che, a loro dire, è solo all'inizio. Ora, che si tratti di un'operazione di mercato non v'è dubbio e che abbia anche un forte valenza industriale è provato, oltre che dai numerosi report indipendenti, anche da una valutazione di buon senso: di fronte alle sinergie e alle efficienze a favore dei consumatori che si otterrebbero dalla fusione tra Ei Towers e Rai Way, persino il più zelante tra i vigilanti si farebbe da parte. Vero è che la proposta finanziaria non rappresenta il meglio assoluto: sebbene di un'architettura tra le

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più apprezzabili, ha il difetto di non offrire il prezzo massimo - di recente le torri Wind sono state cedute al gruppo Abertis a un multiplo di 15, a fronte del multiplo di 11 offerto da Mediaset - e di replicare un modello di privatizzazione che si pensava accantonato dopo i regali di Stato che segnarono gli Anni Novanta. L'idea che il prezzo proposto venga pagato dalla società target nella quale confluirà gran parte del debito necessario al perfezionamento dell'operazione - pratica assai diffusa nel mondo dei fondi più aggressivi, tanto da aver rappresentato una delle cause scatenanti della grande bolla finanziaria dello scorso decennio - suscita infatti qualche perplessità. Ma al netto di questi due argomenti, peraltro passibili di attenuazione in una eventuale rimodulazione dell'offerta, non sarà facile per il governo mantenere la linea del niet senza prestare il fianco alla facile considerazione che si dice no solo perché la proposta è targata Berlusconi. Di là di come l'ex premier giocherà questo diniego - ed è intuibile l'uso politico che il leader di Forza Italia ne farà - resta il fatto che si tratta di una posizione che contraddice lo spirito del decreto sulle banche popolari, concepito affinché un ampio settore della finanza nazionale si adegui finalmente alle regole di mercato. Quelle stesse regole cui Ray Way e la Rai, che l'ha portata in Borsa, hanno dimostrato di voler abbracciare, quindi aprendosi alle opportunità di vario segno che il mercato può offrire. Rispondere che l'offerta di Mediaset è irricevibile poiché il Dpcm che disciplina lo sbarco in Borsa di Ray Way stabilisce che il 51% resti alla Rai non risolve il problema. Anzitutto perché un decreto della presidenza del Consiglio non è una legge, ma una disposizione che vale fino a che il premier non cambia idea. Quindi, dire no in virtù del Dpcm è una scelta politica e non un obbligo di legge. In secondo luogo perché, se è vero che il cda di Ray Way può definire «non congrua» l'offerta poiché correttamente insegue i valori massimi di mercato (e il paragone con le torri Wind viene facile), resta il fatto che rifiutare il 22% in più dell'ultimo prezzo di Borsa prima dell'opa e il 53% in più del prezzo di collocamento potrebbe innescare - qualora quest'anno la Borsa non fosse generosa nei confronti del titolo Rai Way - tentazioni di rivalsa da parte dei soci minori contro la società che non ha saputo cogliere la ghiotta opportunità. Così come la Rai, anch'essa chiamata ad esprimersi sull'offerta quale azionista di maggioranza, per le stesse ragioni potrebbe essere accusata di danno erariale. Nessun dubbio che Mediaset, qualora decidesse di andare fino in fondo, approfitterebbe della circostanza per mettere in campo i migliori esperti legali della materia pur di raggiungere lo scopo creando così in difficoltà la Rai stessa: un obiettivo, questo, che potrebbe non essere secondario. C'è poi l'aspetto degli investitori istituzionali che fin qui non è stato affrontato. Azionisti di Rai Way come i fondi americani di BlackRock (cui fa capo il 5% del capitale della controllata Rai) difficilmente avrebbero acquistato una sola azione se nel prospetto del collocamento fosse stato scritto in chiaro che mai la società sarebbe diventata privata. Al contrario, quei fondi hanno investito su Rai Way proprio in previsione del risiko delle torri-antenne. Ebbene, chi spiegherà a quei signori, che tra l'altro proprio ieri hanno annunciato di essere pronti a scommettere i loro denari su altre società italiane quotate, che hanno letto il prospetto Rai Way in modo non del tutto appropriato? Non c'è che dire, la scesa in campo di Mediaset è una mossa ad alta intensità industriale e politica, che sarebbe miope non inquadrare nella escalation di operazioni finanziarie che in meno di tre settimane hanno riportato il Biscione ai vertici della classifica nazionale delle aziende più dinamiche. Così come sarebbe miope sottovalutare la carica dirompente di un'operazione di mercato cui