Rassegna stampa 13 giugno 2017...affluenza di domenica: «Hanno influito tanti elementi. Era appena...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 13 giugno 2017 SOMMARIO Tante pagine dei giornali di oggi sono, ovviamente, dedicate al racconto e ai commenti sull’esito delle elezioni comunali di domenica scorsa. Raccogliamo qui, intanto, alcune osservazioni di “analisi” espresse da un paio di politologi. Intervistato dal Gazzettino il prof. Paolo Feltrin iniziando dalla bassa affluenza di domenica: «Hanno influito tanti elementi. Era appena terminato l'anno scolastico, c'era il sole, ma c'è stata anche una campagna elettorale fiacca, complice il fatto che i big erano tutti impegnati a Roma con la storia che dovevano fare la nuova legge elettorale e non si sono visti sul territorio. Va anche detto che le campagne elettorali sono cambiate: sono scomparsi gli spot in tv e i manifesti, tutto si è trasferito sul web. Pongo una riflessione: siamo sicuri che i social arrivino a tutti gli elettori?. «A livello locale hanno vinto le coalizioni. dal risultato di domenica emerge che il centrosinistra vince solo se è coalizzato con la sinistra, il Pd deve fare i conti con il modello Sala-Pisapia, da solo non è autosufficiente. Lo si vede a Padova, ma anche a Verona dove hanno mancato il ballottaggio. È una tendenza nazionale e anche europea, come si è visto con Macron: se il centrosinistra vuole vincere deve attaccarsi alla sinistra». La stessa cosa vale anche per il centrodestra: «Sì, la lezione è chiara: né Lega né Forza Italia sono autosufficienti, divisi non vanno da nessuna parte. Lo testimonia la vittoria al primo turno a Conegliano. A Padova avevano spifferi da tutte le parti, con Saia, Degani e singoli forzisti che appoggiavano Giordani. Non fosse successo quello che sappiamo, anche a Verona avrebbero vinto al primo turno. Il centrodestra si rivela più forte di quel che dicono i sondaggi purché sia unito». Sull’insuccesso grillino afferma: «Quando centrodestra e centrosinistra sono uniti non c'è spazio per il M5s. I pentastellati hanno qualche chance di andare al ballottaggio solo se le coalizioni si frantumano. Ma c'è anche un evidente affanno dei 5 Stelle: se prometti, prometti, prometti e poi non mantieni, è comprensibile che l'elettorato resti deluso. Se poi, come è successo a Mira dove hanno perso il Comune, il sindaco uscente neanche viene ricandidato, è un evidente segno di difficoltà». Previsioni sui ballottaggi e sulla prossima legge elettorale? «Per rispondere bisognerebbe sapere in quanti andranno a votare, considerato che tra quindici giorni saremo in piena estate. Vincerà chi riuscirà a portare più gente a votare, per farcela devi portare almeno i tuoi ai seggi. Se l'affluenza cala al 50%, sarà dappertutto un terno al lotto. Verona è la più incerta. Forse una legge elettorale che incentivi le coalizioni, prima del voto naturalmente e non dopo, sarebbe preferibile perché sembra incontrare lo spirito del tempo». Sui quotidiani Finegil interviene, invece, il prof. Marco Almagisti: «Il M5S risulta il primo partito in Italia nei sondaggi grazie alla visibilità del suo leader, Beppe Grillo, che domina la scena nazionale da assoluto protagonista e riesce a catalizzare la sfiducia che colpisce l'intero sistema dei partiti mentre sul piano locale i pentastellati non hanno un radicamento e prima o poi dovranno decidere che tipo di organizzazione adottare per competere nel governo della città. I partiti hanno una struttura ben definita con sezioni e dirigenti, mentre il M5S si mobilita con i mit up sulla rete, i sondaggi e le primarie on line per la scelta dei candidati: a Roma e a Torino hanno ottenuto due ottimi risultati, ma si tratta di eccezioni che confermano la necessità di una svolta organizzativa. Il Pd nel Nordest si trova ancora alle prese con l'eredità della zona "bianca" del tempo della Dc, per cui la sinistra risultava sistematicamente sottorappresentata rispetto al livello nazionale. A Verona il candidato Dem viene escluso dal ballottaggio anche per le divisioni a sinistra e tra quindici giorni la sfida riguarderà il candidato di centrodestra, Federico Sboarina, e Patrizia Bisinella, fidanzata del sindaco Tosi che con la sua lista ha ottenuto un'affermazione importante. Sarà una sfida tutta interna al centrodestra, diviso in due coalizioni, il Pd non ce l'ha fatta per un migliaio di voti e sulla sconfitta c'è da

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RASSEGNA STAMPA di martedì 13 giugno 2017

SOMMARIO

Tante pagine dei giornali di oggi sono, ovviamente, dedicate al racconto e ai commenti sull’esito delle elezioni comunali di domenica scorsa.

Raccogliamo qui, intanto, alcune osservazioni di “analisi” espresse da un paio di politologi. Intervistato dal Gazzettino il prof. Paolo Feltrin iniziando dalla bassa

affluenza di domenica: «Hanno influito tanti elementi. Era appena terminato l'anno scolastico, c'era il sole, ma c'è stata anche una campagna elettorale fiacca, complice il fatto che i big erano tutti impegnati a Roma con la storia che dovevano fare la nuova

legge elettorale e non si sono visti sul territorio. Va anche detto che le campagne elettorali sono cambiate: sono scomparsi gli spot in tv e i manifesti, tutto si è

trasferito sul web. Pongo una riflessione: siamo sicuri che i social arrivino a tutti gli elettori?. «A livello locale hanno vinto le coalizioni. dal risultato di domenica emerge che il centrosinistra vince solo se è coalizzato con la sinistra, il Pd deve fare i conti con il modello Sala-Pisapia, da solo non è autosufficiente. Lo si vede a Padova, ma

anche a Verona dove hanno mancato il ballottaggio. È una tendenza nazionale e anche europea, come si è visto con Macron: se il centrosinistra vuole vincere deve attaccarsi

alla sinistra». La stessa cosa vale anche per il centrodestra: «Sì, la lezione è chiara: né Lega né Forza Italia sono autosufficienti, divisi non vanno da nessuna parte. Lo

testimonia la vittoria al primo turno a Conegliano. A Padova avevano spifferi da tutte le parti, con Saia, Degani e singoli forzisti che appoggiavano Giordani. Non fosse successo quello che sappiamo, anche a Verona avrebbero vinto al primo turno. Il centrodestra si rivela più forte di quel che dicono i sondaggi purché sia unito».

Sull’insuccesso grillino afferma: «Quando centrodestra e centrosinistra sono uniti non c'è spazio per il M5s. I pentastellati hanno qualche chance di andare al ballottaggio

solo se le coalizioni si frantumano. Ma c'è anche un evidente affanno dei 5 Stelle: se prometti, prometti, prometti e poi non mantieni, è comprensibile che l'elettorato

resti deluso. Se poi, come è successo a Mira dove hanno perso il Comune, il sindaco uscente neanche viene ricandidato, è un evidente segno di difficoltà». Previsioni sui ballottaggi e sulla prossima legge elettorale? «Per rispondere bisognerebbe sapere in quanti andranno a votare, considerato che tra quindici giorni saremo in piena estate. Vincerà chi riuscirà a portare più gente a votare, per farcela devi portare almeno i

tuoi ai seggi. Se l'affluenza cala al 50%, sarà dappertutto un terno al lotto. Verona è la più incerta. Forse una legge elettorale che incentivi le coalizioni, prima del voto

naturalmente e non dopo, sarebbe preferibile perché sembra incontrare lo spirito del tempo». Sui quotidiani Finegil interviene, invece, il prof. Marco Almagisti: «Il M5S

risulta il primo partito in Italia nei sondaggi grazie alla visibilità del suo leader, Beppe Grillo, che domina la scena nazionale da assoluto protagonista e riesce a catalizzare la sfiducia che colpisce l'intero sistema dei partiti mentre sul piano locale i pentastellati

non hanno un radicamento e prima o poi dovranno decidere che tipo di organizzazione adottare per competere nel governo della città. I partiti hanno una struttura ben definita con sezioni e dirigenti, mentre il M5S si mobilita con i mit up

sulla rete, i sondaggi e le primarie on line per la scelta dei candidati: a Roma e a Torino hanno ottenuto due ottimi risultati, ma si tratta di eccezioni che confermano la necessità di una svolta organizzativa. Il Pd nel Nordest si trova ancora alle prese

con l'eredità della zona "bianca" del tempo della Dc, per cui la sinistra risultava sistematicamente sottorappresentata rispetto al livello nazionale. A Verona il

candidato Dem viene escluso dal ballottaggio anche per le divisioni a sinistra e tra quindici giorni la sfida riguarderà il candidato di centrodestra, Federico Sboarina, e

Patrizia Bisinella, fidanzata del sindaco Tosi che con la sua lista ha ottenuto un'affermazione importante. Sarà una sfida tutta interna al centrodestra, diviso in due

coalizioni, il Pd non ce l'ha fatta per un migliaio di voti e sulla sconfitta c'è da

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riflettere. Si pone il tema delle alleanze. Da Roma arrivano segnali precisi per arrivare quanto meno ad una forma di non ostilità dichiarata tra il Pd e la lista Tosi: del resto il sindaco di Verona al referendum del 4 dicembre scorso ha sostenuto il sì alle riforme istituzionali in sintonia con Renzi. Esistono le premesse per il dialogo… Credo che si

parlerà a lungo non solo in Veneto ma in Italia del modello-Lorenzoni (Padova): Coalizione civica nasce da una combinazione tra forme organizzate di politica e

attivismo civico, con la società civile che si mobilita attorno a un progetto di partecipazione e gestione della città. Ci sono dei partiti storicamente radicati come

Rete dem, Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione e Padova 2020 che hanno dialogato con i gruppi di cittadini auto-organizzati: questa mobilitazione eccezionale

ha raccolto un risultato notevole, molto più elevato delle previsioni dei sondaggi: Coalizione Civica con il suo 22 per cento farà certamente parlare di sé in tutt'Italia.

Ne sono convinto».

E sulla prima pagina di Avvenire il direttore Marco Tarquinio commenta così il voto amministrativo: “Il primo turno amministrativo nei mille Comuni chiamati al voto in questo giugno 2017 torna a sottolineare un duplice e problematico sfarinamento che

contrassegna ormai stabilmente il sistema della rappresentanza politica in Italia. Sfarinamento della fiducia nell’utilità del voto: il povero 60% di partecipazione alle urne nelle più classiche 'elezioni di prossimità' non è solo un dato deludente, è un allarme sempre più forte e che non si può continuare a dimenticare non appena si cominciano a maneggiare i consensi espressi da chi si è comunque recato ai seggi.

Questi ultimi, come sempre, ovviamente e democraticamente contano (e illudono), quelli – i non-voti ostinati o in provvisoria e insoddisfatta attesa – pesano (e

minacciano) più che mai. E chi dovesse continuare a pensare che i voti (e i non voti) «si contano e non si pesano» potrebbe non aver capito molto di ciò che sta passando

nella vita e nella testa di tantissimi italiani e a quali sorprese questo scollamento amaro e spesso indignato può portare. Sfarinamento del consenso tra una molteplicità di 'poli': nelle ultime ore, a caldo, si è parlato un po’ troppo di un possibile ritorno al bipolarismo che abbiamo conosciuto negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica. È

vero che tra due settimane centrodestra e centrosinistra saranno i duellanti di gran lunga più frequenti, ma è altrettanto vero che persino col sistema per l’elezione

diretta dei sindaci e delle loro maggioranze di governo – cioè con la legge-madre di quel bipolarismo, che ha dominato, ma poco e male ha funzionato per il Paese – in

tante nostre città si sono solidificati almeno quattro poli di riferimento (oltre a centrodestra e centrosinistra, pentastellati e 'civici' di diversa colorazione). Per di più, persino con regole che incentivano al massimo l’aggregazione e il voto di due grandi coalizioni contrapposte, è tornata a manifestarsi l’onda neoproporzionalista

segnalata dall’infittirsi di bandiere e bandierine 'identitarie' relativamente competitive (anche se il più delle volte non sufficienti e autosufficienti in termini di governo delle città). Insomma: si vota per più soggetti, ma sempre di meno. E questa crescente 'fatica della scelta' non dovrebbe lasciar tranquillo nessun protagonista (o aspirante tale) della politica nazionale. Detto ciò, e in attesa tra due domeniche dei

ballottaggi che, visti i pochissimi successi al primo turno (in particolare quelli di Leoluca Orlando a Palermo e di Nicola Ottaviani a Frosinone), decideranno come forse

mai prima bilanci ed esito complessivo della battaglia elettorale amministrativa in corso, qualche altra annotazione appare utile e necessaria. Non c’è dubbio che il risultato del Movimento 5 Stelle sia il più evidentemente insufficiente, non tanto

rispetto alle ragionevoli attese (stavolta non erano alle viste, anzi, colpi clamorosi come la conquista di Roma e Torino), quanto al trend complessivo ed esplosivo di questi anni. L’esclusione da tutti (o quasi) i ballottaggi maggiori non consentirà al 'terzo polo' per eccellenza di far fruttare la seconda scelta (contro l’avversario più

tradizionale) di tanti elettori di centrodestra o centrosinistra. Per Beppe Grillo e i suoi c’è da riflettere. Senza l’impegno forte e diretto del leader, il Movimento – pur dimostrando di godere ormai di un certo radicamento – non vola. Ma allo stesso tempo, con una direzione verticistica all’insegna del «fidatevi di me», Grillo e i

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consiglieri più stretti (Casaleggio jr. in testa) a livello locale – e persino in casa del gran capo, a Genova – trovano quasi ovunque avversari interpreti dello 'spartito civico'

più attraenti di loro anche se non necessariamente vincenti. Proprio come a Parma, teatro del pur non irresistibile assolo del 'licenziato' proto- sindaco a 5 Stelle Federico Pizzarotti. I due poli 'storici' – imperniati, a sinistra, sul Pd post- scissione e, a destra,

sull’alleanza tattica e competitiva tra il neo-europopolare Berlusconi e il populista antieuropeo Salvini – occupano la scena e si occuperanno (in proporzioni ancora

largamente da stabilire) dei Comuni dove si è votato. Qui si deciderà, come è naturale, l’esito finale di questa prova elettorale. Ma su un piano politico più generale

dovranno guardarsi entrambi dall’effetto ottico di un 'ritorno al passato' (forse più maturo e meno rissoso o forse proprio no) che sembra esserci stato domenica scorsa,

ma che non ci sarà nel voto per il prossimo Parlamento. Certo non con le regole elettorali 'amputate' che vengono chiamate 'Consultellum' (uno e due). Un sistema senza logica unitaria, che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il puro

buon senso – o, meglio, il senso del bene comune – invitano ad armonizzare e integrare per garantire diretta e fedele rappresentanza dei cittadini e, almeno in

potenza, governabilità” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 30 Processione di Sant’Antonio, premi e festeggiamenti di Nadia De Lazzari A San Francesco della Vigna, da oggi a sabato 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Dio si arrangia per entrare Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 15 Francesco: Dio ci cerca e ci attende per primo All’Angelus: è solo amore, in una relazione sussistente che tutto crea, redime e santifica IL FOGLIO Pag 2 “Obbedite o sarete sospesi”. Il pugno duro del Papa contro la chiesa ribelle di Matteo Matzuzzi La questione etnica che divide la diocesi di Ahiara (Nigeria) WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Araldi del Vangelo, il fondatore lascia mentre il Vaticano indaga di Andrea Tornielli João Scognamiglio Clá Dias, 77 anni, si dimette da superiore generale ma continua a essere “padreˮ dell’istituto. La Congregazione per i religiosi sta indagando per le stranezze di culti millenaristici e per esorcismi compiuti invocando i nomi dei fondatori 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 22 Mai così tante matricole da 15 anni, il nuovo exploit degli atenei italiani di Corrado Zunino … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Lezioni smarrite di Antonio Polito Pag 2 Chi ha vinto e chi ha perso di Dino Martirano

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Pag 12 Coalizioni contrastate dai veti reciproci di Massimo Franco LA REPUBBLICA Pag 1 Meglio non vendere la pelle del Grillo di Ilvo Diamanti Pag 1 L’eternità del Cavaliere di Stefano Folli AVVENIRE Pag 1 Pesare bene i (non) voti di Marco Tarquinio Un verdetto e un effetto ottico Pag 3 Un voto che stressa i partiti di Angelo Picariello Cala l’affluenza, M5S fuori dai ballottaggi, 22 sindaci al Pd, 8 a Fi e Lega. I dem giù nelle zone rosse, centrodestra a trazione leghista IL GAZZETTINO Pag 1 I moderati italiani resistono e battono un colpo di Marco Gervasoni Pag 2 Lezione dalle comunali: vince chi è in coalizione di Alda Vanzan In Veneto punita la presunzione dell’autosufficienza: rinascono centrodestra e centrosinistra. I singoli partiti “cannibalizzati” dalle civiche. E ora parte la corsa agli apparentamenti Pag 4 “Non bastano le campagne su sociale e web” di Alda Vanzan Il politologo Feltrin: “Pochi votanti, lezione per la legge elettorale” Pag 20 Ma qui conta la capacità di Sebastiano Maffettone IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I I protagonisti di una stagione politica di Tiziano Graziottin CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Una partita ancora aperta di Alessandro Russello Primati, alleanze e alchimie Pag 2 Centrodestra avanti a Padova e Verona ma nuove alleanze riaprono i giochi di Marco Bonet Le liste civiche annientano i partiti in crisi LA NUOVA Pag 1 Liste civiche e astensione, due prove di Paolo Possamai Pag 19 “Padova sarà il laboratorio del nuovo centrosinistra” di Albino Salmaso Il politologo Almagisti: i dem veneti alle prese con l’eredità della zona “bianca” Pag 21 Il ruolo del populismo nei giochi di coalizione di Gianfranco Pasquino Pag 22 Grillo, tre mosse sbagliate. Ma 5Stelle non è alla frutta di Claudio Giua

