Rassegna Europea n°35
-
Upload
accademia-europeista-fvg -
Category
Documents
-
view
226 -
download
5
description
Transcript of Rassegna Europea n°35
1
2
SOMMARIO
1. Editoriale 4
2. Relazioni e dibattiti 6
3. Il nostro 2014 41
4. Ricordando 45
5. Libri! 47
RASSEGNA EUROPEA Responsabile Redazione: Pio Baissero
Comitato Redazione: Pio Baissero, Alex Pessotto
Hanno collaborato: Daniel Baissero, Pasquale Baldocci, Gustavo Caizzi, Riccardo Cipollari,
Fabio Feliciano, Abou Baker Hazim, Thomas Jansen, Erica Pivesso,
Elisa Regeni, Fulvio Salimbeni, Lino Sartori, Francesco Sfriso
Impaginazione e Grafica: Marco Rossmann
Editore: Accademia Europeista del Friuli Venezia Giulia Palazzo Alvarez – Via Alvarez, 8 - 34170 Gorizia (Italia) Tel. 0481-536429; 333-2957779 Sito Web: www.accademia-europeista.eu e-mail: [email protected]
L’Accademia Europeista è stata fondata nel 1989 con l’obiettivo di favorire l’informazione e la formazione europea dei cittadini e, in particolare, dei giovani. Nel 1993 l’Accademia è stata inoltre riconosciuta dalla Regione Autonoma del Friuli Venezia Giulia come “Ente di servizio di promozione europea”. In quanto tale organizza corsi, seminari, conferenze, mostre e incontri anche informali su tematiche europee. Cura diverse pubblicazioni, tra le quali la presente rivista, e mette a disposizione la sua biblioteca specialistica. Tutte le attività dell’Accademia sono promosse in collaborazione con analoghe Accademie e Case d’Europa sparse su tutto il continente.
3
“Quando entra in gioco il possesso delle
cose terrene, è difficile che gli uomini
ragionino secondo giustizia”
Umberto Eco, Il nome della Rosa
L’immagine usata in copertina è pubblicata in Francia all'inizio del 20.mo secolo ci fa intravvedere le tensioni di un'Europa che si prepara, suo malgrado, al 1914. A cento anni da quella data fatale è proprio tutto cambiato? Provate a sostituire personaggi e costumi con quelli di oggi, ridimensionate la Turchia e frazionate l'Austria-Ungheria; aggiungete il vestito sottile e quasi trasparente dell'Unione Europea ed il gioco è fatto per avere, forse, una risposta.
Senza tralasciare collegamenti con il primo conflitto mondiale e il suo
centesimo anniversario, questo numero di Rassegna Europea contiene
alcuni autorevoli interventi proprio sulle tensioni che, ancor oggi,
rendono l'Europa vulnerabile da molti punti di vista. Allora, la domanda
che ci si pone è la seguente: dalla storia abbiamo imparato qualcosa?
Buona Lettura dall’Accademia Europeista!
4
di Pio Baissero, Direttore dell’Accademia Europeista del Friuli Venezia Giulia
Europa 1914-2014. Se ne può parlare
da tanti punti di vista. Anche da quello
linguistico: è più o meno dal 1914,
infatti, che la crisi europea con le sue
guerre e le sue lotte intestine ha
permesso all’inglese di affermarsi
gradualmente quasi ovunque sul
continente. Da una parte l’enorme
espansione dell’impero coloniale
britannico, dall’altra il crescente ruolo
americano e dall’altra ancora la
relativa semplicità del linguaggio
anglosassone hanno fatto, alla fine,
piazza pulita di molte altre lingue
importanti, persino del francese che
era considerata “lingua diplomatica”
per antonomasia, almeno fino agli anni
Trenta del secolo scorso. Anche se non
è detto che l’inglese resti, in futuro, la
lingua di comunicazione dominante nel
mondo – si pensi all’affermazione
dell’idioma cinese, forte del numero e
della forza economica dei suoi parlanti
– non c’è dubbio che, dal 1914 in poi,
esso abbia avuto una funzione
glottofagica, abbia cioè letteralmente
mangiato altre lingue o cospicue parti
di esse. Un esempio per tutti: la
recente legge sul lavoro proposta dal
governo Renzi si chiama “Job act”. A
nessuno è venuto in mente di chiedersi
il motivo per cui nella legislazione
italiana si usi un lessico anglofono,
oltretutto estraneo alla tradizione
giuridica nostrana. Il fatto è che il
predominio dell’inglese, pur utile per
comunicare col resto del mondo, porta
con sé un dato preoccupante, a volte
ignorato o sottovalutato: quello di
veder modificate, in qualche caso
ridotte o persino estinte, altre lingue
parlate in Europa e nel mondo. Lo
dicono ricerche svolte da importanti
istituti scientifici, lo rivela la tendenza
impetuosa all’uniformazione linguistica
dovuta a un utilizzo sempre più ampio,
EDITORIALE
Pio Baissero
5
totale dell’inglese nel mondo digitale.
E’ però un inglese semplificato,
americanizzato, persino molto diverso
da quello usato ai tempi di
Shakespeare. A proposito di storia: il
linguista John Florio ha scritto, di
recente, che nel 1500 l’inglese aveva
un ruolo del tutto periferico sullo
scenario europeo e mondiale. I
mercanti inglesi quando si lasciavano
alle spalle Dover per approdare sul
continente a commerciare, si
vergognavano della propria lingua e ne
usavano altre. La regina Elisabetta, per
tutti gli atti pubblici più importanti, si
serviva del latino che conosceva e
praticava perfettamente. Di più:
umanisti e governanti europei, in
quell’epoca, guardavano l’italiano,
ritenuto il miglior strumento linguistico
per formare il cosiddetto “homo
universalis” del Rinascimento. A
partire dalle soglie del Terzo Millennio,
il processo storico sembra invece
capovolto: non abbiamo certo l’homo
universalis rinascimentale, ma
l’individuo globalizzato che usa
l’inglese “povero” di modo da
annullare, purtroppo, le diversità
linguistiche. Di questa rischiosa
tendenza se ne è resa conto anche
l’Unione Europea. Quando ci si è
chiesti se era il caso di adottare una
lingua ufficiale al suo interno per
rendere più facile la comunicazione, si
sono paventate le ipotesi del latino o
dell’esperanto, ambedue non legate a
predominio di potenze nazionali e
quindi, in linea di principio, “neutre”
rispetto a tutti gli altri idiomi. Ipotesi
subito abbandonate per percorrere la
politica, peraltro complessa e molto
dispendiosa, del multilinguismo. Così
oggi, nell’ambito dell’UE sono
riconosciute ed hanno pari grado ben
24 lingue, tutte ufficiali. Ma
bisognerebbe aggiungere ad esse
almeno altre 60 lingue regionali,
minoritarie, in qualche caso a rischio di
estinguersi. Tra queste, per restare
nella nostra area geografica, il friulano
e l’istro-veneto. Multilinguismo
significa che tutti i cittadini dell’UE
possono aver accesso ai documenti
nelle lingue dei loro Paesi. Possono
pure scrivere alla Commissione
Europea nella loro lingua ottenendo
una risposta nello stesso idioma.
Tullio Crali - Incuneandosi nell'Abitato (In Tuffo sulla Città), Mart, Rovereto
6
Anche i parlamentari europei hanno
diritto ad utilizzare la lingua che
preferiscono tra le 24 “ufficiali”. Tutto
questo comporta, ovviamente, un
costo: il servizio di traduzione sparso
tra Bruxelles, Lussemburgo e
Strasburgo è forse il più grande del
mondo impiegando, tra interpreti e
traduttori, oltre 3.000 persone quasi
tutte a tempo pieno. Ma nel 2014 e
chissà per quanto tempo ancora,
l’inglese resta pur sempre sullo sfondo:
riappare imperiosamente come lingua
di comunicazione non appena vien
meno o non ce la fa l’apparato tecnico
del multilinguismo europeo, soluzione
teorica ottimale ma difficile da
realizzare ovunque ed in ogni
circostanza. Dal 1914 ad oggi, dal
punto di vista linguistico, l’Europa si è
impoverita. Aggiungiamo, infine,
qualche dato, da fonti Onu, Unesco,
Nato del 2007 sul numero di parlanti
delle lingue maggiori:
1. Cinese mandarino: almeno 1000
milioni
2. Inglese: 920 milioni
3. Hindi-Urdu: 570 milioni
4. Spagnolo: 390 milioni
5. Arabo: 323 milioni
6. Francese: 265 milioni
7. Malese-Indonesiano: almeno
260 milioni
8. Portoghese: circa 203 milioni
Sembra, ogni commento, piuttosto
superfluo anche alla luce di quanto
sopra si è esposto.
P.S. A comprovare quanto la lingua
italiana abbia goduto, in passato, un
prestigio ed una diffusione così ampia
travalicando l’obiettiva debolezza
politica e militare della frammentata
penisola si legga il bel libro di
Francesco Bruni “L’Italia fuori d’Italia”,
270 pagg., Editore Franco Cesati
di Pasquale A. Baldocci, già Ambasciatore d'Italia, attuale Presidente dell'Ispri
Il secolo breve, che Hobsbawm fa
iniziare al primo conflitto mondiale, ha
segnato l'affermarsi di una vera
accelerazione esponenziale di eventi
1914 – 2014 La Storia non attende l'Europa
7
che la Storia non aveva fino allora
conosciuto. I progressi delle scienze e
delle tecnologie, gli sviluppi
dell'informatica e delle comunicazioni
hanno provocato un fenomeno di
globalizzazione della società umana
che appare tuttora ai suoi inizi e di cui
è difficile prevedere le conseguenze a
medio e lungo termine. Le coordinate
di tempo e di spazio sono state
travolte senza che la psiche dell'uomo
abbia trovato modo di conformarsi ai
nuovi ritmi di un vivere che incalza con
pressioni sempre crescenti.
L'allungarsi della vita biologica ha poi
creato nuovi problemi di natura
sociale, psicologica e politica. Colta
impreparata, stupefatta e sgomenta,
l'umanità reagisce maldestramente
con frequenti manifestazioni di
squilibrio e di rivolta.
L'antica impalcatura fondata sullo
Stato di diritto, assoluto e sovrano
nonché sulla democrazia
rappresentativa non riesce ad evolvere
con gli stessi tempi ed è ancora alla
ricerca di fondamentali innovazioni in
tutti i campi dell'esistenza: una cultura
del secolo XXI non si profila ancora ai
margini della Storia, anche se non
mancano accenni ad un umanesimo
nuovo, e tale incertezza è fonte di
angoscia e perplessità. Anzichè
indagare sulle cause reali del primo
conflitto mondiale si è preferito
dibattere sulle responsabilità di chi lo
aveva provocato, nel preciso intento di
perseguire i colpevoli con giudizi
punitivi ed esemplari. Si è così giunti
all'iniquo e miope Trattato di Versailles
che, invece di preoccuparsi della
scomparsa di quattro Imperi che
avevano lungamente retto le sorti
dell'Occidente, ha tentato di sostituirli
con una frammentazione di piccole
nazioni apparentemente indipendenti,
sottoposte all'egemonia delle maggiori
potenze ed alle loro reciproche sfere
d'influenza. Il ventennio fra le due
guerre, sorta di armistizio per
riacquistare le energie perdute, rivelò
la fragilità della pace consentendo
all'URSS di risollevarsi ed ai
nazionalismi esasperati e degenerati in
razzismo di instaurare in Italia,
Germania, Spagna e Portogallo regimi
Pasquale Antonio Baldocci
8
dittatoriali portatori dei germi di un
nuovo conflitto, ancor più devastante
di quello precedente soprattutto per le
popolazioni civili. Nel 1945 la
geopolitica del continente è
totalmente cambiata: Gran Bretagna,
Francia, Germania e Italia, stremate e
impoverite, cedono il campo a due
nuovi avversari egemoni, ad Est e ad
Ovest, la cui rivalità ideologica e
strategica continua il conflitto, non
armato ma ugualmente minaccioso, su
vari teatri di confronto. La crisi di Suez
nel 1956 e la contemporanea rivolta
ungherese confermano la fine di una
declinante preponderanza
continentale anglo-francese, che si
accompagna alla progressiva perdita
dei possedimenti coloniali d'oltremare.
Pochi comprendono allora che la
conflittualità fra le due rive del Reno
da un lato, la pretesa britannica di
dominare le vie marittime, i commerci
e la finanza mondiali sono la minaccia
più grave alla convivenza fra i popoli.
Di riconciliazione franco-tedesca e di
collaborazione europea si era già
discusso nel 1925 a Locarno: Briand e
Stresemann si erano mostrati fautori di
una intesa fra i loro paesi e ad essi si
era affiancato Carlo Sforza nella
visione di una Europa unita nella pace;
ma questi precoci germogli di
europeismo furono presto dispersi
dagli incombenti nazionalismi.
Due personalità di alto profilo trassero
questo disegno dall'oblio e dallo
sconforto dei tempi: Jean Monnet nel
soggiorno americano e Altiero Spinelli
nell'isolamento di Ventotene.
Separatamente e con argomenti
diversi ma convergenti essi intuirono
che la pace, preludio alla
collaborazione ed all'unione, doveva
fondarsi sull'economia e sul controllo
delle fonti di materiale bellico:
convinsero Schuman, Adenauer, Spaak
e De Gasperi alla loro visione di una
Europa comunitaria protesa verso
l'unità. Al trattato istitutivo della
Comunità Europea del Carbone e
dell'Acciaio (1952) seguirono altri nove
trattati firmati in varie città europee; la
Comunità si elevò ad Unione Europea
nel 1992, dotandosi di un vessillo, di
un inno e di un motto augurale: “Uniti
nella diversità”. Non mancarono
tuttavia pesanti delusioni: nel 1955 il
Parlamento francese respinse la
Comunità di Difesa e nel 2005 gli
elettorati francese e olandese si
dichiararono contrari alla ratifica del
secondo Trattato di Roma, che
delineava una Costituzione elaborata
da una speciale Convenzione nel corso
di controversi quanto tenaci dibattiti.
