Rassegna stampa 11 aprile 2017 · 2017-04-11 · RASSEGNA STAMPA di martedì 11 aprile 2017...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 11 aprile 2017 SOMMARIO “I cristiani copti sanno che oggi in Egitto andare in chiesa a pregare è un rischio - scrive Wael Farouq su Avvenire di oggi -. Daesh ha minacciato di bruciarli nelle chiese e, solo dieci giorni fa, le forze di sicurezza hanno disinnescato un ordigno proprio nello stesso edificio sacro che nella Domenica delle Palme ha subito uno dei feroci attacchi terroristici. Eppure, i cristiani egiziani continuano a recarsi in chiesa per pregare. La Domenica delle Palme è un giorno speciale per i bambini. Le madri, una volta, si divertivano a creare simboli e giocattoli con foglie di palma. Noi, bambini musulmani, ricevevamo corone, stelle e spade fatte con queste foglie, mentre i bambini cristiani portavano le croci. Li accompagnavamo in corteo fino alle porte della chiesa. Loro entravano per la Messa e noi ricevevamo qualche dolce. Poi, in attesa che uscissero, proteggevamo la chiesa da nemici e demoni invisibili con le nostre spade verdi. Penso che la mia sia l’ultima generazione che ha vissuto questa gioia. In seguito, alla fine degli anni 70 del Novecento, il presidente Anwar al-Sadat ha aperto lo spazio pubblico agli islamisti e milioni di egiziani sono emigrati verso i Paesi del Golfo, verso società uniformi che non conoscevano il pluralismo religioso e non lo accettavano. È stato l’inizio della propaganda d’odio contro i cristiani in generale e quelli egiziani in particolare. In ogni quartiere c’era una moschea controllata dai propagandisti dell’islam politico. Sotto la protezione di Sadat e nell’indifferenza dei suoi successori, la propaganda contro i cristiani è durata quarant’anni. Gli sheykh dicevano ai musulmani che i cristiani erano «miscredenti», che non bisognava mangiare il loro cibo, non bisognava amarli. Dicevano: «Uccidono i vostri fratelli in Iraq, Palestina e Afghanistan». Dicevano: «Non fate gli auguri per le loro feste, non rivolgete loro il saluto». Eppure nonostante anni di questa macabra propaganda, gli egiziani hanno saputo riscoprire la propria unità in piazza Tahrir. La rivoluzione ha creato uno spazio di incontro fra il musulmano, cui si era tentato di far dimenticare l’amore e una secolare convivenza, e il cristiano che si era rassegnato a emigrare o a isolarsi dal mondo, rinchiudendosi dentro le mura della sua Chiesa nel suo stesso Paese. La rivoluzione, nei pochi anni passati, ha distrutto decenni di odiosa propaganda. Tanti egiziani, però, malgrado la propaganda d’odio e le stragi dei terroristi, stanno riscoprendo il bene dell’unità. Dopo gli attacchi di domenica, i cristiani hanno celebrato sui social network gli eroici poliziotti – tutti musulmani – uccisi mentre compivano il loro dovere di proteggere la Messa officiata da papa Tawadros. Era lui l’obiettivo principale degli attacchi: il primo, quello alla chiesa di Tanta, aveva lo scopo di attirare l’attenzione per colpire poche ore dopo il capo spirituale dei cristiani copti nella chiesa di San Marco ad Alessandria. Il terrorista, però, non riuscendo a entrare, si è fatto esplodere davanti alla porta della chiesa, uccidendo cristiani e musulmani. Molti musulmani sono accorsi per donare sangue, hanno aperto le porte delle moschee per curare i feriti e hanno pianto calde lacrime mentre estraevano i feriti dalle chiese. La loro umanità ha vinto sulla propaganda d’odio. Musulmani e cristiani sono rimasti insieme, in ospedale, in moschea, in chiesa. È questo un tempo in cui i predicatori della tolleranza devono fare un passo indietro. La tolleranza non è altro che lo slogan di chi è incapace di amare, e non basta. Oggi non abbiamo bisogno di tollerare, ma di amare. Perché questo terrore sarà sconfitto solo dalla nostra capacità di amare e piangere per gli altri. Daesh ha rivendicato la responsabilità degli attacchi terroristici, ma solo Daesh ne è responsabile? Non lo sono anche gli islamisti che propagandano l’odio? Non lo è anche chi si limita a condannare l’atto criminale, senza condannare l’ideologia che lo alimenta? Non lo è anche chi divide gli islamisti in moderati ed estremisti? Lo sheykh Yusuf al-Qaradawi – figura simbolo dei cosiddetti islamisti moderati – ha giustificato gli attacchi terroristici dando la colpa alla presenza di un regime dittatoriale. Ma dov’è la dittatura a Stoccolma? Dov’è la dittatura a Bruxelles, a Londra e in Francia? Come si può giustificare l’ondata

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RASSEGNA STAMPA di martedì 11 aprile 2017

SOMMARIO

“I cristiani copti sanno che oggi in Egitto andare in chiesa a pregare è un rischio - scrive Wael Farouq su Avvenire di oggi -. Daesh ha minacciato di bruciarli nelle chiese

e, solo dieci giorni fa, le forze di sicurezza hanno disinnescato un ordigno proprio nello stesso edificio sacro che nella Domenica delle Palme ha subito uno dei feroci attacchi terroristici. Eppure, i cristiani egiziani continuano a recarsi in chiesa per

pregare. La Domenica delle Palme è un giorno speciale per i bambini. Le madri, una volta, si divertivano a creare simboli e giocattoli con foglie di palma. Noi, bambini musulmani, ricevevamo corone, stelle e spade fatte con queste foglie, mentre i

bambini cristiani portavano le croci. Li accompagnavamo in corteo fino alle porte della chiesa. Loro entravano per la Messa e noi ricevevamo qualche dolce. Poi, in attesa che uscissero, proteggevamo la chiesa da nemici e demoni invisibili con le

nostre spade verdi. Penso che la mia sia l’ultima generazione che ha vissuto questa gioia. In seguito, alla fine degli anni 70 del Novecento, il presidente Anwar al-Sadat ha aperto lo spazio pubblico agli islamisti e milioni di egiziani sono emigrati verso i Paesi del Golfo, verso società uniformi che non conoscevano il pluralismo religioso e non lo accettavano. È stato l’inizio della propaganda d’odio contro i cristiani in generale e

quelli egiziani in particolare. In ogni quartiere c’era una moschea controllata dai propagandisti dell’islam politico. Sotto la protezione di Sadat e nell’indifferenza dei suoi successori, la propaganda contro i cristiani è durata quarant’anni. Gli sheykh

dicevano ai musulmani che i cristiani erano «miscredenti», che non bisognava mangiare il loro cibo, non bisognava amarli. Dicevano: «Uccidono i vostri fratelli in Iraq, Palestina e Afghanistan». Dicevano: «Non fate gli auguri per le loro feste, non rivolgete loro il saluto». Eppure nonostante anni di questa macabra propaganda, gli egiziani hanno saputo riscoprire la propria unità in piazza Tahrir. La rivoluzione ha creato uno spazio di incontro fra il musulmano, cui si era tentato di far dimenticare

l’amore e una secolare convivenza, e il cristiano che si era rassegnato a emigrare o a isolarsi dal mondo, rinchiudendosi dentro le mura della sua Chiesa nel suo stesso

Paese. La rivoluzione, nei pochi anni passati, ha distrutto decenni di odiosa propaganda. Tanti egiziani, però, malgrado la propaganda d’odio e le stragi dei

terroristi, stanno riscoprendo il bene dell’unità. Dopo gli attacchi di domenica, i cristiani hanno celebrato sui social network gli eroici poliziotti – tutti musulmani –

uccisi mentre compivano il loro dovere di proteggere la Messa officiata da papa Tawadros. Era lui l’obiettivo principale degli attacchi: il primo, quello alla chiesa di

Tanta, aveva lo scopo di attirare l’attenzione per colpire poche ore dopo il capo spirituale dei cristiani copti nella chiesa di San Marco ad Alessandria. Il terrorista, però, non riuscendo a entrare, si è fatto esplodere davanti alla porta della chiesa, uccidendo cristiani e musulmani. Molti musulmani sono accorsi per donare sangue,

hanno aperto le porte delle moschee per curare i feriti e hanno pianto calde lacrime mentre estraevano i feriti dalle chiese. La loro umanità ha vinto sulla propaganda

d’odio. Musulmani e cristiani sono rimasti insieme, in ospedale, in moschea, in chiesa. È questo un tempo in cui i predicatori della tolleranza devono fare un passo indietro. La tolleranza non è altro che lo slogan di chi è incapace di amare, e non basta. Oggi non abbiamo bisogno di tollerare, ma di amare. Perché questo terrore sarà sconfitto solo dalla nostra capacità di amare e piangere per gli altri. Daesh ha rivendicato la

responsabilità degli attacchi terroristici, ma solo Daesh ne è responsabile? Non lo sono anche gli islamisti che propagandano l’odio? Non lo è anche chi si limita a condannare

l’atto criminale, senza condannare l’ideologia che lo alimenta? Non lo è anche chi divide gli islamisti in moderati ed estremisti? Lo sheykh Yusuf al-Qaradawi – figura

simbolo dei cosiddetti islamisti moderati – ha giustificato gli attacchi terroristici dando la colpa alla presenza di un regime dittatoriale. Ma dov’è la dittatura a Stoccolma?

Dov’è la dittatura a Bruxelles, a Londra e in Francia? Come si può giustificare l’ondata

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di lupi solitari e di jihad a basso costo in Europa? Stanno erigendo un muro psicologico fra di noi per distruggere ciò che di più prezioso ha realizzato la civiltà: la libertà, la democrazia, i diritti umani. Puoi morire in un caffè, in un teatro, in un parco, in uno stadio, nella metro. Vieni ucciso in chiesa. Il tuo assassino non ti conosce, non ha mai

visto la tua faccia, non ha mai sentito il tuo nome. Lui non sa se la tua morte rattristerà i cuori di chi ti ama, o renderà felici quelli di chi ti odia. Non conosce

nemmeno sempre la tua religione, né la tua nazionalità. In realtà, il tuo assassino non uccide te, ma la vita che è in te. L’attentatore suicida non conosce nulla delle sue

vittime, conosce solo se stesso. Ma cosa conosce di se stesso che lo spinge alla morte? Anzi, cosa non conosce di se stesso che lo spinge a fuggire dalla vita? Conosce l’odio, non l’amore. È morto prima di morire e si fa esplodere per sfuggire a questa morte.

Chi non conosce l’amore non ha altra salvezza che la morte. Non c’è resurrezione per la sua anima, perché è lei stessa il sepolcro, è lei stessa la prigione. È vero, la fede

nell’amore non ti proteggerà da una pallottola o da una scheggia che va a conficcarsi nel tuo cuore, ma proteggerà il tuo cuore dalla morte prima della morte, dal vivere la

vita come una continua fuga dalla morte” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Decisioni responsabili Udienza ai membri del comitato italiano per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita Pag 7 Un sinodo aperto ai non credenti Nel cammino verso la Gmg a Panamá il Papa ricorda ai giovani l’appuntamento del 2018 Pag 8 Per la conversione dei terroristi e dei trafficanti di armi Preghiera del Pontefice dopo gli attentati contro la comunità copta in Egitto AVVENIRE Pag 3 Vocazione e senso della vita, così il Papa parla ai giovani di Mimmo Muolo Alla “generazione scartata” l’invito a essere protagonista Pag 18 I preti blogger gettano la rete di Guido Mocellin e Romina Gobbo Ministero on line. L’esperienza di cinque giovani presbiteri vicentini Pag 18 “Dialogo e ascolto, inizio da qui” di don Mauro Leonardi Pag 18 “Il mio smartphone sopra il moggio” di don Alessandro Palermo Pag 21 La svolta di Amoris laetitia? Tutta la Chiesa sia famiglia di Luciano Moia Paglia: l’amore di un uomo e di una donna non è fatto privato ma storia stessa del mondo CORRIERE DELLA SERA Pag 11 Francesco in Egitto: papa mobile blindata e dubbi sugli spostamenti di Gian Guido Vecchi Confermata “con convinzione” la visita. La gendarmeria vaticana potrebbe tornare al Cairo per nuovi controlli IL FOGLIO Pag 2 Servirà equilibrismo politico nel viaggio ecumenico del Papa in Egitto di Matteo Matzuzzi I copti nel mirino, il ruolo di Sisi, l’impegno di Al Azhar LA NUOVA Pag 37 I valori cristiani linfa della società di Nicolò Menniti-Ippolito

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Il libro del cardinale Scola, visioni dell’Occidente mentre pensa a “un futuro da parroco” Pag 37 L’addio senza proroghe del Papa mancato di Orazio La Rocca WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT AAA Vicario cercasi. Ma il “sondaggio papale” non sfonda di Gianni Valente Gli uffici di Piazza del Laterano non sono stati subissati dalle lettere sullo status della diocesi che Papa Francesco aveva chiesto a clero e laici. Inerzia degli apparati ecclesiali? O sintomo che le “riforme dall'alto” finiscono a volte per cadere nel vuoto? 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 17 “Reati in calo, ma la gente percepisce insicurezza” di Carlo Mion Il questore Sanna sottolinea la significativa diminuzione di furti e rapire: “Ma i fattori internazionali preoccupano molte persone, faremo ancora di più”. Feste di Pasqua, pronto il piano Pag 35 Cavallino, oltre sei milioni di presenze di Francesco Macaluso La regina dei campeggi. E’ la meta preferita dagli stranieri che superano l’80%. Ventotto le strutture, di cui otto considerate “Superplatz” IL GAZZETTINO Pag 23 Altino, museo abbandonato a due anni dall’inaugurazione di Adriano Favaro La direttrice si è dimessa e le sale sono vuote. Monete e anfore nella vecchia sede ora deposito. E’ costato venti milioni di euro IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Caso moschea, il prefetto dà garanzie: “Ho sentito il console, niente strappi” di Michele Fullin Soluzione vicina anche per il Comune. Brugnaro: “La troveremo ma un luogo di preghiera non sarà sicuramente sotto le case”. Stasera si riunisce la comunità islamica Pag XXV Proposta: la moschea in una chiesa (lettera di Giorgio Albertini) CORRIERE DEL VENETO Pag 12 L’ipotesi via Torino per la moschea: “Certezze sulla destinazione d’uso” di Alice D’Este 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Papa Francesco superstar, massima fiducia a Nordest di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Quattro anni di pontificato a gonfie vele: altissimo il gradimento, piace a nove persone su dieci. Maria Pia Veladiano: “Uomo dalle parole chiare che nessuno strumentalizza” CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Moschee, l’errore di chiuderle di Stefano Allievi Pag 6 Decine di “mini” moschee da spostare, la nuova legge disorienta i sindaci di Roberta Polese Vicenza: “Così si rompono gli equilibri”. I piccoli: “Spostarli costa, dove li mettiamo?” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Ipocrisie europee sulla Siria di Paolo Mieli

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Qualche domanda LA REPUBBLICA Pag 12 Il lutto senza odio dei copti di tanta: “Siamo tutti fratelli, non cambieremo” di Giampaolo Cadalunu Nella moschea vicina si prega per le vittime AVVENIRE Pag 1 Ciò che ci serve oggi di Wael Farouq Amore, non solo tolleranza. E chiarezza Pag 3 La guerra fa milioni di vivi di Alessandro Bergonzoni Migranti per forza: emergenza sovrumanitaria Pag 5 Tanta è già in piedi: il terrore non vincerà di Lucia Capuzzi Cristiani e islamici: “Siamo insieme”. Intervista al comboniano padre Simon, nel Paese da 15 anni: “Il nostro sangue per il messaggio al governo Sisi” ITALIA OGGI Contano solo Papa e Mattarella di Mario Sechi Fra i leader italiani, nel complesso e caotico scenario internazionale di questi tempi. Il primo andrà presto in Egitto. Il secondo è già a Mosca IL GAZZETTINO Pag 1 Se salta l’intesa di Parigi sull’energia di Oscar Giannino LA NUOVA Pag 1 Populisti italiani e putinismo di Massimiliano Panarari

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Decisioni responsabili Udienza ai membri del comitato italiano per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita Un invito «a prendere decisioni responsabili sui passi da compiere e su quelli di fronte ai quali fermarsi» è stato rivolto da Papa Francesco ai membri del Comitato italiano per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita, ricevuti in udienza lunedì mattina, 10 aprile, nella Sala dei Papi. Illustri Signori e Signore, do il mio cordiale benvenuto a ciascuno di voi e ringrazio il Presidente, Professor Andrea Lenzi, per le cortesi parole con cui ha introdotto questo nostro incontro. Desidero anzitutto esprimere apprezzamento per il lavoro svolto dal Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita nei 25 anni dalla sua istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. I temi e le questioni che il vostro Comitato affronta sono di grande importanza per l’uomo contemporaneo, sia come individuo sia nella dimensione relazionale e sociale, a partire dalla famiglia e fino alle comunità locali e nazionali, a quella internazionale e alla cura del creato. Come leggiamo nel libro della Genesi, «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (2, 15). La cultura, di cui voi siete autorevoli rappresentanti nel campo delle scienze e delle tecnologie della vita, porta in sé l’idea della “coltivazione”. Essa esprime bene la tensione a far crescere, fiorire e fruttificare, attraverso l’ingegno umano, ciò che Dio ha posto nel mondo. Non possiamo però dimenticare che il testo biblico ci invita anche a “custodire” il giardino del

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mondo. Come ho scritto nell’Enciclica Laudato si’, «mentre “coltivare” significa arare o lavorare un terreno, “custodire” vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura» (n. 67). Il vostro compito è non solo quello di promuovere lo sviluppo armonico ed integrato della ricerca scientifica e tecnologica che riguarda i processi biologici della vita vegetale, animale e umana; a voi è anche chiesto di prevedere e prevenire le conseguenze negative che può provocare un uso distorto delle conoscenze e delle capacità di manipolazione della vita. Lo scienziato, come il tecnologo, è chiamato a “sapere” e “saper fare” con sempre maggiore precisione e creatività nel campo di sua competenza e, nello stesso tempo, a prendere decisioni responsabili sui passi da compiere e su quelli di fronte ai quali fermarsi e imboccare una strada diversa. Il principio di responsabilità è un cardine imprescindibile dell’agire dell’uomo, che dei propri atti e delle proprie omissioni deve rispondere di fronte a sé stesso, agli altri e ultimamente a Dio. Le tecnologie, ancora più delle scienze, mettono nelle mani dell’uomo un potere enorme e crescente. Il rischio grave è quello che i cittadini, e talvolta anche coloro che li rappresentano e li governano, non avvertano pienamente la serietà delle sfide che si presentano, la complessità dei problemi da risolvere, e il pericolo di usare male della potenza che le scienze e le tecnologie della vita mettono nelle nostre mani (cfr. Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna, Brescia 1987, pp. 80-81). Quando poi l’intreccio tra potere tecnologico e potere economico si fa più stretto, allora gli interessi possono condizionare gli stili di vita e gli orientamenti sociali nella direzione del profitto di certi gruppi industriali e commerciali, a detrimento delle popolazioni e delle nazioni più povere. Non è facile giungere a un’armonica composizione delle diverse istanze scientifiche, produttive, etiche, sociali, economiche e politiche, promuovendo uno sviluppo sostenibile che rispetti la “casa comune”. Tale armonica composizione richiede umiltà, coraggio e apertura al confronto tra le diverse posizioni, nella certezza che la testimonianza resa dagli uomini di scienza alla verità e al bene comune contribuisce alla maturazione della coscienza civile. A conclusione di questa riflessione, permettetemi di ricordare che le scienze e le tecnologie sono fatte per l’uomo e per il mondo, non l’uomo e il mondo per le scienze e le tecnologie. Esse siano al servizio di una vita dignitosa e sana per tutti, nel presente e nel futuro, e rendano la nostra casa comune più abitabile e solidale, più curata e custodita. Infine, incoraggio l’impegno del vostro Comitato per avviare e sostenere processi di consenso tra gli scienziati, i tecnologi, gli imprenditori e i rappresentanti delle Istituzioni, e per individuare strategie di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle questioni poste dagli sviluppi delle scienze della vita e delle biotecnologie. Il Signore benedica ciascuno di voi, le vostre famiglie e il vostro prezioso lavoro. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e confido che anche voi lo farete per me. Grazie! Pag 7 Un sinodo aperto ai non credenti Nel cammino verso la Gmg a Panamá il Papa ricorda ai giovani l’appuntamento del 2018 Un «Sinodo per e di tutti i giovani». Anzi, quello del 2018 dovrà essere «il Sinodo dei giovani»: per quelli cattolici, che appartengono alle associazioni cattoliche, ma anche per quelli che si sentono agnostici, per quelli che hanno la fede tiepida e quelli che si sono allontanati dalla Chiesa; persino per quelli che si sentono atei. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, ha qualcosa da dire agli adulti, ha qualcosa da dire ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa». È quanto ha sottolineato con forza Francesco durante la veglia di preghiera presieduta sabato sera, 8 aprile, nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, alla presenza dei partecipanti all’incontro internazionale «Da Cracovia a Panamá: il Sinodo in cammino con i giovani», organizzato dalla segreteria generale dell’organismo sinodale e dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Cari giovani, grazie di essere qui! Questa sera è un doppio inizio: l’inizio del cammino verso il Sinodo, che ha un nome lungo: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», ma diciamo: «il Sinodo dei giovani», si capisce meglio! E anche il secondo inizio, del cammino verso Panamá: c’è qui l’Arcivescovo di Panamá [lo indica e si rivolge a lui]. Ti saluto tanto! Abbiamo ascoltato il Vangelo, abbiamo pregato, abbiamo cantato; abbiamo portato i fiori alla Madonna, alla Madre; e abbiamo portato la Croce, che viene