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 30 Processione di Sant’Antonio, premi e festeggiamenti di Nadia De Lazzari A San Francesco della Vigna, da oggi a sabato

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Oggi a San Francesco della Vigna (Castello) ricorre la festa patronale di Sant'Antonio. Alle 17 è in programma la benedizione dei gigli e la consacrazione dei bambini al Santo; alle 18.30 il parroco Sebastiano Simonitto celebra la messa con la processione solenne che si snoda lungo le calli della parrocchia accompagnata dalla banda di Mogliano mentre otto volontari portano a spalla la statua lignea di Sant'Antonio; segue la consueta proclamazione del "San Francesco 2017"; dalle 21 spazio alla musica con il dj Alain Marceau. Quest'anno i premiati che riceveranno un'osella di vetro montata in ceramica del laboratorio "Questoequeo" sono Giovanni Tonegato e Francesco Valma. Ad annunciare i nomi Susanna Spanio, presidente dell'Associazione San Francesco della Vigna nata nel 1998 da un sodalizio di negozianti della zona per far rivivere le vecchie tradizioni popolari del quartiere. «Queste persone si sono distinte nel collaborare con le attività della comunità e del territorio. Sono un esempio per i giovani; a loro va il nostro grazie. La festa legata alla devozione del Santo, unica in centro storico con la processione a spalla è un'occasione per stare insieme e per sostenere con opere di beneficenza persone meno fortunate». L'evento che mobilita centinaia di volontari tra i quali l'associazione Olivolo e gli Scuot e richiama migliaia di residenti e turisti prosegue in campo fino a sabato 17. Ogni sera dalle 19 divertimento e solidarietà sono assicurati con stand gastronomici e musica swing, rock, salsa venexiana, reggae. Questo il calendario degli spettacoli che iniziano alle 21: mercoledì 14, serata musicale "Disincanto", un pezzo di storia del nostro territorio; giovedì 15, serata salsa contest; venerdì 16, Batista Coco, salsa venexiana; sabato 17, Puppa Giallo, reggae. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Dio si arrangia per entrare Messa a Santa Marta Basta tenere la porta del cuore socchiusa che «Dio si arrangia per entrare», salvandoci dal finire nella schiera degli «in-meriscordi»: neologismo per intendere coloro che senza misericordia mettono in pratica le beatitudini al contrario. È proprio dalla tentazione «narcisista dell’autoreferenzialità» - l’opposto dell’«alterità» cristiana che «è dono e servizio» - che Papa Francesco ha messo in guardia nella messa celebrata lunedì mattina, 12 giugno, a Santa Marta. Riferendosi al passo della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (1, 1-7), proposto dalla liturgia come prima lettura, il Pontefice ha fatto subito notare che in appena «diciannove righe per otto volte Paolo parla di consolazione, di lasciarsi consolare per consolare gli altri». La consolazione, dunque, «ricorre per otto volte in diciannove righe: è troppo forte, qualcosa vuol dirci». E «per questo credo — ha aggiunto — che questa sia un’opportunità, un’occasione per riflettere sulla consolazione: cosa è la consolazione della quale parla Paolo». Ma «prima di tutto dobbiamo vedere che la consolazione non è autonoma, non è una cosa chiusa in se stessa». Infatti, ha fatto presente il Papa, «l’esperienza della consolazione, che è un’esperienza spirituale, ha bisogno sempre di un’alterità per essere piena: nessuno può consolare se stesso, nessuno». E «chi cerca di farlo, finisce guardandosi allo specchio: si guarda allo specchio, cerca di truccare se stesso, di apparire; si consola con queste cose chiuse che non lo lasciano crescere e l’aria che respira è quell’aria narcisista dell’autoreferenzialità». Ma «questa è la consolazione truccata che non lascia crescere, non è consolazione perché è chiusa, le manca un’alterità». «Nel Vangelo troviamo tanta gente che è così» ha spiegato Francesco. «Per esempio - ha detto - i dottori della legge che sono pieni della propria sufficienza, chiusi, e questa è la “loro consolazione” tra virgolette». Il Papa ha voluto fare esplicito riferimento al «ricco Epulone, che viveva di festa in festa e con questo pensava di essere consolato». Però, ha affermato, sono forse le parole della preghiera del fariseo, del pubblicano, davanti all’altare, a esprimere meglio questo atteggiamento: «Ti ringrazio Dio perché non sono come gli altri». Insomma, quell’uomo «si guardava allo specchio, guardava la propria anima truccata da ideologie e ringraziava il Signore». È Gesù stesso che «ci fa vedere questa possibilità di questa gente che, con

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questo modo di vivere, mai arriverà alla pienezza» ma «al massimo alla “gonfiezza”, ossia vanagloria». «La consolazione, per essere vera, per essere cristiana, ha bisogno di un’alterità» ha continuato Francesco, perché «la vera consolazione si riceve». Per questa ragione «Paolo Incomincia con quella benedizione: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione!”». Ed «è proprio il Signore, è Dio che ci consola, è Dio che ci dà questo dono: noi col cuore aperto, lui viene e ci dà». Questa è «l’alterità che fa crescere la vera consolazione; e la vera consolazione dell’anima matura anche in un’altra alterità, perché noi possiamo consolare gli altri». Ecco, allora, che «la consolazione è uno stato di passaggio dal dono ricevuto al servizio donato», tanto che «la vera consolazione ha questa doppia alterità: è dono e servizio». «Così - ha rilanciato il Pontefice - se io lascio entrare la consolazione del Signore come dono è perché ho bisogno di essere consolato: sono bisognoso». Infatti «per essere consolato è necessario riconoscere di essere bisognoso: soltanto così il Signore viene, ci consola e ci dà la missione di consolare gli altri». Certo, ha riconosciuto Francesco, «non è facile avere il cuore aperto per ricevere il dono e fare il servizio, le due alterità che fanno possibile la consolazione». «È proprio Gesù che spiega come posso fare che il mio cuore sia aperto» ha affermato il Papa: «Un cuore aperto, è un cuore felice e nel Vangelo abbiamo sentito chi sono i felici, chi sono i beati: i poveri». Così «il cuore si apre con un atteggiamento di povertà, di povertà di spirito: quelli che sanno piangere, quelli miti, la mitezza del cuore; quelli affamati di giustizia, che lottano per la giustizia; quelli che sono misericordiosi, che hanno misericordia nei confronti degli altri; i puri di cuore; gli operatori di pace e quelli che sono perseguitati per la giustizia, per amore alla giustizia». E «così il cuore si apre e il Signore viene con il dono della consolazione e la missione di consolare gli altri». Ma ci sono però, ha avvertito Francesco, anche coloro che «hanno un cuore chiuso: non sono felici perché non può entrare il dono della consolazione e darlo agli altri». Non seguono le beatitudini, insomma, e «si sentono ricchi di spirito, ossia sufficienti». Sono «quelli che non hanno bisogno di piangere perché si sentono giusti; quelli violenti che non sanno cosa sia la mitezza; quelli ingiusti che vivono dell’ingiustizia e fanno ingiustizia; quelli “in-misericordi” - ossia senza misericordia - che mai perdonano, mai hanno bisogno di perdonare perché non si sentono con il bisogno di essere perdonati; quelli sporchi di cuore; quelli operatori di guerre, non di pace; e quelli che mai sono criticati o perseguitati perché lottano per la giustizia perché non importa loro le ingiustizie delle altre persone: questi sono chiusi». Proprio di fronte a queste beatitudini al contrario, ha suggerito il Pontefice, «ci farà bene oggi pensare» a «come è il mio cuore: è aperto? So ricevere il dono della consolazione, lo chiedo al Signore, e poi so darlo agli altri come un dono del Signore e servizio mio?». E «così, con questi pensieri durante giornata, tornare e ringraziare il Signore che è tanto buono e sempre cerca di consolarci». Ricordando che Dio «ci chiede soltanto che la porta del cuore sia aperta o almeno un pochettino, così lui poi si arrangia per entrare». AVVENIRE Pag 15 Francesco: Dio ci cerca e ci attende per primo All’Angelus: è solo amore, in una relazione sussistente che tutto crea, redime e santifica È stata dedicata alla Santissima Trinità, la riflessione del Papa domenica scorsa all’Angelus. Al termine, un richiamo alla figura di Itala Mela proclamata beata sabato alla Spezia. La sua testimonianza – ha detto in proposito Francesco – «ci incoraggi, durante le nostre giornate, a rivolgere spesso il pensiero a Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che abita nella cella del nostro cuore». Tanti, come sempre i pellegrini italiani in piazza San Pietro. In particolare il Pontefice ha salutato i fedeli di Padova, di Norbello e i ragazzi di Sassuolo. Di seguito le parole di Bergoglio prima della preghiera mariana. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Le Letture bibliche di questa domenica, festa della Santissima Trinità, ci aiutano ad entrare nel mistero dell’identità di Dio. La seconda Lettura presenta le parole augurali che San Paolo rivolge alla comunità di Corinto: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» ( 2 Cor 13,13). Questa – diciamo – “benedizione” dell’apostolo è frutto della sua esperienza personale dell’amore di Dio, quell’amore che Cristo risorto gli ha rivelato, che ha trasformato la sua vita e lo ha “spinto” a portare il Vangelo alle genti. A

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partire da questa sua esperienza di grazia, Paolo può esortare i cristiani con queste parole: «Siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, […] vivete in pace» (v. 11). La comunità cristiana, pur con tutti i limiti umani, può diventare un riflesso della comunione della Trinità, della sua bontà, della sua bellezza. Ma questo – come lo stesso Paolo testimonia – passa necessariamente attraverso l’esperienza della misericordia di Dio, del suo perdono. È ciò che accade agli ebrei nel cammino dell’esodo. Quando il popolo infranse l’alleanza, Dio si presentò a Mosè nella nube per rinnovare quel patto, proclamando il proprio nome e il suo significato. Così dice: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» ( Es 34,6). Questo nome esprime che Dio non è lontano e chiuso in sé stesso, ma è Vita che vuole comunicarsi, è apertura, è Amore che riscatta l’uomo dall’infedeltà. Dio è “misericordioso”, “pietoso” e “ricco di grazia” perché si offre a noi per colmare i nostri limiti e le nostre mancanze, per perdonare i nostri errori, per riportarci sulla strada della giustizia e della verità. Questa rivelazione di Dio è giunta al suo compimento nel Nuovo Testamento grazie alla parola di Cristo e alla sua missione di salvezza. Gesù ci ha manifestato il volto di Dio, Uno nella sostanza e Trino nelle persone; Dio è tutto e solo Amore, in una relazione sussistente che tutto crea, redime e santifica: Padre e Figlio e Spirito Santo. E il Vangelo di oggi “mette in scena” Nicodemo, il quale, pur occupando un posto importante nella comunità religiosa e civile del tempo, non ha smesso di cercare Dio. Non pensò: «Sono arrivato», non ha smesso di cercare Dio; e ora ha percepito l’eco della sua voce in Gesù. Nel dialogo notturno con il Nazareno, Nicodemo comprende finalmente di essere già cercato e atteso da Dio, di essere da Lui personalmente amato. Dio sempre ci cerca prima, ci attende prima, ci ama prima. È come il fiore del mandorlo; così dice il profeta: «Fiorisce prima» (cfr Ger 1,11-12). Così infatti gli parla Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna » ( Gv 3,16). Che cosa è questa vita eterna? È l’amore smisurato e gratuito del Padre che Gesù ha donato sulla croce, offrendo la sua vita per la nostra salvezza. E questo amore con l’azione dello Spirito Santo ha irradiato una luce nuova sulla terra e in ogni cuore umano che lo accoglie; una luce che rivela gli angoli bui, le durezze che ci impediscono di portare i frutti buoni della carità e della misericordia. Ci aiuti la Vergine Maria ad entrare sempre più, con tutto noi stessi, nella Comunione trinitaria, per vivere e testimoniare l’amore che dà senso alla nostra esistenza. Francesco IL FOGLIO Pag 2 “Obbedite o sarete sospesi”. Il pugno duro del Papa contro la chiesa ribelle di Matteo Matzuzzi La questione etnica che divide la diocesi di Ahiara (Nigeria) Roma. "Chi si è opposto alla presa di possesso del vescovo mons. Okpaleke vuole distruggere la chiesa; ciò non è permesso; forse non se ne accorge, ma la chiesa sta soffrendo e il popolo di Dio in essa. Il Papa non può essere indifferente". E' uno dei passaggi del breve messaggio che Francesco ha letto, la scorsa settimana, alla delegazione di presuli giunti in Vaticano da Ahiara, diocesi nigeriana che da cinque anni è senza vescovo. O meglio, un vescovo ce l'avrebbe pure (mons. Peter Okpaleke, appunto), ma questi è impossibilitato da cinque anni - fu nominato da Benedetto XVI nel 2012 - a prendere possesso della diocesi. Impedito dal muro eretto da sacerdoti e laici in quanto appartenente all'etnia Ibo (prevalente nel vicino stato di Ambra) e non a quella Mbaise, invece maggioritaria ad Ahiara, cui apparteneva il predecessore di Okpaleke, mons. Victor Chikwe. "La chiesa, infatti - ha detto il Papa - è come in stato di vedovanza per aver impedito al vescovo di andarvi. Tante volte mi è venuta in mente la parabola dei vignaioli assassini, di cui parla il Vangelo, che vogliono appropriarsi dell'eredità. In questa situazione la diocesi di Ahiara è come senza sposo, e ha perso la sua fecondità e non può dare frutto". Bergoglio ha detto di aver meditato "sull'idea di sopprimere la diocesi; ma poi - ha aggiunto - ho pensato che la chiesa è madre e non può lasciare tanti figli come voi. Ho un grande dolore verso questi sacerdoti che sono manipolati, forse anche dall'estero e da fuori diocesi". Non una assoluta novità, dal momento che più

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volte nel corso della storia anche recente - e sempre nel continente africano, realtà assai complessa e troppo spesso banalmente identificata come un unicum che non tiene conto delle singole peculiarità che la contraddistinguono - più di un presule nominato da Roma ha avuto difficoltà a insediarsi nella sede stabilita, proprio a causa di tensioni etniche e tribali che poco hanno a che fare con il messaggio cristiano. Ma qualcosa nel caso specifico di Ahiara andava fatto, e il Papa ha deciso di usare il pugno duro contro quello che ritiene "un peccato mortale", come si comprende scorrendo il testo del comunicato diffuso sabato dalla Sala stampa della Santa Sede: "Chiedo - sono sempre parole di Francesco - che ogni sacerdote o ecclesiastico incardinato nella diocesi di Ahiara, sia residente, sia che lavori altrove, anche all'estero, scriva una lettera a me indirizzata in cui domanda perdono; tutti, devono scrivere singolarmente e personalmente; tutti dobbiamo avere questo comune dolore". Nella missiva, che dovrà essere "spedita entro trenta giorni", sacerdoti ed eccelsiastici di Ahiara saranno chiamati a mettere nero su bianco e in maniera chiara "totale obbedienza al Papa". In secondo luogo, "chi scrive deve essere disposto ad accettare il vescovo che il Papa invia e il vescovo nominato". Chi non lo farà nei termini e tempi stabiliti, ha aggiunto Bergoglio, "ipso facto viene sospeso a divinis e decade dal suo ufficio". A giudizio del Papa, che ben conosce le vicende della diocesi ed era già stato ragguagliato in merito sia dal vescovo titolare Okpaleke sia dall'amministratore apostolico nominato nel 2013, il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, "qui non si tratta di un caso di tribalismo, ma di appropriazione della vigna del Signore". Ecco perché il provvedimento adottato "sembra molto duro", ma si è reso necessario "perché il Popolo di Dio è scandalizzato" e "Gesù ricorda che chi scandalizza, deve portarne le conseguenze". Una volta che la vicenda si sarà conclusa, e cioè entro breve tempo secondo i desiderata vaticani (la tempistica dell'invio della lettera con richiesta di perdono e promessa d'obbedienza è chiara), la diocesi "accompagnata dal suo vescovo" si recherà a Roma in pellegrinaggio. A quel punto, sarà ricevuta Francesco. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Araldi del Vangelo, il fondatore lascia mentre il Vaticano indaga di Andrea

Tornielli João Scognamiglio Clá Dias, 77 anni, si dimette da superiore generale ma continua a

essere “padreˮ dell’istituto. La Congregazione per i religiosi sta indagando per le stranezze di culti millenaristici e per esorcismi compiuti invocando i nomi dei fondatori