Nella impossibilità di procedere ad un
approfondimento dell'Unione sul
piano propriamente politico non ci si
oppose al suo allargamento da 6 a 9,
9
12, 15, 25, 27, 28 membri ed altri in
attesa di aderirvi, con lo statuto o
meno di paesi candidati. Nei tre quarti
di secolo trascorsi dall'inizio del
movimento europeo le mete raggiunte
rappresentano traguardi storici di
fondamentale valore: soppressione
delle barriere doganali, libera
circolazione delle persone, dei capitali,
della manodopera, abolizione dei
valichi di confine e soprattutto unione
monetaria, con l'adozione dell'euro da
parte di 18 paesi membri. La creazione
inoltre della Corte di Giustizia e della
Banca Centrale Europea completa con
due organi fondamentali il carattere
sovranazionale delle istituzioni. Il 25
marzo 1957, alla conclusione dei primi
Trattati di Roma nel Palazzo dei
Conservatori in Campidoglio – in una
atmosfera di fervente europeismo che
non si è più riscontrata nelle
successive cerimonie di firma – noi
giovani diplomatici ritenevamo che la
moneta unica avrebbe terminato il
lungo cammino verso l'unità d'Europa;
35 anni dopo Jacques Delors,
presidente della Commissione,
sosteneva che l'euro sarebbe stata la
base di lancio dell'unione politica
dell'unione politica: le due
anticipazioni erano errate, poiché
sottovalutavano gli ostacoli che si
sarebbero frapposti all'integrazione
politica. Gli equilibri internazionali
erano stati travolti dalla scomparsa
dell'Unione Sovietica e dalla
riunificazione della Germania; la classe
politica non era più quella della prima
metà del secolo - Maurice Faure,
ultimo sopravvissuto fra i firmatari dei
Trattati di Roma, è deceduto il 6
marzo, deluso per l'affievolirsi della
vocazione europea della Francia -, i
nuovi governanti non aveva vissuto le
guerre mondiali ed erano privi di una
cultura unitaria. Per debolezza politica
e mancanza di sensibilità storica essi
hanno affidato all'economia ed all'alta
finanza il compito di sviluppare una
Europa liberal-capitalista che ha
sollevato una forte opposizione sociale
e alimentato nazionalismi e populismi
isolazionisti e protezionisti, quando
non apertamente razzisti e xenofobi, di
Tullio Crali - Festa Tricolore in Cielo, Mart, Rovereto
10
crescente peso nelle politiche interne
dei paesi membri. Un aggravarsi di
questo immobilismo potrebbe
suscitare la tentazione di un definitivo
ed inappellabile ritorno al concerto
europeo, rivestito della ingannevole
veste di Europa delle patrie e
soggiacente alla egemonia anglo-
atlantica. La paralisi che ha colpito il
movimento europeo al compimento
dell'unione monetaria e che dura da
oltre un ventennio ha origini lontane:
nessun trattato ha esplicitamente
accennato ad una effettiva
integrazione politica. L'inserimento nel
Trattato per la Comunità di Difesa di
un Comitato politico, voluto da De
Gasperi su proposta di Spinelli, è
caduto nell'oblio con la mancata
ratifica. L'obiettivo finale della unione
politica si intendeva implicitamente
compreso nei preamboli, se non nelle
norme dei diversi trattati. Ma sin dagli
inizi l'inerzia delle società civili, ad
eccezione di alcuni ambienti
intellettuali e delle università,
affiancata all'attaccamento dei politici
alle rendite di posizione locali, avevano
confinato l'unione politica nella sfera
delle utopie alle quali, tutto al più,
programmare un prudente
avvicinamento. Trasformare il dogma
della sovranità assoluta nel concetto
più flessibile di sovranità condivisa,
come suggerito nel 2001 da J. Fischer –
una federazione di Stati nazionali –
pareva un disegno a termine non
definibile e si preferì gestire
maldestramente e sempre in ritardo
rispetto alle contingenze le istituzioni
di Bruxelles, tenendo a freno la
Commissione, priva dopo Delors di
personalità di rilievo politico oltre che
economico. La Comunità e poi l'Unione
hanno assistito passivamente alle
guerre jugoslave ed alle crisi africane,
con ritorni uni o bilaterali a sussulti di
neocolonialismo. Per ovviare al vuoto
creatosi dopo l'infelice Trattato di
Nizza, rimasto valido dopo i referenda
del 2005, il Trattato di Lisbona ha
introdotto al ribasso alcune
innovazioni enunciate dal progetto di
Costituzione, fra le quali la creazione di
un servizio diplomatico, reso
scarsamente operativo per la
mancanza di una reale politica estera
dell'UE provocata dalla regola
dell'unanimità imposta nelle decisioni
di portata internazionale. Il
contemporaneo mantenimento delle
presidenze semestrali con la nomina di
un presidente del Consiglio europeo in
carica per 30 mesi allontanava poi ogni
possibilità di evolvere verso procedure
volte a dotare l'Unione di un incipiente
profilo politico. La crisi economica che
ha duramente investito l'UE, ponendo
a repentaglio la stessa sopravvivenza
dell'euro, strenuamente difeso dalla
11
Banca Centrale di fronte all'inerzia
della Commissione, ha rivelato una
volta ancora la vulnerabilità inferta
all'Unione dalla mancanza di coesione
politica, oltre che dall'assenza di
politiche economica, finanziaria e
fiscale unificate. Sono emersi pavidi
accenni a qualche timida mossa
politica, presto riassorbiti
dall'ossessionante imperativo del
risanamento dei bilanci e dei conti,
voluto dalla cancelliera Merkel e dai
governi “virtuosi” come leva di
pressione sui “ritardatari” del centro-
sud: in questa miope prospettiva si
dimentica che un serio rilancio politico
avrebbe un effetto trainante anche
sulla ripresa economica incoraggiando
investimenti e mercati. Ci si è limitati
ad un consenso di massima per
l'istituzione di una unione bancaria fra
i paesi membri. L'imminenza delle
elezioni europee ed il successivo
rinnovo della Commissione hanno
richiamato alcuni esponenti della
opinione pubblica sui gravi rischi di
una ulteriore involuzione della
costruzione europea. Associandosi al
gruppo tedesco “Glienike”, un
collettivo di politologi, economisti,
docenti universitari e giornalisti
francesi ha pubblicato nel quotidiano
“Le Monde” del 18 febbraio un
convincente e documentato appello
“Per una unione politica dell'euro”,
che in qualche modo ricorda i progetti
di Europa a geometria variabile o a due
velocità. Partendo dalla considerazione
che le istituzioni di Bruxelles sono
ormai desuete e richiedono riforme
che pongano regole al capitalismo
finanziario globalizzato e promuovano
precise politiche di progresso sociale,
oggi assolutamente carenti, gli autori
propongono che i paesi dell'euro,
iniziando dalla Francia e dalla
Germania, mettano in comune le
imposte sui redditi delle imprese, per
evitare fra l'altro le continue evasioni
fiscali perpetrate dalle multinazionali.
Tali nuove risorse di bilancio
permetterebbero di investire nei
settori sensibili, quali ambiente,
infrastrutture e formazione. In questi
campi l'Europa potrebbe assegnarsi il
compito di introdurre giustizia sociale
e volontà politica nella globalizzazione.
Pur non accennando esplicitamente al
progetto di emettere delle obbligazioni
europee (“eurobond”), l'appello
raccomanda la “mutualizzazione del
debito” per contrastare le persistenti
speculazioni sui tassi di interesse. Ma
la proposta politicamente più rilevante
concerne la creazione di una Camera
parlamentare della zona euro,
composta da deputati membri dei
parlamenti nazionali (ad esempio 30
francesi, 40 tedeschi, 30 italiani e via di
seguito per gli altri 15 paesi). In questo
12
modo una sovranità parlamentare
condivisa sul piano europeo si
fonderebbe su sovranità parlamentari
nazionali: un passo concreto e decisivo
verso l'Europa politica. L'UE
evolverebbe allora verso un
bicameralismo, con un Parlamento
direttamente eletto da 28 paesi
membri ed una Camera europea
rappresentata da componenti delle
assemblee nazionali. L'accesso a
questa seconda Camera sarebbe
aperto ad altri Stati disposti a
progredire verso l'Unione politica,
fiscale e di bilancio. Un ministro delle
Finanze e, in un secondo tempo, un
vero e proprio governo europeo
sarebbero responsabili davanti alla
nuova Camera. Lo scritto termina
accusando di colpevole incoerenza
sostenere che l'opinione non ama
l'Europa attuale e quindi nulla va
cambiata nel suo funzionamento.
L'emergere di nuove grandi potenze a
livello mondiale, il risveglio
nazionalista della Russia, l'affermarsi di
movimenti disgregatori in Europa e
infine la crisi delle coscienze, più grave
ancora di quella economica se
proiettata a lungo termine, suonano
come un assordante segnale d'allarme
all’indomani del rinnovo del
Parlamento e della cariche istituzionali
dell'UE. Le proposte tedesche e
francesi sono un primo sasso gettato
nella palude dell'immobilismo,
prevalentemente dovuto all'assenza di
personalità politiche di alto rilievo, al
disinteresse del pubblico, ad una
diffusa stanchezza che alimenta
sentimenti di sconforto e disinganno.
Per ripercorrere il cammino impervio,
ma esaltante dell'unità d'Europa non
sarebbe superfluo uno sguardo
retroattivo alla seconda metà del
secolo scorso ed ai risultati ottenuti: gli
errori di Versailles sono stati in parte
cancellati; in un'atmosfera di pace
estesa a tutto il continente (l'eccezione
jugoslava conferma i pericoli della
mancanza di Europa) la democrazia, il
rispetto dei diritti umani e delle
minoranze sono stati rafforzati ed
hanno sostituito i dogmi
dell'onnipotenza dello Stato; una crisi
economica di portata mondiale è stata
affrontata, non tanto dai governi
quanto dalla Banca Centrale; un
tentativo di dotare l'UE di strumenti
diplomatici adeguati è stato avviato e
attende urgenti sviluppi concreti; i
paesi rimasti fuori di una Europa che
ha quasi raggiunto i suoi limiti
geopolitici premono per entrarvi, con
una consapevolezza dei vantaggi
dell'adesione più limpida ed aggiornata
delle critiche, sovente infondate e
malevoli dei paesi già membri. Il
sentimento europeo è certamente più
fervido e sincero a Kiev che nelle altre
13
capitali: un monito serio da non
dimenticare. Sono state ormai create
le basi di una nuova Europa su un
patrimonio condiviso di valori culturali,
civili e politici che hanno ispirato la
modernità e che vanno difesi e
approfonditi senza soste né esitazioni,
nella prospettiva di un umanesimo del
futuro che non si lasci fuorviare da
tecnologie incontrollate ma restituisca
all'uomo un ruolo da svolgere in una
visione rinnovata del mondo.
di Thomas Jansen, politologo, membro del Circolo della Cultura e delle Arti, Trieste
Thomas Jansen
Quando, cent'anni or sono, governanti
e governati di diversi Paesi europei
diedero inizio alla guerra, come se
fosse una passeggiata, non avevano
idea che sarebbe durata quattro anni e
neppure si immaginavano il furore
militare che si è manifestato al pari
della tragedia subita dalla società civile
che certo ha finito per pagare un
prezzo molto, troppo alto. Da un
conflitto fra Stati confinanti si è infatti
sviluppata una guerra mondiale,
appunto la prima. Delle circostanze
che hanno portato alla guerra tanti
libri si sono occupati non trascurando
di soffermarsi sull'individuazione delle
responsabilità e proprio sulla ricerca di
colpe, errori e fraintendimenti che
hanno anche interessato questo o quel
Governo di allora e che hanno portato
al fallimento dello spirito di quel
tempo nonchè alla peggiore catastrofe
del ventesimo secolo. Ciò rappresenta
la maggior difficoltà nell'analisi del
conflitto, una difficoltà che continua
nelle analisi degli storici d'oggi. E' stato
soprattutto il nazionalismo che ha
pervaso i popoli d'Europa a renderli
ciechi e stupidi. Era dettato non tanto
da un'ideologia, a patto che così la si
possa definire, quanto da una mania
Il Virus del Nazionalismo: 1914 - 2014
14
avvertita specialmente in Germania
dai militari nel corso degli anni di
Guglielmo II (asceso al trono di
imperatore nel 1888) e dopo il
licenziamento del cancelliere Bismarck
nel 1890. Tutto questo ha operato una
fusione tra nazionalismo e militarismo
sia nel governo che nella società tutta
tanto da proiettare questa visione in
ogni rapporto e persino nella vita
civile. Il nazionalismo, che, peraltro,
con tutte le differenze, persiste qua e
là ancor oggi, potrebbe essere alla
base del conflitto, specie se connotato
da quell'irrazionale filosofia di vita
permeata di aspettative e interessi
particolaristici visti come diritti
inalienabili. Ciò ha portato a un
atteggiamento di crescente diffidenza,
di chiusura e vera e propria
preclusione nei confronti degli “altri”
con un indicibile impoverimento
intellettuale. La conseguente
arroganza ha finito per determinare,
secondo l'analisi di storici e storiografi,
la catastrofe della prima guerra
mondiale. Non mancavano,
naturalmente, altri risvolti che
mettevano in luce più o meno legittimi
interessi e obiettivi politici, emozioni
contrastanti e atti d'eroismo oggetto di
varie interpretazioni. Ma c'era, in
ultima analisi, e occorre ripetersi, il
virus del nazionalismo che ha portato
al disastro di una simile, folle guerra
tra Stati e popoli, favorendo la nascita
di forze radicali ed estremistiche che si
sarebbero manifestate di lì a poco.
L'arroganza dei nazionalismi e la
depressione economica manifestatesi
dopo la fine della guerra (1918)
avevano innescato quei cambiamenti
fondamentali legati alla politica di più
Paesi; anche la geografia del
continente risultò sconvolta rendendo
necessaria una riflessione, pregna di
autocritica, di ordine etico. Purtroppo,
negli anni Venti del secolo scorso, la
politica apprese la lezione del conflitto
in maniera insufficiente. La nascita
della Società delle Nazioni (1920), il
suo impegno, poteva fornire un
corretto approccio alla richiesta di
rivendicazioni di molti Paesi, tuttavia
va anche detto che i pochi politici
illuminati come Aristide Briand in
Francia o Gustav Stresemann in
Germania, avevano condotto nei loro
Paesi una battaglia che è risultata
troppo isolata contro l'oscurantismo e
la crescente presunzione, perdendola.
Ignorando così la lezione della prima
guerra mondiale, si sono avute, negli
anni Venti e Trenta, le prese di potere
dei movimenti fascisti e nazional-
socialisti che sfociarono nella tragedia
della seconda guerra mondiale (1939-
1945). Ed è soltanto in seguito allo
sconvolgimento dell'Europa causato
dalle barbarie e dal razzismo
15
dell'Olocausto che si diffuse l'esigenza
di un rinnovamento spirituale e di una
nuova visione della politica capace di
dare a un nuovo corso delle cose.
Durante la guerra, mentre
l'occupazione militare tedesca
soggiogava molti Paesi europei, sono
sorti gruppi di resistenti di diverse
nazionalità i quali hanno cominciato a
riflettere su ciò che doveva venir fatto
per suggellare la fine delle ostilità e di
quel regime di ingiustizia, per dare
quindi all'Europa un nuovo ordine di
pace e così favorire una sua
ricostruzione atta a garantire una
convivenza il più possibile liberale e
democratica. Tali considerazioni, idee
e progetti miravano a un'unione di
Stati e popoli del continente
organizzati in una più grande forma
federale. Ed era forte la
preoccupazione derivante dalla
necessità di riconciliare l'Europa con se
stessa e il suo passato facendo sì che,
in un nuovo contesto, i protagonismi
delle singole nazioni come gli
antagonismi tra esse venissero
necessariamente superati. Gli stati
nazionali europei avevano fallito
miseramente, sicchè sembrava
particolarmente significativo il
contributo di idee che offrivano gli
autori federalisti i quali indicavano
nella prospettiva europea il modo per
superar e il principio dello stato-
nazionale. Winston Churchill
raccomandò nel 1946 la Francia e la
Germania di operare una
riconciliazione nel nome dell'unità
europea. Ma l'Inghilterra vide quel
gesto di Churchill, con una prospettiva
diversa dal suo passato colonial-
imperialista. Si trattò di un momento
assai felice, di quelli che raramente
nella storia accadono, che ha
permesso la trasformazione dell'ideale
europeo in una realtà, in una entità
politica. Tale momento felice si è
accompagnato al fatto che fossero
presenti tre galantuomini ai vertici dei
loro Paesi: Alcide De Gasperi, Konrad
Adenauer e Robert Schuman. Costoro
si comprendevano al volo e sapevano
benissimo cosa dovevano fare.