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da Cracovia e domani sarà consegnata ai giovani del Panamá. Da Cracovia a Panamá; e, in mezzo, il Sinodo. Un Sinodo dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso! «Ma... facciamo il Sinodo per i giovani cattolici... per i giovani che appartengono alle associazioni cattoliche, così è più forte...». No! Il Sinodo è il Sinodo per e di tutti i giovani! I giovani sono i protagonisti. «Ma anche i giovani che si sentono agnostici?». Sì! «Anche i giovani che hanno la fede tiepida?». Sì! «Anche i giovani che si sono allontanati dalla Chiesa?». Sì! «Anche i giovani che - non so se c’è qualcuno... forse ci sarà qualcuno - i giovani che si sentono atei?». Sì! Questo è il Sinodo dei giovani, e noi tutti vogliamo ascoltarci. Ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, ha qualcosa da dire agli adulti, ha qualcosa da dire ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa. Tutti abbiamo bisogno di ascoltare voi! Ricordiamo un po’ Cracovia; la Croce ce lo ricorda. Lì ho detto due cose, forse qualcuno ricorda: è brutto vedere in giovane che va in pensione a 20 anni, è brutto; e anche è brutto vedere un giovane che vive sul divano. Non è vero? Né giovani «in pensione», né giovani «da divano». Giovani che camminino, giovani di strada, giovani che vadano avanti, uno accanto all’altro, ma guardando il futuro! Abbiamo ascoltato il Vangelo (cfr. Lc 1, 39-45). Quando Maria riceve quel dono, quella vocazione tanto grande di portare il dono di Dio a noi, dice il Vangelo che, avendo avuto anche la notizia che la sua cugina anziana aspettava un bambino e aveva bisogno di aiuto, se ne va «in fretta». In fretta! Il mondo di oggi ha bisogno di giovani che vadano «in fretta», che non si stanchino di andare in fretta; di giovani che abbiano quella vocazione di sentire che la vita offre loro una missione. E, come ha detto tante volte Maria Lisa [giovane Suora] nella sua testimonianza, giovani in cammino. Lei ha raccontato tutta la sua esperienza: è stata un’esperienza in cammino. Abbiamo bisogno di giovani in cammino. Il mondo può cambiare soltanto se i giovani sono in cammino. Ma questo è il dramma di questo mondo: che i giovani - e questo è il dramma della gioventù di oggi! - che i giovani spesso sono scartati. Non hanno lavoro, non hanno un ideale da seguire, manca l’educazione, manca l’integrazione... Tanti giovani devono fuggire, emigrare in altre terre... I giovani, oggi, è duro dirlo, ma spesso sono materiale di scarto. E questo noi non possiamo tollerarlo! E noi dobbiamo fare questo Sinodo per dire: «Noi giovani siamo qui!». E noi andiamo a Panamá per dire: «Noi giovani siamo qui, in cammino. Non vogliamo essere materiale di scarto! Noi abbiamo un valore da dare». Ho pensato, mentre Pompeo parlava [nella seconda testimonianza]: per due volte lui è stato quasi al limite di essere materiale di scarto, a 8 anni e a 18 anni. E ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta. È stato capace di rialzarsi. E la vita, quando guardiamo l’orizzonte - lo ha detto anche Maria Lisa -, sempre ci sorprende, sempre. Tutti e due lo hanno detto. Noi siamo in cammino, verso il Sinodo e verso Panamá. E questo cammino è rischioso; ma se un giovane non rischia, è invecchiato. E noi dobbiamo rischiare. Maria Lisa ha detto che dopo il sacramento della Cresima si è allontanata dalla Chiesa. Voi sapete bene che qui in Italia il sacramento della Cresima lo si chiama «il sacramento dell’arrivederci»! Dopo la Cresima non si torna più in chiesa. E perché? Perché tanti giovani non sanno cosa fare... E lei [Maria Lisa] mai si è fermata, sempre in cammino: a volte su strade oscure, su strade senza luce, senza ideali o con ideali che non capiva bene; ma alla fine, anche lei ce l’ha fatta. Voi giovani dovete rischiare nella vita, rischiare. Oggi dovete preparare il futuro. Il futuro è nelle vostre mani. Il futuro è nelle vostre mani. Nel Sinodo, la Chiesa, tutta, vuole ascoltare i giovani: cosa pensano, cosa sentono, cosa vogliono, cosa criticano e di quali cose si pentono. Tutto. La Chiesa ha bisogno di più primavera ancora, e la primavera è la stagione dei giovani. E inoltre vorrei invitarvi a fare questo cammino, questa strada verso il Sinodo e verso Panamá, a farla con gioia, farla con le vostre aspirazioni, senza paura, senza vergogna, farla coraggiosamente. Ci vuole coraggio. E cercare di prendere la bellezza nelle piccole cose, come ha detto Pompeo, quella bellezza di tutti i giorni: prenderla, non perdere questo. E ringraziare per quello che sei: «Io sono così: grazie!». Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: «Ma chi sono io?». Ma tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: «Per chi sono io?». Come la Madonna, che è stata capace di domandarsi: «Per chi, per quale persona sono io, in questo momento? Per la mia cugina», ed è andata. Per chi sono io, non chi sono io: questo viene dopo, sì, è una domanda che si deve fare, ma prima di tutto perché fare un lavoro, un lavoro di tutta una vita, un lavoro che ti faccia pensare, che ti faccia sentire, che ti faccia operare. I tre linguaggi: il linguaggio della mente, il linguaggio del cuore e il linguaggio delle

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mani. E andare sempre avanti. E un’altra cosa che vorrei dirvi: il Sinodo non è un «parlatoio». La GMG non sarà un «parlatoio» o un circo o una cosa bella, una festa e poi «ciao», mi sono dimenticato. No, concretezze! La vita ci chiede concretezza. In questa cultura liquida, ci vuole concretezza, e la concretezza è la vostra vocazione. E vorrei finire... - c’era un discorso scritto, ma dopo aver visto voi, aver sentito le due testimonianze, mi è venuto da dire tutto questo -: ci saranno momenti in cui voi non capirete nulla, momenti oscuri, brutti, momenti belli, momenti oscuri, momenti luminosi... ma c’è una cosa che io vorrei sottolineare. Noi siamo nel presente. Alla mia età, stiamo per andarcene... ah no? [ride] Chi garantisce la vita? Nessuno. La vostra età ha il futuro davanti. Ai giovani, oggi, ai giovani la vita chiede una missione, la Chiesa chiede loro una missione, e io vorrei dare a voi questa missione: tornare indietro e parlare con i nonni. Oggi più che mai abbiamo necessità, abbiamo bisogno di questo ponte, del dialogo tra i nonni e i giovani, tra i vecchi e i giovani. Il profeta Gioele, nel capitolo 3, versetto 2, ci dice questo, come una profezia: «Gli anziani avranno sogni, sogneranno, e i giovani profetizzeranno», cioè porteranno avanti con le profezia le cose concrete. Questo è il compito che io vi do in nome della Chiesa: parlare con gli anziani. «Ma è noioso..., dicono sempre le stesse cose...». No. Ascolta l’anziano. Parla, domanda le cose. Fa’ che loro sognino e da quei sogni prendi tu per andare avanti, per profetizzare e per rendere concreta quella profezia. Questa è la vostra missione oggi, questa è la missione che vi chiede oggi la Chiesa. Cari giovani, siate coraggiosi! «Ma, Padre, io ho peccato, tante volte cado...». Mi viene in mente una canzone alpina, bellissima, che cantano gli alpini: «Nell’arte di salire, l’importante non è non cadere, ma non rimanere caduti». Avanti! Cadi? Alzati e vai avanti. Ma pensa a quello che ha sognato il nonno, che ha sognato il vecchio o la vecchia. Falli parlare, prendi quelle cose e fai il ponte al futuro. Questo è il compito e la missione che oggi vi dà la Chiesa. Grazie tante per il vostro coraggio, e... a Panamá! Non so se sarò io, ma ci sarà il Papa. E il Papa, a Panamá, vi farà la domanda: «Avete parlato con i vecchi? Avete parlato con gli anziani? Avete preso i sogni dell’anziano e li avete trasformati in profezia concreta?». Questo è il vostro compito. Che il Signore vi benedica. Pregate per me, e prepariamoci tutti insieme per il Sinodo e per Panamá. Grazie. Pag 8 Per la conversione dei terroristi e dei trafficanti di armi Preghiera del Pontefice dopo gli attentati contro la comunità copta in Egitto «Il Signore converta il cuore delle persone che seminano terrore, violenza e morte, e anche il cuore di quelli che fanno e trafficano le armi». È l’accorato appello lanciato dal Papa in piazza San Pietro all’Angelus della domenica delle Palme, che è stata tragicamente segnata da un duplice attentato terroristico contro i cristiani in Egitto. Il Pontefice ha guidato la preghiera mariana dal sagrato della basilica vaticana al termine della messa del 9 aprile, in cui la Chiesa celebrava la Passione del Signore e, a livello diocesano, la trentaduesima giornata mondiale della gioventù. Di seguito l’omelia pronunciata dal Papa. Questa celebrazione ha come un doppio sapore, dolce e amaro, è gioiosa e dolorosa, perché in essa celebriamo il Signore che entra in Gerusalemme ed è acclamato dai suoi discepoli come re; e nello stesso tempo viene proclamato solennemente il racconto evangelico della sua Passione. Per questo il nostro cuore sente lo struggente contrasto, e prova in qualche minima misura ciò che dovette sentire Gesù nel suo cuore in quel giorno, giorno in cui gioì con i suoi amici e pianse su Gerusalemme. Da 32 anni la dimensione gioiosa di questa domenica è stata arricchita dalla festa dei giovani: la Giornata Mondiale della Gioventù, che quest’anno viene celebrata a livello diocesano, ma che in questa Piazza vivrà tra poco un momento sempre emozionante, di orizzonti aperti, con il passaggio della Croce dai giovani di Cracovia a quelli di Panamá. Il Vangelo proclamato prima della processione (cfr. Mt 21, 1-11) descrive Gesù che scende dal monte degli Ulivi in groppa a un puledro di asino, sul quale nessuno era mai salito; dà risalto all’entusiasmo dei discepoli, che accompagnano il Maestro con acclamazioni festose; ed è verosimile immaginare come questo contagiò i ragazzi e i giovani della città, che si unirono al corteo con le loro grida. Gesù stesso riconosce in tale accoglienza gioiosa una forza inarrestabile voluta da Dio, e ai farisei scandalizzati risponde: «Io vi

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dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre» (Lc 19, 40). Ma questo Gesù, che secondo le Scritture entra proprio in quel modo nella Città santa, non è un illuso che sparge illusioni, non è un profeta “new age”, un venditore di fumo, tutt’altro: è un Messia ben determinato, con la fisionomia concreta del servo, il servo di Dio e dell’uomo che va alla passione; è il grande Paziente del dolore umano. Mentre dunque anche noi facciamo festa al nostro Re, pensiamo alle sofferenze che Lui dovrà patire in questa Settimana. Pensiamo alle calunnie, agli oltraggi, ai tranelli, ai tradimenti, all’abbandono, al giudizio iniquo, alle percosse, ai flagelli, alla corona di spine..., e infine pensiamo alla via crucis, fino alla crocifissione. Lui lo aveva detto chiaramente ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24). Non ha mai promesso onori e successi. I Vangeli parlano chiaro. Ha sempre avvertito i suoi amici che la sua strada era quella, e che la vittoria finale sarebbe passata attraverso la passione e la croce. E anche per noi vale lo stesso. Per seguire fedelmente Gesù, chiediamo la grazia di farlo non a parole ma nei fatti, e di avere la pazienza di sopportare la nostra croce: di non rifiutarla, non buttarla via, ma, guardando Lui, accettarla e portarla, giorno per giorno. E questo Gesù, che accetta di essere osannato pur sapendo bene che lo attende il “crucifige!”, non ci chiede di contemplarlo soltanto nei quadri o nelle fotografie, oppure nei video che circolano in rete. No. È presente in tanti nostri fratelli e sorelle che oggi, oggi patiscono sofferenze come Lui: soffrono per un lavoro da schiavi, soffrono per i drammi familiari, soffrono per le malattie... Soffrono a causa delle guerre e del terrorismo, a causa degli interessi che muovono le armi e le fanno colpire. Uomini e donne ingannati, violati nella loro dignità, scartati... Gesù è in loro, in ognuno di loro, e con quel volto sfigurato, con quella voce rotta chiede - ci chiede - di essere guardato, di essere riconosciuto, di essere amato. Non è un altro Gesù: è lo stesso che è entrato in Gerusalemme tra lo sventolare di rami di palma e di ulivo. È lo stesso che è stato inchiodato alla croce ed è morto tra due malfattori. Non abbiamo altro Signore all’infuori di Lui: Gesù, umile Re di giustizia, di misericordia e di pace. Infine, prima di impartire la benedizione conclusiva ai presenti, il Papa ha introdotto la recita dell’Angelus con queste parole. Al termine di questa celebrazione, saluto cordialmente tutti voi qui presenti, specialmente quanti hanno partecipato all’Incontro internazionale in vista dell’assemblea sinodale sui giovani, promosso dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita in collaborazione con la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi. Questo saluto si estende a tutti i giovani che oggi, intorno ai loro vescovi, celebrano la Giornata della Gioventù in ogni diocesi del mondo. È un’altra tappa del grande pellegrinaggio, iniziato da san Giovanni Paolo II, che l’anno scorso ci ha radunati a Cracovia e che ci convoca a Panamá per il gennaio 2019. Per questo, tra qualche istante, i giovani polacchi consegneranno la Croce delle Giornate Mondiali della Gioventù ai giovani panamensi, accompagnati, gli uni e gli altri, dai loro Pastori e dalle Autorità civili. Chiediamo al Signore che la Croce, unita all’icona di Maria Salus Populi Romani, là dove passerà faccia crescere la fede e la speranza, rivelando l’amore invincibile di Cristo. A Cristo, che oggi entra nella Passione, e alla Vergine Santa affidiamo le vittime dell’attentato terroristico avvenuto venerdì scorso a Stoccolma, come pure quanti sono ancora duramente provati dalla guerra, sciagura dell’umanità. E preghiamo per le vittime dell’attentato compiuto purtroppo oggi, questa mattina, in una chiesa copta. Al mio caro fratello, Sua Santità Papa Tawadros II, alla Chiesa Copta e a tutta la cara nazione egiziana esprimo il mio profondo cordoglio, prego per i defunti e per i feriti, sono vicino ai familiari e all’intera comunità. Il Signore converta il cuore delle persone che seminano terrore, violenza e morte, e anche il cuore di quelli che fanno e trafficano le armi. AVVENIRE Pag 3 Vocazione e senso della vita, così il Papa parla ai giovani di Mimmo Muolo Alla “generazione scartata” l’invito a essere protagonista Con due raduni mondiali della Gmg già alle spalle (Rio de Janeiro 2013 e Cracovia 2016) e uno all’orizzonte (Panama 2019), e soprattutto con la scelta di indire un Sinodo dei

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vescovi dedicato ai giovani, il Papa ha ampiamente dimostrato quanto tiene alle nuove generazioni. Proprio due giorni fa, nella Domenica delle Palme, si è svolto in piazza san Pietro il rito della consegna della Croce simbolo delle Gmg dai ragazzi polacchi a quelli panamensi. Un passaggio di consegne ormai tradizionale, che però introduce anche una fase nuova nella pastorale giovanile di papa Bergoglio. Da Rio de Janeiro sono passati infatti poco meno di quattro anni, ma molto è già cambiato. Il Pontefice in particolare ha dapprima segnalato il rischio che nella società liquida del terzo millennio i giovani siano trattati da «materiale di scarto» (lo ha detto chiaramente anche nella veglia di sabato scorso a Santa Maria Maggiore, presenti i responsabili nazionali della pastorale giovanile di tutto il mondo); quindi ha invitato gli stessi giovani a coltivare maggiormente i rapporti intergenerazionali. Proprio il Sinodo del 2018, il primo in assoluto sul pianeta giovanile, è l’emblema di un duplice passo avanti rispetto all’eredità delle stagioni precedenti. Da un lato il «materiale di scarto» diventa invece il fulcro del dibattito, dall’altro la voce delle nuove generazioni (Francesco ha più volte espresso il desiderio che tutti i giovani, anche i più lontani dalla fede, siano ascoltati) viene messa in rapporto con quella di tutta la Chiesa, quasi a simboleggiare quella relazione tra le diverse generazioni («ascoltate i nonni», la sua ricorrente raccomandazione, da ultimo nella già citata veglia mariana di sabato) di cui si è detto. Queste due novità sostanziali sono la magna charta di una pastorale giovanile 2.0 che ha precise caratteristiche. Prima di tutto l’intergenerazionalità, appunto. Per Francesco i giovani non sono un mondo a parte, un universo parallelo, ma devono entrare in relazione feconda con chi li precede nel computo degli anni. Essi possono dare alla società freschezza, entusiasmo, idee nuove. Ma in cambio hanno bisogno di ricevere esperienza, saggezza e valori. La stessa scelta di un dicastero che comprende laici (e quindi pastorale giovanile), famiglia e vita può essere inquadrata in questo contesto. Tutto ciò è risultato particolarmente chiaro alla Gmg di Cracovia. Per tre sere – ripetendo l’esperienza cara a Giovanni Paolo II durante le sue visite da papa in città – Bergoglio si è affacciato alla finestra dell’episcopio che dà su via Franciszkanska e ha parlato a migliaia di ragazzi che lo aspettavano nello spiazzo antistante. Ma tutte e tre le sere ha toccato argomenti a prima vista non in sintonia con un evento così gioioso come la Gmg. Il 27 luglio ha ricordato Maciej Ciešla, un giovane volontario della Giornata di 22 anni, morto poche settimane prima di tumore. Il 28 luglio ha parlato delle tre parole che salvano le famiglie («Permesso, grazie, perdono»), invitando a pregare per tutte le famiglie. Il 29 luglio, venerdì, al termine di una giornata scandita dalla visita ad Auschwitz, dalla sosta in un ospedale pediatrico e dalla via crucis con i giovani, ha esortato ad avere a cuore «tutti i Gesù che ci sono oggi nel mondo», cioè per coloro che in diversa forma portano la propria personale croce. P erché lo ha fatto? Egli stesso in una delle sere ha sottolineato: «È un po’ triste quello che vi dico, ma è la realtà». Ecco, la realtà è che il Papa non vuole giovani tenuti in un ambiente protetto, in una sorta di bambagia spirituale, ma persone in formazione capaci fin da ora di interagire con il mondo. Ciò spiega anche perché il tema del Sinodo sarà la vocazione, nel senso più ampio della parola. In altri termini il senso della vita. Quello che la pastorale giovanile del terzo millennio deve accompagnare a scoprire in un mondo che spesso si ferma al 'qui e ora' senza passato e senza futuro. La seconda novità è per così dire applicativa di questo quadro di principi. Non a caso, infatti, il Papa sta cadenzando il passo dei giovani in piani triennali. Tre beatitudini hanno scandito le Gmg dal 2014 al 2016, tre passi del Magnificat faranno altrettanto da qui al 2019. È una scelta innovativa, dietro la quale c’è un preciso disegno pastorale. Le beatitudini sono il cuore del Vangelo. Indicandole ai giovani, Francesco li ha invitati a una sequela radicale di Cristo, fino a toccare il culmine con la beatitudine dei misericordiosi, che ha tradotto per loro il messaggio dell’Anno Santo. In continuità con questa indicazione, ecco il riferimento a Maria, «colei che tutte le generazioni chiamano beata». E dunque un modello da imitare, una creatura che sa fare memoria del passato, avere coraggio nel presente e speranza nel futuro. Nei tre anni 'mariani' che ci stanno di fronte il percorso sarà animato dalle tre virtù teologali: fede, carità e speranza. Il tutto, tra l’altro, in perfetta sintonia con la riflessione che Francesco ha affidato al prossimo Sinodo dei Vescovi: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. E infatti, lo stesso Pontefice, nel Messaggio per la Gmg su base diocesana del 2017 (celebrata in questa Domenica delle Palme) sottolinea: «Desidero che vi sia una grande sintonia tra il percorso verso la Gmg di Panama e il cammino sinodale». I nfine, proprio il testo di questo Messaggio,