Monsignor João Scognamiglio Clá Dias, 77 anni, fondatore e superiore generale della società clericale di vita apostolica “Virgo Flos Carmeliˮ e presidente dell’associazione privata di fedeli “Arautos do Evangelhoˮ (Araldi del Vangelo), la prima nata e approvata nel nuovo millennio, si è dimesso. Con una lettera resa pubblica il 12 giugno 2017 ha annunciato di rinunciare all’incarico perché uno dei suoi figli spirituali «possa condurre quest’Opera alla perfezione desiderata da Nostra Signora». João Scognamiglio Clá Dias aggiunge che «nel lasciare questo incarico non posso - né desidererei - davanti a Dio, rinunciare alla mia missione di padre» e dunque «continuerò a essere a disposizione di ciascuno, per sapermi costituito da Dio come modello e guardiano vivente di questo carisma trasmessomi dallo Spirito Santo». La mossa a sorpresa del fondatore sarebbe legata all’inchiesta sugli Araldi che ha avuto inizio presso la Congregazione che si occupa dei religiosi. Un’inchiesta «approfondita e seria» spiegano le fonti vaticane. Anche se non è ancora stata presa alcuna decisione in merito a una possibile visita apostolica. João Scognamiglio Clá Dias rappresenta una delle due branche in cui si è divisa l’associazione fondata in Brasile negli anni Cinquanta da Plinio Corrêa de Oliveira, pensatore cattolico tradizionalista, di destra e contro-rivoluzionario, ideatore dell’associazione TFP (Tradizione, Famiglia e Proprietà). Dopo la sua morte il gruppo si è diviso: da una parte i “Fundadoresˮ, che hanno ottenuto l’uso del nome TFP negli Stati Uniti e in Europa (l’associazione italiana è molto vicina alle posizioni del professor Roberto De Mattei, e in questi mesi si dedica a supportare l’attività dei quattro cardinali autori dei “dubiaˮ su Amoris laetitia); dall’altra João Scognamiglio Clá Dias, che ha ottenuto beni e nome dell’associazione in Brasile e che dopo la morte di Plinio Corrêa - avvenuta nel 1995 - ha di fatto fondato un ordine religioso e un’associazione privata di laici, con rami maschile e femminile, gli “Araldi del Vangelo”. Noti per l’abito particolarissimo, simile a un saio

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corto, con una gigantesca croce bianca e rossa sul petto, e gli stivali simili a quelli dei fantini (vedi foto). Gli Araldi si sono diffusi in 78 Paesi, contano molte vocazioni, coinvolgono migliaia di giovani e sono stati particolarmente sostenuti dal cardinale sloveno Franc Rodè, all’epoca in cui era Prefetto dei religiosi. All’origine dell’inchiesta vaticana, tra le altre segnalazioni, ci sono le lettere e i video inviati a Roma da Alfonso Beccar Varela. Da almeno trent’anni si parlava dell’esistenza all’interno della TFP e poi degli Araldi di una sorta di società segreta “Semper vivaˮ dove si praticava il culto della mamma di Plinio Corrêa, Donna Lucilia, dello stesso Corrêa e anche di João Scognamiglio Clá Dias. Un culto che la Chiesa non permette. I video caricati da Alfonso Beccar Varela vengono spostati di frequente verso altri indirizzi, perché gli Araldi fanno azioni legali in Brasile per cancellarli a norma delle leggi sul diritto d’autore. Si tratta di immagini che attestano esorcismi con formule non approvate dall’autorità ecclesiastica, ma soprattutto della registrazioni di incontri tra il fondatore e alcuni sacerdoti. Con ogni probabilità si tratta di videoclip girate senza il consenso degli interessati, dalle quali emergono però elementi che le autorità vaticane intendono approfondire. Uno di questi è visibile, per il momento, qui. Dai dialoghi e dalle testimonianze emerge un certo millenarismo: gli Araldi sono convinti che grazie alla Vergine di Fatima sta per avvenire una sorta di fine del mondo che vedrà trionfare monsignor João Scognamiglio Clá Dias. Nel dialogo i preti raccontano di esorcismi nei quali il diavolo annuncia che lo stesso fondatore diventerà Papa («Le chiavi pontificie sono nelle mani del demonio ma stanno per passare nelle mani» di monsignor Scognamiglio) e che le forze sataniche, lo temono più di ogni altro al mondo. Un demonio attraverso la persona esorcizzata avrebbe detto: «Buttami pure addosso acqua santa, ma non acqua passata per le mani di monsignor João». Ancora è documentato come i nomi di Donna Lucilia, di Plinio Corrêa e di monsignor João siano invocati negli esorcismi come potentissimi. Al punto da essere quasi divinizzati. Come si comprende, c’è materia per i dovuti chiarimenti, anche se c’è chi ha cercato immediatamente di presentare la notizia dell’indagine vaticana, tacendo sui suoi gravi e documentati motivi, come un atto d’imperio della Santa Sede per soffocare le realtà più vicine al tradizionalismo. Massimo Introvigne, sociologo torinese che ha studiato per anni i movimenti che derivano da Corrêa de Oliveira e ha raccolto presso la biblioteca del Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni) di Torino, da lui diretto, una vastissima documentazione (come emerge nell’articolo “Tradition, Family and Property (TFP) and the Heralds of The Gospel: The Religious Economy of Brazilian Conservative Catholicismˮ, Alternative Spirituality and Religion Review, autunno 2016), afferma che «molti indizi suggeriscono che all’interno degli Araldi del Vangelo sia praticato una sorta di culto segreto e stravagante a una sorta di trinità composta da Plinio Corrêa de Oliveira, da sua madre Donna Lucilia, e dallo stesso monsignor Clá Días». «Si tratta - aggiunge - di una continuazione di pratiche iniziate almeno una trentina d’anni fa da parte dello stesso Clá Días e da altri all’interno del movimento di Corrêa de Oliveira, già prima della morte di quest’ultimo avvenuta nel 1995. Credo sia importante distinguere tra le opere di Corrêa de Oliveira - controverse specie negli ultimi anni della sua vita, quando si avvicinò a quanti rifiutavano il Concilio Vaticano II, ma di notevole importanza per la storia del pensiero cattolico latino-americano del XX secolo - e le azioni dei suoi veri o presunti eredi. Ho intervistato tre volte Corrêa de Oliveira, interrogandolo anche sulle voci di un culto segreto a lui stesso e a sua madre, e mi ha sempre risposto che si trattava di ragazzate e intemperanze dei suoi seguaci più giovani, in nessun modo da lui proposte e approvate. Può darsi sia stato colpevole almeno di omessa vigilanza. Ma questo non inficia secondo me il valore dei suoi scritti». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 22 Mai così tante matricole da 15 anni, il nuovo exploit degli atenei italiani di Corrado Zunino I ragazzi d’Italia tornano all’università. Le immatricolazioni del 2016-2017, anno accademico che volge al termine, segnalano una crescita impetuosa: 283.414 diplomati

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sono passati dal liceo al dipartimento. Sono 12.295 in più sulla stagione precedente, il 4,3 per cento di crescita: il miglior exploit degli ultimi quattordici anni (nel 2002 crebbero di oltre 15mila). Per l’accademia italiana il 2015-2016 era stato l’anno dell’inversione di tendenza: 5mila nuove matricole in più, una crescita dell’1,9 per cento dopo una discesa iniziata nel 2004 che aveva inaridito le aule. Quest’anno, a seguire, il boom. Il ministero dell’Istruzione ha fotografato i dati a gennaio scorso, ma una verifica di “Repubblica” su 26 atenei certifica che già a marzo i numeri erano in crescita ulteriore e con buona probabilità - a conti fermi - cifre assolute e percentuali saranno superiori. Su 90 atenei (statali, privati e telematici) che hanno riversato i dati al Miur, 58 hanno matricole in crescita e 32 dimagriscono. In particolare, tra le statali (il dato più importante sul piano numerico e politico), a gennaio 2017 quaranta vedono aumentare le matricole rispetto all’anno precedente e ventidue sono in arretramento. Dati più avanzati, tuttavia, spostano la Statale di Milano e il Politecnico di Milano, l’Università di Genova, quelle di Urbino e Macerata in area positiva. E riducono le perdite - legate a nuovi corsi diventati a numero chiuso - del Politecnico di Torino e della Ca’ Foscari di Venezia. Innanzitutto le università del Sud. Crescono finalmente anche loro, in maniera compatta. È il dato forte. Nelle ultime due stagioni si era profilata una dinamica costante: Sud spolpato, grandi e tradizionali atenei del Nord in spolvero. Questo andamento si rifletteva sui ranking internazionali e, soprattutto, sui finanziamenti pubblici ottenuti. Quest’anno al secondo posto della classifica dei nuovi immatricolati si scopre Foggia: + 41,7 per cento. Tremila e cento diplomati iscritti, 750 in più dell’anno scorso. A Giurisprudenza le matricole sono quadruplicate e Scienze dell’investigazione ha accolto ben 568 studenti. L’Università di Foggia, quattro anni fa, prima dell’insediamento del rettore Maurizio Ricci, temeva per la sua sopravvivenza. Crescono sensibilmente il Politecnico di Bari (+16,1%), Messina (+12,7%), Catanzaro (9,7%), Salerno e Palermo (8,6%). Il casus dell’anno è rappresentato dall’Università di Perugia, che guida la classifica: 1.830 ragazzi in più. Perugia attrae giovani lontani: 352 iscritti al primo anno sono siciliani. Spiega il rettore Franco Moriconi: «Offriamo copertura totale delle borse di studio e agevolazioni sulle tasse universitarie, abbiamo riaperto corsi di laurea a numero chiuso e disseminato il centro storico di aule studio». In Sardegna cresce molto Sassari, va giù Cagliari. Ragguardevole la performance di Camerino, ateneo all’interno del cratere del terremoto: più 24 per cento. Torna a calamitare studenti un’altra università in recente e profonda crisi: Siena. Una storia a parte è rappresentata dal mastodonte La Sapienza di Roma: prende millecinquecento immatricolazioni in più e sfiora il 10 per cento di crescita in un panorama romano e laziale, pubblico e privato, in arretramento. Tra le lombarde, spicca la Bicocca. L’Università di Parma s’ingrossa per il secondo anno di fila, ma ieri la ministra Valeria Fedeli ha accolto le dimissioni del suo rettore Loris Borghi (la vicenda dell’arresto del professor Guido Fanelli). Si è da poco dimesso anche il rettore di Roma Tre, Mario Panizza: questione di finanziamenti, ma anche le immatricolazioni non vanno bene. Riassumendo, dopo la grande corsa alle iscrizioni universitarie a inizio Novanta (massimo storico nel 1993) e un ritorno forte con l’invenzione del “3+2”, a partire dal 2003 è iniziato un calo dell’attrazione dell’accademia diventato crollo delle iscrizioni con l’arrivo della crisi del 2008. Nelle ultime stagioni gli atenei italiani hanno rimesso sotto controllo i conti, iniziato a fare orientamento nelle scuole superiori e ora l’università è tornata a crescere. Ingegneria ed Economia restano in cima alle preferenze dei diplomati. La ministra Valeria Fedeli sulla ripresa delle immatricolazioni dice: "E' un segnale che va colto e sostenuto. Per raggiungere questo obiettivo hanno un ruolo fondamentale le politiche dell’orientamento pre-universitario su cui abbiamo investito 5 milioni di euro in più. Daremo l’avvio a una massiccia campagna informativa destinata agli studenti sui servizi a loro dedicati: gli alloggi universitari sono ancora troppo pochi. Servono, poi, la copertura al 100 per cento delle borse per gli idonei, quindi stimoli e incentivi per il merito. Quest’anno ci sarà l’estensione obbligatoria della no-tax area per le famiglie con un reddito al di sotto dei 13mila euro e l’incremento complessivo del fondo statale per il diritto allo studio a 217 milioni. Nel 2018 consegneremo 400 borse agli studenti meritevoli in condizioni economiche svantaggiate. È in questo settore, sicuramente, che intendiamo promuovere rapidamente gli interventi più incisivi e innovativi". Torna al sommario

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… ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Lezioni smarrite di Antonio Polito Mettetevi nei panni di un povero elettore di centrodestra. Ogni volta che lo chiamano alle urne lui va (almeno al primo turno, al secondo s’impigrisce) e fa il suo dovere. E così quella che nella politica dei partiti sembra essere diventata un’accozzaglia di concorrenti litigiosi, nelle urne torna invece a essere la coalizione che dominò la scena per un decennio, e che era maggioranza nel Paese anche quando perdeva le elezioni. Oppure prendete un povero elettore di centrosinistra. Sono anni che lo infastidiscono discutendo se deve avere il trattino o no, se è radicale o riformista, se la sua vocazione è maggioritaria o minoritaria. Ma lui, coriaceo, ogni volta che gli si dà l’occasione va e fa ciò che più gli interessa: impedire che vincano gli altri. Se un solo messaggio politico generale può essere colto da queste elezioni amministrative, in cui tutti i partiti hanno tentato di nascondere il proprio, un po’ anche per la vergogna di non averne uno, al punto di far scomparire i simboli in un festival di civiche, è proprio che le coalizioni, l’unione cioè di diversi ma simili, hanno ancora una notevole forza di trascinamento. È probabilmente per questo, oltre che per i suoi numerosi e ripetuti errori, che il Movimento Cinque Stelle è rimasto al palo. Lo splendido isolamento non giova a nessuno, soprattutto quando non è affatto splendido. Il primo destinatario di questo messaggio è Matteo Renzi, non foss’altro perché è il leader che più di tutti ha tentato di rendere inutili, obsolete e anacronistiche le alleanze. Il suo mantra è stato, fin dall’inizio, meglio soli: senza i vecchi capi da rottamare, senza la sinistra radicale, senza gli scissionisti, senza gli ulivisti, e infine senza i centristi. Alla fine di questa corsa, il Pd deve candidare sindaco a Genova un ex di Sel e deve votare a Palermo per Orlando, del quale era all’opposizione, rinunciando perfino al simbolo. A Palermo ha vinto, a Genova non si sa, in molti comuni parte dietro nel ballottaggio. Ma non è questo il punto. Il punto è che da solo soccombeva puntualmente contro la coalizione di tutti i suoi nemici: un anno fa a Roma e Torino, il 4 dicembre al referendum. Lo stesso Renzi ne deve essere consapevole, se per aggirare il problema ha tentato la scorciatoia di un sistema istituzionale ed elettorale che chiudesse in una camicia di Nesso la peculiarità della società italiana, molto frastagliata, densa di un reticolo di forze e poteri intermedi, pervicacemente pluralista. È questa la vera riflessione che non è ancora venuta dal Pd dopo la sconfitta referendaria: bisogna ricostruire una strategia, e metterla al posto della illusione del colpo di maglio che ti fa sfondare nel campo altrui. Ma ci vuole umiltà e sincerità per conquistarsi alleati. Non si può convocare Pisapia sotto le proprie insegne o snobbarlo a seconda del sistema elettorale del momento. Vale anche per Berlusconi e Salvini. Sappiamo bene che l’appello all’unità in quel campo è ingenuo se prescinde dalla dura realtà di ciò che divide profondamente i rispettivi elettorati. Ma quel mondo in passato riuscì a tenere insieme i nazionalisti di An e i separatisti della Lega Nord, che era come tifare insieme il Real Madrid e il Barcellona. Due collanti però lo univano: la rivolta contro lo stato fiscale e la fame di potere di chi era da sempre un outsider. Forse che queste ragioni non esistono ancora oggi? Con una guida accettabile da tutti, e dunque non estremista, il miracolo potrebbe ripetersi. Il voto dei comuni ha insomma detto che il meccanismo tipico della politica democratica, allearsi con il più vicino per tenere lontano il più lontano, può ancora scattare. Certo, sia a sinistra che a destra, ha bisogno di gente nuova, progetti nuovi, ideali nuovi. Ha bisogno di compromessi, di limitare i numerosi ego ipertrofici che ci sono in giro. Ma corrisponderebbe alla richiesta degli elettori, e sarebbe anche il modo migliore (certamente migliore delle larghe intese dopo il voto) di isolare e piano piano riassorbire la rivolta anti establishment che ancora si affida ai Cinquestelle. E se non lo fanno loro, centrosinistra e centrodestra tradizionali, qualcun altro prima o poi ci proverà, come è accaduto in Francia, dove gli elettori sensati si sono lanciati su un movimento nuovo di zecca, né di destra né di sinistra, pur di impedire agli elettori sovranisti di portare il loro Paese fuori dall’Europa e nell’avventura. Anche perché perfino i Cinquestelle stanno cambiando, mano a mano che cala il vento populista in Europa e torna l’alba di una ripresa economica. Il loro tentativo di diventare più affidabili, di apparire più consapevoli della complessità del Paese, sta provocando un