Avevano, in fondo, vissuto due guerre
mondiali e fatto tesoro di quelle
tragiche esperienze comprendendo
quanto privilegiato e unico potesse
essere il dopoguerra e quali
opportunità potessero dischiudersi.
Inoltre, provenivano da regioni di
confine e le regioni di confine, per
definizione, separano i Paesi ma anche
li possono unire. Le loro origini li
avevano quindi resi consapevoli delle
problematiche cui, in quel momento,
dovevano prestare attenzione, essere
sensibili e responsabili. Il tutto unito
alle loro capacità di affrontare con
successo la situazione e di trovarvi
16
soluzioni appropriate e positive per i
loro Paesi e l'Europa tutta. Dalla loro
fruttuosa cooperazione nel 1952 nasce
la prima Comunità europea, la CECA, il
cui compito era quello di gestire la
produzione di carbone e acciaio dei sei
Paesi che la formavano; la sua
organizzazione univa in sè già tutte le
caratteristiche e le potenzialità di un
sistema politico democratico e
federale: una Alta Autorità con
funzioni governative, un'assemblea
parlamentare in grado di rispondere
alle aspettative della popolazione e un
Consiglio dei ministri che
rappresentava gli interessi degli Stati.
Da questa prima concretizzazione
dell’idea europea si son gettate le basi
per quella che, qualche anno più tardi,
è diventata la Comunità economica
europea (1958) e per l'ulteriore
sviluppo che ha portato all'Unione
europea di oggi. In pochi decenni, gli
Stati membri da sei son diventati
ventotto. E le questioni di cui l'Unione
oggi si occupa non son più solo quelle
del carbone e all'acciaio, ma,
praticamente, quelle di tutti settori
della politica. Il sistema politico-
istituzionale, dovendo affrontarle, in
quanto ciò non è più dato di trattarle
ai singoli Stati aderenti all'Ue, proprio
sulle funzioni dell'Ue si basa nel
massimo rispetto delle regole della
democrazia e del federalismo. Ciò in
un contesto di crisi sia relative
all'allargamento che relative alla
crescita caratterizzanti fin ad oggi
l'Unione europea. Volgendo lo sguardo
al centenario ciò che balza agli occhi è
soprattutto il periodo di pace e libertà
che ha caratterizzato l'Unione
europea. Ma l'Unione stessa, nel
complesso, è stata anche motore di
crescita, benessere e fondamentale
per la qualità della vita. In breve, la
politica di integrazione europea ha
tratto gli insegnamenti necessari dalle
tragedie del 20.mo secolo. E il
rafforzamento di questa politica
garantirà anche nel futuro la pace per i
cittadini dell'Unione europea. Quale
significato abbia questa garanzia a
distanza di cento anni dall'attentato di
Sarajevo e quindi dalla prima guerra
mondiale è particolarmente evidente
nell'aggressione del Cremlino
all'Ucraina che si caratterizza,
nuovamente, da nazionalismi
esasperati e rivendicazioni
egemoniche come avvenuto in
passato. Helmut Kohl aveva ragione
quando diceva che il successo del
processo di integrazione europea è
una scelta precisa fra la guerra e la
pace. Non dimentichiamo che l'Europa
non rischia minacce soltanto
dall'esterno ma anche dall'interno e le
minacce dall'interno sono
rappresentate proprio dal virus del
17
nazionalismo. I risultati delle elezioni
europee del maggio 2014 ci rendono
consapevoli che in tempo di crisi
trovano fertile terreno soluzioni
terribilmente semplicistiche e
seducenti che riportano gli istinti dei
popoli verso forme di nazionalismo.
Certo, il contesto politico e sociale non
permetterà derive in tal senso, almeno
per ora. Le istituzioni democratiche dei
nostri paesi sono diventati più solide e
robuste rispetto al 1914. Tuttavia, il
nazionalismo che spesso può
sconfinare nella xenofobia può
minacciare la nostra libertà e la nostra
pace minacciando l'integrazione
europea. Ma è proprio nel
rafforzamento deciso dell'integrazione
europea il modo migliore di
combatterla, attraverso una saggia e
attenta politica economica e sociale
che assicuri il benessere dei suoi
cittadini e porti, se possibile, ad
approvare una costituzione
democratica e federale dell'Unione
europea.
di Fulvio Salimbeni, storico
Quest'anno ricorre il 180° della
fondazione della Giovine Europa,
avvenuta a Berna il 15 aprile 1834 ad
opera di Mazzini e di patrioti tedeschi,
polacchi, italiani e svizzeri, onde
promuovere una lega dei popoli
europei oppressi; tale evento era
l'esito ultimo d'una riflessione
dell'apostolo ligure iniziata da ben
prima, quando nel 1829 egli, ancora
soltanto un giovane intellettuale,
aveva pubblicato nella prestigiosa
“Antologia” del Vieusseux il saggio
D'una letteratura europea, in cui,
denotandone una piena padronanza,
compresa quella delle correnti e degli
autori più recenti, mostrava come le
letterature nazionali non fossero altro
che risvolti particolari d'una generale,
propria dell'intero continente, Russia
inclusa. Dietro allo schermo letterario,
adottato per sfuggire ai controlli della
censura, v'era un evidente riferimento
politico, a prova che sin dall'inizio egli
ebbe ben chiaro che il processo
risorgimentale italiano non poteva
essere disgiunto da quello europeo, in
particolare nell'area danubiano-
L’Europa Unita: un profilo storico
18
balcanica, divisa tra tre imperi
multinazionali: asburgico, zarista e
ottomano. Tale idealità mazziniana,
peraltro, nasceva e si sviluppava in un
contesto e in un momento favorevoli,
dal momento che già nel 1799 Novalis
aveva scritto l'opuscolo, dall'eloquente
titolo, Cristianità o Europa, mentre del
1827 è il saggio di Goethe sulla
Weltliteratur (in realtà letteratura
europea) e del 1828 l'Histoire de la
civilisation en Europe di François
Guizot. D'altro canto, la stessa Santa
Alleanza dei re, voluta dallo zar
Alessandro I dopo la caduta di
Napoleone - cui Mazzini avrebbe
idealmente contrapposto la Santa
Alleanza dei popoli -, era stata da lui
concepita come uno strumento
diplomatico per la pacificazione e
riunione dell'Europa anche sul
versante religioso, dato che essa
comprendeva l'Austria cattolica, la
Prussia protestante e la Russia
ortodossa, oltre, nelle sue intenzioni,
l'Inghilterra anglicana, che, però,
preferì tenersene fuori, per conservare
la propria libertà d'azione.
Che allora, del resto, la solidarietà
europea almeno a livello delle diverse
élites politiche impegnate nelle
rispettive lotte di liberazione nazionale
fosse sentita e diffusa è comprovato
dalla partecipazione di patrioti italiani
ai diversi movimenti per
l'indipendenza o, a seconda dei casi,
per la libertà politica: si pensi a
Santorre di Santarosa, che, falliti i moti
costituzionali piemontesi del 1821,
andò a combattere e a morire - come
l'inglese Lord Byron - per la libertà
della Grecia, insorta contro il giogo
ottomano, altri cospiratori italiani
passando in Spagna per sostenere la
rivoluzione ivi scoppiata nel 1820. E, se
ungheresi e polacchi combatterono
con Garibaldi nel 1848-49, nel 1859 e
nella spedizione dei Mille per la libertà
italiana, nel 1849 e nel 1863 vi furono
italiani che si sacrificarono per quelle
d'Ungheria contro gli Asburgo e della
Polonia nuovamente insorta contro
l'impero russo. L'esperienza dell'esilio
da parte di tanti rivoluzionari europei,
perseguitati dai rispettivi governi, che
s'incontrarono e frequentarono in
Svizzera, a Parigi, a Londra, come fu
per Mazzini, Herzen, Bakunin, Kossuth,
favorì l'affermarsi e consolidarsi di
sentimenti di solidarietà e
cooperazione sovranazionale e d'una
coscienza europea, la stessa che a
Mazzini avrebbe fatto sentire come
Fulvio Salimbeni
19
sua e anche italiana la causa dei
popoli slavi meridionali combattenti
per la propria libertà, ispirandogli le
Lettere Slave (1857). In cui ribadiva il
concetto, a lui caro, che la causa della
libertà d'un popolo oppresso doveva
essere intesa come comune a tutti,
tanto da affermare che, una volta che
l'Italia avesse conseguito unità, libertà
e indipendenza, per esserne davvero
degna avrebbe dovuto sempre
sostenere le battaglie aventi analogo
fine delle altre nazioni conculcate o
dallo straniero o da tirannidi
domestiche e impegnarsi per la
costruzione degli Stati Uniti d'Europa,
dal momento che, a suo avviso,
l'indipendenza nazionale era soltanto
una tappa verso quest'ulteriore e
superiore obiettivo. Né
sostanzialmente diverso era il pensiero
del federalista lombardo Carlo
Cattaneo, lui pure auspicante una
federazione di liberi popoli europei,
condividenti una medesima storia e
cultura. Bertrando Spaventa, del resto,
avrebbe svolto il corso universitario
napoletano del 1862 in una
prospettiva tale per cui Gentile,
ripubblicandolo nel 1908, l'avrebbe
titolato La filosofia italiana nelle sue
relazioni con la filosofia europea, dal
momento che in esso il filosofo
meridionale aveva posto in piena
evidenza nessi e collegamenti costanti,
dal Rinascimento in poi, del pensiero
filosofico nazionale con quello
europeo, che ne costituiva il naturale
contrappunto. Idealità e progetti, tutti
questi, che sarebbero stati ripresi al
congresso mondiale per la pace di
Berna del 1892, in cui Bertha von
Suttner, prima donna insignita del
Premio Nobel per la Pace (1905), ed
Ernesto T. Moneta, in gioventù
garibaldino e lui pure nel 1907 Nobel
per la Pace, firmarono insieme un
appello per la costituzione degli Stati
Uniti d'Europa, unica soluzione
efficace, a loro avviso, per rimuovere
definitivamente il rischio di guerre,
come quelle che fino allora avevano
Tullio Crali - Bombardamento Notturno, Mart, Rovereto
20
flagellato l'umanità. L'affermarsi
dell'imperialismo e del militarismo
portarono, invece, all'ecatombe della
Grande Guerra, dopo la quale, però, il
sogno di un'Europa unita riprese forza,
trovando una sorta d'illusoria
premessa negli accordi franco-tedeschi
di Locarno tra Briand e Stresemann del
1925 (che l'anno dopo valsero a
entrambi il Premio Nobel per la Pace),
che sembrarono, per poco, aver posto
termine alla secolare inimicizia tra i
due popoli. Nel ventennio tra le guerre
mondiali anche lo scrittore austriaco
Stefan Zweig, uno dei maestri spirituali
del Novecento, si batté
appassionatamente per la causa
europea, impegnandosi, però sul
versante culturale, sostenendo che,
più che della politica, fosse ufficio della
scuola e d'un corretto insegnamento
della storia, disciplina civile per
eccellenza, formare i giovani in tale
senso, abbandonando le vecchie e
micidiali impostazioni didattiche
nazionaliste; non a caso nei medesimi
anni Benedetto Croce scriveva la Storia
d'Europa nel secolo decimonono
(1932), mentre Gioacchino Volpe
esortava gli allievi a europeizzare la
storia del Risorgimento. Precipitato di
nuovo il continente nel baratro d'un
ancor più devastante conflitto, tre
intellettuali antifascisti italiani -
Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero
Spinelli - durante il confino a
Ventotene elaborarono l'omonimo
manifesto, Per un'Europa libera e
unita, stampato clandestinamente nel
1944 e in seguito più volte riedito;
quasi contemporaneamente, dall'altra
parte dell'Atlantico, durante una
permanenza negli USA, il filosofo
inglese Bertrand Russell teneva una
serie di corsi accademici confluiti, nel
1945, in una divulgativa e riuscita
Storia della filosofia occidentale (in
effetti europea), che ne leggeva
unitariamente temi e tempi, laddove in
Francia nell'a.a. 1944-45 Lucien Febvre
al Collège de France svolgeva un
magistrale corso su L'Europa: storia di
una civiltà. Negli anni Quaranta e
Cinquanta, cruciali per il rilancio degli
ideali europeisti, anche Federico
Chabod avrebbe dedicato vari corsi
universitari milanesi e romani alla
Storia dell'idea d'Europa, uscita
postuma nel 1961. Finita la seconda
guerra mondiale, il problema europeo
si ripropose con ancor maggiore forza,
trovando nuovi politici illuminati -
Adenauer, De Gasperi, Monnet,
Schumann e Spaak -, decisi a battersi
per una vera e propria federazione
europea, che ponesse termine, una
volta per tutte, alle guerra fratricide
che per secoli avevano insanguinato il
continente, donde, nel 1951, l'avvio
della Comunità europea del carbone e
dell'acciaio (CECA), tre anni dopo il
tentativo d'una Comunità europea di
21
difesa (CED) venendo affossato dal
parlamento francese, geloso delle
prerogative nazionali. Appena nel
1957, con i Trattati di Roma, optando
per una soluzione per il momento solo
economica, che avrebbe trovato
minori opposizioni da parte dei vari
governi (ma allora percepita come
preliminare a una vera e propria
integrazione politica, da attuare in un
momento più propizio) venne fondata
la Comunità economica europea (CEE),
che riuniva Belgio, Francia, Italia,
Lussemburgo, Olanda e Repubblica
Federale Tedesca. È in siffatto clima,
d'altronde, che nel 1965 uno dei
maggiori storici francesi, Jean-Baptiste
Duroselle pubblica, con la prefazione
di Jean Monnet, uno dei padri
dell'europeismo contemporaneo,
L'idée d'Europe dans l'histoire. Da
allora sono stati compiuti indubbi
progressi, tanto che ora gli stati
associati sono ventotto, vi sono una
moneta comune, l'Euro, e un
Parlamento Europeo, espressione
politica di quella che, frattanto, è
diventata l'Unione Europea (UE), ma
certo questa non è ancora l'Europa
solidale, affratellata e riconoscentesi in
una comune civiltà auspicata dai padri
risorgimentali, bensì un'istituzione
dominata da tecnocrati e burocrati,
lontana dal popolo, ancora
scarsamente democratica e
rappresentativa, in cui la dimensione
culturale è trascurata, laddove è
proprio su essa che si dovrebbe
puntare per costruire una solida e
consapevole identità europea, in
particolare tra quei suoi futuri cittadini
che sono i giovani.
di Lino Sartori, filosofo
La metafora dell'assalto rinvia a due
idee di base: innanzi tutto che
l'oggetto o il luogo da assaltare sia
qualcosa di interessante e importante;
in secondo luogo che l'assalto venga
condotto dall'esterno. Riferendoci
all'Europa, questi due presupposti non
corrispondono alla realtà. In primo
Europa: chi corteggia la vecchia Signora?