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pubblicato il 21 marzo scorso e accompagnato per la prima volta anche da un videomessaggio, ci introduce a una ulteriore novità: la capacità del Papa di parlare un linguaggio facilmente comprensibile anche dalle nuove generazioni e di 'abitare' gli ambienti multimediali della generazione digitale. A Cracovia, ad esempio, aveva stigmatizzato la condotta di quelli che aveva definito «giovani-divano» (metafora ripresa anche nel testo di quest’anno), cioè di coloro che se ne stanno chiusi in casa, su un comodo divano appunto, magari a giocare alla playstation o a guardare la tivu. Non solo: aveva ricordato che la vera felicità «non è un’app che si scarica sul telefonino» e che vivere senza Gesù è come se per un cellulare non ci fosse campo. Francesco, dunque, sa come entrare in empatia con i giovani del terzo millennio, così come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano fatto con le due generazioni precedenti. A tal fine egli mescola sapientemente il nuovo e l’'antico', ma reinventa ogni cosa alla sua maniera. Ad esempio ha voluto che si celebrasse per la prima volta un Giubileo dei ragazzi (il nuovo), per ridare importanza a un’età (quella della cresima, sacramento da lui stesso definito dell’«arrivederci») finora ai margini del discorso e tuttavia di vitale importanza per le scelte di vita. E proprio durante questo Giubileo, il 23 aprile 2016, ha compiuto uno straordinario gesto, quando a sorpresa si è recato in piazza san Pietro, sedendosi su una semplice sedia per confessare (l’'antico') come un sacerdote qualsiasi, durante il Giubileo dei ragazzi. Il Papa 'parroco' non è una figura lontana, avvolta in una sacralità intangibile e quasi mitologica, ma un 'amico' speciale che, sull’esempio di Gesù, non esita a farsi compagno di strada di tutti. L’eloquenza del gesto diviene magistero nel momento stesso in cui è compiuto. Possiamo ora provare a trarre qualche conclusione. Prima di tutto, come abbiamo visto, il Papa non esita a porsi sullo stesso piano. Selfie, linguaggio condito da metafore tecnologiche, vicinanza anche fisica, abbracci e gesti inattesi sono la grammatica di base di un approccio all’universo giovanile che si nutre di una dinamica inclusiva. Così i contenuti (anche quelli tradizionali) della pastorale giovanile vengono declinati con un linguaggio metaverbale particolarmente adatto ad essere recepito da chi è più a suo agio con l’immediatezza dei bit che con le riflessioni filosofiche. Nel contempo, però, questo 'abbassarsi' è il preludio per uno scatto in avanti, cioè per l’invito ad andare oltre l’autoreferenzialità del mondo giovanile e oltre la logica del «materiale di scarto», per mettere davvero i giovani in relazione feconda con le altre età e renderli – come il Papa stesso disse a Rio de Janeiro – «la finestra dalla quale il futuro entra nel mondo». Pag 18 I preti blogger gettano la rete di Guido Mocellin e Romina Gobbo Ministero on line. L’esperienza di cinque giovani presbiteri vicentini «Neanche un prete, per chiacchierar...». È probabile che oggi, dopo la rivoluzione digitale, un verso come quello reso celeberrimo da Adriano Celentano non avrebbe più tanto senso: online troveremmo in qualunque momento più di un sacerdote con il quale chattare. Anche prescindendo da ricerche specifiche (tra le quali ricordo, tre anni fa, quella presentata al convegno «Churchbook. Tra social network e pastorale», che stimava al 20% la percentuale dei parroci su Facebook), la sola esperienza mostra infatti a ciascun internauta attento alla vita ecclesiale che ci sono molti preti attivi nella Rete, sia attraverso blog e profili personali sui social network, sia in quanto gestiscono direttamente i siti e le pagine delle parrocchie nelle quali esercitano il ministero. Come accade per tutti gli altri utenti, i contenuti che questi pastori veicolano sono molto diversi a seconda dell’intenzione con la quale ciascuno di essi decide di segnare con la propria presenza la Rete. Chi interpreta il ministero in termini più funzionali, come fosse una professione, attribuisce ai momenti trascorsi online il ruolo dello stacco ricreativo. Usa soprattutto i social network, dove coltiva rapporti personali e interessi che possono prescindere dalla missione apostolica. Non nasconde la sua identità di chierico, ma neppure la sbandiera: ai familiari e ai 'vecchi amici' con i quali tiene i contatti essa è già nota (non fa differenza se usa un nickname), con gli altri pen- sa che sia meglio mantenere una certa riservatezza. Internet corrisponde all’appartamento nel quale vive e dove raramente fa entrare i parrocchiani, o alla stanza che ha conservato a casa dei genitori. Chi invece non è così diviso in sé stesso trasferisce e condivide online le proprie inclinazioni di uomo di Chiesa: scrive o più spesso rilancia materiali intorno agli studi biblici, alla ricerca teologica, alla liturgia, all’attualità ecclesiale, all’animazione della

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comunità, alla pietà popolare. La sua identità di prete è ben evidente, e le relazioni che coltiva sono di evangelica prossimità, ma non sempre si rende conto che anche in Rete sta esercitando il proprio ministero, anzi: può capitare che ne sottovaluti la dimensione pubblica, e dunque che si sbilanci, in un post o in un commento su un post altrui, in espressioni azzardate che invece tratterrebbe se fosse all’ambone. Quando è su Internet è un po’ come se fosse nel suo studio e un po’ nella sua sagrestia. C’è infine chi, da uomo di Dio aperto al tempo, guarda al digitale come a un ambiente dove, positivamente, annunciare e testimoniare il Vangelo e continuare l’azione pastorale. Talvolta lo fa con straordinaria passione. Si rende disponibile ad aprire siti istituzionali e li gestisce con metodo, postando regolarmente contenuti originali o comunque riorganizzati a uso e consumo della comunità (fisica e digitale) alla quale vuole rivolgersi. Racconta, con parole e immagini, la vita della parrocchia che guida per valorizzarla agli occhi di chi ne è lontano e per confermare chi invece ne è già parte attiva. Se proprio non corrisponde al tempio in cui si raduna l’assemblea liturgica, della quale può comunque arrivare a condividere qualche foto e qualche video, certamente per lui la Rete è un grande oratorio, ma anche un’aula di catechismo, una sala della comunità, un campo estivo, persino una silenziosa cappella. Anche se, come sottolineano tanti e qualificati esperti in materia, non deve rimanere legato a un modello di comunicazione 'da uno a molti', né tantomeno considerare la Rete un semplice amplificatore di contenuti – dalla lectio divina all’avviso della salsicciata – provenienti dalla pastorale ordinaria, è quest’ultimo tipo di presenza quella che sta dando i frutti più interessanti. Come i casi presentati in questa pagina testimoniano. «Promesse di felicità gratis: ne vuoi?» #twittomelia; «Pescatori, non monsignori... abbiamo sbagliato qualcosa...» #twittomelia; «La vera conversione inizia dal saper distinguere il Bene dal Male. Ed è una gran bella fatica» @twittomelia; «È il peccato a dividere e scartare; Dio accoglie tutti noi e tutto di noi» #twittomelia. Sono alcuni dei tweet che i sacerdoti del blog www.twittomelia.it hanno diffuso da quando, nel 2015, l’iniziativa delle omelie in 140 caratteri è partita. Poche parole, come prevede il social network, ma significative, per raggiungere il cuore dei fedeli. «In così poco spazio possiamo soltanto provare ad aprire una porta, chi sta dall’altra parte deve scegliere se entrare», afferma uno degli autori, don Riccardo Pincerato. Chi vuole entrare trova nello stesso tweet il link all’omelia completa. Ma entrare significa soprattutto interagire. «Nel mondo dei social non esistono esperti – spiega don Daniele Pressi, ideatore dell’iniziativa –. Per noi questa è un’opportunità, perché elimina uno degli scogli dal punto di vista pastorale, cioè il fatto che la Parola viene ancora considerata prerogativa esclusiva dei preti. È vero che noi siamo formati a questo, ma è anche vero che la Parola è di tutto il popolo di Dio. Ciascuno dovrebbe sentire il desiderio di abitarla. Twittomelia quindi parte da noi, ma è uno spazio nel quale invitiamo tutti. Facciamo la nostra proposta, sperando che venga accolta, commentata, e ovviamente ritwittata». L’idea nasce un anno e mezzo fa da un gruppo di preti giovani della diocesi di Vicenza, stimolati dal cardinale Gianfranco Ravasi. Ma viene prima il tweet o l’omelia per esteso? «Partiamo col chiederci quali sono i 140 caratteri che il Signore ci direbbe di inviare – spiega don Riccardo –. Poi cerchiamo di sviscerare il messaggio in maniera essenziale, con il linguaggio del Web, ma senza smarrire la ricchezza del contenuto». Il vescovo Pizziol «ci ha solo raccomandato che non sia un’esperienza autoreferenziale ma di servizio. E che al centro ci sia sempre il Vangelo». Ottocento followers su Twitter, 1.500 contatti Facebook, e poi il blog. «C’è chi legge soltanto, ma c’è anche chi interviene. E sono sempre scambi arricchenti per noi». Perché «il social network dipende da come lo si usa. Come cristiani dobbiamo decidere se prendere le distanze – conclude don Daniele – oppure provare a inserirci con quello che siamo». Pag 18 “Dialogo e ascolto, inizio da qui” di don Mauro Leonardi Essere prete e avere un blog comporta rischi. Sono tanti e le critiche, che non mancano, non mi lasciano indifferente, mi fanno riflettere e mi fanno pregare. So che Internet può avvicinare ai lontani ma anche allontanare dai vicini. Però continuo a pensare che se voglio essere un prete che sta in mezzo al mondo, che vuol fare della propria vita una preghiera, il mio compito è anche stare sul Web. Uso parole grosse: sono convinto che

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me lo chieda Dio. Che faccia parte – per me, non per tutti – della mia vocazione di prete. Il Web ha fatto aumentare il numero di letti della mia personalissima 'Chiesa- ospedale da campo'. E questo in aggiunta – non in sostituzione – degli ordinari compiti di confessioni, celebrazioni, catechesi, malati 'reali', giovani e così via. Il sacerdozio è servizio, è donare cose sacre. Meglio: è rendere sacra la vita dell’uomo attraverso l’intimità di vita con Gesù. Essere prete comprende una spoliazione che porta a piegarsi per toccare e lavare l’umanità partendo da dove si è più in basso, più lontano, più sporchi: significa immischiarsi nella vita per redimerla. La mia vocazione è mettermi in ascolto delle persone, di affiancare la gente – anche del Web – in un cammino dove tutti hanno un pochino di verità e dove nessuno ce l’ha tutta intera e ne ha l’esclusiva. Perché la verità è una Persona, una sola, e si può solo incontrarLa. Per questo ho messo a fondamento del mio essere blogger non tanto l’apologetica quanto favorire il dialogo e l’incontro rispettoso. Il tentativo è arrivare, senza paura, a vite affatto convergenti con il Catechismo. Un prete senza ruolo liturgico ma prete più che mai. Perché rispettoso dell’identità altrui e della propria. Pag 18 “Il mio smartphone sopra il moggio” di don Alessandro Palermo La mia 'presenza comunicativa' in Rete comincia nel 2007, quando decisi di creare la pagina Web della mia parrocchia. Mi resi conto che era necessario attivare canali alternativi ai classici manifesti e che non bastava stampare il manifesto e 'rinchiuderlo' dentro la bacheca della chiesa, ma che bisognava condividerlo ai tanti 'naviganti' del Web. La Rete ci permette di condividere con tutti le bellezze artistiche e le iniziative pastorali e culturali. In un certo senso, dedicare il proprio tempo a informare e a condividere contenuti online significa dare forma a ciò che leggiamo in Matteo 5,14-16: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini». I media penso siano preziose occasioni che ci permettono di condividere, di 'mettere sul moggio' le tanti 'luci' che possediamo e che incontriamo affinché divengano a loro volta opportunità per diffondere il bene. Ma la vera novità accade con i social network. Essi hanno dato un volto completamente nuovo alla Rete, la quale non è più soltanto uno strumento di trasmissione ma un’occasione di relazione reale. Oggi «è impossibile immaginare l’esistenza della famiglia umana senza di essi» (Caritas in veritate 73). E con l’avvento dei social network «la responsabilità dell’annuncio aumenta e si fa più impellente e reclama un impegno più motivato ed efficace». I sacerdoti «sono chiamati a occuparsene pastoralmente » e personalmente (Benedetto XVI, Messaggio per la XVI Giornata delle comunicazioni). Ecco perché la mia presenza nello scenario digitale la considero come qualcosa che 'non posso non fare'. 1) Non si può non comunicare. Sono convinto – lo siamo tutti e non ce ne rendiamo conto – di essere mediale. Il mio profilo social non è qualcosa di 'diverso' da me ma è il 'riflesso' della mia storia, delle mie espressioni e delle mie intenzioni di comunicare qualcosa agli altri. 2) Si è sacerdoti per comunicare il Vangelo e per testimoniarlo ovunque e in ogni modo. Nell’era delle Reti sociali questi compiti si sono intensificati. Con il mio smartphone, una volta entrato nei social network, trovo realmente più di 2.600 persone cui devo annunciare e testimoniare la Buona notizia. Farlo, però, non significa semplicemente inserire contenuti religiosi ma comunicare scelte, preferenze, giudizi coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita. Credo che nel ministero sacerdotale la comunicazione digitale sia una categoria importante, anzi, necessaria, perché concorre alla realizzazione della comunione. A questo, infatti, ci servono i social network. Non possiamo delegare l’annuncio nei media digitali ad altri, ma dobbiamo impegnarci personalmente affinché, anche in questi scenari, venga reso un buon servizio alla Parola. Pag 21 La svolta di Amoris laetitia? Tutta la Chiesa sia famiglia di Luciano Moia Paglia: l’amore di un uomo e di una donna non è fatto privato ma storia stessa del mondo

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La novità autentica di Amoris laetitia non è la richiesta di rafforzare la pastorale familiare, ma la volontà di trasferire lo stile familiare a tutta la pastorale della Chiesa. Così l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita e gran cancelliere dell’Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, sintetizza il significato dell’Esortazione postsinodale a un anno dalla pubblicazione. Purtroppo in questi primi 12 mesi il dibattito concentrato quasi esclusivamente sul capitolo ottavo. Anzi, su una nota, l’ormai famosissima n.351. Che opinione si è fatto di questo “accanimento”? Forse proprio l’“accanimento” ha portato difficoltà nel comprendere il testo. C’è poi da dire che la stragrande maggioranza del popolo di Dio ha accolto il testo con entusiasmo. E sappiamo tutti che la ricezione dei fedeli (è il sensus fidei fidelium) è un pilastro della tradizione della Chiesa. Certo, si può capire la concentrazione sulla famosa nota per i problemi pastorali che può suscitare. Ma bloccarsi su questo impedisce di cogliere il valore di un testo che il Papa ha arricchito ma che è stato il frutto di un lungo cammino sinodale. Se non si coglie il valore del testo è difficile capire non solo la nota ma anche l’intero capitolo VIII. Il Papa – e il Sinodo – non hanno dato nuove disposizioni giuridiche. Hanno voluto ridare ai pastori la loro responsabilità di pastori. Certo debbono esercitarla dentro un contesto comunitario. Quindi, niente “fai da te”. Ma, appunto, discernere, accompagnare e integrare. Così altri aspetti dell’Esortazione sono rimasti in ombra. Se dovessimo “ricominciare da capo”, quale parte di Amoris laetitia dovremmo mettere in luce con maggiore evidenza? Vorrei sottolineare due aspetti decisivi. Il primo riguarda il cambio di passo e di stile che il testo esige dalle comunità ecclesiali. La Chiesa deve essere essa stessa una famiglia. Quanto c’è da fare in questo senso! Solo una Chiesa che è essa stessa famiglia saprà comprendere le famiglie, accompagnarle, curarle e guarirle. Una Chiesa che è madre non giudica per condannare. E non vuole perdere nessuno dei suoi figli. Papa Francesco non benedice le ferite, le guarda in faccia, ma per guarirle. Chiede a tutti di usare la medicina della misericordia, non il bastone della condanna, come diceva Giovanni XXIII. E raccomanda la gradualità e la pazienza proprie di Dio. In sintesi il Papa chiede non tanto di rafforzare la pastorale familiare quanto di imprimere a tutta la pastorale della Chiesa uno stile familiare. E il secondo aspetto? Il secondo aspetto che caratterizza l’impianto del testo è la visione strategica con cui il Papa guarda la famiglia. Non la considera come una vicenda che riguarda alcuni individui e i loro desideri di amore (ovviamente legittimi), bensì come una vicenda che riguarda la storia stessa del mondo. La famiglia, in certo modo, è la madre di tutti i rapporti. L’alleanza tra l’uomo e la donna non è un fatto privato. È pubblico. Anzi, ha un valore storico, come ci ricorda il libro della Genesi: Dio affida all’alleanza dell’uomo e della donna la cura del creato e la responsabilità delle generazioni. Quando vanno bene le cose tra l’uomo e la donna, va bene anche la società. La famiglia è la risorsa più importante delle nostre società. È dunque d’accordo con chi ritiene che le chiavi di lettura dell’Esortazione sono soprattutto la misericordia e la storia, la seconda intesa soprattutto come necessità di inserire la propria storia di vita in un dinamismo spirituale? Certamente. Potremmo dire che l’anno giubilare della misericordia è stata la chiave d’oro per leggere Amoris laetitia. E la chiave storica è a questo legata. Le famiglie così come sono vanno avvici- nate accompagnate a vivere l’ideale evangelico. All’Accademia per la vita, per fare un esempio, vorremmo sottolineare la dimensione dell’accompagnamento alla vita, non alla vita in astratto, ma alle persone nelle diverse età della loro vita, inizio, infanzia, adolescenza e così oltre sino al termine dell’esistenza terrena. La famiglia è il luogo privilegiato ove le età della vita sono chiamate a convivere e ad accompagnarsi. Corretto pensare che l’originalità di Amoris laetitia è concentrata soprattutto sui capitoli IV e V sui quali papa Francesco non cessa di richiamare l’attenzione? In effetti, essi formano la parte centrale della Esortazione Apostolica. E mettono in luce le due dimensioni dell’amore familiare: il legame d’amore tra un uomo e una donna e la fecondità generatrice che ne consegue. Nel capitolo IV il Papa, per parlare di questo amore, non commenta il Cantico dei Cantici, bensì l’inno alla carità di san Paolo ( 1Corinzi 13). L’amore di cui il Papa parla va ben oltre l’ideale romantico. È un amore pieno di concretezza e dialettica, di bellezza e sacrificio, di vulnerabilità e tenacia (tutto

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sopporta, tutto spera, tutto crede, tutto perdona, non cede mai…). Il testo allontana ogni concezione individualista dell’amore per aprirlo agli altri. In sintesi: l’amore non è solo “voler-bene”, è anche un “far-bene”. Tra gli appelli che il Papa rivolge e che sono stati pressoché ignorati, c’è sicuramente la sollecitazione a non cadere «nella trappola di esaurirci in lamenti autodifensivi invece di suscitare una creatività missionaria». Non è una tendenza in cui, soprattutto sui temi della vita, cadiamo troppo spesso? Assolutamente sì! È decisivo non cadere nel lamento. Piuttosto dobbiamo ricomprendere il senso della preparazione al matrimonio, che non può avvenire al di fuori della comunità cristiana. Così pure è indispensabile accompagnare le giovani coppie dopo il matrimonio. E anche qui riemerge l’indispensabile presenza della comunità cristiana anche del luogo ove si va ad abitare. Mi pare comunque che dovremmo preoccuparci molto di più del fatto che i giovani tendono a preferire la convivenza piuttosto che il matrimonio. E noi responsabili della pastorale dovremmo chiederci se il messaggio cristiano che offriamo sul matrimonio e la famiglia sia o non sia attrattivo. Sono questioni che dovrebbero interrogare ben più sia le comunità cristiane che le nostre società. Questione gender. Nella sua nuova responsabilità di presidente dell’Accademia per la vita sta affrontando questo tema? Certo. Siamo consapevoli che la cultura contemporanea ha creato nuovi spazi, nuove libertà e profondità per l’arricchimento della comprensione della differenza tra uomo e donna. Ma ha anche introdotto molti dubbi e molto scetticismo al riguardo. Stiamo preparando uno studio su questo, anche perché c’è molta superficialità. Mi chiedo, ad esempio, se alcuni esiti ideologici della teoria del gender non siano anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione di fronte alla ricchezza che la differenza rappresenta per la società. La semplificazione, che è ben più semplice del confronto con la differenza, rischia di farci fare un passo indietro. Infatti, la rimozione della differenza sessuale è il problema, non la soluzione. Certo non dobbiamo disertare questo tema. Ma è la gestione della differenza - non la sua abolizione - che favorisce una società più libera e più giusta. CORRIERE DELLA SERA Pag 11 Francesco in Egitto: papa mobile blindata e dubbi sugli spostamenti di Gian Guido Vecchi Confermata “con convinzione” la visita. La gendarmeria vaticana potrebbe tornare al Cairo per nuovi controlli Città del Vaticano. Il momento più atteso sarà ad Al Azhar, «la radiosa», la moschea dell'anno 971 che nel 988 ospitava già dei corsi, l'università retta da un grande imam che è la più alta autorità dell'Islam sunnita. Prima è previsto l' incontro con Al Sisi nel palazzo presidenziale, più tardi l'intervento ad una conferenza di pace, il discorso alle autorità egiziane, la visita al patriarca copto Tawadros II. Nel primo giorno di viaggio al Cairo, il pomeriggio del 28 aprile, Francesco dovrà insomma spostarsi più volte in città e non lo farà sulla papamobile scoperta ma in un' auto chiusa e blindata: le attenzioni «riservate ad un capo di Stato», fanno sapere le autorità egiziane. Del resto è evidente che in Egitto, dopo gli attentati di domenica alle chiese copte, le misure di sicurezza siano al più alto livello. In Vaticano, comunque, si dice che tutto era già previsto, «siamo tranquilli, non si usa l'auto aperta per la semplice ragione che non ce n'è motivo». Francesco di norma desidera avvicinare i fedeli e non vuole restare «chiuso in una scatola di sardine», ha spiegato più volte. Questo però accade nei Paesi dove esiste una presenza cattolica abbastanza consistente e ci si aspettano fedeli lungo le strade. Anche a Lund, in Svezia, l'autunno scorso Francesco aveva viaggiato in un'auto chiusa. Al Cairo l'unica eccezione sarà il secondo giorno, nello stadio dove la mattina di sabato 29 il Papa celebrerà la messa: in quel caso, ma all'interno dell'impianto, Francesco passerà tra i fedeli con la solita auto elettrica aperta. In ambienti diplomatici, ieri, si parlava della possibilità che alcuni appuntamenti del primo giorno venissero riuniti nello stesso luogo per evitare a Francesco troppi spostamenti. Ma Oltretevere si spiega che «al momento non c' è stata alcuna richiesta» di modifiche. Gli agenti della gendarmeria vaticana avevano già compiuto un sopralluogo al Cairo, anche se non si esclude ci possano essere

