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RASSEGNA STAMPA di martedì 13 settembre 2016 SOMMARIO “Chiesa fuori dalla politica. E’ maggioranza a Nordest”: titola così il Gazzettino di oggi pubblicando i risultati della nuova indagine dell’Osservatorio sul Nordest. “L’intervento della Chiesa nel dibattito politico italiano è sempre meno tollerato? Questa sembra essere - scrive Natascia Porcellato - l’indicazione principale... Solo una minoranza ritiene che la Chiesa abbia il diritto di affermare sempre la propria posizione o che possa farlo su questioni che riguardano da vicino la religione (ognuna: 23%). La maggioranza assoluta (53%), infatti, ritiene che la Chiesa non dovrebbe mai cercare di influenzare le decisioni della politica. È soprattutto in tema di diritti civili che si sono consumate e si consumano ancora oggi le battaglie più aspre. L’ultima, in ordine di tempo, riguarda la legge sulle unioni civili, approvata di recente dopo un sostanziale fermo di almeno 20 anni a cui aveva contribuito anche la forte contrarietà manifestata dalle gerarchie cattoliche. Questo tipo di comportamento, però, è apprezzato da una minoranza: il 23% ritiene che la Chiesa debba sempre affermare la propria posizione. Se guardiamo alla serie storica, vediamo che dal 2005 ad oggi la percentuale è oscillata intorno alla soglia del 20%. Questo tipo di opinione tende a crescere tra i praticanti assidui (ma la quota si ferma al 36%) e tra le persone con oltre 55 anni di età (26-27%). Dal punto di vista politico, invece, non rileviamo particolari distinguo. L’idea che la Chiesa possa intervenire, ma solo su temi che riguardano da vicino la religione, viene condivisa da quasi un nordestino su quattro. In questo caso, possiamo osservare come, nel corso del tempo, il sostegno si sia lentamente assottigliato: nel 2005, infatti, era il 28% a mostrare lo stesso orientamento e, se escludiamo il 32% rilevato nel 2009, dall’anno successivo in poi le percentuali sono andate via via diminuendo fino a fermarsi all’attuale 23%. Sono soprattutto i praticanti assidui a condividere l’idea che la Chiesa possa esprimersi solo sui temi che le sono vicini, ma la quota rimane piuttosto contenuta (29%). Dal punto di vista anagrafico, ritroviamo una presenza superiore alla media di under 25 (33%) e di persone tra i 25 e i 34 anni (44%). Politicamente, invece, sono gli elettori di Forza Italia (30%) e dei partiti minori (32%) a mostrare il maggior favore. La maggioranza dell’opinione pubblica del Nordest (53%), dunque, preferisce che la Chiesa non cerchi di influenzare le decisioni della politica, su qualunque argomento questa stia legiferando. Guardando alla serie storica, possiamo osservare che, rispetto al 2005, oggi il consenso è cresciuto del 9%. Considerando la pratica religiosa, vediamo che sono soprattutto i non praticanti (79%) a sostenere la necessità di separare la politica dall’influenza della Chiesa, ma tra quanti frequentano saltuariamente i riti religiosi questo orientamento si mantiene comunque maggioritario (55%) e trova il consenso anche un praticante assiduo su 3. Analizzando il fattore anagrafico, emerge come questa idea sia maggioritaria tra gli over 35, anche se il livello più alto viene raggiunto tra quanti hanno tra i 55 e i 64 anni (62%). Politicamente, infine, rileviamo come siano soprattutto i sostenitori della Lega (58%) ad affermare la necessità che la Chiesa stia fuori dai dibattiti politici, ma questo orientamento riguarda la maggioranza degli elettori di Pd (54%), M5s (55%) e dei partiti minori (56%)”. Sul tema lo stesso giornale intervista, con Annamaria Bacchin, il prof. Giovanni Vian, docente di Storia delle Chiese Cristiane all'Università di Venezia, che così commenta: «È senza dubbio un racconto che narra sempre più la laicità dello Stato, così come l’espressione sottesa del desiderio del diritto dei soggetti a pensare e ad agire in modo individuale. Ed è una visione che prescinde anche dall’appartenenza politica, perché tra centrodestra e centrosinistra non si colgono differenze significative sull’intervento della Chiesa nelle questioni politiche. La società innanzi a tale tema si fa liquida. I risultati più significativi sono evidenti tra cinquantenni e sessantenni. Perché sono quelli che manifestano una maggiore convinzione sul fatto che la Chiesa non dovrebbe mai cercare di influenzare le decisioni della politica e, contemporaneamente, sono anche

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RASSEGNA STAMPA di martedì 13 settembre 2016

SOMMARIO

“Chiesa fuori dalla politica. E’ maggioranza a Nordest”: titola così il Gazzettino di oggi pubblicando i risultati della nuova indagine dell’Osservatorio sul Nordest.

“L’intervento della Chiesa nel dibattito politico italiano è sempre meno tollerato? Questa sembra essere - scrive Natascia Porcellato - l’indicazione principale... Solo una

minoranza ritiene che la Chiesa abbia il diritto di affermare sempre la propria posizione o che possa farlo su questioni che riguardano da vicino la religione (ognuna: 23%). La maggioranza assoluta (53%), infatti, ritiene che la Chiesa non dovrebbe mai cercare di influenzare le decisioni della politica. È soprattutto in tema di diritti civili che si sono consumate e si consumano ancora oggi le battaglie più aspre. L’ultima, in ordine di tempo, riguarda la legge sulle unioni civili, approvata di recente dopo un

sostanziale fermo di almeno 20 anni a cui aveva contribuito anche la forte contrarietà manifestata dalle gerarchie cattoliche. Questo tipo di comportamento, però, è

apprezzato da una minoranza: il 23% ritiene che la Chiesa debba sempre affermare la propria posizione. Se guardiamo alla serie storica, vediamo che dal 2005 ad oggi la percentuale è oscillata intorno alla soglia del 20%. Questo tipo di opinione tende a crescere tra i praticanti assidui (ma la quota si ferma al 36%) e tra le persone con

oltre 55 anni di età (26-27%). Dal punto di vista politico, invece, non rileviamo particolari distinguo. L’idea che la Chiesa possa intervenire, ma solo su temi che

riguardano da vicino la religione, viene condivisa da quasi un nordestino su quattro. In questo caso, possiamo osservare come, nel corso del tempo, il sostegno si sia

lentamente assottigliato: nel 2005, infatti, era il 28% a mostrare lo stesso orientamento e, se escludiamo il 32% rilevato nel 2009, dall’anno successivo in poi le

percentuali sono andate via via diminuendo fino a fermarsi all’attuale 23%. Sono soprattutto i praticanti assidui a condividere l’idea che la Chiesa possa esprimersi solo sui temi che le sono vicini, ma la quota rimane piuttosto contenuta (29%). Dal punto di vista anagrafico, ritroviamo una presenza superiore alla media di under 25 (33%) e di

persone tra i 25 e i 34 anni (44%). Politicamente, invece, sono gli elettori di Forza Italia (30%) e dei partiti minori (32%) a mostrare il maggior favore. La maggioranza

dell’opinione pubblica del Nordest (53%), dunque, preferisce che la Chiesa non cerchi di influenzare le decisioni della politica, su qualunque argomento questa stia

legiferando. Guardando alla serie storica, possiamo osservare che, rispetto al 2005, oggi il consenso è cresciuto del 9%. Considerando la pratica religiosa, vediamo che

sono soprattutto i non praticanti (79%) a sostenere la necessità di separare la politica dall’influenza della Chiesa, ma tra quanti frequentano saltuariamente i riti religiosi questo orientamento si mantiene comunque maggioritario (55%) e trova il consenso anche un praticante assiduo su 3. Analizzando il fattore anagrafico, emerge come

questa idea sia maggioritaria tra gli over 35, anche se il livello più alto viene raggiunto tra quanti hanno tra i 55 e i 64 anni (62%). Politicamente, infine, rileviamo come

siano soprattutto i sostenitori della Lega (58%) ad affermare la necessità che la Chiesa stia fuori dai dibattiti politici, ma questo orientamento riguarda la maggioranza degli elettori di Pd (54%), M5s (55%) e dei partiti minori (56%)”. Sul tema lo stesso giornale

intervista, con Annamaria Bacchin, il prof. Giovanni Vian, docente di Storia delle Chiese Cristiane all'Università di Venezia, che così commenta: «È senza dubbio un

racconto che narra sempre più la laicità dello Stato, così come l’espressione sottesa del desiderio del diritto dei soggetti a pensare e ad agire in modo individuale. Ed è

una visione che prescinde anche dall’appartenenza politica, perché tra centrodestra e centrosinistra non si colgono differenze significative sull’intervento della Chiesa nelle

questioni politiche. La società innanzi a tale tema si fa liquida. I risultati più significativi sono evidenti tra cinquantenni e sessantenni. Perché sono quelli che manifestano una maggiore convinzione sul fatto che la Chiesa non dovrebbe mai

cercare di influenzare le decisioni della politica e, contemporaneamente, sono anche

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i più vivaci sostenitori della teoria opposta, sicuri più degli altri che la Chiesa dovrebbe affermare sempre la propria posizione. Un dato interessante poiché parla di

una generazione che ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta, quelli connotati dalla passione per una politica che era ideologia. Pochi rimanevano, infatti, nel limbo di una "non" convinzione. E lo stesso accade ora da adulti». Quanto ai giovani: «Credo che l’impermeabilità al tema del sondaggio sia piuttosto diffusa. Non tanto, e non

solo, per una discriminante generazionale, ma piuttosto per una "non" urgenza della questione. Il Nordest - e l’Italia in generale direi - ha altri problemi da risolvere e non

percepisce lo "studio" di questo dialogo come importante o comunque rilevante al momento. E ciò sta anche alla base della assenza di eccessive variazioni nello

screening dell’appartenenza politica. Resta il fatto che i giovani, più di adulti ed anziani, forniscono attraverso i dati una visione complessiva maggiormente favorevole al ruolo della Chiesa nella politica. Ciò accade accorpando le risposte dei "sì, ma solo

su alcune questioni che riguardano da vicino la religione" è i "sì, è giusto che la Chiesa affermi sempre la propria posizione". Una rilevazione in cui si fa nitida, dunque, l’immagine di una nuova società che sta crescendo e maturando sull’onda di una

prospettiva molto individualistica, in cui tutti hanno diritto di esprimere la propria opinione, in cui nessuno può negare alcunché ad altri». E alla domanda su apertura come tolleranza o anche come "non" appartenenza e globalizzazione nel senso di

assenza di identità osserva ancora: «C’è davvero tutto. In tal senso parlo di società liquida e, contemporaneamente, impermeabile, perché nulla penetra in questo

calderone. Sono convinto, ripeto, che l’indecisione sull’argomento del sondaggio giunga dal pensiero di altre emergenze, da problemi più importanti che incombono sul

presente. Diciamo pure, poi, che la voce della Chiesa, al di là degli inviti alla riflessione del nostro Pontefice, tende ad affievolirsi nella contemporaneità politica.

Lo testimoniano bene i sondaggi, insieme all’immagine sempre più offuscata dei potenti campanili del Nordest: quelli che un tempo erano ritmo e fulcro della

quotidianità del popolo e oggi, pare, siano molto più distanti»” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE CORRIERE DELLA SERA Pag 18 Don Marco lascia la Chiesa per amore: “Chi è lei? Ma questa è pruderie” di Andrea Pasqualetto Venezia, la decisione d’accordo con il patriarca. Annuncio a messa e su Facebook CORRIERE DEL VENETO Pag 9 I conflitti di Alberto e l’amore di Marco. L’addio alla tonaca di due preti veneti di Andrea Priante e Silvia Madiotto IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV “Don Marco, meglio così che una vita di sotterfugi” di Fulvio Fenzo e Daniela Ghio Don Armando Trevisiol difende il parroco di San Pantalon. L’outing è stato apprezzato dai fedeli: “E’ da ammirare, non da condannare” Pag XIII Quarto d’Altino, chiesa sistemata entro Natale di Melody Fusaro Procede il restauro e arriva il nuovo vicario LA NUOVA Pag 18 Don Marco saluta. Sceglie l’amore e lascia la tonaca di Nadia De Lazzari Il parroco ha salutato i fedeli durante la messa di domenica: “D’accordo con il Patriarca, vivrò un anno di verifica”. La testimonianza di don Massimiliano D’Antiga: “Noi preti spesso siamo soli, ci chiedono sempre di più” 3 – VITA DELLA CHIESA

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AVVENIRE Pag 1 Il mondo veda di Lucia Bellaspiga La pedofilia, la Chiesa, gli stati CORRIERE DELLA SERA Pag 21 La forza debole della preghiera che nel 1986 unì un mondo lacerato di Pietro Parolin Wojtyla aprì la via di un nuovo impegno per le religioni Pag 21 Le tappe di una dialogo iniziato nel 1219 di Padre Enzo Fortunato LIBERO Pagg 1 - 3 Preti e uccelli di rovo di Cristiana Lodi, Alessandro Gonzato e Andrea Morigi Inchiesta sulla vita agra dei sacerdoti. Si ripropone il problema del matrimonio delle tonache: una su cinque molla, per lo più per questioni di cuore Pag 1 Ma il celibato è una difesa per i parroci di Vittorio Feltri IL FOGLIO Pag 3 La cortina di ferro di Ratisbona Dieci anni fa il grande discorso sull’islam di Benedetto XVI ITALIA OGGI Dicastero dell'ortodossia cattolica. Nuovo capo di Antonino D’Anna Sono sempre più insistenti le voci dell'imminente sostituzione del cardinal Gerhard Müller. È in pole position Bruno Forte, arcivescovo di Chieti molto apprezzato dal Papa Chi succederà al card. Scola? di Antonino D’Anna Il cardinale di Milano scadrà dalla carica il 7 novembre prossimo quando compierà 75 anni. La soluzione potrebbe essere trovata fra i suoi vicari 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI “CultFest” al Centro Kolbe: “Dare spazio alle culture” di Filomena Spolaor Da venerdì a domenica con il Servizio Immigrazione LA NUOVA Pag 33 Teatro, danze, giochi dal mondo per il festival dell’accoglienza di Lieta Zanatta Centro culturale Kolbe CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Arte e cibi etnici. Il centro Kolbe diventa incontro di culture di a.d’e. 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 6 Istat: crescono gli occupati e calano gli “inattivi” (giovani mamme escluse) di Francesco Di Frischia AVVENIRE Pag 2 Il lavoro in positivo ancora da consolidare di Francesco Riccardi L’apparente contraddittorietà dei dati e le interpretazioni frettolose 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA

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Pag 17 Famiglia Poli, sfratto rinviato. Altro caso critico a Cannaregio di n.d.l. Emergenza casa Pag 18 Le chiese di Chorus aperte un’ora in meno per i turisti di e.t. Per fronteggiare il buco in bilancio dovuto al calo dei visitatori Pag 20 La Comunità islamica compra la moschea di Marta Artico Colletta durante l’estate per acquistare a Marghera la sede del nuovo centro culturale. Festa del sacrificio, in 1.500 a San Giuliano. Chiasso in via Fogazzaro, i residenti chiamano la polizia Pag 31 Fenomenologia dell’imprenditore diventato sindaco di Enrico Tantucci Stile, linguaggio e manie di Luigi Brugnaro, l’uomo che “non accetta più di una risposta” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Giorno del sacrificio, preghiera al parco Centinaia di musulmani a San Giuliano. Ancora problemi al “centro culturale” di via Fogazzaro CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Cinquecento musulmani alla festa del “sacrificio” di a.d’e. A San Giuliano 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 - 15 “Chiesa fuori dalla politica”. E’ maggioranza a Nordest di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Il 53% contro qualsiasi tipo di ingerenza, per il 23% interventi solo su questioni religiose. Lo storico Giovanni Vian: “Verso una società nuova, tollerante e individualistica” Pag 21 L’esclusione della Chiesa nel dibattito politico effetto della secolarizzazione di Enzo Pace … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La nuova identità dei moderati di Luciano Fontana Cosa serve al centrodestra Pag 1 La segretezza più grave della polmonite di Massimo Gaggi Pag 3 Ian Bremmer: “Non le perdoneranno di aver mentito. Adesso è più debole” di Giuseppe Sarcina Pag 5 Da Jfk a Reagan. Il fattore salute di Ennio Caretto AVVENIRE Pag 2 La variabile Haftar e la missione italiana di Giorgio Ferrari Il complicato e rischioso mosaico della Libia Pag 3 Nel ritorno delle pentole l’Argentina che cerca libertà di Lucia Capuzzi e Stefania Falasca CORRIERE DEL VENETO Pag 1 La vera incoerenza dei 5 Stelle di Umberto Curi Grillini alla prova

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IL GAZZETTINO Pag 1 Hillary malata, tutto il mondo coinvolto di Massimo Teodori LA NUOVA Pag 1 Una corposa serie di omissioni di Gigi Riva Pag 7 Così la Clinton più debole di Alberto Flores d’Arcais Scivolone e-mail poi la malattia. Sanders o Kerry alternative

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE CORRIERE DELLA SERA Pag 18 Don Marco lascia la Chiesa per amore: “Chi è lei? Ma questa è pruderie” di Andrea Pasqualetto Venezia, la decisione d’accordo con il patriarca. Annuncio a messa e su Facebook Ha scelto il pulpito della sua chiesa veneziana per l’annuncio più vibrante: «Da domani vivrò un tempo di sospensione dal servizio di prete per un cammino di verifica...». C’è una lei nella vita di don Marco Scarpa, parroco di San Pantalon e responsabile diocesano per l’ecumenismo. Domenica scorsa ha preso il coraggio a due mani e ha deciso di dirlo a tutti alla messa della mattina, naturalmente dopo averne parlato con il patriarca Francesco Moraglia. «D’accordo con lui ho deciso di prendermi un periodo di riflessione per capire alcuni aspetti importanti delle mie scelte, soprattutto nell’ambito dell’affettività». Un fulmine a ciel sereno per i fedeli, un centinaio, seduti sui banchi della chiesa di Dorsoduro. Agli altri l’ha invece comunicato nel pomeriggio via Facebook, provocando una grandinata di commenti, quasi tutti beneauguranti. «Spero di cuore che tu possa trovare con serenità la tua strada». «Buon cammino fratello». «Sarai sempre accompagnato dalla nostra preghiera». «Noooooo!». Lui ha voluto tranquillizzarli: «I legami d’amore vissuti con il Signore non cessano ma si trasformano. Così spero sia anche il mio legame con voi. Vi chiedo di accompagnarmi in questa nuova tappa della mia vita». Alcuni avevano capito che qualcosa stava cambiando nella vita del quarantanovenne sacerdote lagunare. Da un paio di mesi aveva infatti tagliato la lunghissima barba che ricordava un po’ quella dei preti ortodossi, verso i quali ha sempre avuto un’attenzione particolare. Don Marco è infatti appassionato di cultura russa e bulgara e lavora molto per il dialogo interreligioso. Docente a contratto di letteratura russa all’Università Ca’ Foscari e stimato studioso di slavistica, il sacerdote ha scritto il suo annuncio anche in cirillico. E poi ha usato parole semplici con i suoi ragazzi di un tempo, gli scout di Carpenedo con i quali ha condiviso la passione della montagna, e quella dei ritiri spirituali della Casa Sicar di Oriago. «Caro Marco, ti conosco da quando ti sei fatto prete (24 anni fa). Ricordo come fosse ieri Gosaldo, il Sicar, le lectio divinae in patronato, gli incontri di preghiera, ma anche le ripetizioni di latino... sei stato un bravo prete, un caro amico», scrive Marina Lazafame. Mentre dalla Curia veneziana si leva la voce di monsignor Dino Pistolato, vicario episcopale: «Io non mi stupisco perché in 35 anni ne ho viste di tutti i colori. Don Marco è un buon prete, determinato, di carattere. Mi auguro che usi la stessa forza per ritrovare il senso di fare il prete». È dispiaciuto: «Mi sto domandando se si poteva fare qualcosa, c’è scarsità di preti e don Marco era nel pieno del suo percorso». Una speranza ce l’ha: «Al momento è solo sospeso. Ci sarà un periodo di riflessione nel quale non potrà dire messa, non potrà confessare. Poi deciderà. In passato mi è già capitato di assistere a un gradito ritorno». In quindici anni, a Venezia su 173 sacerdoti se ne sono andati in 5. Intanto a San Pantalon si chiacchiera della «donna del parroco». Chi la conosce lo precisa: «È un’italiana, non russa». Lui non vuole aggiungere altro: «Questa è pruderie, è ora di fermare il polverone». CORRIERE DEL VENETO

