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la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia Anno XIII (1975) Parte I N. 1-6 (genn.-dic.) MEDAGLIONI MARIO SIMONE una vita per la cultura In una paginetta di appunti, raccolti sotto il titolo di « Ricordi », e recante la data del 6 agosto 1973, l’Autore mette sull’avviso il lettore - « ove mai dovessi pubblicare queste pagine » - che non ha inteso scrivere una « biografia », ma piuttosto intessere le trame di un racconto fatto « dalle cose degli uomini e dagli avvenimenti con i quali ha avuto rapporti fisici, spirituali e, diciamo così, culturali ». A questa stesura il tempo e le circostanze non hanno concesso a Mario Simone di farne seguire la necessaria e prevista attenta revisione. Compaiono qua e là omissioni e mende, e la prosa presenta le imperfezioni e la sciatteria, proprie di una prima scrittura. L’Autore ha voluto che tutti sapessero inequivocabilmente i motivi che lo hanno spinto a scrivere: « l’amore per la vita, la gratitudine per Chi me l’ha data e conservata, la pietà patria la solidarietà con gli umili, l’ideale repubblicano di progresso, la fede nel domani cristiano, cioè comunitario ». Seguono capitoli di varia lunghezza, alcuni dei quali autografi, scritti inediti, numerati da 1 a 88, che hanno i seguenti titoli: 1

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la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia

Anno XIII (1975) Parte I N. 1-6 (genn.-dic.)

MEDAGLIONI

MARIO SIMONE una vita per la cultura

In una paginetta di appunti, raccolti sotto il titolo di « Ricordi », e recante la data del 6 agosto 1973, l’Autore mette sull’avviso il lettore - « ove mai dovessi pubblicare queste pagine » - che non ha inteso scrivere una « biografia », ma piuttosto intessere le trame di un racconto fatto « dalle cose degli uomini e dagli avvenimenti con i quali ha avuto rapporti fisici, spirituali e, diciamo così, culturali ».

A questa stesura il tempo e le circostanze non hanno concesso a Mario Simone di farne seguire la necessaria e prevista attenta revisione. Compaiono qua e là omissioni e mende, e la prosa presenta le imperfezioni e la sciatteria, proprie di una prima scrittura.

L’Autore ha voluto che tutti sapessero inequivocabilmente i motivi che lo hanno spinto a scrivere: « l’amore per la vita, la gratitudine per Chi me l’ha data e conservata, la pietà patria la solidarietà con gli umili, l’ideale repubblicano di progresso, la fede nel domani cristiano, cioè comunitario ».

Seguono capitoli di varia lunghezza, alcuni dei quali autografi, scritti inediti, numerati da 1 a 88, che hanno i seguenti titoli:

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1 - Fiume 1919; 2 - La mia Capitale; 3 - Arturo; 4 - Squallore del mio Liceo « Lanza » 1914-18; 5 - Sempre vivi, Gramsci; 6 - Ai professori; 7 - La società di Cultura « Bellucci » di Manfredonia; 8 - La « Bellucci » e la Società Dauna di Cultura; 9 - Maestri miei iniziatori: Formiggini, Conti, Petrucci; 9/bis - I Laterza; 10 - Gli opuscoli per il Risparmio 1959-60; 11 - La resistenza nel napoletano; 12 - Gli studi risorgimentali; 13 - La tipografia Laurenziana; 14 - Lavoro per il Comune di Foggia; 15 - Beniamino D’Amato; 16 - La Capitanata nelle tesi di laurea; 17 - Agostino Gervasio; 18 - Vincenzo Tangaro; 19 - Anarchici; 20 - Memoria di refrattari: Martinez; 21 - Storiografia minore; 22 - Lettera al direttore del « Progresso Dauno »; 23 - Vita culturale a Manfredonia; 24 - Il mio fascismo (1933-1943); 25 - Ar-chivio giuridico; 26 - Storia di umili; 27 - Disegno di un « Libro della mia gente »; 28 - Oreste De Biase; 29 - Gli ultimi castellani; 30 - 25 Aprile 1971; 31 - I libri di mio padre; 32 - Marius Vincentii Sal.; 33 - Secondo seminario di promozione garganica; 34 - Due casette foggiane; 35 - Un cafone senza lari: La Biblioteca Provinciale di Foggia; 36 - Testimonianze per Formiggini; 37 - San Menaio - settembre (a Peppino D’Addetta); - 38 - I borboni e Vocino; 39 - Il 1848; 40 - Il « Diario patrio » della famiglia Villani di Foggia; 41 - Dov’è il « popolo »?; 42 - Scipione Staffa; 43 - Romualdo La Porta; 44 - Napoli; 45 - Alfredo Petrucci; 46 - Lo « Almanacco giuridico forense »; 47 - Angiolo Ciuffreda; 48 - In tribunale a Roma; 49 - Pin; 50 - « Fiamma » di Guido Guido; 51 - Libri e carte: eredità paventate; 52 - La Fiera di Foggia; 53 - L’Associazione Pugliese di Roma; 54 - Esperienze monastiche; 55 - Il foro italiano; 56 - Gli operai di papà; 57 - Lucera; 58 - Mussolini e Manfredonia; 59 - Leone: « disorganizzazione di Foggia »; 60 - La casa di Antonio Simone; 61 - La mia formazione garibaldina; 62 - Il « mio » primo maggio; 63 - Associazione giovanili di Manfredonia; 64 - La « Nazario Sauro »; 65 - Trigemino e trigemello; 66 - Flora; 67 - Repubblicanesimo proletariato; 68 - P.C.I.; 69 - Il cafone promosso; 70 - Gli evangelici; 71 - Uomini di massoneria; 72 - Biblioteca de’ Gerolomini a Napoli; 73 - Baldassare Cocurullo; 74 - Tremiti; 75 - Miei

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studi; 76 -Voce repubblicana; 77 - Mazzini; 78 - Mauro Del Giudice; 79 - La tipografia Bilancia di Manfredonia; 80 - Annibale Valentino; 81 - La stampa socialista e democratica in Capitanata; 82 - La Puglia a Roma; 83 - Studio editoriale dauno; 84 - La Biblioteca Civica di Monte S. Angelo; 85 - Gli anarchici; 86 - Il diario di Ascoli Satriano; 87 - Gli opuscoli per il risparmio; 88 - Pro memoria agli intellettuali dauni.

L’Ente Provincia, che gli ha affidato la pubblicazione degli « Atti del Consiglio Provinciale », e la Biblioteca, che lo ha avuto collaboratore assiduo e consulente editoriale per quindici anni1, con la pubblicazione degli inediti intendono dargli atto della preziosa collaborazione svolta con rigore e con disinteresse, ed esprimere il doveroso omaggio, che si deve a chi per oltre un ventennio ha operato per il bene pubblico.

Il suo scritto Il Consiglio provinciale del 1861, pubblicato in occasione del centenario dell’unità d’Italia, è tuttora esemplare per rigore di metodo e per ricchezza di documentazione e costituisce un contributo storico di notevole valore.

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Nel corso di circa quindici anni di amicizia e di comune lavoro,

rinsaldata da non infrequenti scontri e baruffe, dovuti il più delle volte all’atteggiamento volutamente provocatorio che gli piaceva assumere, il cui segno promonitore era sempre la sistemazione a sghimbescio del cappello, ho imparato ad amare ed apprezzare un uomo difficile, scontroso, ma anche umanissimo e, specie negli ultimi anni, dolce.

Non mi chiamava più Celuzza (un modo di apostrofarmi che provocava una intima ripulsa e una reazione: impulsi e stati d’animo che mi predisponevano male verso l’interlo-

1 L’Amministrazione Provinciale gli affidò la cura degli Atti del Consiglio nel 1952. La pubblicazione si interrompe con l’annata 1966. La collaborazione con la Biblioteca Prov.le ebbe izinio nel 1962 con la pubblicazione del bollettino bimestrale di informazione «La Biblioteca Provinciale di Foggia». Nel 1963 seguì « Li Capitanata ».

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cutore), ma « Angiolino », e ogni nostro incontro, dopo la sosta penosa cui era costretto dal male che lo affligeva e non gli dava requie, e che lo costringeva a lunghe pause, si conAudeva con l’esortazione da parte sua ed avere cura della rivista « La Capitanata » nostra creatura prediletta, nata nell’anno 1963.

Le stesse parole riuscì a dirmi, pochi giorni prima di passare a miglior vita: « Angiolino, ti raccomando La Capitanata. Ho tanto lavorato per quella ‘creatura’ e per sottrarla al provincialismo, sempre deleterio. Abbi cura della rivista. Non farla morire. Ti raccomando ».

A quella promessa, che nella piccola ma tanto cara casa di via Carducci (ora Don Minzoni) a Manfredonia feci all’editore Mario Simone,intendo restare fedele, in ciò confortato dalla convinta adesione e dal patrocinio dell’Ente Provincia, e dalla preziosa collaborazione del Dr. Mancino, mio collaboratore e suo allievo, che l’arte grafica ha appreso da un tale maestro sui banchi della « Laurenziana » di Napoli.

Un uomo di tanta cultura avrebbe potuto percorrere con non poche soddisfazioni il « cursus honorum » nell’agone forense, così come del resto aveva cominciato (e la rivista La Corte d’Assise ne è chiara e concreta testimonianza), dopo gli studi presso l’Ateneo di Napoli e lo studio di specializzazione in diritto penale, fatto a Roma, allievo di Ferri, De Sanctis, De Tullio, Ottolenghi e Sergi.

Collaborò infatti a Il Foro Italico, a I Rostri, a Il Tribunale, alla Rivista di Cultura, fondata e diretta da Alfredo Petrucci, e all’Almanacco Giuridico-Forense (1932-1934), per poi fondare, nell’anno 1934, sotto la sigla dello « Studio editoriale dauno » La Corte d’Assise, con Baldassare Cocurullo e Vincenzo La Medica, con Giovanni Conti, Giuseppe Romualdi, Mario Trozzi, Filippo Berdini; ma, fedele all’ideale repubblicano2, egli era troppo convinto che la sua terra avesse bisogno di cultura, perché non ispirasse ad esso, calandolo nella realtà, la sua regola di vita, e vi conformasse3.

2 cfr. Repubblicanesimo di Manfredonia, 1921-1971 edizioni di « Risorgimento meridionale », C.E.S.P., Napoli, 1972.

3 Le collane dello Studio editoriale Dauno sono: - BIBLIOTECA DAUNA,

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E questo ideale civile, di progresso e di giustizia sociale egli volle testimoniare con la costante presenza fra gli umili, cui devolse, lui non ricco, i proventi del suo lavoro editoriale. Negli ultimi anni aveva addirittura creato a Manfredonia un Centro di Cultura4 e una ‘Biblioteca popolare’ intitolati al padre Antonio, svolgendovi con umiltà e amore, con disinteresse e entusiasmo opera di vero operatore sociale fra i ragazzi e i poveri del suo quartiere.

E quanta gioia nelle poco frequenti mie visite fatte al suo « Centro », allorché sorridente mi presentava i suoi piccoli amici, ai quali non solo aveva messo a disposizione i suoi libri, ma i suoi dischi e un attrezzato corredo di audiovisivi.

La lezione di animazione culturale, avente per tema « Le vicende storiche, lo sviluppo urbanistico e i beni culturali di Manfredonia », fatta con il corredo di diapositive, di documenti inediti o poco noti presso la Biblioteca della Società Umanitaria di Manfredonia, resterà a lungo nelle mia mente, per l’esemplarità e per il sostrato di amore, di umanità e di cultura ai quali attinse a piene mani. Volle, forse, quella volta, dopo le non poche critiche e polemiche verso la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez, dimostrare ai « soloni » venuti dal Nord a portare la luce della cultura tra i « terroni », come si fa veramente cultura senza restare imprigionati tra gli acchiappanuvole. Ha scritto al riguardo pagine esemplari, lui meridionalista convinto, sempre in prima linea in tante battaglie, combattute per il suo ideale e per la Capitanata.

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Particolare rilievo hanno avuto, infatti, nella vita del Nostro i rapporti

di stima e di cordialissima amicizia con Tom-

collana di monografie regionale; - BIBLIOTECA DEL RISORGIMENTO PUGLIESE; - BIBLIOTECA E QUADERNI DELLA CORTE D’ASSISE; - BIBLIOTECA MUSICALE; - ATTI, DOCUMENTI E STUDI DAUNI; - POESIA; - QUADERNI MUSICALI; - BILANCIA; - TEMI E TEMPI.

4 cfr. Il centro di Cultura popolare « ANTONIO SIMONE », (Istituti d’arte e di cultura) S.E.D., Foggia-Napoli, 1968.

LA CAPITANATA, a. IV, n. 1-6, parte I, pp. 96-98. SOCIETA’ UMANITARIA, Venti anni di Cultura Popolare in Italia, La

Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 94 e segg.

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maso Fiore. Questo sodalizio fu rafforzato dalla permanenza in Capitanata di Fiore nel Gargano « alla ricerca5 del prossimo di Giannone e di Celestino Galiani, di Carmelo Palladino e di Giuseppe Bramante, fantasmi implacabili della Rivoluzione alienata... »; su quel Gargano « formicaio tipico della Puglia », che suggerì al Fiore il titolo al suo bellissimo libro Cafone all’inferno. Il Fiore attinse a piene mani per i Formiconi di Puglia all’archivio di Mario Simone, generosamente spalancato all’attenzione dello studioso, paragonato da Leonardo Sciascia al Courier, non solo per la comune appassionata difesa dei contadini, ma per la qualità « francese » della chiarezza, della lucidità e della vivacità, che è propria dei due scrittori.

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Il capitolo « Fiume 1919 » ha costituito per me una grossa sorpresa. Nei lunghi anni del nostro sodalizio mai una parola, un cenno di quella sua fiammata irredentistica e della parte da lui svolta per l’impresa fiumana. Perché tanto riserbo? E’ un capitolo di grande interesse per comprendere la temperie culturale e i sentimenti alimentati nei giovani dalla psicosi dell’irredentismo e del dannunzianesimo.

Mario Simone costituisce in Manfredonia un circolo di giovani6 accomunati nell’ideale del rinnovamento nazionale; e il discorso tenuto nel Teatro Eden a Manfredonia, per commemorare Nazario Sauro ne costituisce il programma7.

Il racconto è tutto un piacevole contrappunto di disguidi e contrattempi, un susseguirsi di false partenze per mare e poi per terra e di precipitose ritirate. Contrattempi dovuti

5 Contributo di Mario Simone in La Rassegna Pugliese, a. II, n. 4-7, aprileluglio 1967, p. 453.

6 Il Circolo Studentesco C. Battisti fu fondato dal Simone in un suo locale nel 1916, vi organizzò un corso di recite « pro famiglie dei richiamati in guerra ».

7 Scrive in proposito il Foglietto di Lucera, del 26-8-1919: « A mezzanotte tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponte-porto e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso, dinanzi alla maestà dell’Adriatico nostro, lanciarono in gran coro il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che l’eco profonda portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una promessa, come una speranza ».

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proprio all’entusiasmo della giovane età, in quella estate dell’anno 1919. « L’estate di quel ‘19 - scriveva il Simone - mi trovò tutta una fiamma... e mi vide abbandonare la scuola diseducatrice, sdegnoso del piccolo mondo borghese che la esprimeva ».

Dicevo del suo ideale repubblicano, del suo amore per gli umili e della sua laica fiducia nella ragione e nelle qualità morali.

L’incontro con l’editore Formiggini, che gli fu maestro impareggiabile di architettura tipografica, e anche di vita, con il suo gran cuore, cui impose tragicamente di cessare di battere, e non certo per mancanza di amore per la vita, (lo stesso amore per la vita cui il Nostro fa cenno nei suoi « Ricordi » e che lo spinse a diventare editore), assumerà importanza decisiva nella vita del Simone.

La documentazione del primo incontro del Simone con il Formiggini risale all’anno 1925 a Roma, dove il colto ed originale editore si era trasferito da Genova fin dal 1918.

La sua visita nello « sgabuzzino di lavoro di quel gigante in vicolo Doria », dove uno scantinato ospitava la casa editrice e la biblioteca circolante, unica del genere in Roma; l’assalto, poi, dei fascisti alla istituzione « Leonardo »; la pena e la esasperazione del Formiggini per le persecuzioni razziali fino al sacrificio dalla torre di Modena, sono tra i ricordi più belli e commoventi del Nostro, che in un capitolo degli inediti lo ricorda tra i « maestri miei iniziatori ».

E Mario Simone ritornerà nei suoi ricordi con devoto e memore affetto a Formiggini, nel trentennale della sua morte: « Angelo Fortunato Formiggini è ancora in piedi nel mio ricordo ».

Due vite parallele: in entrambi l’abbandono della toga « cui non si prestavano le spalle, intolleranti degli onori della giurisprudenza »; entrambi editori e bibliografi, innamorati della vita, nella convinzione che « sapere è felicità e suo combattere è il leggere ».

Segue un lungo periodo impiegato dal Simone negli studi e nell’attività editoriale. Fra le sue cose mirabili, a parte le riviste Puglia, Corte d’Assise, La Capitanata, Quaderni musicali, mi piace ricordare la Antologia degli scritti di Angelo

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Fraccacreta, il San Leonardo di Mastrobuoni, il magnifico volume su Agostino Gervasio, la silloge di lezioni raccolte in volume con il titolo Civiltà della Daunia e il Libro Rosso della città di Manfredonia, un vero atto di amore verso la sua città8 che ritengo possa fare da « suggello » a tante amare polemiche che hanno reso tristi e amari gli ultimi anni della sua vita.

Mirabile e preziosa la collana di studi sulla Dohana menae pecudum di Foggia: tre volumi svelti ed eleganti cui purtroppo non seguirono, come previsti, molti altri. Il tema doganale è stato per il nostro uno dei grossi impegni di studio e poi di divulgazione. Al meridionalista, cui erano familiari lunghissime e pazienti ricerche di archivio, non poteva sfuggire l’importanza dello studio del problema doganale con i suoi grossi riflessi e implicazioni nella storia economica, politica e sociale della Capitanata. E il suo amore per i Centri di Cultura e per le Biblioteche? Lui ricercatore infaticabile di carte e amico degli studiosi, cui infondeva fiducia e coraggio, sforzandosi di incitarli a uscire dal loro penoso isolamento, ed esortandoli sempre a continuare, a non fermarsi al « presso a poco », spia del provincialismo più deleterio e categoria dalle influenze più nefaste per il nostro Sud.

Mi ero ripromesso (anche perché a Lui la Società Dauna di Cultura, sua creatura, che tenne in prestigiosa evidenza quale segretario generale e arricchì di soci autorevoli, in collaborazione con uomini di cultura quali Vocino, Soccio, Lamura e poi con l’attuale presidente dr. Vitulli, ha deliberato di dedicargli una tornata per ricordarlo degnamente, a un anno dalla scomparsa) di scrivere soltanto una breve prefazione agli inediti che la Biblioteca Provinciale di Foggia si accinge a sua cura a pubblicare, quale primo contributo di omaggio a Mario Simone, amico, uomo di cultura, editore. La penna, poi, mi ha preso la mano, sotto l’urgere dei ricordi. E sia questo anche l’omaggio personale dovuto a un uomo e ad un amico, cui tanto davo per le paterne sollecita

8 Nel 1974, con atto notarile, donò tutta la sua biblioteca di storia locale e i volumi del Centro di Cultura Popolare « A. Simone » al Comune di Manfredonia. Tale prezioso materiale (n. 5.000 pezzi) è stato sistemato nella biblioteca civica « Pascale ».