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altri controlli. Il Papa è sereno e determinato. Ieri mattina ha incontrato in Vaticano i superiori francescani e confermato «con grande fermezza e convinzione» il suo viaggio. Da Al-Azhar si assicura che «non ci sarà alcun problema per la sicurezza». Il cardinale Reinhard Marx, membro del Consiglio del Papa, riassume: «Questi atti sanguinosi sono contro la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani. Gli obiettivi dei criminali non devono avere successo». IL FOGLIO Pag 2 Servirà equilibrismo politico nel viaggio ecumenico del Papa in Egitto di Matteo Matzuzzi I copti nel mirino, il ruolo di Sisi, l’impegno di Al Azhar Roma. "Il Papa è molto informato e ha confermato con grande fermezza il suo viaggio in Egitto", fa sapere padre Michael Perry, ministro generale dei Francescani che ieri mattina è stato ricevuto in udienza dal Pontefice. Nessun cambiamento allo scarno programma che era stato diffuso pochi giorni prima del duplice attentato che domenica ha colpito le chiese copte a Tanta e Alessandria. Anzi, a maggior ragione ora si tratta di portare la propria vicinanza ai cristiani braccati e perseguitati nel vicino oriente. Marcare, insomma, quell'ecumenismo del sangue di cui tante volte Francesco ha parlato durante il pontificato. Le autorità egiziane hanno assicurato nuovamente che il Papa non correrà alcun pericolo il 28 e 29 aprile, anche perché la maggior parte degli eventi - compresa la messa conclusiva che, si stima, sarà affollata da circa trentamila fedeli - si svolgerà in ambienti chiusi e iperprotetti dall'esercito e dalle forze speciali. Il problema, semmai, è di non rendere ancora più precarie le condizioni di sicurezza dei copti nel paese, all'indomani del viaggio del vescovo di Roma. La propaganda jihadista da settimane ha individuato nei cristiani "nativi" l'obiettivo da colpire. La motivazione - la "scusa", direbbero le associazioni che da anni si battono per la difesa dei copti, minacciati fin dai tempi del panarabismo di Nasser - è il loro sostegno al governo di Abdel Fattah al Sisi. Nel video pubblicato lo scorso febbraio dallo Stato islamico egiziano (Misr), che rivendicava la strage di dicembre nella chiesa dei santi Pietro e Paolo al Cairo, si chiariva che i copti aveva no perso lo stato di dhimmi, cioè di protetti. Il motivo? L'appoggio al governo illegittimo del tiranno Sisi. La logica conseguenza sono le stragi, l'eliminazione fisica dei fiancheggiatori del regime. Quel che accade nel Sinai ne è una dimostrazione. Esecuzioni sommarie che costringono intere comunità a trasferirsi nelle località del delta del Nilo, cercando una salvezza che - come dimostrano gli attentati di domenica - non può essere assicurata. Quel video si apriva con le immagini di Tawadros II e Francesco, l'uno vicino all'altro. Entrambi con la croce pettorale addosso, messa ben in evidenza da chi ha montato i venti minuti di propaganda e chiamata alle armi. Andando là, il Papa di Roma in qualche modo legittima il messaggio islamista: la santa alleanza tra i cristiani che tengono in piedi il governo di Sisi. Ecco perché si rende necessario marcare una distanza dalla politica cairota, che invece ha tutto l'interesse di sbandierare come una vittoria e una ulteriore legittimazione l'omaggio (ufficialmente, visita di cortesia) che il Pontefice farà al palazzo presidenziale della capitale, diciassette anni dopo la visita di Giovanni Paolo II. Ecco perché, oggi, l'attenzione massima è riposta nella preparazione dell'incontro con Tawadros, che nel messaggio inviato ieri per i funerali dei morti di Tanta ha scritto "che nel momento del martirio sono passati, attraverso il dolore, alla gioia gloriosa della Resurrezione". Ma l'attacco di domenica può essere inteso anche come un avvertimento ad al Azhar, il centro teologico che sostiene - tra alti e bassi - la necessità di una rivoluzione nell'islam richiesta ormai due anni e mezzo fa da Sisi. L'incontro tra Ahmed al Tayyeb e il Papa sarà importante perché avverrà al Cairo, "e questo implica una chiara e forte presa di posizione rispetto al Pontefice e, più in generale, al mondo cristiano", diceva al Foglio il professor Michele Brignone, segretario scientifico della Fondazione internazionale Oasis e docente di Lingua araba all'Università cattolica di Milano. L'importante è non sopravvalutare questo momento, e non solo per certe posizioni non proprio "pacifiche" di al Tayyeb (per i responsabili del rogo del pilota giordano arso vivo dai miliziani califfali aveva invocato la crocifissione, oltre alla mutilazione), ma anche perché al Azhar - pur rilevante - non rappresenta di certo tutta la realtà sunnita. Un viaggio ecumenico che richiederà molto equilibrismo - anche politico, e non è un caso che al Cairo sia andato il cardinale Kurt Koch allo scopo di

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affinare i discorsi che saranno pronunciati a fine mese - per camminare su un crinale mai come ora così pericoloso. LA NUOVA Pag 37 I valori cristiani linfa della società di Nicolò Menniti-Ippolito Il libro del cardinale Scola, visioni dell’Occidente mentre pensa a “un futuro da parroco” Chissà se veramente il cardinale Angelo Scola allo scadere dei suoi 75 anni andrà a fare «il parroco in un paesino», come ha detto in una recentissima intervista. Se anche lo facesse, però, sicuramente non rinuncerebbe alla teologia, che è sempre stata al centro dei suoi interessi, anche se la pratica episcopale, a Venezia come a Milano, lo ha costretto a occuparsi di molto altro. Ma il tempo per la lettura, il tempo per la riflessione, il tempo per la scrittura, il cardinale Scola lo ha sempre trovato, e non per vezzo, piuttosto per il bisogno di inquadrare teoricamente l’azione pratica del cristiano. Anche in “Postcristianesimo? Il malessere e le speranze dell'Occidente” (Marsilio, pp 144, 14 euro), da pochi giorno in libreria, Scola torna a un tema a lui caro, la riflessione, cioè, sul ruolo che il mondo cattolico può e deve avere nel mondo laico e plurale che caratterizza l’occidente. La premessa è che Scola fa teologia, fa filosofia: la sua scrittura è densa, esibisce sempre (nel segno del molto amato Sant’Agostino) la fatica del ragionamento, nella convinzione che il vero dialogo si costruisca in primo luogo accettando la sfida del pensiero. E quindi non si tratta di un libro facile: gli autori di riferimento, laici o cattolici vengono analizzati, dibattuti, per portare avanti con chiarezza un pensiero forte, che è in realtà oppositivo rispetto al titolo. In altre parole, secondo Scola non è ancora il tempo del Postcristianesimo, semmai quello di un cristianesimo declinato in maniera diversa, ma fermo e radicato nei suoi valori. L’uomo postmoderno - dice Scola - ha messo da parte le grandi narrazioni e il Cristianesimo è una grande narrazione, forse addirittura la più grande narrazione. L’uomo postmoderno - insiste il cardinale - ha messo al centro i diritti individualistici, e il cristianesimo è invece il luogo della comunità, dell’incontro con l’altro. L’uomo postmoderno - dice ancora Scola - è risolto nella materialità e invece il Cristianesmo è il regno dello Spirito. E allora? C’è una sostanziale incompatibilità? La secolarizzazione è inevitabile? L’uomo postmoderno sarà anche postcristiano? Il Cardinale Scola dice che questa ipotesi esiste, che la prospettiva del postcristianesimo è reale, ma il suo libro nasce dalla voglia di guardare oltre le apparenze, per intravedere un movimento contrario. La postmodernità è anche una interrogazione drammatica sul senso della vita, è anche la voglia di dare continuità al vivere sociale aldilà del narcisismo che tutto domina, è anche la nostalgia per quelle grandi narrazioni che si danno per morte. Tutto, dunque, sta nel come il cristiano sta dentro questa società, senza tradire i suoi valori, anzi usandoli come strumento per rendere la società migliore. La società è plurale, lo stato è laico, il confronto tra diverse verità è irrinunciabile - dice ancora Scola, segnando una differenza insormontabile rispetto al fondamentalismo islamico - ma tra gli attori di questo dialogo il cristiano deve essere accettato a pieno titolo e con piena dignità e profonda coerenza. Perché da un lato il cristiano deve mediare, anzi dialogare, per arrivare a quei valori condivisi che sono propri di una società, di uno Stato. Dall’altra, però, deve mantenere la consapevolezza che esiste un altro bene, un bene che trascende l’uomo, un bene che è capace di portare all’uomo postmoderno quella pienezza di senso, di cui sente la mancanza. Se l’integralismo è insomma un ricordo del passato verso cui non si può avere nostalgia, l’esperienza integrale dell’essere cristiani è qualcosa che - secondo il cardinale Scola - appartiene al futuro. Pag 37 L’addio senza proroghe del Papa mancato di Orazio La Rocca Chi entra da papa in Conclave quasi sempre ne esce da cardinale. L’antico detto trova, purtroppo, piena applicazione nel cardinale Angelo Scola che sta per lasciare la guida della diocesi di Milano. Difficile dimenticare che, alla vigilia dell’elezione papale che il 13 marzo del 2013 portò sul Soglio di Pietro l’argentino Jorge Mario Bergoglio, quasi tutta la stampa nazionale ed internazionale inserì proprio Angelo Scola nella ristretta cerchia dei papabili. Ci furono giornali che, in attesa della fumata bianca, dedicarono al “prossimo pontefice” paginate intere di biografie e profili pastorali. E quel “prossimo pontefice” era

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quasi sempre Scola. Una certezza inspiegabilmente incrollabile al punto da provocare una clamorosa gaffe anche da parte della Conferenza Episcopale Italiana, il cui segretario generale del tempo, il vescovo Mariano Crociata, in un nota emessa per la stampa pochi minuti prima l’annuncio della elezione papale invitava a pregare e a ringraziare la Divina Provvidenza per la nomina del nuovo papa Angelo Scola. Invito condivisibilissimo, ma con un solo piccolo - si fa per dire - particolare. E vale a dire che al posto di Scola a succedere a papa Ratzinger il Conclave chiamò Bergoglio, papa Francesco. Scola, che presumibilmente era stato uno degli elettori del primo papa gesuita, suo malgrado senza darci apparentemente peso tornò a Milano, la diocesi che ora sta per lasciare, dopo poco meno di sei anni dalla nomina. Sei anni appena di guida pastorale di una diocesi immensa come quella milanese sono indubbiamente pochi. Il cardinale Carlo Maria Martini, gesuita come papa Francesco, rimase al timone della Chiesa milanese per ben 24 anni - dal 1979 al 2002 - lasciando una impronta che ancora resiste ed è gelosamente custodita da tutti i milanesi, credenti e non credenti. Record -i 24 anni di Martini - nemmeno lontanamente sfiorato dal suo successore, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha governato la diocesi meneghina per nove anni, fino al 2011 (riuscendo però spesso a volentieri a levare la voce in difesa dei rom presi di mira dalla Lega e ad intervenire più volte accanto a poveri e immigrati), quando gli subentrò l’allora Patriarca di Venezia Angelo Scola, che ora, a sua volta, si appresta a fare le valigie senza aver avuto il tempo di poter lasciare un suo personalissima carattere pastorale nella Chiesa milanese. Scola se ne va a pochi mesi dal compimento dei 75 anni, l’età in cui gli ecclesiastici a norma di Diritto Canonico devono rinunziare ai loro incarichi. Fu lui stesso ad annunciarlo nei mesi scorsi che si sarebbe fatto da parte appena raggiunta l’tà della pensione ecclesiastica. Perché tanta fretta? È vero che vescovi e cardinali quando arrivano a 75 anni rassegnano le canoniche dimissioni nelle mani del Papa, che però quasi sempre prima di accettarle concede proroghe che, a volte, durano anche anni. Come è il caso del cardinale vicario di Roma Agostino Vallini che, pur avendo passato i 77 anni, è ancora alla guida della diocesi capitolina e forse solo tra qualche mese sarà sostituito. Nel caso di Scola non c’è stata nessuna proroga. Lui, il cardinale, ha subito manifestato il desiderio di volersene andare, trovando in papa Francesca la persona che lo ha accontentato senza attendere troppo tempo. La visita a Milano di Bergoglio è stato di certo l’ultimo atto pubblico a cui Scola ha partecipato nelle vesti di vescovo di Milano, una città dove ha fatto fatica ad entrare in sintonia anche negli anni del seminario, dove il futuro Patriarca di Venezia e arcivescovo ambrosiano entrò quando già era un giovane militante di Comunione e Liberazione affascinato dal leader fondatore don Luigi Giussani. E non fu certamente un caso se per completare gli studi, il giovane Angelo Scola fu costretto a trasferirsi nel seminario di Teramo, dove fu ordinato prete. L’avvento alla guida della diocesi di Milano ebbe, quindi, come il sapore di una rivincita anche se ci arrivò dopo una indubbia “carriera” ecclesiastica costellata da numerose nomine e riconoscimenti di prestigio, come la nomina a rettore della Pontificia Università Lateranense, la guida della diocesi di Grosseto e la nomina a Patriarca di Venezia dove Scola ha potuto lasciare una indubbia impronta di natura pastoral-culturale gettando le basi per la nascita di importanti istituzioni come il polo accademico Studium Generale Marcianum e il Centro internazionale di Studi Oasis. Due istituzioni che hanno contribuito a sviluppare lo scambio culturale, la ricerca e il dialogo ecumenico ed interreligioso. Impronte difficilmente riscontrabili nella breve stagione trascorsa a Milano, forse interrotta per una sorta di malcelato feeling col pontificato di papa Francesco, anche se tra i due non sono mancati pubblici apprezzamenti e reciproci elogi durante il veloce pellegrinaggio milanese di Bergoglio. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT AAA Vicario cercasi. Ma il “sondaggio papale” non sfonda di Gianni Valente Gli uffici di Piazza del Laterano non sono stati subissati dalle lettere sullo status della diocesi che Papa Francesco aveva chiesto a clero e laici. Inerzia degli apparati ecclesiali? O sintomo che le “riforme dall'alto” finiscono a volte per cadere nel vuoto? Nessun “subisso”. Alla fine di marzo, erano meno di 30 le lettere giunte al Vicariato di piazza San Giovanni in Laterano per rispondere alla richiesta di Papa Francesco, che aveva sollecitato preti e laici a fargli pervenire considerazioni e suggerimenti utili per

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scegliere il suo prossimo Vicario per la diocesi di Roma. La scadenza per l’invio è stata fissata dallo stesso Papa per domani 12 aprile, Mercoledì Santo. E in questi ultimi giorni, si è registrato un significativo incremento di risposte alla richiesta venuta dal Papa. Ma sembra difficile immaginare che i numeri della consultazione abbiano subito impennate esorbitanti, soprattutto se si tiene conto della quantità impressionante di soggetti ecclesiali che avrebbero potuto prender parte al “sondaggio”. La richiesta di Papa Francesco alla diocesi era stata resa nota lo scorso venerdì 10 marzo. Appena tornato dagli Esercizi spirituali per la Curia romana predicati a Ariccia, Papa Bergoglio aveva convocato i 36 parroci prefetti della diocesi di Roma, e aveva chiesto loro di indicare per iscritto i problemi e le esigenze della pastorale nella Città Eterna, insieme con il profilo auspicabile del nuovo Vicario, chiedendo che fossero eventualmente suggeriti anche nomi di possibili candidati a quel ruolo, e che la consultazione fosse allargata non solo ai sacerdoti, ma anche ai fedeli laici. La Sala Stampa della Santa Sede, annunciando l’incontro, lo aveva definito come una iniziativa del tutto conforme alla «normale prassi della vita della Chiesa». Dopo la sollecitazione papale, l’attuale cardinale Vicario Agostino Vallini aveva diligentemente riunito in Consiglio pastorale diocesano, chiedendo che fosse data adeguata diffusione alla richiesta espressa dal Vescovo di Roma. Ma poi, di fatto, non si sono registrati tropi input “mobilitanti” da parte delle strutture di coordinamento diocesane. Sull’homepage di vicariatusurbis.com, il sito web della diocesi, non c’è traccia della richiesta di consultazione venuta dal Papa, e non si trovano indicazioni utili sulla modalità di invio e di raccolta delle lettere (che devono essere recapitate all’ufficio di Cancelleria del Vicariato). Nessuna lettera circolare è stata inviata ai parroci, come accade spesso in occasione di appuntamenti e circostanze particolari (quando, ad esempio, c’è da mettere in guardia le comunità parrocchiali dall’ospitare iniziative di gruppi o personaggi considerati poco raccomandabili per la salus animarum dei fedeli). Sull’organo di informazione diocesana Romasette, allegato ogni domenica alle copie romane di Avvenire, non è apparsa alcuna nota informativa e alcun commento sulla possibilità di inviare al Papa contributi per aiutarlo nella scelta del suo Vicario per la diocesi di Roma. E se si fanno sondaggi informali, sentendo sacerdoti e laici più coinvolti nelle attività parrocchiali, emerge che l’input venuto dal Papa è stato accolto e trattato in maniera non uniforme da ciascuna realtà ecclesiale. In diversi casi – come, ad esempio, nella parrocchia di San Saba o in quella di Santa Maria ai Monti – avvisi ripetuti alla fine delle messe hanno informato i fedeli della possibilità di scrivere al Papa le proprie considerazioni sulle esigenze e i problemi della diocesi. L’idea lanciata dal Papa poteva rappresentare una possibilità reale di sperimentare uno spunto di riforma semplice, concreto e “operativo” riguardo procedure e scelte che toccano la vita della Chiesa. Senza pretese palingenetiche, lontano da ogni nauseante retorica ecclesialese sulla “valorizzazione” dei laici, e anche da ogni eccitazione “democraticista”: non si trattava di fare un referendum popolare sul nome del prossimo Vicario per la diocesi di Roma, ma solo di aiutare il Papa nelle sue valutazioni e nelle sue scelte, in spirito di comunione. La richiesta papale non poteva nemmeno essere liquidata come la “trovata” di uno spirito bizzarro. Il coinvolgimento del clero e della comunità locale nella scelta dei vescovi è stato un criterio seguito fin dai primi tempi del cristianesimo. In epoche più recenti, anche Antonio Rosmini, proclamato Beato da Papa Benedetto XVI, nella sua opera sulle Cinque Piaghe della Chiesa richiamava «quel dolce principio dell’ecclesiastico reggimento», applicato «ne’ primi secoli della Chiesa», secondo il quale nell'elezione dei vescovi il clero era «giudice», e il popolo «consigliere». Allora – spiegava Rosmini «era la sapienza e la carità quella che presiedeva all’esercizio del diritto che i governatori della Chiesa avevan ricevuto da Cristo, e lo temperava, ammollendone ogni durezza: perciò nulla decidevano arbitrariamente que’ savi prelati, nulla in secreto, nulla di proprio capo; volevano il testimonio altrui ed il consiglio, e giudicavano che il consiglio migliore di tutti, il consiglio meno soggetto ad ingannarsi fosse appunto quello dell’intero corpo de’ fedeli». Secondo il sacerdote-filosofo di Rovereto, era ragionevole che i fedeli si sentissero lieti di affidare la cura delle proprie anime nelle mani di uomini di cui avevano sperimentato la santità e la prudenza. Uomini che non assomigliassero agli antichi sacerdoti del paganesimo, esponenti di una casta dedita solo ai riti del culto. Mentre il popolo sottomesso a «ricevere con indifferenza qualsivoglia pastore gli s’imponga» - rimarcava Rosmini - viene anche così spinto verso il disinteresse, perché «rendere il popolo indifferente ai propri pastori» contribuisce a «renderlo indifferente a qualunque

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dottrina gli s’insegni, indifferente ad essere condotto per una o per un’altra via». La Chiesa di oggi non è quella dei tempi degli apostoli, e nemmeno quella dei tempi di Rosmini. In ogni caso, conviene farsi interrogare dalla reazione tiepida registrata davanti alla richiesta del Papa riguardo alla scelta del successore del cardinale Vallini. La si può liquidare come un esempio di scuola dello scarso appeal che le proposte di Papa Francesco suscitano negli apparati ecclesiastici, spesso avvezzi a mobilitarsi in automatico anche intorno a questioni meno importanti della scelta del vescovo. Ma la vicenda della consultazione papale per la nomina del suo vicario nella diocesi di Roma può anche essere un indizio che le riforme pensate “dall'alto” finiscono a volte per cadere nel vuoto, assorbite dal corpo ecclesiale con la distrazione di solito riservata ai comunicati di servizio. Perché una sensibilità ecclesiale atrofizzata non ritorna in vita solo a colpi di iniziative papali. E perché le riforme riuscite, nella Chiesa, di solito avvengono per osmosi e per imitazione, e non per campagne organizzate o per input elaborati da qualche organismo. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 17 “Reati in calo, ma la gente percepisce insicurezza” di Carlo Mion Il questore Sanna sottolinea la significativa diminuzione di furti e rapire: “Ma i fattori internazionali preoccupano molte persone, faremo ancora di più”. Feste di Pasqua, pronto il piano Reati in calo con valori a due cifre, anche se i cittadini continuano a percepire insicurezza. Una festa di compleanno con segnali di miglioramento sul fronte sicurezza per la Polizia di Stato, che ieri ha festeggiato i 165 anni dalla fondazione. La festa si è svolta al Teatro Malibran dove ha fatto gli onori di casa il questore Angelo Sanna, che a maggio assumerà l'incarico di questore a Torino. Una festa che aveva una sua appendice a Chioggia dove Sanna ha voluto, con mezzi esposti, gazebo allestiti dalle varie specialità, sottolineare il rispetto verso un territorio che tanto ha dato per affrontare la questione profughi a Cona. Al Malibran Angelo Sanna ha ringraziato la città e le altre forze dell'ordine e gli enti vari per tutta la disponibilità dimostrata, fin da quando è arrivato a Venezia tre anni fa, ad iniziare dal sindaco Luigi Brugnaro, anche per «l’impegno che continua ad avere per garantire sempre maggiore sicurezza alla città». Il suo è stato un discorso a braccio durante il quale ha ricordato come l’impegno delle donne e degli uomini della polizia ha permesso di garantire un importante lavoro di prevenzione utile a far diminuire i vari reati. I dati. In riferimento ai dati sui reati, nel 2016 sono calati dell’11,61% rispetto all’anno precedente. Le lesioni sono scese del 10,4%, le percosse del 14,8%, le violenze sessuali del 5%. Tra gli altri reati in forte calo ci sono i furti in autovettura (-35%), e le rapine (-27%). Ma anche i furti in generale sono calati (-10,63%). Come del resto sono calati i borseggi e gli scippi. In aumento invece i delitti informatici (+4,2%). Dati in linea con quelli a livello nazionale. Un trend positivo iniziato due anni fa. Percezione di insicurezza. «Ma nonostante questo la percezione di sicurezza da parte dei cittadini è ancora negativa. Dipende da molti fattori, anche internazionali. Dobbiamo lavorare di più per far passare messaggi che tranquilizzino i cittadini» ha spiegato Sanna «Il rapporto con i cittadini resta fondamentale per chi fa sicurezza e a proposito dei Gruppi di controllo di vicinato, voglio sottolineare che si tratta di un’esperienza positiva anche perché c’è un coordinamento a livello di Prefettura. Voglio pure ricordare come alcuni anni fa non sarebbero stati necessari in quanto il cittadino spontaneamente avrebbe avvertito le forze di polizia». L’omaggio ai Solesin. Nel corso della cerimonia, Sanna, commuovendosi, ha ricordato Valeria Solesin, vittima del terrorismo a Parigi, ed espresso parole di elogio per il comportamento tenuto dalla famiglia, che ha definito «una famiglia di Stato». Anti terrorismo. Ospite della cerimonia il prefetto Vittorio Rizzi, da quasi un anno a capo della Direzione centrale anticrimine. Il prefetto Rizzi ha portato i saluti e i complimenti del Capo della polizia alle donne e agli uomini in divisa della Questura, ma anche alla città per l’ultima operazione antiterrorismo. Rizzi, negli anni Novanta a capo della Squadra