non basterà dire un semplice no politico. LA NUOVA Pag 1 Conflitto di interessi cercasi di Andrea Sarubbi Due frasi di Matteo Renzi, a distanza di pochi giorni. Una è quella di ieri ai giornalisti, nella conferenza stampa dopo l’incontro con il segretario generale della Nato: «Dovete abituarvi a considerare le operazioni di mercato per quello che sono. Non politiche, ma di mercato». L’altra è quella di lunedì 16, quando all’ultima direzione del Pd citò il film Birdman: «Nel nostro tempo la comunicazione ha assunto un ruolo talmente pervasivo ed efficace che diventa snob o velleitario pensare di rispondere dicendo “noi ci occupiamo di contenuti, lasciamo stare la comunicazione”». Ecco, la vicenda Rai-Mediaset è tutta qui, e forse è tutto qui anche l’ultimo ventennio della politica italiana. Se una società quotata in Borsa vende fagioli in barattolo, e un’altra vuole comprare i

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suoi macchinari con un’offerta allettante, quello è mercato. Che non significa far west, sia chiaro, perché anche il mercato ha i suoi limiti: altrimenti, in Italia non esisterebbe un’Autorità indipendente garante della concorrenza, con poco meno di 300 dipendenti e un costo per le casse pubbliche di circa 35 milioni di euro l’anno per il solo personale. Invece l’Antitrust svolge un lavoro utile e prezioso, e proprio nei passaggi più spinosi - come l’offerta di Ei Towers sulle torri della Rai, o quella di Mondadori su Rcs - è chiamata a dimostrarlo. In questo caso, però, non è di fagioli che si parla, ma di comunicazione. E l’aspirante compratore è colui che su un colosso editoriale ha costruito la propria carriera politica, e il possibile venditore - seppure in quota parte - è il governo stesso. Se ci fosse una legge seria sul conflitto di interessi, il problema non si porrebbe: il magnate farebbe il proprio mestiere, la politica pure, e l’Antitrust (insieme alla Consob, trattandosi di società quotate in Borsa) altrettanto. Ma questa legge non c’è, né sembra all’ordine del giorno in un prossimo futuro: fino a che punto, allora, l’operazione di mercato rimane una notizia economico-finanziaria, senza ripercussioni politiche? Nessuno, a oggi, è in grado di dirlo. Ci sono in giro varie letture della vicenda Rai-Mediaset, ognuna legittima ma nessuna definitiva. La prima (antirenziana) racconta di un patto del Nazareno in grandissima forma, con una divisione della posta conveniente per tutti: al presidente del Consiglio la politica, a Berlusconi - ormai in fase di distacco dai Palazzi romani, di fronte alle difficoltà di Forza Italia e all’ascesa di Salvini - la prosperità delle aziende di famiglia. La seconda (filorenziana) dipinge invece un quadro diametralmente opposto: patto del Nazareno ormai irrimediabilmente compromesso, Cavaliere inferocito e pronto a riprendersi, sul terreno economico, la centralità che gli è stata tolta. A seconda della lettura che si vuole dare, il segretario del Pd fa la figura del compagno di merende o dello statista con la schiena dritta: cosa che non avverrebbe mai, appunto, se dall’altra parte non ci fosse Berlusconi. Che magari esce di scena, finisce ai servizi sociali di Cesano Boscone, attende con ansia l’esito dei processi ancora in corso, non è più in grado di controllare nemmeno i suoi, ha un’immagine stanca e appannata, eppure continua a spaccare l’Italia come ha fatto costantemente dal 1994: quanti oggi sarebbero ugualmente preoccupati del 51 per cento di Rai Way in mano pubblica, se al posto suo ci fosse un altro grande editore, magari straniero? In un Paese più normale del nostro, ci si preoccuperebbe innanzitutto delle conseguenze della vicenda per la collettività: di fronte a introiti consistenti, in un quadro che non mettesse in discussione il pluralismo e che non minacciasse il servizio pubblico, si scenderebbe in strada a festeggiare. Ma l’Italia è l’Italia, e dalla legge Mammì in poi - Sergio Mattarella lo sa bene, visto che si dimise da ministro proprio per la fiducia su quel provvedimento - si è inclinato un piano che porta oggi i cittadini a dubitare di tutto: anche di un’offerta che, potenzialmente, potrebbe essere vantaggiosa per lo Stato. Eppure basterebbe una leggina sul conflitto di interessi, approvabile in un paio di settimane, per farci voltare pagina. Pag 1 Costituzione, le riforme di cui pentirsi di Mario Bertolissi È più che sufficiente aver visto come Giannelli ha ritratto la “votazione per alzata di mano” sulle riforme costituzionali di venerdì 13 febbraio, per avvertire crampi allo stomaco. Il cittadino italiano