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zioni, per i buoni e dotti consigli e per l’affetto che mi portava. Cessate le polemiche astiose di fronte al suggello della morte, sono certo

che molti altri uomini di cultura, nel ricordo e nell’apprezzamento giusto di una fruttuosa collaborazione, scioglieranno il debito che hanno verso di Lui. Mario Simone apparteneva a quella ristretta e provvidenziale cerchia di uomini di cultura che, avendo dato sempre e con generosità, e avendo approntato strumenti per la crescita culturale e civile della Capitanata, non avranno, per quanto si faccia e generosamente, mai il giusto riconoscimento e apprezzamento di una vita interamente spesa per gli altri.

Sarà doverosa - e mi auguro che il tempo e le circostanze lo consentiranno - una attenta spigolatura tra il voluminoso epistolario, che pur dovrebbe essere pubblicato appena possibile, (rapporti con gli editori, uomini di cultura, archivi, biblioteche, ecc.) per la esatta ricostruzione del non facile profilo di un uomo colto, buono, lineare, che aveva il culto dell’amicizia, al quale pertanto, si possono perdonare e comprendere impuntature, stranezze, complicazioni.

La morte, da lui attesa da tempo, non lo ha colto impreparato; ma certo ha prematuramente privato noi tutti e la nostra Puglia di uno dei suoi figli migliori.

ANGELO CELUZZA

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CURRICULUM VITAE

Simone Mario Domenico nato a Caserta il 15-12-1901 morto in Manfredonia

(Foggia) l’11-10-1975, avvocato, pubblicista, editore fu esperto organizzatore di movimenti e manifestazioni culturali non solo nella provincia di Foggia ma nell’intera regione, ricevendo riconoscimenti a livello nazionale.

Al fine di meglio comprendere la sua opera dividiamo il suo curriculum vitae per settori di attività.

* Mario Simone animatore culturale.

1921-26: organizzatore attivista dei movimento Repubblicano in Provincia di

Foggia (segretario Luigi Natoli). Corrispondente di « La Voce Repubblicana » e redattore di « L’Alba Repubblicana » e di « Humanitas » (direttore resp. Piero Delfino-Pesce). Incomincia la collaborazione in Roma con Giovanni Conti e Angelo Fortunato Formiggini.

1933: fonda con suo padre in Foggia lo studio editoriale Dauno. 1934: fonda e diventa editore di « La Corte di Assise ». 1939-42: su sollecitazione di Ghisalberti diventa organizzatore e direttore del

comitato provinciale dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano. 1940: è editore e direttore della « Biblioteca del Risorgimento Pugliese » tenuta a

battesimo da Antonio Lucarelli. 1946: diviene editore e redattore in Bari presso i fratelli Laterza della rivista «

Puglia », rassegna di risorgimento regionale. Fonda, organizza e diviene segretario generale della Società Dauna di Cultura in

Foggia. 1948: viene eletto vice-presidente della Società di Storia Patria per la Puglia,

divenendo anche condirettore del suo Archivio. Organizza le celebrazioni del 1848 in provincia di Foggia, ordinando una mostra storica e compilandone il catalogo, nonché una ricca ed autorevole « Bibliografia del Risorgimento Dauno ».

1950: organizza in Foggia il Convegno Nazionale di Studi Fridericiani con il patrocinio del Presidente della Repubblica Einaudi.

1950-51: viene nominato segretario generale, capo ufficio stampa delle due prime manifestazioni post-belliche della Fiera di Foggia.

1952-56: è animatore di quattro corsi di cultura regionale per insegnanti elementari, che saranno ripetuti negli anni 1961-65.

1953: organizza, come segretario, il terzo Convegno storico Pugliese in Foggia. 1953 e 1957: si fà promotore ed organizza due premi nazionali di poesia « U.

Fraccacreta ». 1959 e segg.: fonda e dirige in Manfredonia il Centro di Cultura Popolare e

Biblioteca « Antonio Simone ». 1961 e segg.: dirige e diviene editore dei « Quaderni di Risorgimento Meridionale

» (Napoli) di cui una serie è dedicata a « resistenza e liberazione ». 1963 e segg.: fonda e dirige come editore, in Napoli, la Miscellanea giuridica

economica meridionale.

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1965: viene eletto Consigliere dell’Istituto Storico della Resistenza in Campania. 1967: viene delegato dalla Società Umanitaria di Milano a organizzare in

Manfredonia il Centro di Servizi Culturali, convenzionato con la Cassa del Mezzogiorno.

1968-1971: è consulente del Centro Servizio Culturali di Manfredonia ed insieme al direttore del Centro Dr. Luigi Mancino, organizza tre corsi di formazione per animatori di Biblioteche pubbliche.

* Mario Simone, bibliotecario e editore.

1925: (Manfredonia) suggerisce al vecchio maestro Luigi Pascale « onesto

scrittore » di cose locali, la istituzione di una Biblioteca Civica e con lui collabora alla raccolta e alla sommaria collocazione del primo fondo.

1927: (Manfredonìa) bibliotecario onorario con suo padre Antonio, riordina tecnicamente la Civica « Pascale ». Successivamente rinuncerà alla nomina per l’ostruzionismo dell’A mmini straz ione Podestarile.

1929-33: (Roma) con Giuseppe Gabrielli, bibliotecario dell’Accademia dei Lincei, collabora alla sezione bibliografica della rivista « lapìgia » organo della deputazione di Storia Patria per la Puglia. Presso l’Associazione pugliese, essendone segretario generale, promuove e costituisce la Biblioteca Regionale, pubblicando un periodico bimestrale ed il primo dei « Quaderni Pugliesi ».

Con Alfredo Petrucci (1933); fonda, dirige e compila un « Lunario della Toga » che prenderà il nome di « Almanacco Giuridico Forense Italiano ».

1933: (Foggia) con il Prof. Cocurullo, Procuratore del Re presso il Tribunale, e con l’Avv. Vincenzo La Medica, fonda, dirige, compila e pubblica « La Corte d’Assise » e tutta una serie di relativi « Quaderni ».

1935: (Foggia) nel « Bollettino » del Sindacato professionisti ed artisti redige la rubrica « Bibliografia Dauna » comprendendovi quella del giureconsulto repubblicano Luigi Zuppetta di Castelnuovo della Daunia, preso per la prima volta in esame.

1940: (Foggia) tra le altre edizioni costituisce « La Biblioteca del Risorgimento Pugliese ».

1948: (Bari) pubblica la « Bibliografia del 1848 in Capitanata ». 1950: (Manfredonia) promuove ed organizza le onoranze alla memoria di

Michele Bellucci. 1951: (Bari) è relatore al primo Convegno Storico Pugliese trattando il tema «

Aspetti politici della Regia Dohana Menae Pecudurn ». 1952: (Foggia) L’Amministrazione Provinciale gli affida la pubblicazione degl:

Atti del Consiglio che si interromperà al 1966. 1962: (Foggia) pubblica il bollettino bimestrale di informazione « La Biblioteca

Provinciale di Foggia ». 1963: (Foggia) inizia la pubblicazione, tuttora in corso, de « La Capitanata »,

rassegna di vita e di studi della provincia di Foggia, direttore dr. Angelo Celuzza. In concomitanza darà inizio a tutta una serie di edizioni di « Quaderni di Capitanata », « Quaderni dell’Amministrazione Provinciale di Capitana », « Documenti e monografle della Biblioteca provinciale ».

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1966: (Monte S. Angelo) ordina la mostra della Civica Biblioteca « Angelillis », di cui assicura in dono i notevoli fondi bibliografici dell’ex biblioteca popolare dell’On. Basso.

1967: (Manfredonia) organizza una mostra bibliografica con distribuzione gratuita di libri presso il Centro di Cultura Popolare e Biblioteca « Antonio Simone ».

1968: (Foggia e Manfredonia) tutte le edizioni da lui curate sono esposte in sezioni separate nelle mostre per la « Settimana Nazionale per la Lettura » presso la Biblioteca Provinciale di Foggia e quella Comunale di Manfredonia.

1974: (Foggia) in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Biblioteca Provinciale l’Amministrazione gli affida la pubblicazione del volume Ester Loiodice Le tradizioni popolari in Capitanata nei ricordi di N. Zingarelli.

1974: con verbale n. 18 dei 15-2, l’Amministrazione Comunale di Manfredonia gli affida la stampa del « Libro rosso dell’Università di Manfredonia », che vedrà la luce il 14-7-1974, pregevole edizione ed ultimo atto di notevole impegno della sua attività di editore (*).

(*) Mario Simone, fondatore e direttore dello Studio Editoriale Dauno, che pur

godeva fin dai primi anni della sua attività editoriale della estimazione e dell’alto riconoscimento di editori quali R. Ricciardi e Laterza, è stato scoperto dalla stampa nazionale in seguito alla pubblicazione di un volumetto miscellaneo sulla Lois di Vailland (con contributi di Maria Brandon Albini, Tommaso Fiore, ecc.), Foggia, 1958.

Di lui, infatti, a partire dall’anno 1957 hanno scritto i seguenti quotidiani e riviste:

Il Ouotidiano (Roma) 7-6-1957; Momento Sera (Roma) 7-4-1959 e 2-8-1959; Il Giornale del Levante (Bari) 17-5-1959 e 20-5-1960; Giornale d’Italia (Roma) 9-3-1959; La Liberté (Paris) 20-5-1959; Il Giornale degli Italiani (Parigi) 22-5-1959; Il Mattino (Napoli) 15-5-1959; Nuovo Mezzogiorno (Roma) n. 12 del 1958 e n. 4 del 1959; Il Mattino (Napoli) 23-7-10,59, 20-4-1960 e 19-5-1960; La Gazzetta del Mezzogiorno 16-5-1960; La Tribuna Economica (Foggia) 6-6-1959; Il Tempo (Roma) 1959; La Gazzetta del Mezzogiorno 30-12-1958 e 20-4-1959; Nuovo Mezzogiorno (Roma) ottobre 1961.

Notevole è stata l’attività di Mario Simone nel campo degli studi storici, in specie dei Risorgimento, dei congressi e delle mostre. Per la documentazione vedasi: Rassegna storica del Risorgimento, Roma, XXV, 5, 1939; XXVIII, 6, 1941; ALFONSO LA CAVA, Biblioteca del Risorgimento Pugliese, in Archivio storico per le Provincie Napoletane, Napoli, XXVII, 1941; POMPEO FALCONE, Biblioteca del Risorgimento pugliese, in Rassegna storica del Risorgimento, Rorna XXVII, 7-8, 1940; XXIX, 5, 1942; lapigia, Bari, X, 1939: Archivio Storico Pugliese, Bari, 1, 2, 1948; Mostra storica del 1848 in Capitanata. Museo Civico Foggia, catalogo a cura di M. Simone, 1948; MARIO SIMONE, Bibliografia del 1848 in Capitanata, Bari, 1949; Programma del Convegno Nazionale di Studi Fridericiani, in Il Mezzogiorno d’Italia, Foggia, 1, 5, 1950; MICHELE ABBATE, La prolifica attività culturale dello Studio editoriale, in La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 30 dic. 1958; P. F. PALUMBo, Dieci anni di vita dell’Archivio Storico Pugliese, in La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 28 novembre 1958; Il Mattino, Napoli, 1958; Giornale del Levante, Bari, 25 genn. 1959; Il Tempo, Roma, 19 agosto 1960.

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RICORDI E FRAMMENTI *

di Mario Simone

FIUME 1919

I

L’estate di quel ‘19 mi trovò tutto una fiamma (febbre di adolescenza alimentata dalla psicosi dell’irredentismo e dal dannunzianesimo) e mi vide abbandonare la scuola diseducatrice, sdegnoso del piccolo mondo borghese che la esprimeva.

A Manfredonia chiamai a raccolta i più fedeli e nello stesso fondaco di mio padre al Corso Manfredi (oggi farmacia Centrale) che il 1916 aveva ospitato il Circolo studentesco Cesare Battisti, costituì la Unione sportiva «Nazario Sauro» prima e unica del genere in Capitanata a imprimere alla sua attività agonistica uno spirito politico di intransigenza che, in relazione ai tempi e all’educazione dei giovani di allora, è sembrato un segno anticipatore del fascismo come ha recentemente ricordato il «Giornale d’Italia» (21 giugno).

Doveva essere secondo il mio disegno una cellula di quel movimento rinnovatore nazionale che da qualche tempo presagivo attraverso la stampa, ma io ero un capo troppo giovane per impormi all’ambiente dominato da mentalità e psicologia bizantina.

Comunque, riuscì a conservarle la sua fisionomia politica e approfittai della commemorazione del Sauro per affermarla in maniera solenne.

Come riportò « Il Foglietto » di Lucera (26-8-‘19) dopo il discorso celebrativo da me tenuto al Teatro Eden, « A mezzanotte tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponteporto e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso, dinanzi alla maestà dell’Adriatico nostro, lanciarono in gran coro il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che l’eco profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una promessa, come una speranza ».1

* E’ stata operata dai « Ricordi e Frammenti » una scelta accurata. Sono state

escluse pagine già pubblicate su giornali e riviste o passi la cui stesura si limita ad una prima provvisoria raccolta di appunti incompleti.

1 La sez. sportiva « Nazario Sauro » - Manfredonia 18 agosto 1919 Una eletta schiera di giovani studiosi ha testè costituita in questa città una Sezione Sportiva, intitolandola, con opportuno sentimento patriottico all’eroe martire « Nazario Sauro ».

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II

In tali condizioni di spirito mi raggiunse la notizia della Marcia di Ronchi.

Letto i giornali e deciso a raggiungere il Comandante fu tutt’uno. Con quello che ritenevo il più spregiudicato dei miei compagni, Edoardo

Mazzone di Ludovico, decisi d’imbarcarmi subito su uno dei velieri che facevano il piccolo cabotaggio con la Dalmazia.

Ma nonostante la nostra riservatezza sui propositi di partenza, il 15 settembre ricevei da Foggia una lettera dello studente Michele Cainazzo: « So in parte le tue intenzioni a proposito dei fatti di Fiume. Animato dai medesimi sentimenti, ti prego di venire a Foggia domani per un abboccamento…… ».

Fu il primo contrattempo. Incominciai a fare la spola col Capoluogo che mi ammoniva ogni volta

sull’approssimarsi della sessione autunnale e ivi presi contatto col prof. Luigi Natoli, esponente del patriottismo massonico locale, e con qualche altro valentuomo. Essi m’informarono di star preparando una grande spedizione con l’intervento di numerosa rappresentanza delle forze armate e mi consigliarono di collaborare alla buona riuscita di essa.

Si trattava di un piano che, riuscendo, avrebbe fatto storia nella nostra provincia. La colonna di uomini (arditi, cavalleggeri, aviatori) avrebbe dovuto raggiungere nottetempo Manfredonia dove alla scogliera dell’« Acqua di Cristo » avrebbe dovuto trovare pronti una passerella e un piroscafo della Società di navigazione « Puglia », già occupato di forza e colà diretto.

Ma il tentativo fu sventato dalla Questura, e Manfredonia incominciò ad essere rigorosamente sorvegliata.

III

Da tempo trovavasi in porto sull’ancora una regia nave vedetta; i suoi

sottocapi timoniere e radiotelegrafista erano entrati a far parte dell’Unione Sportiva.

Insinuai a questi due marinai l’idea di portare a Fiume la nave Domenica, nell’Eden teatro, tutto imbandierato, l’egregio giovane sig. Mario

Simone tenne il discorso inaugurale suscitando il più grande entusiasmo. Evocò l’epiche gesta dellEroe Martire invocò con frase elegante la fede di tutti i giovani, dopo di aver rilevati gli scopi educativi della sezione, concluse, applauditissirno, con una calda perorazione alle speranze della gioventú ed ai piú grandi destini della patria.

A mezzanotte poi tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponte-porto e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso dinanzi alla maestà dell’Adriatico nostro, lanciarono in gran coro, il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che l’eco profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una promessa, come una speranza.

Congratulazioni ed auguri.

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e non ebbi bisogno di molte parole, per farmi capire. Consigliarono anzi, di affrettare la partenza che s’imponeva prima che facesse ritorno da Bari il loro comandante.

Chiamai a raccolta i fedeli di Manfredonia e mi portai a Foggia per avvertire quegli amici. Ebbi l’assicurazione che insieme con pochi borghesi sarebbe venuto al completo il gruppo di arditi.

Qualche giorno dopo, ritornando a Manfredonia per organizzare la partenza fissata l’indomoni notte, una sorpresa mi attendeva in treno. Tra gli altri viaggiatori un capitano di Marina mi fece gelare le vene. « li capo non può essere che lui - pensai -tutto dunque svanisce! »

Ma il caso sembrava congiurare con me. Ecco che due agenti di Polizia salgono e si fermano nel corridoio per

scrutarci uno ad uno. - Che guardano questi ridicoli! - Esclama come seccato il Capitano. Non mi par vero di poter prendere la parola: - Hanno l’aria di essere

poliziotti. Temono partenze per Fiume. - Ebbene - dichiara subito quello in modo piú teatrale - Ecco la

provocazione più grave per farmi raggiungere subito D’Annunzio! Ebbi l’ingenuità di confidargli il piano. - Quei pirati - gridò - sarebbero dunque partiti senza il loro comandante! La sera nel caffè Castriotta concertammo il da farsi. Si sarebbe partiti la

notte successiva, per consentire l’arrivo della gente di Foggia. Avremmo portato a Fiume, oltre i cuori e le armi, sopratutto il danaro esistente in cassa sulla nave.

Mi agitai tutta la notte. Alll’alba montai in terrazza, per rivedere la nave, che finalmente ci avrebbe portato trionfanti fino alla meta.

Ma il Capitano, prudentemente, aveva già preso il largo.

IV Ammaestrato dalle difficoltà delle partenze in grande stile, decisi di

ridurre il programma alle originarie modeste proporzioni. Erano quel tempo in corso i lavori del Porto Varano. A Manfredonia il

Genio Marino che li eseguiva era allogato nel Castello e aveva come fiduciario un mio affiliato, Michele Cafarelli di Carlo.

Con questo misi l’occhio su un rimorchiatore d’alto mare capitanato da un di Romagna, autentico lupo di mare col quale però non si riusciva mai a imbastire un ragionamento perché era o fingeva di essere sempre ubriaco.

Decidemmo dunque di agire con la violenza. Imbavagliata la guardia di Finanza del faro, non sarebbe stato difficile raggiungere la nave e obbligare i marinai eventualmente ostili a sbarcare e il capitano a guidarci a destinazione.

E saremmo certamente partiti se proprio il giorno stabilito non

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fosse apparso a Manfredonia il comandante la tenenza Carabinieri di Foggia. Io e Cafarelli ci trovavamo appunto in Castello allorquando quello venne

a chiederci di poter telefonare a Foggia. - Pronto! pronto! nessuna novità. Qui tutto bene. E l’indomani di nuovo tutto male perché alla sorveglianza del porto

furono addetti anche i Carabinieri. Il rimorchiatore partì per il Varano, e dovemmo così cambiare un’altra

volta programma. Ecco il disegno del Cafarelli: « Partire da Foggia - Sansevero - Apricena -

S. Nicandro G. - S. Nicola Varano - Capoiale. A Capoiale, ove mi farei trovare col rimorchiatore « Lido » vi sarebbero solamente l’ufficiale telegrafico ed il magazziniere. Se vestiti da operai dire che si va in cerca di lavoro, se vestiti ordinariamente dire che si cerca l’ingegnere D’Arienzo o Delli Muti, tanto per avere alloggi e mangiare gratis, la notte e la mattina alle sei, quando il rimorchiatore dovrebbe fare ritorno a Manfredonia, imbarcare tutti, tagliando comunicazioni telegrafiche e fornendosi di una buona scorta di carbone e di olio e indurre il comandantte a sbarcare l’equipaggio. Quindi seguire la rotta ».

Progetto anch’esso svanito per la mancata tempestiva azione degli elementi foggiani.