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Mobile di Venezia, ha elogiato il questore Angelo Sanna e alle altre forze dell'ordine per il lavoro svolto in particolare sul fronte dell'attività di repressione e prevenzione contro il terrorismo. Naturalmente il riferimento era all’operazione compiuta in sinergia tra polizia e carabinieri che ha portato all'arresto dei presunti componenti di una cellula jihadista che aveva base in centro storico e che si proponeva di compiere un attentato sul ponte di Rialto. Rizzi ha voluto sottolineare la decisione del capo della polizia, Franco Gabrielli, di «riportare la festa nei teatri, nelle piazze, tra la gente, e l'etica del lavoro per ogni appartenente alla polizia è il rispetto assoluto delle leggi dello Stato». Rizzi ha detto questo in riferimento a immagini letterarie che mostrano appartenenti alla polizia non sempre muoversi nel rispetto delle norme. Riguardo al fatto che i reati, come quelli contro il patrimonio, sono in diminuzione mentre non cala il senso di insicurezza percepito dai cittadini, Rizzi ha ribadito il continuo lavoro svolto dalla Polizia «per costruire un senso di maggior sicurezza» nella popolazione. Inevitabile che si parli di sicurezza e prevenzione di atti terroristici nella settimana che precede la Pasqua. E naturalmente ancora di più dopo l’operazione che ha portato all’arresto di quattro kosovari, presunti jihadisti che volevano compiere un attentato in centro storico. Domani in Prefettura, durante la riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, saranno decise le misure di sicurezza che saranno approntate per Pasqua, non solo in centro storico, ma anche nelle località balneari, nelle stazioni ferroviarie, all’aeroporto e lungo le maggiori arterie di collegamento. Ieri, durante la celebrazione della Festa della Polizia si è parlato e non poco, di terrorismo e di attività antiterroristica. Il questore Angelo Sanna, ha ricordato la linea di massima attenzione adottata nella città lagunare e in terra ferma contro eventuali ipotesi terroristiche «noi ci siamo» sottolineando che in Italia «c’è una grande sinergia tra le forze dell'ordine e la magistratura» su questo terreno. Ha ricordato inoltre che l’Italia ha saputo combattere e sconfiggere il terrorismo negli anni Settanta e Ottanta e quindi ha la preparazione, come Paese, di affrontare questa forma di criminalità. In merito alle prossime festività pasquali Sanna ha ribadito «siamo sempre attenti e continueremo su questa strada. Già domenica scorsa con le celebrazioni per la domenica delle palme, la cittadinanza ha potuto vedere che noi mettiamo il massimo impegno per garantire la loro sicurezza e quella dei turisti». Pag 35 Cavallino, oltre sei milioni di presenze di Francesco Macaluso La regina dei campeggi. E’ la meta preferita dagli stranieri che superano l’80%. Ventotto le strutture, di cui otto considerate “Superplatz” Cavallino. Capitale del turismo plein air per la più alta concentrazione europea di top camping, il comune di Cavallino-Treporti, con oltre 6 milioni di presenze registrate nel 2016, è la prima spiaggia del Veneto e la seconda destinazione balneare d’Italia. Una penisola verde dalle spiagge dorate, fra il mare e la laguna che guarda a Venezia, nella quale il turismo all’aria aperta è la principale economia con un’offerta ricettiva di 28 campeggi, di cui ben 8 possono fregiarsi dell’ambito riconoscimento “Superplatz”, certificazione di elevata qualità rilasciata a soli 113 camping in tutta Europa da Adac, automobilclub tedesco che raccoglie oltre 19 milioni di associati. Al turismo dei camping si aggiungono 36 hotel e cento strutture extra alberghiere che completano l’offerta complessiva della destinazione turistica che fattura oltre 350 milioni di euro annui di cui il 50% speso fuori struttura. A Cavallino-Treporti la Bandiera Blu sventola dal 2006, ma la località da oltre mezzo secolo migliora qualitativamente la propria offerta ricettiva, puntando su una costante riqualificazione delle strutture e sul miglioramento dei servizi. Una tendenza verso la qualità che va oltre i riconoscimenti nazionali e internazionali, come confermano i dati rilevati dall’associazione di categoria Assocamping in occasione del recente rinnovo della classificazione ricettiva presentata dai campeggi a fine marzo. È infatti emerso che, rispetto all’ultima classificazione del 2010, a fronte di un aumento di presenze del 2,5% registrato negli ultimi sette anni, con una permanenza attuale media che ha superato gli 8 giorni, si è clamorosamente verificata una lieve diminuzione di posti letto da 65.263 a 64.634 con una conseguente riduzione dell’1% di capacità ricettiva massima di tutta la località. Quando in una località balneare negli anni aumentano gli arrivi e le presenze e, invece di spingere fino alla saturazione del settore,

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addirittura diminuiscono i posti letto a sostanziale parità di strutture, si può tranquillamente parlare di allungamento stagionale, graduale ma costante nel tempo, una conquista che potrebbe portare negli anni benefici per tutte le attività del territorio garantendo maggiore periodo lavorativo. Il quadro confermerebbe anche le recenti richieste di aumento di superficie da parte dei campeggi che puntano ad aumentare i servizi, gli spazi dedicati all’ospite e quindi la ricerca di maggiore qualità piuttosto che puntare ad ospitare un maggior numero di persone. Su questo Cavallino-Treporti può esibire una lunga tradizione imprenditoriale turistica fin dal dopoguerra che negli ultimi anni hanno reso il comune pioniere in Alto Adriatico anche sul fronte delle scelte amministrative essendo la prima città balneare del Veneto a introdurre l’imposta di soggiorno ed uno dei primi ad aver recepito l’organizzazione di gestione della destinazione attuata dal consorzio “Parco Turistico”, braccio operativo per la promozione e per la gestione degli uffici Iat di Cavallino e Punta Sabbioni. Due porte di accoglienza dei turisti per l’82% stranieri, dei quali il 61% provenienti da nazioni di lingua tedesca e il 21% da paesi nordeuropei. Uno dei segreti di Cavallino-Treporti è sicuramente l’accoglienza apprezzata in tutta Europa, che ha fatto toccare alla fidelizzazione del turista il 65%, tanto che l’attuale amministrazione comunale eletta a metà 2015, nell’intento di renderla ancora più professionalizzata, ha coinvolto tutti i residenti nei corsi di competenze turistiche del “Patentino dell’Ospitalità”. «La sinergia e gli obiettivi comuni sono fondamentali», dichiara il sindaco Roberta Nesto, «fare rete, oggi come non mai, è motivo di crescita e sviluppo di un territorio. Noi come amministrazione stiamo puntando a coinvolgere nei diversi progetti, tutte le categorie, e a piccoli passi, stiamo raggiungendo i diversi obiettivi che ci siamo prefissati. Nella stessa direzione anche mettere assieme comuni ed enti sono sicura possa essere un’occasione per crescere, soprattutto se le località hanno caratteristiche comuni. Un primo passo verso il confronto e il coordinamento di alcune strategie lo stiamo studiando attraverso il tavolo dei sindaci della costa. È importante però che ci sia un coordinamento anche con le altre spiagge soprattutto per sviluppare un’azione promozionale all’estero, come ormai molti paesi fanno. Ritengo però che anche in un’azione di promozione comune, come la proposta di un unico brand, sia importante e necessario che ogni località mantenga e salvaguardi le proprie tipicità». «Ritengo l’idea di un brand Alto Adriatico interessante anche se non nuova», rilancia il presidente del Parco Turistico, Paolo Bertolini, «il mondo va in questa direzione e molti altri paesi sono più avanti di noi in questo. Il Veneto, con la potenza dei suoi numeri, può senza dubbio avviarne il percorso. Sta a noi essere meno individualisti, più collaborativi e più maturi. Ognuno di noi fa parte di un progetto più evoluto e più grande pur mantenendo la sua identità territoriale». IL GAZZETTINO Pag 23 Altino, museo abbandonato a due anni dall’inaugurazione di Adriano Favaro La direttrice si è dimessa e le sale sono vuote. Monete e anfore nella vecchia sede ora deposito. E’ costato venti milioni di euro Per comprare i dieci ettari del territorio paleoveneto diventato poi Altino, madre di Venezia e di tutto il Veneto, potrebbero bastare 60 mila euro. L'area archeologica più imponente della regione, devastata da decenni di arature anche se mai più profonde di 40 centimetri a 50 ci sono pavimenti, strade, case - è contemporaneamente intatta e devastata. Camminando sui campi che pare non abbiano alcun vincolo archeologico vero e proprio - affiorano quintali di cocci di ceramica, qualche pezzo d'anfora, resti di mattoni; i pali di ferro con una bottiglia di plastica segnalano i pavimenti delle case in mosaico, ritrovati da vecchi scavi. Tutto il resto è abbandonato. Sullo stile del museo di Altino nel quale rientriamo, in punta di piedi e trattenendo il fiato un anno dopo. Il museo brutto anatroccolo - costato attorno ai venti milioni di euro, dopo un lavoro cominciato nel 1985, adesso aperto undici ore al giorno assomiglia ad una saga noir. Fiato sospeso e dritti al primo piano dove la sezione che dovrebbe ospitare le anfore è ancora desolatamente vuota: nemmeno una delle centinaia di anfore lasciate ad impolverare nel vecchio museo (aperto nel 1960) è stata collocata, a due anni dall'inaugurazione. E la sala per gemme e monete sembra scenario da film di Dario Argento: luci, espositori e vuoto totale. «Le anfore? Sono nell'altro museo, che ora è

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deposito. Non si può visitare, cioè sì ma bisogna prenotare per tempo ed essere almeno in dieci e pagare 40 euro. Ma dovrebbero sistemare tutto quando allestiranno il secondo piano». Custode sconsolato e gentile. Come la decina dei suoi colleghi da un anno e mezzo senza l'archeologa direttrice, dimessasi perché dopo anni di distacco dall'insegnamento l'avrebbero ri-assunta pagandola meno di un custode, come prevede la legge. Una specie di riserva indiana questo museo archeologico nazionale di Altino (le prime testimonianze preistoriche qui sono dell'VIII millennio, insediamenti importanti già nel 1500 a.C.), aperto 360 giorni l'anno per 35 visitatori in media al dì; un pullman con due classi fa la statistica di una settimana. «Anche se il museo è bello qui attorno la gente si vede sempre meno dicono alcuni abitanti del piccolo centro, 35 famiglie in tutto - Per forza: per visitare i mosaici sparsi nei dintorni del museo, la porta di Altino, le strade e gli scavi e il resto, si deve telefonare ad un'associazione padovana». L'appalto scade a fine aprile, forse potrebbe cambiare qualcosa in meglio. Poiché il museo appartiene ad una soprintendenza, le aree archeologiche ad un'altra qui nessuno si guarda e si parla più. Così tutto o quasi a due anni dall'inaugurazione - è dimenticato. Nel nuovissimo museo senza condizionamento, il caldo della scorsa estate ha fatto scomporre alcuni dei reperti restaurati. (Anche al Correr - aggiungiamo noi - alcuni modellini di cera del Canova piangevano). Fanno arrabbiare tanto quei milioni di euro pubblici investiti e l'inedia che colpisce come una lebbra questa moderna e bellissima struttura 50 mila reperti inventariati - che continua ad essere così spoglia all'ingresso da non disporre nemmeno di un foglietto con due note. Eppure Altino con Este, Oderzo, Concordia e Padova è una delle cattedrali culturali degli antichi veneti. A Ravenna nell'antichità ne parlavano come si parla ora di Venezia e l'arena era come quella di Verona: Science ha raccontato tutto in un importante articolo anni fa. Di positivo c'è che la gente di Altino non molla: ha creato una cooperativa che tiene aperto un ristorante Le vie - che si trova proprio all'incrocio delle antiche vie Annia e Claudia Augusta, pranzo a 11,5 euro - a fianco del vecchio museo diventato magazzino; un'associazione culturale Carta di Altino dove collaborano alcuni manager di H-Farm e delle Assicurazioni Generali di Mogliano; e incontri culturali, una mostra a Mestre che andrà a settembre a Treviso; concorso internazionale di poesie che arrivano da tutto il mondo e poi vengono appese ad un antico tiglio; viaggi in bici sugli argini del Sile (l'ultimo percorso sarà inaugurato a giorni) e in barca fino a Burano. «Vivi ma abbandonati come orfani, siamo» ha commentato un'anziana uscendo da casa. E chissà che cosa pensa Piero Calza, 76 anni, lui contadino che, nel 1985, ha trovato nei suoi campi, vicino alla Claudia Augusta una straordinaria collana d'oro di fattura ellenistica, manifattura di Taranto; e l'ha consegnata alla Sovrintendenza. Dicono che per l'emozione non abbia dormito per una settimana. Nessuno l'ha mai citato per la scoperta, lui nemmeno vorrebbe, forse. Ma Piero si aspetterebbe almeno che questo tesoro di territorio non fosse totalmente dimenticato dopo quei milioni spesi, usando anche le tasse della sua pensione: e dire che per politici e esperti - Altino doveva diventare «uno dei principali attrattori turistici del Veneto». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Caso moschea, il prefetto dà garanzie: “Ho sentito il console, niente strappi” di Michele Fullin Soluzione vicina anche per il Comune. Brugnaro: “La troveremo ma un luogo di preghiera non sarà sicuramente sotto le case”. Stasera si riunisce la comunità islamica L'ipotesi sciopero della comunità islamica bengalese, paventata lo scorso fine settimana in seguito alla notifica delle violazioni edilizie da parte del Comune sembra sgonfiarsi giorno dopo giorno. Lo conferma anche il prefetto, Carlo Boffi, poco prima di entrare al Malibran per la festa della polizia. «Il Comune - spiega il prefetto - ha dato la massima disponibilità per cercare di trovare una soluzione condivisa. Mi sembra che da ambo le parti vi sia un rispetto delle posizioni, ma è ovvio comunque che la legalità deve essere rispettata da tutti». Il prefetto sembra escludere anche la possibilità di agitazioni plateali. «Ho parlato con il rappresentante del Consolato bengalese e mi ha detto che quelle di sabato erano dichiarazioni sul momento - conclude - ma che sono tutte persone estremamente calme, equilibrate, ben inserite nel territorio e sicuramente si troverà una soluzione». Anche per il sindaco Luigi Brugnaro un'agitazione dei bengalesi e, più in

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generale della comunità islamica veneziana e mestrina, sembra da escludere. «Il tema è: non si possono fare luoghi di preghiera come quello in via Fogazzaro, in mezzo alla gente. Lo abbiamo detto e ora agiamo. Con la legge, senza nessun problema, perché qui non è solo questione dei locali non a norma. Non è possibile far rumore alle 5 di mattina, non è perché si tratta di un luogo di preghiera ma perché c'era rumore. Sarà la prima moschea che chiudiamo in Italia». La soluzione al problema sembra vicina, anche perché nel frattempo sarebbe arrivata al Comune una serie di luoghi in cui si potrebbe ipotizzare di fare il nuovo centro. «Non andranno a pregare per la strada - aggiunge - perché la comunità islamica è responsabile, penso troveremo una qualche soluzione. Quanto alle loro proposte, sicuramente i luoghi non dovranno essere sotto le case, ma un centro di preghiera dovrà essere un luogo idoneo. E poi - conclude - francamente, delle minacce non sappiamo cosa farcene. Ma non è certo la comunità islamica che minaccia e io non sono la persona giusta da minacciare, comunque». Pag XXV Proposta: la moschea in una chiesa (lettera di Giorgio Albertini) Ho avuto notizia che il locale adibito a moschea in via Fogazzaro dovrà essere chiuso per le proteste dei vicini abitanti, i quali, secondo me, dovrebbero sapere che il Dio adorato dai mussulmani è lo stesso Dio dei cristiani e che inizialmente era solo il Dio degli ebrei. A Venezia ci sono tantissime chiese chiuse. Perché, ad esempio, non si dà in comodato d'uso alla comunità mussulmana la bellissima chiesa di Sant'Andrea della Zirada, attorno alla quale vi sono solo uffici e garage? Non ha detto proprio questa settimana la Curia Patriarcale che alcune chiese di Venezia verranno affidate ad altri enti per attività compatibili con la loro destinazione? Più compatibile dell'adorazione dello stesso Dio, che c'è? Basterebbe solo porre dei vincoli di rispetto di altari e sculture, tra cui il pregevole altare di Le Court, al massimo, se necessario, coprendolo con un panno. Poi, Gesù è uno dei grandi profeti per loro, quindi qualche immagine non darà certo fastidio. Inoltre, Sant'Andrea della Zirada è facilmente raggiungibile da Mestre e coloro che lavorano a Mestre avranno senz'altro l'abbonamento per arrivare a Venezia. Porrei anche la condizione che, al di fuori del servizio religioso, la chiesa adibita a moschea debba essere visitabile da tutti coloro che lo desiderano, negli orari stabiliti, come tutte le altre chiese. Ci vuole così poco! Ringrazio per l'attenzione e porgo cordiali saluti. CORRIERE DEL VENETO Pag 12 L’ipotesi via Torino per la moschea: “Certezze sulla destinazione d’uso” di Alice D’Este Mestre. Un accordo per la nuova sede ci sarebbe. Tra le proposte arrivate nel primo incontro della scorsa settimana da parte della comunità di via Fogazzaro, alcune sembrerebbero percorribili anche secondo gli uffici comunali. Diversi gli spazi individuati dalla comunità: vecchi supermercati, concessionari abbandonati, piccole fabbriche. Tutti vicini alla stazione, soprattutto in via Torino. Ed è proprio questa seconda possibilità ad aver trovato pieno accordo anche da parte degli uffici. «Il Comune deve aiutarci con la destinazione d’uso però – spiega Mohammed Alì, attuale referente della comunità di via Fogazzaro – tutti i posti che abbiamo individuato si trovano in zona D e in quella zona non è possibile cambiare la destinazione d’uso». Un problema importante, perché la comunità non vuole investire soldi in un luogo se poi non è detto che rimanga a sua disposizione. «In via Fogazzaro abbiamo investito in tutto quasi 300 mila euro e adesso? - lamenta Alì - Se il Comune ci aiuta allora per noi spostarci non sarà un problema. Se il Comune vorrà proporci un luogo idoneo nelle sue disponibilità noi saremo felicissimi di affittarlo o comprarlo». L’incontro è previsto per domani ed è proprio in questa direzione che si sta muovendo Ca’ Farsetti, per agevolare uno spostamento rapido della comunità nella nuova sede senza bisogno di fasi intermedie. Intanto ieri il sindaco è intervenuto in modo chiaro sulla faccenda: «La situazione è tranquilla e allo stesso tempo chiara – ha detto ieri mattina - non si possono fare luoghi di preghiera in via Fogazzaro e quindi lo spazio andava chiuso. Abbiamo davanti però una comunità responsabile, troveremo un modo per risolvere la cosa. Il prossimo luogo scelto non dovrà essere sotto le case, ovviamente, sarà un luogo idoneo. Mi sembra chiaro: non si può far rumore alle 5 di mattina, a prescindere da quello che uno sta facendo. Deve valere per tutti, per gli

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appartamenti affittati ai turisti che, ignari, tornano alle 3 di notte così come per chi prega». La disponibilità del Comune ha tranquillizzato un po’ la comunità, che però ha un grande cruccio: «In attesa dello spostamento nella nuova sede come faremo? - continua Mohammed Alì - noi chiediamo almeno che nei venerdì il Comune ci conceda per due ore dei luoghi per riunirci. O lo spazio in via Sernaglia, ad esempio, dove ci è già capitato di fare delle riunioni, o il Palaplip di via San Donà, altrimenti per noi diventa difficile». I toni sono tornati pacati, dopo le tensioni delle ultime ore. Ma lo sciopero rimane una delle possibilità. Uno stop dal lavoro e una manifestazione che potrebbe riguardare fino a 8 mila persone, tanti sono i componenti della comunità. Ma il Comune punta a velocizzare i tempi, per consentire loro di pregare nella nuova sede (via Torino tra le più gettonate) già, ad esempio, per il Ramadan, che quest’anno inizia il 27 maggio. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Papa Francesco superstar, massima fiducia a Nordest di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Quattro anni di pontificato a gonfie vele: altissimo il gradimento, piace a nove persone su dieci. Maria Pia Veladiano: “Uomo dalle parole chiare che nessuno strumentalizza” A pochi giorni dalla quinta Pasqua che Jorge Bergoglio celebrerà da Papa Francesco, l'Osservatorio sul Nordest, curato da Demos per Il Gazzettino, si occupa del gradimento che lo caratterizza. L'87% dei rispondenti dichiara di provare molta (62%) o abbastanza (25%) fiducia nell'attuale Capo della Chiesa. Appare quindi nettamente minoritaria (complessivamente: 13%) la quota di nordestini che dichiarano sentimenti di distacco o diffidenza verso l'attuale Vescovo di Roma. «Le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo»: questa frase può rendere bene il significato che ha avuto e sta avendo il papato di Jorge Bergoglio. Andare oltre certezze e limiti che sembrano invalicabili, usare parole semplici e dirette, affrontare temi scomodi senza paura: andare oltre i muri pare essere proprio lo spirito con cui Papa Francesco sta guidando la Chiesa in questi anni particolarmente difficili. Nel Nordest, i suoi richiami sembrano andare dritti nel segno: la riserva di fiducia che viene riconosciuta al Capo della Chiesa, infatti, è grandissima e arriva a coinvolgere quasi 9 nordestini su 10. È pur vero che Veneto, Friuli-Venezia Giulia e la provincia di Trento sono zone di grande e profonda tradizione cattolica. Per trovare un consenso assimilabile a quello riservato a Papa Francesco, ma comunque inferiore, dobbiamo ritornare al 2000 e a Giovanni Paolo II, quando l'82% dei nordestini si rivolgeva a lui con fiducia. Gli otto anni di Benedetto XVI, invece, sono stati contraddistinti da un crescente distacco tra il Papa e l'opinione pubblica dell'area: un vero e proprio rapporto non si è mai realmente creato e la fiducia era quindi fortemente legata alla religiosità individuale. Con Papa Francesco, invece, dal 2013 ad oggi, la quota di consenso ha sempre oscillato intorno al 90%: un affetto istintivo, ampio e trasversale che continua ancora oggi. La fiducia verso il Papa, infatti, nei diversi settori sociali analizzati, non scende in nessun caso sotto la soglia del 70%. Dal punto di vista anagrafico, gli anziani (94%) e le persone tra i 45 e i 54 anni (98%) mostrano un sostegno quasi unanime, mentre la fiducia si mantiene intorno alla media dell'area tra quanti hanno tra i 35 e i 44 anni (86%). Tra i giovani under-25 (73%), tra quelli che hanno tra i 25 e i 34 anni (79%) e le persone tra i 55 e i 64 anni (81%), la quota di consenso appare meno ampia, ma interessa comunque 7 o 8 nordestini su 10. Guardando alla pratica religiosa, colpisce anche in questo caso la trasversalità della fiducia riservata a Papa Francesco. Se appare intuibile che il 98% dei praticanti assidui esprima consenso verso il Capo della Chiesa, meno scontato è che lo stesso sentimento appartenga anche all'84% di chi frequenta i riti religiosi più saltuariamente e dal 72% di chi invece non è praticante. Infine, consideriamo la politica. Sia gli elettori del Partito Democratico (90%) che della Lega Nord (87%); sia i sostenitori di Forza Italia (95%) che dei partiti minori (84%); sia quanti sono incerti o reticenti (87%): per tutti, il Papa sembra essere un riferimento condiviso. Anche quanti