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Pag 9 I conflitti di Alberto e l’amore di Marco. L’addio alla tonaca di due preti veneti di Andrea Priante e Silvia Madiotto «Adesso sto bene, finalmente. Sto meglio di come stavo ieri». Don Alberto Bernardi domenica sera ha chiamato sua madre a San Martino di Lupari, per dirle di stare tranquilla, di non preoccuparsi per ciò che avrebbe sentito dire in giro. E ciò che si racconta di lui è che questo prete di 44 anni - un tipo carismatico, che aveva riempito di giovani la parrocchia del Sacro Cuore di Treviso - abbia lasciato la tonaca per sempre. E che l’abbia fatto perché si è sentito abbandonato proprio da chi avrebbe dovuto sostenerlo, in un momento di difficoltà spirituale. In una lettera al vescovo di Treviso avrebbe scritto: «Lascio perché quando ho chiesto aiuto nessuno ha sentito». Nessun’altra spiegazione, come se chi di competenza, nella Diocesi, sapesse già a cosa si riferiva. E don Alberto non è l’unico ad essersi preso un momento di riflessione. Mentre lui telefonava all’anziana madre, a Venezia il parroco di San Pantalon, don Marco Scarpa, pubblicava su Facebook il suo addio ai parrocchiani: «D’accordo col Patriarca, da domani vivrò un tempo di sospensione dal servizio di prete, per poter proseguire in un cammino di verifica sulla mia vita e su aspetti importanti delle mie scelte, soprattutto nell’ambito dell’affettività, cammino che ho intrapreso da tempo e che ora mi porta davanti al Signore a questo nuovo passo». Una frase che lascia intendere come il tramonto della vocazione di questo sacerdote di 49 anni sia legato a ragioni sentimentali. Due storie che fanno discutere, in un Veneto che ancora fa i conti con il ricordo dei preti-papà don Paolo Spoladore e don Sante Sguotti, entrambi allontanati dalla Chiesa qualche anno fa. Ieri, al telefono, don Marco Scarpa ha tagliato corto: «Quello che avevo da dire, l’ho già detto ai miei parrocchiani. Non credo sia necessario aggiungere altro». Resta quindi quella lettera scritta ai fedeli di San Pantalon. «Si aprono - scrive don Marco - vie nuove e sconosciute anche per me. (...) I legami d’amore vissuti nel Signore non cessano, ma si trasformano. Così spero che sia anche per il mio legame con voi. Voi siete parte di me, e vi porterò sempre nella mia preghiera davanti al Signore. Chiedo anche a voi di pregare per me e di accompagnarmi in questa nuova tappa della mia vita». A centinaia hanno risposto lasciandogli un messaggio di stima e augurandogli di trovare al più presto serenità e un nuovo equilibrio. Quanto a don Alberto, invece, almeno per ora sembra voler evitare qualunque contatto. «Al telefono non ha neppure voluto dirmi dove si trova. Mi ha soltanto assicurato che sta bene e che presto verrà a trovarmi e mi spiegherà tutto». Ma da dove nasce il disagio che ha spinto questo sacerdote a raccogliere in fretta e furia le sue cose e andarsene? Neppure sua madre lo sa. «Non si è confidato con nessuno, neppure con suo fratello, sacerdote pure lui...». Il fratello di don Alberto è don Maurizio Bernardi, parroco alla parrocchia di San Pio X di San Donà di Piave. Anche lui ci ha parlato al telefono. «È tranquillo e sereno, ed è in continuo contatto con me e la nostra famiglia. Non è sparito ma vuole rimanere fuori da queste discussioni, ha bisogno di tempo per valutare le sue scelte. È un momento particolare, deve fare delle riflessioni molto importanti: ha chiesto solo un po’ di calma attorno a lui. Ma che stia bene è la cosa più importante». Alberto le ha detto se vuole rimettere i voti? «Nei prossimi mesi deciderà cosa fare. Intanto il vescovo ha trovato i suoi sostituti». In città non si parla d’altro. Anche perché don Alberto è molto conosciuto: oltre che parroco a Treviso era membro della Pastorale Diocesana e come referente della Pastorale del Lavoro si era battuto contro le aperture domenicali nella grande distribuzione. Era stato il cuore e il motore della parrocchia, fin da quando era arrivato nel 2010. «Per noi - racconta una parrocchiana - è stato un trauma fortissimo. È una grande persona e ci manca, ma rispettiamo ogni sua decisione di uomo e di prete. Come tutti, anche don Alberto ha dei sentimenti con cui fare i conti...». Domenica in tanti sono andati in chiesa, sperando di saperne di più. Ma anche il vicario del vescovo non è sceso nei particolari. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV “Don Marco, meglio così che una vita di sotterfugi” di Fulvio Fenzo e Daniela Ghio Don Armando Trevisiol difende il parroco di San Pantalon. L’outing è stato apprezzato dai fedeli: “E’ da ammirare, non da condannare”

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Don Armando Trevisiol conosce bene don Marco Scarpa, il parroco di San Pantalon che ha scelto di farsi da parte. Per 11 anni don Marco fu suo vicario nella chiesa dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, occupandosi soprattutto dei giovani. E se dagli ambienti del Patriarcato anche ieri hanno confermato di non voler rilasciare dichiarazioni sulle "scelte nel campo dell’affettività" annunciate dal sacerdote 49enne, don Armando - dall’alto delle sue 87 primavere e dall’essere da sempre uno "spirito libero" all’interno della diocesi - guarda avanti e ricorda come il Signore "ci abbia fatti per essere felici". Quella felicità che, pur nella sofferenza di una decisione dolorosa, sta cercando anche don Marco. «Meglio così - commenta don Armando - Don Marco si senta tranquillo invece di essere costretto ad affrontare una vita di compromessi e sotterfugi». Nei suoi 62 anni di sacerdozio don Armando ha visto altri preti decidere di abbandonare l’abito. «Per noi di una certa età era più facile - riprende -. Io ho vissuto sempre in comunità sacerdotali che ti sostenevano e di edificavano. Oggi le cose sono diverse e, negli 11 anni in cui don Marco è stato il mio vicario a Carpenedo, abbiamo sviluppato un rapporto dialettico che era espressione di mondi diversi. Anche nei rapporti con la Diocesi, alla quale don Marco è sempre stato molto legato mentre le mie idee, diciamo così, non sono molto "nazionaliste" a livello religioso». A Carpenedo don Armando pensava (e lo fa tuttora) soprattutto agli anziani, mentre il lavoro di don Marco guardava essenzialmente ai giovani. «Fece un lavoro eccezionale con le coppie, con gli sposi, e seguiva con entusiasmo le giovani generazioni - ricorda don Armando Trevisiol -. La sua scelta? Qualche anno fa girava già qualche voce che avrebbe lasciato, ma poi non se ne seppe più nulla». Fino a domenica. «Già, ma nel dispiacere dobbiamo ricordare che il Signore desidera la nostra felicità, e la felicità non deriva dai compromessi». Parole calde come un abbraccio, come quelle arrivate sul profilo Facebook di don Marco Scarpa dove, tra i commenti, vi sono anche quelli di sacerdoti che hanno scelto di non restare in silenzio. Ci sono don Sandro Vigani, direttore di "Gente Veneta" che gli augura "Buona strada", e don Mario Da Ros della parrocchia di San Leopoldo Mandic di Mirano ("Buon cammino, il Signore ti benedica e faccia splendere su di te il suo volto, così che tu veda pienamente"), fino al padovano don Giovanni Brusegan: "Caro Marco, per quel che posso sono con te. Avanti e non temere". L'addio di don Marco Scarpa alla parrocchia di San Pantalon non ha sconvolto più di tanto i parrocchiani. In tantissimi anzi lo ammirano per aver avuto il coraggio di parlare apertamente della sua sospensione temporanea dal servizio di prete, per poter proseguire un cammino di verifica sulla sua vita, sulla propria affettività. Senza nascondere nulla. Ma del resto don Marco è considerato un sacerdote "speciale", sempre disponibile e di mentalità moderna. Docente universitario a contratto, con rapporti frequenti con le Chiese d'oriente dove il matrimonio dei consacrati non è un tabù, per i parrocchiani vede il mondo con una angolatura più aperta. «Dopo tutti gli scandali che ci sono stati nella Chiesa Cattolica preferisco di gran lunga la sua onestà. È sempre stato un bravo ragazzo», era il commento più frequente ieri nell'area di San Pantalon, Tolentini e Santa Margherita. Più di qualcuno invece è rimasto choccato dall'apprendere che in un solo colpo se ne vanno tre sacerdoti, tre punti di riferimento importanti della comunità parrocchiale: oltre don Marco, don Mario Ronzini tra qualche settimana si sposterà nella parrocchia di Carpenedo e l'attuale parroco, don Gilberto Sabbadin, pur restando ad abitare ai Tolentini non avrà responsabilità diretta, per poter terminare il suo percorso di studi e dedicarsi di più alla Pastorale universitaria. «È sempre uno choc il vuoto che si forma - spiega un'anziana parrocchiana - ma è meglio così. Molti anni fa in una parrocchia vicina il cappellano aveva portato avanti in silenzio una relazione con una donna per tantissimo tempo, fino a quando non è stato pubblicamente scoperto perché lei era rimasta incinta». È giusto che un prete si sposi - commentano un gruppo di amici in campo Santa Margherita -, che segua il suo cuore. Del resto solo la Chiesa cattolica non consente il matrimonio dei presbiteri, nelle altre confessioni cristiane è invece lecito. Servirebbe una riforma in tal senso, altrimenti presto non ci saranno più preti: quale giovane oggi rinuncia a trovarsi una compagna? E poi un sacerdote sposato si rende meglio conto dei problemi quotidiani di una famiglia con figli». «Ha avuto un ripensamento, nella vita può succedere a tutti - commenta un giovane parrocchiano - Ed è da ammirare: non tutti trovano il coraggio di fare outing. Da un po’ di tempo lo vedevamo spesso in compagnia di una donna mora. Erano molto amici e più di qualcuno

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ha pensato ci fosse qualcosa di più dell'amicizia. Non è giusto che la gente venga screditata per un sentimento. È giusto che si vedano le cose in maniera diversa, che si risolva una volta per tutte la questione del celibato dei preti». Pag XIII Quarto d’Altino, chiesa sistemata entro Natale di Melody Fusaro Procede il restauro e arriva il nuovo vicario Quarto d’Altino - È tempo di grandi novità per i parrocchiani di San Michele Arcangelo a Quarto d'Altino. È da poco arrivato il nuovo vicario, don German Alfonso Montoya Lombana, trentottenne originario della Colombia, che in questi giorni sta conoscendo la sua nuova comunità. E intanto procedono anche gli attesi lavori di restauro della chiesa, grazie alle donazioni dei parrocchiani. «Un intervento preventivato da anni ma rimandato diverse volte per far fronte alle urgenze - spiega don Gianpiero Lauro -. Quando sono arrivato in questa parrocchia, il progetto era già pronto ma era fermo». Si va dalla ristrutturazione del tetto, con la sostituzione delle tegole e le travi danneggiate, alla tinteggiatura e restauro del soffitto e della volta oltre alla riparazione delle crepe. Per quanto riguarda gli esterni, c'è la facciata da ridipingere, i serramenti di finestre e portoni da restaurare. Infine verranno rifatti marmi e scale di sicurezza, e risolto il problema dell'umidità. Mancano i soldi per completare anche il secondo stralcio (che riguarda riscaldamento e pavimenti) ma si è riusciti ad anticipare qualcosa, come la sistemazione delle due sacrestie e dell'impianto di illuminazione, oltre al restauro della pala dell'altare di san Michele e dell'abside. «Un'impalcatura ci ha permesso di svolgere tutte le funzioni - spiega don Lauro -. Le attività della comunità sono solo un po’ più scomode ma la chiesa è sempre stata agibile. Entro fine mese libereremo la chiesa dalle impalcature interne ed entro Natale saranno completati anche gli esterni». È stato necessario accendere un mutuo e chiedere un prestito alla banca «ma - conclude il parroco - la gente sta rispondendo generosamente, aderendo alla raccolta straordinaria che facciamo ogni seconda domenica del mese. A tutte le persone che fanno un'offerta regaliamo la piccola tegola con l'immagine della nostra chiesa». La previsione di spesa era di 695mila euro, finanziata dall'8x1000 per 300mila euro. Il resto, quindi, è (e sarà) frutto delle donazioni dei parrocchiani. LA NUOVA Pag 18 Don Marco saluta. Sceglie l’amore e lascia la tonaca di Nadia De Lazzari Il parroco ha salutato i fedeli durante la messa di domenica: “D’accordo con il Patriarca, vivrò un anno di verifica”. La testimonianza di don Massimiliano D’Antiga: “Noi preti spesso siamo soli, ci chiedono sempre di più” Dall’altare don Marco Scarpa, lidense, classe 1967, ha annunciato di abbandonare la tonaca «per scelte in ambito affettivo». Il sacerdote, ordinato nel 1992, parroco di San Pantalon e incaricato per l’ecumenismo e il dialogo, lo ha detto domenica scorsa a conclusione della messa delle ore 10 davanti ai tanti fedeli che sono rimasti di stucco. Queste le parole pronunciate da don Marco: «Con questa Eucaristia si conclude il mio servizio di parroco a San Pantalon. Prenderò un anno di pausa per verificare la mia situazione affettiva. Vi chiedo scusa per le mie inadeguatezze e per i peccati, sono addolorato se a qualcuno sono stato di scandalo, di inciampo, invece che un compagno di strada nella via verso il Signore». Don Marco, che conosce numerose lingue, tra cui il russo e il bulgaro, lo ha scritto anche nel foglio parrocchiale Il Diario con il sottotitolo “Strade nuove”. Agli amici, invece, il messaggio è arrivato via Facebook in due lingue (italiano e russo): «Per me si aprono vie nuove e sconosciute», scrive il sacerdote. «D’accordo col Patriarca, vivrò un tempo di sospensione dal servizio di prete, per poter proseguire in un cammino di verifica sulla mia vita e su aspetti importanti delle mie scelte, soprattutto nell’ambito dell'affettività, cammino che ho intrapreso da tempo e che ora mi porta davanti al Signore a questo nuovo passo». Le reazioni. Tra i primi confratelli a scrivergli un messaggio via Facebook è stato padre Angelo Preda, parroco dei Santi Giovanni e Paolo: «Caro don Marco», scrive il religioso, «tutto concorre al bene per coloro che amano Dio. Ti accompagno con l’amicizia, l’affetto e una preghiera al Signore affinché ti sostenga e accompagni... Come ha fatto e non potrebbe non fare...». I parrocchiani, gli amici, gli universitari. Molte le testimonianze d’affetto. Tutti

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descrivono il “don” come una persona vulcanica, preparata, pragmatica, onesta. «È riuscito», dicono orgogliosi, «perfino a far suonare le campane mute da decenni». Un gruppetto di universitarie ricorda: «L’approccio accademico non era tra il docente e lo studente, ma tra amici». Lina Marella: «Un abbraccio sincero e un augurio che tu possa trovare gioia e serenità». Davide Guglielmo-Mancini: «Buona nuova strada». Affetto e anche curiosità. Una veneziana domanda: «Chi è il moroso o la morosa?». Un’altra aggiunge: «Penso che questo momento per don Marco non sia facile». Il precedente. In diocesi circa un anno fa un altro sacerdote, il veneziano don Nicola Petrovich, classe 1970, ora laico, ha lasciato la tonaca per amore. In questo periodo si è iscritto all’Università, ha sostenuto otto esami, preparato la tesi e laureato in filosofia e storia. Ora insegna in un liceo. Nel frattempo, ieri, nella chiesa di San Pantalon è già arrivato il nuovo amministratore parrocchiale: è don Mauro Deppieri, pro-cancelliere patriarcale. Ma quali sono le difficoltà, oggi, che si trova ad affrontare un sacerdote? Quali rischi, quali problemi nella vita di ogni giorno? Accetta di parlarne don Massimiliano D’Antiga, veneziano, 46 anni, amministratore parrocchiale a San Salvador, rettore a San Zulian e direttore diocesano per l’apostolato della preghiera. Tra le mani, dice, «c’è un Vangelo, non la bacchetta magica». Il sacerdote è ancora punto di riferimento per le persone? «Ormai non è un punto universale di riferimento. Un tempo lo era per un’ampia gamma di difficoltà, problemi che andavano al di là della sfera strettamente spirituale. Fungeva da capo-paese, da psicologo. Oggi il suo ruolo è ristretto alla questione spirituale verso una comunità di cristiani più motivati». Quindi? «I sacerdoti sentono il bisogno di accompagnare l’appartenenza alla comunità cristiana con un cammino di fede, di approfondimento nel quale viene chiesto al sacerdote di fungere da guida spirituale. Oggi il ruolo del prete è molto più impegnativo». Perciò oggi il sacerdote cosa dovrebbe avere? «Più tempo per dedicare tempo alle persone. La gente non si accontenta più di un consiglio superficiale; intende avere spazio per aprire il cuore e quindi pone il sacerdote di fronte a domande di senso, di orientamento della vita che esigono risposte che non possono essere mai frettolose, sempre motivate». Ma i fedeli cosa portano al sacerdote? «Le sfide alla fede proprie del mondo contemporaneo. Questo esige che il sacerdote abbia un rapporto affettivo con le persone che significa rapporto di verità. Non è più il tempo in cui i sacerdoti debbono mantenere una linea, e quindi una forma esteriore retorica. Devono mettere in campo la propria esperienza di fede per poter comunicare non dei concetti, ma vita vissuta. Così ha fatto don Marco». Può spiegarsi meglio? «Commentando la notizia del mio confratello, molti fedeli sono rimasti esterrefatti per il suo annuncio pubblico. Ho detto che la Chiesa in questi anni ha cambiato il suo atteggiamento. Un tempo di fronte a queste scelte preferiva il silenzio per evitare lo scandalo dei fedeli. Oggi preferisce la verità, detta con umiltà, in modo da aiutare i fedeli a capire certe scelte senza cadere nelle illazioni, nei pettegolezzi ma cercando di capire i problemi che sottostanno alla sostenibilità di una vocazione». Cos’è l’affettività? «L’umanità del sacerdote nel suo ministero non è un qualcosa di superficiale, accidentale, ma fa parte integrante della sua missione. Il sacerdote non porta Cristo soltanto con le parole ma con la propria vita e testimonianza. Quando un prete va via per una donna, non possiamo mettere sulle spalle di un prete una croce eccessiva pensando che la questione della donna sia la vera causa dell’allontanamento. Il problema affettivo sta alla radice». Che significa? «Il problema è di un disagio della persona. Il celibato è un dono di Dio che va conservato nella Chiesa attraverso la partecipazione dei fedeli alla vita del sacerdote. Per cui quello che un uomo trova dalla moglie nella vita coniugale, di giorno e di sera, il prete lo trova nell’amore delle persone in modo indiviso. Oggi è difficile fare il prete se la missione viene interpretata in modo individualistico. Se uno lo interpreta in senso comunitario, l’impegno diventa più leggero e regge l’urto della vita con le sue complessità». Ma oggi che cosa vogliono la Chiesa e i fedeli? «I fedeli vogliono un’operazione di verità per sentirsi coinvolti nel ministero dei preti stessi. L’operazione di verità è orientata alla responsabilizzazione dei fedeli coinvolti in questa azione della Chiesa. I fedeli chiedono un prete in mezzo al gregge, una partecipazione affettiva ed effettiva. Papa Francesco insegna: servizio non potere». Torna al sommario

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3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 1 Il mondo veda di Lucia Bellaspiga La pedofilia, la Chiesa, gli stati «Vi prometto che seguiremo la strada della verità, ovunque possa portarci». Le parole scandite da papa Francesco a Philadelphia nel settembre di un anno fa, incontrando alcune vittime di abusi sessuali perpetrati da persone consacrate, sono solo un esempio del piglio concreto con cui la Chiesa – praticamente in solitudine – sta reagendo alla piaga immonda della pedofilia. Una piaga che dilaga nel pianeta e coinvolge milioni di persone, tra vittime e carnefici, senza che governi e istituzioni si rendano conto della reale dimensione del fenomeno né prendano decisioni forti per arginare la cancrena. «Nella Chiesa sia mantenuta la tolleranza zero», raccomandava invece Francesco anche nel Sinodo sulla famiglia. Così come aveva già spiegato, lapidario, ai giornalisti sull’aereo che li riportava indietro dalla Terra Santa, nel maggio del 2014: «Per un sacerdote abusare di un bambino equivale a fare una messa nera». Due mesi prima aveva istituito la Pontificia Commissione per la tutela dei minori, chiamando a farne parte anche alcune vittime di sacerdoti infedeli, e lo aveva fatto con un preciso obiettivo: «Dolorosi fatti hanno imposto un profondo esame di coscienza da parte della Chiesa e, insieme con la richiesta di perdono alle vittime e alla società per il male causato, hanno portato ad avviare con fermezza iniziative di vario genere, nell’intento di riparare al danno, fare giustizia e prevenire, con tutti i mezzi possibili, il ripetersi di episodi simili in futuro». Riparare, fare giustizia, prevenire: parole cui immediatamente sono seguiti i fatti. Nessuna meraviglia, allora, se in questi giorni Francesco, continuando un cammino già profondamente tracciato da Benedetto XVI, ha di nuovo incontrato, in udienza, alcune persone che in passato hanno vissuto l’esperienza traumatica di subire violenza proprio da coloro di cui più si fidavano, e si è rivolto alle Conferenze episcopali nazionali perché istituiscano una Giornata mondiale di preghiera per le vittime di abusi da parte del clero. Già nella lettera agli episcopati e ai superiori religiosi di tutto il mondo, nel febbraio del 2015, Francesco era stato molto chiaro ricordando che la Chiesa non può tirarsi indietro «perché è una casa sicura», cui ogni uomo ha diritto di rivolgersi «con piena fiducia». Fiducia che non può essere tradita per nessuna ragione, tantomeno il desiderio di evitare uno scandalo, «poiché non c’è assolutamente posto nel ministero per coloro che abusano dei minori». Sempre a Philadelphia, a tale proposito, ha richiamato «clero e vescovi» alla loro responsabilità non solo nel caso si siano macchiati personalmente del crimine, ma qualora abbiano coperto colpe altrui e non si siano schierati dalla parte del più debole. È con tenerezza ma anche fermezza che la Chiesa esercita su se stessa quella tolleranza zero più volte proclamata dal Papa, per il semplice e lampante motivo che l’effettiva tutela dei minori e «l’impegno per garantire loro lo sviluppo umano e spirituale» consono alla dignità della persona umana «fanno parte integrante del messaggio evangelico», ha scritto nel documento istitutivo della suddetta Commissione, che nei giorni scorsi ha prodotto le linee guida per la protezione dei bambini e un resoconto dettagliato sui programmi educativi e i gruppi di lavoro avviati nei cinque continenti. Francesco ha sentito il bisogno di istituire questo nuovo organismo e ha chiesto ai suoi membri di accordare priorità esclusiva «ai minori e agli adulti vulnerabili », categorie unite dal fatto di essere «i piccoli », coloro che «il Signore guarda con amore». Quegli ultimi che, nella rivoluzione di Cristo, sono i primi. Se questa è l’ottica, nessun alibi potrà mai più giustificare il non aver voluto vedere, il non aver voluto ascoltare, e il desiderio di giustizia porterà ogni uomo di Chiesa al suo agire più naturale, cioè – è ancora Francesco a dircelo – a «cooperare a tale scopo con quanti individualmente o in forma organizzata perseguono il medesimo obiettivo». Impossibile, allora, non ricordare la determinazione con cui Benedetto XVI spazzava via ogni accusa di reticenza e inaugurava una stagione di concreta collaborazione con le magistrature. E nella Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda (marzo 2010) ordinava: «Sottomettetevi alle esigenze della giustizia», pretendendo una Chiesa più severa dei tribunali. Se la giustizia ordinaria, infatti, conosce i tempi della prescrizione, per la Chiesa i delicta graviora non cessano mai di essere crimini e come tali perseguibili. Nel buco nero della pedofilia mondiale, le violenze commesse da religiosi sono percentualmente minime (moralmente