FORMIGGINI, CONTI, PETRUCCI (Maestri miei iniziatori)

Ad Angelo Fortunato Formìggini debbo le più gioiose emozioni della mia

carriera di lettore. A Napoli, dove il 1918 preparavo la licenza liceale, conquistata poi al « Genovesi », ricevetti in libreria un saggio de « L’Italia che scrive »: ritornato a casa ottenni che mio padre pagasse l’abbonamento alla gaietta rivista. Fui conquistato dallo stile magico di quel periodico, in cui lo spirito vivace dell’editore sceglieva e amalgamava le varie collaborazioni, in modo da comporre una unità culturale e tipografica.

Trasferitomi a Roma, sapevo trovare le occasioni e le scuse, per farmi ricevere un attimo nello sgabuzzino di lavoro di quel gigante di vicolo Doria, dove uno scantinato ospitava la casa editrice e la Biblioteca circolante, unica istituzione di quel genere nell’Urbe. Sembrava un idillio, l’attività di AFF a Roma, con le gerarchie fasciste; fino a quando queste non decisero di stroncare... l’uomo, lasciato ancora libero e fu l’assalto alla « Leonardo », cui seppe rispondere con La picozza filosofica del fascismo. Stretto ai pochi amici, ne condivisi la pena, e mi esasperai alle prime misure razziali, e non mi rassegnai facilmente dopo lo storico sacrificio dalla Torre di Modena. Rivedere il suo sorriso m’è tuttora di conforto e di incoraggiamento, tra le contraddizioni della vita.

A Roma ho avuto la fortuna di esaltarmi vicino ad altri due uomini eccezionali: Giovanni Conti e Alfredo Petrucci. Furono essi

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Angelo Fortunato Formiggini

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a « insegnarmi il mestiere ». Conti fu il promotore e, con l’avv. Lanzetta, il realizzatore della editoria politica romana. Quando le altre forze politiche credevano di assolvere tutti i loro compiti nell’azione parlamentare, e poi aventiniana, il discepolo di Arcangelo Ghisleri affermava che il successo di qualsiasi tattica e strategia politica non può non essere condizionata dalla carica morale, dalla preparazione ideologica e dalla esperienza pratica dei protagonisti, i quali non sono soltanto i capi e i dirigenti (parole delle quali aborriva) ma anche e soprattutto il « popolo ».

Fondatore e direttore de « La Voce Repubblicana » e della « Libreria Politica Moderna », fu il mio modello di editore, pervaso da un alto ideale di rinnovamento e sdegnoso di tutto quanto costituisce la materia vile della funzione mercantile. Sincero e leale fino a traumatizzare chi non « filava » sulla sua linea, suggestionava e trascinava in virtù di un temperamento virile, vivace ed esuberante, La sua lezione non era fatta per farlo chiamare maestro (altra parola che egli dava ai nemici). Sentivo in lui il padre severo, che non si trattiene dal contestare, senza rinunziare alle prove, la capacità di rinnovamento del vecchio repubblicanesimo meridionale, intellettualistico e settario, e per ciò inconcludente.

Petrucci - Poeta ed artista di rara sensibilità e operosità, Alfredo Petrucci, autorevole fratello maggiore, mi ha trasfuso il gusto, i segreti tecnici e il rispetto amorevole della buona stampa, dall’esordio lontano ai suoi ultimi tempi: un periodo di cinquant’anni nel quale è stato per me decisiva la sua collaborazione.

I nostri appaiono sui tre volumi dell’« Almanacco Giuridico Forense Italiano » (Lunario della Toga), pubblicati per le nostre cure a Roma negli anni 1930-33, ma essi sono stati sempre vicini, sia che recensissi sue opere, sia che annunciassi quale mia edizione il suo Gargano monumentale (trasfuso poi in Cattedrali di Puglia).

Vocino nella pubblicazione della rivistina « La Puglia a Roma », dei « Quaderni Pugliesi » iniziati nella capitale col suo Caldara e dell’altro periodico « Puglia » di entrambi volle affettuosamente disegnare le testate, uscito a Bari il 1926 presso i Laterza.

I LATERZA

Il 30 maggio 1960, diciassette anni dalla scomparsa, Putignano, comune

patrio, murò una lapide su la casa nativa di Giovanni Laterza senior. Nel salone della biblioteca civica, Tommaso Fiore ripercorse la vita di

quel grande pugliese con una celebrazione, che attendiamo di vedere a stampa in opuscolo.

Varie componenti personali, fanno di Giovanni Laterza il prototipo dell’editore nuovo del Mezzogiorno, destinato ad assicurare alla sua regione un primato insuperabile. Introdotti nella sua straordinaria

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Biblioteca civica di Putignano. Commemorazione di Giovanni LaTerza

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utensileria, senza la preparazione richiesta da quel complesso apparato, si rischiava facilmente di uscirne bocciato e deluso. Don Giovanni, uso al dialogo con Benedetto Croce, al centro della rete culturale distesa nel Paese e fuori; e con lui fratelli e figli, legati dal mestiere e dall’indirizzo politico: Giuseppe, Franco, Vito, Peppino, tutti esperti, reduci dalla stessa grande scuola tipografico-editoriale-libraria del Nord e dei paesi esteri scelti a scuola d’esperienza.

Affidata alla officina, che si ornava di quei nomi, « Puglia » si illuse di potervi fondare la sua immortalità, lucrando la estesa fama editoriale; ma nessuno si accorse del periodico e della stamperia. Mancò a quel foglio, con tante altre cose, un gruppo redazionale e la organizzazione amministrativa; mentre ebbe una base di lettori bene individuata durante un non breve lavoro preparatorio, assolto con meticolosità tra i numerosi amici corregionali o dimoranti in Puglia; sulle schede da me distribuite essi mi notificarono molti indirizzi interessati a ricevere il periodico.

Aiutato solo da una allieva, che preparavo nello svolgimento di una banale tesi di laurea, mi sottoposi a un lavoro in gran parte frustrato dalla disordinata spedizione dei numeri da parte della tipografia e dalla resistenza ad esporre ìl foglio delle edicole giornalistiche, e da tanti altri fattori.

Fattori di successo di un periodico sono la tempestiva pubblicazione e diffusione e si sbaglia, affidandone la stampa a un grande stabilimento. Esso, appunto per la sua modesta mole, sarà sempre curato meglio in una piccola tipografia, purché sia animata da gente per bene, modesta, volenterosa di collaborare con gli intellettuali della medesima loro stoffa, sopportandone le interferenze tecniche.

ANARCHICI

Tramite Filippo Maria Pugliese m’incontrai per corrispondenza con

Cesare Teofilato, il solitario pubblicista anarchico di Francavilla Fontana (Brindisi), del quale parla Tommaso Fiore nelle ultime pagine di « Un popolo di formiche ».

Mi scrisse di Michele Angiolillo, il giovane foggiano garottato in Spagna, citando lo scritto del Morelli (Rastignac) in suo ricordo: « Germinal ». Di Angiolillo mi parlò il libraio Mancino, di Lucera, ch’era stato suo compagno di scuola.

Un altro incontro con anarchici dauni e pugliesi fu alla lettura di « La Puglia nel Risorgimento con particolare riguardo ad Acquaviva delle Fonti » di Antonio Lucarelli. Suggestive le figure di Cafiero e di Covelli.

A Roma, nel periodo dell’università (1921-25) mi procurai numerose edizioni anarchiche, politiche e letterarie; di esse non tutte figurano nel mio schedario perché, al fine di sottrarle alle perquisizioni romane, le diseminai tra insospettabili famiglie amiche. Molte di quelle

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T. Fiore commemora nella Biblioteca civica di Putignano Giovanni Laterza

(30-5-1960)

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possedute, risalgono al periodo foggiano, ai rapporti affettuosi, che mi legarono a due anziani anarchici: i ferrovieri in pensione Quirino Perfetti e Adolfo Valente, questo oriundo di Manfredonia, che non posso ricordare senza commozione, per la dirittura dei loro caratteri, per l’azione educativa svolta e per la solidarietà, che mi dimostrarono quando i miei genitori furono aggrediti e poi abbattuti dal male.

Nella pagina pubblicata da « Rassegna pugliese »1, fascicolo in onore di Tommaso Fiore, nomino gli anarchici garganici Bramante e Palladino, che da tem-po mi avevano incuriosito, fino a farmi cercare le loro tracce nei paesi di origine: Carpino e Cagnano Varano. Qui mi fu propizio il commissario al Comune, dott. Antonio Papagno, manfredoniano, che riuscì a farmene ottenere il ritratto, del qua-le volle copia Antonio Lucareli, per il suo scritto biografico apparso con l’immagine « Umanità Nova » e poi in quaderno. Infruttuoso fu, invece l’incontro con le sorelle superstiti del Palladino, mostratesi ingenerose verso la sua memoria, non perdo-nandogli la tresca adulterina, per la quale una notte del 1896 fu spento dall’uomo tradito.

Dei fratelli Bramante, promotori col Palladino della prima internazionale (a-narchica) non si serbano molte notizie a Carpino. Lo storico locale, Giuseppe D’Addetta, non mi ha potuto fornire elementi di dettaglio.

Il 1921, durante la campagna elettorale a Manfredonia, mi si presentò un bracciante, ritornato in Patria dagli Stati Uniti, Antonio Latosa, per dichiararmi la sua fede repubblicana e donarmi alcuni giornali anarchici in lingua italiana di quel paese, con articoli e cronache relativi al « caso » di Sacco e Vanzetti.

Non ero andato ancora a Roma, dove mi sarei arricchito di informazioni po-litiche, e quella stampa mi fu molto utile.

A Roma, dove arrivai all’inizio dei corsi universitari (ottobre 1921) e dimorai fino al gennaio del 1933, conobbi numerosi anarchici, che erano gli amici meno... pericolosi di noi repubblicani. Frequentavo la tipografia « Poligrafica » dove, oltre « la Voce Repubblicana » e altri periodici e numeri unici del PRI e della Federazione giovanile, si stampava anche il settimanale anarchico « Umanità Nova », poi diven-tato quotidiano. Vi incontravo Enrico Malatesta, che non lesinò suggerimenti bi-bliografici per la migliore conoscenza storica e ideologica del movimento, allora da lui animato in Italia. Quando, finalmente, presi la laurea, mi disse con l’abituale bo-nomia: « Mò te ne ritorni al paese, dove la famiglia ti farà trovare l’orgoglio d’oro e una ragazza di buona famiglia per sposa; ti butterai nella professione e sarai simile ad altri giovani, che ho conosciuto, come te, pieni di ardore e di programmi qui, tra noi; perdutisi dopo ».

Gli dissi che tutto poteva accadere, ma che, comunque, avrei fatto del mio meglio per non « finire » come qualche altro.

Dopo anni di esilio a Foggia, ho scritto questo ricordo agli amici di Roma, che preparavano un quaderno dì ricordi in memoria del

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Malatesta. Fortunatamente, mi ero salvato (ma a quale prezzo risulta dagli altri pa-ragrafi di queste memorie).

Dopo il mio fallimentare rimpatrio del 1933, straziato dall’attività professio-nale (vedi « La toga e la croce ») a Foggia il mio impegno ideologico-politico fu guastato dalla pena del « natìo loco » e dalla illusione di potermi rendere utile a suo beneficio...

Riusciti vani i tentativi di iniziare un colloquio marginale con avvocati già e-sponenti dell’antifascismo: il repubblicano Colaminè e i socialisti Fioritto, Laporta, Lupino, Maitilasso, Manedes e l’indefinito Raho, massone, tutti affogati nella pro-fessione, con l’abituale ingenuità ricevuta da mio padre non capii che, dai loro parti-ti o congreghe, legati per bisogno o per consuetudine a quella che sembrava alie-nante pratica forense, fuori da ogni corrente culturale, ma soprattutto perché esau-riti e prossimi alla vecchiaia, essi non disponevano più delle energie necessarie a farli resistere ancora sulla linea della opposizione e salvarli dal destino assegnato loro dalla meschina vita provinciale. Un’altra illusione: mi attendevo da costoro un segno di riconoscimento della mia attività culturale romana, della quale erano segni lampanti in alcune riviste e... monumento « Almanacco giuridico-forense italiano » redatto in collaborazione con Alfredo Petrucci.

Finii col detestare quei signori, che furono causa non secondaria del mio de-terioramento politico (vedi « La toga e la croce »).

Tardi conobbi gli esponenti anarchici Perfetti e Valente, e poi Gualano di San Nicandro, e altri.

MARTINEZ

Tu lo sapevi allora, Gaetano, che sarebbe andata così. Ma non t’immaginavi,

confessa, che avresti durato tanto a lungo. Quanti anni da quella sera, che c’incontrammo da Palazzi, al Foro italico? Mettiamo trentaquattro (e tanti appros-simativamente sono quelli del tuo martirio), ché da poco eri giunto a Roma dalla nostra Puglia.

« Troppi ». Quale gusto poteva darti quella vita, che il Prossimo rendeva così difficile? Se all’ultimo non ti eri fatto frate, dopo essere stato fascista e, forse, cava-liere, dobbiamo proprio concludere che l’Arte, (questa volta ci vuole la maiuscola) che il pane e formaggio che non sempre riusciva a procurarti, bastavano a tenere in piedi il tuo piccolo sacco.

Ma, che vuoi? A vedere le Lede e le Ballerine puttaneggiare sui mobilucci bor-ghesi mi si rivoltano le visceri. Dove sono andati a finire i genii che popolavano lo Studio di Via Monserrato? Bovio, Wagner, Carducci, Hugo... e quel Caino che is-sammo trionfalmente a Palazzo Salviati il 1925 alla Mostra degli Artisti pugliesi or-dinata da Alfredo Petrucci?

Via Monserrato, il cortile di un vecchio palazzo papalino. Per la scaletta degli stallieri salivo con Laurenzio alla tua stamberga. E lo

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studio, la fetida rimessa e la fontanella col capelvenere. A volte appariva un car-tello: « Dar la voce prima di entrare ». Era per via di una modella, che non ama-va esibirsi agli « estranei al lavoro » (Pin dove sei, pietrificata nella « Ignara mali »?) In quella spelonca mi donasti alcuni disegni, dicendomi che « domani » a-vrebbero avuto un prezzo. Eccoli sani e salvi da tutti i naufragi: « Che vuoi, Imbriani? - Dite, Bovio, agli Italiani che li aspetto sul Carnaro. - Sì, sii benedet-to... ». Chi ha più disegnato meglio di te quelle immagini del nostro ideale re-pubblicano? E questo Enrico Ferri, che dalle contrazioni della mano sinistra esprime la dinamica del suo pensiero (dall’altra parte del foglio abbozzi del tuo autoritratto)? Poi gli ultimi doni, che io m’ero già ritirato in provincia, compresa un’autocaricatura, ma fredda, di moda, come t’avevano costretto a diventare.

Dunque, dicevo che l’avevi previsto. Ed eccoci tutti a farti onore (forse c’è pure chi ha la colpa di aver troppo atteso). E non manca il premio giornali-stico. Dopo averti mummificato, verranno - son già venuti - a ripetere ai portie-ri che ora sei morto sul serio (Morto, ridi, Gaetano, morto proprio adesso che finalmente sei vivo!) essi che non si sono mai accorti di te quando, come quel personaggio del mito, andavi combattendo ed eri morto.

STORIOGRAFIA (MINORE?)

Da tempo la grande Editoria va documentando i rinnovati interessi e le

vedute nuove della storiografia su la vicenda meridionale nel primo e nel se-condo Risorgimento (Resistenza). Purtuttavia, le restano tuttora estranei gli apporti così detti minori (se è lecito ipotizzare una scala di valori comunque riferita ai contenuti) che, affidandosi a collaboratori con impegno culturale più che mercantile, non si avvantaggiano dei comuni canali di propaganda e di dif-fusione (stampa, fidejussori autorevoli, agenzie librarie ... ), rimanendo il più volte ignorati dalla Bibliografia generale.

E’ il caso degli studi di storia contemporanea relativi al processo di for-mazione nazionale, chiamati a dignità scientifica in Puglia con il costituirsi dei Comitati dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, promossi da Giuseppe Petraglione, e sostenuti dalla Società di Storia Patria, dalla Società Dauna di Cultura e dallo Studio Editoriale Dauno.

Si deve a quest’ultimo laboratorio la « Biblioteca del Risorgimento Pu-gliese » edita in Foggia col platonico patrocinio del predetto Istituto, e dilatatasi in prosieguo di tempo nella collana « Quaderni di Risorgimento meridionale », curata dal Centro per la Editoria Scolastica e Popolare (Napoli).

Allo Studio e al Centro dobbiamo il « fissaggio » di una serie di temi, che hanno dato nome alle pubblicazioni che ci è gradito segnalare in questa rasse-gna cui si affida la duplice funzione di documento e di incentivo specie verso i giovani, per convogliarli verso ulteriori ricerche e attese sintesi.

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I titoli compresi in questa miscellanea sono autentici e autorevoli contributi alla Bibliografia risorgimentale, non risultando mai prima d’oggi trattati « ex profes-so ».

La redazione dei testi e il corredo delle note dei documenti e degli indici cor-rispondono ai canoni della più severa storiografia; le tavole figurate risultano scelte e collocate in modo di corrispondere insieme ai moderni canoni culturali ed estetici, sì da costituire un altro pregio editoriale con la stampa equilibrata e pulita.

25 APRILE 1971

Quest’intervento oratorio non vuole, non può, né dev’essere meramente

convenzionale e decorativo; tanto meno può avvalersi della letteratura epica sulla Resistenza e la Liberazione. D’altra parte, non considerandomi uno storico e non volendo usurparne le prerogative, mi astengo da ogni altra considerazione che so-pravvanzi la mia qualità di amministratore e i miei limiti di studioso.

Non è mio compito risfogliare le pagine d’oro della Resistenza armata e della Liberazione, che contribuiscono a costituire il patrimonio sapienziale di tutti i Po-poli. Sono ormai noti i nomi nostri conterranei, confessori e testimoni della fede civile, combattenti oscuri o martiri consacrati. Tra questi ultimi gli umili figli del popolo lucerino, padre e figlio Bucci, caduti abbracciati in catene alle Fosse Ardea-tine, e il giurisperito Teodato Albanese di Cerignola, di nobile parentado, anch’egli, come i primi, vittima del medesimo eccidio, eppure tutti tre cresciuti nel fascismo e co-me tutti noi delusi, traditi, disingannati e contestatori.

Naturalmente anche noi vogliamo elevare un peana per il nuovo trionfo de-gli eterni valori evangelici su la brutalità degli ultimi pagani d’Europa. Ma quei valo-ri li andremo a cercare e riconoscere nell’area della vita civile dei nostri paesi, tutti impegnati nella lotta di Liberazione.

Ricorderemo come, nonostante gli annunci premonitori della strage, sotto forma di adesione all’Asse e di mobilitazione degli spiriti, di richiami ai doveri e di catechismi di resistenza civile, le nostre popolazioni furono lasciate indifese e quin-di abbandonate dai poteri centrali all’arbitrio dei tedeschi e poi alla ignoranza degli alleati che, nonostante i loro uffici psicologici, male ci amministrarono nei due pe-riodi dell’Amgot e della successiva Commissione di controllo.

Foggia contro le leggi di guerra, fu tutta un deposito tedesco di armi ed ar-mati; nella villa, in alberghi si mascherava un reparto corazzato: fu pertanto, con-dannata alla distruzione.

Sopraggiunti i « liberatori », non alleviarono di certo le condizioni del popolo innocente, occupando gli immobili risparmiati dai bombardamenti, riversandone in strada il contenuto, sottratosi agli « sciacalli ».

Di questo nostro contributo mi tocca parlare, ignorato dalla storia della lotta armata, degli oscuri eroi e martiri caduti sotto le macerie

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delle loro case o scacciatine e umiliati, senza protezione e costretti a rinunce spesso degradanti della dignità umana e civile.

Nel vasto e profondo panorama della Resistenza e della Liberazione, ol-tre le vite e le gesta degne di Plutarco, deve trovar posto il contributo spirituale e materiale dato dalla nostra gente umile.