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guardano al Movimento 5 Stelle, spesso caratterizzati da una critica accesa verso ogni tipo di istituzione, sembrano ritrovarsi nella figura e nelle parole di Papa Francesco: tra gli elettori pentastellati, infatti, la fiducia verso Bergoglio raggiunge il 78%. È in grado di superare i naturali contrasti tra generazioni che emergono sempre nitidi su qualsiasi tema della contemporaneità; ma va anche oltre le posizioni differenti che si evidenziano tra chi vive più o meno intimamente la propria fede; e riduce, quasi annientandole, pure le distanze spesso diametralmente opposte della politica. Perché Papa Francesco non è solo il Pontefice, il capo della Chiesa, ma è anche evidentemente e soprattutto un uomo in cui tutti o quasi hanno deciso di riporre la propria fiducia. Lo racconta bene il sondaggio e, come aggiunge Maria Pia Veladiano, Preside dell'Istituto Superiore Boscardin di Vicenza e scrittrice (il suo ultimo libro Una Storia quasi perfetta - Guanda), è anche la conferma dei risultati di ogni rilevazione Eurispes. «Quando si tratta di testare tra i cittadini la fiducia nelle istituzioni spiega Veladiano - il Papa è sempre in prima posizione, seguito dalla scuola e, a distanza, dalla politica. Come se la prima speranza di un futuro migliore giungesse proprio dal Pontefice». Ma come riesce Papa Francesco a raggiungere il cuore e la quotidianità delle persone? «Parlando sempre ai fedeli molto concretamente, senza mai perdere l'occasione di intervenire sui mali del presente, mandando messaggi chiari alla Chiesa, alla politica nazionale ed internazionale. Parole importanti che pesano nella vita di ogni fedele. Il Papa ha conquistato questa grande stima giorno dopo giorno. E ha fatto capire a tutti che non è in alcun modo strumentalizzabile. Per questa ragione ha una grande libertà di intervento e, ciò che più conta, una enorme credibilità». Pensa che si inserirà nel dialogo teso tra Usa e Russia per la questione siriana? «Sono convinta che Papa Francesco si sia già fatto sentire e, se non lo farà platealmente, lo farà attraverso canali diplomatici. Di certo non resterà a guardare. La pace è il suo obiettivo, la sua missione». In un sondaggio in cui il consenso è pressoché unanime qualche ritrosia alla piena fiducia in Papa Francesco giunge dai giovani e giovanissimi. «Le nuove generazioni sono quasi naturalmente votate all'esibizione di una posizione opposta. E poi, probabilmente, incide anche un periodo storico di grandi delusioni per i giovani, specie quando diventa sempre più difficile l'ingresso nel mondo del lavoro. Non dimentichiamo, poi, la distanza anagrafica tra loro e il Pontefice, anche questo credo incida molto nel giudizio adolescenti e ventenni. Mentre tra i quarantenni e i cinquantenni tocca il massimo dei consensi e della fiducia. Ciò significa che coloro che stanno nell'età di mezzo', quella delle maggiori responsabilità a livello familiare e lavorativo, quelli che sono il fulcro della società, sono più vicini e maggiormente toccati dai messaggi di Papa Francesco. E non cambia molto neppure tra gli over 65 che hanno accolto a braccia aperte un Papa così diverso dai propri predecessori. Il popolo dai capelli grigi ha saputo riconoscere, in un'età in cui si tende ad essere conservatori, il bene del nuovo che avanza nella fede». Cominciando dai codici del dialogo. «Io direi partendo da quel suo primo buonasera' con cui esordì a San Pietro. Una semplicità nella propria presentazione che continua anche oggi ad essere la sua forza. E, attenzione, che la sua semplicità' non deve essere confusa con una assenza di contenuti. Anzi. Papa Francesco è davvero molto intelligente e colto, ma ha scelto un linguaggio quotidiano, che ripeto non vuol dire ingenuo. Al contrario si tratta di un interloquire che bada alla concretezza delle parole e dei messaggi, che ha in mente e nel cuore la volontà di cambiare le cose. Sente che i fedeli hanno bisogno di verità e i fedeli lo sentono vero». CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Moschee, l’errore di chiuderle di Stefano Allievi Il presidente Zaia, in un’intervista a questo giornale, afferma che, grazie alla legge anti-moschee della regione Veneto, che ha appena superato il vaglio della Consulta, «chi vuole la moschea deve trovare un luogo che abbia il beneplacito del Comune». Quello che non dice, è che così facendo, un diritto fondamentale – la libertà di culto – viene messo in mano alla discrezionalità di sindaci che non l’hanno particolarmente a cuore. La

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seconda cosa che non dice è che il suo partito, inclusi molti primi cittadini, sta conducendo una campagna di lungo periodo contro le moschee: primo episodio, a Lodi, nel 2000 – prima ancora dell’attentato alle torri gemelle… Sgombriamo subito il campo da alcuni aspetti. I problemi urbanistici e di convivenza ci sono davvero, in alcuni casi. Con tutti i luoghi che prevedono afflussi significativi di persone in alcuni momenti, e problemi di parcheggio (moschee, ma anche altri luoghi di culto, centri sportivi o di aggregazione sociale). Con responsabilità anche degli organizzatori, che pur sapendolo non ne tengono conto. Ma vanno risolti a questo livello. Il terrorismo invece non c’entra nulla: dalla giovane foreign fighter Meriem, agli ultimi aspiranti terroristi di Rialto, la maggior parte delle persone si sono radicalizzate via internet. Ma una legge regionale contro internet non si può fare, e le moschee diventano il bersaglio facile. Del resto, chiudere le moschee perché esistono dei musulmani terroristi (ed esistono, sono pericolosi, e vanno contrastati), avrebbe lo stesso senso che chiudere – negli anni ’80 – le sedi del Pci e della Cgil (o quelle del Msi) perché c’erano le Brigate Rosse (o Ordine Nuovo). Si è fatto l’opposto, facendo in modo che fossero i comunisti (o i missini) a schierarsi in prima fila contro gli estremisti assassini della loro parte, e si è fatto bene. E’ quello che bisognerebbe fare anche adesso, non il contrario. Creando ponti, non muri. Per fugare ogni dubbio, l’assessore all’urbanistica di Palazzo Balbi annuncia una circolare interpretativa rivolta ai comuni, che prevede pure la retroattività della legge. Aggiungiamoci il parere del costituzionalista di fiducia della Regione, secondo il quale «è ammissibile una ragionevole discriminazione» tra le religioni: che non viene quindi solo praticata, ma anche rivendicata come tale. E l’islam è sistemato. E’ chiarissimo quale sarà l’effetto di questa legge. Anche i sindaci (inclusi molti della Lega) che con buonsenso hanno da tempo trovato un accomodamento con le locali sale di preghiera, e non avrebbero alcuna voglia di aprire nuovi inutili conflitti (alcuni anche perché ci hanno provato a chiudere le moschee, ma sono stati sconfitti dai TAR), rischiano di ritrovarsi scavalcati dai più radicali del loro stesso schieramento: che, sfruttando la facile visibilità che si ottiene maneggiando questi argomenti, potranno imporre la loro agenda (basta una manciata di esagitati, che pretende di parlare a nome del popolo, e uno striscione, per trovare ampi spazi sui giornali locali e un quarto d’ora di celebrità in tv). Lo scopo infatti non è risolvere dei problemi di convivenza (che ci sono, ma abbisognerebbero di altri interventi), ma crearne. E il prezzo lo pagheremo tutti, perché i conflitti non sono interesse della società, sono costosi, e per giunta hanno l’effetto opposto a quello che sarebbe auspicabile: invece di favorire i processi di integrazione, li rendono più difficili. Per giunta, rendendo noi colpevoli di violare un nostro principio ispiratore fondamentale: l’universalità della legge. Se si fosse voluto risolvere il problema, si sarebbe fatto l’opposto. Prima si sarebbe imposto ai comuni di creare delle aree adibibili al culto, e poi si sarebbe chiesto ai musulmani di adeguarsi. Così facendo, si chiudono le moschee ora, senza sapere se e dove si apriranno domani. Ottenendo un solo risultato: aumentare il senso di estraneità dei musulmani che vogliono integrarsi. Ma, certo, gli immigrati non votano. E questo spiega molte cose. Pag 6 Decine di “mini” moschee da spostare, la nuova legge disorienta i sindaci di Roberta Polese Vicenza: “Così si rompono gli equilibri”. I piccoli: “Spostarli costa, dove li mettiamo?” Venezia. La nuova legge regionale “anti moschee”, che dovrebbe regolamentare la locazione urbanistica delle associazioni islamiche, ha ottenuto, almeno per ora, due reazioni nei sindaci. C’è chi sulla fiducia si dice pronto ad eseguire gli ordini senza discutere, e sono i sindaci dei centri più piccoli che hanno un rapporto quotidiano con gli islamici e che possono agevolmente trovare soluzioni alternative. E poi ci sono i sindaci dei grandi comuni che criticano la Regione perché mette il dito su equilibri raggiunti a fatica. La “ratio” che sottende alla nuova norma è che centri di preghiera non possono stare in ex uffici o ex negozi perché l’afflusso dei fedeli crea un problema di traffico e caos a scapito dei residenti, e non possono stare nemmeno in capannoni industriali perché non opportunamente inseriti in un contesto di servizi generali definiti necessari. Pertanto, se i sindaci vogliono lasciare le associazioni culturali (che poi in realtà sono di fatto centri di preghiera) dove sono devono modificare la destinazione urbanistica dell’area trasformandola in una zona «F», che è quella in cui sorgono di solito ospedali,

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palestre, caserme. Ad oggi i sindaci non hanno ancora ricevuto la circolare esplicativa della Giunta ed emerge innanzitutto una gran confusione. «A Padova i centri di preghiera sono tutti in regola» fa sapere il Comune commissariato che si avvia alle elezioni. Ma le cose non stanno esattamente così: ad esempio il centro di preghiera di via Turazza (zona appartamenti e uffici) crea polemiche pressoché ogni giorno. Lo sa bene l’ex assessore alla sicurezza Maurizio Saia che quando sedeva nella giunta Bitonci mandava i vigili a controllare il centro di preghiera un giorno si e uno pure: «Lì formalmente c’è un’associazione culturale - dice - ma di fatto pregano tutti i venerdì e più volte al giorno, c’è una famiglia che abita vicino che non ne può più, è chiaro che gli islamici non possono più starci». Che fare? se ne occuperà il nuovo sindaco. Perché il tema è politico e riguarda il «colore» di ogni municipio. Quello di Vicenza, di centrosinistra, ad esempio non usa mezzi termini: «E’ una legge discriminatoria - afferma Filippo Zanetti, assessore alla semplificazione all’innovazione che erediterà l’applicazione pratica della nuova norma - la legge regionale crea un problema enorme: il centro di preghiera più piccolo, in via dei Mille (che si trova in un ex negozio ndr) è facilmente risolvibile perché sono in pochi, ma spostare o modificare l’assetto del capannone in via Vecchia Ferriera è più complicato, con i rappresentanti dell’associazione islamica abbiamo lavorato anni per trovare un posto che potesse andare bene a tutti, dove li dovremmo spostare? Non è che questa gente sparisce con un battito di ciglia». Non si esprime ma è scettico il vicepresidente dell’Anci e sindaco di Monselice(Pd) Francesco Lunghi (centrodestra), che ha un centro islamico in zona industriale. Un anno fa un suo frequentatore è stato espulso per terrorismo, ma è stato denunciato dagli altri fedeli, per cui i rapporti sono in generale di grande collaborazione: «Non ho letto le direttive regionali ma se dovessimo spostarli non so quale altra soluzione trovare». Si astiene da commenti il sindaco di Villorba Marco Serena (Lega), nel suo Comune sorge uno dei più grandi centri culturali islamici del Veneto: «Ma non pregano lì dentro, ci chiedono il permesso per farlo in altri luoghi, pertanto non creano problemi di affollamenti». Il sindaco di Fonzaso (Bl) ha un contenzioso aperto con il centro culturale islamico locale, a breve si attende la decisione del Consiglio di Stato e la nuova legge regionale potrebbe aiutarlo a risolvere la questione. Invece a Solesino (Pd), il sindaco Roberto Beggiato (centrosinistra) è preoccupato: «L’associazione islamica ha acquistato un capannone, una variante ci costerebbe troppo e anche sfrattarli creerebbe non pochi problemi». Pronto ad eseguire le regole Gabriele Volponi(centrodestra), vicesindaco di Maserà(Pd), che ha un centro di preghiera in centro al paese - Se la legge dice che se ne devono andare se ne andranno, noi eseguiamo i nostri compiti». Piove di Sacco (Pd) si distingue: «Cercheremo un dialogo e per gli islamici troveremo una soluzione condivisa, come sempre» dice il Dem Davide Gianella. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Ipocrisie europee sulla Siria di Paolo Mieli Qualche domanda Che posizione ha l’Europa in merito alla guerra contro il califfato islamico? E su Assad? A voler essere meno generici, che posizione hanno su questi temi, uno per uno, i singoli Paesi europei? Per carità, conosciamo le chiacchiere sulla necessità di tavoli negoziali e di corridoi umanitari. Ma qualcuno ha messo nel conto momenti specifici in cui si considera giustificato il ricorso alle armi? E, per venire al caso di questi giorni, se unanimemente abbiamo definito disgustoso l’uso (comprovato) di armi chimiche da parte del dittatore siriano e qualcuno di noi rimprovera ancora adesso ad Obama di non aver tratto le dovute conseguenze dalla violazione della «linea rossa» nell’estate del 2013, se è vero tutto questo, che senso ha rinfacciare ora al presidente Trump il lancio di quei cinquantanove missili sulla base aerea siriana di Shayrat da cui avevano preso il volo gli aerei carichi, appunto, di quel tipo particolare di bombe destinate alla periferia di Idlib? Chiariamo subito: queste domande non sono rivolte a Nigel Farage, Beppe Grillo, Marine Le Pen, Matteo Salvini che una scelta di campo l’hanno fatta da tempo

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schierandosi dalla parte di Putin. E non sono rivolte nemmeno a quei compagni di strada del despota di Damasco impegnati a mettere in dubbio che ordigni chimici siano stati effettivamente sganciati sul piccolo centro della Siria in mano ai qaedisti. A modo loro i putiniani-salvinian-grillini sanno essere coerenti. A nche se da alcune smorfie si comprende che avrebbero volentieri evitato di trovarsi all’improvviso in contrasto con il nuovo presidente degli Stati Uniti. No, le domande sono rivolte a noi stessi, o comunque a coloro che non militano nel fronte antisistema che ha efficacemente descritto ieri su queste colonne Angelo Panebianco. Bensì in quello opposto. A Jean-Claude Juncker e Federica Mogherini - per esempio - che hanno reagito all’iniziativa trumpiana con un balbettio e senza sentirsi in obbligo di rendere esplicita quale debba essere la risposta europea (o anche, ripetiamo, di qualche singolo Paese d’Europa) al lancio di bombe chimiche da parte di uno dei soggetti in combattimento. In particolare se quell’uno è Assad che proprio nel 2013 aveva preso l’impegno di distruggere l’intero arsenale di un tal genere di armi. «Dobbiamo evitare ogni ulteriore attacco», ha sentenziato il presidente della Commissione Ue. Anche se poi, bontà sua, si è sentito in dovere di fare dei distinguo tra attacchi militari e ordigni chimici sui civili. Giriamo le domande di cui all’inizio all’ex presidente del Consiglio Enrico Letta il quale si è così pronunciato: «Non dobbiamo pensare che Trump ci abbia levato le castagne dal fuoco con il suo attacco alla Siria, al contrario ce le ha messe... La verità è che Trump se n’è infischiato dell’Europa con un pericoloso unilateralismo... Non penso che si possa provare sollievo per un’azione così unilaterale». E quale avrebbe dovuto essere la risposta non unilaterale? A quel che sappiamo l’unica contromisura presa da Bruxelles è stata quella di vietare l’ingresso al Parlamento europeo al vice ministro degli Esteri di Damasco, Ayman Soussan. Efficace certo, ma non tale da creare preoccupazioni ad Assad. Le rivolgiamo, quelle stesse domande, al generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano in Libano, il quale ha definito quella di Trump «un’azione particolarmente imprudente, un comportamento rabbioso non degno del capo del più grande e importante Paese occidentale». E cosa avrebbe dovuto fare Trump? «Meglio sarebbe stato - ha risposto il generale Angioni - se il presidente degli Stati Uniti avesse assunto la guida dei Paesi moderati e profondi fautori della pace mondiale». Ah, ecco! E le giriamo anche al generale Vincenzo Camporini, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e della Difesa, che ha dichiarato di non riuscire a vedere «nessuna finalità politica all’attacco contro la base aerea siriana». Attacco che gli è parso, ha aggiunto, «soltanto un gesto punitivo». Soltanto! Qui non si capiscono molte cose. Punto primo: come pensiamo sia possibile sconfiggere Daesh? E cosa intendiamo quando ci diciamo impegnati nella guerra all’Isis? Ad ogni evidenza dovrebbe voler dire che - a meno di mandar lì dei soldati - ai «nostri» aerei toccherà bombardare alcuni centri nevralgici finiti nelle «loro» mani. Cercando di colpire obiettivi militari e di risparmiare, tutte le volte che è possibile, i civili. Ma sapendo, a non essere ipocriti, che alla fine tra le vittime, purtroppo, si conteranno molti non combattenti e altrettanti bambini. Se poi qualcuno che in questa specifica guerra si batte dalla «nostra» parte della barricata - è il caso di Assad - disattende provocatoriamente quest’ultima consegna, dovremmo impegnarci a punirlo nei modi più ostentati, ad evitare di doverci un giorno (ma già fin d’ora) considerare corresponsabili dei suoi crimini. Ed è quello che ha fatto Trump, con un’operazione chirurgica, mirata, che, per giunta, ha causato meno di dieci vittime. E se Trump fa una cosa giusta, come dovremmo reagire? Minimizzando, abbandonandoci a battute di spirito nell’attesa che ne faccia presto una sbagliata così da poter alzare la voce per rimetterci in pace con la nostra coscienza critica? No. A noi sembra più coraggioso quel che hanno fatto negli Stati Uniti alcuni leader repubblicani (John McCain, Lindsay Graham, Marco Rubio), gente che fino a poche ore prima a Trump non ne aveva perdonata una. Così come il capo dei senatori democratici Chuck Schumer e l’ex massimo responsabile della Cia obamiana Leon Panetta. Perfino il guru progressista del New York Times , Nicholas Kristof. Tutte persone che Trump lo hanno combattuto e combatteranno senza tentennamenti. Ma che per un giorno si sono fermate e gli hanno pubblicamente riconosciuto di essere dalla parte della ragione. Lo ha fatto addirittura Hillary Clinton. Andiamo tutti insieme a scuola da loro. Avremo chiaro che questa «guerra mondiale», anche a costo di violentare precedenti convinzioni, dovremmo seguirla senza partito preso, riconoscendo che talvolta può capitare a Putin di fare una scelta efficace e persuasiva, così come talvolta è capitato e capiterà a Trump. E un giorno, forse, capiterà