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macroscopiche), eppure solo tra queste agisce una reale volontà di contrasto. Non solo: secondo la legislazione penale italiana i vescovi che venissero a conoscenza di abusi da parte di sacerdoti non hanno obbligo giuridico di denuncia, «ma ciascuno di essi ha l’obbligo morale di favorire la giustizia che persegue i reati», ha chiarito il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, perché «il vescovo è un padre per tutti, soprattutto per chi ha subìto ». Se ogni nazione sapesse e volesse agire come la Chiesa e fare di se stessa una casa sicura per 'i piccoli', la piaga pedofilia anziché dilagare si starebbe già rimarginando. È tempo che il mondo veda. E provveda. CORRIERE DELLA SERA Pag 21 La forza debole della preghiera che nel 1986 unì un mondo lacerato di Pietro Parolin Wojtyla aprì la via di un nuovo impegno per le religioni Il 27 ottobre 1986 un fatto senza precedenti squarciò il muro del pessimismo e della rassegnazione in un mondo ancora diviso dalla cortina di ferro e dove la guerra, seppure fredda in molte situazioni, era considerata una compagna inevitabile della vita degli uomini. Convocando i leader delle grandi religioni mondiali ad Assisi per pregare per la pace, Giovanni Paolo II si assunse la responsabilità di aprire una via in cui le religioni si impegnavano, con maggiore slancio e nuova forza, su questo grande tema. Quella storica giornata e lo spirito che ne è scaturito parlano non soltanto di pace ma anche di unità del genere umano. Assisi 1986, pur nella sua straordinaria novità, veniva da lontano: era il frutto di una stagione di dialogo. Un dialogo sviluppatosi lungo un secolo, il Novecento, pieno di speranze e al tempo stesso di immani sofferenze. In quel secolo terribile che - secondo recenti stime - ha contato 180 milioni di morti per la guerra, qualcosa ha avvicinato i credenti. Nella seconda metà del Novecento gente di religione diversa si è parlata e si è incontrata come mai nella storia. Assisi 1986 è il frutto maturo di questa stagione: i leader religiosi insieme davanti al mondo, insieme in preghiera, come cercatori di pace. Non si è trattato di un rito in più, ma della manifestazione comune della fiducia nelle energie spirituali e nella straordinaria forza debole della preghiera. Una preghiera senza commistioni sincretistiche, ma rispettosa delle diversità. È utile rileggere le parole di Giovanni Paolo II nel discorso conclusivo sulla piazza di San Francesco: «Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace... la preghiera è già in se stessa azione, ma ciò non ci esime dalle azioni al servizio della pace». Nei fondamenti di tutte le tradizioni religiose è scritto il valore della pace. È ciò che è alla base dell’iniziativa di Assisi e che aiuta a superare tante distanze, talvolta abissi, tra mondi diversi. Il nostro è un tempo in cui genti di religione o di etnia diversa vivono più insieme. È l’esperienza dell’Europa di fronte all’immigrazione, ma anche di una nuova comunanza tra Est e Ovest e tra Nord e Sud. È anche la sfida del mondo virtuale in cui si entra sempre più a contatto con tutti: nel virtuale si vive sempre più assieme e si è destinati a incrociarsi con chi è diverso da sé. È, infine, la sfida di un mondo in cui si vede tutto e si vede sempre più la ricchezza di pochi e la miseria di tanti, come spesso ci suggerisce papa Francesco. Convivere è la realtà di molti popoli, di molte religioni, di tanti gruppi. Non sempre è facile. Una convivenza con troppe differenze, orizzonti troppo ampi quali quelli della mondializzazione, inducono fenomeni preoccupanti che sono sotto i nostri occhi: individualismi irresponsabili, tribalismi difensivi, nuovi fondamentalismi, terrorismo. Assisi 1986 ha aperto una via in cui ogni religione deve lasciar cadere ogni tentazione fondamentalista ed entrare in uno spazio di dialogo che è l’arte paziente di ascoltarsi, di capirsi, di riconoscere il profilo umano e spirituale dell’altro. Dal seno delle tradizioni religiose, capaci di dialogo, emerge l’arte del convivere così necessaria in una società plurale come la nostra. È arte della maturità delle culture, delle personalità, dei gruppi. È impegno costante per la pace nel locale e nel globale. Le Scritture cristiane ricordano che Gesù «è la nostra pace». Fa loro eco il magistero dei Papi del Novecento sullo stesso tema, fino a giungere a quello di papa Francesco. Le religioni non hanno la forza politica per imporre la pace ma, trasformando interiormente l’uomo, invitandolo a distaccarsi dal male, lo guidano verso un atteggiamento di pace del cuore. La religione ha un’energia di pace, che deve liberare e manifestare. Ogni religione ha la sua strada. Ma tutte hanno una responsabilità decisiva

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nella convivenza: il loro dialogo tesse una trama pacifica, respinge le tentazioni a lacerare il tessuto civile, a strumentalizzare le differenze religiose a fini politici. Ma questo richiede audacia e fede agli uomini e alle donne di religione. Richiede coraggio. Richiede di abbattere con la forza morale, con la pietà, con il dialogo, i tanti muri di separazione che si alzano nel mondo. Pag 21 Le tappe di una dialogo iniziato nel 1219 di Padre Enzo Fortunato Era il lontano 1219 e Francesco d’Assisi si reca, contro i pareri di tutti e in piena crociata, a Damietta: i soldati con la parola delle armi, lui con la parola della pace. I primi irroravano di sangue la terra, il secondo cercava di irrorare di pace il cuore degli uomini. In quel contesto avviene l’incontro tra Francesco e il sultano d’Egitto Malik al Kamil. Un momento estremamente significativo e attuale per le sue conseguenze nella ricerca della pace e del dialogo tra nazioni e fedi, tra culture e uomini. L’incontro a Damietta è la porta che l’Oriente apre verso l’Occidente e viceversa. Due uomini illuminati lasciano spalancata ogni possibilità per favorire l’incontro. Così le fonti francescane raccontano l’episodio: «Anche il sultano vedendo l’ammirevole fervore di spirito e la virtù dell’uomo di Dio, lo ascoltò volentieri e lo pregava vivamente di restare presso di lui». Quali sono gli incontri maturati da questo primissimo dialogo interreligioso? E soprattutto, quali le sue conseguenze? Non pochi, a volte, sottolineano con ironia «è solo scenografia, non conducono a niente», ma la risposta è guardare a quella che fu l’intuizione geniale di Giovanni Paolo II: il mondo è in piena guerra fredda, tra Russia e Stati Uniti la tensione è altissima. Giovanni Paolo II convoca ad Assisi i leader religiosi del pianeta, le resistenze non mancano, ma il Papa non si arrende e chiede di far tacere le armi. La sera del 27 ottobre 1986 dirà: «Ciò che abbiamo fatto oggi ad Assisi, pregando e testimoniando a favore del nostro impegno per la pace, dobbiamo continuare a farlo ogni giorno». La conseguenza di questa corale preghiera arriverà nell’89 quando cade l’emblema della guerra fredda: il muro di Berlino. Oggi la comunità di Sant’Egidio, le famiglie francescane e la chiesa di Assisi si fanno portavoce della parola del Papa: una risposta di pace a una «silenziosa» terza guerra mondiale. Dopo gli attentati in Francia, Siria e Pakistan la risposta al nuovo terrore sono Assisi e le parole del santo: «Fa di me uno strumento della tua pace». Siamo in cammino per costruire ponti di dialogo e per abbattere i muri dell’indifferenza. Questo è l’impegno di Assisi con la consapevolezza che il Papa detta a pochi giorni dal suo arrivo: «Non sono sufficienti, i grandi incontri internazionali. È dai piccoli gesti quotidiani che si può costruire la pace». È ciò che il Custode del Sacro Convento di Assisi, padre Mauro Gambetti, sottolinea in questi giorni. LIBERO Pagg 1 - 3 Preti e uccelli di rovo di Cristiana Lodi, Alessandro Gonzato e Andrea Morigi Inchiesta sulla vita agra dei sacerdoti. Si ripropone il problema del matrimonio delle tonache: una su cinque molla, per lo più per questioni di cuore Fare la conta esatta degli spretati in Italia e nel mondo è difficile. Le associazioni «di categoria» infatti forniscono dati, ma il Vaticano li corregge e ne indica altri. Palesemente più contenuti e circoscritti. Quasi che il pastore che abbandona il gregge per amore verso una donna, si macchi di un peccato così poco veniale da dover essere lavato in casa (anzi in Chiesa) e non in pubblico. Di fatto, però, sono sempre di più i sacerdoti che a un certo punto del loro ministero, lacerati dal conflitto affettivo e dalla solitudine, gettano tonaca e aspersorio alle ortiche. Per poi riapprodare nella laica e più terrena società a braccetto con una signora. La Chiesa cattolica fa di tutto per «recuperarli» o trattenerli (talvolta anche chiudendo un occhio scegliendo la formula more uxorio), e quando non ci riesce li condanna. I preti che si sposano o che nell' attesa della dispensa papale, vanno a vivere con una donna nel segno dell' amore, in genere hanno tutti contro. Dal vescovo al sacrestano. Fa eccezione qualche rara perpetua, a patto che dopo l'avvicendamento nessun altro le soffi il posto in canonica. Ma a dispetto delle sofferenze e delle difficoltà, i religiosi in paramento che vivono una relazione sentimentale, sono una realtà. Sempre più importante. Inutile parlare con monsignore o con lo psicologo. E non può servire nemmeno l'anno di discernimento in

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monastero, in convento, in missione ai confini del mondo o a fare l'eremita: il sentimento e il desiderio a esso connesso non svaniscono. Vero: il pastore si è consacrato al servizio divino, ha fatto voto di castità e di obbedienza, ma a un certo punto la solitudine prende il sopravvento. E lasciare il gregge in nome della donna e della famiglia, è la sola chiave per annientare il male. Secondo il canonista Vincenzo Mosca, nel mondo, le «defezioni» sacerdotali (diocesane e religiose) sarebbero oltre mille l'anno. Ancora oggi, per ogni dieci nuovi preti, almeno due abbandonano il ministero. I sacerdoti «laicizzati» viventi nel mondo, dunque, secondo Mosca, sarebbero più di 50 mila. Non sono d'accordo la maggior parte delle associazione di presbiteri con famiglia, secondo le quali la cifra andrebbe addirittura raddoppiata. Soltanto in Italia - in base alla media dei dati disponibili - i sacerdoti coniugati sarebbero da 8 a 10 mila. E 120 mila in tutto il mondo. I picchi di richiesta di dispensa dall'esercizio del ministero si sarebbero inoltre avuti a metà anni Settanta, quando «di licenze» ne sono state chieste da 2500 a 3 mila. Attualmente se ne concedono da 500 a 700 l'anno. Ma se anche i preti come si è visto sono uomini, stessa cosa vale per gli spretati (che si siano poi sposati oppure no): sta di fatto che fra loro esiste un discreto gruppo che, dopo avere abbandonato il ministero, a un certo punto sente nostalgia del Tabernacolo. E chiede di ritornare a celebrare Messa. Così comincia la spola dal vescovo, sempre benevolo, per essere riammessi al sacerdozio. Alcuni vorrebbero rientrarci senza però abbandonare la vita di preti sposati, cosa che la Chiesa non può concedere senza modificare la legge sul celibato. Nell'attesa, succede che qualcuno, si dedichi a un ministero sacerdotale «parallelo» da esercitare nelle confessioni protestanti o nelle sette. Come si può vedere lo scenario è articolato e per molti versi inevitabilmente confuso. Certo è che sono ormai migliaia gli appartenenti al clero cattolico che, pur conservando la fede e volendo continuare a testimoniarla, vivono una storia d'amore talvolta clandestina e talvolta tollerata nel segreto di un confessionale. Uomini e donne perseguitati e lacerati dal senso del peccato. Perché gli spretati o i preti accompagnati che vengono tollerati, sono ben consapevoli di essere di fatto «fuori» dalla Chiesa. In tanti si domandano per quale ragione, in una società laica dove tutto è permesso, la vita sessuale dei religiosi debba essere il tabù che sopravvive nei secoli. Una Chiesa che predica l'amore può impedire ai suoi ministri di amare? Può costringerli a vivere la sessualità nella clandestinità e nell'ipocrisia? Tanti, troppi sacerdoti sono protagonisti di storie drammatiche, costretti a un bivio diviso fra due opposte strade: la passione umana e l'intensità di una vocazione. E non è facile andare avanti nemmeno per i preti «pentiti» che hanno imboccata la prima via, quella della passione terrena, abbandonando i paramenti in sacrestia senza pentimento. Per loro comincia una nuova vita, in una nuova società nella quale bisogna ricominciare tutto daccapo. Il lavoro senza mai avere compilato un curriculum. La casa senza nemmeno sapere cosa sia l'affitto. Un'armata di orfani dell'abbraccio della Chiesa e della prospettiva di una pensione elargita dalla Cei. Allora eccoli che vanno a fare gli assistenti sociali o gli insegnanti di religione. Qualcuno va a lavorare in fabbrica, c' è chi si reinventata imprenditore o agente di commercio. Chi vaga alla ricerca di un lavoro. Senza però mai dire di avere perso la fede. Ha rinunciato al sacerdozio ed è sparito nel nulla: «Lascio perché quando ho chiesto aiuto nessuno mi ha sentito». Poche parole di congedo scritte a monsignor Gianfranco Gardin, vescovo di Treviso, dove don Alberto Bernardi, 48 anni, nato nel Padovano, fino a qualche giorno fa era parroco alla chiesa Sacro Cuore di Gesù. Venerdì scorso, in gran fretta, ha raccolto le sue cose in un paio di scatoloni e ha lasciato la canonica. Nessuno sa dire dove sia andato. Chi potrebbe saperlo, come il sacrestano, non si lascia scappare una parola: «Niente, non so niente» ci dice al telefono. Ma dov'è finito don Alberto? «Non si sa, non so davvero nulla, le auguro una buona giornata». Non ne sa niente, almeno così sostiene, nemmeno don Giuseppe, il prete cinese che condivideva l'appartamento con lui. Lì, don Alberto, non è tornato. È stato il vicario diocesano, domenica mattina, a dire messa al suo posto e ad annunciare che il sacerdote aveva lasciato la chiesa. I fedeli, tramite il bollettino parrocchiale del 21 agosto, erano stati informati che don Alberto si sarebbe preso un periodo di riposo, notizia comunicata anche tramite i social network. Pensavano però che si trattasse di qualche giorno di normale vacanza. E invece, oggi, sono tutti a domandarsi che fine abbia fatto quel giovane prete, capelli corti e scuri, occhiali, baffi e una sottile barba a incorniciargli il

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volto. Nemmeno nelle parrocchie veneziane di San Pio X e di Calvecchia-Fiorentina, dove il fratello Maurizio è sacerdote, nessuno dice nulla. A Treviso invece c'è chi sostiene che don Alberto si sia sentito tradito. Ma da chi? E per quale motivo, come ha scritto nella lettera indirizzata al vescovo, aveva chiesto aiuto? Da quanto tempo andava avanti quel suo malessere? Alcuni frequentatori dell' emporio solidale gestito dal prete ricordano che negli ultimi tempi era parso stanco: «Forse stava venendo meno la vocazione». Altri mormorano che di mezzo ci sarebbe una donna. Al momento, però, non c'è alcuna certezza, se non che del prete, da qualche giorno, non si hanno notizie. Pare proprio che ci sia una scelta di cuore, invece, alla base del probabile addio alla tonaca da parte di un altro religioso, don Marco Scarpa, 49 anni, sacerdote della chiesa di San Pantalon, a Venezia. Domenica, al termine della messa, ha voluto annunciare la propria decisione ai fedeli. Poi ha scritto un messaggio su Facebook: «D' accordo col patriarca, da domani vivrò un tempo di sospensione per poter proseguire in un cammino di verifica sulla mia vita e su aspetti importanti delle mie scelte, soprattutto nell'ambito dell'affettività. Un cammino» ha proseguito don Marco «che ho intrapreso da tempo e che ora mi porta davanti al Signore a questo nuovo passo». Presso la Congregazione di Gesù sacerdote, a Trento, si accolgono i preti sposati. Intorno al refugium peccatorum, a poca distanza, vivono le loro mogli e i figli, sostenuti economicamente dalla Chiesa, che li ospita perché non debbano soffrire l'abbandono del marito e del padre. Così continuano a vedersi, a frequentarsi, a vivere insieme perché sarebbe ingiusto che chi ha messo al mondo un bambino o una bambina non si assumesse poi la responsabilità di educarli. In fondo, che colpa ne hanno i piccoli se sono nati nel peccato, cioè in una famiglia un po' strana? Renderli anche virtualmente orfani peggiorerebbe soltanto la loro situazione. E invece qui si invitano i religiosi a riscoprire la propria vocazione attraverso la meditazione su tematiche apparentemente generiche come la «paternità nel ministero» e anche sullo «stress da prete?». Ritiro, silenzio, preghiera e sacramenti. In pratica si sta come a un corso di esercizi spirituali, per comprendere qual è il progetto di Dio sulla propria vita. E soprattutto se si ha voglia di seguirlo. Comunque vada, è una Via Crucis. «Non ci dimentichiamo di quanti hanno lasciato il ministero e delle loro famiglie, offrendo un accompagnamento che favorisca la comprensione del loro cammino e la partecipazione in termini nuovi alla vita ecclesiale», spiegano sul loro sito i padri Venturini che hanno intrapreso la missione del recupero dei sacerdoti in crisi. Di più non dicono al telefono, soprattutto ai giornalisti: «Se devi scrivere, non possiamo aiutarti. Se è per te, prendi appuntamento con padre Gianluigi», cioè il superiore della congregazione religiosa, di diritto pontificio. Sul numero degli ospiti di questa strana comunità religiosa di recupero vige il segreto più stretto. Arrivano dalle diocesi di tutt'Italia, su consiglio del vescovo o del superiore. Accanto, c'è anche un'altra strada, l'iniziativa Aiuto al sacerdote, ideata da padre Teobaldo de Filippo, francescano di Genova. La privacy è assoluta, in queste circostanze come anche per i presbiteri che hanno manifestato tendenze omosessuali o pedofile. In quest'ultimo caso, meglio fuggire la tentazione con l'isolamento. Ma per quanto riguarda le unioni già costituite fra un uomo e una donna, non si può far finta di nulla, in particolare in presenza di prole. A differenza di quanto accade nelle varie associazioni dei preti sposati, qui non si mette affatto in discussione il celibato ecclesiastico né si rivendica un mutamento della bimillenaria disciplina ecclesiastica. Anche se si fa eccezione per il clero delle Chiese cattoliche di rito orientale (dove uomini sposati possono diventare sacerdoti, ma chi ha ricevuto il sacramento dell' ordinato quand' era celibe non può sposarsi) l'unica dispensa prevista dal diritto canonico per i cattolici di rito latino è quella che consente di abbandonare il sacerdozio a chi lo richiede e di sposarsi sacramentalmente. Famiglia e parrocchia però non si accordano. L'iter da seguire è quello indicato dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, che si conclude con una «liberatoria» del vescovo o del superiore della congregazione religiosa di cui si fa parte. Poi chi ha mantenuto la fede potrà trovare una collocazione nell' ambito della comunità ecclesiale. Per chi invece decide di contrarre un matrimonio unicamente secondo il diritto civile, si chiudono le porte. In seguito, non sarà consentito nemmeno insegnare catechismo ai ragazzi che si preparano a ricevere l' Eucaristia o la Cresima. Pag 1 Ma il celibato è una difesa per i parroci di Vittorio Feltri