22
luogo, che l'Europa, intesa come
Unione Europea, sia qualcosa di
importante, è tesi non condivisa né da
molti attori internazionali, né da un
numero crescente di soggetti europei.
A livello internazionale, pensando, ad
esempio, al colosso cinese o
“cindiano” e al nord America (USA,
Canada) l'Unione europea viene
considerata come un nano dalle
pretese smisurate che, appunto,
restano mere pretese. Ciò non tanto
per un senso di superiorità di queste
aree geografiche, quanto per
l'effettivo scarso peso che l'UE esercita
nei tavoli internazionali. Mancanza di
una politica estera comune, mancanza
di una politica energetica comune,
mancanza di una forza militare
comune, debolezza dell'area euro,
insostenibilità, per certi aspetti, del
modello sociale europeo:: queste le
piaghe che gli attori internazionali
riscontrano nel corpo europeo.
Di conseguenza, quando negli altri
continenti si parla di Unione Europea,
si ha l'impressione, da europei, di
venire trattati come una vecchia
signora che non ha più attrattività. A
livello intraeuropeo, poi, appartiene
alla cronaca recente constatare quanto
sia il disamore che perfino paesi un
tempo ritenuti convinti europeisti,
come l'Italia, stanno registrando. In
questo caso la disaffezione può essere
letta come “tradimento”: molti
europei si sentono traditi nelle
aspettative che avevano riposto
nell'Europa, o per eccesso di presenza
europea, o per difetto di tale presenza.
Come in una relazione affettiva, chi si
sente tradito accusa il suo partner di
essere stato o assillante o assente. In
secondo luogo, che l'assalto alla
vecchia signora venga portato
dall'esterno non corrisponde ai fatti.
Sono altri i problemi che impegnano i
grandi della politica internazionale, i
quali, semmai, osservano con un misto
di curiosità e di attendismo tattico
l'evolversi della “bella favola” europea.
Perchè di qualcosa di bello pur si
tratta. Infatti è abbastanza chiaro a
tutti che la “costruzione europea” è
qualcosa di inedito a livello mondiale:
che 28 Paesi, i quali per secoli e secoli
si sono combattuti fino a provocare i
due più terribili conflitti mondiali
(quindi esportando nel mondo le loro
conflittualità interne) siano, da quasi
sessant'anni, impegnati a divenire una
“comunità” (termine che è più denso
di significato “politico” che unione) è
Lino Sartori
23
cosa mai avvenuta. Piuttosto l'assalto
viene condotto, con insistenza
disordinata e spesso disinformata, da
forze interne alla stessa UE. Insomma è
l'innamorato deluso che si scaglia con
forza contro la sua amata e le rinfaccia
colpe più o meno veraci. I fatti, a mio
avviso, sono altri, che, per necessità di
sintesi, esprimo in questo modo: in
Europa non si sono superati due shock:
la perdita di centralità negli affari
internazionali (fine dell'eurocentrismo)
con relativamente recente
rielaborazione di questo lutto, e,
soprattutto, smarrimento all'interno
del nuovo contesto spazio-temporale,
chiamato solitamente
“globalizzazione”. Che cosa rimane,
dunque? Il programma che, circa un
quarto di secolo fa, tracciava Jacques
Le Goff: “Europa, antica e futura ad un
tempo, idea e progetto”. Che l'Europa
non sia un'impresa da inventare oggi,
ma che abbia un deposito culturale
almeno trimillenario a cui rifarsi, è una
certezza da coltivare eticamente
soprattutto nei momenti di crisi. Che,
tuttavia, l'Europa sia ancora
un'incompiuta, alla cui realizzazione è
doveroso concorrere per non restare
ai margini del globo, è altrettanto
evidente. Ma che a tale progetto si
debba attendere con scienza e
coscienza, dipende da che cosa
ognuno decide di essere come
persona.
di Alex Pessotto, giornalista
Una tragedia quale la Grande guerra
non poteva non avere conseguenze ad
essa direttamente imputabili. La
considerazione, tuttavia, richiede una
precisione maggiore: dove sono giunte
tali conseguenze? Quanto Novecento
hanno coinvolto? Ebbene, secondo
l'opinione comune, il secondo conflitto
mondiale è figlio del primo; inoltre,
secondo molti, la fine del sistema
Alex Pessotto
comunista va collegata alle
conseguenze della Grande guerra;
Mantenere alta la guardia
24
infine, sempre alle conseguenze della
Grande guerra, secondo alcuni, va
ricondotta persino l'attuale situazione
ucraina. Con qualche eccezione - basti
pensare alla guerra franco-prussiana
del 1870-1871 e alle guerre nei Balcani
- l'Europa che si trovò sconvolta dallo
tragedia del '14-'18 aveva vissuto un
lungo periodo di pace. Nel complesso,
anche l’Unione europea sta
attraversando un lungo periodo di
pace. Se, infatti, molti Paesi dell'Ue
non stanno certo vivendo momenti di
prosperità non si può che definire
l'attuale un periodo di pace e proprio
la pace è la più grande conquista
dell'Ue: ci sarebbe stata anche in
assenza dell'Ue? Difficile, impossibile
rispondere. La pace, per definizione, è
sempre una conquista precaria. La
Grande guerra è scoppiata per il
precipitare degli eventi, di una
situazione che qualche segnale, magari
mascherato da certi climi di Belle
Époque, non era propriamente florida.
Tra l'altro, all'inizio sembrava il
conflitto dovesse durare un arco di
tempo assai contenuto: nessuno
immaginava di combattere in quella
che sarebbe divenuta la Grande
Guerra. La pace che troviamo nell'Ue
non deve così indurci a cantare vittoria
proprio perchè la pace si è fatta fatica
a conquistarla ma richiede altrettanta
fatica nel mantenerla. E poi, inutile
negarlo, la prosperità, spesso e
volentieri, in molti Paesi dell'Ue latita
eccome e una mancanza di benessere
non può non generare tensioni. Tale
mancanza di benessere da molti può
venir considerata inattesa: l'Ue ci
veniva prospettata anche come un
passo da compiersi per il
miglioramento delle nostre condizioni
economiche; per la maggior parte di
noi, non solo tale miglioramento non
c'è stato ma ogni critica all'Ue viene
tacciata aprioristicamente di
“populismo”: ergo, certi sostenitori
dell'Ue a promesse che l'Ue non ha
mantenuto non solo non fanno
autocritica ma reagiscono con
snobismo, superbia, offesa. Beninteso,
non che tutto quanto sta accadendo
era prevedibile ma nel valutare
l'Unione europea occorre correggere il
tiro: non siamo più nel mondo con
superpotenze gli Stati Uniti, il
Giappone, l'Europa. Siamo in un altro
mondo, nel mondo del BRIC, e
l'Europa, con tutta probabilità, se non
avesse fatto l'Unione starebbe peggio.
In sostanza, l'Unione europea altro
non è che, da un punto di vista
economico, e, quindi, lasciando da
parte gli ideali (certo, d'importanza
primaria) che ne sono alla base, uno
strumento indispensabile per tentar di
25
controllare una situazione che certo
potrà migliorare ma in un mondo dove
il nostro continente non ha più la
stessa voce in capitolo rispetto, senza
andar molto in dietro nel tempo, a
pochi anni or sono. L'economia non è
tutto ma guai a negarne l'importanza.
La storia insegna. E la verità, ammesso
di verità ce ne sia una, è il caso di dirla.
Meglio tardi che mai.
di Gustavo Caizzi, membro dell'Accademia Europeista
Le oggettive difficoltà che si parano
dinanzi agli occhi nel parlare di Unione
Europea rappresentano la sfida più
importante che tutti noi (la nostra
società, e in particolare i nostri
giovani) siamo chiamati ad affrontare
oggi. Le radici storiche dell’Ue
intrecciate ad ideali di pace, solidarietà
e prosperità culturale, scientifica ed
economica, appaiono oggi più che mai
fragili di fronte a deprecabili e dilaganti
aspirazioni di arricchimento che si
accompagnano a corrispondenti
situazioni di lento impoverimento,
recessione, sfruttamento, frutto pure
della parallela, progressiva ed
inesorabile globalizzazione selvaggia
iniziata sul finire degli anni ’70;
globalizzazione che da anni si
accompagna a flussi migratori sempre
più drammatici e tali da imporre regole
comunitarie adeguate ed urgenti in
modo particolare per la nostra Italia
divenuta di fatto ampia frontiera della
Ue per i paesi del continente africano.
Parlare ai nostri giovani del passato,
del futuro e delle prospettive della Ue,
nel presente contesto sembra impresa
ardua anche a chi, avendo vissuto gli
anni e gli stenti del dopoguerra, ha
condiviso con entusiasmo sin da
ragazzo l’ideale di una “nuova” Europa,
che, proiettata verso un futuro lontano
da conflitti, basava sui principi
fondanti sanciti nel lontano 9 maggio
1950 da statisti illuminati quali Robert
Schuman, Konrad Adenauer e Alcide
De Gasperi. Gli anni ‘60 di vistoso
boom economico han significato - per
noi italiani in particolare - la
transizione verso le nuove frontiere e
le opportunità offerte da una Unione
Europea sempre più ampia, “madre” di
entusiastici ideali, magicamente
Unione Europea, una riflessione
26
sintetizzati dalle dodici stelle - simbolo
di pace di ispirazione biblica - della
bandiera ideata dal francese Arsene
Heitz e dall’Inno alla Gioia tratto dalla
IX sinfonia di Beethoven, oggi però
ridotta al ruolo di “matrigna crudele”
foriera di amare chimere al punto da
rendere alquanto arduo il guardare
avanti, parlando ai giovani per
suscitare in loro la necessaria fiducia in
ciò che riserva il domani a cominciare
dal futuro prossimo ed ai non più
giovani per suscitare uno scatto di vero
orgoglio capace di liberare il grande
potenziale di energie positive derivabili
dalla ricchezza etica, politica ed
economica dei tanti Paesi uniti nella
diversità. Quanto sopra a tanti potrà
apparire semplice utopia eppure
l’esperienza degli anni porta a
considerare - oggi ancor più di ieri -
quali irrinunciabili alcuni modi
largamente scontati dell’essere
“Cittadini Europei”, basti pensare al
senso di libertà che ci insegue nel
transitare da una nazione all’altra, al
linguaggio comune che magicamente
sostiene la comunicazione superando
le barriere dell’incomprensione, al
lavoro “senza confini” , alla cultura che
si apre alla conoscenza di società una
volta lontane ed impenetrabili, allo
studio e alla ricerca non più costretta
entro le strette mura di casa, alla
semplificazione monetaria che supera
gli ostici meccanismi di cambio, al
senso di vivere in un mondo tutto
“proprio” molto più ampio ed ospitale;
un mondo profondamente diverso da
quello che si parava dinanzi agli occhi
dei giovani degli anni ’50, un mondo a
cui i giovani di oggi - son certo - non
rinuncerebbero mai e poi mai! In
questo contrasto profondo di
sentimenti sono dunque proprio i
giovani ad esprimere – forse anche
inconsapevolmente – la vera necessità
ed irrinunciabilità al Progetto di nuova
società, che i principi fondanti
dell’Europa Unita ancora oggi
coniugano al meglio, imponendo così
una profonda riflessione da parte di
tutti - in particolare dei neo eletti
organismi parlamentari – riflessione
intesa alla costruzione di un nuovo
Welfare fatto di traguardi concreti di
sviluppo, solidarietà ed unità, capaci di
generare più formazione culturale,
ricerca, lavoro e progresso per tutti i
cittadini d’Europa, soprattutto per i più
giovani!
Gustavo Caizzi
Il semestre di Presidenza Italiana –
oggi più che mai - può contribuire al
27
rilancio di questi sentimenti; per chi si
appresta ad operare nell’immediato,
per chi seguirà e per tutti noi, sia
questo il migliore auspicio!
di Erica Pivesso, già segretaria generale dell'Accademia Europeista
Le elezioni europee celebrate
domenica 25 maggio 2014 in Spagna
dalle 9 alle 21 hanno visto la
partecipazione del 43,81% dei votanti
e hanno cambiato il volto politico
nazionale alla vigilia delle elezioni
politiche del 2015. La partecipazione
spagnola alle elezioni europe si trova
nella media europea (44,7%), seppur
dimostrando una lieve discesa rispetto
alle elezioni precedenti. Un chiaro
segnale di protesta contro il quadro
politico nazionale, che si trova ad
affrontare, in Spagna come in tutta
Europa, una grave crisi economica che
qui ha raggiunto un tasso di
disoccupazione pari al 25,1%. E proprio
la crisi è stato il tema più dibattuto
durante i 15 giorni di campagna
elettorale, utilizzato come baluardo da
tutti i partiti all’interno del proprio
programma. Crisi che in Spagna è
anche esplosa nel sangue, con
l’assassinio di Isabel Carrasco,
presidente del Consiglio Provinciale di
León, in Castiglia e León,
probabilmente da un ex funzionario
pubblico recentemente licenziato. Il
Partito Popolare ne è uscito vincente
con il 26,09% dei voti, accaparrandosi
16 seggi mentre il Partito Socialista di
seggi ne ha ottenuti solo 14, con il
23,01% dei voti. E fino a qui, nessuna
Erica Pivesso al lavoro per l’Accademia Europeista
sorpresa. Anche se da un lato la
divisione del centro sinistra è stata
l’arma vincente del attuale presidente
del Governo Mariano Rajoy, il vero
vincitore di queste elezioni in realtà si
è rivelato essere il nuovo partito
guidato da Pablo Iglesias Turrión,
“Podemos” (Possiamo), che in solo
Le elezioni europee in Spagna
28
cinque mesi di vita è riuscito ad
ottenere ben 5 seggi. Sará il desiderio
di cambiamento del popolo latino? Per
i due grandi partiti spagnoli che hanno
governato il Paese ininterrottamente
sin dalla transizione nel 1977 queste
sono state le elezioni con il peggiore
risultato. Hanno perso più di 5 milioni
di voti, detto in breve. Il bipartitismo
storico sembra ora in bilico, molto di
più di quanto si prevedesse. E ad
attaccare i grandi partiti è stato un
personaggio televisivo molto
conosciuto, Pablo Iglesias, nato fra i
ranghi della Sinistra Unita che ha
deciso di proporre un suo manifesto
dal titolo “Trasformare l’indignazione
in cambiamento”. I punti salienti del
programma includono il
mantenimento della sanità e
educazione come settori pubblici, la
reindustrializzazione del Paese,
l’opposizione alla riforma restrittiva
della legge sull’aborto, l’uscita della
Spagna dalla NATO, il diritto per la
Catalogna a decidere sulla propria
sovranità. Con un budget limitato e
una campagna basata sulla diffusione
tramite i social network, Iglesias in
appena tre mesi ha conseguito 1,2
milioni di voti. Già molto attivo con
programmi televisivi su dibattiti
politici, il giovane professore di scienze
politiche dell’Universita Complutense
di Madrid, a soli 35 anni è approdato
con una forza insperata sulla scena
politica spagnola, nel mezzo della
casta. Lo accompagnano nel suo nuovo
cammino in Europa Teresa Rodriguez,
giovane insegnante delle Scuole Medie
Superiori, Lola Sanchez,
commerciante, Carlos Jiménez
Villarejo, già direttore fiscale
anticorruzione e Pablo Echenique-
Robba, scientifico. Le ultime elezioni al
Parlamento Europeo sono state
caratterizzate da una preoccupante
avanzata di partiti euroscettici.