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all’Europa, fino ad oggi specialista nel versare ettolitri di lacrime su questo o quel misfatto e nel definire «inaccettabili» le non poche imprese criminali compiute da qualcuno dei contendenti, senza poi sentirsi in dovere di trarre le conseguenze da quella mancata accettazione. Mai, neanche una volta . LA REPUBBLICA Pag 12 Il lutto senza odio dei copti di tanta: “Siamo tutti fratelli, non cambieremo” di Giampaolo Cadalunu Nella moschea vicina si prega per le vittime Tanta. Gli operai sono al lavoro vicino alla Natività, a fianco dell' Annunciazione. Raccolgono i pezzi di legno dei banchi, spazzano via i vetri dal pavimento striato di sangue, sotto la Via Crucis. Evitano di guardare i frammenti di materia umana, ancora sparsi sulla colonna annerita dalla bomba, vicino alla Fuga in Egitto. Persino sul soffitto, una quarantina di metri più in alto, sull'intonaco lesionato si vedono tracce scure e qualche ciuffo di capelli, che lo sguardo tollera a malapena. Tre uomini con martelli e cacciavite rimettono al suo posto la massiccia porta laterale, spalancata dalla forza dell'esplosione. I lavori vanno avanti, ma per un po' la chiesa di San Giorgio non vedrà fedeli in preghiera: la cerimonia funebre dei 28 morti di Tanta dovrà essere tenuta nella cappella vicina e nel cortile, dove altri operai stanno allestendo un fondale di tessuto. All'ingresso, fra i banchi spaccati, nella polvere, è rimasta una palma con le macchie già sbiadite del sangue versato dai copti d' Egitto. L' odore d'incenso sta già cancellando quello del sangue e dell'esplosivo. La gente della chiesa lavora pacata, con lo sguardo fisso sull'impegno da portare avanti, la bocca stretta. Fuori, una piccola folla attende l'apertura del cancello. Due ragazzi singhiozzano davanti alla porta metallica dov'è appesa la foto di Fedhi Ramses, universitario, che non finirà mai gli studi. Un prete ortodosso barbuto passa rapido, con gli occhi rossi. No, non vuole parlare. L'agenzia Amaq, organo del sedicente Stato islamico, ha rivendicato gli attacchi e garantito che non sono finiti. Gli attentati ripetuti sullo stesso obiettivo sono una tattica qaedista ben nota, ma nella comunità cristiana di Tanta pochi sembrano preoccuparsene. «In fondo morire in chiesa, per chi ha fede, è il modo più piacevole di tutti», dice Victor Fathy, padrone della piccola agenzia di pubblicità e stampa Abosehen, proprio di fronte a San Giorgio. Indica una foto sullo schermo del suo computer: davanti all'altare, il gruppo dei diaconi vestiti di tuniche bianche con ornamenti rossi: «Questo era Suleiman, questo Abdul-Salib, questo era Chebbi tutti amici miei, non ci sono più. Ma sono andati in un mondo migliore del nostro». Victor era in chiesa, al momento dell'attentato, ha visto il sangue. Si chiede come mai il terrorista suicida sia riuscito a entrare con i fedeli, ma non se la prende con nessuno. «La polizia fa quello che può, ma forse non basta. Mi chiedete se quello che è successo può provocare odio fra noi cristiani e i musulmani? No, i terroristi non riusciranno a farci odiare. Ho ricevuto tantissime chiamate di solidarietà da amici islamici. Siamo tutti fratelli». Quando dalla vicina moschea Said el Badawi si leva il canto del muezzin che invita alla preghiera, fra i cristiani nessuno sembra farci caso. E a cercare un punto di ritrovo della comunità copta, si ricevono solo sguardi interrogativi. «In questa zona c'è il caffè Sport. Ma ci vanno tutti. Non ci sono locali solo cristiani. Le scuole? Ma sono miste, ovviamente, ci sono ragazzi di tutte le fedi. Come può essere altrimenti?», chiede un fedele di San Giorgio. «Appena ho saputo della bomba sono corso in ospedale», dice Said, che ha sul capo la cuffia bianca da preghiera degli islamici. «Volevo donare il sangue, ma non mi hanno voluto fare il prelievo perché ho 67 anni». Per lui «un'azione come quella degli attentatori non ha nessun senso. E il Corano vieta esplicitamente di uccidere bambini. Questi assassini sono legati ai Fratelli musulmani, ne sono sicuro. Non sono nemmeno in grado di capire che siamo tutti egiziani». Dopo gli attentati di domenica, con 45 morti fra Tanta e Alessandria, il presidente Abdel Fattah Al Sissi ha proclamato tre mesi di stato di emergenza e ha schierato le forze armate sulle "strutture sensibili". La paura è che i nuclei jihadisti del Sinai, già in passato protagonisti di assalti sanguinosi, abbiano deciso di considerare obiettivo privilegiato la minoranza copta, otto milioni di cristiani vissuti finora in armonia con la maggioranza di fede islamica. Davanti alla facciata della chiesa ferita qualche poliziotto in uniforme, molti agenti in borghese e soldati in grigioverde con la mitraglietta si guardano intorno. Uno di loro ha disteso nell'angolo del marciapiede un

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tappetino da preghiera. Si inginocchia, abbassa il capo, si alza, ricomincia. Nel cortile Mohaib, ex direttore di ufficio postale, garantisce che «la sicurezza era sufficiente». Poi mostra un breve video del nipotino Gabriel, che canta il Kyrie Eleison. Il bambino vive a Dubai con i genitori, «e anche lì i cristiani hanno le loro chiese, nessuno li disturba». Ma che sarà domani dei fedeli minacciati? Per ora l' unica certezza è che papa Francesco non li ha abbandonati: «Il viaggio del pontefice in Egitto, il 28 e 29 aprile, si farà», fanno sapere dalla Santa Sede. Davanti a San Giorgio un religioso dell'università Al Azhar ribadisce alle telecamere locali quello che ha già garantito il grande imam Ahmed Al Tayyib: per papa Bergoglio non ci sono pericoli. Nei vicoli stretti del quartiere, le risa dei bambini rimbalzano da un balcone all'altro. Dalle finestre si affacciano immagini del Sacro cuore di Cristo. Una giovane con il crocifisso al collo e il fidanzato per mano prova a raccontare i suoi sentimenti: «Abbiamo perso tanti amici, ora non ci sono più». Poi la voce le si rompe, si affacciano le lacrime, la ragazza va via. Sulla porta di una botteguccia senza finestre, una corona di luci intermittenti da albero di Natale incornicia un ritratto di Maria vergine. «Non avevamo mai avuto problemi con i musulmani», dice Maikel, il titolare del negozio. «Ma questi non sono musulmani, sono fanatici, sono Isis». E per l' avvenire? Può succedere qualcosa? «No. Non abbiamo paura. Il nostro futuro è nelle mani di Dio». AVVENIRE Pag 1 Ciò che ci serve oggi di Wael Farouq Amore, non solo tolleranza. E chiarezza I cristiani copti sanno che oggi in Egitto andare in chiesa a pregare è un rischio. Daesh ha minacciato di bruciarli nelle chiese e, solo dieci giorni fa, le forze di sicurezza hanno disinnescato un ordigno proprio nello stesso edificio sacro che nella Domenica delle Palme ha subito uno dei feroci attacchi terroristici. Eppure, i cristiani egiziani continuano a recarsi in chiesa per pregare. La Domenica delle Palme è un giorno speciale per i bambini. Le madri, una volta, si divertivano a creare simboli e giocattoli con foglie di palma. Noi, bambini musulmani, ricevevamo corone, stelle e spade fatte con queste foglie, mentre i bambini cristiani portavano le croci. Li accompagnavamo in corteo fino alle porte della chiesa. Loro entravano per la Messa e noi ricevevamo qualche dolce. Poi, in attesa che uscissero, proteggevamo la chiesa da nemici e demoni invisibili con le nostre spade verdi. Penso che la mia sia l’ultima generazione che ha vissuto questa gioia. In seguito, alla fine degli anni 70 del Novecento, il presidente Anwar al-Sadat ha aperto lo spazio pubblico agli islamisti e milioni di egiziani sono emigrati verso i Paesi del Golfo, verso società uniformi che non conoscevano il pluralismo religioso e non lo accettavano. È stato l’inizio della propaganda d’odio contro i cristiani in generale e quelli egiziani in particolare. In ogni quartiere c’era una moschea controllata dai propagandisti dell’islam politico. Sotto la protezione di Sadat e nell’indifferenza dei suoi successori, la propaganda contro i cristiani è durata quarant’anni. Gli sheykh dicevano ai musulmani che i cristiani erano «miscredenti», che non bisognava mangiare il loro cibo, non bisognava amarli. Dicevano: «Uccidono i vostri fratelli in Iraq, Palestina e Afghanistan». Dicevano: «Non fate gli auguri per le loro feste, non rivolgete loro il saluto». Eppure nonostante anni di questa macabra propaganda, gli egiziani hanno saputo riscoprire la propria unità in piazza Tahrir. La rivoluzione ha creato uno spazio di incontro fra il musulmano, cui si era tentato di far dimenticare l’amore e una secolare convivenza, e il cristiano che si era rassegnato a emigrare o a isolarsi dal mondo, rinchiudendosi dentro le mura della sua Chiesa nel suo stesso Paese. La rivoluzione, nei pochi anni passati, ha distrutto decenni di odiosa propaganda. Tanti egiziani, però, malgrado la propaganda d’odio e le stragi dei terroristi, stanno riscoprendo il bene dell’unità. Dopo gli attacchi di domenica, i cristiani hanno celebrato sui social network gli eroici poliziotti – tutti musulmani – uccisi mentre compivano il loro dovere di proteggere la Messa officiata da papa Tawadros. Era lui l’obiettivo principale degli attacchi: il primo, quello alla chiesa di Tanta, aveva lo scopo di attirare l’attenzione per colpire poche ore dopo il capo spirituale dei cristiani copti nella chiesa di San Marco ad Alessandria. Il terrorista, però, non riuscendo a entrare, si è fatto esplodere davanti alla porta della chiesa, uccidendo cristiani e musulmani. Molti musulmani sono accorsi per donare sangue, hanno aperto le porte delle moschee per curare i feriti e hanno pianto calde lacrime mentre estraevano i

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feriti dalle chiese. La loro umanità ha vinto sulla propaganda d’odio. Musulmani e cristiani sono rimasti insieme, in ospedale, in moschea, in chiesa. È questo un tempo in cui i predicatori della tolleranza devono fare un passo indietro. La tolleranza non è altro che lo slogan di chi è incapace di amare, e non basta. Oggi non abbiamo bisogno di tollerare, ma di amare. Perché questo terrore sarà sconfitto solo dalla nostra capacità di amare e piangere per gli altri. Daesh ha rivendicato la responsabilità degli attacchi terroristici, ma solo Daesh ne è responsabile? Non lo sono anche gli islamisti che propagandano l’odio? Non lo è anche chi si limita a condannare l’atto criminale, senza condannare l’ideologia che lo alimenta? Non lo è anche chi divide gli islamisti in moderati ed estremisti? Lo sheykh Yusuf al-Qaradawi – figura simbolo dei cosiddetti islamisti moderati – ha giustificato gli attacchi terroristici dando la colpa alla presenza di un regime dittatoriale. Ma dov’è la dittatura a Stoccolma? Dov’è la dittatura a Bruxelles, a Londra e in Francia? Come si può giustificare l’ondata di lupi solitari e di jihad a basso costo in Europa? Stanno erigendo un muro psicologico fra di noi per distruggere ciò che di più prezioso ha realizzato la civiltà: la libertà, la democrazia, i diritti umani. Puoi morire in un caffè, in un teatro, in un parco, in uno stadio, nella metro. Vieni ucciso in chiesa. Il tuo assassino non ti conosce, non ha mai visto la tua faccia, non ha mai sentito il tuo nome. Lui non sa se la tua morte rattristerà i cuori di chi ti ama, o renderà felici quelli di chi ti odia. Non conosce nemmeno sempre la tua religione, né la tua nazionalità. In realtà, il tuo assassino non uccide te, ma la vita che è in te. L’attentatore suicida non conosce nulla delle sue vittime, conosce solo se stesso. Ma cosa conosce di se stesso che lo spinge alla morte? Anzi, cosa non conosce di se stesso che lo spinge a fuggire dalla vita? Conosce l’odio, non l’amore. È morto prima di morire e si fa esplodere per sfuggire a questa morte. Chi non conosce l’amore non ha altra salvezza che la morte. Non c’è resurrezione per la sua anima, perché è lei stessa il sepolcro, è lei stessa la prigione. È vero, la fede nell’amore non ti proteggerà da una pallottola o da una scheggia che va a conficcarsi nel tuo cuore, ma proteggerà il tuo cuore dalla morte prima della morte, dal vivere la vita come una continua fuga dalla morte. Pag 3 La guerra fa milioni di vivi di Alessandro Bergonzoni Migranti per forza: emergenza sovrumanitaria La guerra fa milioni di vivi. A noi poi finirli lentamente? La guerra scoppia, di salute: senza offendere l’insensibilità di qualcuno, riusciamo a distinguere il movente dal morente? Il nuovo film è 'Miseria e mobilità': spostamento del peso umano sull’asse terrestre, la fotografia potrebbe essere proprio una di queste che vedete, quella della barca, la stessa su cui siamo tutti, che a seconda dell’inclinazione, degli uomini, porta a grossi capovolgimenti, epocali, e relative 'trevisioni' meteorologiche: spaventi forti, mare sicuro, uomo incerto. Per quanto ne sappiamo, si può fare altro? E per quanto ancora ne sapremo? Uomo avvistato mezzo salvato? Come colmare la distanza? Col mare? Annegando l’evidenza? Aspettiamo altre foto meraviglia dell’orrore, attendiamo di non saperne più e restituire i nostri vuoti, di memoria, al mare che almeno culli lui il ripescato del giorno, in questa eterna bara-onda che seppellisce noi ma soprattutto loro? Non siamo ancora vivi (ecco perché non siamo morti ancora, noi). Emergenza umanitaria? Sovrumanitaria semmai, non solo politica, europea o di cooperazione. Manca sovrumanità nell’accogliere non solo i migranti dalla miseria, ma nell’accogliere l’idea, il concetto che si debba accettare, tener con noi, difendere, annettere, per salvare, far vivere, per aprire alla pace, la loro e la nostra. Invece si punta ancora a salvare le nostre Nazioni e condizioni da chi ci spira in braccio, come fossimo noi sotto attacco di chi ci annega addosso; si continua a non accettare neanche l’idea che l’esodo biblico del mondo che sta morendo di torture, sia parte della nostra esistenza. È finita la concezione di nozione-nazione unica di appartenenza, di popolo distinto, separato dai separati. L’umano ormai ha fatto il suo tempo, e anche questa laicità, certa religiosità, questo modello unico di codice e diritto asfissiati a vita. Va scritto un altro alfabeto, altra costituzione, interiore e ulteriore, altra poetica di vita che non faccia solo commuovere per quel che vediamo. Manca la mutazione quasi genetico-cosmicaspiritual- trascendentale, per amare, non armare e finanziare gli angoli del mondo, origine di tanta 'umanità' del benesseremalessere. Mutazione che è a monte delle piccole e grandi decisioni che i governi non riescono nemmeno a immaginare, finiti a cercare mercati,

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foraggiando terrore di andata e di ritorno, a turno e a seconda degli interessi del momento, appiccando ogni tipo di paura per ottener potere e controllo. Un cambio che faccia aprire gli occhi, non solo gli stretti e i confini, per sciogliere i muri e anche le menti dei politici nazionali ed internazionali. Non c’è nulla di laico o religioso in tutto questo, non è questione di credenti e non, ma di immenso incredibile: questione di trascendenza, di spirito che muove o non muove le mani di chi spalleggia e non fa nulla per aprir corridoi umanitari, di chi vuol vietare le migrazioni, come se fosse possibile fermare il mare se si continua ad agitarlo muovendone le onde per cui, si muore. Si uccide con le due mani o con la terza, la mancanza: mancanza di grandezza, infinito, bene, dignità, compensando con manie di grandezza e d’espansione a tutti i costi; i costi delle missioni di pace, degli armamenti, delle vite e delle continue deviazioni dell’informazione. Da secoli ci provano bene o male anche poeti, artisti, presto o tardi, durante o dopo genocidi ed ecatombe. Quando si capirà che questa poetica, questa arte del trascendere dev’essere accolta e indossata da tutti, volontari e non? Possiamo almeno cominciare a lasciare entrare questo nuovo Stato d’animo, prima di capire come fare entrare tutte le altre anime degli altri Stati? Che non si dica mai più in nessuna condizione: «Non ti voglio vedere, vedere in questo stato!». Questo testo che pubblichiamo in anteprima è stato scritto dall’attore-autore e poeta Alessandro Bergonzoni per il Rapporto annuale 2017 del Centro Astalli - Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia, che viene presentato oggi, 11 aprile 2017, a Roma Pag 5 Tanta è già in piedi: il terrore non vincerà di Lucia Capuzzi Cristiani e islamici: “Siamo insieme”. Intervista al comboniano padre Simon, nel Paese da 15 anni: “Il nostro sangue per il messaggio al governo Sisi” Il “pane della festa” è là. In bella vista. Il grande sacco bianco che lo contiene è aperto. «Servitevi per favore», dice una signora vestita di nero, seduta sull’entrata laterale di Mar Girgis. Allunga la mano per porgere una pagnotta ad ogni pellegrino. «Era il pane della festa. Ora è il pane del conforto», dice. Già perché la “festa” non c’è stata. Era prevista dopo la Messa: allora, come da tradizione, la comunità avrebbe condiviso il pasto insieme per celebrare la Domenica delle Palme. Una bomba piazzata sotto l’altare della chiesa copta ortodossa di Tanta, però, l’ha mandata in frantumi. Insieme alle vite di 30 fedeli. I feriti sono 78. Nessuno, nel frattempo, ha avuto il coraggio di buttar via il pane. «Sarebbe uno spreco ma anche una sconfitta. Un accodarci alla logica degli assassini, che 'buttano via' gli esseri umani perché per loro non hanno valore. Lo so è un piccolo segno. Vogliamo, però, dire che per noi tutto ha valore. Poi parecchi sono arrivati dal Cairo affamati». Ci vogliono almeno due ore – anche di più ora che c’è un posto di blocco ogni dieci chilometri – per raggiungere dalla capitale questo villaggio sterminato. I numeri sono da metropoli: quasi due milioni di abitanti, di cui circa mezzo milione cristiani copti. Eppure Tanta – situata sul Delta del Nilo – ha l’aria decadente di un paese sperduto. Sulle strade, dissestate, alcuni si spostano su carretti trainati da asini. Mentre ai margini dell’asfalto gli edifici demoliti convivono con quelli di nuova costruzione in una surreale giungla di calcinacci e mattoni. Là, all’angolo tra le vie Suleiman e Mubarak, spunta la facciata bianca e squadrata di Mar Girgis. O San Giorgio. Da domenica, comunque, Tanta la ricorderà come la “chiesa della strage”. La città non aveva mai dovuto fare i conti in prima persona con la violenza estremista. «Non ci possono ancora credere che abbiano colpito da noi», sottolinea Hana. E proprio nel quartiere dove i cristiani sono maggioranza e con la minoranza islamica i rapporti sono molto più che di buon vicinato. «Siamo cresciuti insieme. Abbiamo studiato nelle stesse scuole. Ora condividiamo gli stessi uffici – racconta Nagy –. Ho più amici musulmani che copti. E non sono l’unico. Qua è così». Già qua è così. Forse è da ricercarsi in questa convivenza armoniosa, il motore che, a poche ore dal massacro, ha spinto la Tanta ferita a rialzarsi. Con dolore ma soprattutto con enorme coraggio. Unita. Cristiani e islamici insieme. Dalla prima mattina, una squadra di operai ha lavorato senza sosta per ripulire le tracce dell’orrore. E preparare i loculi per i 30 fedeli massacrati, in uno spazio sotterraneo ricavato sul retro del complesso. Nel pomeriggio, per terra, si notavano ancora frammenti di vetro e rametti di palma. Niente che, però, lasciasse intuire la portata dela catastrofe avvenuta il giorno precedente. Se non fosse per l’intonaco troppo recente sotto le finestre, i cui vetri sono stati prontamente sostituiti, si sarebbe potuto quasi

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pensare a un 'dopo festa' un po’ caotico. La macabra realtà la rivelavano i volti segnati di tanti, accorsi dall’intera zona per l’ultimo saluto ai morti: i funerali veri e propri erano stati già celebrati nella tarda serata di domenica, dato che la liturgia copta non prevede celebrazioni funebri durante la Settimana Santa. Le esequie sono state celebrate da Anba Paula, vescovo copto ortodosso di Tanta: ad esse hanno partecipato anche altri vescovi del sinodo copto. Ieri si è svolto, invece, un commiato cittadino, aperto a tutte le fedi. Così, Mar Girgis ha voluto ribadire che non è disposta a lasciarsi prendere dallo sconforto. Il suo è stato un grido muto e inequivocabile: il terrore non ha vinto. Perché là, fra quelle mura dolenti, copti e musulmani hanno detto addio fianco a fianco alle vittime del massacro. Non c’era tensione, nonostante la presenza dei militari, con le armi ben in vista, e di decine e decine in divisa e non. Solo l’arrivo di un metal detector, piazzato all’ingresso, ha provocato un po’ di fermento. Maria non spinge. Eppure la voglia di entrare per dare l’estremo saluto al padre è forte. L’ultima volta che l’ha visto era sull’altare per il servizio liturgico. Stavano per cominciare le Letture, quando la giovane ha avvertito la deflagrazione. «Tutto è diventato caldo e pesante. Eppure ero lucida. Continuavo a pensare: ora mi alzo e vado a prendere papà. Invece per lui non c’è stato niente da fare». La sua voce è bassa ma ferma. Quasi categorica quando afferma: «Paura? No, non ho paura». Poi aggiunge: «Credo nella Resurrezione», mentre la mano, quasi istintivamente, sfiora la piccola croce che questa giovane di vent’anni porta al collo. «Sono cresciuto in chiesa, non smetterò di andarci ora», le fa eco Yushi. «Se, per questo, devo rimetterci la vita, ne sarà valsa la pena», prosegue. Un’eventualità non così remota. Per questo, la frase ha la pesantezza di una scelta meditata. Angie, 22 anni, piange il cugino Fedi, di 23. I genitori hanno affisso la foto del giovane alla porta, con una supplica: «Ricordatelo nella preghiera». «Era mio alunno», irrompe Sara, una bella ragazza di circa trent’anni. Ha il il capo coperto da un velo scuro che fa risaltare gli occhi verdi. Insegna chimica al liceo del quartiere. «In quest’atto barbaro e insensato, ho perso tre studenti», racconta. «Uno di loro, Bishoi, l’avevo visto a lezione sabato. Mi aveva detto che domenica non sarebbe venuto perché era la Domenica delle Palme. Gli ho fatto gli auguri e gli ho detto di riguardarsi. Il padre era morto qualche mese fa, e lui si era caricato la responsabilità di essere 'l’uomo di casa' per la madre e le tre sorelle. Dopo il diploma aveva deciso di mettersi a lavorare..». Sara, evidentemente islamica, non si da pace: «Questa barbarie non rappresenta il Corano. Noi non siamo questo. No, no». Mina le si fa accanto: «Lo sappiamo che l’islam non c’entra. Chi compie simili efferatezze è gente venuta da fuori. Terroristi, non musulmani». «Il Daesh», sussurra Yussuf. Il Califfato si è affrettato ad attribuirsi la doppia strage di domenica – quella a Tanta e poi alla cattedrale di San Marco ad Alessandria –, attraverso l’agenzia ufficiale Amaq. A colpire a Mar Girgis, secondo quest’ultima, sarebbe stato un non meglio precisato Abu Isaac al-Masri. Realtà o propaganda a Tanta fa poca differenza. «Se non è il Daesh, è qualche gruppo affine. Vogliono distruggere l’Egitto, non solo i copti», tuona Andris. «Che c’entra la religione – afferma Mohammed, poliziotto –. Io sono islamico e domenica ero orgoglioso di essere stato chiamato qui a difendere i fratelli copti. Purtroppo non è bastato. Stavo entrando in servizio quando ho visto i muri tremare. I colleghi mi hanno fatto entrare. C’era sangue dappertutto, per terra i corpi, alcuni sfregiati. Si notavano molti bambini e ragazzi». «Abito a due strade di distanza – sottolinea Rana –. Ero ancora a casa mentre a Mar Girgis si celebrava la Messa. Il turno di lavoro cominciava più tardi. Quando ho sentito lo scoppio, uscita d’istinto. Sapevo che il mio amico Isa doveva andare a celebrare la Domenica delle Palme. Sono corsa a vedere. Per fortuna lui stava bene. Inshallah». Yadira non è stata, invece, altrettanto fortunata. «Ho perso mio fratello. Lui non c’è più», dice la giovane che, per Hami, ha preparato una croce di palma ricoperta di fiori bianchi. La mostra ai passanti, nascondendo la tristezza dietro un sorriso. «Gli piaceva preparare le palme. Lo faceva fin da quando era bambino. Aveva imparato a intrecciarle e, ogni anno, per la Messa d’inizio della Settimana Santa, ne portava una di sua creazione. Mi piace pensare che ora sia in Cielo, ad agitare la sua palma di fronte a Gesù». Nella sua frase riecheggia, inconsapevolmente, quando scritto dal Patriarca Tawadross al vescovo di Tanta e letto da quest’ultimo durante i funerali: «Ci siamo congedati dai nostri cari martiri della chiesa di Mar Girgis a Tanta. Loro sono stati chiamati in cielo nel giorno di festa, per per portare i rami di palma e d’ulivo davanti a Cristo stesso».