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contraccolpo elettorale che, unito allo scarso radicamento nel territorio e a una colpevole trascuratezza nel formare una classe dirigente locale credibile, spiega il flop di domenica. Però centrosinistra e centrodestra farebbero molto male a credere che l’allarme è cessato, e che possono riprendere il solito tran tran, tanto la gente ci voterà per fermare Grillo. È davvero troppo presto per scommetterci. Almeno fino a novembre, quando si voterà per il governo della Sicilia. Pag 2 Chi ha vinto e chi ha perso di Dino Martirano Cresce l’astensionismo con l’affluenza che, rispetto al 2012, cala dal 66,8% al 60,1%: il «non voto», comunque, colpisce di più i grillini e il Pd rispetto al centrodestra. Fin qui, la partita delle Amministrative 2017 l’ha vinta nei 25 capoluoghi il centrodestra unito alla Lega. Ma le coalizioni di centrosinistra guidate dal Pd hanno tenuto bene nei 141 Comuni sopra i 15 mila abitanti. Invece i grillini - che soffrono la mancanza di una coalizione e di candidati sindaco credibili - si devono accontentare di 9 ballottaggi minori. Le sfide chiave - Si è votato in 25 capoluoghi. Il centrosinistra si è aggiudicato al primo turno Palermo e Cuneo mentre il centrodestra ha conquistato Frosinone. Nelle restanti 22 città - nelle quali il M5S non passa mai al secondo turno - si sono ribaltati i rapporti di forza tra gli schieramenti, con l’esclusione della candidata del centrosinistra a Verona. Ora il centrosinistra è in testa in 6 ballottaggi (Alessandria, Monza, Lodi, Lucca, Pistoia, Aquila) mentre il centrodestra parte in vantaggio in 13 capoluoghi (Asti, Como, Padova, Verona, Genova, La Spezia, Piacenza, Rieti, Lecce, Taranto, Catanzaro, Oristano, Gorizia). In altre tre città (Parma, Trapani e Belluno) sono le liste civiche ad avere ottenuto il miglior risultato. Alle elezioni del 2012 - osserva il senatore Federico Fornaro (Articolo 1), che è un attento analista dei flussi elettorali - «i rapporti di forza erano capovolti: il centrosinistra, che al primo turno aveva preso Pistoia e La Spezia, era avanti in 13 città; il centrodestra, che al primo turno aveva vinto a Lecce, Catanzaro e Gorizia, affrontò solo due ballottaggi da coalizione che si fa inseguire». Gli altri Comuni - Lorenzo Prignasco, uno dei fondatori di YouTrend - l’account Twitter attivo sulle dinamiche elettorali - ha elaborato i dati dei 141 Comuni sopra i 15 mila abitanti (con esclusione della Sicilia e Friuli Venezia Giulia) in cui si è votato. In questo caso, il centrosinistra è ancora in vantaggio perché conquista 22 sindaci al primo turno, mentre nei ballottaggi è primo in 45 casi e secondo in 41 città. Il centrodestra, dunque, insegue: ha vinto 8 città al primo turno, e nei ballottaggi è in testa in 44 città ed è secondo in altre 33. Il M5S conquista 8 ballottaggi (9 se si conta anche la Sicilia: Fabriano, Guidonia, Acqui Terme, Carrara, Canosa, Santeramo, Ardea, Mottola) ed è primo solo in un Comune sopra i 15 mila abitanti. Astensioni e tradimenti - A Parma, dove è in testa il sindaco uscente Federico Pizzarotti, che ha lasciato il Movimento 5 Stelle, e a Genova, dove al ballottaggio vanno centrodestra e centrosinistra, è successo che molti elettori grillini si siano rifugiati nell’astensionismo: «A Parma - rileva l’Istituto Cattaneo nell’analisi di Rinaldo Vignati - gli elettori che nel 2012 avevano scelto Pizzarotti si sono divisi tra chi ha rinnovato la sua fiducia al sindaco e chi ha preferito astenersi». E anche a Genova, dove il candidato di Grillo è andato male, nel bacino elettorale dei pentastellati «la componente più grossa, pari all’11% del corpo elettorale, preferisce l’opzione del non voto». Inoltre, secondo Prignasco di YouTrend, «Pizzarotti ha ricevuto voti anche da chi, nel 2012, aveva sostenuto il candidato del Pd». Nel centrodestra la differenza rispetto al 2012 la fa l’alleanza con la Lega che risulta vincente ovunque: a Genova, osserva ancora il Cattaneo, «il candidato del centrodestra Bucci mantiene solidamente l’elettorato del proprio schieramento e fagocita quasi per intero quello che nel 2012 votò per il candidato della Lega». Le (ex) roccaforti rosse - L’Istituto Cattaneo segnala a Genova, confrontando i dati delle Politiche del 2013, «forti perdite verso l’astensione subite dal Pd» ma anche travasi di voto di «un certo rilievo a favore del candidato pentastellato Pirondini». L’analisi di Fornaro (Articolo 1) mette a fuoco 4 città nelle quali il centrosinistra, pur andando al ballottaggio, ridimensiona i consensi al primo turno: «Nel 2012, a Taranto si sfiorò il 50% e oggi si registra un 17,9%; a La Spezia si passa dal 52,5% al 25,1%; a Lucca la contrazione è dal 46.8% al 37,%, con un centrodestra cresciuto al 35%; a Pistoia, flessione dal 59% al 37,%». Dunque, sintetizza il Cattaneo, il bacino dei candidati del

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centrosinistra ha subìto, in diverse città, significative perdite verso l’astensione. Il centrodestra ha saputo mantenere maggiormente serrati i propri ranghi. Per il M5S si osserva una dispersione in tante direzioni diverse». Pag 12 Coalizioni contrastate dai veti reciproci di Massimo Franco L’impressione è che la spinta delle Comunali si indebolirà presto. Un po’ perché il risultato di ieri non riesce a ricalcare i rapporti di forza di oggi. Un po’ perché le tensioni nel centrosinistra e nel centrodestra sono ostacoli oggettivi a creare coalizioni tali da ricreare un sistema bipolare. E molto, perché non esiste un sistema elettorale in grado di delineare alleanze e schieramenti da qui al voto politico. La battuta d’arresto del Movimento 5 Stelle ha creato negli avversari un’euforia che appare esagerata. Beppe Grillo non è riuscito a andare ai ballottaggi, e il Movimento è in fermento. Ma sarebbe azzardato sovrapporre i risultati di domenica a elezioni nazionali. La divisione del Parlamento in tre tronconi non sembra destinata a cambiare. Anzi, se si andasse alle urne con un semplice aggiustamento delle leggi ereditate dalle sentenze della Corte costituzionale, Camera e Senato andrebbero verso maggioranze diverse; e probabilmente il primo beneficiario sarebbe il M5S. Grillo cerca di fare coraggio ai suoi quando descrive il voto alle Comunali come la tappa di una «crescita lenta ma inesorabile». In realtà, ha perso anche nella sua Genova, pagando errori marchiani. Non si può dire, tuttavia, che il Movimento sperasse in una vittoria, col suo radicamento approssimativo. Piuttosto, la sconfitta di Grillo fa da velo al risultato in chiaroscuro del centrosinistra. Nasconde l’affanno di un partito, il Pd, che non ha intercettato l’emorragia dei voti di Grillo ed è calato, come dimostra l’analisi sui flussi dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Si registra un sostanziale spostamento a destra del potere locale, con l’incognita di ballottaggi in grado di accentuarlo. La battuta d’arresto grillina maschera anche le magagne dell’alleanza Lega-Forza Italia. La differenza è che Silvio Berlusconi non vede un ritorno del bipolarismo, né sottovaluta la tenuta di Grillo. In realtà, nel Pd che si mostra soddisfatto non decolla una coalizione con l’area dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. La candidatura a Palazzo Chigi di Matteo Renzi rappresenta un ostacolo: al punto che ieri il ministro Graziano Delrio ha intimato a Pisapia di non mettere «veti sul segretario del Pd». Il modo in cui la nebulosa dell’ex sindaco cerca di solidificarsi ha i contorni di una «sinistra alternativa». Quanto all’altro polo, Berlusconi non vuole allearsi con il Carroccio: tanto più con Matteo Salvini che tratta FI come comprimaria e si vede già candidato premier. Salvini racconta un’Italia nella quale la Lega sarebbe prima nel centrodestra, trascurando un Centro-Sud dove è molto più debole. La somma di questi veti incrociati trasmette la sensazione di un sistema senza baricentro. Potrebbe esserlo il Pd, ma le continue oscillazioni su alleanze, sistema elettorale e voto, lo rendono un interlocutore mercuriale. Alleati e avversari temono che continui a accarezzare l’ipotesi di urne anticipate, approfittando di un incidente in Parlamento. Timore forse eccessivo, ma palpabile. LA REPUBBLICA Pag 1 Meglio non vendere la pelle del Grillo di Ilvo Diamanti Meglio essere prudenti prima di dare per “finito” il M5S. Prima di leggere il risultato delle amministrative di ieri come segno, inatteso, di un’inversione di rotta. Il primo passo di un declino inarrestabile. Conviene attendere altri test elettorali. Perché le elezioni amministrative costituiscono un passaggio politico importante, soprattutto quando hanno l’ampiezza di questa consultazione. Ma sono, più di ogni altra elezione, condizionate da ragioni e fattori “locali”. Tanto più dopo il 1993, quando la nuova legge sull’elezione diretta dei sindaci ha “personalizzato” il voto, per restituire legittimità allo Stato e alle istituzioni, dopo il crollo della Prima Repubblica e le inchieste sulla corruzione dei partiti e della classe politica della Prima Repubblica. In effetti, anche l’affermazione del M5S riflette la crisi dei partiti e della classe politica, dopo il crollo del “muro di Arcore”, che aveva segnato i confini della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata “da” e “su” Berlusconi. L’ascesa del M5S era avvenuta proprio cinque anni fa, alle amministrative del 2012. Quando Federico Pizzarotti, allora sconosciuto ai più, era divenuto sindaco di Parma, nella sorpresa generale. Anche a Parma. Tuttavia, in seguito,

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il rendimento elettorale del M5s ha seguito un modello preciso. Forte e competitivo in ambito nazionale, molto meno alle elezioni amministrative. Per due ragioni, fra le altre. Perché a livello locale contano i candidati. E, in secondo luogo, occorre disporre di tradizioni e di basi organizzative. Per questo il M5S ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta. Per dare un’idea e una misura di questa tendenza bastano poche cifre. Nel 2013, alle elezioni politiche, con oltre il 25% dei voti validi, il M5S diventa primo partito in Italia. Ma, solo due mesi dopo, alle elezioni comunali vince in 2 soli comuni “maggiori” (con oltre 15 mila abitanti) sui 92 nei quali si vota. Successivamente, questo trend si ripete, talora amplificato. Nel 2014 si rinnovano le amministrazioni in 243 comuni maggiori: il M5S ne conquista solo 3. Eppure, alle – concomitanti – elezioni europee, aveva ottenuto il 21% dei voti validi. Secondo, a distanza, dietro al Pd di Renzi (oltre il 40%). La tendenza non cambia neppure nel 2015, quando il M5S vince in 5 comuni, fra i 108 nei quali si vota. Oggi, infine, è al ballottaggio in 9 fra i 160 comuni maggiori al voto. Così, la vera discontinuità con la breve storia elettorale del M5S, è costituita dalle elezioni amministrative di un anno fa. Nel 2016. Quando il MoVimento ispirato da Grillo conquista la guida di 19 comuni, fra i 143 al voto. Ma, soprattutto, vince a Roma e Torino. Due capitali. Che danno a quel voto un chiaro significato “nazionale”. Anche allora, dunque, il M5S riproduce l’impronta di “partito senza territorio”, apparsa evidente fin dalle elezioni politiche del 2013. Quando risultò primo o secondo partito praticamente in tutte le province italiane. Mentre gli altri partiti maggiori, nella storia della Repubblica, hanno ri-proposto una geografia specifica. La DC e, in seguito, i Forza-leghisti: “impiantati” nella periferia produttiva del Nordest e del Nord, ma anche in molte aree del Mezzogiorno. Mentre le basi elettorali dei partiti della Sinistra – a partire dal Pci e dai suoi eredi – sono sempre state “forti” nelle zone definite, non per caso, “rosse” dell’Italia Centrale. Il M5S, invece, non ha radici né tradizioni territoriali. O meglio: sfrutta quelle degli altri. Perché intercetta i propri elettori dal rifiuto verso i partiti e la politica tradizionali. Canalizza e amplifica il ri-sentimento. Politico e sociale. Contro tutti. Così, spesso, allarga i suoi consensi nei ballottaggi, quando si vota non per il “più vicino”, ma per il “meno lontano”. Per questo, come abbiamo mostrato in un Atlante Politico di pochi giorni fa, ha basi forti fra i più giovani, fra gli operai, fra gli stessi imprenditori. I più esposti alla globalizzazione. E per questo fatica a rendere stabili le proprie basi elettorali. D’altronde, ha rimpiazzato il territorio con la rete e con il digitale. O meglio: il suo territorio è digitale. E dunque fluido. La sua azione è ispirata alla contro-democrazia, come la definisce Pierre Rosanvallon. La democrazia del controllo e della sorveglianza. Che stenta a sedimentare. A costruire un “popolo” di riferimento. Anche per questo il M5S fatica a “stare sul territorio”, a selezionare e presentare candidati conosciuti e autorevoli. La Rete, a questo fine, non basta. Tanto più perché, a sua volta, è sorvegliata dal Garante. In modo non sempre comprensibile ai “suoi” stessi elettori. Com’è avvenuto a Parma, dove Pizzarotti oggi è un avversario. Mentre nei “luoghi amici” del fondatore, come a Genova, gli elettori preferiscono rivolgersi altrove. Perché il M5S appare in bilico. Canale di critica e mobilitazione. Ma anche soggetto politico che mira a governare. Visto che nei sondaggi contende il primato al Pd, con quasi il 30% dei consensi. A livello nazionale. Questo è il vero rischio per il M5s. Di apparire, agli occhi degli elettori, un partito come gli altri. E di perdere la sua “diversità”. Mentre per la classe politica dei partiti nazionali il rischio è di considerare la battuta d’arresto del M5S in questo primo turno una svolta. Irreversibile. Sul piano nazionale. Salvo scoprire, alle prossime elezioni politiche, una realtà molto diversa. Dai propri desideri. Perché, come recita un antico proverbio, è meglio non vendere la pelle di Grillo prima di averlo catturato davvero… Pag 1 L’eternità del Cavaliere di Stefano Folli La strada verso il ritorno al bipolarismo è ancora lunga e accidentata. Non ha torto Berlusconi quando invita alla prudenza. Del resto, il fondatore di Forza Italia ha tutto l' interesse a non voler porsi a rimorchio di Salvini, specie ora che in Francia il "lepenismo" euroscettico - ispiratore della Lega - si è sgonfiato. Tuttavia la matassa è aggrovigliata, più di quanto non appaia a prima vista. È vero che si è verificato un parziale risveglio del

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centrodestra nelle città, per cui la coalizione è favorita in numerosi ballottaggi da sud a nord, compresa Genova. Ed è altrettanto vero che l'alleanza obbligata di Forza Italia e Lega è alla base di tale ripresa. Ma tutti sanno che questa intesa, che potremmo chiamare "linea Toti" dal suo fautore, il presidente della Liguria, non è facilmente trasferibile sul piano nazionale. Quanto meno Berlusconi non ha alcuna voglia di cimentarsi in una simile impresa, il cui dividendo politico sarebbe appannaggio di altri: Salvini, in primo luogo. È la ragione per cui l'anziano leader sta sottolineando da qualche tempo il carattere "cattolico e liberale" del suo partito, nel solco dei Popolari europei di Angela Merkel. Come dire: noi rappresentiamo tutt'altra storia rispetto ai "sovranisti" del Carroccio. E c'è persino chi prevede che al dunque le liste di Forza Italia si apriranno ai transfughi leghisti, agli autonomisti della prima ora, forse allo stesso Umberto Bossi. Resta da capire come tutto questo sia compatibile con un'alleanza pre-elettorale della destra nel segno del nuovo bipolarismo. Sulla carta non lo è, ma è noto che i percorsi della politica spesso sono imprevedibili. In ogni caso è opportuno non dimenticare una semplice verità: il sistema proporzionale non agevola le coalizioni, bensì il loro contrario. Ogni forza tende a marcare la propria identità, soprattutto quando manca qualsiasi incentivo allo stare insieme. Certo, una volta fallito il modello pseudo-tedesco, quel che resta, ossia il sistema plasmato dalla Consulta, prevede un premio in seggi a chi supera il 40 per cento. Ma nessuno oggi pensa seriamente di raggiungere quella soglia. Solo Renzi ha buttato lì che una lista di centrosinistra Pd-Pisapia ci riuscirebbe. Ai più è sembrata una battuta detta per farsi coraggio. E comunque non si tratterebbe di una coalizione, bensì di una lista estesa fino all'annessione dell'ex sindaco di Milano e del suo Campo progressista, escludendo - va da sé - gli scissionisti di Bersani. La verità è che si è persa e ripersa l' occasione di approvare una legge elettorale fondata sulle coalizioni. Non le volevano, per ragioni diverse, né Renzi né Berlusconi. E adesso probabilmente é troppo tardi. Ne deriva che, quando si parla di nuovo bipolarismo, si immagina uno scenario poco realistico, almeno su scala nazionale. E infatti la legge elettorale dei comuni è ben diversa da quella per il Parlamento. Per riassumere, a Roma siamo a zero: niente autentico modello tedesco, niente proporzionale con premio alla coalizione, niente maggioritario. Come si può parlare di ritorno al bipolarismo? Solo perché delle tre gambe del tavolo su cui poggia il sistema politico, una ha fatto "crac": quella dei Cinque Stelle. Ma non è sufficiente. Anzi, la realtà è impietosa: i voti persi dal M5S non hanno gonfiato le vele del Pd. E quindi il vantaggio di Renzi è solo politico, nasce dalla soddisfazione di assistere alla caduta del rivale Grillo. In verità chi trae beneficio da tutti questi scossoni è l'eterno Berlusconi. Con il suo partito risulta meglio collocato del Pd in vista dei ballottaggi. Ed è stato rimesso al centro della scena proprio da Renzi con le pasticciate manovre sulla legge elettorale. Il resto lo hanno fatto i litigi pubblici e un po' stucchevoli fra renziani e grillini su chi avesse la responsabilità del fallimento. Forse ci si deve augurare di tornare al tavolo della legge elettorale. Ma con l' idea di aprire la strada a veri collegi uninominali, come ce ne sono sia in Francia sia in Germania (pur all'interno di modelli diversi). Non vale rimpiangere l'Italicum, bocciato perché incostituzionale e utile più che altro a ingessare il Parlamento. AVVENIRE Pag 1 Pesare bene i (non) voti di Marco Tarquinio Un verdetto e un effetto ottico Il primo turno amministrativo nei mille Comuni chiamati al voto in questo giugno 2017 torna a sottolineare un duplice e problematico sfarinamento che contrassegna ormai stabilmente il sistema della rappresentanza politica in Italia. Sfarinamento della fiducia nell’utilità del voto: il povero 60% di partecipazione alle urne nelle più classiche 'elezioni di prossimità' non è solo un dato deludente, è un allarme sempre più forte e che non si può continuare a dimenticare non appena si cominciano a maneggiare i consensi espressi da chi si è comunque recato ai seggi. Questi ultimi, come sempre, ovviamente e democraticamente contano (e illudono), quelli – i non-voti ostinati o in provvisoria e insoddisfatta attesa – pesano (e minacciano) più che mai. E chi dovesse continuare a pensare che i voti (e i non voti) «si contano e non si pesano» potrebbe non aver capito molto di ciò che sta passando nella vita e nella testa di tantissimi italiani e a quali sorprese questo scollamento amaro e spesso indignato può portare. Sfarinamento del