digerisce tutto, di solito. Per quel poco che conta, io no. Non mi occupo di ragioni o di torti, per i quali vale sempre un saggio ammonimento: che «la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro». Penso, semplicemente, alle manifestazioni diurne e notturne da avanspettacolo, ai giri di valzer con scambi di coppia, alla miseria del non-pensiero. Prima o poi, si pagherà tutto, come precedenti vicende hanno dimostrato. Le riforme sono necessarie. Maria Vergine, una novità! Lo sapevano e lo volevano persino componenti della Costituente. Tre nomi, in ogni caso, per tutti: Piero Calamandrei, Giuseppe Maranini, Arturo Carlo Jemolo. Ne vogliamo aggiungere qualche altro? Leopoldo Elia e Livio Paladin. A ben vedere, persino coloro che sono incolpati di vivere nel mito della Costituzione desiderano riformarla. Nel senso di aggiornarne i contenuti e, ove possibile, di migliorarla. Non di disarticolarla. Penso al nuovo Senato e mi viene da ridere. O da piangere. Un aggregato di dopolavoristi, già scarsi come consiglieri regionali, destinati a divenire senatori. A quale modello di Senato di Roma antica si ispira l’odierno legislatore costituente italiano? A quello della Roma repubblicana oppure

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della Roma tardoimperiale decadente? Dei migliori o dei peggiori? La risposta è scontata perché la domanda è retorica. Come è risaputo anche qualcosa d’altro. Ad esempio, che i Padri Fondatori degli Stati Uniti, riuniti in congresso a Philadelphia, guardarono proprio alla grandezza delle istituzioni della Roma repubblicana e ammirarono quel che Niccolò Machiavelli aveva celebrato delle virtù antiche. I Romani di allora gli hanno suggerito di scrivere così (è nella versione in italiano moderno): «Se, come solo ai saggi è concesso, conosci con anticipo i mali di uno Stato, li guarisci presto; ma quando, per non averli conosciuti, li hai fatti crescere fino al punto che ognuno li conosca, non c’è più rimedio». C’è o non c’è rimedio, per noi? Quel che accade quotidianamente ci dice che il rimedio è difficile in sé e improbabile, se si guarda a chi dovrebbe rimediare. Le riforme della Costituzione non si possono, in nessun modo, né comparare né confondere con quelle che hanno ad oggetto una qualunque altra modifica riguardante le fonti del diritto (genericamente, le leggi). La Costituzione è, per definizione, destinata a durare nel tempo e il procedimento aggravato, che ogni Legge fondamentale prevede, ne rappresenta la prova più indiscutibile. Il fattore tempo - fare presto - può avere un suo rilievo, ma non può essere decisivo. Decisivo è il senso di ciò che si fa. E quando si pensa alla governabilità, attenzione: la stabilità di un Governo di incompetenti o peggio non equivale affatto a buon governo. Il problema, dunque, è la selezione della classe dirigente, la cui debolezza congenita non è un privilegio negativo del nostro Paese soltanto. Può essere una consolazione, ma non aiuta a risolvere i problemi. Ci sono, poi, anomalie che non sono, certo, io per primo a rendere manifeste. Innanzi tutto, sarebbe bene non travisare il significato delle parole. Parlamento ha a che fare con il predicato verbale parlamentare (dibattere una questione, specialmente di carattere politico) e con il sostantivo parlamentare (membro del Parlamento). Lo vogliamo - il parlamentare - far discutere oppure no? L’obiezione è scontata: l’opposizione impedisce alla maggioranza di fare le riforme. Già, ma le riforme costituzionali non vanno abbinate al principio maggioritario, perché - in democrazia - vale quel che ha affermato Piero Calamandrei il 4 marzo 1947: «Il carattere essenziale della democrazia consiste non solo nel permettere che prevalga e si trasformi in legge la volontà della maggioranza, ma anche nel difendere i diritti delle minoranze, cioè della opposizione che si prepara a diventare legalmente la maggioranza di domani». Come è noto, si è fatto esattamente il contrario e, ancora una volta, Giannelli commenta così la votazione del 14 febbraio: «La legge Boschi-Renzi. “Finalmente soli”». Poi, accadrà il già visto: ci si impantanerà (è accaduto più volte: da ultimo, con il Titolo V nel 2001); ci si pentirà; si criticherà senza mai nominare i responsabili, che normalmente coincidono con coloro che hanno voluto pervicacemente ciò di cui si sono pentiti e protestano senza alcuna vergogna. Un’ultima considerazione, che è un promemoria: la riforma della Costituzione la sta facendo un Parlamento eletto sulla base di una legge elettorale incostituzionale. Evviva! Torna al sommario