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Non sono mai stato anticlericale. Anzi , devo molto ai preti (anche in termini di gratitudine) perché con il loro decisivo aiuto e conforto ho potuto fare cose che da solo non sarei riuscito neanche a cominciare. Ma fino a qualche anno fa non capivo per quale motivo la chiesa non consentisse ai sacerdoti di sposarsi e di vivere una vita normale, quella di persone qualsiasi. Col passare del tempo invece ho mutato modo di pensare, nonostante sappia quale sia la sofferenza di un parroco condannato alla solitudine in canonica. Per lui - mi ha confessato un amico monsignore - il problema non è, come tutti noi supponiamo, l'insoddisfazione sessuale, alla quale non è difficile rimediare, bensì il senso di vuoto che prova il celibe per costrizione: ossia la mancanza di un affetto che riempia le serata, specialmente d'inverno, quando piove, e lui se ne va a letto e sente di essere abbandonato. L'unica sua distrazione è fissare il soffitto della stanza e contare le crepe nell'intonaco, in attesa del sonno. Così sempre, dal giorno della consacrazione a quello della pensione, al raggiungimento dei 75 anni. Quindi è da sciocchi non comprendere coloro che, durante il sacerdozio, cedono alla debolezza della carne e dello spirito. Sono uomini come noi e se a un certo punto si innamorano di una parrocchiana gentile non è il caso di scandalizzarsi e di farla tanto lunga con le accuse. Accettiamo la realtà, che è diversa dalla poesia e dalla mistica. La cronaca ci informa quotidianamente di episodi pruriginosi che hanno quali protagonisti prelati di vario livello, e ogni volta che leggiamo ci riempiamo stupidamente di indignazione. Ci vuol altro per stracciarsi le vesti. Prima di lapidare un peccatore, chiunque esso sia, conviene farsi un esamino di coscienza. Parecchia gente, constatando che anche in sacrestia fioriscono sentimenti non soltanto platonici, propone che ai curati sia accessibile il matrimonio. Come dicevo all'inizio, pure io ero di questa idea, ma oggi ho cambiato opinione. Indubbiamente è opportuno essere poco rigidi sulla moralità dei nostri simili sacerdoti; che sarà mai se essi baciano una donna e magari si spingono oltre. Ma la chiesa ha ragione di difendere ad oltranza l'obbligo del celibato per le sue gerarchie. Infatti se un prete si sposa si espone al rischio di avere una moglie infedele, oggetto di pettegolezzi infamanti, o addirittura figli scapestrati, drogati, viziosi che infangherebbero irrimediabilmente la reputazione del prete stesso, la cui autorevolezza va invece formalmente salvaguardata per garantire l'autorevolezza della istituzione. Il celibato è stato introdotto per questo e va difeso a ogni costo. Vero è che i protestanti consentono ai pastori di maritarsi, ma non so fino a che punto ciò dia loro gioia e serenità. Probabilmente la saggezza della chiesa cattolica è tale per cui il Papa e i cardinali sanno che un religioso il quale si unisce in matrimonio ignora a cosa va incontro. Pertanto il Vaticano vieta ai propri uomini di sposarsi. Un divieto che forse andrebbe esteso ad altre categorie di cittadini. Si fa per dire. IL FOGLIO Pag 3 La cortina di ferro di Ratisbona Dieci anni fa il grande discorso sull’islam di Benedetto XVI Il discorso di Ratisbona si basa sulla forza che ha sollevato la cortina di ferro e abbattuto il Muro di Berlino", scriveva il compianto André Glucksmann. Il 12 settembre 2006, Benedetto XVI fece ritorno in Baviera, la terra dove è nato e cresciuto, dove è stato ordinato sacerdote e ha iniziato a insegnare Teologia. All'Università di Ratisbona doveva tenere una lezione di fronte al mondo accademico. Ratzinger vi rivendicò le radici ebraiche, greche e cristiane della nostra fede, spiegando perché erano diverse dal monoteismo islamico e appoggiandosi a una citazione dell'imperatore Manuele II Paleologo. Sulla stampa internazionale, in tanti circoli cattolici, nella umma islamica, fu un linciaggio politico, religioso, diplomatico e ideologico nei confronti di Ratzinger. Il Papa per la prima volta nella storia del dialogo cattolico-islamico aveva posto una condizione fondamentale: chi si siede al tavolo deve rifiutare l'irrazionalità della violenza motivata dalla religione. Gli islamisti presero sul serio Ratisbona: in Iraq staccarono la testa a padre Iskander, in Turchia martirizzarono don Santoro, in Somalia uccisero suor Lionella e a Malatya incaprettarono e giustiziarono gli stampatori di Bibbie. L'"operazione scuse" (anche se il Papa nel libro di Peter Sewald non pronuncerà mai la parola "scusa") fu messa in campo dalla diplomazia vaticana e si chiuse con il viaggio in Turchia. Il leader turco Recep Erdogan umiliò il Papa, dedicandogli mezz' ora nella saletta vip dell'

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aeroporto di Ankara. Da allora, nessun alto ufficiale del Vaticano avrebbe più usato quella parolina che inizia per "i" e finisce con "m". Dieci anni dopo, quella cortina di ferro è ancora in piedi. ITALIA OGGI Dicastero dell'ortodossia cattolica. Nuovo capo di Antonino D’Anna Sono sempre più insistenti le voci dell'imminente sostituzione del cardinal Gerhard Müller. È in pole position Bruno Forte, arcivescovo di Chieti molto apprezzato dal Papa Aria di cambiamento in Curia vaticana. Dopo il varo dei nuovi Dicasteri, accade adesso che un rumor sta iniziando a prendere quota: sembra che il cardinale Gerhard Müller, ratzingeriano alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, potrebbe essere rimosso dalla guida del dicastero papale e sostituito. Quando? C'è chi parla addirittura di ottobre, ma al di là delle previsioni, è la spia di come il Papa starebbe pensando ad un nuovo custode dell'ortodossia religiosa. Magari nella figura di Bruno Forte, l'Arcivescovo di Chieti-Vasto, da lui molto apprezzato per esempio e indicato dal vaticanista John Allen, in questi giorni, come un potenziale papabile (ammesso che sia creato in tempi brevi cardinale, anche se il Conclave seppur formato da cardinali può eleggere chiunque sia maschio, dotato di sufficiente uso d'intelletto, non eretico né scismatico come prevede la legge canonica). Vedremo se questo scenario si concretizzerà. Certamente il fatto che Oltretevere si discuta di una possibile decisione papale in questo senso (al netto di qualsiasi possa essere il futuro di monsignor Forte) è segno di come alcune prese di posizione di Müller non sarebbero state di gradimento da parte di Jorge Mario Bergoglio. È infatti da due anni almeno, in occasione del primo Sinodo straordinario della Famiglia, per capirci, che il porporato tedesco (ratzingeriano di ferro) assume delle posizioni che non sono proprio definibili come progressiste. È l'autunno del '14 quando viene dato alle stampe, a cura di padre Roberto Dodaro, il volume: «Permanere nella Verità di Cristo», un testo nel quale cinque cardinali più altri quattro intellettuali cattolici rispondono alla chiamata del cardinale Walter Kasper (ala progressista) ad armonizzare: «la fedeltà e la grazia nella sua pratica pastorale verso i divorziati risposati». A rispondergli sono i cardinali Walter Brandmüller, Raymond Burke, il compianto Carlo Caffarra, Velasio De Paolis, padre Dodaro, il gesuita Paul Mankowski, il cardinal Müller, John M. Rist e l'arcivescovo gesuita Cyril Vasil. E sapete che cosa dice Müller sul tema? Lo dice alla rivista tedesca Focus: la Chiesa non ammette alla Comunione i divorziati risposati, ma si può «pensare al futuro» discernendo: «le situazioni con responsabilità alla luce del pensiero teologico». Il punto è che il cardinale si riallaccia al n° 84 della Familiaris Consortio, enciclica di Giovanni Paolo II, che ammette alla Comunione i divorziati risposati purché scelgano di non fare sesso. E ancora (fonte: Iltimone.org): «Non possiamo focalizzarci sempre su questa unica domanda, se possono ricevere la comunione o no. I problemi e le ferite sono il divorzio, i bambini che non hanno più i loro genitori e devono vivere con altri che non sono i propri genitori: questi sono i problemi». E nel libro La speranza della famiglia, proprio Müller nel 2014 dice: «Spesso viene suggerito di lasciare alla coscienza personale dei divorziati risposati la decisione di accostarsi alla comunione eucaristica. Anche questo argomento esprime un problematico concetto di «coscienza», già respinto dalla congregazione per la fede nel 1994. Prima di accostarsi a ricevere la comunione, i fedeli sanno di dover esaminare la loro coscienza, cosa che li obbliga anche a formarla di continuo e quindi a essere degli appassionati ricercatori della verità". Francesco, si sa, lascia cuocere a fuoco lento i suoi critici e ha confessato di non considerare i conservatori. Ma le prese di posizione di Müller non sempre sono sembrate in sintonia col modo di pensare dell'attuale Vicario di Cristo. Ne volete un'altra? Il 31 marzo 2016 è il Catholic Herald a riferire l'opinione di Müller a proposito dell'incontro di Lund a fine ottobre nel quale il Papa incontrerà i luterani: «I cattolici non hanno motivo per celebrare l'inizio della Riforma». Il cardinale parla in un libro-intervista e dice: «Se siamo certi che la Rivelazione divina si è preservata integra e senza modifiche nella Scrittura e nella Tradizione, nella dottrina della Fede, i Sacramenti, la costituzione gerarchica della Chiesa (…), allora non possiamo accettare che esistano motivazioni sufficienti per separarsi da essa». Martin Lutero, tiè. Chi succederà al card. Scola? di Antonino D’Anna

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Il cardinale di Milano scadrà dalla carica il 7 novembre prossimo quando compierà 75 anni. La soluzione potrebbe essere trovata fra i suoi vicari

Alti ringraziamenti e auguri, ma per il futuro dell'arcidiocesi di Milano si preparano sorprese. «A Noi è concesso di poter godere dell' aiuto della tua operosità (…) ti vogliamo significare la nostra benevolenza (…) Grandi sono in te i segni di Dio». A scrivere così non è Paolo VI nel 1966, ma Papa Francesco il 10 agosto scorso al cardinale Angelo Scola. L'arcivescovo di Milano ha ricevuto questa lettera nella quale Jorge Mario Bergoglio si complimenta per i 25 anni di episcopato del cardinale ciellino. Era infatti il 21 settembre 1991 quando don Angelo da Malgrate (LC) fu consacrato di Grosseto. Seguirono poi nel 1995 il rettorato della Pontificia Università Lateranense, il cardinalato nel 2003 durante il patriarcato a Venezia, il ruolo da papabile molto incombente nel 2005 e infine la promozione alla sede di Milano nel 2011 al posto di Dionigi Tettamanzi. Il Papa sottolinea che: «Ti sappiamo impegnato in modo particolare nel supremo compito di annunciare alle genti il Vangelo e di diffondere la presenza della Chiesa». Un riconoscimento all' impegno del cardinale lungo tutta la sua esperienza da sacerdote (venne consacrato il 18 luglio 1970). Esperienza che lo portò, per esempio, a tenere una lezione nel 1979 a Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri e Marcello Dell' Utri allora desiderosi di formazione politica specie dopo l'acquisto del Giornale di Indro Montanelli. E l'ex Cavaliere era allora finanziatore del Sabato, settimanale di area Comunione e Liberazione. Quando nel 2014 Sua Emittenza è stato affidato ai servizi sociali a Cesano Boscone (MI), secondo il Fatto Quotidiano sarebbe stato proprio il cardinale a suggerire la struttura Sacra Famiglia come luogo - a lui caro - dove Berlusconi avrebbe potuto scontare la sua pena. E andiamo avanti. Dicevamo delle grandi sorprese per l'arcidiocesi. Nel dare notizia della lettera, qualche giorno fa, Scola ha detto di aver parlato col Papa e che si metterà d'accordo con lui, agenda alla mano, per la visita pastorale di Bergoglio all'ombra della Madonnina. Già l'anno scorso si era parlato di una visita papale a Milano, ma era saltato tutto: Bergoglio avrebbe dovuto visitare Milano il 7 maggio di quest'anno, ma il Papa aveva fatto sapere di avere troppi impegni per il Giubileo. Si parla ora di una visita nel periodo di maggio-giugno 2017, in tempo per la conclusione della visita pastorale di Scola a tutto il territorio dell'arcidiocesi. E questo s'incrocia col tema successione: il 7 novembre il cardinale si dimetterà al compimento dei 75 anni e, quindi, ci sarà questo periodo di prorogatio. Oltretevere si dice che potrebbe esserci l'annuncio della nomina del successore di Scola in occasione della visita papale o poco dopo, ma che Roma avrebbe le idee confuse sulla scelta del nuovo arcivescovo. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, si starebbe prendendo in considerazione l'ipotesi della soluzione indoor, ossia con la nomina di uno dei quattro vescovi ausiliari in età di episcopato: si tratta del Vicario generale Mario Delpini (classe 1951), Franco Maria Giuseppe Agnesi (1950), il cappuccino Paolo Martinelli (1958) e Pierantonio Tremolada (1956). I bookmaker vaticani non quotano molto Martinelli perché potrebbe essere azzoppato dal fatto di essere vicino a Comunione e Liberazione, mentre Tremolada avrebbe qualche possibilità in più. Ma una delle voci che circolano Oltretevere presenta un candidato in grado di sparigliare: nientemeno che il telepredicatore padre Ermes Maria Ronchi, classe 1947 e appartenente all'Ordine dei Servi di Maria. Ha 69 anni (ma del resto Scola ne aveva quasi altrettanti quando fu trasferito a Milano), un ottimo retroterra culturale, ha lavorato per 22 anni a Milano nel Centro culturale Corsia dei Servi fondato da padre David Maria Turoldo. Quest'anno ha predicato alla Curia durante gli esercizi spirituali alla presenza del Papa: e sarebbe piaciuto non poco a Bergoglio, che gli ha infatti telefonato personalmente per averlo agli esercizi. Ha deciso di ritirarsi da poco presso una comunità dei Servi di Maria in quel di Isola Vicentina, ai piedi dell'Altipiano di Asiago. Che nel nuovo anno possa fare ritorno in città? Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI “CultFest” al Centro Kolbe: “Dare spazio alle culture” di Filomena Spolaor Da venerdì a domenica con il Servizio Immigrazione

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Il Centro Kolbe di via Aleardi si trova in un quartiere multietnico. E, per favorire lo scambio tra diverse culture, ha pensato di organizzare il "CultFest. Ti do la mia parola", in collaborazione con il Servizio Immigrazione del Comune. Si tratta dell’"edizione zero" di un festival dell'accoglienza, dell'immigrazione matura e della coesione culturale. «Ci saranno letture, spettacoli teatrali da opere di scrittori e migranti, danze multietniche, musica e proiezioni cinematografiche, oltre a momenti conviviali di "ospitalità nel mondo" in cui poter apprezzare diverse ricette etniche» spiega Alex Jacob dell'associazione culturale Kolbe. Venerdì, alle 18, dopo l'aperitivo di benvenuto, aprirà il festival l'incontro "Quando la migrazione diventa matura" moderato da Gianfranco Bonesso del Servizio Immigrazione che presenterà i libri degli autori Syed, Pozniakova, e Belibov. A seguire, l'inaugurazione della mostra collettiva d'arte "Belong to here», a cura di "Made in Art Gallery" e, in serata, la proiezione del film "Breakfast in Beirut" con la presenza della regista Farrah Al Hashem. Sabato la tavola rotonda "Facilitare gli scambi culturali: metodi, esperienze, progetti". Nel pomeriggio appuntamento per i bambini con "Ti dò il mio gioco", e poi con il momento dedicato alle poesie di Severino Bacchin e i suoi traduttori, a cura dell'associazione "Puntini in movimento". In serata, le coreografie multietniche di "Ti do la mia danza" e poi il film "18+" regia Kazi Tipu. Infine, domenica alle 10, l'incontro "Il Social delle spiritualità emergenti" con le comunità cristiane straniere e, alle 19, lo spettacolo "Una storia infinita" di Wael Habib. «Ci troviamo di fronte a una situazione di migrazione matura, dove dalla richiesta di aiuto si è passati a un ritorno della cultura» afferma Gianfranco Bonesso. LA NUOVA Pag 33 Teatro, danze, giochi dal mondo per il festival dell’accoglienza di Lieta Zanatta Centro culturale Kolbe Se il nuovo flusso immigratorio dall'Africa e Medio Oriente ha un futuro dai contorni non ancora delineati in Italia, un presente è già definito per la migrazione che si è stabilita più di un decennio fa nella città metropolitana di Venezia. Sono ben 151 le nazionalità che lavorano e convivono nel nostro territorio e rappresentano il 10 per cento della popolazione inserita nel tessuto sociale. Un modo per conoscerne la realtà è il "CultFest - ti do la mia parola", il festival dell'accoglienza, l'immigrazione matura e della coesione culturale che si terrà dal 16 al 18 settembre al Centro Culturale Kolbe di via Aleardi a Mestre, con il supporto del Servizio immigrazione, coesione sociale, servizi alla persona e benessere di comunità del Comune di Venezia. Ci saranno spettacoli teatrali di opere di scrittori migranti, letture, danze multietniche, giochi per bambini, musica e proiezioni cinematografiche dove abbonderanno i momenti dettati dai sapori delle cucine nazionali di Italia, Romania, Ucraina, Bangladesh e Libano. Il momento centrale sarà la tavola rotonda di sabato 17 alle 10, al teatro Kolbe, dal titolo "Facilitare gli scambi culturali: metodi, esperienze, progetti", dove sono invitati a partecipare i rappresentanti dei comuni e associazioni culturali dell'hinterland. La kermesse si aprirà venerdì alle 17 con un aperitivo, seguita alle 18.30 da un incontro "Quando la migrazione diventa matura" moderato da Gianfranco Bonesso del Comune di Venezia con presentazione di libri a cui seguirà una collettiva d'arte e la proiezione del film "Breakfast in Beirut". Sabato alle 18.30 reading di poesie di Severino Bacchin mentre alle 20.45 ci saranno danze contemporanee e orientali con a chiusura la proiezione del film "18+". Domenica alle 10 ci sarà "Il Social delle spiritualità emergenti", incontro tra le comunità cristiane straniere del territorio. Alle 16 proiezione di "Oltre le colline" e a chiusura lo spettacolo teatrale "Una Storia Infinita" di Wael Habib. Info: www.culfest-venezia.info, tel. 327.7872341. CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Arte e cibi etnici. Il centro Kolbe diventa incontro di culture di a.d’e. Mestre. Il tentativo è ambizioso: provare a portare al centro culturale Kolbe tutte le comunità del territorio facendole incontrare. Il primo passo sarà quello del «CultFest» che da venerdì a domenica avvicinerà artisti e filmmaker, con incontri e aperitivi etnici per tre sere di seguito. «E’ la prima edizione. L’idea è quella di far incontrare le culture e

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che il centro Kolbe diventi uno spazio di riferimento - spiega Alexandru Iacob, responsabile del centro – troppo spesso le persone si conoscono poco e tendono ad isolarsi in piccoli gruppi che non entrano in contatto. Sarebbe bello il contrario invece». Si comincerà venerdì alle 17 con «ospitalità nel mondo» seguito dall’incontro «Quando la migrazione diventa matura» che si concluderà con una cena l’inaugurazione della collettiva d’arte «Belong to Here». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 6 Istat: crescono gli occupati e calano gli “inattivi” (giovani mamme escluse) di Francesco Di Frischia Roma. Cresce l’occupazione e diminuiscono gli «inattivi», coloro che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione (in inglese «neet»). Nonostante la battuta d’arresto del Pil, arrivano segnali positivi dal mercato del lavoro, secondo l’ultimo report dell’Istat che rileva i dati del secondo trimestre di quest’anno: sono 198 mila i lavoratori che hanno trovato un impiego (che su base annua diventano 439 mila occupati in più), 109 mila disoccupati in meno e 252 mila i giovani che non rimangono «a casa». Tracciando l’identikit dei neet, che in Italia sono 2 milioni e 35 mila, per gli esperti si tratta soprattutto di donne sopra i 25 anni, che vivono nel Meridione. Soddisfatto il premier Matteo Renzi che twitta: «Dall’inizio del nostro governo: più 585 mila posti di lavoro. Il Jobs act funziona». Ma sul blog di Beppe Grillo replicano: «Il Jobs act è evaporato appena i costosi incentivi del governo sono stati diminuiti» e si parla di «Italia in rovina». Critiche pure dalla Cgil: «Non esiste alcuna statistica che dimostri che il Jobs act abbia funzionato - sostiene il sindacato -. La vera emergenza sociale è la disoccupazione giovanile». Non la pensa così il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che spiega il calo dei neet «con le opportunità prodotte dal programma “Garanzia giovani”». E a chi gli fa notare i dati migliori al Sud rispetto al Nord, Poletti osserva: «Credo che ci sia una componente anche di emersione del lavoro nero al Sud». Ma Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro del Senato, ricorda: «Purtroppo al secondo trimestre di quest’anno è seguita la battuta d’arresto di luglio dell’occupazione (-63 mila posti) che si è abbinata a deflazione, crescita zero, stagnazione dei consumi e degli investimenti: la prossima manovra spero sia dedicata a interventi strutturali su crescita e lavoro». Deborah Bergamini di Forza Italia rincara la dose: «La tendenza positiva si è interrotta a luglio, ma il Pd non se ne è ancora accorto o finge di non accorgersene». In controtendenza il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, invita il governo a «andare avanti» perché i dati Istat «premiano il Jobs act». Intanto anche il tasso di disoccupazione fa registrare un impercettibile segnale di miglioramento (-0,1%) attestandosi all’11,5% rispetto ai primi tre mesi dell’anno, mentre scende dello 0,6 rispetto al secondo trimestre 2015. E le ore lavorate crescono dello 0,5% sul trimestre precedente e del 2,1 su base annua. A conti fatti, secondo l’Ocse, i Paesi dell’eurozona in cui il tasso di disoccupazione è calato maggiormente a luglio sono Italia (-0,2%), fermandosi all’11,4%, e Spagna (-0,3 pari al 10,3%). Tornando ai neet (22,3% del totale), oltre 6 giovani mamme su 10 (64,4%) al di sotto dei 30 anni rientrano in questa categoria e rimangono a casa ad accudire il neonato e il 36,2% vive in coppia senza figli. Le neomamme sono oltre metà di tutti i giovani inattivi (521 mila persone). Per gli uomini, invece, nei ruoli di genitore o partner l’incidenza è più bassa (rispettivamente 14 e 11,3%). AVVENIRE Pag 2 Il lavoro in positivo ancora da consolidare di Francesco Riccardi L’apparente contraddittorietà dei dati e le interpretazioni frettolose L’occupazione è un disastro. No, sta migliorando. Il Jobs act ha fallito. Macché, sta producendo grandi risultati. La messe di dati, pubblicata a cadenza quasi settimanale, finisce paradossalmente per rendere più difficile la comprensione del reale andamento