E’ vero: non possiamo vantare gli scioperi politici, che hanno qualificato la lotta nel Nord, le sue azioni partigiane, il sacrificio di uomini subìto con le deportazioni, le torture, le stragi collettive e le esecuzioni individuali; la distru-zione o il danneggiamento dei luoghi di produzione e di lavoro.

Aggiungo che, per la preminente fisionomia agricola e marittima della nostra provincia, abbiamo patito meno le conseguenze delle misure condiziona-trici dell’alimentazione e degli altri approvvigionamenti.

Purtuttavia, la Capitanata ha pagato un oneroso contributo alla sua libe-razione. Si dice questo non per presentare il conto alla Repubblica, ma per chiederci se facemmo interamente il nostro dovere, se dobbiamo rimproverarci qualcosa.

I sacrifici della guerra non finirono con la liberazione. Dal primo sbarco alleato a Manfredonia fino alla resa tedesca, il Tavoliere si offrì alla offensiva apocalittica dell’arma aera, accogliendo la più grande base di lancio mai realizza-ta, dalla quale s’irradiarono gli stormi per l’Europa, fino agli estremi avamposti in Russia; avamposti alimentati con gli altri servizi mobili, dai sifoni di carbu-rante del nostro Golfo e per le condotte da esso partenti.

Una formidabile macchina bellica, e un corrispondente mastodontico apparato di attribuzioni amministrative e civili - in gran parte affidati alla lealtà delle popolazioni - che non subirono danni, così come non si verificarono epi-sodi di malavita e la prostituzione risultò quasi tutta importata.

Le popolazioni, costrette a sfollare i paesi o a ridursi in difesa fino alla ri-tirata tedesca, seppero autoamministrarsi mirabilmente, tagliati fuori dai centri decisionali, disseminati senza alcun criterio razionale a Bovino, a S. Severo, a Troia, a Lucera: e questo nonostante i grandi preparativi all’intervento armato e alla organizzazione del fronte civile.

Si può dire che fossero duramente provate non tanto dalla guerra quanto dalla liberazione e dalla ricostruzione. Ogni discorso diventò sempre più diffici-le e arduo - bisogna riconoscerlo - fu il travaglio dei Comitati di Liberazione Nazionale.

Foggia, largamente lacerata e disabitata, si ripopolò lentamente, per infil-trazione, essendo luogo militarizzato. Con lo stesso sentimento e slancio di ri-presa; il tronco ferroviario di Manfredonia, anch’esso militarizzato, fu intelli-gentemente usato dalla popolazione, e Manfredonia stessa si affermò anche in un’altra direzione, dotandosi delle sezioni distaccate di alcuni istituti del Capo-luogo, apprestando sedi e attrezzature anche per pubblica sottoscrizione: raro esempio d’iniziativa locale, estranei i pubblici poteri.

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E che dire del nostro comportamento politico? Inganni, ingiustizia e anche violenze, e non soltanto morali, non erano mancati durante il ventennio: non pochi, anche innocenti « fuor della mischia » avevano pagato lo scotto, così come in ogni trapasso da regime a regime. Purtuttavia non vi fu reazione.

Nessun fascista si mostrò pervicace, tutti essendosi affrettati ad accettare l’ordine nuovo.

Nessun antifascista profittò delle condizioni vantaggiose in cui lo mettevano le circostanze.

A quanto mi risulta, la Polizia alleata chiese invano liste di proscrizioni. Se alcuno si prestò al ruolo d’informatore, lo fece non per vendetta politica, ma per comodo personale.

Non soltanto, perché al tempo dei procedimenti contro i fascisti responsabili di aver strafatto, esponenti medesimi dei C.L.N. operarono a favore dei principali accusati, concorrendo al loro salvataggio, come i viventi tra essi testimoniano con la pratica più larga delle libertà democratiche delle quali, in verità, mostrano di non abusare e, vorrei dire, hanno così bene profittato da assumere anche ruoli di presti-gio.

LA CADUTA DEL FASCISMO

Non produsse traumi di particolare gravità. Anche da noi, come in tutto il

Mezzogiorno, dopo la prima sfuriata squadrista di Cerignola e Sansevero, il PNF si era burocratizzato così bene, che dopo il 25 luglio andò in fumo come i registri e gli schedari dei suoi uffici.

Questa eclissi può farei porre una domanda: se da noi lo squadrismo fu dav-vero un movimento politico promosso o finanziato dagli agrari, dai reazionari, op-pure un movimento di disoccupati - volontari o coatti - tra i più facinorosi, capita-nato da furbi, che lasciarono loro le spine della conquista, a guisa delle bande che il 1799 scesero dal Gargano a Manfredonia e raggiunsero la colonna del Ruffo a Bo-vino.

Certo che di tutti i promotori e degli altri protagonisti di quel fascismo in Capitanata non è rimasto traccia e nemmeno il ricordo, sì che sarebbe lieto chiedere su quali eredità di spirito o di realizzazioni può razionalmente e legittimamente fondarsi un movimento eversivo, che si appelli a un passato senza monumenti.

Ma che vi siano o non vi siano motivi, non dico di frizione sociale e di po-lemica politica, fatali, indispensabili alla vita di una nazione civile, da politici re-sponsabili ci sembra che il modo migliore di celebrare questa e tutte le altre date della Resistenza e della Liberazione siano il rifiuto della retorica e l’invito a reprime-re ogni impulso, sia pure giustificato, sia pure rivolto soltanto a respingere la vio-lenza e non anche ad eliminare le contraddizioni, spesso corruttori degli uomini di buona fede, tanto da farli indulgere - se non ad aderire - alle iniziative dei facinoro-si.

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Dev’essere nostro impegno - nostra la fedeltà ad esso - di usare i mezzi conosciuti, e nuovi esercitarne, per sostituire una nuova coscienza politica alla coazione della legge.

Noi non sappiamo quanti degli Italiani, oggi trascinati a denigrare la Pa-tria con la violenza, provengono dalle generazioni così dette fasciste. Sì, nei cor-tei, che usiamo chiamare di destra, non mancano uomini maturi, così come non mancarono i bonapartisti dopo la caduta di Napoleone. Ma questi erano i fede-lissimi del Corso, del quale avevano spartito il sonno, le fatiche, i pericoli, di un capo, che aveva combattuto fino all’ultimo, di « colonnelli », che non avevano mai rinnegato il generale.

DISEGNO DI UN « LIBRO DELLA MIA GENTE »

(Manfredonia, 29 novembre 1970) Anzitutto, qual’è la mia gente? Alla porta dei 70 anni, posso dire senza

retorica che non riesco più a « battere » a favore dei Manfredoni, i Montanari o i Napoletani o i Foggiani. Ai Manfredoni mi sono sentito figlio e innamorato, da struggermi fino al 1967.

Napoli ho incominciato nel 1954 a frequentarla, per svolgervi attività editoriale; a Monte Sant’Angelo mi sono relegato quando vi fui sfrattato da Foggia per la guerra nel 1943.

Di tutto questo dirò in appendice, augurandomi adesso di rimanere fede-le al tema e parlare pluralmente degli altri, del « prossimo ».

Da giovanotto (1922) entrato nel movimento repubblicano sono per la federazione dei popoli, alla Mazzini e alla Cattaneo. Quindi non ho più concepito barriere, che non fossero geografiche.

Fin da ragazzo mi sono sentito legato alla gente umile, incontrandola nei locali di mio padre, che era commerciante all’ingrosso.

Vi trovavo i vetturali, che ritiravano le merci, i marinai delle barche, che trafficavano con Vieste, Bari e la Dalmazia, questa fornitrice soprattutto di le-gname, i « vastasi » (facchini che, singolarmente o a squadre, facevano la spola tra le barche - o il piccolo piroscafo « Puglia » - e i carretti, tra questi e i deposi-ti).

Erano esseri in movimento, dei quali, ragazzo, non potevo cogliere quel-la umanità commovente, che poi mi si sarebbe rilevata.

Mio nonno, mal consigliato, si era reso aggiudicatario di un fondo rusti-co in località « Pagliete ». Ad esso per molti anni rimase condizionata la serenità della mia famiglia. Masseria malsana, lungi dalla via maestra, e raggiungibile solo per un tratturo in servitù, infestata da zanzare, arvicole, pulci, erbe parassitarie, mancante di acqua potabile, isterilita da lunghi periodi di siccità o di inondazio-ne. Amara la terra, livido il paesaggio, stagnante e muta l’atmosfera: un invito alla pazzia e alla morte. Imparai molto tardi a chiamare tutte queste cose con il vero loro nome, ma ragazzo, vedendole tutte disegnate nelle carni

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Mario Simone a colloquio con pescatori in pensione (Manfredonia – 1971)

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di due poveri uomini, ne rimasi talmente conquiso, che posso attribuire proprio a loro la mia giovanile vocazione populista, poi concretizzatasi nella partecipa-zione al movimento repubblicano (1921).

Tizio e Caio erano i fittuari della masseria. Il contratto prevedeva l’estaglio in danaro, a pagarsi in breve termine, dopo il raccolto.

Il tema della « masseria », risuonava in casa poche volte come il tocco di una campana a morte, che mio padre si sforzava di non udire. Eppure con quei tocchi dal 1916 e per oltre 15 anni tirò avanti la mia famiglia, ché la piccola ren-dita agraria, con quella di alcune case, di mano in mano alienate, sopperì al dan-no prodotto dalla cessazione dell’attività mercantile, causato dalla guerra di Trento e Trieste.

Ma più che di questo, oggi, mi piace parlare della mia inconscia vocazio-ne per la causa proletaria.

Perché l’amaro, che arrivava in casa da quel desolato luogo, mi produce-va sensazioni come quella che più tardi avrei ricavato dalla narrativa russa?

Quanto più mio padre malediceva « quella campagna », tanto più mi ve-niva di rappresentarla con tutti i suoi malanni e di amarla come avrei amato un innocente condannato a soffrire.

Questo amore si acuiva in due circostanze: a Pasqua, con l’arrivo dell’agnello, del formaggio e delle ricotte; a giugno, per regolamento dei conti.

E venne l’ora dell’atteso incontro, di maggio, verso il ‘19. Il calesse, era il veicolo leggero e dalle grandi ruote, più idoneo al difficoltoso itinerario. Vi pre-si posto con Francesco, nostro cocchiere, e un mastro d’ascia per certe ripara-zioni a farsi, e dopo due ore mi trovai ad approdare innanzi l’edificio a un solo piano, che comprendeva: la stalla per i cavalli e i carretti, il magazzino di deposito degli attrezzi e delle semenze, il dormitorio della gente e si prolungava con una tettoia, sostenuta da pilastri e chiusa in tre lati, che era il riparo delle vacche e delle pecore, fienile insieme e deposito di letame.

Partiti col sole basso, arrivati verso le sette, l’atmosfera era ancora respi-rabile, ma tutto diceva miseria, desolazione e tristezza, dalla fabbrica, messa su in economia e mal tenuta, al pozzo secco, con il boccale quasi a fiori di terra, al pollaio colmo di stabbio, al riparo, vuoto di animali e invaso dalle erbe parassi-te, con i festoni di fuliggine, pendenti dalla tettoia, tesi tra i vani delle finestre e finanche sulla porta d’ingresso.

Quando entrai nel dormitorio, che era la dimora dei fittuari (un lettaccio con baldacchino e sporche tende in giro, per difendersi dalle zanzare), avendo le gambe nude, me le sentii avvolgere come da un velo, erano le pulci, allevate in luogo con generosità commovente.

TESTIMONIANZE PER FORMIGGINI

Trent’anni dopo la sua scomparsa, Angelo Fortunato Formiggini è anco-

ra in piedi nel mio ricordo. Si consenta che lo rievochi nel bollettino che, affidato alla mia consulenza grafica, riflette l’amore e l’arte

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trasfusimi da quel loro maestro editore e papà della bibliofilia e bibliografia. Non era pugliese. Di Malena figlio tenace e servizievole (famose le spiritose

celebrazioni tressoriane da lui organizzate con stile inimitabile), abbandonato la toga cui non si prestavano le spalle, intolleranti degli onori della Giurisprudenza, s’era fatto editore e, come tale, dopo una esperienza s’era insediato sul Campido-glio.

Era lì la sua « casa del ridere », editrice versata in cose, da cui presiedeva la più fine condizione irrinunciabile di una vita interamente dedicata al godimento del genere umano, se sapere è felicità e suo combattere è il leggere.

Amare gli Italiani a questa funzione! Non v’eran mezzi che bastassero, di quelli usuali, forse sperimentati e certamente falliti. Sorse quindi una voce affidata ad una rivista, « L’Italia che scrive » in sigla I.C.S., gaietta e robusta », che penetrata subito tra editore e librai sboccò subito tra i lettori più refrattari e molti ne raggiun-se lontano, eccitandoli non soltanto a seguire da vicino nelle sue colonne il moto degli astri guidati dagli stampatori nazionali e forestieri ma anche innamorando a quella scienza nuova da essa rappresentata e svolta, quale era la bibliografia.

Stanchi di liceo, senza nemmeno la possibilità di conoscere attività so-cio-educative e scolastiche, un compagno che aveva studiato a Napoli ed io reduce dal foggiano « Lanza » ci esaltammo tra le pagine di quella rassegna che una volta il mese ci recava in provincia le novità librarie sul filo di un discorso brillante per noi nuovissimo.

IN TRIBUNALE a Roma

Avevo il proposito onesto di svolgere una severa pratica forense, servendo

in tutto, anche nelle mansioni umili, un avvocato-docente; non ebbi la fortuna di farmi adottare da qualcuno ben disposto a considerarmi e trattarmi da apprendista.

Senza dubbio influirono l’età (ho fatto gli esami di procuratore a 25 anni!), il modo di presentarmi e tenere i rapporti sociali, la presunzione di essere pubblicista o che so altro, un certo aspetto e comportamento professorale. Pur non sapendo distinguere, forse, due requisitorie nei diversi riti, sommario e formale, frequentavo tribunali e corti a fianco di maestri vecchi e non, con i quali si finiva col confon-dermi: Conti, Niccolai, Trozzi, Russo... e i giovani - diciamo così - de « I Rostri »: Berdini, Liuzzi...

A darmi importanza concorsero le prestazioni, sia pur modeste, ai « Reperto-ri » de « Il foro italiano », la rappresentanza nella capitale de « Il tribunale », diretto a Napoli dal collega Gaetano Grimaldi-Fifioli, le edizioni dell’« Almanacco giuridi-co-forense » o « Lunario della toga » da me inventato.

D’altra parte mi suggestionavano le dimensioni e la sede princi-

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pale (monumentale palazzo di giustizia a Piazza Cavour) dell'attività forense, i piacevoli rapporti con molti suoi autorevoli esponenti, l'aspirazione di seguirne le orme, sull'esempio dei veri maestri.

a Foggia

Da Roma a Foggia: un trauma. E' in provincia che ad un esordiente

giudiziario appalesa il suo vero contenuto, non avendo, per celarlo, i paludamenti cittadini (nella grande « provincia » meridionale comprendo anche il foro di Napoli, del quale è tipico riflesso Giovanni Leone).

« FIAMMA » di Guido Guido

Una domenica del mio primo anno romano (1921), in casa di Alfredo

Petrucci conobbi lo scultore galatinese Gaetano Martinez. Anch'egli antifascista, non fu difficile intenderci e volerci bene nell'aurea romantica della Roma ottocentesca, che mi piaceva rievocare.

Dico meglio di lui al capitolo che gli s'intitola, volendo qui solo occuparmi della Casa d'arte « Fiamma », dove mi introdusse, trovandovisi allestita una sua « personale ». Occupava alcuni vani terranei di un basso edificio in fondo a destra di Piazza Venezia, sull'area oggi occupata dall'esedra verde, con la quale i competenti uffici capitolini eliminarono lo squallore che cingeva il « Vittoriano », esaudendo, bisogna riconoscere, una delle sociali ambizioni di Mussolini.

Geniale padrone di casa, era esperto di belle arti, Guido Guido, oriundo foggiano, del quale avevo conosciuto alcuni congiunti: un capostazione in servizio a Manfredonia, una brunissima ragazza e suo fratello, che parteciparono alla nostra filodrammatica. Con lo stesso nome, « Fiamma », l'istituzione, che ospitava mostre individuali e collettive, pubblicava una rivistina in funzione- delle sue attività artistiche e mercantili.

Nei primi tempi romani, adempiuti al mattino i doveri scolastici alla Sapienza, trascorsi tutto il mio tempo libero tra gli uffici del PRI, la « Voce Repubblicana » e quella Casa d'arte. Qui, sul tardo pomeriggio, si trattenevano, o solo transitavano, artisti e belle donne, tra le quali appetitose modelle in cerca di ingaggio, e studenti dell'Accademia.

Martinez era uno dei frequentatori più assidui; vi trascorreva lunghe ore, taciturno, con l'aria imbambolata di chi non mangia ogni giorno e ad ora fissa, e finisce col perdere l'appetito. Se parlava, la voce sottile, metallica e sincopata, sorprendeva e la si stimolava ed eccitava, per l'ironia, che coloriva ogni esperienza. Le donne più spiritose avrebbero voluto provarsi con quell’eccentrico linguaggio, tutto salentino, tutto Martinez, che lo faceva rimbalzare su se stesso, impietosamente. Ma era tipo che tagliava corto, un riccio, che presto si ritirava, armando gli aculei, per isolarsi nella tristezza del povero

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ragazzo di provincia, quale sentiva di essere rimasto, nonostante le grandi ambizioni.

In quell'ambiente, oltre che nel sodalizio di Alfredo Petrucci, nutrendomi di arti figurative, integrai la mia educazione artistica che a Manfredonia si era iniziata a contatto con le antichità sipontine (architettura e scultura romanico-pugliese).

Non posso dir molto del Guida che, sempre indaffarato, mostrava di non aver tempo da spendere in conversazioni con coloro che facevano solo circolo nel suo locale, anche se concorrevano ad animare le sue manifestazioni.

Non ricordo nomi di frequentatori, sebbene ad alcuni di essi riesca a dare volti e voci, come quelli dolcissimi di una vivace e laccata signora bionda, che, rientrando a casa, si faceva accompagnare fino al portone di casa, per godere il solletico dei bacetti, che mi aveva insegnato a darle nel cavo delle mani di bambina.

LIBRI E CARTE: EREDITA' PAVENTATE

« Cambiamo casa » mi disse un giorno Vincenzo Tangaro « ho iniziato la

distruzione dei miei scartabelli, l'ossessione di mia nuora ». E un figlio di Piero Delfino Pesce: « Le carte di mio padre? Sono nel suo studio così come le ha lasciate. Nessuno di noi ha avuto il coraggio di mettervi mano ».

Su questo ritmo è il ritornello di quasi tutti gli eredi di coloro che, essendo stati « qualcuno », hanno dubitato di essere fisicamente mortali e, potendolo, non hanno dato una destinazione civile alle loro cose di cultura.

Ma vi sono casi molto più gravi, come quello delle figlie di uno scrittore e famoso agitatore politico del Gargano, le quali insolentiscono ad ogni richiesta di informazioni sul « de cuius », cui non hanno mai perdonato la rinunzia per « i suoi strambi principi politici », alla posizione privilegiata che gli spettava in paese, quale professionista.

Nel paragrafo dedicato a Giovanni Tancredi non mancherò, spero, di ricordare la sorte toccata alla sua biblioteca. Dirò, frattanto, che anche egli commise la ingenuità di morire senza aver assicurato un degno avvenire alle sue raccolte, compresi i manoscritti inediti. Purtroppo egli non è stato l'ultimo della lunga serie, che comprende tra i molti: Fioritto di S. Nicandro G., Del Viscio di Vico G., Centoza di Cagnano V., Petrone e Caruso di Vieste, Del Giudice di Rodi, Capparelli, Pascale e Bellucci di Manfredonia, Rosario di Ascoli S., Maurea di Chieuti, Cerulli di Celenza Valfortore, F. M. Pugliese di Cerignola, Umberto Fraccacreta di San Severo, Serrilli di S. Marco in Lamis.