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consenso tra una molteplicità di 'poli': nelle ultime ore, a caldo, si è parlato un po’ troppo di un possibile ritorno al bipolarismo che abbiamo conosciuto negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica. È vero che tra due settimane centrodestra e centrosinistra saranno i duellanti di gran lunga più frequenti, ma è altrettanto vero che persino col sistema per l’elezione diretta dei sindaci e delle loro maggioranze di governo – cioè con la legge-madre di quel bipolarismo, che ha dominato, ma poco e male ha funzionato per il Paese – in tante nostre città si sono solidificati almeno quattro poli di riferimento (oltre a centrodestra e centrosinistra, pentastellati e 'civici' di diversa colorazione). Per di più, persino con regole che incentivano al massimo l’aggregazione e il voto di due grandi coalizioni contrapposte, è tornata a manifestarsi l’onda neoproporzionalista segnalata dall’infittirsi di bandiere e bandierine 'identitarie' relativamente competitive (anche se il più delle volte non sufficienti e autosufficienti in termini di governo delle città). Insomma: si vota per più soggetti, ma sempre di meno. E questa crescente 'fatica della scelta' non dovrebbe lasciar tranquillo nessun protagonista (o aspirante tale) della politica nazionale. Detto ciò, e in attesa tra due domeniche dei ballottaggi che, visti i pochissimi successi al primo turno (in particolare quelli di Leoluca Orlando a Palermo e di Nicola Ottaviani a Frosinone), decideranno come forse mai prima bilanci ed esito complessivo della battaglia elettorale amministrativa in corso, qualche altra annotazione appare utile e necessaria. Non c’è dubbio che il risultato del Movimento 5 Stelle sia il più evidentemente insufficiente, non tanto rispetto alle ragionevoli attese (stavolta non erano alle viste, anzi, colpi clamorosi come la conquista di Roma e Torino), quanto al trend complessivo ed esplosivo di questi anni. L’esclusione da tutti (o quasi) i ballottaggi maggiori non consentirà al 'terzo polo' per eccellenza di far fruttare la seconda scelta (contro l’avversario più tradizionale) di tanti elettori di centrodestra o centrosinistra. Per Beppe Grillo e i suoi c’è da riflettere. Senza l’impegno forte e diretto del leader, il Movimento – pur dimostrando di godere ormai di un certo radicamento – non vola. Ma allo stesso tempo, con una direzione verticistica all’insegna del «fidatevi di me», Grillo e i consiglieri più stretti (Casaleggio jr. in testa) a livello locale – e persino in casa del gran capo, a Genova – trovano quasi ovunque avversari interpreti dello 'spartito civico' più attraenti di loro anche se non necessariamente vincenti. Proprio come a Parma, teatro del pur non irresistibile assolo del 'licenziato' proto- sindaco a 5 Stelle Federico Pizzarotti. I due poli 'storici' – imperniati, a sinistra, sul Pd post- scissione e, a destra, sull’alleanza tattica e competitiva tra il neo-europopolare Berlusconi e il populista antieuropeo Salvini – occupano la scena e si occuperanno (in proporzioni ancora largamente da stabilire) dei Comuni dove si è votato. Qui si deciderà, come è naturale, l’esito finale di questa prova elettorale. Ma su un piano politico più generale dovranno guardarsi entrambi dall’effetto ottico di un 'ritorno al passato' (forse più maturo e meno rissoso o forse proprio no) che sembra esserci stato domenica scorsa, ma che non ci sarà nel voto per il prossimo Parlamento. Certo non con le regole elettorali 'amputate' che vengono chiamate 'Consultellum' (uno e due). Un sistema senza logica unitaria, che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il puro buon senso – o, meglio, il senso del bene comune – invitano ad armonizzare e integrare per garantire diretta e fedele rappresentanza dei cittadini e, almeno in potenza, governabilità. Pag 3 Un voto che stressa i partiti di Angelo Picariello Cala l’affluenza, M5S fuori dai ballottaggi, 22 sindaci al Pd, 8 a Fi e Lega. I dem giù nelle zone rosse, centrodestra a trazione leghista Preoccupante calo di affluenza alle urne. Frammentazione 'sistemica' del quadro politico che impedisce, con poche eccezioni, l’emissione di verdetti definitivi sin dal primo turno. Partiti non più in grado di offrire ai candidati un valore aggiunto che faccia la differenza. Non fa eccezione nemmeno il partito anti-sistema per antonomasia, che anzi esce particolarmente malconcio da questo rilevante turno elettorale, che coinvolgeva ben 25 capoluoghi di provincia (di cui quattro capoluoghi di Regione) e oltre 9 milioni di elettori. Se si volesse commentare questo turno elettorale facendo ricorso all’umorismo caustico di cui il leader di M5S è maestro non mancherebbero certo appigli per farlo. Si potrebbe ironizzare ad esempio sulla vittoria a Guidonia Montecelio, magro bottino per un movimento che solo un anno fa riuscì ad aggiudicarsi di gran carriera la guida di Roma e

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Torino. O si potrebbe far ricorso agli 'alleggerimenti' che lo stesso capo fornisce, nel presentarsi alla cabina elettorale con il casco in testa, come nel presagio di colpi in arrivo dalle urne, o nell’andare addirittura al 2102 pur di accreditare nel raffronto un perdurante trend di crescita. Ma – umorismo a parte – ha ragione Beppe Grillo quando invita tutti a non dare per spacciato il suo movimento nelle aspirazioni di governo. T uttavia la botta c’è e non è possibile minimizzarla, lo pensano anche i militanti che affollano preoccupati il blog pentastellato. Il supporto del simbolo stavolta non è riuscito a trasformare in virtù il deficit di esperienza e la corsa in solitaria. Soprattutto bruciano per M5S le due sconfitte di Genova e Parma. Genova, la città del leader che aveva messo in campo tutto il suo peso carismatico per bocciare il responso delle 'Comunarie' che avevano promosso Marika Cassimatis, dando poi il pieno appoggio al nuovo designato a Luca Pirondini. Candidato alla fine più che doppiato dal centrodestra, ma sopravanzato di 15 punti anche dal pur deludente centrosinistra che a Genova rischia di perdere una roccaforte più duratura persino della 'rossa' Bologna, dove ci fu spazio per la parentesi Guazzaloca. Ancora più rilevante sul piano simbolico, e schiacciante nel suo esito, il dato di Parma, dove il ribelle Federico Pizzarotti (avanti solo di due punti sul candidato del centrosinistra) dovrà ancora sudarsela, ma ha già umiliato intanto il suo ex partito, fermo al 3%, condannandolo a non entrare nemmeno in Consiglio comunale. M5S, che non va oltre un magro 9% nel dato complessivo nazionale, scontando certamente la partenza a ostacoli delle giunte di Roma e Torino. Non è automatica la ripercussione sulle aspirazioni nazionali del Movimento (gli ultimi sondaggi lo collocano ancora testa a testa con il Pd) ma certo è un pesante campanello di allarme M a se Atene piange Sparta non ride. La dice lunga il piccato rifiuto ad andare ospite a La7 da parte di Leoluca Orlando offeso per esser stato annunciato da Enrico Mentana come esponente «del Pd». Il risultato più eclatante del centrosinistra, la trionfale affermazione di Palermo vede il partito di Renzi recitare il ruolo del grande escluso dai festeggiamenti: rifiutato il simbolo sulle liste ora diventa sconveniente anche l’accostamento col candidato vincitore. Un episodio emblematico di come sia stato ridimensionato il peso specifico dei partiti. Se il centrosinistra raccoglie complessivamente un significativo 36,8%, nel dato nazionale l’apporto del partito guida è al di sotto della metà (16,6 per cento) e notevole è il contributo delle civiche. Numericamente resta la prima coalizione, ma il deficit di strategia e le divisioni fanno sì che (aggiudicatasi Palermo e Cuneo al primo turno) solo in 6 capoluoghi il centrosinistra parta in vantaggio in vista del secondo turno del 25 giugno. Mentre il centrodestra è in vantaggio in 13 casi. A Verona Pd addirittura fuori dal ballottaggio ad opera della candidata civica e centrista Patrizia Bisinella, compagna del sindaco uscente Flavio Tosi. Male il centrosinistra anche in Puglia dove il Pd, dilaniato dallo scontro interno che ha visto come protagonista il governatore pugliese Michele Emiliano, accede al ballottaggio in posizione di svantaggio sia a Lecce che a Taranto. Lo stesso accade anche a Catanzaro, dove pesa la divisione con i bersaniani. Ottimo risultato, invece, per il centrosinistra a L’Aquila, dove per il dopo-Cialente è in forte vantaggio Americo Di Benedetto. Complessivamente, includendo i piccoli centri, sono però 22 i sindaci già assegnati al centrosinistra, 8 al centrodestra. Modello Liguria, invoca il governatore Giovanni Toti per il centrodestra. Ed è certamente Genova il dato più importante per il centrodestra. Ma pari pari come Palermo nel centrosinistra è un risultato che crea non pochi problemi al partito che si candida a essere la guida della coalizione, almeno nelle intenzioni di Silvio Berlusconi. Primo partito, infatti, nel robusto schieramento a sostegno del manager Marco Bucci (che arriva al ballottaggio da favorito con 5 punti di vantaggio) è la Lega, con il 13%, e seconda è la civica 'Vince Genova', ispirata dallo stesso Toti, con Forza Italia solo terza all’8. Il centrodestra raccoglie nel dato complessivo nazionale il 34,2%, 2,6 punti sotto il centrosinistra. Lega leggermente avanti a Forza Italia, ma i due partiti insieme, entrambi intorno al 7%, non fanno nemmeno la metà della coalizione, anch’essa presidiata in modo robusto da liste civiche o 'personali'. Eclatante il dato di Padova dove l’uscente, il leghista Bitonci, è vicino alla riconferma (essendo oltre il 40 per cento), ma la prima lista a suo sostegno è quella che reca il suo stesso cognome, con il 24%. Ma, dati alla mano un altro risultato appare evidente, in proiezione della legge elettorale e del voto politico che verrà. Quand’anche le due coalizioni (divise in Parlamento) fossero in grado di riconquistare l’unità che mantengono nelle competizioni locali sarebbero entrambe ben lontane dal poter ambire (con la mera fotografia dell’esistente che il proporzionale

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realizza) all’autosufficienza, e anche in caso di riesumazione dell’Italicum i poli si mostrano tutti lontani dall’obiettivo del 40% che farebbe scattare il premio di governabilità. Altro che neo-bipolarsmo. E anche Angelino Alfano non si dà per vinto: «Siamo presenti da Nord al Sud - dice - in alcuni punti anche oltre il 10%». Un brutto campanello d’allarme che conferma i timori del Quirinale per la governabilità e l’omogeneità del sistema elettorale che si sta, finora invano, cercando di individuare. Si aggiunge, intanto, un pericoloso ritorno alla disaffezione dal voto, con il 60 per cento di affluenza che fa registrare la perdita di 8 punti secchi nel confronto con l’ultimo dato omologo. Disaffezione che, nelle analisi dei flussi elettorali condotte dall’Istituto Cattaneo, riguarderebbe soprattutto M5S e Pd. I due partiti maggiori che escono più malconci da questo turno elettorale. Torna al sommario IL GAZZETTINO Pag 1 I moderati italiani resistono e battono un colpo di Marco Gervasoni Nessun uomo è un'isola. E neppure nessun sistema politico. Perciò anche in Italia, con queste amministrative, osserviamo un fenomeno confermato in tutta Europa. Non il trionfo dei populismi ma la resistenza dei conservatori o moderati o centrodestra (ognuno li chiami come vuole). Anche i recentissimi turni elettorali inglesi e francesi l'hanno dimostrato. Nel Regno Unito, non ne abbiano a male i fan di Corbyn, sono i Tories ad avere raccolto più voti. Quanto alla Francia, un bel pacchetto dei consensi macroniani vengono dai Républicains. E per il momento a Matignon l'esecutivo è più vicino al centrodestra che alla sinistra. In Germania, in Austria, in Spagna, in Grecia, poi, sono i moderati ad essere in testa. Sarebbe sbagliato calare tendenze europee su Genova, su Verona, su Rieti o su Taranto. Ogni città fa caso a sé. E poi bisognerà, prima di stendere un vero bilancio, contare veramente quanti saranno i sindaci di quell'area a vincere. Però gli elettori di centrodestra ci sono e, per la verità, non se ne erano mai andati: l'anno scorso, a Milano, la cosiddetta capitale del renzismo, Parisi stava per vincere. E anche a Roma sarebbe potuto accadere se il centrodestra si fosse presentato con un unico candidato. La realtà è che dei voti di questa famiglia politica, crollati rispetto alle elezioni del 2013 (per non parlare di quelle del 2008), si sono appropriati in maniera episodica e minima il primo Renzi, in forma un po' più solida i 5Stelle, ma molti sono confluiti nell'astensionismo. Quando l'offerta è credibile, però, l'elettorato moderato e conservatore preferisce uno dei suoi. Come accaduto due giorni fa. L'altro fenomeno nuovo, di cui pochi si sono accorti, è la crescita di una classe politica locale giovane e dinamica, in particolare dalle parti di Forza Italia: le vittorie per certi versi strepitose a Perugia nel 2014 e alla Regione Liguria l'anno successivo, sono state anche merito suo, così come il buon risultato di domenica. A dire il vero uno l'ha capito: Berlusconi. Bisogna infatti riconoscere al Cav., dato per l'ennesima volta per defunto (politicamente), di aver previsto che le tendenze trumpiste e lepeniste, in gran spolvero fino a pochi mesi fa, avevano ben poco nerbo e avrebbero solo assicurato la disfatta nel caso i moderati le avessero abbracciate. Un capo, colui che vede più lontano, nel centrodestra c'è. Ed è qualcuno, in una campagna elettorale nazionale, ancora in grado di far crescere i consensi, nel caso si impegnasse in prima persona; e non è detto che debba per forza essere candidabile. A fronte di questa relativa vivacità, la classe dirigente nazionale del centrodestra sembra però smarrita, divisa, incerta sul da farsi. Divisa, lo è sui temi chiave: mentre Forza Italia si riconosce nel popolarismo europeo, che non vuol dire acriticamente europeista, Salvini ha puntato tutto sull'anti-Europa. Ha perso, ma i consensi della Lega sono cresciuti. Li manterrebbe, questi voti, se si posizionasse più vicina a Tajani che a Le Pen? Il secondo problema sta nell'urgenza di rivitalizzare la classe dirigente nazionale di Forza Italia: come si è visto in Francia, e in parte anche nel Regno Unito, gli elettori vogliono volti nuovi. Potrà sembrare una constatazione rozza, ma è così. Questioni che avrebbero potuto essere rimandate sine die se il parlamento avesse approvato il proporzionale finto-tedesco. Ma al voto con il cosiddetto Consultellum, che tende a favorire i cosiddetti listoni, il centrodestra non può sfuggire da ricercare l'unità. Su un programma liberale e pro mercato, con un’attenzione alla solidarietà sociale; europeista critico; fermo sulle questioni della sicurezza;