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del mercato del lavoro. E dare la stura a ogni sorta di commento: da quello secondo cui siamo ancora inchiodati all’anno zero della grande crisi ai toni invece più trionfalistici di chi ci vede proiettati sempre in avanti. La realtà, come sempre, è più complessa e articolata. I dati, anzitutto, vanno considerati e confrontati secondo il diverso arco temporale su cui sono calcolati, la natura (sondaggio campionario o registrazione) e l’insieme di fattori considerato. La rilevazione mensile dell’Istat, di per sé, ha poco peso: è una sorta di istantanea che ferma un momento, ma ha il pregio di essere immediata, diffusa quasi in tempo reale. L’analisi trimestrale, invece, oltre a essere maggiormente dettagliata, dà conto di una tendenza e può offrire indicazioni più significative e meno aleatorie, scontando però un 'ritardo' nella pubblicazione che può renderla di fatto già 'superata'. Occorre poi fare attenzione agli altri dati, come quelli sul flusso di assunzioni e cessazioni o sulla natura dei diversi contratti, importanti per cogliere alcune tendenze qualitative, ma dai quali raramente, per la loro variabilità, si può trarre di volta in volta un giudizio definitivo. Ma, allora, come giudicare l’andamento del mercato del lavoro? Come va valutato il dato in crescita del secondo trimestre dopo l’ultima rilevazione mensile piuttosto deludente e l’aumento dei licenziamenti? Restando sul piano del realismo, si conferma una tendenza positiva per l’occupazione che in un anno ha visto crescere gli occupati di oltre 400mila unità, in valore assoluto vicini ormai ai livelli pre-crisi (oggi 22 milioni 936mila contro i 23 milioni 90mila di fine 2011), diminuire i disoccupati e, dato più importante, calare finalmente il numero di giovani che non lavorano né studiano. Questo almeno fino a giugno. Perché i dati mensili di luglio hanno fatto registrare una battuta d’arresto. E, d’altro canto, difficilmente la domanda di lavoro poteva continuare ad aumentare dopo che l’attività industriale e, più in generale, la crescita economica hanno fatto segnare proprio a partire dal secondo trimestre dell’anno una nuova gelata, con il Pil inchiodato allo zero. In questo scenario non ha senso neppure parlare di successo o fallimento del Jobs act, che sarà valutabile a pieno solo tra qualche anno, una volta smaltita la 'sbornia' degli (assai costosi) incentivi contributivi e valutati gli effetti reali delle nuove norme sui licenziamenti. Per ora si può solo trarne un insegnamento generale: il taglio del costo del lavoro, assieme a un minor grado di rigidità normativa, ha favorito le assunzioni stabili e le trasformazioni di contratti più precari. Anche se il rapporto costo/benefici pare finora sbilanciato sulla prima voce. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 17 Famiglia Poli, sfratto rinviato. Altro caso critico a Cannaregio di n.d.l. Emergenza casa Sfratto rinviato al 21 novembre, giorno della Madonna della Salute, per la famiglia Poli che da quarant'anni abita a Cannaregio 3170/a in un immobile fatiscente, con il magazzino circa 50 metri quadri. Due mesi fa per Maurizio e Lena si era mobilitata l'intera città: da Silvana Tosi (Liga Veneta Lega Nord Padania) alla vice sindaco Luciana Colle, dai vicini al social forum Venessia.com che per la prima volta aveva ripreso la vicenda dell'emergenza casa in diretta streaming. «Sono disperato. Io e mia moglie non dormiamo più» spiega Maurizio Poli. «Dov'è la consigliera Sara Visman dei Cinque stelle che aveva promesso di interessarsi al mio caso? Sono un collaboratore parrocchiale; mi sono rivolto a chi accoglie persone in difficoltà: alla Curia, al seminario patriarcale, al sostentamento del clero. Non ho ricevuto né risposta, né aiuto. Ora con questo rinvio al 21 novembre, giorno della Madonna della Salute, spero in un miracolo». Nel frattempo - l'8 agosto - la famiglia Poli ha ricevuto una lettera dal Comune con l'elenco delle modalità per l'assistenza. «Certamente non accetterò il contributo» dice tremolante il signor Maurizio «Non so cosa farò. Spero di non essere costretto a dormire in tenda nel parco pubblico». Ieri un altro sfratto (esecutivo) a Cannaregio 1150. Il proprietario, la Comunità ebraica, precisa: «L'appartamento è fatiscente e non può essere messo a norma se non con lavori radicali che esigono l'uscita degli occupanti. Per questo la Comunità ha ripetutamente offerto soluzioni abitative alternative alla persona che le ha sempre rifiutate. Anche in sede di esecuzione delle sfratto disposto da terzi, la Comunità

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ha rinnovato la sua disponibilità ad offrire ospitalità al nucleo familiare invitato ad uscire dall'appartamento». Pag 18 Le chiese di Chorus aperte un’ora in meno per i turisti di e.t. Per fronteggiare il buco in bilancio dovuto al calo dei visitatori Sos Chorus. L’associazione delle chiese che aderiscono al circuito di Chorus, che prevede il pagamento di un biglietto per i visitatori - al di fuori delle funzioni di culto - segna il passo per un calo di presenze che negli ultimi anni soprattutto si è fatto sentire, aprendo un «buco» nei conti che ora si prova ad arginare con una riduzione di un’ora dell’apertura delle chiese che ridurrà in parte i costi del personale. «Siamo un’associazione non profit» spiega il direttore di Chorus Paola Marangoni «e viviamo degli introiti di bigliettazione che servono a garantire la manutenzione ordinaria delle chiese aderenti oltre al sostegno alle 21 famiglie dei dipendenti. Siamo convinti che con la riduzione di un’ora degli ingressi riusciremo a riportare i conti in equilibrio. D’altra parte, l’alternativa era altrimenti quella di chiudere qualcuna delle chiese del circuito, o di aumentare il costo del biglietto e abbiano preferito questa strada, aprendo ai turisti le chiese dalle 10.30 alle 16.30, anziché dalle 10 alle 17, come in precedenza. I turisti ci sono, ma spendono meno e così le visite alle chiese hanno subìto un calo. Abbiamo provato anche a chiedere sostegno ad altre istituzioni cittadine, ma il momento è difficile per tutti». Chorus svolge un’azione meritoria anche perché contribuisce ad allargare i flussi turistici all’intera città con la visita alle chiese, ma paga una conoscenza ancora limitata, nonostante sia attiva ormai da parecchi anni, rispetto al sistema turistico e una certa freddezza da parte della Curia patriarcale, che tollera l’iniziativa senza però appoggiarla, proprio per una non piena condivisione dell’idea del biglietto a pagamento per l’ingresso in chiesa. Le chiese che oggi aderiscono al circuito di Chorus, con i Frari, sono Santa Maria del Giglio, Santo Stefano, Santa Maria Formosa, Santa Maria dei Miracoli, San Giovanni Elemosinario, San Polo, San Giacomo dall'Orio, San Stae, Sant'Alvise, San Pietro di Castello, il Redentore, i Gesuati, San Sebastiano, San Giobbe e San Vidal, che è anche la sede delle attività culturali dell'Associazione. L'uscita dal sistema della chiesa della Madonna dell'Orto - con i suoi circa 40 mila visitatori annui - aveva comportato una perdita complessiva delle presenze del sistema (che riunisce quindici chiese del centro storico più la Basilica dei Frari, che ha però una gestione autonoma) di oltre il 20 per cento. Pag 20 La Comunità islamica compra la moschea di Marta Artico Colletta durante l’estate per acquistare a Marghera la sede del nuovo centro culturale. Festa del sacrificio, in 1.500 a San Giuliano. Chiasso in via Fogazzaro, i residenti chiamano la polizia La Comunità islamica di Mestre e provincia ce l’ha fatta: in poco più di tre mesi è stata raccolta la cifra necessaria (252 mila euro) per saldare il conto del capannone acquistato all’asta, dove sorgerà il nuovo centro culturale islamico. La Comunità, che conta trenta etnie diverse e che da anni va chiedendo una mano per individuare un sito dove poter realizzare un Centro multifunzionale e spirituale in cui riunirsi, ora è diventata proprietaria di una struttura in via Lazzarini a Marghera, a pochi passi da dove si trova attualmente la Moschea della Misericordia. La Comunità qualche mese fa aveva partecipato a un’asta pubblica e messo gli occhi su di un capannone industriale dismesso, un po’ più piccolo rispetto a quello attuale, ma dove i locali possono essere ottimizzati al meglio e con un grande spazio esterno, indispensabile in certi periodi dell’anno. A giugno era stata versata la caparra, ma doveva essere saldato l’importo complessivo entro una data stabilita, ecco perché nei mesi estivi è scattata una raccolta fondi. Una colletta nella quale si sono impegnati i fedeli della comunità, coordinati da Omar Al Hnati, il vicepresidente, e verso la quale sono state profuse le forze del Centro. E visti i contatti della Comunità e l’integrazione di cui gode, in tanti hanno contribuito e abbracciato la causa. In 110 giorni esatti è stata raggiunta la cifra intera, che ammontava a 252mila euro. Il rogito è avvenuto il 5 settembre. Durante il Ramadan appesi alle pareti i ciclostilati con le somme di denaro che ogni comunità, che fa capo a via Monzani e rappresentata nel direttivo, devolveva o stava per devolvere a favore

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dell'acquisto del capannone di via Lazzarini. I membri del consiglio sono cauti, anche in questo caso si atterranno alle normative. Per ora la struttura è chiusa, in attesa che possano partire i lavori. In via Monzani, la comunità islamica è in affitto, ma il costo è sempre stato ingente e le rate troppo alte. Meglio ammortizzare la spesa in uno stabile di proprietà. Nulla cambierà rispetto ad oggi, se non in termini di risparmio economico. A Mestre la comunità del Bangladesh è proprietaria della piccola sala di preghiera di via Fogazzaro. A Quarto d’Altino l’associazione culturale islamica guidata da Mohamed Amrani è riuscita nella stessa impresa: a luglio ha firmato l’atto di proprietà della sala dove si riunisce a pregare tutti i giorni. Per questo ieri l’Eid Al Adha a Quarto, è stato un giorno speciale. In millecinquecento per la Eid Al Adha. Nonostante fosse il primo giorno di scuola, in tanti si sono dati appuntamento ieri mattina alle sette in punto al Parco di San Giuliano per pregare Allah e celebrare la seconda ricorrenza più importante del calendario islamico, ossia la Festa del Sacrificio, che viene festeggiata quaranta giorni dopo la Eid Al Fitr, la fine del Ramadan, e segna il termine del pellegrinaggio annuale alla Mecca. Non è la prima volta che i musulmani della provincia chiedono di poter utilizzare il polmone verde cittadino. Ma è la prima occasione che lo fanno per la Festa del Sacrificio ed è soprattutto la prima volta che decidono di organizzare la preghiera collettiva all'aria aperta tutti assieme, bengalesi compresi. La comunità del Bangladesh, infatti, la più numerosa nel territorio, è essa stessa frastagliata in parecchie comunità in città, e generalmente decide di pregare per conto proprio, nei rispettivi locali. Quest’anno invece è stato lanciato un appello a convergere al Parco: non tutti l’hanno accolto, perché molti non hanno mezzi con cui spostarsi, ma tanti hanno risposto. Sin dal primo mattino i fedeli si sono incamminati, alla spicciolata, alla Porta Gialla, meeting point. Chi in bus, nonostante lo sciopero, chi in auto, chi in bici, chi vestito da festa e chi in completo da lavoro. Mamme con passeggini, bimbi con lo zainetto pronto e la merenda già incartata. C’erano persino turisti in visita a Venezia, meravigliati dalla location d’eccezione, con il sole che sorgeva sulla laguna. Sotto il braccio il tappetino per la preghiera. All’entrata i parcheggiatori facevano lasciare le auto ordinatamente, prima di accedere alla postazione dedicata alcuni volontari offrivano sacchetti dove depositare le scarpe. Donne divise dagli uomini, ciascuno nel proprio reparto, zone ristoro post preghiera. «Il nostro intento», spiega Amin Al Ahdab, presidente della Comunità Islamica di Mestre e Provincia, «è quello di far capire che non ci sono divisioni tra di noi, che non ci sono musulmani di serie A e di serie B, che non ci sono nazionalità diverse, compresi i musulmani italiani, i convertiti, che siamo tutti uguali e per questo abbiamo scelto di pregare assieme, in un luogo aperto e uscire dai nostri rispettivi centri». «Oggi erano presenti fedeli di diverse etnie e razze», prosegue Omar Al Hnati, vicepresidente della comunità, «uniti da una religione unica che parla di misericordia e di pace, ringraziamo i cittadini veneziani che ci hanno accolto al parco e soprattutto il sindaco di Venezia». Durante le omelie, anche una preghiera per i terremotati, per le vittime e le loro famiglie. A condurre la preghiera anche due capi spirituali bengalesi, Hafez Ghangir e Mohammed Nureddin. Attorno alle 8,30 gli auguri di Eid Mubarak e per qualcuno brioche e cappuccino al bar. Al parco è intervenuto anche don Nandino Capovilla, che ha portato il suo saluto ai musulmani. L’organizzazione ha lasciato il parco così com’era, pulendo e mettendo tutto in ordine. Non tutti i fedeli musulmani hanno pregato a San Giuliano, c’è chi lo ha fatto anche nelle rispettive sale, quelle di tutti i giorni, come in via Costa, a Marghera, e in altre zone. In via Fogazzaro, però, dove già si vive una situazione più “calda” per via del degrado dell’area dovuto allo spaccio, è stato segnalato da alcuni abitanti un via vai di persone che hanno disturbato la quiete di chi voleva dormire, a partire dalle 6-6 e mezza del mattino. C’è, ad esempio, chi si è ritrovato proprio in via Fogazzaro per poi magari recarsi a prendere l’autobus per andare a pregare a San Giuliano. Sta di fatto che diverse persone hanno chiamato la polizia per chiedere che venissero effettuati dei controlli e alla fine, una volante è arrivata sul posto. «La preghiera qui non c’entra», spiegano i residenti che sono anche gli stessi che hanno scritto per la quarta volta al sindaco nei giorni scorsi, «si tratta solo di una questione di ordine pubblico: c’era chi dormiva ed è stato svegliato, erano rumorosi, esci di casa e ti trovi cento persone in

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strada e devi chiedere permesso per poter passare». A chiamare la polizia è stato anche il comitato Marco Polo di Luigi Corò, che in merito al centro di via Fogazzaro, ha scritto anche un esposto che poi ha portato a una serie di controlli. Corò ha anche richiesto un sopralluogo di Veritas per controllare il contenuto di un sacchetto lasciato all’interno del contenitore dell’umido per accertarsi che non fossero stati eseguiti sacrifici irregolari di animali. Pag 31 Fenomenologia dell’imprenditore diventato sindaco di Enrico Tantucci Stile, linguaggio e manie di Luigi Brugnaro, l’uomo che “non accetta più di una risposta” “Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo”. Così scriveva 45 anni fa Umberto Eco del presentatore televisivo di maggior successo dell’epoca, nel suo saggio “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, analizzando le ragioni del suo consenso popolare. È una frase che calza perfettamente anche al personaggio rappresentato dal nuovo sindaco di Venezia Luigi Brugnaro - che festeggia oggi 55 anni e ha da poco tagliato anche il traguardo del primo anno di mandato amministrativo alla guida del Comune lagunare - e l’analisi del linguaggio e dei comportamenti che il grande semiologo da poco scomparso ha dedicato al Mike nazionale può essere applicata, con le debite differenze, anche a questa figura di imprenditore “ruspante” prestato alla politica, apparso come una meteora sulla scena veneziana, e che molto fa discutere tra sostenitori e detrattori. Brugnaro, uno di noi - Sin dalla sua campagna elettorale, Brugnaro, imprenditore attentissimo al fattore umano (anche per le caratteristiche stesse della sua impresa - Umana, appunto - specializzata nel lavoro interinale, che ha portato a un rapido successo) ha puntato molto sull’identificazione con il “popolo”. Iniziando dall’uso del dialetto, che gli è familiare, ma sempre con grande astuzia. Il suo “ghea podémo fàr”, lo slogan scritto e ripetuto come un mantra in tutte le occasioni, altro non è, infatti, che la traduzione in salsa veneziana del “Yes, we can” su cui il presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha basato la sua prima, fortunata campagna elettorale. E un altro slogan fondativo sulla sua campagna, “un'impresa comune”, alludeva non solo alla necessità di un cambiamento politico e amministrativo per Venezia da ottenere grazie al consenso popolare, ma anche all’ammiccamento all’elettore di centrodestra sull’idea di trasformare il Comune di Venezia in una sorta di azienda dal punto di vista gestionale. Che è esattamente quello che Brugnaro sta facendo a Ca’ Farsetti, con una spaccatura verticale sul tema con i dipendenti e tutte le organizzazioni sindacali. Il consenso popolare - «Il vero cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano». Ecco un’altra delle frasi che Brugnaro ripete spesso e che testimoniano la sua attenzione all’ottenimento e al mantenimento del consenso popolare. In ogni occasione il sindaco infatti giustifica le sue scelte - da quelle più tecniche, come ad esempio la scelta del tracciato Tresse Nuovo come via alternativa al passaggio delle Grandi Navi dal Bacino di San Marco, a quelle più immediate - come diretta conseguenza, quasi un obbligo, dell’investitura popolare ricevuta dai cittadini che lo hanno eletto. “Cittadini” è infatti una delle parole-chiave del suo lessico pubblico, insieme a “sicurezza”, “controllo”, “cambiamento” e “metropolitana”, riferito in particolare a Venezia e alla sua Città istituzionalmente allargata. L’insicurezza diffusa, la paura della diversità - riferita anche al problema dei migranti, che continuamente evoca, sollecitando lo stop agli arrivi - la necessità di non privilegiare Venezia con il suo centro storico rispetto all’intera area metropolitana sono concetti su cui il sindaco insiste in ogni occasione. Da terrafermiero - com’è noto, vive a Mogliano - ma anche da politico consapevole che la sua vera base elettorale è al di là del Ponte della Libertà. Brugnaro ribalta così il tradizionale complesso d’inferiorità del “popolo” della terraferma nei confronti della Dominante e dei suoi privilegi, in nome di un egualitarismo per cui Venezia, Asseggiano o Tarù per lui pari sono dal punto di vista dei diritti del cittadino. Un messaggio alimentato anche da gesti simbolici, come ad esempio quello, che ha voluto subito attuare, di allargare i “foghi” del Redentore anche alle località dell’area mestrina, durante la Festa. La comunicazione senza filtro - Sin dall’inizio il nuovo sindaco ha mostrato una grande diffidenza nei confronti della stampa - iniziando dai limiti imposti all’accesso in Municipio dei giornalisti, “blindato” come mai in precedenza - e di quelle che teme possano essere possibili “manipolazioni” del suo pensiero. Per questo, più che a comunicati stampa - che non ama ugualmente e a cui