Viviamo in un’Europa democratica, e
bisogna rispettare i risultati delle urne.
L’avanzata dell’euroscetticismo
rappresenta un fallimento per
l’Unione, già che sembra che la sua
necessità non sia sentita dall’opinione
pubblica. Si è parlato già molto del
deficit democratico, sua grande
debolezza. Però possiamo anche
positivamente notare che la
astensione è cambiata. Non andiamo a
votare in massa, però continuiamo a
farlo, e questo sì che si chiama
democrazia: se tu non decidi, qualcun
altro lo farà per te. Questo è positivo
soprattutto per la legittimità delle
istituzioni europee, che hanno bisogno
di noi per sopravvivere. Tutto
sommato in Spagna la partecipazione è
stata abbastanza alta e, nonostante la
frammentazione del voto, nessun
partito euroscettico e men che meno
29
omofobo ha ottenuto risultati
notevoli, al contrario di quanto è
avvenuto in altri Paesi europei. E non
importa che si parli di PP, PSOE o
Podemos. Quello che importa è che si
parli di Europa, di credere in un
progetto comune, in un sogno che non
deve cambiare con i diversi partiti al
potere. Perchè quello che vogliamo è
più Europa ma anche un’Europa
migliore.
di Abou Baker Hazim, studente universitario
Allo scoppio del primo conflitto
mondiale, il Libano combatteva un
altro tipo di guerra: carestia, povertà
della popolazione più umile, guerra
civile tra cristiani/maroniti e
musulmani/sunniti- drusi erano le
conseguenze della dissoluzione in atto
dell’Impero ottomano. Furono
centinaia le vittime causate dalla
penuria di cibo, dai conflitti interni
associati al fatto che, per l’inerme ed
abbandonata popolazione civile, non
c’era nemmeno la possibilità di
fuggire, a causa del blocco navale
imposto dalle marine di guerra delle
nazioni alleate e dai rastrellamenti
posti in essere dagli ottomani che
costringevano i giovani libanesi ad
arruolarsi nel loro esercito . Tali
giovani libanesi, senza prospettive
economiche e sociali, cercavano con
ogni mezzo di trasferirsi prima in Egitto
e quindi tentare il grande passo verso
l’America del Nord, l’America latina, il
Messico ed anche l’Australia per
trovare condizioni di vita migliori ed
opportunità di crescita. Ma anche in
quegli anni tante giovani vite libanesi
morivano nel tentativo di raggiungere
queste terre promesse, a volte poco
prima di sbarcare sulle coste. Questa
crisi fu ancor più accentuata dal fatto
che, con la fine della prima guerra
mondiale, al Libano fu imposta la
colonizzazione da parte dei francesi
che di fatto si sostituirono agli
Il Libano: 1914 - 2014
Abou Baker Hazim
30
ottomani imponendo alla popolazione
locale le loro medesime restrizioni e le
loro stesse limitazioni, mortificando
qualsiasi miglioramento nelle
condizioni di vita. Nel 1943 finalmente
comincia a nascere una coscienza
nazionale, con un patto di solidarietà
tra cristiani e musulmani che è la fase
iniziale per la costituzione di una
autorità libanese indipendente che si
dimostra, sin dall’inizio, un avversario
risoluto del mandato francese. Dopo la
fine della seconda guerra mondiale, il
Libano ottiene finalmente la sua
completa indipendenza diventando,
grazie alla capacità del suo popolo e ad
una pacifica convivenza tra le varie
etnie che lo compongono, un
importante centro commerciale e
finanziario. E’ in questa fase, però, che
nasce un equivoco fatale per il futuro: i
francesi lasciano il potere nelle mani
dei cristiani maroniti e dei
conservatori, fingendo di ignorare che
la stragrande maggioranza della
popolazione è di origine araba e di
religione musulmana. La realtà,
contrariamente a quanto viene diffuso
nei testi di storia, sta nel fatto che le
vere decisioni politiche, in quel
periodo, erano programmate dai
francesi e l’economia del paese
cresceva soprattutto grazie agli aiuti
della diaspora libanese che
provvedeva a continue rimesse verso
la terra natia. Gli anni ’50 e ’60 si
possono ben definire il periodo d’oro
per l’economia libanese, con una
costante crescita del PIL, il boom del
turismo ed una solida moneta, la lira
libanese. Il Libano viene chiamato “la
Svizzera del Medio Oriente”,
diventando lo snodo commerciale tra i
paesi industriali dell’occidente ed i
paesi consumatori/produttori di
petrolio del Medio oriente; il porto di
Beirut raggiunge l’apice nel transito di
merci , gli alberghi , le spiagge, i
ristoranti alla moda del Paese sono
pieni di turisti e uomini d’affari
provenienti da tutto il mondo. Questo
fantastico periodo fa dimenticare alla
popolazione, anche a quella più
povera, il triste periodo delle guerre.
Poi si verifica un altro errore fatale.
Dopo la prima e la seconda guerra
arabo-israeliana, e quindi agli inizi
degli anni Settanta, in pieno conflitto
mediorientale, il Libano diventa la
principale meta dei profughi
palestinesi (che oggi rappresentano
quasi il 10% della popolazione),
cacciati dalla Giordania nel periodo del
cosiddetto “settembre nero”. A questo
punto la miscela per la guerra civile è
pronta. Il conflitto in effetti esploderà
nel 1975: da un lato i musulmani,
prevalentemente di sinistra e filo
palestinesi, dall’altra le milizie cristiane
ultranazionaliste, sostanzialmente di
estrema destra. Di nuovo il Libano
entra nel suo mortale tunnel di buio
31
per altri 20 anni, causando un ulteriore
flusso migratorio verso Europa,
Australia, Africa ed America. Negli anni
’70 ed ’80 è stato distrutto tutto ciò
che era stato costruito in precedenza
tanto che la Svizzera del Medio
Oriente diventa solo uno sbiadito
ricordo. Oggi, dopo la fine della guerra
civile, il Libano cerca faticosamente di
riprendersi, di rialzarsi sfruttando ogni
risorsa che possiede, sia naturale che
umana. Purtroppo, però, gli anni dei
conflitti etnici e religiosi sono ancora
troppo impressi nell’instabile equilibrio
politico libanese, tanto che non si
riesce a trovare un accordo per lo
sfruttamento dei giacimenti di petrolio
e di gas, recentemente scoperti nella
zona di mare antistante le coste
libanesi, elemento che potrebbe
giovare positivamente al benessere di
tutta la sua popolazione. Il Libano è
così diventato una Repubblica basata
sulla espressione religiosa, ossia su di
un assetto istituzionale in cui
l'appartenenza religiosa di ogni singolo
cittadino diventa il principio ordinatore
della rappresentanza politica e il
cardine del sistema giuridico ove
ognuno pensa al proprio tornaconto e
non a quello della popolazione nel suo
complesso. A distanza di cento anni, i
confini del Medio Oriente si stanno
ridisegnando e si stanno formando
nuove entità statali, nuovi equilibri
geopolitici dove purtroppo
l’appartenenza religiosa rappresenta
ancora un elemento di divisione e
contrapposizione e non di unione e
condivisione dei principi di giustizia,
pace e progresso.
di Daniel Baissero, studente universitario
"Scontro sul rigore in Europa" così
tuona in prima pagina il Corriere della
Sera di giovedì 3 luglio 2014,
all'indomani del discorso di Matteo
Renzi in Parlamento europeo in
occasione dell'inizio del semestre
italiano. C'è chi dice di essere contrario
alla flessibilità, che i debiti distruggono
il futuro, c'è chi dice che senza
flessibilità non c'è crescita. Per non
parlare di chi insiste sull'uscita del
proprio paese dalla eurozona, o chi
Rappresentanti e Rappresentati Europei
32
volta le spalle all'orchestra durante
l'esecuzione dell'inno alla gioia, l'inno
dell'Europa. Volete sapere chi
rappresenta al meglio tra questi
europarlamentari il cittadino medio
europeo? Riflettiamoci insieme.
Rappresentare il cittadino. E' questo il
compito di chi viene eletto tramite
libere e democratiche elezioni, dal più
piccolo paese tra le vette delle Alpi
fino a quelle per eleggere il Presidente
degli Stati Uniti d'America. E' ciò che si
cerca di fare anche dal 1979 nella
Comunità Europea, eleggendo delle
signore e dei signori che per svolgere il
loro ruolo non solo dovranno
rapportarsi ad altre persone che
parlano una lingua diversa e pensano
Daniel Baissero
in modo diverso, ma anche vivere
lontano dalla loro nazione, in quella
grande macchina istituzionale che è il
Parlamento europeo. Sempre che si
prenda parte alle varie sedute, resta
infatti tristemente diffusa la pratica
dell'assenteismo e del menefreghismo.
Quest'anno noi europei abbiamo avuto
una grande occasione: la possibilità di
far sentire in modo profondo la nostra
voce, ma anche di sentire la voce dei
candidati alla Commissione europea.
Far sentire la voce e sentire la voce
dell'Unione Europea, avvicinarsi
sensibilmente a quell'istituzione
politica che per molti era (e purtroppo
rimane ancora oggi) sconosciuta. C'è
stata la possibilità di assistere a
confronti televisivi, conoscere di
persona i vari candidati, leggere i loro
pensieri sui social network, ma
soprattutto stabilire rapporti di
reciproca cooperazione con partiti di
altri stati comunitari. Il 25 maggio,
però, non hanno vinto nè il
popolarismo nè il socialismo nè il
liberalismo... Hanno vinto di nuovo
l'astensionismo, la disinformazione, gli
slogan semplici e urlati nelle piazze.
Ma soprattutto ha vinto l'idea che le
elezioni europee sono solamente un
test elettorale, un semplice
sondaggione per vedere quale tra i
partiti esistenti ha maggiori chance di
vittoria per le elezioni nazionali. In
Italia non ha vinto il Partito Socialista
Europeo e il suo candidato Martin
Schulz, in Italia ha vinto la fiducia in
Matteo Renzi. E così, ancora una volta,
l'Europa è tornata ad essere un
mosaico frammentato, che preferiamo
osservare prendendo in mano una
33
tesserina alla volta, senza dare invece
un'occhiata dall'alto, senza
meravigliarci di quanto potessimo
veramente contare nel mondo se
fossimo tutti uniti. Si è persa questa
occasione, si è persa l'occasione di
unire popoli tramite l'esercizio delle
libere e democratiche elezioni. Ho
paura che ancora una volta le
istituzioni europee ci sembreranno
lontane, inutili. E ciò alimenterà i
peggiori euroscetticismi di sempre.
Che fare allora? Due a mio avviso i
percorsi da seguire. Il primo è quello di
compiere una massiccia riforma degli
ambienti scolastici e universitari,
portando in essi lo studio approfondito
della storia dell'Europa e della civiltà
occidentale, del diritto europeo e delle
lingue, che va assolutamente
migliorato e potenziato. Il secondo è
quello di iniziare, nelle varie
amministrazioni locali, un lavoro di
collaborazione con le realtà cittadine al
di là del confine, sviluppando forme di
cooperazione commerciale e
lavorativa. Vanno realizzate vere e
proprie "euroregioni": l'integrazione
europea può iniziare anche dal micro
regionale e non solo dal macro
bruxellese. Spero che qualche bravo
amministratore trovi oltre confine
qualche altro bravo amministratore
con una mentalità europea come la
sua. Concludendo vorrei tornare al
quesito iniziale. Chi rappresenta al
meglio i cittadini europei? Tutti
sappiamo la risposta. Abbiamo dato le
spalle all'Unione Europea, abbiamo
dato le spalle al motto "uniti nella
diversità", abbiamo dato le spalle alla
bandiera blu a stelle gialle, abbiamo
dato le spalle all'orchestra che suonava
l'inno alla gioia. Siamo profondamente
egoisti, preferiamo pensare ad
interessi immediati piuttosto che al
futuro dei nostri figli. Giriamoci e
guardiamola in faccia questa Europa;
guardiamoci soprattutto tra di noi,
guardiamoci negli occhi, occhi scuri
greci o occhi chiari svedesi. E' così bella
la varietà. Altrimenti sarebbe una
noia…
34
di Francesco Sfriso, studente universitario
La prima Guerra Mondiale
storicamente rappresenta un punto di
non ritorno nella storia
contemporanea. Fu un evento bellico
dalla portata spropositata e di una
ferocia tale da portare allo
stravolgimento pressochè totale del
panorama Europeo di allora. Due
imperi, che costituivano i pesi
determinanti dell’equilibrio
antebellico, vennero spazzati via dalla
furia della guerra: l'anacronistico
Impero Zarista ed il fatiscente e da
tempo “malato” Impero Ottomano. Le
dinastie degli Hohenzollern e degli
Asburgo avrebbero subito la medesima
sorte alla fine del conflitto.
Il primo conflitto mondiale fu quindi
un evento senza precedenti, un
massacro feroce e devastante in cui i
popoli d'Europa si lanciarono quasi
entusiasti, in una frenesia che tuttora
risulta difficile anche solo
comprendere. Un'intera generazione
sarebbe rimasta sulle trincee, da
Verdun a Caporetto? Cosa rappresenta
oggi quella guerra? Cosa si può dire
che ormai non sia già stato detto?
Tutti, mi piace immaginare, abbiamo
letto Lussu, Remarque, le poesie di
Ungaretti. Le agghiaccianti
testimonianze di giovani poco più che
ventenni mandati di buon grado a
morire falciati dai mitragliatori,
soffocati dall'iprite, massacrati dai
cannoni hanno lasciato un solco a dir
poco indelebile nella coscienza
Europea. Immaginare che solo dopo un
secolo ed un altro conflitto ancora più
violento si provi a giungere ad una
macrorealtà federativa tra Stati un
tempo nemici è rincuorante.
Ma ritengo altresì che il ricordo non
vada cancellato, anzi.
Conobbi ciò che era stata la Guerra del
15/18 fin da bimbo a Lavarone, dove
andavo in montagna. Ricordo i cannoni
vicino ai vari sacrari, le barelle ancora
macchiate di sangue rappreso, gli
elmetti sfondati. Cose che un bambino
non può nemmeno immaginare.
Crescendo, ho passato altre estati
sull'Altopiano di Asiago. Spesso
capitava, nel fare una passeggiata tra i
boschi, di trovare pezzi di ferro
arrugginito: razioni militari, tranci di
filo spinato, a volte persino bossoli.