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conservatore (ma non fanatico) sulla difesa dei valori della tradizione. Come, appunto, i partiti del centro-destra europeo. Pag 2 Lezione dalle comunali: vince chi è in coalizione di Alda Vanzan In Veneto punita la presunzione dell’autosufficienza: rinascono centrodestra e centrosinistra. I singoli partiti “cannibalizzati” dalle civiche. E ora parte la corsa agli apparentamenti Nessuno, da solo, ce la fa. Si perde se ci si spacca. Si scompare se si ha la presunzione dell'autosufficienza. I veneti che domenica sono andati a votare sono tornati a premiare le coalizioni, costringendo al ballottaggio le forze che si sono divise. Siamo tornati al centrodestra contro il centrosinistra, se l'obiettivo prossimo futuro sono le Politiche, o viceversa se il riferimento è solo locale. Un centrodestra, tra l'altro, che pur sommando liste che delle vecchie glorie hanno solo i ricordi, è comunque tornato competitivo. PRIMO TURNO - In attesa di vedere come andrà tra quindici giorni il ballottaggio nei principali centri, a partire dai tre Comuni capoluogo di provincia - Padova con Bitonci e Giordani, Verona con Sboarina e Bisinella, Belluno con Massaro e Gamba - il primo turno consegna un Veneto che premia le coalizioni, bastona il Movimento 5 stelle, ma non risparmia neanche i partiti specie se devono fare i conti con le liste che portano i nomi dei candidati sindaci. A Padova il primo partito è la Lista Bitonci (24,1%9) che cannibalizza tutti, dalla Lega (6,6%) a Forza Italia (3,9%). A Verona per gli azzurri è ancora peggio: 3,4%. «Il partito c'è ed è forte - continua a ribadire il commissario regionale di Forza Italia, Adriano Paroli -. Il punto è che abbiamo privilegiato la coalizione e in questo siamo stati premiati, ma siano stati penalizzati come lista: ci aspettavamo il 10%, abbiamo preso il 4. Ma lavorando riusciremo a riportare Forza Italia a livelli più alti». La bandierina da sventolare per gli azzurri è Conegliano, dove il segretario provinciale trevigiano Fabio Chies sbaraglia la concorrenza e, con la coalizione di centrodestra unita, conquista il municipio con il 51% dei voti. A Padova il Pd non è stato cannibalizzato dalla Lista Giordani, ma il 13,48% ottenuto domenica dai dem è quasi la metà di quel 25% preso alle Regionali del 2015, quando pure il centrosinistra di Alessandra Moretti andò non male, ma peggio. Forse è il prezzo di mesi di paralisi in attesa di un congresso celebrato troppo tardi. La Lega nella Città del Santo può festeggiare Massimo Bitonci, ma a Belluno dove la coalizione si è spaccata il Carroccio resta al palo esattamente come il Pd di Paolo Bello. VITTORIE E SCENARI - A Verona è indubbio il successo di Flavio Tosi. Il sindaco uscente può intestarsi il primo turno: la sua lista ha preso più del Pd e più della Lista Sboarina. Senza contare che ha sbaragliato sondaggi ed exit poll: lui e Bisi erano dati per esclusi al ballottaggio, ora sulla carta possono allargare i consensi puntando sull'elettorato di centrosinistra, continuando quell'intesa già avviata a Palazzo Madama. Non è un caso che il responsabile nazionale Enti locali del Pd, Matteo Ricci, abbia già parlato di «voto utile contro la Lega». TONFO PENTASTELLATO - Col senno di poi vien da pensare che la conquista di Mira, cinque anni fa, da parte dei pentastellati sia stata più per demeriti altrui che per meriti propri. Nella cittadina veneziana il M5s stavolta non va neanche al ballottaggio, anche se va registrato che il 20% della candidata sindaca arrivata terza Elisa Benato è il miglior risultato ottenuto in tutto il Veneto: il peggiore è Belluno (3,6%) e Padova non fa tanto meglio (5%). I pentastellati possono consolarsi con Sarego, il primo Comune del Veneto conquistato nel 2012, dove il sindaco uscente Roberto Castiglion ottiene la riconferma sfiorando l 42%. Ma è una consolazione amara. I FLOP DEI BIG - Ci si candida anche per spirito di servizio visto che, ricoprendo cariche prestigiose, teoricamente si dovrebbe contribuire a tirar su più voti possibili. Ma le performance dei consiglieri regionali del Veneto non sono state poi così brillanti. La più delusa forse Orietta Salemi, che ha preso il 22% e che per 1.218 voti, un punto percentuale, ha mancato il ballottaggio a Verona. Terzo a Belluno, con l'11%, anche il leghista Franco Gidoni. Solo il leghista Alberto Semenzato andrà al secondo turno a Mirano, partendo da un 14% contro il 38% della presidente dell'Anci Maria Rosa Pavanello. Nel Carroccio c'è anche chi si è candidato consigliere comunale semplice: a Padova il bulldog Roberto Marcato ha preso 469 preferenze, classificandosi secondo.

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Risultato da assemblea condominiale per il presidente della commissione regionale Sanità Fabrizio Boron: 38 preferenze. INDIFFERENZA - Alle precedenti amministrative solo 5 Comuni, tutti nel Bellunese, hanno registrato un'affluenza inferiore al 50%. Domenica Belluno ha confermato quel dato, con l'impressionante caso di Soverzene (23%), ma contando anche le altre province il numero dei Comuni con un'affluenza inferiore al 50% è raddoppiato, salendo a 11. Venezia - Il messaggio che arriva dalle elezioni di domenica scorsa è chiaro: c'è un bipolarismo di fondo e va cancellata ogni ipotesi di sistema elettorale proporzionale. È quanto afferma il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia (Lega). «I cittadini - ha detto il governatore - vogliono un meccanismo tale per cui chi prende più voti va a governare, e non vogliono delegare i partiti a scegliere eventuali premier e alleanze attraverso inciuci post-elettorali. E, in questo quadro, emerge la conferma piena che laddove il centrodestra è unito, non ce n'è per nessuno e vince». Dello stesso avviso l'assessore regionale Elena Donazzan (Forza Italia): «Se il centrodestra si presenta unito e coeso, valorizzando le migliori realtà civiche espressioni del territorio, ha ancora molto da dire, sia a livello locale, sia a livello nazionale». E mentre Zaia e Donazzan esultano per la vittoria al primo turno a Conegliano, il segretario del Pd veneto Alessandro Bisato rimarca i risultati della sua coalizione: «Il centrosinistra cè. Nelle città come nelle realtà medie e piccole la coalizione guidata dal Partito democratico va al ballottaggio oppure è decisiva per lesito delle elezioni». È la senatrice Laura Puppato (Pd) a invitare di «non fare errori al ballottaggio»: «Ora i risultati più interessanti stanno nella capacità di creare coalizioni più ampie lasciando da parte le tensioni ordinarie della consultazione per portare a casa il migliore dei risultati possibile nei ballottaggi; evitando di recriminare per i prossimi 5 anni solo perché non si sceglie il male minore, il voto utile, in molti comuni minori il Pd sarà determinante nelle coalizioni e ha comunque espresso candidati vincenti nelle diverse liste». A complimentarsi per il «lavoro di squadra» fatto in Veneto è il sottosegretario all'Economia e Finanze Pier Paolo Baretta (Pd), mentre l'ex viceministro Enrico Zanetti considera il risultato di Patrizia Bisinella e Flavio Tosi a Verona «una tappa importante nel processo di costruzione di un centro liberal-democratico forte e autonomo». Pag 4 “Non bastano le campagne su sociale e web” di Alda Vanzan Il politologo Feltrin: “Pochi votanti, lezione per la legge elettorale” Professor Paolo Feltrin, da politologo come giudica la bassa affluenza di domenica? In Veneto una media del 58% contro il 66% delle precedenti elezioni, con il caso limite di Padova sceso da 70% al 60%. «Hanno influito tanti elementi. Era appena terminato l'anno scolastico, c'era il sole, ma c'è stata anche una campagna elettorale fiacca, complice il fatto che i big erano tutti impegnati a Roma con la storia che dovevano fare la nuova legge elettorale e non si sono visti sul territorio. Va anche detto che le campagne elettorali sono cambiate: sono scomparsi gli spot in tv e i manifesti, tutto si è trasferito sul web. Pongo una riflessione: siamo sicuri che i social arrivino a tutti gli elettori?». Chi ha vinto il primo turno in Veneto? «A livello locale hanno vinto le coalizioni. dal risultato di domenica emerge che il centrosinistra vince solo se è coalizzato con la sinistra, il Pd deve fare i conti con il modello Sala-Pisapia, da solo non è autosufficiente. Lo si vede a Padova, ma anche a Verona dove hanno mancato il ballottaggio. È una tendenza nazionale e anche europea, come si è visto con Macron: se il centrosinistra vuole vincere deve attaccarsi alla sinistra». Vale anche per il centrodestra. «Sì, la lezione è chiara: né Lega né Forza Italia sono autosufficienti, divisi non vanno da nessuna parte. Lo testimonia la vittoria al primo turno a Conegliano. A Padova avevano spifferi da tutte le parti, con Saia, Degani e singoli forzisti che appoggiavano Giordani. Non fosse successo quello che sappiamo, anche a Verona avrebbero vinto al primo turno. Il centrodestra si rivela più forte di quel che dicono i sondaggi purché sia unito». Come spiega la débacle grillina?

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«Quando centrodestra e centrosinistra sono uniti non c'è spazio per il M5s. I pentastellati hanno qualche chance di andare al ballottaggio solo se le coalizioni si frantumano. Ma c'è anche un evidente affanno dei 5 Stelle: se prometti, prometti, prometti e poi non mantieni, è comprensibile che l'elettorato resti deluso. Se poi, come è successo a Mira dove hanno perso il Comune, il sindaco uscente neanche viene ricandidato, è un evidente segno di difficoltà». Sondaggi ed exit poll si sono rivelati spesso sbagliati: a Verona davano il candidato del centrodestra Sboarina contro Salemi del centrosinistra e invece al ballottaggio ci saranno i tosiani. Idem a Mira dove al ballottaggio andrà la candidata fucsia e non i grillini. Cos'è successo? «È successo che è andata a votare poca gente. Con un'affluenza così bassa le previsioni sono saltate. E comunque con i sondaggi, e ancor di più con gli exit poll, bisogna andarci cauti». Si possono fare previsioni sul ballottaggio? «Per rispondere bisognerebbe sapere in quanti andranno a votare, considerato che tra quindici giorni saremo in piena estate. Vincerà chi riuscirà a portare più gente a votare, per farcela devi portare almeno i tuoi ai seggi. Se l'affluenza cala al 50%, sarà dappertutto un terno al lotto. Verona è la più incerta». Legge elettorale nazionale: l'esito di queste amministrative può dare un'indicazione al Parlamento? «Forse una legge elettorale che incentivi le coalizioni, prima del voto naturalmente e non dopo, sarebbe preferibile perché sembra incontrare lo spirito del tempo». Pag 20 Ma qui conta la capacità di Sebastiano Maffettone Ricordato che si tratta di elezioni amministrative parziali, in cui sono andati al voto circa mille Comuni su 8 mila, e fatta la dovuta tara, i dati parlano chiaro. Nella maggior parte dei Comuni significativi, a cominciare dai capoluoghi di provincia, la disfida è ancora una volta quella consueta tra centrodestra e centrosinistra. Lasciando il Movimento 5 Stelle a fare da spettatore o tutt'al più da arbitro della contesa. Questi sono fatti, e non possiamo cancellarli. Tuttavia - pur senza indulgere nel dissacrante ukase nietzscheano per cui «non ci sono fatti ma solo interpretazioni» - viene naturale chiedersi come leggere questi risultati. «L'onda lunga non c'è più» diceva Bruno Vespa a caldo, durante la diretta Tv dopo-elezioni della Rai. Gli ha fatto da contraltare il leader dei 5Stelle Beppe Grillo che ha dichiarato: «Gongolate sulla nostra fine ma vi illudete». Chi ha ragione dei due? La mia salomonica risposta è «entrambi o nessuno dei due», come preferite. Ma vediamo perché. In una prospettiva storico-critica, è probabilmente vero che qualcosa si è rotto nel meccanismo vincente dei 5Stelle. Da un lato, sarà pure un caso, il fatto che l'unico di loro a fare il pieno di voti sia quel Pizzarotti dai 5Stelle stessi espulso con ignominia qualcosa vorrà pure dire. Dall'altro, come ben sappiamo, l'effetto non è locale. Mettendo pure tra parentesi l'Olanda, in pochi giorni scompare in Gran Bretagna il partito di Farage e in Francia la forza d'urto di madame Le Pen è stata frantumata dal tutto sommato tradizionale impatto liberal di monsieur Macron. Come a dire che, perlomeno prima facie, l'impeto populista, il nuovo fantasma che si aggirava per l'Europa, esce ridimensionato dalle urne. «È il bello della democrazia», si dirà di certo. In una visione più centrata sull'Italia , la forse resistibile ascesa dei 5Stelle non si deve al bizzarro gioco degli astri ma una crisi strutturale del Paese. Crisi che è economica, occupazionale, sociale, demografica e in ultima analisi etica. Da questo punto di vista, la crisi permane. E si ha netta la sensazione che la politica non riesca a trovare la compattezza e la robustezza per porvi un alt. Per cui, se 5Stelle è visto da molti come una risposta al deficit politico, allora l'esigenza in questione c'è ancora. La battuta d'arresto delle amministrative, che indubbiamente c'è stata («i fatti sono fatti», come si diceva), altro non sarebbe allora che una crisi nel cammino verso l'età adulta. I cittadini-elettori, insoddisfatti prima della Raggi e poi (persino) della Appendino, avrebbero deciso di mandare un segnale a Grillo e ai suoi. Questi ultimi sono stati probabilmente ritenuti responsabili di avere scelto i candidati locali in maniera troppo verticistica (il caso Genova è qui emblematico), e di avere sottovalutato le competenze politiche specifiche necessarie a una buona amministrazione. Più in generale, se un aspetto della volontà politica dei 5Stelle consiste in allontanamento sistematico dalla

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classe dirigente, allora si può notare come questo allontanamento funziona meglio in un voto di opinione come è tipico nelle elezioni politiche. Mentre segnerebbe il passo quando ci si confronta con questioni di amministrazione locale, dove conta l'esperienza del candidato e la sua (a volte provata) capacità di far funzionare la città. C'è poi la irrisolta questione delle élite, finora spaventate e non coinvolte dal vertice 5Stelle nella loro rincorsa a posizioni di governo. Aspettare - non minimizzare perché sarebbe un errore - per vedere che succede. Dopotutto, in democrazia le uniche previsioni ragionevoli sono quelle che si fanno dopo il voto. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I I protagonisti di una stagione politica di Tiziano Graziottin La resurrezione del centrodestra in tutte le sue molteplici forme è l'aspetto eclatante delle Comunali veneziane. Quel fenomeno che alcune ere geologiche fa prese il nome di Polo della Libertà riemerge nel suo modulo più classico a Santa Maria di Sala, dove l'azzurro (si usa ancora definirli così?) Fragomeni sfonda alla testa di un'alleanza ammantata di civismo ma ben collegata ai partiti e con la Lega schierata col simbolo. Un format vincente che viene replicato in comuni più “piccoli” come Pramaggiore, Campagna Lupia e, clamorosamente, a Salzano dove le coltellate volate a sinistra regalano il municipio a Betteto. A Jesolo, si dirà, c’è anche il Pd nella coalizione che puntella Zoggia, ma se con un gioco di prestigio al tassello democratico sostituissimo la Lega (che proprio sul litorale voleva mostrare i muscoli e ci è riuscita benissimo con Carli al ballottaggio forte di un roboante 30%) avremmo un altro sindaco di area eletto al primo turno. Fanno 5 comuni su 9, a testimonianza di un vento che è tornato da un lato a gonfiare le vele di Forza Italia, dall’altro a spingere il Carroccio. E anche laddove deve far spazio alla ritrovata competitività del Pd nelle roccaforti di oggi e di ieri (Mirano, Mira, Marcon) il centrodestra dà inequivocabili segni di vitalità: la fucsia Trevisan che fulmina la candidata M5S in Riviera non era un fatto prevedibile, a maggior ragione dopo le violente polemiche su trascorsi lavorativi e ruoli della portacolori di Brugnaro; l’approdo al ballottaggio del leghista Semenzato “in solitaria” - ancora ai danni di M5S – illumina comunque le nuove potenzialità di un centrodestra quando non minato dalle divisioni. Tre considerazioni finali. Anche sul piano simbolico la botta per i grillini a Mira è pesantissima: così come il sorprendente successo di Maniero 5 anni fa aveva segnato un punto di svolta assumendo rilevanza e interesse nazionali, la caduta della Benato non può essere ristretta a fatto locale ma diventa punta di un iceberg voluminoso. La seconda: il Pd torna a mettere un piede e mezzo in municipio a Mira con un candidato “non politico” per eccellenza, Marco Dori, pescato nella società civile, totalmente al di fuori da giochi e giochetti partitici. Infine questa tornata elettorale segna un passo avanti per il “progetto partito” di Brugnaro che vede ancora in piedi la sua candidata (per tre volte il sindaco metropolitano è andato a Mira per darle appoggio!) e ha personalità a lui gradite in rampa di lancio a Jesolo (Zoggia) o già insediate in Comune (vedi Natin a Campagna Lupia e Pivetta a Pramaggiore). CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Una partita ancora aperta di Alessandro Russello Primati, alleanze e alchimie Perfino al di là della metafora sportiva, c’è sempre un primo e un secondo tempo. E in queste elezioni amministrative venete i ballottaggi del 25 giungo saranno una partita completamente aperta. Anzi spalancata. Pur partendo da un dato duro, puro e inequivocabile. Il centrodestra - non più a trazione forzaleghista ma legaforzista – si gioca la carta del vantaggio nelle due città accreditate della nobiltà di «test nazionale». A Verona è davanti il candidato Federico Sboarina, ex An che con la sua lista «Battiti» ha favorito il compromesso tra Forza Italia e il Carroccio coltivando il sogno, a portata di mano, di interrompere il regno di Flavio Tosi. A Padova il «detronizzato» Massimo Bitonci ha scavallato il 40 per cento facendo intuire che la sua caduta sette mesi fa fu più una storia di «tradimenti» di Palazzo che l’incapacità di gestire un’alleanza nata omogenea sulla carta ma tenuta insieme con il bostik. Non sappiamo quanto il redivivo primato di questo «centrodestra unito» sia estendibile a livello nazionale (mettere assieme