Ma sentite questa. Verso il 1940 viveva a Napoli Pietro Panzini, il vecchio - e discutibile -

deputato repubblicano di Molfetta. Era stato discepolo e collaboratore di Luigi Zuppetta, personaggio che mi aveva molto incuriosito soprattutto per la storiografia; fino a quando non lo riesumai, pro-

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muovendo le onoranze dalla nativa Castelnuovo della Daunia. Vecchio Panzini era ospite di una nipote maritata a Napoli, quartiere Sanità. Costei, quante volte bussai alla sua porta, trovava una risposta buona per licenziarmi: l'onorevole era indisposto a letto o era uscito, fino a quando potè notificarmene il decesso. « Ma che volevate » mi chiese l'ultima volta. « Potrei vedere i libri, le carte che ha lasciato »? « Sicuramente, ma chi ha tempo di aprire la cassa, dove si trova tutta la sua roba? ». « E la carabina del suo maestro Zuppetta » - « Proprio .ieri mio marito l'ha portata allo stagnaro; si è rotta perché ci gioca il mio bambino »!

Ma questi non sono nemmeno i casi-limite, perché più gravi e scandalosi « casi » potrei proporre a cattivo esempio, per indurre gli anziani a rivolgere alle loro cose culturali quel rispetto, che meritano.

Non solo gli eredi di famiglia, ma anche quelli pubblici si rendono colpevoli, a volte anche penalmente del cattivo uso fatto di cose loro destinate in donazione o successione. E sarei per dire che con la loro responsabilità concorre l'indifferenza della opinione pubblica, che nei nostri paesi lascia tutto correre alla deriva, nonostante la presenza dei partiti, tutti bene alienanti nelle loro beghe.

Questo mio sproloquio è rivolto a tre obiettivi: 1) a convincere gli anziani che i loro beni culturali sono conquista della comunità, che pertanto è in diritto di usarli quando vengono lasciati ad amministratori incapaci; 2) a indurre gli enti (comuni, biblioteche, centri di cultura ... ) a sperimentare ogni mezzo, per assicurarsi in via legale la destinazione ad uso pubblico delle biblioteche, degli archivi, di ogni altra raccolta privata; 3) a vigilare perché, raggiunti i primi due obiettivi. non siano abbandonati all'azione corrosiva dell'ambiente.

IL FORO ITALIANO

Ero a Roma. Giulio Andrea Belloni mi procurò l'amicizia di Corrado

Perris, nostro coetaneo, di famiglia napoletana, trasferitosi a Roma (un fratello era dirigente all'Istituto intern. d'Agricoltura che andava a rappresentare, anche all'estero, come in Cina).

Giovane modernissimo, simpatico, aperto e colto tra i pochi esperti di lingua e cultura russa e, come tale, essendo laureato in diritto, per lo studio giuridico forense di Gennaro Escobedi e la sua grande rivista “ La giustizia penale” , curava i rapporti culturali con l'U.R.S.S. e le rubriche di dottrine e giurisprudenza sovietiche.

Debbo a lui, come a Belloni, la « cotta » per la gius-pubblicistica, che mi avrebbe portato senza dubbio lontano, se avessi avuto l'ambizione della carriera scientifica.

Perris era legato da rapporti amichevoli - non ho mai capito se centrasse la politica -col dottor Carlo Sequi, giovane sardo che alla editrice del « Foro Italiano » curava i repertori di giurisprudenza e di bibliografia delle sue prestigiose edizioni. Factotum della editrice

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era il comm. Carlo Scialoia, nipote del grande Vittorio; un uomo di prim'ordine, per formazione morale e professionale. Fui ammesso in quella specie di università del pubblicismo giuridico con l'incarico di « estrarre » le massime delle sentenze penali, ordinarle alfabeticamente per voci, correderle di richiami a precedenti giurisprudicati e bibliografici. Compenso: venti centesimi la massima. Questa mia collaborazione risulta dai frontespizi dei due volumi, che raccolgono i « Repertori del Foro Italiano degli anni 1936.

Nella primavera ricevetti la visita dello Scialoia. Seduto al mio posto dietro il tavolo da lavoro, mentre arrotolava una sigaretta, puntandomi in viso gli occhi che sembrarono sgranati sempre a sorpresa: « Lei ci tiene tanto a questo suo diritto penale? Non accetterebbe per due tre anni la nuova cattedra di diritto agrario in Sardegna? Mi impegnerei ad assicurarle l'incarico e la definitiva sistemazione in Italia dopo il breve periodo di... esilio ».

Chiesi un termine: esaminai la situazione di famiglia, la inopportunità di un trasloco nell'isola e la impossibilità economica di mantenere la casa a Roma; ma sopratutto non riuscii a liberarmi dalla suggestione del foro penale, cui mi sentivo incline.

Scialoia non insistette, ma non mi sentii più interamente degno della sua amicizia e fiducia, che avevo deluso.

Così rimase in boccio il professore universitario!

LA MIA « FORMAZIONE GARIBALDINA » (18-10-72 in treno per Napoli)

Mia nonna materna fu Teresa Salentini di Napoli, appartenente a buona

famiglia borbonica, imparentata con il Capocelatro: parlava francese e, come tutti i « prossimi » alla real corte, beccava « Franceschiello » per la sua timidezza di re e di marito. Conobbi due germani di questa donna vivacissima: un Francesco, chiamato « Ciccillo » e una Virginia, vedova di . . . . . Lazzaro, . . . . . .

Ignoro perché queste due famiglie decadessero con l'Unità: se per cause politiche o per la morte o la invalidità dei loro capi. Credo di poter fissare il ricordo dei Lazzaro ai miei undici-dodici anni e descriverli così: la casa linda con la suppellettile modesta, un salottino ove tutto era coperto da tende e giornali; il ritratto di un personaggio barbuto, chiamato con rispetto ed orgoglio « nostro padre ». In un lettino, difeso ai bordi da ringhiera - quasi culla anche per le dimensioni - Virginia, la « mammà », molto vecchia, piccola piccola, rosea e demente; tre figlie zitellone: Benita, Fedora (poi sposa e madre) e Ginevra impiegata ai telegrafi.

Zio Ciccillo - 70 - 80 anni - si fermava spesso dai miei nonni per la « tazzulella » di caffè, che sorbiva - sprofondato in poltrona dopo averlo versato nel piattino. Come mia nonna, era molto faceto. Entrambi spiritosamente - meglio dire « napoletanamente » - accu-

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savano Garibaldi di averli rovinati, avendo aperto la via ai Piemontesi e… alle tasse.

Di un altro fratello - Annibale - si diceva che, prima garibaldino, poi tenente del Genio nell'esercito regio, mandato sul Gargano a fare strade, era caduto per piombo di briganti. Ne scoprirà la tomba a San Marco in Lamis mio padre il 1913.

* * *

Questi ricordi furono la prima eco per il mio cuore infantile che - a

differenza dell'epopea garibaldina, tutta freschezza giovanile, calore, musica e movimento -non potè subito palpitare agli accenni familiari del « travaglio » carbonico dei Simone al tempo dei moti liberali nel Mezzogiorno. Gargano (1821 e 1848).

Ed eccomi conquiso dalle tavole del « Garibaldi », della Jessi Mario, oggi raro, da noi posseduto prima che qualche amico, con la scusa del prestito, non lo aggregasse alla sua libreria; eccomi nei frequenti viaggi a Napoli dai nonni, ancora fanciullo, attendere vigile che si profilasse l'acquedotto di Carlo III detto « ponti della valle » (di Maddaloni), per trovarmi puntuale a scattare in piedi quando, oltre l'arcata aperto al suo passaggio, il convoglio rasentava la radura col monumento ai Caduti nella battaglia del Volturno.

REPUBBLICANESIMO E PROLETARIATO

La iniziativa repubblicana concorde (sic) e si svolge col movimento

proletariato », ma se ne distingue: non mi spetta in questa sede delineare un quadro del movimento operaio e contadino.

A Manfredonia la iniziativa repubblicana rinvigorisce con motivi culturali l'organizzazione proletaria che ne è sprovveduta per la lontananza dei suoi giovani promotori - Castigliego, De Marzo, Melucco-e per l'abulia di chi era loro succeduto.

Elezioni 1921 1) Comizio Natali accompagnato fino alla Stazione campagna. 2) Celebrazione XX settembre. Pesce, X marzo 1922.

Uniche e sole manifestazioni rosse

Verifica insegnamento Mazziniano: col Popolo e per il Popolo e intuizione legge politica esterna che quando casa brucia cessa l'accademia e

la sostituisce la costituente di tutti gli oppressi, affratellati dal dolore.

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Dolore Quale poteva ispirare e muovere i Repubblicani? Non vi erano, tra loro, di condizioni servile. Estrazione borghese, mercantile, artigianale, indipendenti. E anche un

prete! Avevano da perdere, non da guadagnare. Purtuttavia, oppressi dalle quotidiane manifestazioni periferiche, cioè

locali, dall'ordinamento statale imposto alle provincie; liberate e da Garibaldi donate al Savoiardo caracollante a Teano, origine delle nostre nuove e non ultime sventure.

Effetti della conquista piemontese. Ulteriore degradazione della vita pubblica, dominata da gruppi di potere. Pantano solo agitato dall'alito dell'affarismo e della conservazione. Atmosfera irrespirabile, vita meschina di pettegolezzi, conformismo,

rinuncia-alienazione, analfabetismo, indifferenza verso la cultura. Municipalismo più gretto.

PROCESSO DI POLITICIZZAZIONE 1) Rivelazione degli obiettivi e degli strumenti; 2) Mobilitazione degli spiriti, per la loro acquisizione e utilizzazione; 3) Piano di applicazione e strategia di svolgimento. - Tecnici moderni, quali i raffinati marxisti. - Noi imparammo da Mazzini, Cattaneo e, per ultimo, Pisacane, che li hanno

preceduti e li sopravvanzano. - Per ciò non si rimase nelle nuvole e si applicò la cultura politica alla vita

municipale. - Inutili episodi.

ALL'INSEGNA DELLA COERENZA

Fummo corteggiati dal fascismo cerignolano, che aveva origini

romantiche e repubblicane. Non passammo il ponte lanciatoci. Lottando contro i municipali, guadagnammo come alleati anche i

Combattenti, che alla fine si eran dato un capo, preparato e volitivo. Ma rifiutammo la proposta soluzione di un fronte unico e di una lista

unica, per la conquista del Comune, che si profilava sicura.

P. C. I. Al tempo del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) il PCI ebbe a

Manfredonia un ispiratore e organizzatore in Federico Rolfi, uno della vigilia comunista di Foggia, arricchitosi durante il fascismo

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Mario Simone docente in un corso per animatori di biblioteche, organizzato dal C.S.C. Società Umanitaria di Manfredonia (1970)

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col duro lavoro di artigiano tappezziere e di commerciante (sarà selvaggiamente criticato anche in documenti a stampa dall'ex-compagno, Romeo Mangano, ferroviere, servitore dell'OVRA e, dopo il 25 luglio, furbescamente nominatosi capo di una fantomatica centrale foggiana della Internazionale).

A Manfredonia era numeroso e attivo anche il Partito d'Azione, nel quadro di una federazione provinciale da me organizzata, sulla base di sezioni e gruppi, quasi in tutti i comuni dauni: tessere pagate nel 1944 circa 5.500! Esponenti dei Partito a Manfredonia l'avv. Michele Lanzetta, il rag. Vincenzo Bissanti...

Lanzetta, commissario e poi sindaco della Città, per temperamento e per mancanza di tempo, sembrava tutto preso a ridurre sempre più la presenza politica, facendosi assorbire dalle cure municipali, rese pressanti dal difficile dialogo con gli Alleati.

Più volitivo e sensibile alle esigenze e ai problemi della organizzazione era il Rolfi, che poteva permettersi certe « invadenze », che in diversa situazione certamente non si sarebbe permesso.

Militava con noi azionisti il rag. Michele Magno, rientrato dalla prigionia. Egli trovò in mezzo a noi alcuni bravi lavoratori che, allo scioglimento del Partito di Parri, come lui avrebbero scelta la via più sicura del socialismo, iscrivendosi al Partito di Togliatti, che rappresentava allora la logica della situazione italiana.

Svanito in un mare di chiacchiere il Partito d'Azione, nauseato e scontento (vedi « Partito d'Azione ») - pur senza cedere al « qualunquismo » - mi dedicai esclusivamente alle cose di cultura, lasciando così indebolire i rapporti personali con i vecchi compagni ed amici. Essi d'altra parte, non se ne afflissero, curandosi ben poco di me, fino a mostrare di ignorarmi in tante occasioni.

Falliti i tentativi di collaborazione con amici della sinistra popolare dovei purtuttavia frequentare Luigi Allegato (vedi « Allegato ») e la « Provincia », della quale curavo le edizioni, mentre a Roma, frequentando Montecitorio, ove feci un lavoro agli « Studi Legislativi », potei incontrarmi alcune volte con Terracini e Di Vittorio.

Assurto ad esponente e a parlamentare comunista di Manfredonia, Michele Magno non mi negò mai la sua cordialità, quante volte c'incontravamo in treno sulle strade di Manfredonia o di Roma. Mai, però, una conversazione politica, mai una stampa che dicesse di lui o, almeno del suo partito.

Non dovei stentare, pertanto, allorché alla morte del grande proletario di Cerignola, gli proposi di scrivere un articolo per « la Capitanata ».

GLI EVANGELICI racconto di Borgomastro

Verso il 1929 si registrano le prime presenze di cattolici dissidenti. Si

trattava di lavoratori che, incontratisi in campagna con un

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loro simile di S. Giovanni R., erano stati sensibili alla loro propaganda religiosa. Quegli stessi lavoratori di Manfredonia si fecero zelanti diffusori delle

nozioni recepite, e riuscirono a formare un gruppo che si riuniva in casa per la lettura e lo svolgimento dei sacri testi. Si firmarono così « riunioni » di preghiera che, dopo una certa pratica autonoma, presero contatto con altri gruppi di paesi vicini (soprattutto di Foggia) ove da qualche tempo agivano le « Assemblee libere dei fratelli ».

Questi rapporti contribuirono a incoraggiare l'iniziativa di Manfredonia che si andò sempre più sviluppando, richiamando in tal modo la considerazione e l'intervento di missionari evangelici, che contribuirono a sostanziare di cultura il movimento locale.

Verso il 1940 questo movimento, forse per insinuazione di elementi fanatici di parrocchia, fu preso di mira dalla polizia, che lo qualificò senz'altro come politico e antifascista.

Furono arrestati cinque uomini e tenuti in carcere otto giorni, nel corso delle indagini, che si conclusero negativamente, per mancanza di prove. (Nomi?)

Con l'arresto furono sequestrati libri di fede, quasi che ne potesse scaturire la prova del dissenso politico.

In questa occasione operò l'Ente Morale (dei Fratelli) con sede in Firenze.

BORGOMASTRO

Figlio di Ciro, con bottega di falegname in via S. Francesco, deceduto, il

1944, lasciando Michele, più grande, (studiava per geometra) che, abbandonata la scuola, si mise al lavoro.

Compagni un colonello Adabbo (fratello del prof. Tommaso), Fabiano, D'Andrea (sindaco). . .

Sposate le sorelle, lavorando e studiando la notte, licenza abilitazione magistrale 1954, subito contabile cooperativa Sant'Abrogio, fondata dal fratello.

Primi 48 aderiti movimento evangelico, nella Comunità di circa 30-40 (una decina di famiglie).

Raduni in via Pasubio 64, casa del bracciante Murgo Lorenzo, padre di 12 figli.

1 maggio 1953 aperto luogo di culto in via Mozzillo Iaccarino n. 9, su terreno comprato con risparmi lavoratori.

Longo Saverio di Poggio Imperiale, suocero di Borgomastro.

BIBLIOTECA DE' GEROLOMINI A NAPOLI

Inaspettato premio ai miei interessi fu l'ospitalità guadagnata dai pp. Filippini nella sontuosa prisca sede cinquecentesca di via Duomo.

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Il carissimo Don Mastrobuoni, a Napoli tanto conosciuto e riverito per

gli studi storici oltre che per lo zelo e la severità sacerdotali, mi presentò al vecchio e nobile erudito p. Antonio Bellucci, che mi ammise a godere lunghi periodi nell'appartamentino riservato di quella sede, con le finestre affacciatisi sul grande chiosco folto di agrumi.

Credo che pochi « intellettuali » abbiano potuto godere del privilegio allora concessomi, di inebriarmi al profumo delle zagare in un ambiente storico e monumentale, legati al travaglio di Giambattista Vico, dei Filippini e di tutti coloro che concorsero a edificare la mole destinata ad affidare ai secoli la genialità della Congregazione dell'Oratorio.

Non sarebbe superfluo un cenno descrittivo delle opere, che costituiscono il grande collegio e la grande Chiesa, che occupano una rispettabile arca tra la detta via Duomo e il largo intitolato appunto ai Girolomini.

Rimandando, per ora, a una qualsiasi guida, per la storia e la descrizione della Biblioteca, la più antica di Napoli rinascimentale, dirò che quando mi proposi di andarvi a trascorrere le mie ore di studio lo trovai affidato a un cortese anziano signore alle prese con lo schedario antico, che aveva avuto l'incarico di « rifare ». Mi resi subito conto della sua preparazione, costituita da quell'abecedario nozionistico - e niente affatto pratico - che s'impartisce nei corsi per la direzione delle biblioteche popolari, promossi dalle Soprintendenze regionali bibliografiche, svolti in dodici o ventiquattro ore col contributo ministeriale.

Ma come spiegarsi la presenza di costui in una biblioteca « nazionale » come quella?

Per speciale « intrallazzo » il Ministero competente mette a conto dello Stato tutte le spese inerenti all'Istituto, lasciando alla Congregazione il compito di dirigere e curare i servizi a mezzo di suoi incaricati. Non sono stato tanto indiscreto da indagare su questo meccanismo « straordinario », ma debbo supporre che il Bellucci e altri padri, quali Borrelli, Spada, Ferrara, congregati in quella sede, fossero titolari di funzioni bibliotecarie, che non sono mai riuscito a constatare.

A quel buonuomo successero due giovani, implumi, anch'essi usciti da uno di quei famosi corsi. La ragazza fu applicata alla schedatura - « sommaria, per ora » (sic!) - il giovanotto fu addetto a rivoltare i libri negli scaffali, si che molti di essi, perduta l'originaria collocazione segnata sulle vecchie schede, sarebbero stati irreperibili fino a quando non sarebbero state inserite in catalogo le relative varianti.

Sua cura da me ben distinta era quella di... sgusciare i periodici in arrivo. Sorpresolo un giorno a questo lavoro, dissi: « Quante riviste! Ma perché non destinate loro un tavolo, per la consultazione corrente? ». Rispose che tutto quel materiale - e ve n'era, fatto fornire con i ben conosciuti criteri dal Ministe-ro! -giorno per giorno veniva ammassato in un locale a piano terra, dove era progettata la sala di lettura dei periodici (se ne attende ancora l'auspicata inau-gurazione).

« Ma a che vale prendersi tanta pena » m'insegnava l'uomo delle

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pulizie della casa (solito comunista brontolone in attesa di una sistemazione salariale) « questa biblioteca è solo un cimitero di grandi e piccoli morti, dove una volta l'anno viene qualcuno a scovare, assistito da Padre Borrelli, quando può allontanarsi dalla sua Casa dello Scugnizzo ». Forse vigeva uno speciale regolamento (?!) che rendeva difficile i rapporti fra libro e lettore; forse era la diffidenza suggerita dalle non lontane peripezie giudiziarie dell'Oratorio (un filippino aveva fatto sparire alcuni pezzi della pinacoteca): certo è che anche a me, ospite della casa e riconosciuto bibliofila, era difficile portarmi in camera financo una edizione ottocentesca del Verne, per via delle « tavole » incise!