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ricorre raramente - per le sue dichiarazioni si affida a una comunicazione diretta. Nelle rare conferenze stampa che convoca, ma soprattutto via Twitter, che il vero strumento di comunicazione scelto da Brugnaro per rivolgersi direttamente, “senza filtro” a tutti i cittadini. I messaggi che veicola sono generalmente molto semplici, diretti, improntati a un ottimismo che vuole essere comunque il suo marchio di fabbrica, fino a quando non gli capita di perdere la pazienza nel contraddittorio e parte con qualcuna delle sue “sparate”. A Brugnaro infatti può attagliarsi perfettamente una delle affermazioni che Umberto Eco riferisce a Mike Bongiorno nella sua “Fenomenologia”: “Non accetta che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle varianti”. I tweet, oltre ad alludere ai “successi” dell’Amministrazione - condivisi anche con gli altri assessori, almeno quelli più stretti, complimentandosi spesso a vicenda on line - veicolano messaggi basici che hanno lo scopo di mantenere sempre “caldo” dal suo punto di vista il rapporto con il cittadino-elettore. Come ad esempio: «Grazie, avanti tutta. Con piccoli passi, ogni giorno, cambiamo la città insieme ai cittadini di buona volontà». Oppure: «Ognuno dovrebbe iniziare a fare i conti con la propria coscienza e capire cosa può fare per il proprio Paese». L’ossessione del controllo - Uomo d’azienda - improntata, però, a una gestione familiare in cui il “padrone”, che si è fatto da sé, controlla tutte le decisioni e tutti i processi produttivi - Brugnaro ha esportato questo modello anche alla guida dell’Amministrazione. Qualsiasi decisione, anche quelle solitamente delegate dai suoi predecessori ai dirigenti, deve dunque passare sotto il suo controllo. Il sindaco si fida veramente solo di se stesso o dei più stretti collaboratori-esecutori - che non a caso ha “trapiantato” direttamente da Umana a Ca’ Farsetti - e i processi decisionali dunque si fermano o attendono prima di essere approvati se non c’è il placet brugnariano. Una prassi che, oggettivamente, sta rallentando il funzionamento della macchina comunale e infatti l’approvazione di delibere è drasticamente scesa rispetto alle Amministrazioni precedenti e gli stessi ordini del giorno dei Consigli comunali - convocati più raramente - si sono fatti più scarni. Il sindaco non ama del resto la ritualità del Consiglio comunale e le sue presenze si sono fatte fugaci e legate soprattutto a problemi o questioni che gli stanno particolarmente a cuore. L’idiosincrasia alla delega si è tradotto anche in un peggioramento progressivo delle relazioni sindacali a Ca’ Farsetti. Al sindaco non piace ascoltare o mediare, preferisce esporre, attendendosi un’adesione acritica alle sue idee, non contrastabili, in quanto conseguenza diretta - nella sua concezione - del mandato popolare che ha ricevuto dai cittadini. Le trattative sindacali sono dunque state affidate a delegazioni tecniche con poteri molto limitati e il rifiuto della controparte di aderire a decisioni sostanzialmente già prese - come la riforma della “macchina” comunale - hanno prodotto il muro contro muro attuale. La strategia del sorriso condizionato - Brugnaro vuole e deve mostrarsi ottimista in ogni circostanza, perché “ghea podémo far”. Per questo nei bagni di folla per manifestazioni o inaugurazioni a cui non si sottrae, nei sopralluoghi con i suoi assessori alle isole o ai quartieri di terraferma per dimostrare che è anche fisicamente vicino ai cittadini-elettori, il sindaco dispensa larghi sorrisi e volontà di fare in ogni circostanza, per trasmettere anche visivamente l’idea che i problemi sono risolvibili, che tutto va bene, che la situazione è destinata a migliorare. Questa strategia della semplicità delle soluzioni, però si scontra, nella realtà, anche con i problemi oggettivi della città, a cominciare da quelli di un bilancio sempre più difficile da chiudere senza i fondi della Legge Speciale e le entrate straordinarie del Casinò. La voce grossa - Questo crea una difficoltà di comunicazione oggettiva per il sindaco del fare e del cambiamento, che non vuole fare la voce troppo grossa nei confronti del Governo per mostrarsi in difficoltà come i suoi predecessori nella gestione della città e agli occhi dei cittadini. Ma che nello stesso tempo deve ottenere gli aiuti di cui ha bisogno. La scelta comunicativa di Brugnaro è stata per adesso quella di dichiarare che si tratta di fondi e contributi “dovuti” alla città - sulla base di dossier sui maggiori costi di una città come Venezia - anche per il contributo che essa dà all'economia nazionale. Una scelta che può funzionare se otterrà dei risultati. Altrimenti, aspettiamoci un Brugnaro 2, dove il sorriso lasci spazio all’ira funesta. I segnali ci sono già tutti, come dimostra lo scontro di pochi giorni fa con il ministro della Giustizia Andrea Orlando - in occasione del dibattito al Festival della Politica a Mestre - di fronte al netto rifiuto del membro del Governo alla possibilità di conferire poteri speciali al sindaco di Venezia per poter arrestare e tenere in cella ubriachi o abusivi, cosa che la Costituzione non consentirebbe. Perché se la narrazione

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ottimistica della soluzione dei problemi si scontra con l’impossibilità di praticarla, nasce, prima o poi, il corto circuito. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Giorno del sacrificio, preghiera al parco Centinaia di musulmani a San Giuliano. Ancora problemi al “centro culturale” di via Fogazzaro Il giorno del sacrificio è la seconda festa più importante dopo il Ramadan. Un momento che raduna centinaia di musulmani e che ha trovato nel parco San Giuliano la sede per il momento di preghiera. Ieri mattina alle 7 erano già circa 300 i musulmani di ogni età seduti sull'erba per recitare il Corano assieme al loro imam. Un raduno scattato presto, per evitare anche lo sciopero dei mezzi pubblici. «È segnale di trasparenza da parte della nostra comunità pregare qui all'aperto - dice uno di loro -. Le feste sono aperte, il nostro non è un Islam che si nasconde». Da parte del presidente della comunità islamica Mohammed Amin Adhab un appello: «Stiamo crescendo sempre più numerosi come comunità ma non abbiamo uno spazio dove poter pregare ed ecco perché veniamo qui in questo grande parco di Mestre - spiega - Vorremmo uno spazio adatto che diventi la nostra moschea». Uno di quei garage o, in questo caso, ex negozi, adattati a centro culturale ma che in realtà è un centro di preghiera si trova in via Fogazzaro. E anche là, ieri mattina, il viavai di musulmani è iniziato all'alba disturbando non poco chi abita sopra l'ex negozio dove oggi si trova la sede del centro culturale trasformato, senza alcun permesso edilizio rilasciato dal Comune, in un centro di preghiera. «Siamo disperati e quanto è successo ieri mattina è assurdo - racconta una delle inquiline del palazzo -. Mi sono svegliata alle 7 per colpa di un vociare all'esterno. E quando mi sono affacciata ho visto decine di musulmani che aspettavano di entrare nel centro di preghiera dove già c'erano ammassate altre persone. Tutto è andato avanti fino alle 11 di mattina e non ha potuto fare nulla nemmeno la polizia». La signora, 51enne, abita in quel palazzo da sempre. «Rispetto la necessità di pregare ma non di violare i nostri diritti di riposare e di vivere serenamente. Spero che il sindaco e le forze dell'ordine intervengano al più presto». CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Cinquecento musulmani alla festa del “sacrificio” di a.d’e. A San Giuliano Mestre. Qualcuno ha preferito farlo nella moschea come ogni venerdì, in molti invece si sono trasferiti a San Giuliano per festeggiare tutti insieme. Le comunità musulmane di Venezia ieri si sono incontrate per «Eid Al Ahda» nel parco. «Era già successo due anni fa – spiega Mohammed Amin Al Ahdab, presidente della comunità islamica di Venezia – ci incontriamo per festeggiare, per noi è una delle due feste più importanti dell’anno». L’Eid al Adha celebra la vicenda narrata sia dal Corano sia dalla Bibbia: Dio chiese ad Abramo di sacrificare suo figlio per mettere alla prova la sua fede, ma poi prima che il sacrificio fosse compiuto mandò un montone da immolare al posto del ragazzo. Al parco ieri erano oltre 500 persone. Lo spostamento della data e lo sciopero dei mezzi ha fatto scendere il numero. Tra loro anche don Capovilla, parroco della Cita: «E’ stato bello unirsi ai fratelli musulmani nella festa», ha detto. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 - 15 “Chiesa fuori dalla politica”. E’ maggioranza a Nordest di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Il 53% contro qualsiasi tipo di ingerenza, per il 23% interventi solo su questioni religiose. Lo storico Giovanni Vian: “Verso una società nuova, tollerante e individualistica”

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L’intervento della Chiesa nel dibattito politico italiano è sempre meno tollerato? Questa sembra essere l’indicazione principale che emerge dai dati elaborati da Demos e pubblicati nell’Osservatorio sul Nordest del Gazzettino. Solo una minoranza ritiene che la Chiesa abbia il diritto di affermare sempre la propria posizione o che possa farlo su questioni che riguardano da vicino la religione (ognuna: 23%). La maggioranza assoluta (53%), infatti, ritiene che la Chiesa non dovrebbe mai cercare di influenzare le decisioni della politica. È soprattutto in tema di diritti civili che si sono consumate e si consumano ancora oggi le battaglie più aspre. L’ultima, in ordine di tempo, riguarda la legge sulle unioni civili, approvata di recente dopo un sostanziale fermo di almeno 20 anni a cui aveva contribuito anche la forte contrarietà manifestata dalle gerarchie cattoliche. Questo tipo di comportamento, però, è apprezzato da una minoranza: il 23% ritiene che la Chiesa debba sempre affermare la propria posizione. Se guardiamo alla serie storica, vediamo che dal 2005 ad oggi la percentuale è oscillata intorno alla soglia del 20%. Questo tipo di opinione tende a crescere tra i praticanti assidui (ma la quota si ferma al 36%) e tra le persone con oltre 55 anni di età (26-27%). Dal punto di vista politico, invece, non rileviamo particolari distinguo. L’idea che la Chiesa possa intervenire, ma solo su temi che riguardano da vicino la religione, viene condivisa da quasi un nordestino su quattro. In questo caso, possiamo osservare come, nel corso del tempo, il sostegno si sia lentamente assottigliato: nel 2005, infatti, era il 28% a mostrare lo stesso orientamento e, se escludiamo il 32% rilevato nel 2009, dall’anno successivo in poi le percentuali sono andate via via diminuendo fino a fermarsi all’attuale 23%. Sono soprattutto i praticanti assidui a condividere l’idea che la Chiesa possa esprimersi solo sui temi che le sono vicini, ma la quota rimane piuttosto contenuta (29%). Dal punto di vista anagrafico, ritroviamo una presenza superiore alla media di under 25 (33%) e di persone tra i 25 e i 34 anni (44%). Politicamente, invece, sono gli elettori di Forza Italia (30%) e dei partiti minori (32%) a mostrare il maggior favore. La maggioranza dell’opinione pubblica del Nordest (53%), dunque, preferisce che la Chiesa non cerchi di influenzare le decisioni della politica, su qualunque argomento questa stia legiferando. Guardando alla serie storica, possiamo osservare che, rispetto al 2005, oggi il consenso è cresciuto del 9%. Considerando la pratica religiosa, vediamo che sono soprattutto i non praticanti (79%) a sostenere la necessità di separare la politica dall’influenza della Chiesa, ma tra quanti frequentano saltuariamente i riti religiosi questo orientamento si mantiene comunque maggioritario (55%) e trova il consenso anche un praticante assiduo su 3. Analizzando il fattore anagrafico, emerge come questa idea sia maggioritaria tra gli over 35, anche se il livello più alto viene raggiunto tra quanti hanno tra i 55 e i 64 anni (62%). Politicamente, infine, rileviamo come siano soprattutto i sostenitori della Lega (58%) ad affermare la necessità che la Chiesa stia fuori dai dibattiti politici, ma questo orientamento riguarda la maggioranza degli elettori di Pd (54%), M5s (55%) e dei partiti minori (56%). «È senza dubbio un racconto che narra sempre più la laicità dello Stato, così come l’espressione sottesa del desiderio del diritto dei soggetti a pensare e ad agire in modo individuale. Ed è una visione che prescinde anche dall’appartenenza politica, perché tra centrodestra e centrosinistra non si colgono differenze significative sull’intervento della Chiesa nelle questioni politiche. La società innanzi a tale tema si fa liquida». E non c’è giudizio positivo o negativo in questa considerazione per Giovanni Vian, docente di Storia delle Chiese Cristiane all'Università di Venezia, semplicemente la constatazione di un’evoluzione del microcosmo cristiano - e anche di quello laico - che conduce a un appiattimento delle posizioni, per un percorso che porta con sé anche i risvolti positivi di una maggiore tolleranza ed accettazione. Una riflessione su una macroproiezione che, nella descrizione più dettagliata delle risposte per fasce d’età, fa emergere invece delle peculiarità generazionali e l’evoluzione della cultura presente e futura. «I risultati più significativi sono evidenti tra cinquantenni e sessantenni. Perché sono quelli che manifestano una maggiore convinzione sul fatto che la Chiesa non dovrebbe mai cercare di influenzare le decisioni della politica e, contemporaneamente, sono anche i più vivaci sostenitori della teoria opposta, sicuri più degli altri che la Chiesa dovrebbe affermare sempre la propria posizione. Un dato interessante poiché parla di una generazione che ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta, quelli connotati dalla passione

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per una politica che era ideologia. Pochi rimanevano, infatti, nel limbo di una "non" convinzione. E lo stesso accade ora da adulti». I giovani, invece, sembrano più aperti e forse anche più liquidi. O impermeabili alle ideologie? «Credo che l’impermeabilità al tema del sondaggio sia piuttosto diffusa. Non tanto, e non solo, per una discriminante generazionale, ma piuttosto per una "non" urgenza della questione. Il Nordest - e l’Italia in generale direi - ha altri problemi da risolvere e non percepisce lo "studio" di questo dialogo come importante o comunque rilevante al momento. E ciò sta anche alla base della assenza di eccessive variazioni nello screening dell’appartenenza politica. Resta il fatto che i giovani, più di adulti ed anziani, forniscono attraverso i dati una visione complessiva maggiormente favorevole al ruolo della Chiesa nella politica. Ciò accade accorpando le risposte dei "sì, ma solo su alcune questioni che riguardano da vicino la religione" è i "sì, è giusto che la Chiesa affermi sempre la propria posizione". Una rilevazione in cui si fa nitida, dunque, l’immagine di una nuova società che sta crescendo e maturando sull’onda di una prospettiva molto individualistica, in cui tutti hanno diritto di esprimere la propria opinione, in cui nessuno può negare alcunché ad altri». Apertura significa tolleranza, intelligenza. O "non" appartenenza, globalizzazione nel senso di assenza di identità? «C’è davvero tutto. In tal senso parlo di società liquida e, contemporaneamente, impermeabile, perché nulla penetra in questo calderone. Sono convinto, ripeto, che l’indecisione sull’argomento del sondaggio giunga dal pensiero di altre emergenze, da problemi più importanti che incombono sul presente. Diciamo pure, poi, che la voce della Chiesa, al di là degli inviti alla riflessione del nostro Pontefice, tende ad affievolirsi nella contemporaneità politica. Lo testimoniano bene i sondaggi, insieme all’immagine sempre più offuscata dei potenti campanili del Nordest: quelli che un tempo erano ritmo e fulcro della quotidianità del popolo e oggi, pare, siano molto più distanti». Pochi probabilmente ricordano l’ultimo intervento dei vescovi delle 15 diocesi del Triveneto quando l’Austria aveva fatto prospettare la decisione di chiudere la frontiera al Brennero (fatto non avvenuto). Allora l’intervento delle gerarchie fu piuttosto “impegnato” e per molti si trattò anche di una vera e propria posizione politica. Ecco una sintesi della posizione della Conferenza episcopale Triveneta, presieduta dal patriarca di Venezia Francesco Moraglia che «condividendo le preoccupazioni per le chiusure d’accesso prospettate da parte di alcune nazioni europee» e in particolare della confinante Austria, ammoniva che «l’Europa ha bisogno di soluzioni comunitarie e non di nuove barriere». I vescovi hanno così fatta propria la posizione di Ivo Muser, vescovo di Bolzano-Bressanone, chiedendo alla politica di offrire «strutture sostenibili e lungimiranti modelli d’integrazione» per chi scappa dalle guerre e dalla fame, anziché alzare muri o limitarsi a ringhiare con lanciare slogan populistici. Con monsignor Muser, i vescovi hanno sostenuto che l’Europa può affrontare questa sfida, senza chiudersi in sé. Pag 21 L’esclusione della Chiesa nel dibattito politico effetto della secolarizzazione di Enzo Pace Papa Francesco è un papa straniero che parla in italiano. Non è il primo; ce ne sono stati altri prima di lui: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Tre non italiani che hanno interrotto la sequenza di papi nostrani che si sono succeduti dall’inizio del Novecento sino al 1978, quando è salito al soglio pontificio il polacco Karol Wojtyla. Ci sono stati, in passato, altri papi foresti. Su 266 papi, da San Pietro in poi, ben 217 sono stati gli italiani (moltissimi romani di Roma o della provincia romana). Se raccorciamo lo sguardo e lo fissiamo sulla nostra storia nazionale più recente, possiamo chiederci se i papi stranieri abbiano avuto effettivamente un qualche impatto sul ruolo che la Chiesa cattolica ha giocato in Italia sia dal punto di vista strettamente religioso sia per i rapporti che essa ha in passato intrattenuto con il potere politico, sin tanto che al centro del sistema dei partiti c’è stata la Democrazia cristiana. Un partito di cattolici (ma non solo) più che un partito cattolico. Dal dissolvimento della DC, le persone di fede o cultura cattolica sono andate in ordine sparso. L’idea che le ragioni della fede religiosa non dovessero necessariamente orientare le scelte in politica si è affermata sempre più nella popolazione italiana.

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Credenti e praticanti, credenti senza chiesa, laici simpatizzanti per la chiesa, cattolici alla ricerca di altri lidi spirituali, atei devoti: insomma, una pluralità di atteggiamenti e comportamenti non immaginabili nell’Italia (e nel Nordest, ancor più) dei primi venti anni del secondo dopoguerra. Il sentimento di appartenenza alla Chiesa cattolica si esprime a elevata modulazione di frequenza. Si crede ma in modi diversi e autonomi. Perciò per molti appare ormai scontato che un intervento della Chiesa cattolica (italiana o locale) nel dibattito politico per dire come la pensa su una legge o un determinato tema politico non è più accettabile; o al massimo, solo quando si tratti di temi etici che toccano i principi fondamentali del credo religioso. La tendenza è che la quota di persone che la pensano così cresce, mentre scende quella di quanti vorrebbero che la Chiesa esprimesse sempre il proprio autorevole parere in campo politico. Tutto ciò è in fondo un effetto della secolarizzazione. Un papa che sia italiano o straniero non è in grado di contrastarla, anche quando la sua figura, le sue parole e i suoi gesti scaldano il cuore o risvegliano sentimenti di prossimità al messaggio cristiano. Papa Francesco, l’ultimo straniero in ordine di tempo, anche se probabilmente non sarà l’ultimo, interpreta efficacemente i segni dei tempi: in società a bassa intensità religiosa come sono diventate le nostre, affidarsi solo alla forza della dottrina rischia di allontanare altra gente dalla chiesa; è meglio fidarsi della forza originaria della parola evangelica. Non c'è, allora, una fuga dalla politica, nel senso alto del termine. C’è invece una parola che ridà un po’ di fiato e d’ideali a un esangue desiderio di politica. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La nuova identità dei moderati di Luciano Fontana Cosa serve al centrodestra Ricostruire un’identità politica, trovare un nuovo leader. È l’impresa, difficile, molto difficile, che ciò che rimane del centrodestra deve affrontare nell’autunno politico in arrivo. Con l’urgenza dettata anche dalla possibilità che, dopo il referendum costituzionale, si apra in tempi brevi la stagione delle elezioni. Inutile guardare al passato, al mitico ’94, l’anno della discesa in campo di Berlusconi. Quel mondo, politico, sociale ed economico non c’è più. La competizione tra il polo progressista e quello conservatore è stata sostituita da un tripolarismo in cui la sinistra non si sa bene se esista ancora, il centrodestra sì è frantumato in tanti pezzi, la protesta e l’insofferenza degli elettori hanno preso la strada di un movimento ancora indefinito, e molto fragile nelle prove di governo delle città, come i Cinque Stelle. Il tema dell’identità, dopo più di venti anni, si pone in un modo radicalmente diverso. Allora c’era un collante evidente: fermare l’avanzata dei postcomunisti al governo dopo la caduta della Prima Repubblica democristiana. Un obiettivo semplice che metteva insieme forze ed esperienze (dal partito impresa berlusconiano ai leghisti ai missini) senza tanti turbamenti. Il progetto di governo sarebbe venuto dopo. Il risultato fu raggiunto, il profilo liberale dell’esecutivo (meno tasse, meno Stato, più crescita) stentò invece a raggiungere anche risultati minimi. Un’identità contro qualcuno ora non è più possibile. Tanto più che le vicende politiche e giudiziarie di Silvio Berlusconi hanno lasciato al centrodestra un partito molto più debole, incalzato elettoralmente dalla Lega, e un leader sempre più distaccato, per ragioni personali e di età, dalla competizione. La scelta del candidato sindaco di Milano, Stefano Parisi, come possibile ricostruttore dei conservatori italiani è il frutto di queste difficoltà. Non sappiamo ancora se il suo destino sarà identico a quello dei tanti delfini investiti e bruciati in questi anni. C’è però una consapevolezza: l’unica possibilità resta la definizione di una nuova area liberale e moderata che sappia sottrarre la destra italiana alle pulsioni populiste. Critica con l’Europa ma attenta a non scivolare in un isolazionismo pericoloso. Il centrodestra non potrà mai rinascere, come pensa qualche colonnello di Forza Italia, come la somma aritmetica di partiti e partitini antitetici, una somma che non fa una politica e un progetto. Solo una scelta chiara e un leader sostenuto con generosità potranno parlare a un elettorato che si è rifugiato in altri lidi o ha rinunciato alla partecipazione politica. L’Italia ha bisogno di spirito d’impresa anche in