Infine, quando all'inizio della mia vita
universitaria mi spostai a Gorizia, mi
spostai nella parte d'Italia che più
Ricordi dal Veneto
35
aveva sofferto il conflitto. A Gorizia
tutto parla di guerra. Per Gorizia la
redenta, per l'Isonzo in cui Ungaretti si
lavò, riscoprendosi uomo prima che
soldato, per il Sabotino con le fiaccole
tricolori, per tutte le terre che poco più
di un secolo fa videro morire i nostri
fanti e che ora non sono neanche più
in Italia. Ovviamente mi riferisco a
Caporetto, luogo del martirio da cui
poi le truppe seppero rialzarsi e
conseguire la vittoria finale. Per il
nostro giovane Stato, la prima Guerra
Mondiale rappresentò un mito
fondante. Per la prima volta, all'assalto
del sogno risorgimentale e delle terre
irredente, la nostra giovane nazione
s'imbarcò in un conflitto da cui ne uscì
stremata, distrutta, ma coesa. E questo
ci porta ad un concetto fondamentale
Francesco Sfriso
ed ormai caduto in disuso: quello di
sacrificio. In quest'epoca per sacrificio
s'intende spesso quello economico,
specie in questi anni di austerity
forzata e di salti mortali per pareggiare
i conti del Paese. Oramai il concetto di
sacrificio non è che un pretesto per
permettere che enti economici
sovranazionali s'impongano nella
sovranità di una Nazione. Ma ciò che ci
si dimentica è il significato del termine
sacrificio: rendere sacro. Se,
riprendendo Rousseau, lo Stato vive di
religione civile, il sangue dei nostri
soldati ha reso queste terre di
frontiera sacre, simboliche, inviolabili.
Non dico che allora fossimo
consapevoli di questo, ma ritengo che
oggi sia necessario rifletterci. Abbiamo
dimenticato, complice lo scanzonato
benessere che questi tempi di
liberismo selvaggio sembrano imporre,
il valore incontrastato che si cela
dietro la nostra storia, a partire dalla
nostra bandiera. Il Verde delle valli per
cui abbiamo lottato, il Bianco della
neve delle Alpi che il Rosso sangue dei
soldati ha reso sacre e Patrie. Il
concetto di Patria deriva, come
sacrificio, dal latino. Significa “le cose
dei padri”. Il nostro dovere come
italiani prima e come europei poi, è far
sì che i nostri avi possano essere
orgogliosi di noi, onorando ciò che è
stato e facendo quanto è nelle nostre
possibilità per rendere migliore ciò che
ci è stato lasciato. Sono concetti ormai
confinati nel dimenticatoio, in una
visione del mondo dove prima
dell'uomo viene il profitto, per cui
prima della collettività interviene il
singolo ed è l'individuo ad ergersi ad
unico motore del proprio benessere.
36
Ma per queste terre italiani come noi,
ragazzi della mia età, sono stati
mandati a morire ed io non me la
sento di scordarmene.
Conoscere la propria storia dovrebbe
dare gli strumenti per gestire al meglio
il futuro. Ci sono volute due Guerre
Mondiali perchè l'Europa iniziasse un
cammino lento e tortuoso verso
l'integrazione, cercando di ricostruire
sulle macerie che i nostri avi ci
avevano lasciato. Non possiamo
lasciarci indietro tutto. La mia
generazione, la cui dialettica è scandita
nei 160 caratteri di Twitter, che vive i
propri icordi su Internet e preferisce
all'incontro ed alla relazione reciproca
la chat su uno schermo, non sembra
esserne in grado, né minimamente
interessata. Eppure starà a noi un
giorno prendere in mano questa terra,
e dalle nostre radici renderla sacra.
Non col sangue, auspicabilmente, ma
con i valori, l'abnegazione e l'impegno
di ognuno. Se davvero vogliamo che
Europa significhi qualcosa, se non
vogliamo buttare al vento le cose che i
nostri padri ci hanno lasciato, il nostro
impegno sarà determinante. Per la
nostra civiltà e per i nostri valori; per
chi siamo, per chi è stato e per chi
sarà.
di Riccardo Cipollari, studente universitario
A cento anni dall'inizio del primo
conflitto mondiale l'Europa guarda al
suo passato come il viaggiatore che
fissa la strada appena percorsa,
tirando le somme di un secolo che ha
visto il continente coprirsi di sangue
più e più volte, cadere vittima di
dittature e devastarsi, ma anche in
grado di rialzarsi, ricostruirsi e gettare
le basi per evitare che i suoi momenti
più cupi potessero ripetersi. La Grande
guerra può essere vista come la base,
seppur sanguinosa, di quel processo
che plasmerà l'Europa fino ai giorni
nostri dando ad essa l'aspetto che oggi
conosciamo. L'argomento è talmente
vasto che, solo per introdurlo, non
basterebbero dieci numeri di questa
rivista. Tuttavia, quello che possiamo
fare in queste poche righe è
La Grande Guerra fra ieri, oggi e domani
37
interrogarci, nel nostro piccolo, su
quanto si sappia oggi nella nostra
Regione di quegli anni, soffermandoci
in particolare sulle giovani generazioni,
sulla loro conoscenza della storia e sul
loro pensiero in merito. Facendo un
rapido giro di domande fra vari
studenti universitari di Gorizia, Udine e
Trieste, quello che emerge è uno
scenario quanto mai povero. Le
risposte più comuni a interrogativi
quali “Cosa conosci della prima guerra
mondiale?” o “Quanto sai sulle cause
del conflitto?” sono, molto spesso,
malinconici “Poco” o “Nulla”.
Ovviamente non mancano le eccezioni,
ma sono una strettissima minoranza.
Se domandiamo quale sia la causa di
tali lacune nella preparazione
scopriamo che la quasi totalità degli
studenti non ha mai approfondito
l'argomento dopo le superiori,
portandosi dietro solo ed
esclusivamente il bagaglio storico dato
dalla scuola dell'obbligo. Inoltre, si ha
spesso una visione ristretta del
conflitto che si concentra
principalmente su aspetti nazionalistici
e troppo spesso legati a questo o quel
territorio con la conseguente perdita
di una sua visione globale. In questo
modo, comparandola magari alla
seconda guerra mondiale, la Grande
guerra appare quasi come un conflitto
di portata minore o che comunque
non regge il confronto con quello che
seguì. In un certo senso, forse a causa
dell'olocausto e altri eventi tragici che
si verificarono in Europa, vediamo la
prima guerra mondiale come qualcosa
di meno terribile rispetto la seconda.
Questa non è necessariamente una
critica al nostro sistema scolastico,
costretto a condensare in poche ore di
lezione un Novecento pregno di
avvenimenti, ma sottolinea uno scarso
interesse dei più ad approfondire una
materia che, se lasciata isolata, tende a
svanire nei meandri della mente ed
essere spesso generalizzata. Le cose
non sono esaltanti nemmeno per
quanto riguarda la conoscenza dei
Riccardo Cipollari
teatri di scontro sul nostro territorio o
dei luoghi dedicati alla memoria del
conflitto. Se è vero che tutti gli
intervistati conoscono ed hanno
visitato almeno una volta il Sacrario di
Redipuglia, il loro numero scende
vertiginosamente quando si chiede
38
loro delle trincee o di altri luoghi
d'interesse alla Grande guerra
collegati. Eppure non si può dire che
manchino nobili iniziative di
rievocazione o commemorazione che
si impegnano a mantenere vivo il
ricordo della tragedia. Dunque, cosa
manca? Forse la nostra carenza è
proprio da ricercare nel forte ricordo,
nel continuo esame di coscienza che ci
siamo imposti sul secondo conflitto
mondiale. Mai trascurando le brutalità
nazifasciste e le lotte partigiane
abbiamo finito per mettere in secondo
piano la guerra di trincea, relegandola
ad un ruolo meno tragico. Tuttavia,
non tutto è perduto: le celebrazioni del
centenario possono rimettere in luce
una parte della nostra storia europea,
dando ad essa il giusto peso, non
dimenticando certamente le bombe e
le violenze, ma anche momenti
toccanti come la “tregua di natale” del
'14, nella quale gruppi di soldati
tedeschi, inglesi e francesi
instaurarono tregue sparse su tutto il
fronte occidentale in modo autonomo,
con grande disappunto dei superiori.
Questo, a mio avviso, può aiutarci a
riprendere coscienza di un periodo
che, seppur con le dovute distinzioni,
ha molto in comune con il nostro e
certamente molto da insegnare a noi e
alle future generazioni.
di Pasquale Antonio Baldocci
L'esito imprevisto e sorprendente delle
elezioni europee del 26 maggio
impone un serio ripensamento del
“progetto europeo” da parte di coloro
che vi hanno assiduamente lavorato o
vi hanno semplicemente creduto. Le
urne hanno rivelato una estrema
radicalizzazione dell'elettorato con due
soli vincenti: il centro sinistra
moderato, dichiaratamente europeista
(Matteo Renzi) e l'estrema destra
decisamente anti europea, nazionalista
e xenofoba; le altre formazioni sono
state sconfitte, in particolare il
socialismo francese al potere, il cui
atteggiamento nei confronti dell'UE,
dopo il fallimento del Trattato
costituzionale, rimane incerto e
ambiguo. Si ritiene generalmente che
ogni crisi del movimento europeo
Per Riformare l’Europa nel Contesto Globale
39
abbia provocato un salutare rilancio: il
successo del Fronte nazionale dei Le
Pen è un affronto ben più grave di
quelli precedenti perchè denuncia una
condanna senza appello
dell'immobilismo e della inerzia dei
maggiori governi europei di fronte alle
vere ragioni della crisi dell'euro, reso
vulnerabile dalla mancanza di un
entroterra politico sul quale
appoggiarsi. Le urne hanno
confermato il netto rafforzamento
degli eurofobi, una riaffermazione del
nazionalismo più gretto ed
anacronistico, un euroscetticismo
accentuato da parte di coloro che non
sono aprioristicamente avversi al
movimento di unificazione europea,
ma si attendono riforme di fondo che
segnino l'inizio di una “altra” Europa,
diversa da quella degli esecrati
eurocrati di Bruxelles e da quella
imposta da governi, ormai tutti
euroscettici, per i quali la Commissione
e le istituzioni europee sono soltanto
un comodo capro espiatorio al quale
attribuire errori e fallimenti conseguiti
sul piano nazionale. La storia degli
oltre 65 anni di pace che il nostro
continente non aveva mai conosciuto
negli ultimi secoli (le guerre jugoslave
sono il fallimento del socialismo reale
nei Balcani) può essere divisa in tre
grandi fasi, aperte da due personalità
di altissimo rilievo: Altiero Spinelli, con
il Manifesto federalista di Ventotene
(1941) e Jean Monnet con la generale
invenzione di una comunità europea
del carbone e dell'acciaio, quasi un
decennio dopo.
Prima fase: i fondatori
(Schuman, Adenauer, De
Gasperi, Spaak);
Seconda fase: gli esecutori
(Giscard d'Estaing, Mitterrand,
Moro, Schmidt, Kohl);
Terza fase: gli affossatori
(Sarkozy, Hollande, Berlusconi).
La cancelliera Merkel,
cronologicamente appartenente alla
terza fase, senza l'impatto negativo
rappresentato dalla crisi economica,
non sarebbe probabilmente stata
contraria a qualche prudente passo
verso l'integrazione politica: la sua
formazione marxista e l'ambiguità
degli orientamenti francesi l'hanno
tuttavia convinta che l'unione politica
rimane una meta lontana ed
inaccessibile per il momento e che non
rimane altro obiettivo che consolidare
la supremazia tedesca in un rinnovato
“Concerto europeo”, la gaulliana
Europa delle patrie. Configurazione
politica nella quale l'egemonia di fatto
della Germania sarebbe
inevitabilmente consolidata. Attribuire
alla Gran Bretagna (dall'epoca di
Guglielmo il Conquistatore avversa ad
ogni predominio continentale), ai
populisti o ai nazionalisti ed ai
40
difensori dello Stato sovrano la
responsabilità della crisi politica che da
20 anni opprime l'UE sembra peraltro
una condanna di superficiale
convenienza. Scomparsa dalla scena
europea la generazione dei Giscard e
degli Schmidt, dei Mitterrand e dei
Kohl, eredi diretti dei padri fondatori,
con la fine dell'URSS e la riunificazione
tedesca, l'ideale dell'unità politica
dell'Europa si è rapidamente
affievolito, mentre la scomparsa
dell'universalismo marxista e la crisi
della socialdemocrazia consentivano
un risorgere dei nazionalismi, desueti e
anacronistici, quali reazione al
procedere inarrestabile della
globalizzazione, che travolge ogni
residua sopravvivenza di imperialismi
storici. In questa atmosfera di
ancoraggio al passato e come reazione
ad una crescente decadenza, la Francia
ritrova il mito della “grandeur” e
ritiene inaccettabile rinunciare ad una
preponderante influenza francese in
una Europa ingrata politicamente;
cosciente tuttavia del suo declino,
nell'attesa di una rinascita della sua
“exception”, si rassegna ad un
duopolio con la Germania,
opponendosi strenuamente ad una
inevitabile adesione della Turchia in
forte ascesa economica e demografica
per non retrocedere al posto di terzo
maggiore componente di una UE in
piena ripresa politica oltre che
economica. Della crisi europea, da
parte sua, l'Inghilterra si nutre e si
compiace per il delinearsi sempre più
chiaramente di una Europa anglo-
atlantica, bloccata nelle sue
conclamate velleità di integrazione
politica e condizionata dal vassallaggio
militare – e quindi anche politico – nei
confronti degli Stati Uniti. Sottrarsi da
questo circolo vizioso, aggravato dalla
perdurante crisi economica, non è
facile impresa: un rilancio radicale ed
efficace sembra difficile a breve
termine, poiché potrà essere
conseguito soltanto dalle giovani
generazioni formatesi in un clima
diverso, scevro da rigurgiti di
nazionalismo e razzismo, impregnate
di spirito europeo nato nelle università
(progetto Erasmus ed incontri fra
studenti ai vari livelli), esente da
condizionamenti liberal-capitalistici e
dall'aggressività delle multinazionali. In
tale attesa, all'Italia si offre subito
l'opportunità dei proporre riforme
improrogabili dell'Unione europea e
delle sue istituzioni, dopo l'esito
preoccupante delle ultime elezioni,
come avvenne nel 1956 quando il
ministro degli Affari Esteri Gaetano
Martino convocò a Messina i suoi
cinque colleghi della allora Comunità
del Carbone e dell'Acciaio per reagire
all'affondo francese della Comunità di
Difesa, passando dalla gestione
comune di alcune specifiche risorse
41
alla creazione di una Comunità
economica, sorta il 25 marzo dell'anno
successivo con la firma solenne in
Campidoglio, alla quale ebbi l'onore di
assistere nella mia veste di funzionario
diplomatico, dei primi Trattati di
Roma. Con il successo ottenuto alle
votazioni, di cui egli è in realtà l'unico
vincitore, Matteo Renzi potrebbe
avvalersi del semestre italiano di
presidenza dell'UE (primo luglio-31
dicembre) per convocare un Consiglio
Europeo straordinario, dedicato ad
una profonda riforma dell'Unione.