Un errore fondamentale del Ministero era il considerare quell'antico istituto alla stregua di una biblioteca d'oggi, che pertanto alimentava con la stessa sciatteria usata per le biblioteche popolari, invece d'organizzare un lavoro « sui generis » in relazione ai fondi esistenti.

Perché non mettere su un catalogo descrittivo dei fondi manoscritti? La presenza degli eruditi Bellucci e Borrelli agevolava questo lavoro.

Sull'attico dell'edificio trovavano alloggio gli studenti universitari, che riuscivano a farsi accettare per efficienti presentazioni. Non si ponevano loro condizioni diverse dal pagamento della retta. La massima libertà era lasciata loro, senza che alcuno esercitasse la benché minima sorveglianza e tutela: non erano infrequenti casi di vandalismo o di semplice monelleria, come la inutilizzazione di un servizio igienico o un danno alla rete illuminante.

Inibita la promiscuità di sesso, non c'era modo di evitare che, acceduta al primo piano, dichiarando al portiere di recarsi in biblioteca, una ragazza potesse partecipare a un convegno non culturale. Ma questo non mi risulta mai avvenuto, forse per la timidezza dei ragazzi, che ho potuto verificare, indagando sui loro rapporti con la biblioteca, con il seguente risultato approssimativo: L'l % vi era entrato una volta per conoscerla; lo 0,50% vi aveva studiato, tutti gli altri ne ignoravano la esistenza!

TREMITI

La tradizione romana del diritto, della quale s'investivano e vantavano i

governanti littori, non suggerì mai un espediente, per alleggerire la spesa pubblica nella amministrazione della giustizia. Si pensi al costo delle procedure giudiziarie aperte per Tremiti, già colonia di galeotti e poi sede di confine politico dal 1935 al 1943. Non si contano le denunzie per questo o quel reato a carico degli ospiti e, a volte, anche degli indigeni, quasi sempre definite con assoluzione o pene lievi. Esse comportavano un continuo traffico di prevenuti, a mezzo di un vecchio e piccolo piroscafo della Società « Puglia », lunghe detenzioni preventive ed attese, a volte non brevi,

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come in tempo di guerra, per il ritorno in sede. Senza contare le trasferte degli addetti alla Pretura di Manfredonia (giudice, ufficiale giudiziario) per interrogatori e notifiche. Eppure, sarebbe costato così poco disporre che fosse il Pretore a recarsi sull'isola, per tenere udienze con un difensore di ufficio trovando sul posto un ufficiale di governo idoneo a fare da pubblico ministero.

Ma non conveniva di più allo Stato evitare che s'imbastissero tante procedure? E tutte le contravvenzioni alla « carta del confino » non si sarebbero potute evitare sol che agenti e direttore della colonia fossero stati meno prevenuti e sprovveduti?

Rievoco un esempio che vale per tutti. Il confinato benestante Levi acquista un pollo lesso, che gli viene offerto in

piazza da una giovanetta. Poi che trattasi di compendio di un furto, Levi, in stato di arresto, è denunciato per ricettazione. Tradotto a Manfredonia e da me difeso, è assolto perché il fatto non costituisce reato. Non rientra a Tremiti, perché è accolta la domanda da me suggeritagli e sostenuta dai parenti ricchissimi, di ottenere un soggiorno vigilato in famiglia e viaggia così mezza Italia nel Nord, con grande gaudio dell'agente accompagnatore.

Ho difeso quasi tutti i confinati, tradotti innanzi la pretura di Manfredonia e, a volte, nel Tribunale di Foggia. Di alcuni conservo i fascicoli, ai quali rinvio. Giudice era il dott. Roberto Perfetti di Ascoli Satriano, preparato, di sociali sentimenti e antifascista, che vantava l'amicizia di Mauro del Giudice. Sarebbe stato davvero un « buon samaritano » se disordini fisiologici e psicologici non lo avessero fatto accidioso.

Questi umili, spesso immeritevoli, da me patrocinati non avrebbero mai potuto raffigurarsi il mio impegno, senza limiti, nonostante fossi raramente e modestamente retribuito, quando non ci rimettevo le sigarette. Alla maggior parte dei colpevoli non si sarebbe potuto irrogare più di tre mesi di reclusione. Purtroppo a volte la detenzione preventiva superava quel periodo, perché il giudice non era stato sollecito a fissare il dibattimento.

Eppure l'ufficio vantava un cancelliere di eccezionale costume morale, di profondo acume e di vasta cultura, il dott. Tommaso Aragiusto, unico e solo funzionario in lotta continua ma sterile col pretore che, contraddicendo le sue convinzioni, non sì comportava in modo irreprensibile (forse per accrescere l'odio dei confinati contro il regime, osservava malignamente un avvocato, che faceva il doppio giuoco).

VOCE REPUBBLICANA

Con questa testata il quotidiano del Partito Repubblicano Italiano condusse

la lotta politica a Manfredonia nel 1921-25. Dopo circa 50 anni la nostra città si esprime autonomamente con una « Voce », tutta sua e per sempre sua: anch'essa voce repubblicana, sebbene sia indipendente

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dal P.R.I., perché della repubblica popolare sono assercoti convinti coloro che la pubblicano.

Una voce che non è il chiasso di dieci o di mille persone, azzuffandosi per i loro privati interessi o per sostenere servilmente una fazione. E' voce di un comizio permanente, che vuol esprimere gli ideali, i bisogni, le istanze, le delusioni e le speranze della intera comunità cittadina.

In questo coro è naturale, legittimo e indispensabile che si manifestino opinioni, anche strettamente personali, che non coinvolgono alcun partito, e, purtuttavia, vanno considerate come espressione di pratica politica, cioè attività civica primaria.

Orientato a questi concetti, mi sembra doveroso apportare un contributo alla chiarificazione delle idee, che ispirano il dialogo nel nostro contesto. Mi riferisco alla presenza e alla funzione attuale del P.R.I. a Manfredonia.

Dal 1921 al 1925 il « partito storico » fu molto attivo a Manfredonia non solo nella lotta antifascista, ma anche quale fattore di educazione politica; promosse l'alleanza con le altre forze democratiche, tra le quali preminenti erano quelle marxiste, alle quali non dimostrò di essere allergico. E fu, si badi, un'alleanza morale, oltre che tattica, fondata sulla reciproca stima; direi una collaborazione « fraterna », se l'espressione non potesse sembrare retorica. Quell'alleanza, che avendo resistito sotto la dittatura, riprese a funzionare nel 1943, quando i vecchi repubblicani, caldi della fiamma di « Giustizia e Libertà », collaborarono con le forze popolari, prima nella strade, poi nel Comitato di Liberazione Nazionale.

Tutte queste cose furono ricordate il 26 dicembre 1971 quando la sezione del P.R.I., anticipando l'anno del Centenario mazziniano (1872-1972), rievocò in sede storica l'originario movimento repubblicano locale. Ma una più larga documentazione è offerta dal Magno nel suo libro recente Lotte politico-sociali a Manfredonia durante il periodo fascista. A questa tradizione si richiamava e obbediva la sezione del P.R.I., quando aderì alla Giunta municipale popolare partecipandovi con un suo rappresentante. Chi ne stigmatizza la decisione, quale contraria all'indirizzo della direzione centrale, trascura di considerare che, se fu una infrazione disciplinare, essa interpretò lo stato d'animo generale della base repubblicana, insofferente della sterile partecipazione al Centro-Sinistra. Non solo, ma superando le posizioni meramente intellettualistiche (e classistiche?) dei « puri », realizzò la tendenza dei gruppi avanzati, verso l'autogoverno delle forze produttive del Paese, finalmente libera dalla ipoteca capitalistica. E fu anche coerenza ai precetti della scuola storica repubblicana, che da Mazzini svolge tutti i teoremi della dialettica politica con l'evolversi del pensiero di quel Maestro attraverso Cattaneo e Pisacane, Ferrari e Mario, fino al Quadro e agli ultimi epigoni postrisorgimentali, che nelle prime organizzazioni di categoria, crearono con spirito rivoluzionario le premesse dell'attuale

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movimento operaio e culturale democratico. Fu uno sbaglio la rinnovata alleanza repubblicana con le forze marxiste?

Essa non va forse considerata - e apprezzata - in relazione: 1) ai conseguenti risultati locali raggiunti; 2) alla mutata politica del P.R.I.; 3) alla odierna diversa valutazione da parte « ufficiale », del ruolo rappresentato dal P.C.I. nel Paese?

Riflettiamo su questi tre punti: 1) Partecipazione alla Giunta del P.R.I. - Essa ha significato anzitutto che gli

artigiani, i commercianti, i professionisti, i giovani che fanno parte del P.R.I. sono rimasti fedeli all'insegnamento della storia, e all'esempio di coloro che - con sacrificio di sé e a volte dei congiunti – con la loro alleanza affermarono che l'immacolata bandiera della Giovine Italia risventolata nella « Settimana rossa » di Ancona con tutto lo schieramento di sinistra del paese, compresi gli anarchici, ben poteva marciare con quelle delle leghe proletarie a difesa e affermazione dei comuni ideali umani e sociali. Ha significato, poi, la vitalità di un'amministrazione realizzatrice, sinceramente aperta alla collaborazione con le altre forze democratiche - come dimostrano tante decisioni adottate alla unanimità -, e per ciò idonea ad attuare il precetto informatore dei decentramento e dell'autonomia nel quadro della novazione regionale.

Non ha certamente coscienza politica ed è nemico del suo paese, l'uomo qualunque che, in odio agli uomini dei partiti al governo - e non certamente per coscienza politica - arriva a declinare « tutto per tutto: meglio di questi " rossi " un commissario governativo, che è un funzionario al di sopra dei partiti ». La sua è la psicologia di chi, purtroppo, è nato schiavo, ignora il prestigio che gli viene dall'essere elettore, riunzia a pensare, a capire che cosa è la complessa realtà che lo circonda e respinge il governo collegiale, invocando a comandarlo uno solo a nome dello Stato, di quello stato che egli, uomo da niente, forse tradisce in tanti modi, disobbedendo alle sue leggi. Ed è cieco e sordo, oppure si benda gli occhi e si ottura le orecchie, per non ammettere i passi avanti che, bene o male, si sono fatti.

2) Il P.R.I. boccia e smonta il Centro-Sinistra. Dopo averlo sostenuto in un altro tentativo. Esso ha concorso ad eleggere l'on. Leone alla presidenza della Repubblica, determina lo scioglimento delle Camere, e con lo slogan di La Malfa fa credere agli Italiani che « questa volta si può ». Conta il P.R.I., evidentemente, su un mezzo plebiscito di voti, da parte delle categorie medie, ma rimane deluso, perché gli manca la base, privo com'è anche della spinta ad azionare una minoranza propagandistica « di rottura ». Risultato dell'infelice operazione, che rivela anche la debolezza organizzativa del P.S.I. e l'isolamento suicida delle sinistre extraparlamentari, è il vero fascismo della così detta « Destra Nazionale ».

Qualcuno, dunque, sbagliò, ma non la modesta sezione di Manfredonia. Logoratisi e non ricostituibili i rapporti di coabitazione e di amministrazione con la D. C., condizionata da una centrale clerico-

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artigianale, cadde ogni illusione di intrallazzo, coltivata da qualche « dissidente ».

La ricostituzione del Centro-sinistra ricevette la più ospitale sconfessione dal nuovo corso politico autorizzato dal conservatore presidente Leone con il varo del Governo Andreotti. Insegnò all'on. La Malfa e al suo stato maggiore quanto fosse facile un esperimento come quello del Centro-destra, quando il corpo elettorale, per l'anticipato e precipitoso scioglimento delle Camere, è chiamato senza la opportuna preparazione psicologica e informativa, a pronunziarsi sulla situazione politica e sull'avvenire del Paese.

Per concludere: se i dirigenti nazionali del PRI hanno finito col riconoscere la impossibilità di collaborare con la DC, nessun dovere avevano ed hanno i repubblicani sipontini di credere a una formula smentita e abortita al Centro!

A contestare la presenza dei repubblicani nella Giunta Popolare è sopraggiunta la mutata valutazione della vocazione e disponibilità ministeriale comunista nell'area parlamentare. Dopo la dura prova del Centro-destra, che ha agevolato il crollo finanziario del Paese, indebolendone in stravagante misura la resistenza democratica contro le forze eversive, non c'è motivo di allevare l'opposizione del partito mondiale, che raccoglie il maggior numero di lavoratori e, nonostante l'inesaudimento delle loro istanze, mantiene un atteggiamento pacifico e conciliante, che non può non essere garanzia di ordine e di disciplina, mentre nella piazza si ricompongono le membra spezzate dello squadrismo.

Ci sembra di aver detto cose di comune evidenza, in piena buona fede, con l'animo aperto ai frutti della civile convivenza e con l'unico scopo di dimostrare ai male informati e agli scettici, che la nostra situazione amministrativa, valida con la maggioranza di cui fa parte il PRI, è anche politicamente e moralmente legittima.

Ma vi è una terza categoria di nemici irriconciliabili del buon senso, ai quali va riservata una particolare ammonizione: sono i pasticcioni, gl'intriganti, i pettegoli, i chiacchieroni, gl'insofferenti, e, non escludo certi romantici. Si credono i depositari della verità e sol perché si trovano con l'avere in tasca la storia con le loro elucubrazioni, di poter spaccare in quattro ogni situazione, di poter accampare dei diritti, per sé e per i parenti; pretendono di far carriera nel partito, e anche se le sue file sono appena sufficienti a dare un eletto al Consiglio comunale, osano ipotizzare ipoteche per l'avvenire, minacciando di rompere il meccanismo, perché nessuno se ne serve.

Tutto questo ci è stato esibito recentemente proprio in un ambiente dove, per tanti motivi concorrenti, nessun contestatore si dovrebbe sentire autorizzato ad alzare la voce, senza aver prima esaminata la sua posizione personale alla stregua dei rigorosi canoni morali, o della sapienza politica e del costume, attribuiti della divisa che oggi si ostenta.

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MAURO DEL GIUDICE

Lo conobbi al tempo del crimine Matteotti, vedendolo uscire un giorno dal

suo ufficio della Sezione di accusa al Palazzo di Giustizia a Roma. Era molto amico dell'on. Giovanni Conti, che noi giovani amavamo riconoscere l'esponente verace del repubblicanesimo di allora.

Rientrato in provincia nel 1933, solo più tardi appresi del suo « pensionamento » e con il pretore di Manfredonia, Perfetto, mi proposi di visitarlo. Ma mi feci troppo assortire da altre cure, nelle quali dispersi tante energie. Pertanto risolse il nostro incontro al 1940, quando mi recai a visitarlo in Vieste, ov'era ospite di un suo fratello. Era ritornato sul Gargano dopo tant'anni, dopo che, messosi in pensione da procuratore generale, ufficio ultimamente esercitato a Catania, erasi fermato alcun tempo a Roma, presso la signora Franca Brunoni (Viale Eritrea, 52), che lo aveva ospitato essendo rimasto celibe.

Ma ci trattenemmo lungamente, come avrei voluto, a colloquio: suonava la messa alla sua chiesa e vi andammo per una lunga scalinata. .Mi fece impressione vedere quel vegliardo appoggiarsi a un bastone e a un ombrello, come un proletario qualsiasi. Rientrati, mi fece vedere due diplomi cartacei dedicatigli ultimamente dalla loggia foggiana « Giannone » del G. 0.

Un giorno Don Mauro fu prelevato dalla signora di Roma e sua figlia e morì in quella città.

Lasciò al comune nativo libri e manoscritti, senza inventario. Il marzo 1951 feci assumere le onoranze in memoria dalla Società Dauna di

Cultura. Il 17 e 18 luglio mi fermai a Rodi per la ricognizione delle cose su dette. Era sindaco il generale a riposo Ruggiero imparentato con i Petrucci;

segretario comunale il rag. Pasquale Queto, mi fu propizio. Nell'aula, consigliare, senza chiusura di sorta, due grandi casse contenevano

quanto aveva costituito il patrimonio intimo del grande Garganico. Come altre volte, quando giovanotto avevo scoperchiato a Manfredonia la cassa del « quarantottista » Murgo, affondai le mie mani in quegli scrigni, sudando non solo per l'atmosfera pesante e fetida della sala, ma anche e sopratutto per l'emozione, per il privilegio del quale mi sentivo investito, di esplorare, per primo, l'aspetto più geloso della vita di quel protagonista, ultimo pensatore di nostra terra.

Con la data 17-18 luglio compilai l'inventario dei manoscritti, che feci chiudere nella cassaforte della segreteria.

Le onoranze sfumarono, nonostante un contributo di 30.000 lire del Comune di Rodi, sindaco Moretti. Vocino, presidente della Società, pur essendo entusiasta della iniziativa, non sollevò un dito per alleviare i miei solitari conati.

Per ovviare in parte alla nostra contumacia, del n. 1-2, 1970, prima parte di « La Capitanata » (Foggia) ho pubblicato la monografia apparsa la prima volta il 1925 in « Studio giuridico Napoletano »

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(Napoli) vol. XII. « Piero Giannone nella storia dei diritto e nella filosofia della storia ».

Com'era doveroso, ho fatto seguire il testo da una lunga nota. Nel nostro incontro di Vieste, ricevetti in dono il dattiloscritto dei «

Malfattori e benefattori della Giustizia nella vicenda di un secolo » con questa dedica: « All'amico Mario Simone, per solidarietà nell'ideale repubblicano » Vieste IX febbraio 1940, e un esemplare dell'opuscolo: « La legge penale nel tempo » testi di diritto penale comparato (Napoli, 1882) con le aggiunte autografe ad ogni pagina, destinata a una seconda edizione, una e l'altra dell'opera mi proposi di fare una edizione d'intesa con in Consiglio dell'Ordine degli Avvocati e Procuratori di Foggia.

Avrei voluto pubblicare « Malfattori e benefattori », e insieme l'opuscolo stampato il 1950 del collega Scabelloni a Catania « li potere giudiziario al cospetto del nuovo Parlamento », comprendendolo in « Quaderni di risorgimento meridionale », col titolo « La giustizia tra due repubbliche (1799-1948) » per le cure di Vincenzo Tangaro, del quale mi attendevo una presentazione che, oltre a delineare la personalità dell'autore, commentasse il testo. Ma questo mi fu restituito con le sole correzioni formali del dattiloscritto. lo non potei corredare la narrazione critica e polemica, così com'era necessario e doveroso. Il 1970 passai in composizione l'opuscolo « Il potere giudiziario ». Avevo ricevuto il testo, emendandolo, e vi avevo aggiunto una documentazione di eccezionale interesse: le lettere che il Del Giudice aveva indirizzato subito dopo la « liberazione » al predetto Tangaro.

Il piombo di questo opuscolo è oggi (15-9-73) ancora « in piedi » nella Tipografia Laurenziana di Napoli.

LA PUGLIA A ROMA

Verso il 1921, per slancio di un gruppo di corregionali, era viva in Roma

una Associazione Pugliese con sede prestigiosa nel Palazzo Marignali al corso Umberto, sopra lo « storico » di Aragno. Ne erano maggiorenni elementi non fascisti quali il dott. Chieffo, magistrato di Cassazione, il suo fedele rag. Antonio Borgia, l'avv. Del Sonno (li si diceva massoni), gli avv. Majolo e Melucco (socialisti)...

Con la marcia su Roma e la nomina a sottosegretario alle Poste dell'on. Giuseppe Caradonna, questo fu chiamato a presiedere il sodalizio, per adeguarlo alla nuova realtà politica, e vice presidenti furono creati l'ing. Alessandro Carelli e il comm. Gaetano Petrucci, della direzione generale delle Poste, che presto divenne il « factotum » del sodalizio.