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politica, e questo Stefano Parisi è in grado di assicurarlo, ma soprattutto di un gruppo dirigente in sintonia con il diffuso disagio economico e sociale. Che sappiano parlare (con idee, programmi, parole d’ordine) in modo semplice agli elettori. Che non si limitino a solleticare la rabbia ma indichino strade ragionevoli di uscita dalla crisi. Altrimenti è il solito gioco del cambio del nome al partito e del leader buttato in pasto all’opinione pubblica e trascinato rapidamente nell’oblio. Un gioco praticato troppe volte e destinato a bruciare le ultime speranze degli elettori conservatori senza rappresentanza. Pag 1 La segretezza più grave della polmonite di Massimo Gaggi «Gli antibiotici curano la polmonite. Ma non so quale possa essere la cura per l’ossessione della segretezza che affligge Hillary Clinton creandole problemi che si sarebbe potuta risparmiare». Difficile essere più nitidi e concisi di David Axelrod, lo stratega elettorale di Obama. David Axelrod analizza il macigno che è caduto sulla campagna del candidato democratico alla Casa Bianca. C’è la notizia della nuova malattia, certo, che rafforza i timori sulla fragilità della salute della ex first lady. La polmonite dopo i problemi alla vista, la trombosi e la commozione cerebrale di quattro anni fa, i «non ricordo» durante le testimonianze davanti al Congresso. La patologia polmonare potrebbe essere, in sé, un problema minore: può essere risolta con pochi giorni di cure, anche se lei deve averla trascurata a lungo, visti gli attacchi di tosse che la perseguitano da giorni, e anche se gli anziani recuperano più lentamente. E lei dovrà affrontare tra meno di due settimane il dibattito più importante di tutta la campagna elettorale col suo avversario, Donald Trump. Il quale, dopo averla spesso insolentita ironizzando proprio sulle sue precarie condizioni di salute, ha improvvisamente assunto, su questo, un atteggiamento più composto (le ha anche augurato una pronta guarigione), consapevole che insistere ora sarebbe, per lui, controproducente: sono più che sufficienti, per mettere in cattiva luce la Clinton, il goffo tentativo della sua campagna di nascondere la realtà, l’irritazione del pool di giornalisti che segue la candidata per essere stato lasciato all’oscuro (se non addirittura depistato) e, infine, la tardiva ammissione che Hillary è affetta da una polmonite. La campagna più sorprendente (e per certi versi inquietante) della recente storia americana diventa ancora più incerta con questo sviluppo che certamente indebolisce la candidatura della Clinton, ancora in testa nella maggior parte dei sondaggi ma con un margine di vantaggio su Trump che si assottiglia sempre più. In campo democratico nessuno ipotizza apertamente l’emergere di una candidatura alternativa anche perché la Clinton non ha certamente alcuna intenzione di tirarsi indietro, come dimostra il fatto che per tre giorni ha continuato a fare campagna anche con la polmonite. Ma nel partito è sicuramente iniziata una riflessione informale sul da farsi qualora la situazione dovesse precipitare. Per i problemi di salute della Clinton o anche per quella «October surprise» che molti continuano a temere, tra rivelazioni di Wikileaks e inchiesta dell’Fbi sulle email «segrete» che è ancora aperta, con le ultime migliaia di messaggi, scoperti solo di recente, setacciati proprio in queste settimane. I democratici la difendono a spada tratta, sostenendo che, ferma restando l’importanza della trasparenza, il primo candidato donna della storia viene sottoposto a un esame molto più severo di Trump che fin qui sul suo stato di salute ha rivelato ancora meno della Clinton, nonostante sia più vecchio di lei: una brevissima ed enfatica lettera di un gastroenterologo per assicurare che il miliardario sta benissimo. E, visto che di trasparenza si parla, l’occasione torna buona per ricordare che Trump continua a rifiutarsi di mostrare anche le sue dichiarazioni dei redditi. Insomma: sembra avere da nascondere più lui della Clinton. Ma «The Donald» non si è fatto cogliere in contropiede: ha subito detto che si è appena sottoposto a controlli medici accurati: appena riceverà i risultati dei test, li renderà noti. Continua, invece, il silenzio sulle tasse. Ad essere chiuso in un angolo, però, oggi non è Trump, che ha recuperato dopo i passi falsi di luglio, ma il suo avversario democratico. Coi continui tentativi di nascondere i fatti - dai pasticci fatti con le email e coi finanziamenti della Fondazione Clinton fino a una banale malattia - la Clinton alimenta quell’irritazione dell’opinione pubblica nei confronti dei politici tradizionali considerati cinici e bugiardi, che sta cambiando in profondità l’umore degli elettori anche in America.

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Pag 3 Ian Bremmer: “Non le perdoneranno di aver mentito. Adesso è più debole” di Giuseppe Sarcina New York. Hillary ha sbagliato. Nella politica americana «nessuna bugia è giustificabile». Ma alla fine la candidata dei democratici «può ancora vincere le elezioni». La previsione è di Ian Bremmer, 46 anni, politologo di Baltimora, fondatore e presidente del centro studi Eurasia group, quartier generale a New York, uffici a Washington, Londra, San Francisco, Tokio, San Paolo e Stamford, in Connecticut. Hillary Clinton ha nascosto all’opinione pubblica americana le sue condizioni di salute. Come reagiranno gli elettori? «È chiaro che questa vicenda avrà un impatto sugli umori degli americani. Stiamo già vivendo una campagna segnata da una grande e incredibile impopolarità dei due candidati. Questo sentimento aumenterà ed è probabile che molti cittadini cominceranno a guardare se ci sono alternative. Non mi sorprenderebbe, per esempio, se l’indipendente Gary Johnson crescesse nei sondaggi fino a superare la soglia del 15% (oggi è intorno all’8-9%, ndr) e quindi, a partire dal secondo dibattito televisivo, ce lo trovassimo di fianco a Hillary Clinton e Donald Trump». Ma il partito democratico considererà l’idea di sostituire Hillary? «No, non credo proprio. Non riesco a immaginare un “piano B” in questo senso. Mancano solo due mesi alle elezioni. Non c’è tempo...». Eppure sui siti e sui media americani circolano le ipotesi più diverse. Il ripescaggio del vicepresidente Joe Biden o del segretario di Stato John Kerry... «Ma no, no. Non mi sembrano ipotesi da prendere sul serio. Caso mai l’estremo ripiego sarebbe il vicepresidente designato, Tim Kaine. È stato scelto dalla Convention di Filadelfia, è una figura gradita a tutti. Ma, ripeto, stiamo parlando di uno scenario che non ritengo credibile. Hillary Clinton è e resterà la candidata dei democratici. Si prenderà il tempo per recuperare e tornare in corsa». Quindi i vertici del partito democratico non faranno nulla? «Sono sicuro che chiederanno a Hillary di fare la massima chiarezza sulle sue condizioni di salute. A questo punto vorranno andare fino in fondo. Vorranno ricostruire il quadro completo, partendo dall’episodio del 2012, quando l’allora segretario di Stato, dopo una caduta, riportò un danno cerebrale, con la formazione di un grumo di sangue. E, naturalmente, vorranno sapere quanto è seria questa polmonite, quali limitazioni imporrà alla sua campagna elettorale e così via». D’accordo, ma resta da affrontare il problema politico centrale. Di nuovo: Hillary ha mentito agli americani... «È una cosa grave e non è giustificabile. Io ho l’impressione che sia stata una decisione dello staff quella di nascondere la verità. Dubito, quindi, che ora qualcuno nel partito democratico sollevi il caso. Anche perché la candidata si è assunta la responsabilità di ciò che è accaduto, come è naturale e logico che sia. D’altra parte è lei che ha scelto di uscire dalla casa di Chelsea dicendo “sto bene, oggi è una bella giornata a New York”». Come si spiega un comportamento così ingenuo? Eppure Hillary Clinton ha sperimentato in prima persona quanto sia dannoso per un politico barare. Suo marito Bill stava per rimetterci la presidenza... «Vero. Riesco a dare solo una spiegazione psicologica. Hillary sente di essere in qualche modo assediata dai nemici. Cerca di proteggersi, di non offrire punti deboli. Percepisce, e su questo sono d’accordo, che in generale l’opinione pubblica reagisce in modo diverso. Trump dice un sacco di bugie su quasi tutti i temi: ma dice le cose che molte persone vogliono sentirsi dire e dunque non succede niente. A Clinton, invece, viene contestata ogni virgola». Questo caso sembra più grave, però, anche della vicenda delle mail. Cosa ne pensa? «Sì, agli occhi del grande pubblico è più grave. Il caso delle mail è più controverso: si discute sul grado di riservatezza di certi documenti. Non è semplice orientarsi. Qui è facile: sai da giorni che sei malata seriamente e non ce lo dici. Perché?». Come giudica la reazione di Donald Trump? Ieri è stata all’insegna del fair play. Ha augurato all’avversaria «di rimettersi al più presto»... «Certo. Donald Trump pensa di poter vincere le presidenziali cavalcando le incognite che arrivano dall’esterno del Paese. Il senso di insicurezza, qualche cyber-attack e così via. Dopodiché, naturalmente, sa bene che tutti gli elettori hanno visto quel video girato l’11

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settembre, hanno visto Hillary Clinton non reggersi in piedi. E quelle immagini continueranno a rimbalzare sulla Rete e in tv fino alle elezioni. Trump non ha bisogno di spingerle ulteriormente». A questo punto quante possibilità ha Hillary Clinton di vincere l’8 novembre? «Prima di questo episodio pensavo che avesse l’80% di probabilità di vincere. Adesso direi 70%». Sempre molto... «Sì, ma sia chiaro: è una valutazione strettamente personale, non il risultato di un’indagine scientifica». Pag 5 Da Jfk a Reagan. Il fattore salute di Ennio Caretto Nel 1980 l’America è in piena campagna elettorale. Deve scegliere tra il presidente uscente, il democratico Jimmy Carter, e l’eterno candidato repubblicano alla presidenza (è al suo terzo tentativo), l’ex attore ed ex governatore della California Ronald Reagan. Reagan è il candidato più anziano della storia, compirà 70 anni pochi giorni dopo l’ingresso alla Casa Bianca. È un uomo vigoroso, un cowboy che nel suo ranch spacca legna e va a cavallo tutti i giorni, ma sulla sua età è polemica, quattro anni di presidenza, non diciamo otto, sono debilitanti per chiunque. Onde rassicurare gli elettori Reagan assume pertanto una iniziativa senza precedenti: rende pubblica la propria cartella clinica e s’impegna a dimettersi in caso di grave malattia. Come è umano non lo farà, anche se nel secondo mandato denuncerà i primi sintomi del male che più tardi lo ucciderà, l’Alzheimer. L’America lo applaude, non ha dimenticato il trauma di otto anni prima, in cui il candidato democratico alla vicepresidenza, il senatore Thomas Eagleton, è stato costretto a ritirarsi per avere nascosto di soffrire di disturbi mentali. L’iniziativa di Reagan cambierà la politica americana, introdurrà nelle elezioni il «fattore salute» (psichica e fisica) dei candidati. Da quel giorno, l’America esigerà un presidente o una presidentessa sani e forti, e chiederà di conoscerne la cartella clinica. Per questo, l’odierno panorama elettorale rischia di essere sconvolto dai dubbi emersi sulla salute sia di Hillary Clinton sia di Donald Trump, che se venisse eletto entrerebbe alla Casa Bianca a un’età di qualche mese più avanzata di quella di Reagan. Panico e depressione - Ma prima di quel 1980, cosa sapeva l’America della salute dei candidati alla presidenza? Praticamente nulla. Si apprendeva solo a posteriori dei malanni di questo o quell’inquilino della Casa Bianca, e mai di tutti. Dai padri fondatori ad Abraham Lincoln, che pativa di attacchi di panico e profonde depressioni, l’argomento salute era tabù. È appena dall’inizio dello scorso secolo che in America gli storici ne trattano apertamente, con una conclusione sorprendente: che nella maggior parte dei casi le malattie non resero pessimi i presidenti, ma li temprarono per il lavoro più faticoso al mondo. Le due valigette - L’icona dei democratici, John Kennedy, e quella dei repubblicani, Reagan, viaggiavano sempre con la valigetta dei medicinali oltre che con il «football», la valigetta con la chiavetta atomica. Il giovane John Kennedy, l’artefice delle nuove frontiere e della conquista della luna, fu forse il presidente più afflitto da malattie di ogni tipo che si ricordi, ricoverato in ospedale trentasei volte, tre delle quali in pericolo di vita. Si racconta che nella vittoriosa campagna elettorale del 1960 temette non che il suo cattolicesimo, eresia in un’America ultra protestante, bensì i suoi trascorsi medici gli costassero la presidenza. Un giorno che perse di vista la valigetta dei medicinali scatenò i suoi uomini alla sua caccia: «Se i nostri avversari ci mettono sopra le mani sarò politicamente assassinato». Le malattie, gli antispasmodici, i tranquillanti e gli altri farmaci non impedirono tuttavia a Kennedy di promuovere riforme quali i diritti civili, o di dialogare con l’Urss, tanto meno di soddisfare i suoi appetiti sessuali, anch’essi tenuti accuratamente nascosti. Il segreto e i medici - Non è casuale che il più grande presidente americano del Novecento fu Franklin Roosevelt, il vincitore della Grande Depressione degli anni Trenta e della Seconda guerra mondiale, immobilizzato sulla sedia a rotelle dalla poliomielite. Il suo male diventò di pubblico dominio nel 1924, quando si presentò al Congresso del partito democratico in stampelle, ma non ne ostacolò l’ascesa. L’America era disastrata, i suoi valori non erano quelli materiali. Roosevelt fu eletto quattro volte, l’ultima nel 1944: i medici sapevano che era ormai prossimo alla morte, ma lo ritenevano

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indispensabile. I loro predecessori alla Casa Bianca si erano comportati allo stesso modo con Woodrow Wilson nel 1919: un altro democratico, era rimasto incapacitato da un infarto, ma mantennero il segreto. Jonathan Davidson, storico della Duke University, ha esaminato le cartelle cliniche di tutti i presidenti americani fino a Carter e ha scoperto che una decina di essi furono di salute assai malferma: la depressione è stato il male più diffuso e ne soffrirono in particolare Wilson e il suo successore, il repubblicano Calvin Coolidge. Un altro storico, il compianto Arthur Schlesinger Jr, non nascose di giudicare instabile Lyndon Johnson, il successore di Kennedy, e attribuì alla sua instabilità l’escalation della guerra del Vietnam. Raramente nella storia americana è trapelato che un presidente fosse in precarie condizioni di salute, ma quando è accaduto non ha impedito che fosse rieletto. L’elezione di Clinton o Trump dipenderà in parte da come gestiranno il «fattore salute». Hanno un esempio da seguire, quello del senatore repubblicano John McCain, l’avversario di Obama nel 2008. Eroe del conflitto vietnamita, fu prigioniero per cinque anni e sottoposto a torture fisiche e mentali. Nel 2008 l’America si chiese se fosse idoneo al comando e McCain dimostrò di sì con il suo equilibrio e con la sua franchezza di politico e soldato. Fu sconfitto perché dopo Bush Jr l’America volle un drastico cambiamento, di cui divenne il simbolo il suo primo presidente nero. AVVENIRE Pag 2 La variabile Haftar e la missione italiana di Giorgio Ferrari Il complicato e rischioso mosaico della Libia La chiamano 'Mezzaluna petrolifera', a indicare il tratto di costa tra Sirte e Bengasi che va da Agedabia passando per al Sidra e Ras Lanuf fino al porto di al Zuwetina, ma il garbato eufemismo non basta a nascondere una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il fatto cioè che alla vigilia della missione militare italiana a Misurata il governo libico di unità nazionale sostenuto dall’Onu che fa capo a Faez al-Sarraj si è visto sfilare dalle forze armate che obbediscono al generale Khalifa Belqasim Haftar i terminal petroliferi della costa cirenaica. La conquista dei quali ha un valore simbolico, oltre che strategico: per quanto l’operazione non abbia sostanzialmente comportato vittime, l’attacco alle installazioni petrolifere è di fatto il primo vero atto di guerra fra la Cirenaica che si riconosce nel Parlamento di Tobruk e il governo di Sarraj. Formalmente Haftar – ex stella di prima grandezza del regime di Gheddafi, quindi esule negli Stati Uniti, poi di nuovo in Libia e oggi uomo forte di Tobruk che gode dell’appoggio dell’Egitto e di alcune monarchie del Golfo – assicura che i terminal petroliferi verranno restituiti alla National Oil Company, la compagnia di bandiera libica, in modo che possa riprendere l’export di greggio (l’unica vera e vitale risorsa economia della Libia) «senza alcun intervento sulle esportazioni o la conclusione di accordi commerciali da parte dell’esercito, che si occuperà solamente della protezione dei porti». A tutti gli effetti, un vero passaggio di proprietà: fino a due giorni fa i terminal erano controllati da una milizia che aveva stretto accordi con il governo di Tripoli. Ora è Haftar il nuovo Landlord di quella ghiotta fetta di profitti: attualmente la Libia si limita a una produzione di 200mila barili al giorno, ma a pieno regime il ricco sottosuolo libico può garantire almeno un milione e 600mila barili. Oro nero, nel vero senso della parola. Pochi chilometri più a ovest si consuma tuttora senza veri vincitori e vinti la battaglia per la riconquista di Sirte, città-chiave per frantumare l’espansione territoriale del Daesh. Ed è verosimilmente approfittando della concentrazione di milizie e reparti militari fedeli a Tripoli che Haftar ha potuto attuare il suo colpo di mano impadronendosi dei terminali petroliferi. Impossibilitato a contrastarlo sul piano militare e intenzionato a evitare una guerra civile vera e propria, ora Sarraj gli tende la mano: faccia pure il gendarme dei pozzi, dice, a condizione che agisca sotto l’ombrello del governo di unità nazionale. Ma anche questa, visti gli appetiti che un Paese profondamente diviso qual è la Libia del dopo-Gheddafi e gli impetuosi venti di secessione che la attraversano ha tutta l’aria di una mesta utopia. In questo quadro di incertezze, di violenza e di destabilizzazione, dove la forza delle baionette più che lo spirito di riconciliazione sembra guidare gli appetiti delle tante fazioni in lotta, sta per partire la missione italiana a Misurata. Oggi i ministri Gentiloni e Pinotti riferiranno in Parlamento lo spirito e le modalità di quella che si configura come una operazione di peacekeeping (edificazione di un ospedale a Misurata con il concorso operativo dello staff militare del Policlinico Militare del Celio e il supporto di 200 soldati

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del 186mo reggimento Folgore), ma in buona sostanza non è che un significativo raddoppio di quell’operazione (ma dovremmo forse chiamarla 'boots on the ground') in cui sono già ingaggiati i reparti delle forze speciali del Reggimento Col Moschin, da tempo schierati a sostegno delle forze libiche in lotta contro i jihadisti del Califfato. Con una complicazione che fino a ieri non c’era: oltre al Daesh che ancora resiste a Sirte, alle bande di scafisti che pullulano lungo la costa libica, a una regione – la Tripolitania – in cui il governo riconosciuto è confinato da marzo nella base navale di Abu Sittah (insediarsi a Tripoli è giudicato troppo pericoloso) si aggiunge oggi, definitivamente, la 'variabile Haftar'. Ovvero, una miccia già accesa che può far deflagrare la guerra civile. E davvero non sappiamo immaginare chi riuscirà a spegnerla in tempo. Pag 3 Nel ritorno delle pentole l’Argentina che cerca libertà di Lucia Capuzzi e Stefania Falasca Nella morsa dell’inverno australe che ha trasformato Buenos Aires in una gelida capitale del Nord, il simbolo della protesta è un enorme pentola di rame fumante. A piazza Congreso, i manifestanti pescano da qui le porzioni di zuppa che distribuiscono a disoccupati e senza fissa dimora, incuranti del vento pungente che spira da Puerto Madero. Sono ritornate le 'pentole popolari'. Le ollas, come le chiamano qui, non si vedevano a Buenos Aires da una quindicina d’anni, dall’immediata post crisi del 2001, quando le mense comunitarie erano divenute l’emblema della durezza della recensione, ma anche dell’inossidabile creatività della gente, capace di inventarsi dal niente strategie per tirare avanti. A dispetto del neoliberlismo feroce degli anni Novanta – radice della bolla dal cui scoppio era derivato il tracollo del 2001 –, le ricette popolari di sopravvivenza riscoprivano e rilanciavano la solidarietà. P er questo, nelle ultime settimane, movimenti sociali e sindacati sono ricorsi alle 'ollas' per protestare contro il governo del presidente Mauricio Macri, additato di attuare una politica eccessivamente liberale, il cui peso ricade sulla classe media e i gruppi sociali più disagiati. Per far sentire la sua voce, la piccola borghesia è, invece, ricorsa a uno strumento già più volte impiegato nei cortei dell’era Kirchner: i cacerolazos, i coperchi sbattuti rumorosamente per strada. Un fenomeno comune soprattutto negli ultimi due esecutivi di Cristina Fernández Kirchner (2007-2015), peronista e nemica giurata di Macri, eppure incolpata come quest’ultimo di impoverire la classe media. La stallo dell’economia argentina è in atto ormai già da tempo, in seguito al crollo del prezzo internazionale delle materie prime, in primis la soia. I recenti tagli di Macri ai sussidi, in particolare su trasporti e energia, hanno trasformato quello in corso 'nell’inverno dello scontento' argentino. Da quando il governo ha presentato, quattro mesi fa, il nuovo piano tariffario, le bollette del gas sono aumentante del mille per cento. Tanto che, il 19 agosto scorso, la Corte Suprema è dovuta intervenire, bloccando gli incrementi. Lo stop dei sussidi – definiti 'insostenibili' dall’esecutivo – ha prodotto rincari considerevoli anche sui costi di autobus e treni. Le cifre della povertà parlano da sole. Un terzo degli argentini non arriva alla fine del mese, secondo l’ultimo rapporto dell’Università cattolica argentina (Uca). L’Osservatorio del debito sociale – prestigioso centro di ricerca sociale della Uca – rivela che la povertà è cresciuta di quattro punti nel primo trimestre dell’anno, cioè quello dell’insediamento del governo Macri. Ci sono 1,4 milioni di indigenti in più – per un totale di 13 milioni –: di questi 350mila sono in condizioni di miseria estrema. Solo nella città autonoma di Buenos Aires, 300mila persone vivono nelle baraccopoli chiamate villas miserias: queste sono cresciute nel tempo in modo esponenziale e assediano la Capital. L’ulteriore incremento dell’inflazione, già superiore al 20 per cento negli ultimi anni, non fa prevedere facili risalite. Uno dei cavalli di battaglia del macrismo era stato proprio il contenimento dei prezzi. Le stime di giugno hanno, però, registrato un aumento di circa il 3 per cento. Cifra che rischia di far lievitare la media annuale a quota 25 o 28 per cento. A questo si somma l’aumento della disoccupazione che, per ammissione dello stesso esecutivo, ha raggiunto quota 9,3 per cento. Un record rispetto alle cifre degli ultimi anni. Quasi 1,2 milioni di persone sono senza lavoro. «L a democrazia argentina dura da 33 anni. Un traguardo importante dopo la raffica di colpi di Stato novecenteschi. C’è, però, ancora molta strada da fare per dare alla parola democrazia un significato pieno, con l’inclusione di tutti», afferma Andrés Rossetti, giurista dell’Universidad nacional di Córdoba. Alla recessione si è sommata una nuova bufera politica, con la