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Berlusconi e Salvini in questo momento è come pensare di poter fondere in un sol comune Pisa e Livorno: sì euro, no euro, la leadership ce l’ho io, non l’avrai mai tu…). Ma alle amministrative funziona. Soprattutto in Veneto. Anche se c’è un «ma». Che sta nella forza ipotetica degli antagonisti. Fatta di alleanze «organiche» da ricomporre e di accordi che pur odorando di alchimia sono da prendere in seria considerazione. Il primo caso è quello di Padova, dove il centrosinistra dell’imprenditore «senza partito» Sergio Giordani - sostenuto dal Pd, dai centristi del sottosegretario Barbara Degani e da alcuni pezzi persi per strada da Bitonci – pur staccato al secondo posto di undici punti ha una buona chance. Contare sul consenso capitalizzato da una delle maggiori sorprese di questa tornata elettorale: il professore universitario Arturo Lorenzoni. Lorenzoni, che ha portato a casa più voti di Giordani, a capo di una «coalizione civica» più caratterizzata a sinistra può gettare sul piatto di un’alleanza con il centrosinistra venato di centrodestra il suo ragguardevole 23 per cento. Bitonci, che di politica s’intende frequentandola da quasi trent’anni, fa notare che in questi casi i numeri non fanno somma: una verità con una buona dose di scaramanzia. D’altra parte la famiglia del centrosinistra non è i numeri che deve temere ma se stessa. La voglia di fermare lo «sceriffo» di Padova, disarcionato con grancassa di fanfara sette mesi fa da molti degli stessi uomini che oggi cercano di batterlo alle urne, dovrà fare i conti con la messa in campo di veti, controveti e contropartite. Vicendevoli. Se non in termini di potere, certo di linea. Giordani, già carrozzato di eterogenei alleati, riuscirà a far posto a quello che oggi potrebbe diventare il principale e che rivendica un «accordo alla pari»? Verona è un’altra storia. Ma lo schema è lo stesso. Se a Padova, visto da sinistra, il mantra è il tutti contro Bitonci, in riva all’Adige basta sostituire il nome con quello di Sboarina. Anche qui - e forse a maggior ragione - i numeri non fanno somma, ma per un Pd svuotato di consenso e arrivato terzo al primo turno l’idea di far perdere il centrodestra fa gola. Le «diplomazie» sono già al lavoro e considerato l’avvicinamento di Flavio Tosi a Renzi dopo l’uscita dalla Lega, con il sì al referendum e il sostegno in parlamento della piccola truppa di «Fare» l’appoggio del centrosinistra alla ballottante Patrizia Bisinella - che di Tosi è la compagna - è un’opzione sul tavolo. Vero che Sboarina resta forte e può contare sul voto di alcuni «cespugli» di destra e centrodestra (peraltro fuoriusciti dall’orbita di Tosi), ma l’incrocio di interessi fra il centro-centrodestra tosiano e il centrosinistra escluso dal ballottaggio potrebbe essere più di una suggestione. Nel caso l’accoppiata Tosi-Bisinella riuscisse a vincere sarebbe una sorta di capolavoro dell’uomo - senza togliere i meriti della donna - che Salvini fece fuori. Un capolavoro che perpetuerebbe il regno di Tosi - ancor oggi primo «partito» a Verona - permettendogli di sfondare il muro dei dieci anni di governo interrotti dalla legge che non consente un terzo mandato. Due parole, proporzionate ai voti presi, vale la pena spenderle sui grillini. Riusciti, in Veneto, a mancare tutti i ballottaggi e a far rieleggere solo il sindaco di Sarego, comune di seimila abitanti. Il copione dei Cinque stelle è quello nazionale e risente del poco appeal alle amministrative. Tramontati in fretta i tempi e i successi di Roma e Torino - ascrivibili alle magagne della Capitale e ad un anti-renzismo che ai ballottaggi premia qualsiasi avversario - i pentastellati tornano sulla terra. Non si sa se «rottamati» anch’essi da un elettorato sempre più esigente o «mangiati» dalla concorrenza di nuovi soggetti territoriali emersi nel mondo «civico» (Lorenzoni ne è un esempio). Ps. Abbiamo lasciato per ultima l’astensione, forte pure in Veneto. Sarà impopolare, ma il tema della «disaffezione», anche in una torrida domenica di giugno, pur con le sue condivisibili ragioni non ci basta. Il voto è una delle forme più «civiche» che conosciamo e alla fine ha ragione - decidendo per tutti - solo chi la pratica. Per quel poco che ancora vale, si chiama democrazia. Pag 2 Centrodestra avanti a Padova e Verona ma nuove alleanze riaprono i giochi di Marco Bonet Le liste civiche annientano i partiti in crisi Della politica, tolto qualche reduce e qualche irriducibile appassionato, a quanto pare ormai non interessa più niente a nessuno. Crollano gli iscritti ai partiti, non si trovano candidati disposti a mettersi in gioco, si appannano i simboli (a favore di liste civiche che a volte sono il nuovo, a volte solo il vecchio truccato a nuovo) e soprattutto precipita – il trend è ormai consolidato da anni, sicché l’estate è una scusa fino lì – l’affluenza:

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domenica, in Veneto, ha votato il 58% degli aventi diritto, contro il 66% di cinque anni fa. A Verona siamo al 58% (contro il 69% del 2012), a Padova al 60% (contro il 70% e qui la campagna elettorale era iniziata a novembre, per 6 mesi non s’è parlato d’altro), a Belluno al 50% (contro il 58%). Proprio all’ombra delle Dolomiti si verificano due casi simbolo della disaffezione diffusa: a Pieve di Cadore l’unico candidato sindaco presentatosi è stato sconfitto dal (mancato) quorum e arriverà un commissario; a Cencenighe, nell’Agordino, non è stato neppure necessario allestire i seggi, perché di candidati non ce n’erano fin dall’inizio e il commissario aveva già il dito sul campanello. In questo contesto, in cui il disincanto investe pure l’amministrazione più vicina al cittadino, quella che si occupa dell’Imu, della retta dell’asilo e della buca sulla strada, tra centrodestra e centrosinistra si registra un sostanziale pareggio. Guardando ai soli Comuni sopra i 15 mila abitanti, gli unici a cui si possa attribuire valore di test politico, due vanno subito al centrodestra (Conegliano e Santa Maria di Sala) e due al centrosinistra (Thiene e Feltre); in tre parte avanti nel ballottaggio il centrodestra (e due sono le sfide chiave: Padova con Massimo Bitonci e Verona con Federico Sboarina; poi c’è Cerea), in cinque il centrosinistra (che quasi sempre significa il Pd, come ad Abano Terme, Marcon, Mira e Mirano, ma c’è l’eccezione Belluno, dove il centrosinistra vincente al primo turno è incarnato dal civico Jacopo Massaro). Jesolo fa storia a sé, visto che Forza Italia e Pd sono in testa insieme con la «larghissima intesa» garantita da Valerio Zoggia (insegue la Lega) mentre a Vigonza guida la corsa il civico puro, extra destra e sinistra, Stefano Marangon, delfino del sindaco uscente. Il Movimento Cinque Stelle, che già era partito male, assente in 65 degli 88 Comuni al voto tra cui la metà di quelli sopra i 15 mila abitanti, finisce malissimo: conferma l’uscente Roberto Castiglion nella piccola Sarego (6 mila abitanti) ma non arriva al ballottaggio da nessuna parte e soprattutto perde la città simbolo di Mira, storica roccaforte del centrosinistra espugnata 5 anni fa, a sorpresa e con l’aiuto fondamentale del centrodestra, dal giovanissimo pentastellato Alvise Maniero (aveva 26 anni), che non si è ricandidato per cercare fortuna in parlamento la primavera prossima. Tolta la pattuglia in Regione, dunque, sul territorio il Movimento di Grillo semplicemente non esiste. Le curiosità non mancano, dalla sfida di Mirano che vede al ballottaggio la presidente dall’Anci Maria Rosa Pavanello, al risultato di Cortina, dove dopo le vicissitudini giudiziarie dell’ex sindaco Andrea Franceschi s’impone con uno schiacciante 77% Giampietro Ghedina, mentre ad Abano, pure commissariata dopo l’arresto dell’ex primo cittadino Luca Claudio, se la vedranno al ballottaggio Federico Barbierato per il centrosinistra ed Emanuele Boccardo per il centrodestra, ma è chiaro che a questo punto, con Massaro favoritissimo per la riconferma a Belluno (è avanti di 21 punti col 46% e il Pd ha già fatto sapere di volergli portare in dote il suo 9%), tutti gli occhi sono puntati su Padova e Verona, dove Lega e Forza Italia sono sì avanti, ma con l’occhio preoccupato allo specchietto retrovisore. Il rischio remuntada , infatti, è dietro l’angolo. Nella città del Santo Bitonci ha preso il 40%, che significa 39 mila voti, 5 mila in più che al primo turno del 2014. Ma a differenza di allora, quando al secondo turno riuscì a salire alla bellezza di 51 mila voti, stavolta l’impressione è che il campione della Lega abbia già fatto il pieno. Tre anni fa, infatti, l’ex An Maurizio Saia dirottò su di lui il suo 10%, che cubava quasi 12 mila voti, mentre ora Saia corre di là e scorrendo la scheda elettorale, pur con qualche decimale tra i civici, non si vede dove Bitonci possa andare a pescare tra quindici giorni. Diversa la situazione sul fronte opposto, dove lo sfidante Sergio Giordani (28 mila voti, 29%) ha già incontrato il sorprendente terzo incomodo Arturo Lorenzoni (22 mila voti, 22%). «I nostri programmi sono quasi uguali, non vedo problemi – ha detto il primo - la nostra è una bella accoppiata». «Ci vuole senso di responsabilità per proporre un governo fortemente alternativo alla visione chiusa e divisiva di Bitonci - ha ribadito il secondo -. Io e Sergio possiamo trovare l’accordo». Gli apparentamenti vanno chiusi entro domenica ma a questo punto il gioco pare fatto e alla Lega non resta che sperare che le truppe non seguano i due comandanti, deviando per il mare e confermando una volta di più che alle elezioni non sempre 2 più 2 fa 4. Nella città dell’Arena, lo schema è simile ma più ingarbugliato. Avanti c’è Federico Sboarina, portacolori di Forza Italia e della Lega: 33 mila voti, 29%, a cui potrebbero sommarsi (sempre con le distinzioni matematiche di cui sopra) altri 10 mila voti tra gli esclusi, e cioè all’incirca un 9-10% in più. Dietro di lui, con un colpo di reni straordinario, corre a fil di ruota la coppia Patrizia Bisinella-Flavio Tosi, protagonista di un’incredibile rimonta negli ultimi giorni: 27 mila

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voti, 23%. Il distacco, come si vede, è già di per sé, molto contenuto 6 mila voti su 200 mila potenziali elettori e inoltre il Pd, arrivato terzo con Orietta Salemi (25 mila voti, 22%) ha subito fatto sapere di volersi schierare col sindaco uscente: «Inviteremo al voto utile contro la Lega e il centrodestra e in favore delle posizioni civiche più vicine a Pd - ha detto ieri Matteo Ricci, responsabile nazionale Enti Locali dei dem - Non dimentichiamoci che Tosi ha sostenuto il Sì al referendum» e, vien da aggiungere, il governo Renzi in altre occasioni con i suoi deputati e senatori. E difatti Matteo Salvini sbotta: «Prendiamo atto che i renziani correranno compatti contro di noi». Se l’operazione filasse liscia come la immaginano, per Sboarina si metterebbe male. Ma davvero i dem veronesi, e con loro altri candidati scesi in campo nel nome del cambiamento e della discontinuità, come Bertucco della Sinistra, potrebbero fare una piroetta simile, sostenendo la compagna dell’uomo contro cui si battono da 10 anni? «Il M5s è scomparso, perché è facile predicare e scardinare, più difficile è governare e costruire». Il governatore Luca Zaia (che ieri ha ricevuto l’ennesimo endorsement a leader del centrodestra, stavolta da Enrico Mentana) sferza Beppe Grillo e, come molti altri in queste ore, saluta soddisfatto l’avvento di un neo-bipolarismo che segna il ritorno alle care vecchie coalizioni: «I cittadini vogliono che chi piglia un voto più degli altri poi governi, senza inciuci. In questo quadro, dove il centrodestra corre unito, non ce n’è per nessuno. Si vince, anche al primo turno». Le coalizioni saranno pure resuscitate, ma i partiti che ne fanno parte sono vivaci come i morti, schiacciati dal fenomeno delle liste civiche che Zaia tralascia nella sua analisi, pur essendone stato uno dei principali artefici. Basti pensare alle Regionali del 2015, quando la Lista Zaia, da lui fortemente voluta, arrivò al 23%, superando la Lega (18%) e diventando il primo partito del Veneto. Proprio il Carroccio, d’altra parte, è stato tra i primi a teorizzare e mettere in pratica in modo sistematico sul territorio il doppio binario lista di partito-civica del candidato. Lo fece, prima che con Zaia, con Gentilini a Treviso e di lì in avanti con quasi tutti i suoi candidati sindaco. Ma proprio perché furono tra i primi a testarlo, i leghisti furono anche tra i primi a rendersi conto (con l’allora segretario nathional Gian Paolo Gobbo) che il giochino poteva sfuggire di mano, svuotando il simbolo dei suoi consensi e creando «mostri» che, corazzati dalle liste personali, non erano più disposti a sottostare a ordini e strategie di partito (pure qui il problema si pose, in anticipo sui tempi, con Gentilini). Tant’è, a distanza di anni il fenomeno sembra aver raggiunto il suo culmine, con un ribaltamento dei rapporti di forza: se va bene, la lista di partito è in appoggio alla civica del candidato; se va male, su richiesta dello stesso candidato viene «mascherata» da civica; se va malissimo, neppure si presenta. Così che, ai partiti in crisi, si sostituiscono forze nuove, liquide, personalistiche, svincolate dallo schema destra-sinistra, esportabili anche al di fuori della culla originaria. Come dimostra il caso del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, esponente di spicco di questa nuova tendenza che ha provato a replicare la sua «rivoluzione fucsia» a Chioggia e a Mira: «La gente inizia a capire la proposta civica, che è il futuro dell’Europa, basta vedere cos’ha fatto Macron in Francia... - ha detto ieri -. Io sarò sindaco per altri tre anni ma mi sta venendo voglia di andare anche oltre». In termini di tempo? O di orizzonte politico (leggasi la Regione o perfino più in là)? Di Leoluca Orlando, rieletto per la quinta volta al grido «Palermo è il mio partito», si è detto molto in queste ore, ma restiamo al Veneto: la lista Tosi è il primo partito di Verona (16%) e il suo rassemblement civico è al 23%; la lista Sboarina è al 13% mentre Lega (8%) e Forza Italia (3%) arrancano; altre liste civiche, varie ed eventuali, raggiungono un ragguardevole 10%. A Padova la lista Bitonci è il primo partito col 24%, con la Lega al 6% e Forza Italia al 4%; il candidato di Coalizione civica Lorenzoni è quasi al 23% mentre il Pd, che sostiene Giordani, evapora dal 25 al 13%. Ma il capolavoro è a Belluno, dove arrivano al ballottaggio due candidati senza simboli di partito: Massaro, 46%, e Gamba (che ha costretto Forza Italia a rinunciare alla sua bandiera) 25%. «Il meccanismo è consolidato e serve a valorizzare la figura del candidato - dice il segretario della Lega Gianantonio Da Re - ma alle Politiche il simbolo conta ancora, eccome, non se ne può fare a meno». Meno ottimista Alessandro Bisato, segretario del Pd: «È l’apice dell’esperienza della legge elettorale dei sindaci ma il fenomeno travalica ormai i confini municipali, basti pensare a Zaia o Macron. Serve una riflessione profonda perché i partiti sono percepiti come l’establishment». D’accordo Elena Donazzan, donna forte dei berlusconiani: «Il cittadino si fida più della civica, che