Presentato dal fratello Alfredo, gli esposi un progetto di attività culturale per valorizzare la nostra regione e non dovei attendere molto, per ingolfarmi in un lavoro, arduo ma piacevole, che mi alleviò le

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sofferenze, per la irreparabile crisi politica e, naturalmente, contribuì a distrarmi dalla università e a farmi rimandare l'inizio della pratica forense (che oggi ritengo indispensabile, alla formazione professionale di un giovane, che voglia fare sul serio e per ciò non ingannare se stesso, la famiglia, la società).

Al mio exploit nel campo culturale, le attività sociali erano preminentemente costituite da riunioni danzanti di ogni specie e da qualche conferenza: la sala di lettura era dotata di numerosi quotidiani e periodici: letti i primi, appena sfogliati i secondi, anche se riguardavano la nostra regione.

Tutta questa mia operosità, nonostante che fosse preminente alla superficie (quella « vitale » era pur sempre il giuoco... sotterraneo!) costituzionalmente rimase fino all'ultimo marginale, perché non mi furono mai dati una investitura e un riconoscimento ufficiali, nonostante gli ampi poteri che gradatamente usurpai, fino a essere considerato il segretario generale e l'esponente culturale del sodalizio.

Sono di quell'iniziale periodo alcune esperienze nuove, tra le quali molte amicizie e la Mostra degli artisti pugliesi, ordinata da Alfredo Petrucci (1925).

Coinvolto alla sprovvista nell'impegno, nell'ansia, nella tecnica di quella impresa; a contatto con artisti, artigiani specializzati, critici di arte e giornalisti, mi esaltai e mi prodigai nella illusione pirandelliana di costruirmi quale personaggio.

Il 1926 dal Palazzo Marignoli ci trasferimmo in via di Torre Argentina n. 12, dove curai numerose iniziative, registrate dalla stampa. Senza far spendere una lira formai una raccolta di pubblicazioni regionali, ottenendole in dono da editori e autori (sistema che oggi detesto, convinto della sua immoralità): opuscoli e libri che solo pochi soci chiesero di leggere. Avendo trovato in libreria un fondo di libri francesi, donati da un giuocatore reduce da Parigi, vi aggiunsi romanzi e novelle, guadagnando molti lettori, in specie tra le ragazze. La distinzione di questi libri, come dire, « profani » l'affidai a un consigliere, il buono e innocuo rag. Miccolis, che volentieri se la faceva a sfogliare pagine con l'elemento femminile alla ricerca del « libro interessante ».

Per le conferenze, al fine di presentare agli oratori una sala affollata, convinsi l'amico Petrucci a consentire... quattro salti dopo il... sacrificio. Con questo espediente potemmo assicurarci un uditorio che, oltre gli invitati e i soci « a livello », comprese anche quel pubblico, che più aveva bisogno di penetrare nella cultura e nell'arte di Puglia. Aprimmo la serie con l'autorità massima degli studi pugliesi, mons. Nitti, al quale seguirono altre illustrazioni. Il prof. Federico Hermanin, sovrintendente ai monumenti dei Lazio e degli Abruzzi, e direttore della Galleria Corsini, succedettero sino al prof. Quintino Quagliati.

Ma non tutti i conferenziari si mostrarono consapevoli dei limiti che

imponevano anzitutto le loro stesse qualità espressive, e poi il

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tema e l'ambiente. Di essi fu proprio il Quagliati a dover prendere atto quando, fattosi chiaro dopo oltre un'ora di proiezione d'indole archeologica, nella sala si contarono i soli « tenacemente intellettuali » rimasti legati alle sedie in generosa attestazione di solidarietà.

Un apporto eccezionale allo sviluppo della mia «linea» culturale perseguita nonostante la palese indifferenza dei «mondani» e degli invidiosi, mi venne dal dott. Vito Reali di Tricase (Lecce), direttore-editore della « Rassegna nazionale di musica », al quale debbo molto della mia educazione musicale.

Non si contano i concerti, individuali e collettivi, svolti nell'Associazione per il suo autorevole intervento presso gli esecutori, a volte davvero autorevoli, quali il Casella, lo Schipa, il Chiarozza...

E non furono trascurate le arti figurative. Il primo ad essere accolto e festeggiato fu Luigi Schingo di San Severo, patrocinato da Alfredo Petrucci (lo avevo conosciuto, ammirandone i paesaggi a pastello, che erano la sua prerogativa di successo). Lo aiutai a montare nella sede sociale la sua « personale », lo misi in contatto con esponenti del mondo romano, organizzai la vernice e l'inaugurazione, un ricevimento e un pranzo in suo onore. Vendette molti lavori, alcuni dei quali pagati a pronta cassa, mi promise in dono « Golfo di Manfredonia » del quale mi ero innamorato e che oggi attendo ancora.

Un altro da noi « valorizzato » fu il pittore Pastina, del quale conobbi un giorno il figlio, vice provveditore agli studi in Foggia, ma la rassegna lasciò freddi, nonostante la presenza in effige e in carne ed ossa di Edy, la giovane modella dagli scandalosi grandi seni a forma di cono.

E venne fuori, rivistina mensile illustrata, « La Puglia a Roma », dalla copertina montata da Alfredo con gli stemmi delle cinque provincie della regione: direttore il vice presidente Gaetano Petrucci, redattore capo il sottoscritto, e intelligente, bravo, paziente tipografo il socio cav. Armellini, della provincia di Bari (Tip. dell'Urbe, via Vittoria Colonna n. 27); assiduo frequentatore in finanziera dell'Associazione, padre di una delle più belle signore, che la infioravano.

Perché ci si possa rendere conto della validità culturale del mio lavoro - anche se la sua influenza fu irrilevante, a causa della limitatissima diffusione -, riproduco in appendice il sommario dei nove numeri pubblicati.

La collaborazione ottenuta e i consensi guadagnati incoraggiavano a sviluppare la iniziativa, ma fu soffocata dal consiglio di amministrazione, non appena che da una disavventura estranea alla sua carica nel sodalizio, Gaetano Petrucci se ne dovette allontanare.

Anche in questa impresa non ebbi che aiuti marginali dai consoci: non da Peppino Modugno, vecchio compagno nel PRI, assorbito oltre che dall'ufficio, dalla pubblicazione di « La Puglia Letteraria », uscita anche con la mia collaborazione; non dal prof. Salvatore Mininni, insegnante al « Massimo » giovane preparato e volenteroso, ma che purtut-

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tavia perdeva il suo tempo a pavoneggiarsi, limitandosi a scrivere qualche recensione.

Chi alla rivista e all’attività culturale in genere si mostrava del tutto indifferente, era proprio il Caradonna, che, per temperamento e per prassi di vita, considerava la carica tenuta solo per quel margine di vantaggio, che poteva dargli la presidenza del sodalizio rappresentativo della sua regione. Essendo notorio che, tutte le altre consorelle di carattere regionale, quella nostra ospitava una sala da giuoco, il margine già abbastanza modesto, si ridusse a una mera ipotesi di prestigio quando Mussolini adottò l’equivoco provvedimento di sopprimere i sodalizi regionali di Roma, con i quali si affermavano velleità campanilistiche, che egli si era incaricato di deludere, col senso unitario dello Stato accentratore, burocratico e livellatore.

Non ricordo se fu in quella occasione o per altre cause, che l’ambiente ducesco tentò, senza riuscirvi, di schiudere al Caradonna la carriera diplomatica, destinandolo a rappresentare l’Italia a . . . . . (la manovra fu sventata, ma per sempre il comandante delle squadre d’azione Appulo alla marcia di Napoli e di Roma di « emarginato » e non ritornò alla ribalta nazionale fino alla sua « leggendaria » evasione da San Vittore, subito dopo scomparendo.

L’Associazione andò sempre più deteriorandosi. Dovette lasciare la sede di Torre Argentina e andò a finire al ghetto, a Piazza Cenci, nel famoso che fu questa famiglia, ove ci fu amico il fantasma della dolce parricida, deliziandoci degli effluvi di Piperno, il maestro dei filetti di baccalà in padella.

Il consiglio di amministrazione aveva così decretata la fine del sodalizio. E’ risibile apprendere che tra i provvedimenti diretti a salvare le finanze, si annoverò la soppressione della rivistina, che pure rappresentava l’unica testimonianza di vita, di ideali e di prestigio dell’A s soci azione. Vale la pena consegnare alla storia le generalità dei galantuomini, autori del bel gesto: presidente comm. dott. Giuseppe Mastropasqua, del M.ro alla P. I., com.. rag. Carella, cav. Fortunato.

A Torre Argentina, collateralmente al periodico, pubblicai « Alfredo Petrucci, Pittori pugliesi dell’800: Domenico Caldara » (con quattro illustrazioni). Il frontespizio recava, presuntuosamente, tra l’altro : « Quaderni Pugliesi diretti da Mario Simone », cui seguiva nella pubblicitaria: « Seconda serie », con riferimento alla prima, che nel 1925 avrebbe aperta la prima con « Manfredonia e il Gargano » (vedi voce).

Questo quaderno gravò solo per poche lire sul bilancio sociale, essendosi utilizzato per il testo il piombo della rivista; purtuttavia come questa parve urtare la suscettibilità dei dirigenti, che mi pregarono di soprassedere, come fu fatto.

STUDIO EDITORIALE DAUNO

Un modulo per la iscrizione al registro della ditta presso la Camera di

Commercio di Foggia (Consiglio dell’Economo - verificare):

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Riccardo Ricciardi

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tutto qui l’apparizione a Foggia dello Studio Editoriale Dauno intestato a mio padre Antonio.

Non fu ordinato un programma culturale, né un piano finanziario; non vi fu una riunione di amici perché l’iniziativa avesse un decollo più appariscente da una base di consensi e di auspici.

Era mio intendimento raccogliere la tradizione tipografica della Capitanata, svolgerla con moduli moderni, creare una editoria « dauna » quale fatto di cultura al servizio della mia Terra.

Le circostanze vollero diversamente e lo Studio esordì con i connotati di una editrice giuridica, pubblicando la rivista « La Corte d’Assise », recante i tre nomi dei promotori e redattori: l’avv. Vincenzo Lamedica, direttore, il procuratore del re prof. Cocurullo e Mario Simone.

Se fossi stato meno ingenuo, cioè un tantino avvocato, avrei « manovrato » in modo che il... triumvirato si identificasse con lo Studio Editoriale e lo amministrasse: in tal modo, gli avrei assicurata una veste giuridica e un’attività meglio spiegata nello spazio editoriale e nel tempo.

Improvvido come sempre, mi... « buttai a pesce » nell’impresa col risultato finanziario di rimetterci le piccole spese personali e quello morale di sapere da nessuno considerato il valore della editoria da me creata.

Ancora oggi, dopo quarant’anni, nell’esame critico del libro è raramente considerato e tanto meno discusso il dato editoriale. E’ facile intuire, dunque, come sfuggisse all’attenzione del mondo giuridico-forense e, soprattutto, dell’ambiente di una provincia, come la nostra, dove contenuti e forme delle pubblicazioni « locali » erano ancora arcaici, come documentano i... palinsesti del tempo.

Le prime maggiori prove dello Studio Editoriale Dauno furono, dunque, « La Corte d’Assise », i « quaderni » e la « biblioteca omonima ».

I primi raccoglievano i contributi apparsi nel periodico (estratti), la seconda i testi, a cominciare da « L’ingiuria e la diffamazione » del Cocurullo, stampata bene dall’avv. Massimo Frattarolo a Firenze, dove da Lucera aveva trapiantata la sua famosa attività tipografica.

Oltre queste collane giuridiche, il 1940 venne fuori la « Biblioteca del Risorgimento Pugliese ».

In un periodo nuovo dello Studio vanno considerate le mie prestazioni a favore del Consiglio provinciale di Capitanata, che nel 1955 mi chiamò a riordinare e stampare i suoi atti deliberativi dal 1952. A far invitare lo Studio, cui purtuttavia, l’incarico ebbe il crisma della gara, fu il segretario dell’Ente, dott. Luigi Basso, e non per favoritismo ma, com’ebbe a dichiarare, perché solo per le mie cure si sarebbe potuto ottenere la revisione degli originali, compilati in una lingua qui e là un po’ approssimativa.

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PRO-MEMORIA AGLI INTELLETTUALI DAUNI ... di nulla preoccupati fuori che di sostituirsi in una nuova gerarchia di

privilegiati per razziare nei residuali beni spirituali ed economici della nazione. ... li conosciamo questi martiri da carnevale, questi eroi della sesta giornata

questi frodatori della pubblica opinione. Rintanatisi il 28 ottobre, hanno a lungo svernato nei comodi «fifaus» dell’antifascismo scudato, non esitando a trafficare all’ombra del Littorio. Oggi ritornano alla luce con la pelle del vittorioso leone, quasi che il 25 luglio segnasse l’inizio di una rivoluzione o almeno di una ribellione in 180 da essi promossa e attuata, e non un oscuro colpo di Stato del quale possono attribuirsi le cause soltanto per quel tanto di collaborazione che prestarono al fascismo, aiutandolo a raggiungere l’estrema antitesi che ne aiutò la caduta.

E’ ritornato il tempo dei programmi politici, degli appelli, degli esami di coscienza, e delle decisioni.

Per venti anni i nostri uomini di cultura, inquadrati nel partito e nei sindacati del regime totalitario non hanno avuto altro dilemma, ma innanzi a loro: collaborare o non col fascismo.

In massima parte lo hanno risolto con una negazione, ma sia gli attivi che i passivi si sono adagiati nella situazione « comodamente » col proposito comune di non farne niente, e niente infatti facendo.

I collaborazionisti, tali non per spirito politico, ma per « opportunismo » non riuscendo (in buona o mala fede) a prendere sul serio nemmeno le funzioni loro affidate, non hanno mai sentito il dovere di formarsi una cultura fascista. Gli altri non ne hanno avvertito nemmeno il bisogno, convinti che di cultura fascista non fosse nemmeno a parlarne.

2) Ma al di là della collaborazione e dell’opposizione al fascismo, gli uni e gli altri, si sono trovati tutti d’accordo su un punto dove si è saldata la tradizionale apatia degli intellettuali del Sud: l’ostracismo agli studi politici e sociali.

3) Non si tratta qui di far loro un processo, per il quale io non ho certamente l’entità di giudice, né mi sento di far da pubblico accusatore.

Come potrei, del resto(?!). Essa mi porta a ricercare tutte le attenuanti possibili a farne di questa categoria che non possiamo chiamar borghese come classe, perché ad essa specialmente in questi ultimi tempi sono confluiti tanti figli del popolo lavoratore: ma che senza dubbio è « borghese », per mentalità e come borghese ha purtroppo pensato ed agito nei venti anni che l’abbiamo attentamente seguita.

E questa ricerca non è difficile sol che siamo tutti d’accordo sul fallimento dello Stato italiano creato dalla truppa piemontese ai danni del popolo delle provincie annesse prevalentemente di quelle meridionali.

Volersi fermare al fascismo per attribuirgli tutte le colpe del-

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l’attuale disastro d’Italia sarebbe infatti ingenuità imperdonabile. La politica monarchica che culminò con la resa alle squadre d’azione ha una storia che tutti possono facilmente conoscere sol che lo vogliano. Fu essa, per fermarci all’Italia meridionale, che isterilì le forze rinnovatrici della Rivoluzione italiana che avevano redento l’Antico Reame della ignominia barbarica; essa che lasciò insoluta la questione sociale delle nostre provincie tanto fervide e attive nei moti del Risorgimento che seminò la corruttela nella nostra classe borghese e deviò le più intemerate coscienze della loro missione civile.

Com’era fatale, nell’ambiente squisitamente « cafone » della provincia, mortificato da una economia primitiva e chiuso alle correnti vivificativi delle idee, gl’intellettuali, anche quelli più svegli finirono con l’adagiarvisi, contribuendo ad aggravare la situazione col politicantismo e con l’agnosticismo più deleteri.

Queste due forme di partecipazione alla vita pubblica dei nostri intellettuali si riprodussero dopo la prova redentrice.

Pochi uomini di cultura, in verità, si convinsero che i tempi nuovi richiedevano vita nuova, ed elevarono la loro voce per dire una parola di vero al popolo disorientato e sofferente. 1 più, quasi che la guerra forse trascorsa invano sulla scena del mondo, si rigettarono nei personalismi e campanilismi o si misero alla finestra, e finirono con l’accogliere il fascismo come un mezzo più facile per raggiungere i loro obiettivi egoistici o come un nuovo spettacolo che si spiegava alla loro esperienza.

Qui non posso esimermi dal rispondere a una domanda che potrebbe essermi facilmente rivolta: « Che cosa si sarebbe potuto fare »? E dico subito il mio pensiero. Ai collaborazionisti era offerta l’occasione di renderci molto utili al loro paese, attraverso le cariche e gli incarichi ad essi assegnati con iniziative culturali che avrebbero potuto prendere e sviluppare anche con aiuto del partito.

Agli assentisti nessuno proibì mai di dedicarsi agli studi e di svolgere tutte quelle altre attività sociali dirette al progresso morale e culturale del popolo.

Gli uni e gli altri invece si astennero da ogni fatica intellettuale « tirando a campare » fino quasi all’annullamento della loro personalità che essi rinunziarono ad affermare.

Quali doveri sociali conferisce infatti a noi la cultura? Indubbiamente quello, sopra tutti gli altri, di volgerla a profitto morale e materiale del popolo prima che nostro.

Ed è appunto questa funzione sociale, e non il privilegio naturale ed economico di aver conquistato un titolo di studio, che ci eleva sull’affarismo (utile anch’esso, indubbiamente, ma non nobile) del negoziante; che ci autorizza ad indicare al popolo la via della sua elevazione di farsi interpreti e assertori delle sue esigenze e dei suoi diritti.

Chi non compie questo principale dovere è dunque in difetto con la sua missione, colpevoli, se pur con tutte le attenuanti, sono

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coloro che in venti anni intellettualmente poltrirono. A tanto avevo interesse di giungere, per giustificare questo frettoloso « pro-

memoria ». Gli intellettuali non hanno bisogno più di un lungo discorso per intendere

l’imperativo dell’ora. Ancora una volta essi sono di fronte a gravi responsabilità che impongono sollecite e risolutive decisioni.

Essi non vorranno certamente ripetere gli errori passati, che questa volta non troverebbero attenuanti.

Il Paese, attende da essi tutto quanto da essi è lecito pretendere: sincerità di propositi, idee chiare, azione intellettuale a servizio degli interessi collettivi, dedizione suprema al dovere.

Indubbiamente, restituito come le altre di Puglia alla sua missione civile, anche la nostra provincia entrerà tra breve nel movimento ricostruttivo della Nazione. Gli uomini di cultura son chiamati pertanto a costituire le nuove gerarchie che i partiti esprimeranno liberamente.

Necessità, dunque, s’impone, di meditare sui casi d’Italia e al lume della storia e delle dottrine, dare un ideale e un programma alla propria attività sociale.

Una volta si poteva scegliere un partito secondo le utilità personali da esso offerte senza molto arrossire dell’opportunismo che sacrificava la coscienza, ed era un suicidio morale ed un delitto di lesa Patria. Oggi questo delitto sarebbe anche di lesa umanità, perché dal sangue dei popoli di Europa sorge una civiltà nuova alla quale l’Italia deve dare un alto contributo.