All'interno dei diciotto Paesi membri
della Zona euro potrebbe essere
costituito un “nocciolo duro” (o
comunque lo si voglia definire),
incaricato di affrontare con volontà
decisionale la crisi di identità e gli
obiettivi dell'UE nell'era globale
inserendoli nella globalizzazione, quale
contributo dell'Europa alla promozione
di un umanesimo del XXI secolo non
più circoscritto al nostro continente
ma ispirato alle sue più alte tradizioni.
Il 19 marzo, l'Accademia Europeista in
collaborazione con l'Associazione
Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia
(Anvgd) di Gorizia ha presentato, nella
sede della stessa Anvgd, il libro di
Federica Gullino “Quando la maestra
insegnava: T come Trst. Propaganda e
scuola anti-italiana nella Trieste
jugoslava” edito da Franco Angeli.
L’incontro ha visto l'autrice conversare
con Pasquale Antonio Baldocci, già
ambasciatore d'Italia e attuale
presidente dell'Istituto per gli studi di
previsione e le ricerche internazionali
(Ispri) di Roma. All'incontro, seguito da
un numeroso pubblico, hanno
partecipato il vicesindaco del Comune
di Gorizia Roberto Sartori, il presidente
di Gorizia, Roberto Sartori, il
presidente della Fondazione Carigo,
Gianluigi Chiozza, il consigliere
regionale Rodolfo Ziberna, il
consigliere provinciale Fabio Del Bello,
oltre al direttore dell'Accademia
Europeista, Pio Baissero, alla
presidente dell’Anvgd Gorizia, Maria
Grazia Ziberna, a un componente del
Consiglio Direttivo della Comunità
degli Italiani di Buie d’Istria, Corrado
Dussich. Il giorno successivo,
l'Accademia Europeista ha poi
presentato presso la centrale
idrodinamica del Porto Vecchio, a
Trieste, “La vocazione europea nella
Il nostro 2014 ( fino ad ora… )
42
scuola e nell’università”. Il titolo
dell'incontro coincide con
la pubblicazione, edita dalla stessa
Accademia Europeista, contenente
L’Accademia ricorda il 9 maggio
Dichiarazioni ed Appelli a favore di un
rilancio dell'unificazione europea
discussi ed approvati da studenti
universitari e liceali nell'arco di dieci
anni, precisamente dal 2003 al 2013, a
Gorizia, Firenze, Udine e Lignano
Sabbiadoro. La raccolta è stata
ordinata e commentata, nel novembre
2013, da Pasquale Antonio Baldocci. La
prefazione è del giornalista Alex
Pessotto mentre la postfazione è
firmata dal Direttore dell'Accademia
Europeista. In Porto Vecchio, hanno
discusso della pubblicazione Baissero,
Pessotto, Maria Cavalagli Orel (che ha
collaborato nell'organizzazione
dell'evento), la presidente del Polo
Museale del Porto Vecchio di Trieste,
Antonella Caroli Palladini, oltre,
naturalmente, allo stesso Baldocci.
Quest'ultimo è stato anche il
protagonista dell'incontro del 21
marzo all'Educandato Uccellis che ha
ospitato un'ulteriore presentazione de
“La vocazione europea nella scuola e
nell’università”. Tale appuntamento è
stato contraddistinto dalla
partecipazione del sindaco di Udine,
Furio Honsell, del consigliere regionale
Diego Moretti che ha portato i saluti
del Presidente del Consiglio regionale,
Franco Iacop, della dirigente scolastica
dell'Educandato, Maria Letizia Burtulo,
del presidente dell'Accademia
Europeista, Claudio Cressati; in tale
incontro, seguito da una ricca platea di
studenti, è stato anche letto una
pagina della presidente della nostra
regione, Debora Serracchiani, su “La
vocazione europea” nonchè
proiettato, sempre riguardo la stessa
pubblicazione, un intervento video
dell'ex vicepresidente del Parlamento
europeo, Gianni Pittella.
Nel mese di aprile, il Direttore
dell'Accademia, Pio Baissero, è stato
invitato in qualità di relatore a un
convegno organizzato dalla Europa
Literaturkreis di Kapfenberg per la
presentazione della rivista edita dalla
stessa associazione stiriana il cui titolo
è “Reibeisen”. L'intervento aveva per
titolo “L'Europa dei cittadini oggi”.
Hanno partecipato all'appuntamento
scrittori e artisti di Austria, Ungheria e
Italia. Fra i tanti, citiamo Sepp
43
Grassmugg, presidente
dell'associazione organizzatrice.
L“Assalto all’Europa. Partiti nazional-
populisti e le elezioni del 25 maggio” è
stato invece il titolo dell’incontro che si
è tenuto il 5 maggio all’auditorium del
museo Revoltella di Trieste, curato dal
già segretario del Partito Popolare
Europeo, Thomas Jansen, organizzato
dal Circolo della cultura e delle arti del
capoluogo giuliano in collaborazione
con l’Accademia Europeista e con il
quotidiano Il Piccolo. Il dibattito, alla
vigilia delle elezioni, ha visto il
direttore del Piccolo Paolo Possamai
moderare gli interventi del filosofo
Lino Sartori (socio dell'Accademia), del
giornalista Giampiero Gramaglia
nonchè dei politologi Tommaso Visone
e Giulio Ercolessi.
Sempre organizzato da Accademia
Europeista, Circolo della cultura e delle
arti e quotidiano Il Piccolo, il 9 maggio
alla Sala Europa di via Puccini, Gorizia,
si è svolto un incontro dal titolo
“L'Europa, sfida necessaria. Il destino
del nostro continente in vista delle
elezioni europee e dell'imminente
semestre di presidenza italiana
dell'Ue”. L'incontro è stato aperto dai
saluti del vicesindaco Roberto Sartori,
e dell'assessore provinciale
all'Istruzione, Ilaria Cecot, e del
presidente dell'Accademia, Claudio
Cressati; hanno partecipato
all'appuntamento pure il prefetto
Vittorio Zappalorto, e il consigliere
regionale Igor Gabrovec. Moderati dal
giornalista Stefano Bizzi, protagonisti
dell'incontro sono stati Lino Sartori e
Thomas Jansen secondo una sinergia
già collaudata positivamente in Trieste.
Il calendario dell'Accademia è
proseguito il 19 maggio, nell'aula
magna del polo universitario goriziano
dell'università di Trieste, con un
pubblico dibattito, organizzato dal
Movimento Italiano per
l'organizzazione internazionale e dalla
Provincia di Gorizia, dal titolo “Le
elezioni e le carriere europee tra
rappresentatività e opportunità”. Pio
Baissero ha portato un contributo sul
tema “Perchè motivare all'Europa?” in
rappresentanza dell'Accademia di cui è
direttore.
Dal 6 al 9 giugno, l'Accademia ha
partecipato come partner
all'organizzazione del seminario
internazionale sulle minoranze che si è
tenuto a Neumarkt, in Stiria, per
iniziativa della locale Casa d'Europa e
che ha visto la presenza di relatori e
partecipanti di diversi Paesi europei. In
questi mesi, l'Accademia Europeista ha
continuato la collaborazione con
l'aggregazione giovanile Pleiadi per
quanto riguarda il progetto “A.B.C.€.”
e che ha visto, in qualità di relatori,
Martina Arteni, Francesca Borgna,
Chiara Macuz, Alex Pessotto, Fabio
Romano, Laura Simonin, avvicinare gli
44
studenti dell'Einaudi Marconi di
Staranzano, del Percoto di Udine, del
D'Annunzio di Gorizia, del da Vinci-
Carli-de Sandrinelli di Trieste. Ramon
Miklus ha curato la parte multimediale
di “A.B.C.€.”. A tutti gli studenti è stato
distribuito un attestato di
partecipazione, e, a coloro che hanno
partecipato ai tre moduli del progetto
(“Euro ed Europa”, “Pillole di storia
dell'integrazione europea”,
“Opportunità di mobilità per i
giovani”), sono stati distribuiti
questionari iniziali e finali. Nelle
risposte a quest'ultimo si son distinte,
del D'Annunzio, Ilaria Dal Pio Luogo,
Eleonora Nassiz, Chiara Pellizzoni,
Alessia Sergio, e, del Percoto, Giulia
Bolzon, Greta Castellan, Chiara
Pesamosca. Le studentesse, quale
premio, hanno vinto un viaggio a
Neumarkt in base ai progetti di
scambio che l'Accademia Europeista
da anni porta avanti con la locale Casa
d'Europa; alla trasferta in Stiria hanno
partecipato pure Alberto Cibin, Nicola
Cociancig e Antonello Mauro (group
leader).
Ancora, l'Accademia Europeista di
Gorizia è stata fra gli organizzatori di
un'iniziativa, tenutasi sabato 16
agosto, volta a ricordare i caduti della
prima guerra mondiale, che si è
concretizzata in una cerimonia,
realizzata assieme alla Casa d'Europa
di Klagenfurt, nonchè al Comune di
Liesing e del Land della Carinzia,
svoltasi alle pendici di cima Letter, al
confine italo-austriaco, sulle Alpi
Carniche.
Ragazzi e ragazze che hanno partecipato allo scambio
Un’immagine del nostro 16 agosto
Tale cerimonia faceva seguito alla
collocazione, sulla cima della stessa
vetta (circa 2500 metri), della Croce
per la Pace su cui sono incise le parole
"Nie wieder" (mai più). Vi hanno
partecipato oltre a soci e simpatizzanti
dell'Accademia Europeista, delle
associazioni d'arma austriache e
dell'Associazione nazionale alpini di
Udine e Gemona, anche, fra gli altri,
45
Pietro Fontanini, invitato quale
presidente di una Provincia, quella di
Udine, confinante con l'Austria.
Debora Serracchiani, impossibilitata a
partecipare, ha fatto pervenire un
indirizzo di saluto. La cerimonia è
consistita in un incontro all'aperto, a
circa 900 metri di altitudine, non
rovinato da qualche goccia di pioggia e
da una temperatura non propriamente
agostana, che, oltre ai discorsi di rito,
ha visto l'esecuzione dell'Inno europeo
e del Silenzio fuori ordinanza nonchè
di canti tradizionali eseguiti dal gruppo
vocale Liesing. Un numeroso pubblico
l'ha seguita in un'atmosfera di festa
popolare. La sua riuscita è
testimoniata dall'alto numero dei
partecipanti all'incontro che, per
l'occasione, hanno preferito, ad altre
mete più gettonate in agosto, portare
avanti gli ideali di pace e fratellanza, a
loro volta portati avanti da un quarto
di secolo dall'Accademia Europeista. Il
direttore dell'Accademia stessa, Pio
Baissero, ha tenuto un breve
discorso in tedesco mettendo in
evidenza l'importanza della
partecipazione del territorio di Gorizia
all'iniziativa. Nel corso della giornata in
Austria, soci e simpatizzanti
dell'Accademia hanno altresì visitato il
suggestivo museo della Grande Guerra
nella vicina località di Kötschach-
Mauthen.
Ricordando…
Non vorremmo dedicare uno spazio di
Rassegna Europea alle necrologie.
Vorremmo poter dire che la nostra vita
associativa è proseguita nel migliore dei
modi, senza intoppi di sorta, con il
sostegno di coloro che ne
contribuiscono alla riuscita, e,
soprattutto, senza dover registrare
drammi o tragedie. Così non è.
Purtroppo. E ci troviamo ad aver pianto
la perdita di due personalità che
nell'ormai lunga esistenza
dell'Accademia Europeista, vanno
considerate autentici pilastri, a doverne
scrivere un breve, commosso ricordo,
ad omaggiarne la memoria. Fabio Illusi è
scomparso lo scorso febbraio a
Monfalcone. E' stato lo storico preside
del Malignani di Udine. Ma per noi, più
d'ogni altra cosa, è stato colui che guidò
i primi passi dell'Accademia, oltre 25
anni or sono e sino al 2000;
dell'Accademia, Illusi è stato infatti
uno dei fondatori oltre che, in quel
lasso di tempo, il suo vertice.
46
Fabio Illusi
Non è questa la sede, ovviamente, per
ricordarne il non breve curriculum.
Piuttosto, teniamo a ricordarne certo la
fede negli ideali dell'unità europea ma,
soprattutto, il tratto umano, l'essere
sempre al servizio dell'attività
dell'associazione con preziosi consigli,
un entusiasmo mai venuto meno
(nemmeno da quando, nel 2000, è stato
sostituito dal presidente attuale,
Claudio Cressati), l'impegno sempre
manifestato per diffondere il lavoro
dell'Accademia e portarlo a conoscenza
delle istituzioni, pubbliche e private, di
coloro che nell'europeismo credono e
pure dei cosiddetti euroscettici. Alla
generosità, il professor Illusi aggiungeva
cultura e quella dose di rigore che
sempre abbiamo interpretato come
giusta e doverosa.
Gianfranco Cosatti Simon
Generosità, cultura e rigore
caratterizzavano anche Gianfranco
Cosatti Simon, scomparso a Udine lo
scorso maggio, componente del
Consiglio Direttivo e pur egli socio
fondatore dell'Accademia. Un po' come
Illusi, Cosatti Simon apparteneva al
novero di quegli europeisti convinti che,
alle ragioni dell'economia, preferivano
quelle degli ideali; lo stesso spirito, in
fondo, era quello dei padri fondatori
della nostra vecchia, cara Europa che
rimpiangiamo come rimpiangiamo Illusi
e Cosatti Simon, con un ricordo che
vuole tuttavia maggiormente
evidenziare quanto la loro
partecipazione ha saputo infonderci del
pur grande dolore che la loro perdita
non può non farci provare.
47
Libri!
Lorenzo Bini Smaghi
33 False Verità sull'Europa
Il Mulino, 2014, pagg. 188, Euro 14,00
Da qualche tempo l'intera costruzione
europea è oggetto di crescenti critiche,
più o meno fondate. Sono critiche che
fanno ritenere ad una larga parte
dell'opinione pubblica che sia proprio
l'Europa, e l'Unione Europea in
particolare, ad essere una delle cause
principali della profonda crisi che stiamo
attraversando. Si muovono le accuse più
variegate, ma è l'aspetto economico
dell'integrazione europea quello
maggiormente preso di mira. Sicchè si
tende a colpevolizzare l'euro, le
politiche economiche e bancarie
promosse dalla BCE, la più o meno
presunta arroganza della Germania, il
fiscal compact e via dicendo fino ad
arrivare all'ipotesi di un ritorno alla Lira
o al Franco. Insomma, secondo questi
nuovi "esperti" più o meno in buona
fede l'Europa tutto farebbe meno che
l'interesse dei cittadini e dell'industria
nazionale. Argomenti che sembrano far
facile presa non solo sulle persone
"comuni" ma anche su responsabili
economici e sindacali, diventati
improvvisamente privi di una visione più
reale delle cose che dovrebbero fare.