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recentissima indagine per corruzione nei confronti del clan Kirchner – ex 'presidenta' inclusa – e alti vertici del suo governo. L’inchiesta sull’ex ministro delle Opere pubbliche, José López, incolpato di sottrazione di fondi – quasi 9 milioni di dollari –, ha finito per coinvolgere perfino alcune consacrate di General Rodríguez, municipio-satellite di Buenos Aires. Scandali e crisi hanno esacerbato la già elevata polarizzazione del Paese tra kirchneristi e macristi. Questo clima ha 'avvelenato' perfino il Bicentenario dell’indipendenza, celebrato lo scorso 9 luglio. «Nel 1816, ci siamo emancipati da una potenza straniera. Il Paese, però, sembra ancora intrappolato nel XIX secolo», spiega ad Avvenire Santiago Kovadloff, noto intellettuale argentino. Molti dei drammi dell’Argentina attuale, secondo Kovadloff, sono frutto dei cosiddetti 'debiti insoluti' dell’indipendenza. «Siamo un Paese originale: ci siamo emancipati dalla Spagna e, simultaneamente, dichiarati guerra l’un l’altro. I diversi gruppi, settori, difficilmente riescono ad anteporre le esigenze nazionali alle proprie. E questo rende le istituzioni repubblicane deboli. I governanti, invece di agire per il bene comune e essere sottomessi alle legge, cercano di manipolare queste ultime per i loro interessi». Interessi che non hanno esitato a strumentalizzare anche papa Francesco, in una violenta campagna di diffamazione che ha trovato silenti anche settori della Chiesa. «Attraverso i media si è cercato di screditare l’opera del Papa – spiega Juan Grabois, storico dirigente dei movimenti popolari, di recente nominato consultore nel Pontificio consiglio di Giustizia e pace – perché le sue parole sono un attacco agli interessi politici ed economici che riflettono le linee del capitalismo liberista. E in questa fase in Argentina, come nel resto dell’America Latina, sono aggravate a causa di ciò che Francesco chiama 'paradigma tecnocratico'. Un paradigma che comporta l’alleanza tra i settori più concentrati della finanza e delle nuove tecnologie, determinando un vero e proprio impero del denaro. Questo oggi domina qui come altrove, con molta poca opposizione». «Nella lotta alla povertà, alla diseguaglianza, al narcotraffico, alla corruzione, al degrado ambientale ci vuole un accordo condiviso fra le forze politiche e sociali», dice ad Avvenire monsignor Jorge Lozano, vescovo di Gualeguaychú e responsabile della Pastorale sociale argentina. Già nel 2005, l’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio aveva messo il dito nella piaga provocata del culto al Dio denaro e chiesto l’elaborazione di progetti per il bene comune. Ora lo ha ripetuto di recente in un messaggio inviato alla Conferenza episcopale argentina alla vigilia del Bicentenario. Una 'Patria libera' e non più 'in vendita' al miglior offerente è il sogno di Francesco. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 La vera incoerenza dei 5 Stelle di Umberto Curi Grillini alla prova Se è vero quanto scriveva Giuseppe Prezzolini – «la coerenza è la virtù degli imbecilli» – tutto si potrà dire degli esponenti del Movimento 5 stelle, salvo che siano imbecilli. Si badi bene: non già perché, come da più parti si è voluto sottolineare, essi abbiano fornito abbondanti prove di incoerenza, derogando ripetutamente, e in forme talora macroscopiche, dai postulati sbandierati come presupposti della loro stessa identità politica. Ma per un ordine di considerazioni per lo più del tutto trascurato. La questione di fondo, infatti, non riguarda affatto la presunta incoerenza fra la rivendicazione di rettitudine, trasparenza, collegialità, e una condotta politica concreta lontana dal rispetto di queste condizioni. Lo abbiamo visto anche in Veneto sul caso del «tfr» e i due consiglieri regionali contestati dalla base del Movimento. Solo gli sprovveduti potevano pensare che lo slogan ritmicamente intonato al funerale di Roberto Casaleggio, quando i militanti pentastellati guidati da Di Battista invocavano «onestà», potesse davvero funzionare come principio di individuazione del Movimento, una volta che esso fosse chiamato alla prova del governo. Da un lato, infatti, quella parola d’ordine, onestà, è palesemente insufficiente per caratterizzare un soggetto politico, e differenziarlo rispetto agli altri. Dall’altro lato, è da ingenui pensare che, dovendo mettere le mani nel funzionamento di una macchina amministrativa complessa, coinvolta in realtà spesso ai limiti della legalità, i nuovi inquilini del Campidoglio potessero restare del tutto immuni dal restarne in qualche modo contaminati. Quello che colpisce e preoccupa non è questo tipo di incoerenza, che potrebbe perfino essere citato a prova del loro non essere «imbecilli», quanto piuttosto una sfasatura ben più rilevante e più compromettente. Per

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dirla in estrema sintesi. È nota la polemica violentissima dei grillini contro la riforma costituzionale che sarà oggetto di referendum. Si può anzi notare che i toni più esagitati coincidono con la linea assunta dal Movimento. Al centro delle critiche dei pentastellati vi è un assunto: il nuovo assetto costituzionale rischia di trasformare l’Italia in un paese autoritario, nel quale gli spazi di dibattito democratico e parlamentare sono drammaticamente ristretti. In altre parole, sia pure sottobanco, la riforma Boschi modificherebbe la forma di governo, instaurando surret-tiziamente un governo di tipo presidenziale. Ebbene, quanto è accaduto soprattutto (ma non soltanto) a Roma fa emergere in maniera solare un punto decisivo, e cioè che, al di là delle dichiarazioni di principio, il M5S può governare solo a condizione di una modifica di fatto della Costituzione, precisamente nella direzione di un mutamento sostanziale della forma di governo. Nel momento in cui si affermi il criterio generale, secondo il quale gli eletti nelle istituzioni non debbano rispondere del loro operato al popolo che li ha eletti, ma a un ristretto direttorio ciò che viene di fatto praticata è una radicale modificazione nella costituzione materiale del paese. Di qui la vera, inescusabile e pericolosa, «incoerenza» del Movimento: nel proclamare l’intangibilità della Costituzione, proprio nel momento in cui se ne scardinano i princìpi fondamentali, nel tuonare contro una riforma, e nello stesso tempo fare scempio della legge fondamentale dello Stato. I mutamenti introdotti dalla legge Boschi sono inezie, rispetto ai profondi sconvolgimenti di fatto realizzati o almeno preconizzati dai 5stelle, mediante una completa manomissione dei cardini della democrazia rappresentativa. Insomma, per tornare all’arguta sentenza di Prezzolini, Grillo e soci non corrono certamente il rischio di essere considerati «imbecilli». Ma ci si augura che essi non pretendano di far passare per virtù anche l’ipocrisia. IL GAZZETTINO Pag 1 Hillary malata, tutto il mondo coinvolto di Massimo Teodori La malattia di Hillary Clinton, la candidata che fin qui aveva la maggiori probabilità di entrare alla Casa Bianca, è un grave handicap per gli Stati Uniti, la superpotenza mondiale che deve far fronte a una serie di crisi nei diversi teatri regionali a cominciare dal Medio Oriente. Ed è un colpo alla fiducia degli americani verso le istituzioni perché la reticenza sulla salute del candidato presidenziale toglie altra credibilità ad una Hillary già scossa dal caso delle email privatizzate. La verità e la trasparenza sono negli Stati Uniti i pilastri dell’etica pubblica nel rapporto tra l’elettorato e quei politici che aspirano alle alte responsabilità nazionali. E’ vero che in passato vi sono stati molti episodi di manipolazione della realtà da parte di Presidenti, ma non va dimenticato che l’unico impeachment della storia, quello del Presidente Nixon, prese avvio dalle sue menzogne. Oggi i grandi giornali americani si chiedono perché mai la candidata Clinton abbia tenuta nascosta per giorni la polmonite, ultimo episodio di una serie di disavventure di salute sempre pubblicamente sottostimate. Al momento nessuno sa cosa accadrà nella corsa alla Casa Bianca, ma è certo che le chance di vittoria di Trump migliorano. Hillary, donna ostinata che da anni persegue il sogno presidenziale, difficilmente rinunzierà alla candidatura che ha coltivato negli anni di Obama. La decisione che assumerà non dipende da una regola costituzionale ma esclusivamente dalla sua volontà e dalla pressione che vorrà o non vorrà esercitare il partito Democratico attraverso il Comitato nazionale. Nel passato non è mai accaduto che il candidato presidenziale rinunciasse a poca distanza dal voto. Qualora Hillary decidesse di tirarsi indietro, è improbabile che venga sostituita dal secondo arrivato, Bernie Sanders, che ha un’immagine troppo di sinistra, o dal candidato vicepresidente Tim Kaine che non ha statura nazionale. Potrebbero invece avere qualche probabilità di nomina i Democratici con esperienza istituzionale quali l’attuale vice-presidente Joe Biden, e il segretario di Stato John Kerry, apprezzato dai partner europei per le doti diplomatiche. Non è invece ipotizzabile un rinvio del voto popolare che si terrà l’8 novembre. La data fissa del martedì che segue il primo lunedì di novembre è iscritta nella Costituzione ed è stata sempre rispettata quali che fossero gli eventi straordinari: guerre interne ed estere, crisi economiche e sociali, trasformazioni di partiti e infortuni dei candidati. Ma la questione che si è aperta con la precaria salute della Clinton non riguarda tanto le regole di quel che si deve fare, quanto le ripercussioni che si potranno produrre sulla scena nazionale e internazionale. L’America sta perdendo autorevolezza anche sulla scena internazionale: le presidenziali

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2016 erano già giudicate le più bizzarre del secolo perché entrambi i candidati, non solo l’improbabile Trump (il cui profilo personale conosciamo ancor meno di quello della sua avversaria) ma la stessa Democratica Clinton, godevano di scarso favore popolare all’interno e di scarsa considerazione all’estero. Con quest’ultimo episodio la crisi politica è precipitata. Quando si vota per il presidente degli Stati Uniti, è tutto il mondo che in qualche modo è coinvolto, compresi noi italiani che abbiamo uno storico rapporto di amicizia e collaborazione. Le preoccupazioni per le crisi politiche e militari stanno crescendo allo stesso modo delle incertezze dei mercati nell’era globalizzata. Qualunque sia l’atteggiamento della Clinton, dobbiamo perciò auspicare che le decisioni vengano prese il più rapidamente possibile ponendo fine alla catena di titubanze e reticenze che hanno dominato finora le presidenziali. E che vi sia un candidato Democratico - la Clinton o altri - capace di assumere provvedimenti forti e tempestivi a beneficio di tutto l’occidente. LA NUOVA Pag 1 Una corposa serie di omissioni di Gigi Riva Il vero problema non è se Hillary Clinton abbia davvero solo una polmonite. Il problema è che l’opacità sulle sue condizioni di salute conferma una postura troppo spesso assunta anche in passato su questioni altrettanto rilevanti. Come il disinvolto uso di un account privato quando era segretario di Stato (45 mila email, di cui 15 mila non ancora passate al setaccio, saranno rese note in ottobre). Come i misteri attorno a una sua caduta in pubblico nel 2012 quando batté la testa, episodio poi rubricato sotto la voce «ipertiroidismo e allergie stagionali», che la obbligò a portare pesanti e antiestetici occhiali-fondo di bottiglia. Come le ambiguità nella gestione nelle notizie sul caso dell’ambasciatore Christopher Stevens, ammazzato a Bengasi (Libia) dai jihadisti. O come, infine, le donazioni alla sua fondazione dell’azienda di Stato russa Rosaton, avvenute dopo l’acquisto di pacchetti azionari di una società canadese che produce uranio. E senza andare al complesso affare Monica Lewinsky, dove le sue reticenze erano state perdonate dall’elettorato grazie allo scudo di empatia provocato dalla moglie tradita ma desiderosa di difendere la famiglia. Mai bugie vere e proprie, che gli americani non avrebbero perdonato, però una corposa serie di omissioni che, impilate l’una all’altra, formano il quadro complessivo di una candidata alla Casa Bianca spesso indaffarata a celare qualche aspetto della sua vita privata e pubblica. Deleterio sempre, tantopiù in epoca dei democrazia del pubblico e social network. Le condizioni di salute sono tema oltremodo sensibile. Un qualunque cittadino può invocare la privacy, come è ovvio. Non il possibile presidente degli Stati Uniti d’America, cioè della nazione-guida del mondo occidentale cui si chiede pienezza delle proprie facoltà fisiche e mentali se deve gestire un arsenale atomico ed essere decisiva per i destini del pianeta. Il contrario richiamerebbe, e pertinentemente, i segreti assoluti con cui il nemico sovietico custodiva le cartelle cliniche dei segretari del partito, fino all’iperbole del proverbiale raffreddore di Andropov, deceduto pochi giorni dopo quel ridicolo comunicato ufficiale. Non siamo a questo punto, naturalmente. E Hillary ha un’età avanzata (compirà 69 anni il prossimo 26 ottobre) ma è ancora assai più giovane di molti politici da reparto di geriatria che spopolavano in Italia, ad esempio, fino all’altro ieri. Nell’augurarle una pronta ripresa, non si può tuttavia non sottolineare come l’indubbia esperienza non le abbia ancora insegnato ad anticipare possibili bufere mediatiche. La polmonite le è stata diagnosticata venerdì scorso, il malore pubblico è di due giorni dopo, del fatale 11 settembre. E la rincorsa alle “precisazioni” è un boomerang che fatalmente si abbatte sulla sua figura. Sino alle voci di una possibile sostituzione in corsa dei democratici (Biden, Kerry, persino Sanders, i nomi che circolano). Nel timore che l’appannata immagine della candidata agevoli la rincorsa di un Donald Trump ormai giunto, almeno nei sondaggi, a un’incollatura. Il quale Trump, per inciso, fiutando il vento favorevole ha scelto di non maramaldeggiare (sarebbe suonato di cattivissimo gusto), ha augurato alla rivale di «riprendersi presto» e ordinato al suo staff il silenzio in materia. Se in passato si sono potuti scorgere grumi di maschilismo negli attacchi a una donna sicuramente competente ma non proprio popolare, stavolta subisce, Hillary, il trattamento che sarebbe stato riservato a chiunque. Ha meno di due mesi per rendere nota, con trasparenza, la cartella clinica che gli elettori esigono, non per voyeurismo ma perché

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elemento decisivo di scelta. E per cancellare l’immagine di donna del “non-detto”. Nella sfida epocale che si sta giocando sarebbe un bene non solo per gli Stati Uniti ma per l’intera comunità delle democrazie. Pag 7 Così la Clinton più debole di Alberto Flores d’Arcais Scivolone e-mail poi la malattia. Sanders o Kerry alternative Era uno dei nemici nascosti che i democratici temevano di più. A otto settimane dal voto, la polmonite di Hillary Clinton cambia all’improvviso la dinamica elettorale e rende la ex First Lady più debole di fronte a Donald Trump. Con un’ipotesi (per ora molto remota) che possa addirittura essere costretta ad abbandonare la sfida per la Casa Bianca proprio nella volata finale. In una campagna elettorale già fortemente condizionata da pregiudizi (compreso quello di genere), da uno spirito partigiano sempre più simile a quello di un una becera tifoseria, da grossolane bugie, gossip e colpi bassi, lo stato di salute di Hillary è uno dei pochi elementi su cui c’è poco da discutere e in cui l’ideologia non conta nulla: o la ex First Lady è malata o non lo è. Una polmonite di per sé è poca cosa, si cura con qualche antibiotico e non inficia alcuna capacità intellettuale o fisica. A meno di due mesi dalle elezioni (si vota l’8 novembre) il problema principale per Hillary non è tanto la gravità di una malattia ma l’immagine che viene percepita dall’elettorato. Fin dall’inizio della campagna elettorale sul suo stato di salute (non dimentichiamo che si tratta di una persona che il prossimo 26 ottobre compirà 69 anni) sono state fatte molte congetture, fino ad arrivare - alimentate dai blog repubblicani ultras, dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, ma anche dai seguaci di Bernie Sanders - a vere e proprie teorie del complotto. Accuse ridicole che avevano però un punto di partenza reale: la “concussione cerebrale” del 2012 causata (secondo la versione ufficiale) da una caduta dalle scale nella sua villa di Chappaqua sulla quale Hillary e i suoi collaboratori non hanno mai fatto chiarezza totale. La campagna elettorale per entrare alla Casa Bianca e diventare l’uomo (o la donna) più potente del mondo è un lungo processo (dura più di un anno) di screening che mette a fuoco ogni dettaglio della vita (pubblica e privata) di chi aspira alla presidenza. Il tutto in nome di una esemplare trasparenza - i cittadini devono potersi fidare ad occhi chiusi del proprio presidente - che rende inevitabilmente i candidati deboli rispetto ad azioni e dettagli della propria esistenza che nella vita dell’uomo comune sono pane quotidiano: bugie, tradimenti (e relazioni clandestine), piccola corruzione, mancanza di correttezza politica. In un processo di questo genere la “questione salute” è per gli elettori americani una delle più importanti in assoluto. Il loro presidente, l’uomo (o la donna) che per quattro anni vivrà nella Casa Bianca non può essere sospetto di alcuna debolezza fisica che lo possa rendere debole agli occhi dei nemici dell’America (che come è noto sono sempre numerosi). Si tratta di un punto che l’ex First Lady e il suo numeroso staff hanno probabilmente sottovalutato, esattamente come fecero con la questione delle email private quando Hillary era Segretario di Stato. È comprensibile come una donna che da tre decenni è sotto i riflettori e la cui vita privata è stata vivisezionata ed esposta al pubblico ludibrio (vedi lo scandalo Monica Lewinsky), voglia difendere quel poco di privacy e di intimità che le resta. Ma la campagna presidenziale (fin dalle primarie) ha delle regole cui è difficile sottrarsi. Hillary (e chi nel suo staff l’ha consigliata) ha sbagliato a non rendere subito pubblico (era venerdi scorso) il fatto di avere la polmonite. Se lo avesse fatto, motivando così l’assenza a una cerimonia simbolicamente così rilevante come quella di New York per l’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, avrebbe evitato le terribili (per la sua campagna elettorale) immagini di lei che abbandona Ground Zero. Con l’aggravante che per circa un’ora e mezzo dopo che si era sentita male, il suo staff non ha rivelato la causa del malore. Difficile ipotizzare cosa accadrà nei prossimi giorni. Anche se al momento sembra fantapolitica, nel caso lo stato di salute di Hillary Clinton dovesse complicarsi, il partito democratico dovrà trovare in fretta e furia una candidatura alternativa (Bernie Sanders o il Segretario di Stato John Kerry i nomi più accreditati). Se invece tutto si risolverà nel giro di pochi giorni il danno sarà comunque stato fatto. Un danno che David Axelrod, stratega e consigliere che più di ogni altro ha contribuito alla doppia vittoria di Barack Obama (2008 e 2012) ha riassunto meglio di ogni altro con un semplice tweet: «La polmonite si cura con gli antibiotici. Ma qual è la

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cura per una poco salutare debolezza per la privacy che ha ripetutamente creato problemi?». Torna al sommario