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magari è estemporanea e costruita alla bisogna, che dei partiti. Va ricostruito il legame con l’elettore e questo può accadere solo mettendo in campo persone credibili. Proprio il rapporto umano, insieme a programmi chiari e fortemente identificativi, è la forza delle liste civiche». LA NUOVA Pag 1 Liste civiche e astensione, due prove di Paolo Possamai Dalle urne emerge una serie di indicatori. Primo punto: la percentuale dei votanti sta su un piano inclinato e l'astensionismo ha tanto accelerato da essere largamente il primo partito. Secondo punto: il Movimento 5 Stelle ha subìto una pesante battuta di arresto, e i voti mancati a Grillo sono andati a ingrossare l'astensionismo. Terzo punto: il centrodestra, al Nord a leadership leghista, ha saputo compattare in modo più determinato i propri seguaci. Quarto punto: il centrosinistra appare in difficoltà, che l'eventuale esito favorevole ai ballottaggi potrebbe solo in parte mimetizzare. La scarsa attrattività del Pd, in particolare, è certificata esattamente dal risultato elettorale: in termini di voti assoluti, il partito di Renzi ha perso per strada un patrimonio. Infine un quinto punto attiene alla diffusione della forma "non partito", insomma all'affermazione di liste civiche o esperienze assolutamente atipiche o legate a leadership peculiari. In quest'ultimo capitolo possiamo ricomprendere le performance del sindaco ex grillino di Parma (Federico Pizzarotti), così come la conferma per la quinta volta di Leoluca Orlando a Palermo, così come la sorprendente presenza alla contesa del 25 giugno a Verona di Patrizia Bisinella (compagna del sindaco uscente Fabio Tosi), così come la cavalcata in solitaria del sindaco uscente di Belluno. Prendiamo il caso bellunese, con il "civico" di centrosinistra Jacopo Massaro che ha poco meno del doppio dei voti del suo sfidante "civico" di centrodestra Paolo Gamba. Va da sé che il Pd avrebbe di che riflettere sulla sua incapacità di mantenere al proprio interno una figura come Massaro.Il primo tempo della partita presenta questi elementi, che contengono fenomeni non di breve periodo. Ma tutti ricorderemo essenzialmente l'esito finale della partita, ossia i ballottaggi in calendario tra due settimane. E vedremo, in particolare, se terrà la linea del Piave della Lega di Matteo Salvini. Trincea che vale tanto nello scontro con gli avversari dichiarati (Pd in primis), come per gli antagonisti interni all'alleanza (Berlusconi). Sono importanti le sfide di Como o di Verona, in questo senso, ma forse l'evento di maggior importanza riguarda Padova.Nel microcosmo di Padova sono leggibili gran parte dei fenomeni nazionali. Il candidato di centrosinistra, Sergio Giordani, soffre di una significativa fuoriuscita di voti dal suo bacino verso l'astensione (stimata dall'Istituto Cattaneo nella sua analisi sui flussi nella misura del 5,5% del corpo elettorale). Della modesta performance del Movimento 5 Stelle, che paga evidentemente il trend nazionale e lo scarso radicamento territoriale, beneficia in primis il candidato "civico" Arturo Lorenzoni. L'ex sindaco leghista Massimo Bitonci tiene assieme in modo saldo l'elettorato di centrodestra. Non saprà probabilmente calamitare ulteriori consensi, ma Bitonci - se sarà capace di portare al secondo turno il bottino conquistato domenica - promette di essere uno sfidante arduo per Giordani. Quanto peserà l'astensionismo a Padova il 25 giugno? Questa è la vera incognita. E qui viene in questione la capacità del centrosinistra di ritrovarsi in un progetto di cambiamento e in un racconto solido e magari appassionante. Sarebbe da stolti immaginare che i consensi raccolti da Giordani e Lorenzoni siano sommabili. Ma paradossalmente proprio l'ottimo risultato agguantato da Lorenzoni, assai superiore alle previsioni, può spingere il Pd e le civiche di accompagnamento a Giordani fuori da una logica di pretesa autosufficienza. Se avverrà un autentico mescolamento di uomini, programmi, competenze ne avrà vantaggio la proposta politica e la competitività di Giordani. E non di meno, qualora Giordani prevalesse su Bitonci, ne avrà vantaggio la qualità dell'amministrazione e la capacità di dialogo con i cittadini. Pag 19 “Padova sarà il laboratorio del nuovo centrosinistra” di Albino Salmaso Il politologo Almagisti: i dem veneti alle prese con l’eredità della zona “bianca” Padova. Il flop del M5S in Italia, la batosta del Pd a Verona che non va al ballottaggio per le divisioni a sinistra e la clamorosa affermazione a Padova di Arturo Lorenzoni,

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espressione della società civile: sono questi i temi che il professor Marco Almagisti, docente di Scienza della politica all'Università di Padova, analizza in questa intervista. I partiti tradizionali entrano in crisi con Forza Italia al 3% e le liste civiche che si allargano trascinate dai candidati sindaci, segnali di novità che allargano la qualità della democrazia in Italia. Con Padova che diventa laboratorio nazionale del centrosinistra. Professor Almagisti, il dato più clamoroso che emerge dal test amministrativo è il flop del M5S: nei sondaggi viene indicato come primo partito in Italia con il 30% ma domenica non è riuscito a portare nessun candidato ai ballottaggi nelle grandi città, lei come spiega lo sfasamento? «Il M5S risulta il primo partito in Italia nei sondaggi grazie alla visibilità del suo leader, Beppe Grillo, che domina la scena nazionale da assoluto protagonista e riesce a catalizzare la sfiducia che colpisce l'intero sistema dei partiti mentre sul piano locale i pentastellati non hanno un radicamento e prima o poi dovranno decidere che tipo di organizzazione adottare per competere nel governo della città. I partiti hanno una struttura ben definita con sezioni e dirigenti, mentre il M5S si mobilita con i mit up sulla rete, i sondaggi e le primarie on line per la scelta dei candidati: a Roma e a Torino hanno ottenuto due ottimi risultati, ma si tratta di eccezioni che confermano la necessità di una svolta organizzativa». Passiamo al Pd: Renzi parla di ottimo risultato ma a Verona non vanno al ballottaggio anche per la divisione con la sinistra e i dem restano al di sotto del 20 per cento in molti comuni veneti. Come mai? «Il Pd nel Nordest si trova ancora alle prese con l'eredità della zona "bianca" del tempo della Dc, per cui la sinistra risultava sistematicamente sottorappresentata rispetto al livello nazionale. A Verona il candidato Dem viene escluso dal ballottaggio anche per le divisioni a sinistra e tra quindici giorni la sfida riguarderà il candidato di centrodestra, Federico Sboarina, e Patrizia Bisinella, fidanzata del sindaco Tosi che con la sua lista ha ottenuto un'affermazione importante. Sarà una sfida tutta interna al centrodestra, diviso in due coalizioni, il Pd non ce l'ha fatta per un migliaio di voti e sulla sconfitta c'è da riflettere». In che senso, professore? «Si pone il tema delle alleanze. Da Roma arrivano segnali precisi per arrivare quanto meno ad una forma di non ostilità dichiarata tra il Pd e la lista Tosi: del resto il sindaco di Verona al referendum del 4 dicembre scorso ha sostenuto il sì alle riforme istituzionali in sintonia con Renzi. Esistono le premesse per il dialogo». Passiamo a Padova: il sindaco in carica Massimo Bitonci era convinto di vincere al primo turno e si è fermato al 40%, anche se Matteo Salvini era al suo fianco nella battaglia contro gli immigrati: come finirà? «Bitonci ha bucato la soglia molto alta del 40% dopo la conclusione traumatica della legislatura: il centrodestra è in ottima salute nel Nordest e in Italia. A Padova, nonostante le divisioni, è competitivo. Sul versante opposto, Sergio Giordani è sostenuto da un'alleanza trasversale e se vorrà vincere si dovrà alleare con Arturo Lorenzoni, con cui si è scontrato per conquistare la leadership nello schieramento progressista. Vedo una battaglia molto aperta, il risultato finale è legato all'affluenza al voto tra due settimane». In questa fase di profonda crisi della politica da Padova arriva segnale di grande novità: la società civile esce dal letargo e si organizza in due liste a sostegno del professor Lorenzoni. Un esperimento che viene premiato con il 22% dei consensi: lei come lo giudica? «Credo che si parlerà a lungo non solo in Veneto ma in Italia del modello-Lorenzoni: Coalizione civica nasce da una combinazione tra forme organizzate di politica e attivismo civico, con la società civile che si mobilita attorno a un progetto di partecipazione e gestione della città. Ci sono dei partiti storicamente radicati come Rete dem, Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione e Padova 2020 che hanno dialogato con i gruppi di cittadini auto-organizzati: questa mobilitazione eccezionale ha raccolto un risultato notevole, molto più elevato delle previsioni dei sondaggi: Coalizione Civica con il suo 22 per cento farà certamente parlare di sé in tutt'Italia. Ne sono convinto». Pag 21 Il ruolo del populismo nei giochi di coalizione di Gianfranco Pasquino Nelle elezioni amministrative succedono molte cose che non necessariamente si ripeteranno nelle elezioni politiche. Però, qualche lezione se ne può trarre in maniera piuttosto chiara. Le propongo in un ordine d'importanza diverso da quello delle prime analisi, spesso influenzate da pregiudizi e tese a definire la situazione in modo favorevole a una specifica parte politica. Prima lezione, sia il sistema elettorale per l'elezione dei sindaci sia, più in generale, la politica delle democrazie, anche locali,

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spingono verso la formazione di coalizioni. Smentendo affermazioni propagandistiche campate in aria, questo voto amministrativo dice che le coalizioni sono il modo preferibile di fare politica. Un buon leader, ma Berlusconi dovrebbe ricordarsi del suo esordio vincente nel 1994, quando costruì due coalizioni, smussa le differenze, raggiunge accordi, unifica posizioni. Chi sa costruire coalizioni in modo adeguato a sostegno di una candidatura decente viene giustamente premiato dall'elettorato (in Italia e altrove). Dunque, non è corretto sostenere che è "tornato" il centrodestra. Esiste un elettorato di centrodestra al quale, in molti contesti, Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d'Italia hanno fatto una buona offerta di rappresentanza e di governo delle città, risultandone premiati. Se troveranno un accordo simile a livello nazionale, più difficile a causa delle posizioni sovraniste della Lega e di Fratelli d'Italia e del conflitto sulla leadership, il centrodestra sarà competitivo con qualsiasi sistema elettorale. Anche il Partito democratico, nonostante l'idiosincrasia altalenante del suo segretario, ha variamente costruito coalizioni persino con gli scissionisti pure, spesso, definiti "traditori" dai collaboratori più stretti di Renzi. Dopo il voto e in vista del ballottaggio, quegli stessi collaboratori aggiungono buffamente che il Pd si alleerà con i movimenti civici di sinistra, ma anche con quelli di centro. Insomma, alcuni piddini stanno ancora sulla prospettiva del Partito della Nazione. Anche nel loro caso, però, dovrebbe valere la lezione che le coalizioni bisogna cercarle e saperle fare non solo per motivi elettorali. Il primo turno delle elezioni amministrative ha uno sconfitto sicuro: Beppe Grillo, forse due: Luigi Di Maio. Non è soltanto che gli elettori di Genova, come tutti sanno la città di Grillo, gli hanno risposto che no, non si fidano di lui e del cambio in corsa della candidata che aveva vinto le primarie (una violazione della democrazia sotto tutte le latitudini), ma anche che coloro che Grillo aveva spinto fuori dal Movimento, come il sindaco di Parma (ben piazzato per il ballottaggio) e il sindaco di Comacchio (che ha già rivinto la carica), hanno dimostrato di non avere bisogno di lui (né di Di Maio). Per chi guida un Movimento verticistico questa è più che una sconfitta elettorale. È una sconfessione abbastanza plateale. Tuttavia, le liste del Movimento nel loro insieme non vanno malissimo. Anzi, le elezioni amministrative sono state una buona occasione per continuare il radicamento sul territorio. Il resto l'hanno fatto, in maniera evidentemente non convincente, le candidature. Gli elettori erano perfettamente consapevoli che stavano votando il potenziale sindaco e che centrodestra e centrosinistra offrivano alternative talvolta sperimentate e credibili. Qui si apre il problema del reclutamento delle Cinque Stelle per risolvere il quale non potrà bastare un pugno di votanti come quelli che si sono espressi nelle apposite consultazioni. Tuttavia, fanno male i commentatori che scrivono che ha perso il populismo. Tanto per cominciare quello di Salvini, accompagnato dalla presenza sul territorio, è vivo e vegeto e, in secondo luogo, il consenso per le Cinque Stelle a livello nazionale proviene più che da toni e stile populisti, dalla critica dei politici e del loro modo di fare politica. È uno zoccolo che i non buoni risultati nelle elezioni amministrative sfiorano, ma non scalfiscono. Il resto ce lo diranno fra due settimane, con la forza del loro voto, che sanno usare in maniera efficace, gli elettori dei ballottaggi. Pag 22 Grillo, tre mosse sbagliate. Ma 5Stelle non è alla frutta di Claudio Giua Sono alcuni comuni più che altri a caricare di significati il segnale lanciato dallo stop elettorale del Movimento 5Stelle. Anzitutto Genova, la città del fondatore, dove la candidata scelta nelle comunarie via web fu personalmente sconfessata tre mesi fa da Beppe Grillo («...dovete fidarvi di me»). Parma, che vide il sindaco Federico Pizzarotti dileggiatato, isolato e cacciato dal M5S per non essersi piegato alle volubili volontà del comico e della dinastia digital-affaristica dei Casaleggio. Mira, in provincia di Venezia, che si ritrovò nel 2012 un sindaco ragazzino grillino poi rinviato a giudizio per lesioni colpose e inosservanza delle norme antinfortunistiche e infine non ricandidato. Palermo, il capoluogo più affine alle velleità egemoni dei pentastellati che qui organizzarono il megaraduno del settembre scorso prima di essere dilaniati dalla faide interne. Fallimenti umani, politici e amministrativi che in parte giustificano la sostanziale assenza di candidati del Movimento ai ballottaggi (8 nei 140 centri con oltre quindicimila abitanti). Tuttavia i risultati complessivi non favorevoli del M5S hanno poco a che fare con le vicende locali, di cui gli elettori hanno diretta esperienza. È utile, per capire quant'è

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accaduto, soffermarsi su alcuni fenomeni più generali. Il primo. L'elettorato mobile, in crescita inversamente proporzionale al calo dei votanti, in alcune occasioni fa scelte di protesta, in altre chiede certezze e stabilità. Dalle politiche del 2013 alle amministrative del 2016 ha prevalso la prima motivazione, stavolta è stata la seconda ad apparire più forte: ai grillini si può dar credito quando l'esasperazione è tanta, ma risultano inaffidabili nei momenti della domanda di governo efficace ed efficiente. Il disastro senza precedenti della giunta Raggi a Roma e quello parziale della giunta Appendino a Torino hanno come dato comune l'immobilismo, motivato dall'illusione che se nulla si fa non si sbaglia né arrivano avvisi di garanzia. Intanto, però, le strade diventano impraticabili, i parchi sono sommersi dalla vegetazione e dai rifiuti, i servizi sociali scarseggiano, lo stare insieme nei luoghi pubblici viene scoraggiato. Seppure a distanza, lo sfascio romano e l'insufficiente prova torinese hanno convinto molti elettori a non ripetere l'esperienza grillina in casa propria. Seconda notazione. Un elettorato che dà il voto a chi dice di mettere al centro della propria azione il rispetto delle regole, la coerenza, la democrazia interna e la trasparenza pretende poi il rispetto delle regole, la coerenza, la democrazia interna e la trasparenza nei comportamenti di quanti hanno preso quegli impegni. Far saltare le candidatura di Marika Cassimatis a Genova è una palese violazione delle regole che il Movimento si è dato. Tentare di passare in parlamento europeo dall'alleanza con i separatisti dell'Ukip a quella con gli ultraeuropeisti dell'Alde è percepito come una manovra senza logica conseguente. Abbandonare lo slogan "uno vale uno" a favore del decisionismo autocratico di uno o, al massimo, due (il frontman Grillo e il tecnocrate Davide Casaleggio) è in contraddizione con la democrazia interna. Siglare un solenne patto con Pd, Lega e Forza Italia sulla legge elettorale e poi affossarlo verbalmente alla vigilia del passaggio in Aula è l'ennesima giravolta politicante e oscura. Terza considerazione. Chiunque abusa della tv si fa male. Lo aveva scoperto tardi Renzi, esagerando in presenzialismo prima del referendum costituzionale, lo scoprono adesso Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, ospiti fissi di Carta Bianca, Dimartedì eccetera (dove si esibiscono rigorosamente senza contraddittorio). Se non sono disponibili, ne fanno le veci Marco Travaglio o Andrea Scanzi. Non funziona più nemmeno la confusione mediatica tra i ruoli di comico e capopopolo che tanto piace a Grillo: fare la caricatura di un defunto potentissimo della prima Repubblica come Enrico Cuccia per non rispondere ai giornalisti o presentarsi al seggio con il casco calato sulla testa, come peraltro la legge proibisce di fare, sanno più di pagliacciate che di rispetto per il lavoro altrui e le istituzioni. Tuttavia, il Movimento non va dato in caduta libera. Per non favorirne la ripresa, da qui alle elezioni politiche di primavera il centrosinistra e il centrodestra dovranno dimostrare che in Italia i populismi hanno il fiato corto come in tutti i grandi paesi europei. Non a parole: con i fatti. Torna al sommario