Argomenti che, alla fine, mascherano un
autolesionismo che non porta e non
porterà da nessuna parte. Lorenzo Bini
Smaghi, scrittore ed economista di
rilievo, riesce, nel suo saggio, a
ribattere, punto su punto, tutte le tesi
antieuropee emerse nel corso della
campagna elettorale appena conclusa
non solo in Italia, ma anche in altri Paesi
europei. In 33 punti riguardanti l'euro,
la BCE, la crisi del debito ed i rapporti
tra Germania e resto d'Europa, il Bini
Smaghi mette a nudo, con dovizia di
dati ed argomentazioni, tutte le false
48
verità ed i luoghi comuni che si sono
diffusi in Europa su questi temi. Non di
rado queste false verità sono sostenute
non solo da partiti e movimenti di
opposizione ma anche da governi
nazionali: tutti convinti che dando
l'impressione di andare a "battere i
pugni" sui tavoli decisionali dell'Europa
si possano ottenere chissà quali
miracolistici risultati. In realtà, come
sostiene l'autore, partiti e governi
nazionali tendono a nascondere il loro
fallimento scaricando le colpe di tutti i
problemi da loro originati proprio
sull'Europa, sperando alla fine di trarre
un vantaggio - peraltro di breve termine
- sia politico che elettorale.
Pio Baissero
Giuseppe Berta
Oligarchie. Il Mondo Nelle Mani di
Pochi
Il Mulino, 2014, pagg. 122, Euro 10,00
In anni come i nostri di grande
incertezza, si tende quasi sempre - in
maniera più o meno proficua - a
questionare assunti per natura
consolidati. Così spesso s'inizia a
riflettere e discutere sulla natura del
potere, sui limiti dei vari sistemi di
governo, sui destini della democrazia e
sul futuro in generale della nostra
società. Giuseppe Berta è professore di
Storia Contemporanea a Milano ed
esperto della realtà d'impresa
nazionale, nonché curatore dell'archivio
storico della Fiat. Nel suo libro
“Oligarchie”, edito da Il Mulino, egli
traccia un'analisi puntuale e sintetica, ai
limiti del didascalico dello sviluppo delle
oligarchie. Dal Parlamento Inglese di
Giorgio III fino all'attuale
globalizzazione, la crisi finanziaria e le
ultime fasi dell' Unione Europea,
l'occhio di Berta indaga, con semplicità
e precisione, l'evoluzione delle
istituzioni in relazione alle differenti
temperie sociali ed economiche. Senza
mai rischiare di cadere nelle trappole
dell'invettiva, Berta ci offre un quadro
non particolarmente lieto, in cui il
mercato soverchia con la sua longa
manus la politica. Politica identificata
come proseguimento dei propri
interessi sin dai tempi di Giorgio III e
deprivata, con l'avanzare della
49
globalizzazione, dell'interesse nazionale.
Sicchè l'oligarchia diviene,
da aristocrazia comunque legata alla
propria realtà geografica e di costume,
una forma di potere decontestualizzata
e cosmopolita che persegue come unico
interesse la propria autoconservazione
ed il profitto proprio e dei suoi membri.
Come contraltare a questa realtà liquida
del potere finanziario, Berta pone le
realtà economiche e sociali dell'Estremo
Oriente: Singapore, paradigma
dell'arrembante turbocapitalismo delle
Tigri Asiatiche, e la Repubblica Popolare
Cinese, in cui l'opera di adattamento del
Partito Comunista al governo sembra
essere in grado di cavalcare le spinte
della grande apertura di Deng Xiaoping.
Realtà entrambe caratterizzate da un
Presidenzialismo accentratore e da una
forma di governo quasi autocratica che
ben si adatta alla tradizionale visione
comunitarista del mondo delle
popolazioni Asiatiche. L'ultimo capitolo
del libro verte sulla dimensione sempre
più tecnocratica dell'Unione Europea
che, tramite l'istituto della moneta
unica, ha confinato l'integrazione ad
una sfrenata crescita finanziaria senza
dotarsi dei mezzi perchè i singoli Stati
potessero affrontarla. Così, nella scorata
testimonianza di Guido Carli, ministro
del Tesoro a Maastricht, si percepisce
quasi l'amarezza per un'occasione
sprecata che avrebbe potuto
risparmiare molto ad un Europa ancora
troppo fragile per resistere alla
lacerante pressione del mercato
globalizzato ed alle sue oligarchie.
Francesco Sfriso
Massimo D'Alema
Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per
l'Europa
Rubbettino, 2014, pagg. 136, Euro 12,00
In questi terribili anni di crisi, l'Europa è
al centro di grandi stravolgimenti
economici e sociali. Una dilagante
insicurezza pervade il vecchio
continente e i suoi cittadini che
attendono risposte dalla loro classe
dirigente. In tutto questo, molti vedono
l'Unione europea come la fonte dei
problemi che ci affliggono, mentre altri
ne rivendicano i traguardi raggiunti.
50
L'unica certezza è che l'Unione non
significa solo moneta unica o austerità,
ma tocca molto più in profondità la vita
dei cittadini di quanto si possa credere.
Eppure, sembra che il resto non sia
tangibile, anzi, si fatica persino a
vederlo, soffocato da continui proclami
e invettive a buon mercato di gruppi
populisti contro l'euro e tutto quello che
ne sta attorno. Proprio con il titolo “Non
solo euro”, Massimo D'Alema, il cui
nome non necessita di introduzioni,
cerca di analizzare quanto è successo in
Europa ed in Italia negli ultimi anni,
dimostrando come la comunità europea
vada ben oltre la facciata a cui siamo
soliti pensare. D'Alema, in questo libro,
affronta molti dei temi spinosi che
attraversano il nostro tempo, facendo
dovuta autocritica sul passato della
sinistra europea, che, secondo lui, non
sempre si è dimostrata all'altezza dei
problemi nazionali ed europei che si
sono manifestati in questi anni, allo
stesso tempo tenta di rilanciarne il
pensiero per contrastare chi vuole
distruggere l'eurozona e rintanarsi in
logori nazionalismi. Quello che ne
emerge è un quadro dalle mille
sfaccettature che tocca l'economia,
l'occupazione femminile, la politica
estera e molto altro. E ci ricorda come il
vecchio continente possa tornare a
competere nel mondo di oggi solo se
trova il modo di andare avanti senza
abbandonare nessuno.
Riccardo Cipollari
Mario Giordano
Non vale una lira. Euro, sprechi, follie:
così l'Europa ci affama
Mondadori, 2014, pagg. 165, Euro
17,00
Da parte di un noto nome del
giornalismo italiano, giunge una critica
radicale all'euro e all'Unione europea. In
“Non vale una lira”, Mario Giordano
affronta le cause che, secondo lui,
hanno portato il nostro Paese nella
drammatica situazione economico-
sociale in cui si trova oggi, puntando il
dito proprio contro la moneta che ci
portiamo in tasca e quella comunità
europea che secondo alcuni muove i fili
per rovinarci. Sebbene il libro, dunque,
insista su punti ormai triti della retorica
51
antieuropeista, il suo autore tenta, con
grande pregio, di andare oltre la miope
contrapposizione fra europeisti e non.
Ciò proponendo un dialogo fra le parti,
cosa che, in tutta franchezza, manca da
ambo i fronti. Giordano, tuttavia, non
risparmia certo la penna quando si
tratta di denunciare le mancanze e gli
sprechi dell'UE, citando alcuni dati
oggettivi. Sarebbe sciocco, dunque,
liquidare questo testo come una
semplice invettiva contro l'Unione,
questo perché tacciare di populismo chi
non crede nell'euro e nel sogno
europeo, troppo spesso presi come
dogmi, è diventato il più ingenuo dei
luoghi comuni. Giordano, nella sua
analisi, coglie il nocciolo del problema:
l'euro è nei guai perchè è una moneta
senza Stato e senza Governo che ne
sostenga, come avviene negli Stati Uniti
o in Svizzera, la conseguente politica
economica e fiscale insieme a quella
monetaria lasciata per ora solo alla Bce.
Ma quel che Giordano propone è un
ritorno al passato, alla lira e ai cambi
fluttuanti, vale a dire al vecchio sistema
degli stati nazionali europei nella
speranza del recupero di una sovranità
che è oggi perduta. Tuttavia, non pare
questa la soluzione che possa risolvere
la crisi: se l'euro non funziona è proprio
perchè manca l'Europa politica. Non è
necessario tornare indietro ma proprio
l'opposto: andare avanti, rifondando
dalle basi l'Unione Europea in modo da
farne un vero soggetto politico.
Riccardo Cipollari
Alessandro Barbera-Stefano Feltri
La lunga notte dell'Euro. Chi comanda
davvero in Europa
Rizzoli, 2014, pagg. 228, Euro 16,00
Un libro che spiega i motivi della crisi
dell’euro, ricostruendo i fatti di quanto
è accaduto dal 2007. Una crisi che ha
causato la caduta di governi, il
fallimento delle banche, il crollo di
molte economie. Alessandro Barbera e
Stefano Feltri, rispettivamente
giornalisti della “Stampa” e del “Fatto
Quotidiano”, analizzano nel loro libro
“La lunga notte dell’euro” la situazione
52
in Europa ed in particolare in Italia da
quando il sistema su cui si basa la
moneta unica inizia ad essere instabile.
A partire dalla crisi dei subprimes ed il
crollo della Lehman Brothers, gli autori
spiegano come i politici europei abbiano
cercato di gestire la situazione di fronte
al sempre più crescente debito
pubblico. Di come la politica si sia
trovata a discutere sulle contromisure
da adottare per affrontare la situazione
di emergenza. Gli autori pongono
attenzione al contesto italiano, dove
tagli, tasse e disoccupazione sono il
prezzo pagato dai cittadini davanti ai
cambiamenti politici ed economici. La
lettera firmata da Trichet e Draghi, lo
spread oltre i 400 punti ed il G-20 di
Cannes alle porte sono solo alcune delle
tematiche affrontate. Mentre si
continua a discutere e proporre
soluzioni, qual è il ruolo della Bce in
tutto questo? Quali sono stati gli effetti
dell’adozione di austerità? Qual è il
confine tra crisi bancaria e crisi degli
Stati? Uno scenario davvero complesso
e sullo sfondo milioni di cittadini
europei che stanno pagando il conto di
scelte incomprese e non condivise.
Elisa Regeni
George Soros con Gregor Peter Schmitz
Salviamo l'Europa. Scommettere
sull'euro per creare il futuro
Hoepli, 2014, pagg. 200, Euro 18,00
Semplice ed efficace, il libro di George
Soros “Salviamo l'Europa” descrive in
modo capillare la tragica crisi politica
che si sta abbattendo sull'Europa.
Quello che si nota fin dalle prime
pagine, è l'impegno personale ed
intellettuale che l'autore mette in
campo per dare risposte e risolvere i
problemi dell'Unione, nel tentativo di
impedire l'ultima metamorfosi, una
deriva nazionalista che
destabilizzerebbe irrimediabilmente
l'Eurozona. Ed è proprio qui che Soros
assegna alla Germania le responsabilità
più grandi; non solo per il suo passato,
ma anche perché non vuole assumersi
53
le responsabilità che le spettano, in
quanto colonna portante dell'UE. Per
l'autore è dunque questa la vera
tragedia del secolo: una Germania che
potrebbe risollevare la situazione del
continente, come fecero gli americani
nel secondo Dopoguerra con il piano
Marshall, ma che preferisce rintanarsi
dentro i propri confini, facendo il
minimo indispensabile ed illudendosi
che questo basti ad evitare la
catastrofe. Ecco il principio della crisi,
che per Soros risiede proprio in una
politica incapace e sorda, pronta a
rifocillare movimenti nazionalisti solo
per un ritorno sulla breve distanza. Lo
spread che dovremmo temere di più è
quello dell'ostilità e dell'intolleranza,
figlio da anni di sommovimenti sociali.
Durante la lettura è difficile non essere
d'accordo con l'autore che porta sul
tavolo argomentazioni convincenti e
innegabili. Convincenti proprio perché
semplici e di buon senso: “Rivediamo le
regole dell'euro zona (palesemente
fallimentari) e torniamo a marciare
verso un'unione politica reale che è
stata accantonata per troppo tempo.”
Riusciranno gli “Europei” a capirlo e
mettere in moto questo processo?
Forse sì, ma per farlo servirà una grande
forza di volontà ed il coraggio per
mettere da parte stantii egoismi e
soluzioni a buon mercato, cosa che ai
politici attuali sembra mancare.
Riccardo Cipollari
Marcello D’Amico
Progettare in Europa. Tecniche e
strumenti per l'accesso e la gestione
dei finanziamenti dell'Unione europea
Centro Studi Erickson, 2014, pagg. 244,
Euro 23,00
In un contesto economico come quello
attuale, caratterizzato da una forte
contrazione delle fonti di
finanziamento, i fondi europei
rappresentano un imprescindibile
strumento per sostenere la crescita e lo
sviluppo strategico. Il volume permette
di conoscere al meglio l'accesso a tali
fondi nella realizzazione di interventi
54
cofinanziati dall'Unione Europea con
molti approfondimenti e chiarimenti in
merito agli strumenti finanziari della
nuova programmazione dei fondi
comunitari 2014-2020 e che
costituiscono il principale strumento di
finanziamento delle iniziative di
sviluppo tanto per le istituzioni
pubbliche quanto per le realtà private.
Marcello D'Amico, avvocato forte della
sua esperienza di docente di Politiche
sociali europee presso la facoltà di
Sociologia dell'Università Cattolica di
Milano, tributa al suo lavoro un taglio
teorico-pratico: ciò ne rappresenta un
innegabile merito; la sua
consultazione è vivamente consigliata
sia ai professionisti in materia di accesso
ai finanziamenti europei, sia a manager
e operatori sociali di enti pubblici
organizzazioni del Terzo settore ma
anche da studenti universitari.
Attraverso semplici e utili indicazioni il
lavoro è di agevole lettura e copre tutte
le fasi progettuali: da quella di
redazione della proposta, alla fase di
gestione amministrativa e finanziaria
dell'intervento, con i capitoli dedicati al
"Budget Preventivo", alla "Redazione
della proposta progettuale", alla
"Rendicontazione e il monitoraggio
dell'intervento". Ancora, pare di
estrema semplicità il ricorso alle tabelle
ed utilissimo il rimando alle
pagine web. Vengono così rese
comprensibili, a tutti e non solo agli
addetti ai lavori, le tecniche del Project
Management, necessarie ed
indispensabili per l'elaborazione
progettuale. Di grande interesse,
inoltre, il rimando alla guida operativa
della Commissione Europea sul Project
Cycle Management e quello inerente al
contesto entro cui si è mosso l'ultimo
processo di integrazione europea (dal
Trattato di Maastricht, passando per
quello di Amsterdam, per arrivare a
quello di Lisbona).
Fabio Feliciano
Giacomo Balla, Mercurio che passa davanti al Sole,
Parigi Centre Pompidou
55
Ricordando il 1914…
Abbiamo deciso di concludere questo
numero di Rassegna Europea con due
foto, nella speranza di poterne operare
un piccolo, ma, auspichiamo,
significativo confronto.
La prima foto è un’immagine del
“nostro” 16 agosto ai piedi della cima
Letter sulle Alpi.
La seconda foto, naturalmente, è
un’immagine della vita di trincea che la
nostra comunità ha tristemente avuto
modo di conoscere.
1914
2014
Il confronto, non voglia sembrare
blasfemo. Desidera, soltanto, invitare,
ove possibile, a non dimenticare il
nostro passato, a non ripeterne gli
errori, a ricordare a noi stessi quanto è
bello il vivere in pace.
56