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«Il duplice significato è evidente. Per prima cosa, i terroristi hanno voluto mandare un messaggio politico al governo che sta distruggendo le loro postazioni nel Sinai. E lo hanno scritto con il sangue dei copti, un bersaglio più facile rispetto a un’installazione militare. Gli attacchi di domenica sono, però, anche un tentativo cruento per cercare di fermare il dialogo in atto tra la Santa Sede e al-Azhar. Gli estremisti hanno percepito la sintonia e i passi l’uno verso l’altro. E ne hanno paura». Padre Simon Mbuthia, kenyano, vive al Cairo da quindici anni. Nella capitale egiziana, nel quartiere- isola di Zamalek, il religioso comboniano guida Dar Comboni, istituto Pontificio di lingua araba e cultura islamica. Non solo un centro studi: Dar Comboni coniuga alla formazione un intenso impegno nell’ambito sociale, in particolare nell’assistenza ai profughi africani. E, nel fare quotidiano, promuove il dialogo tra cristiani e islamici. Come esperto, padre Simon è profondamente convinto che l’ennesimo massacro non sia dovuto a ragioni religiose. «Certo, i gruppi fondamentalisti cercano di creare una frattura sociale, contrapponendo le varie comunità. In questo gioco perverso, i copti diventano uno strumento: ucciderli è il modo più immediato per fomentare divisione e paura». Tanto più che la strage è avvenuta in un giorno importantissimo della fede cristiana: la Domenica delle Palme. I terroristi sono molto attenti all’aspetto simbolico. Da qui l’idea di colpire proprio all’inizio della Settimana Santa. Un momento ancora più speciale quest’anno perché precede di poco il viaggio di papa Francesco. Gli occhi dei media internazionali sono concentrati sull’Egitto e sulla sua comunità cristiana. Attaccare quest’ultima garantisce all’azione un’ampia eco. I fondamentalisti hanno necessità di pubblicità. Ora più che mai. Sono in evidente difficoltà. Non solo in Egitto. Devono, dunque, far sentire la propria presenza. Che significato acquisisce in questo contesto il viaggio del Papa? Nelle ultime settimane, tanti cattolici copti mi hanno manifestato la loro gioia per l’arrivo di Francesco. La gente è entusiasta. Dopo i tragici avvenimenti, però, questo viaggio acquista un significato ancora più importante. Perché è un segno potente di speranza. Di conforto. Di Resurrezione. Come sta reagendo la comunità copta? Con coraggio. Le faccio un esempio. Domenica celebro la Messa alle 19. Tutti sapevano dei massacri di Tanta e Alessandria. Eppure la chiesa era piena. Nessuno è rimasto a casa per paura. Anzi. C’era ancora maggior partecipazione. E gli islamici? C’è stata una dimostrazione forte di solidarietà ufficiale, sia dal mondo religioso musulmano sia dal governo. A me, però, ciò che colpisce maggiormente è il dolore spontaneo degli islamici. Tanti amici mi hanno chiamato per esprimermi il loro cordoglio. Il personale che lavora con noi si è precipitato a esprimerci sostegno. La stragrande maggioranza dei musulmani è pacifica. E convive da secoli in armonia con i copti. Senza alcuna frizione. Il dialogo della gente comune è quello per me più fruttuoso. Che cosa intende? Parlo che il dialogo che si fa, non a livello teorico, bensì pratico. Nasce dall’affrontare insieme problemi comuni: lavoro, impegno politico, sociale, studio. Cristiani e musulmani fanno delle cose insieme e, così, imparano a conoscersi. Non solo a tollerarsi: hanno occasione di diventare amici. E quando accade, l’uno comincia a guardare con occhi differenti la religione dell’altro. Vai oltre le differenze. Non per negarlo. Ma per riconoscere quanto di buono vi sia nell’altro. E offrire a lui quanto di buono abbiamo noi. ITALIA OGGI Contano solo Papa e Mattarella di Mario Sechi Fra i leader italiani, nel complesso e caotico scenario internazionale di questi tempi. Il primo andrà presto in Egitto. Il secondo è già a Mosca C'è qualcuno nella scena italiana che gioca un ruolo internazionale? Due sono le figure che hanno la scacchiera globale davanti ai propri occhi: il Papa e il presidente della Repubblica. Il primo perché Roma è il centro della cristianità e il ruolo del Pontefice è naturalmente quello di essere capo religioso (e politico) di una forza transnazionale; il secondo perché le circostanze hanno messo (ancora una volta) il Quirinale al centro del

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gioco europeo, lo hanno proiettato su una dimensione che oggi supera di gran lunga quella domestica. Le agende da tenere d'occhio sono quelle di Papa Francesco e Sergio Mattarella. Il resto è polvere, senza neppure una briciola di stelle. Che cosa c'è nel taccuino? Seguite il titolare di List. Il Papa e l'Egitto. Dopo gli attentati della Domenica delle Palme, il viaggio di Francesco al Cairo il 28 e 29 aprile entra nell' agenda del disordine mondiale. Il Papa ha una sua linea: non c'è scontro di civiltà, non c'è conflitto religioso, ci sono i buoni e i cattivi, l'eterno scontro tra il Bene e il Male, e la gigantesca figura di Gesù che ieri nella sua omelia in piazza San Pietro, ha dipinto così: «Questo Gesù, che secondo le Scritture entra proprio in quel modo nella Città santa, non è un illuso che sparge illusioni, non è un profeta new age, un venditore di fumo, tutt'altro: è un Messia ben determinato, con la fisionomia concreta del servo, il servo di Dio e dell'uomo che va alla passione; è il grande Paziente del dolore umano». Il dolore umano. Quello dei copti in Egitto è sangue sulle palme, sui banchi delle chiese, sulle vesti sacerdotali, tutti i simboli di Dio sono diventati color porpora. Il viaggio del Papa diventa una processione in questo dolore. L'Egitto guidato con il pugno di ferro dal generale al Sisi non è mai uscito dalla sua dimensione di violenza quotidiana e dalla crisi economica. I tre principali pilastri della sua economia (il turismo, i ricavi del Canale di Suez e gli investimenti esteri) dalla stagione delle primavere arabe sono crollati. Il miglioramento di alcuni parametri - riserve, debito pubblico, deficit - non compensa il problema della disoccupazione e dell'inflazione (30 per cento in febbraio) che nell'ultimo anno ha subito un decollo verticale: L'Egitto è povero e instabile con un quadro politico dove il fondamentalismo religioso continua a essere predominante. È la distopica dimensione in cui è precipitato un paese che gode dell'appoggio di Stati Uniti (l'incontro alla Casa Bianca, qualche giorno fa, tra Sisi e Trump è stato positivo), Cina e Russia (Mosca ha piazzato una base logistica al confine con la Libia), ma non riesce a superare il caos del dopo Mubarak. Il viaggio del Papa a cosa può servire? È una testimonianza e un rischio. La testimonianza è quella del capo religioso, il rischio è quello del politico che si presenta con questo motto, «il Papa di pace in un Egitto di pace», mentre l'Egitto è in guerra. Tutte le strade un tempo portavano a Roma. Oggi no. Mattarella e la Russia. L'altra figura da monitorare sul radar è quella di Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica oggi sarà in Russia e anche il suo viaggio arriva in un momento incandescente. L'attacco chimico delle forze di Assad e il raid aereo del Pentagono in Siria hanno allargato di nuovo il fronte tra Stati Uniti e Russia, tra il Cremlino e gli alleati degli Stati Uniti. Boris Johnson, ministro degli Esteri del Regno Unito, ha cancellato il suo viaggio a Mosca e i due paesi non hanno un vertice bilaterale al massimo livello dall'ormai lontano 2012. Mattarella sarà il primo leader occidentale a incontrare Vladimir Putin dopo la notte dei Tomahawk, l'appuntamento non è importante solo per l'agenda del Quirinale, ma per gran parte della diplomazia europea che sta cercando un nuovo inizio dell' Unione partendo dal pilastro della difesa. Qualche giorno fa, il 6 aprile, si è riunito il Consiglio supremo di difesa, nel comunicato ufficiale c'è un passaggio interessante: «Le sinergie e le economie di scala realizzabili attraverso nuove forme di integrazione di unità, comandi e supporti in ambito europeo potrebbero permettere all'Unione di potenziare le proprie capacità di intervento e di colmare, almeno in parte, il gap in termini di assetti militari che ora accusa in seno alla Nato nei confronti dell'alleato Usa». Il disegno politico di Mattarella (figura istituzionale che ha una scadenza asimmetrica rispetto alle altre) è quello di contribuire in maniera robusta durante il suo mandato alla creazione di un primo nucleo dell'esercito europeo. L'Italia, inoltre, ha necessità di dialogare con la Russia per non restare con il fianco scoperto in Libia, dove il governo dell'Onu guidato dal premier Serraj, è debolissimo. Non a caso, sempre nel comunicato del Consiglio supremo di difesa, c'è un passaggio specifico: «In Libia, il processo negoziale di riconciliazione avviato dalle Nazioni Unite con l'accordo di Skhirat stenta a consolidarsi, per il persistere della conflittualità interna e la crescente rivalità tra le principali componenti in campo. Il Consiglio ha pienamente condiviso l'iniziativa italiana di sottoscrivere un memorandum di intesa con il Consiglio Presidenziale del Governo di Tripoli nonché specifici accordi con le diverse entità interne al tessuto tribale libico per meglio controllare i confini meridionali del Paese e i flussi migratori. Ha altresì espresso apprezzamento per l'accordo bilaterale raggiunto con il Niger». Putin appoggia il generale Haftar, senza un accordo con lui, non può esserci la pace in Libia. Il destino gioca a dadi e Mattarella (sul piano interno e esterno) per assenza di leadership politica

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in Italia (e anche in Europa, con la sola eccezione di Angela Merkel) finisce in uno scenario simile a quello in cui si trovò Giorgio Napolitano durante la crisi finanziaria del 2011: è il punto di riferimento delle cancellerie occidentali in Italia, l'unica garanzia di stabilità in un sistema politico polverizzato, un capo di stato che pensa in chiave europea, un esperto di difesa e intelligence che ha il filo diretto con gli Stati Uniti e oggi sarà il primo leader occidentale a incontrare Putin dopo il bombardamento americano in Siria. E la forza della storia. Padoan cerca 800 milioni. Dal grande gioco della scacchiera globale al misero pallottoliere dei conti italiani il passo è brevissimo. Il Documento di economia e finanza è pronto, ma la manovra correttiva no. La calcolatrice del ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan dice che mancano 800 milioni per far quadrare il conto e presentare i provvedimenti in Parlamento. 800 milioni su una correzione di 3.4 miliardi. Vedremo i dettagli oggi (forse), in ogni caso Padoan ha subito un vero e proprio assalto renziano alla diligenza: no aumento dell'Iva, no accise, no catasto, no privatizzazioni, niente tasse ma neanche tagli. Che manovra farà? IL GAZZETTINO Pag 1 Se salta l’intesa di Parigi sull’energia di Oscar Giannino Il G7 dell’energia tenutosi ieri sotto la presidenza italiana è andato come si temeva. L’amministrazione Trump ha chiesto tempo, perché è ancora alle prese con un esame accurato delle conseguenze di tutti gli impegni assunti dagli Stati Uniti, firmando insieme ad altri 195 paesi nel 2015 gli obiettivi finali della conferenza COP21 a Parigi. Di conseguenza, ieri, nessuna dichiarazione congiunta. “L’impegno a implementare l’accordo di Parigi rimane forte e deciso per tutti i Paesi dell’Unione europea”, ha detto il ministro Calenda. “Rispettiamo il fatto che gli Stati Uniti rianalizzino la propria posizione ha aggiunto - ma il consenso è stato raggiunto su molti importanti temi, come lo sforzo congiunto per sostenere la sicurezza energetica dell’Ucraina, il ruolo futuro del gas naturale, la cybersicurezza”. Al di là della ovvia accortezza diplomatica, bisogna intenderlo come il primo segno di una rottura profonda, oppure no? E che conseguenze esercita sull'Europa e sull'Italia? Ricordiamo che gli impegni di Parigi, volti attraverso il drastico contenimento delle emissioni di gas serra a impedire l'aumento di 2°centigradi della media di temperatura globale, significano per l'Europa l'abbattimento al 2030 del 40% dei livelli di emissione di CO2 e altri gas d combustione fossile. Per gli Stati Uniti, l'obiettivo si traduce in un calo tra il 26% e il 28% delle emissioni 2005 entro il 2025. Attualmente, secondo un report pubblicato la settimana scorsa da think tank ambientalisti come Carbon Market Watch e Transport & Environment, in Europa solo Svezia, Germania e Francia appaiono davvero in linea con i graduali adempimenti necessari a conseguire realisticamente l'obiettivo. Polonia, Cechia, Spagna e Italia stanno nel gruppo intermedio, alle prese con grandi problemi di ridefinizione delle strategie nazionali, in modo da rendere credibile il perseguimento degli obiettivi attraverso il miglior uso dei certificati verdi del sistema ETS a favore degli energivori, per non penalizzare troppo la manifattura, la riforestazione, l'adozione di tecnologie di abbattimento e ristoccaggio delle emissioni delle stesse centrali a carbone di ultima generazione, prima di deciderne la chiusura su due piedi. E' il caso di ripeterlo. Gli obiettivi di Parigi comportano un riorientamento complessivo, industriale, agricolo, urbano, che richiede investimenti immensi. Gli oltranzisti del COP21 chiedono che mondialmente entro 3 anni l'equivalente di 500miliardi di dollari - in cui stimano l'insieme dei sussidi mondiali alle energie fossili - venga riconvertito in sussidi alle rinnovabili; che al 2030 nei Paesi avanzati ed Europa il trasporto sia al 2030 integralmente elettrico, con una smart grid di distribuzione capace di sostenere l'industria energivora solo con rinnovabili, con l'utilizzo di solare ed eolico per la sostituzione sempre più integrale del fossile nei consumi energetici familiari e urbani. Cioè l'equivalente della riduzione annuale prima di 100 mlioni, poi di 500 al 2030, e infine di un miliardo e più di tonnellate annue di gas serra al 2040, con un processo via via più esteso negli stessi termini a tutti i Paesi meno sviluppati. E' una strategia il cui impegno finanziario, oltre che tecnologico, è immane. Trump in campagna elettorale ha detto cose diverse. In alcune occasioni, ha esplicitamente fatto capire che la COP21 era finita in mani europee, e che non è nell'interesse degli USA. Poi, a novembre, ha preferito dire che avrebbe studiato molto approfonditamente il dossier. Tutto sommato,

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il nulla di fatto di ieri a Roma è coerente a questa seconda linea, non alla prima. Che, se ratificata con il ritiro degli Usa dagli obiettivi comuni, inabissa come imperseguibile l'intero quadro degli obiettivi di Parigi. Lo strappo di Trump sugli obiettivi di limitazione del carbone voluti da Obama, la scorsa settimana, tutto sommato non è troppo rilevante, visto che a oggi gli occupati nel settore in tutti gli Usa sono 140mila ma dimezzati in un decennio, e il maggior produttore è il Wyoming per il solo fatto che i giacimenti sono i superficie. Ci ha pensato il mercato, cioè, a riorientare risorse finanziarie e tecnologiche verso altre fonti a cominciare dallo shale oil and gas (su cui non è riuscita la strategia dell'Arabia Saudita degli abbattimenti del prezzo del barile per mandarlo fuori mercato). Ora che l'amministrazione Trump inizia a trovare più stabili equilibri (basta guardare alla politica su difesa e sicurezza), bisognerà vedere quali interessi energetici prevarranno: sin d'ora si capisce che i prezzo del barile agli occhi degli States gioca un grande ruolo nella partita ingaggiata con la Russia in Medio Oriente. LA NUOVA Pag 1 Populisti italiani e putinismo di Massimiliano Panarari I sondaggi per il Movimento 5 Stelle vanno a gonfie vele, ma si moltiplicano le pietre di inciampo e le tegole. Che evidenziano in maniera chiarissima la sua natura di gigantesco “partito di opinione” (un unicum su scala continentale), con svariate (ma non necessariamente penalizzanti in termini di consenso) difficoltà a livello territoriale, che vanno dall’alta litigiosità in certi contesti ed enti locali al rischio di non presentare le liste in diverse realtà che andranno al prossimo voto amministrativo. Fino al (quasi clamoroso) caso di Genova (la città di Beppe Grillo) di queste ore, con il tribunale che ha dato ragione al ricorso della vincitrice delle “comunarie” Marika Cassimatis. Dal momento che viviamo in una dimensione glocal, possiamo altresì sollevare lo sguardo oltre i confini della Penisola, e vale la pena di osservare un altro affaire, in questo caso di geopolitica, che investe l’articolata famiglia del populismo di casa nostra (e, quindi, non solamente pentastellato). Il repentino cambio di passo della politica mediorientale della presidenza di Donald Trump sembra avere spiazzato il folto arcipelago dei populisti italiani. Nella decisione di intervenire in Siria, il trumpismo pare essersi alienato un bel po’ della popolarità di cui godeva nei discorsi e nelle dichiarazioni degli esponenti politici riconducibili alla nutrita galassia sovranista e populista nostrana. Dai 5 stelle a Fratelli d’Italia il coro fino a pochissimi giorni fa compattamente filotrumpista si è in buona parte dissolto, oppure ha cambiato intonazione – e si può scommettere che un ulteriore contributo alla spiegazione di questa metamorfosi di orientamento nei confronti del presidente Usa venga dal siluramento di Steve Bannon dal Consiglio di sicurezza nazionale, propiziato dai generali-intellettuali (a partire da H. R. McMaster) che al momento sembrano pesare maggiormente sulla direzione di marcia della politica estera statunitense. Non va infatti dimenticato che il controverso e politicamente scorrettissimo consigliere di Trump, ex capo del sito di disinformazione Breitbart e suprematista bianco, viene considerato da qualche esponente della scena nazionale come uno dei più “lucidi” teorici e agit-prop della narrativa populista e antisistema. America great again – come recitava lo slogan della vittoriosa campagna trumpiana – richiede America First, e non è sicuramente compatibile, a dispetto delle passate affermazioni elettorali del presidente, con l’isolazionismo nella fase di massima ascesa globale della Cina e in presenza di una Russia che sfodera i muscoli a ogni piè sospinto. Mentre, dal versante italiano, il tema delle relazioni – e delle alleanze – internazionali risulta assai rilevante per delle forze politiche che si candidano a guidare l’esecutivo: e appare palese, al riguardo, che l’incontro-convegno di Ivrea per onorare il cofondatore Gianroberto Casaleggio abbia rappresentato anche una vetrina del côté istituzionale e una rassegna delle aspirazioni di governo del Movimento pentastellato. Cosa si può dire, pertanto, della visione geopolitica dei – variamente – sovranisti italiani (dai 5 stelle alla Lega e Fratelli d’Italia)? Chiamatelo, se vi va, “populputinismo” di casa nostra, perché, al dunque, il rigetto del trumpismo (esaltato fino a un minuto prima) che fa bombardare Assad (dopo che il suo esercito ha fatto ricorso alle armi chimiche falcidiando bambini) segnala un autentico “riflesso pavloviano”. Il minimo comun denominatore è, alla fin fine e sempre, l’antiamericanismo, eterno ritorno della storia della politica populista europea. Da cui le

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consonanze con il putinismo e il fascino tutt’altro che discreto esercitato dal suo paradigma di “democratura”, che si rivelano anche di natura ideologica, poiché nella sua dottrina politica impregnata di tradizionalismo, antiliberalismo, anti-occidentalismo e rifiuto del pluralismo si possono facilmente accomodare una certa eredità postfascista e i connotati di destra radicale ampiamente presenti oggi, seppure con dosaggi differenti, nella galassia populista nostrana. Torna al sommario