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La poesia di Marino Piazzola

LA DIMENSIONE LIRICO-EVOCATIVA

L’inizio poetico di Piazzolla risale al decennio francese 1928-38. Sono

questi gli anni in cui viene a contatto con la Parigi degli anni trenta derivandone più di uno stimolo per la sua poesia. E la frequenza dei poeti francesi da Valery a Breton è avvertibile nei due poemetti pubblicati per le edizioni Deux Artisans nel 1939 a Parigi: Horizons perdus e Caravanes. In Horizons la lezione di Valery si snoda in una sintassi lirica particolarmente evocativa, in immagini lievitate su un accordo di suoni, di cadenze foniche e ritmiche eccessivamente ricercate. Ed è questa lievitazione delle immagini, questo senso di leggerezza e vorremmo dire di aereità che ci fa amare questo primo Piazzolla. E si legga per tutte la « Pluie »:

La pluie une légère main qui passe sur mes paupières dans l’air gris où pleurent les feuilles mouillées dans les rues plaintives où les arbres semblent meurtris devant les vitres voilées à peine par l’automne blessé de mes joies

dove la musicalità del verso si libera in quel senso di scorrevolezza che l’intreccio delle liquide rinnova continuamente (pluie, légère, paupières, l’air gris, pleurent). Ma l’importanza di questo primo Piazzolla è la disposizione al momento lirico-evocativo che sarà la costante di tutta la poesia in lingua italiana. Disposizione alla réve come registrazione di momenti lirici e quindi bisogno di scavare all’interno sensazioni nuove. Ma sempre questa scritttra vaga, indefinita, questo valerismo di Piazzolla, non sa distaccarsi da un senso di malinconia e di calma che sono momenti centrali di Horizons. E se qualche verso come a chiusura di volume:

Et j’ai roulé dans l’abime

ci dà la sensazione di un Piazzolla maudit, esso è più una dolce tentazione giovanile che una scelta. L’altr’aspetto di Horizons è la contrazione della parola in un analogismo che allontana gli oggetti in un mondo

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tra realtà e sogno. Piazzolla si abbandona al fascino di una fantasia evocatrice di sensazioni e di eventi:

Ne parle plus aux fournis de perle tes doigts sont déjà heureux dans l’herbe on répète ta voix dans una cauge jaune et l’air a peur d’oublier tes épaules

(Evocation) In Caravanes si accentua questa tendenza all’abbandono, meno

voluttuoso di Horizons, certamente spinto ai limiti d’un’atmosfera d’intimità paesana. Il più delle volte sono stati d’animo che riempiono queste pagine, figure esili d’amore, confessioni tra stupore e smarrimento, in una Parigi che fa sognare ad occhi aperti e strugge di malinconia il giovane poeta. Insomma Caravanes è un diario lirico dove contano più d’ogni poetica gli affetti, i ricordi, trascritti in una dizione sobria, senza sdilinquimenti romanticheggianti. Di più conta poichè chiarisce i termini di una vocazione poetica lirico-intimistica. Del periodo francese è il poemetto Pèrsite e Melasia apparso per la prima volta sul n. 14 della rivista « Ars et Idée » nell’aprile del 1938. Poi ripubblicato in italiano nel 1940.

Un dialogo che nella sua struttura fondamentalmente mitico-lirica richiama alla mente personaggi e motivi della mitologia classica. L’impostazione ricalca il tema della primavera-estate-felicità a cui è contrapposto la fine della vita autunno-tramonto-dolore rappresenta nei due contrappunti temporali equinozio di primavera-solstizio-d’estate ed equinozio d’autunno-solstizio-d’inverno. Qui Piazzolla insegue un’età aurea in cui i due personaggi agiscono quasi istintivamente, non appesantiti da credi morali o da astratte convinzioni religiose e magari filosofiche; la felicità e la gioia di Pèrsite e Melasia sono quasi il frutto di una legge naturale. Vi è solo un leggero presentimento che di tanto in tanto incrina il loro dialogo e cioè che il loro amore e la loro felicità finiranno.

Una malinconia soffusa scorre in tutto il volume che appena il poeta lascia trasparire. Pure la fine di questa felicità è inizio di una piú grande: « E’ tempo Melasia, ch’io ritrovi l’antica mia immagine e mi confonda al creato, solo per sentirmi infinitamente libero e ritrovare me stesso come fai tu che ripensi i destini terreni e non piangi se non per udire te stessa, non soffri se non per sentirti più umana ». E anche se la scrittura è frenata da un lirismo volutamente ingenuo ed effusivo, quello che più conta è l’abbandono ad una verve creativa, ad una sospensione della realtà in un sogno che dura tutto il poemetto. E’ questa classicità, è questo pudore di Pèrsite e Melasia che li avvicina a tanti personaggi delle ecloghe virgiliane. Ore bianche che si pubblica parallelamente a Pèrsite e Malasia da un punto di vista strettamente stilistico non segna un’evoluzione o una maturazione. Un’opera giovanile e sicuramente anteriore, in cui si nota un fraseggio sensibilmente pascoliano: la primavera, con le sue dita / di violette... I suoi piedini sull’erba (p. 7,

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v. 1 - 2, 13); ciocche di stelle (p. 10, v. 12); le sue tendine di seta (p. 19, v. 2); l’api segavan l’aria / colma d’ali d’oro (p. 21, v. 1-2); le scarpine di seta (p. 23, v. 3); il suo lettuccio di luce (p. 23, v. 1 l); per la ghiaia d’oro (p. 25, v. 16); da un suo lettuccio, / bianco come nido di fata (p. 36, v. 6-7); ai suoi raggi di seta (p. 37, v. 13).

E finanche cadenze dannunziane come in questo intermezzo di Estiva:

Le viti gonfie d’uva d’oro, con dita d’api, suonavan arpi leggere; vespro sorgeva timido, dalle verdure assorte, parlando con voce vellutata...

E in particolare la prima parte del volume l’Incauta non disdegna temi di un labile crepuscolarismo (Le mani dei morti, Ora squallida, Favola, Pastello ecc.) o un vago descrittivismo di maniera (Miracolo, Fuga, Primavera. Offerta, Vendemmia). E anche se nella seconda parte Parvenze resiste un certo turgore scolastico essa può considerarsi un volumetto a sé, sia per la costante tensione morale, sia per per una più solida strutturazione dell’endecasillabo.

Il leopardismo piazzolliano mediato attraverso la presenza cardarelliana vi si riconosce per quel continuo fluire del verso in pause interrogative-meditative sull’onda del l’endecasillabo e del settenario. E ancor più per la costante reiterazione a risolvere il discorso in soluzioni moralistiche e in un aut,obiografismo in cui l’io si confina ai limiti di una storia privata il cui contrassegno è la negatività, l’emarginazione esistenziale:

Questo lento svanire della vita in me sempre più si sprofonda; e sembra ch’io affoghi omai...

(Globo) E il richiamo quasi leopardiano all’assurdità e alla inutilità della vita

(fragile illusione) sempre si stempera fra ricordo e speranza. Disillusione che non si attenua, anzi tende a rinchiudersi in un più cupo diarismo lirico proprio nell’ultima parte del volume come ad esempio in Buio dove la dizione prosastica si scioglie nella confessione dell’ultima quartina di acre sapore cardarelliano:

Ma mi sento già inutile e sconto la vita che ho sempre agognata stando fermo nel buio.

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dove quel ma prosastico iniziale, costrutto frequente in quest’ultimo Piazzolla, accentua quasi nel tempo la pena del vivere. Proietta la certezza temporale del presente (mi sento) in un lontano passato; proprio perchè essa è continua, dentro la vita. Segue un periodo di apparente stasi. In effetti Piazzolla è tutto teso a registrare eventi che non possono non coinvolgerlo come testimonia il volume Gli anni del silenzìo che raccoglie le poesie scritte nel decennio 1940-50 e pubblicato il 1972. E già questo « Nido di upupe » ci offre una misura stilistica nuova:

Era tramonto steso sulle rame dal tronco dell’ulivo, giunse al mio orecchio sillaba confusa.

Due endecasillabi e un settenario che dimostrano la chiara qualità della

parola, il nesso rigoroso delle immagini, essenziali, di derivazione ermetica, vorremmo dire, se la parola non ingenerasse equivoci. E gli esiti formali di questo Piazzolla post-ermetico sono anche da vedere in quel lento giro della frase, in quel recupero del tema elegiaco su cui tanto avevano insistito i nostri Gatto, Penna, Quasimodo, ecc., qui sciolto in ampie cadenze colloquiali:

Ora che è inverno, ho pulito la casa. I muri bianchi t’aspettano, con ansia intorno al lume. Tu puoi venire vestito come sei.

(Lettera della madre vecchia al figlio lontano)

D’altra parte Piazzolla non sfugge alla tagliola degli eventi facendo registrare

una serie di componimenti scritti tra il 1943-44, che, come per molti impegnati e non, sono una testimonianza contro la barbarie che si andava perpetrando contro l’uomo. E il Nostro reagisce nella maniera più forte:

Pochi uomini, poche belve, danno alla memoria cibo di sangue e alla terra ossa fredde come sassi.

(L’offerta)

e se qui Piazzolla non sfugge a questo prevalicare della rabbia sulla ragione, altrove ci sembra di ascoltare qualche canto di Monterosso:

Cantano i vetri perché si è fatto notte, all’improvviso,

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sugli orologi a sole nella via di ossa umane.

(Apparizione)

o qualche canto di Quasimodo dell’impegno:

Ora son prigioni le case, ove le pietre celano echi di bestemmie, gridi rimasti nelle ossa come tarli di fuoco.

(Metamorfosi, IX) Ma l’importanza di questo volume è nel recupero di quelle zone liriche

tra levità idillico-epigrammatica e registri fantastici che preannunciano da una parte Elegie doriche e dall’altra Lettere della sposa demente.

Si legga ad esempio Felice loto:

Colombe silenziose spiccan voli dall’onde.

Ora amoroso il mare canta al mio giovane cuore.

E sicuramente il componimento che è un anticipo felice delle Lettere è la lirica-poemetto Nel mio sangue un nome. Qui Piazzolla piace per quella capacità di fondere immagini sensuose, per quella capacità di trasportare il piano della realtà su un piano di note fantastiche dove anche la memoria e il ricordo (che sono le condizioni di partenza di questa poesia) si volatilizzano per cedere il posto alla fantasia:

Mi chiami! E l’eco, a notte, giunge stanca al mio vago silenzio, e ti ritrovo. Qui già l’inverno gela: ti penso fortemente! Ma l’ora tarda fa limpido il silenzio di te pieno.

Sono questi nuclei lirici dove parola e immagine si fondono in un

equilibrio e in una compostezza strofica rara che fanno di Piazzolla uno dei pochi continuatori della lirica d’amore greca. E non meno è da notare la sospensione del personaggio che mai ingenera monotonia per quella capacità di penetrarne fino in fondo ogni moto impercettibile. E tutte le sfumature di una rinnovata psicologia petrarchesca non gli sono

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estranee. Elegie doriche si pubblicano proprio quando piú vivace è la polemica tra neorealisti e neormetici. Ogni dubbio sul recupero della parola essenziale è fugato da questo « Bronzo etrusco » uno dei più alti componimenti della raccolta:

Al tempo incolore porgi il profilo antico; ed è mestizia il gracile sorriso sul bronzo dissepolto.

dove la figura della madre ci giunge come da lontano, inattesa, sospesa, tra mestizia ed elegia, tra presente e passato, come la stessa struttura sintattica suggerisce: ai presenti (porgi. è) fanno riscontro i passati remoti (rinnovasti, fosti, avesti). Il tema della memoria resta uno dei iopoi della lirica piazzofliana a cui ritornerà ininterrottamente. Si legga ancora « Nebbia su mia madre »:

Se tu sei vera sulla riva ignota che divide il mio cuore dal tuo abisso, non dirmelo quaggiù finché ogni fibra mia ti cercherà. Non dirmi se la morte è solo un’assentarsi, ma reggimi, soltanto, col tuo apparire, fragile, ogni sera; raccontami s’è buia la tua valle nascosta dietro il tempo.

Ancora Piazzolla insiste sulla dialettica finito-infinito servendosi di agaettivi di un vago sapore intemporale, quasi indefinito (“assente” del v. 12, “ignota” del v. 28) che riportano la figura della madre in uno spazio tra realtà e sogno, mentre il fragile del v. 35 quasi fisicamente ce la fa toccare. Così mentre ì predicati svanisti del v. 4, si sfanno del v. 7, e apparire del v. 35 adombrano il sentimento della sua morte proiettandolo nel sogno, come se fosse meno certa; i sostantivi abisso del v. 29 e valle del v. 37 definiscono topograficamente, ce ne fanno sentire tutta la certezza, distruggendo il sogno.

Altre volte come in Buio su mio padre è la figura del padre, riproposto da Piazzolla con forza sbarbariana, l’oggetto di questa dialettica. Il tema elegiaco che ritornerà in Esilio sull’Himataya, ne Le favole di Dio, in Adagio Quotidiano, in Pietà della notte, in ogni caso non è un tempo d’evasione, come la memoria non è un puro ricordare, ché sempre il dato temporale, ora ammorbidito dalla paratassi discorsiva, ora diluito nelle cadenze della preghiera, gli si configura come possibilità d’incontro e di tensione verso l’assoluto. Dall’altra parte Elegie Doriche fanno registrare una condizione di momenti di intensa contemplazione quasi sul filo di una epigrammatica neogreca che ricorda Alceo, Saffo, Meleagro. Si leggano per esempio questi versi di « Stagione »:

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All’ape il tempo dolcissimo già cola.

o ancora:

Per l’aria di tenera pietra mansueti passeri ricordano gli autunni.

(Urna dorica)

dove la brevità del verso non è frammentismo; né la parola è tessuta di fronzoli come dimostrano Novilunio, Sirio, Via Lattea. Condizione di estrema purezza a cui Piazzolla ritorna ne Le favole di Dio (1954) dove i rimandi vanno senz’altro all’Antologia Palatina.

Insomma Piazzolla di Elegie ha scavato dentro se stesso portandosi all’interno di un’area poetica greco-mediterranea (l’antica Daunia) come recupero di un tempo poetico che non è solo contemplazione o nitore della parola, come la castità o la brevità dei componimenti potrebbe suggerire, ma soprattutto misura spirituale ed umana.

Il ’52 Piazzolla pubblica le Lettere della sposa demente le quali ritorneranno in un disegno molto più ampio e per la verità fin troppo ardito nel volume del ’60 Mia figlia è innamorata. Piazzolla qui trasferisce la sua capacità di sentire la realtà per immagini, per nuclei lirici, ad una vicenda di sogno-irrealtà dove quella capacità si acutizza fino a farei respirare un’aria di demenza.

La vicenda si svolge, come si legge nel prologo, in un paese delle Fiandre, ma ogni riferimento temporale è pressocché inutile poiché il poemetto non si appoggia ad una trama narrativa entro cui si muovono i personaggi. Né vi sono causanti che possono giustificare questo o quel sentimento, questa o quell’azione.

Il sogno della demente (il suo dramma, il suo amore, la sua vita) si svolge su un piano metatemporale, in uno spazio-tempo che è la nostra coscienza. Il personaggio non si confessa (per questo non è un canzoniere d’amore), ma vive il suo amore su una sospensione di pause per un tempo quanto può durare un sogno. Ed è proprio questo risucchiamento della realtà nell’irrealtà del sogno che fa delle Lettere un poemetto sui generis e certamente un unicum nella poesia del Novecento. Ma le Lettere proprio per questo fluire della realtà nel sogno rispondevano perfettamente al temperamento poetico del Nostro, alla sua verve lirico-fantastico-irriflessiva. E rispondevano ancora al suo bisogno di sentire la realtà quasi alogicamente, e immaginalmente come lui stesso dice nel suo diario E l’uomo non sarà solo: « Per me scrivere è stato seguire un ordine alogico che scaturisce proprio dalla sproporzione tra l’azione del pensiero che intensifica il mio tempo, e l’inazione del mio corpo che resta bloccato nello spazio, in cui mi muovo appena »1. In questo senso

1 M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, Milano, Ceschina, 1960, p. 10.

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la sua poesia è quella che meno sopporta schemi mentali o filosofici in genere. E quando egli continuando dice: « La poesia è per me alogica come la musica. Essa procede per salti e per trapassi come il tempo che, velocemente, s’aggruma nel pensiero »2, non tanto ci sembra di capire che egli voglia dire irrazionale o arazionale, ma che essa non sopporta altro tempo se non quello delle immagini velocissime che si sovrappongono fantasticamente. Poi il Nostro a dieci anni di distanza rielabora Le Lettere operando tagli e apportando modifiche, ma quello che più importa notare allargando la vicenda: dall’unico tempo delle Lettere ai tre tempi di Mia figlia innamorata. Insomma dall’indistinzione del personaggio si passa alla distinzione e alla triplicazione di esso nelle tre figure: sposa-figlia, sposa-madre, sposo-padre. Invariato resta il prologo.

Più ristretto il registro dei moti psicologici che s’intrecciano fino al delirio del personaggio:

Mi sento nuova e il tempo mi travolge. Mai m’abbandoni: tu vibri col mio petto e resto muta, piena del tuo silenzio.

In particolare è nel primo tempo che assistiamo al lento vibrare di una

passione-desiderio. Passione che mai sfocia nel dramma; è piuttosto un riandare dell’anima, di un’anima delicata, che si ascolta sul filo di impercettibili movimenti che si fondono col paesaggio.

Ma sempre questo poemetto è l’esplosione di uno stato d’animo in continua decontrazione sia attraverso notazioni temporali: (la sera, la notte, il giorno, l’aurora, ecc.)

Quando la sera mi raccoglie stanca e la mia stanza trema, l’ombra mi suona come un soffio lieve. Tu mi tieni sospesa ed io ti chiamo. (p. 17)

sia attraverso connotazioni atmosferiche (il vento, la pioggia, l’acqua, l’aria, ecc.)

Oggi è con me la pioggia e non so cosa dirti. Come è vasto il freddo sceso nelle mie stanze... (p. 20)

che riportano il sogno nella realtà. Ed è proprio in questo continuo proiettarsi della realtà nel sogno e del sogno nella irrealtà della realtà la molla del poemetto. Pure non mancano momenti di sosta e allora la parola

2 Idern, p. 10.

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si prova a ripetere luoghi comuni della casistica d’amore che smorzano la passione.

E’ così breve ogni istante che va da un cuore all’altro, ch’io mi senta travolta... è allora che vorrei forse morire. (p. 30)

Fondamentalmente Piazzolla non evita lo schema della ripetizione che

ingenera nel secondo tempo monotonia, essendo la madre un duplicato della figlia, e anche perché non si capisce fino in fondo il ruolo della madre che nei confronti della figlia resta una temibìle rivale:

Stasera sono lieta perché l’autunno è in fuga. Ho indossato la veste di mia figlia e aspetto per te la nuova luna. (p. 67)

Nel terzo tempo è la figura dello sposo-padre che fa la sua comparsa. Anche

su di lui incombe lo stesso destino l’irrealtà del sogno. Ed è forse questa coscienza dell’attesa vana a creare la tensione poetica del poemetto:

Lo so che tu non m’odi. Così, di sera in sera, solo ti sciupa il buio. Ove tu non mi pensi e pìú t’incurvi nel tuo grido ormai secco nel petto. (p. 82)

Contribuisce alla riuscita di questa figura anche il taglio che resta più

scorciato. Insomma passando dalle Lettere della sposa demente a Mia figlia è innamorata la vicenda si temporalizza, ora vi è una trama, che si complica mediante il vecchio artificio di una mezza agnizione della figlia-sposa che è poi sposa-madre (figlia poi donna) che finisce col pregiudicare il loro libero comportamento. Non a torto il Frattini così concludeva: « Non diremmo che la più vasta e complessa orchestrazione del tema originario abbia giovato... all’intensità e all’intima necessità della parola poetica. E se le accorte riduzioni, rilevabili per il II tempo, sul testo delle Lettere, testimoniano più rigorose esigenze formali, altrove si avverte il concedersi a un gusto sottilmente compiaciuto della figurazione astratta, campita e delibata sui puri arabeschi di un sogno, il cui lento dipanarsi, su una candida geologia di sensibilità - al limite di una innaturale casualità e di una « follia di comodo » - ingenera qua e là un senso di gratuità e di monotonia... » ‘. La ballata Viaggio di nozze al

3 A. FRATTINI, in « Humanitas », novembre 1969, p. 840.

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paese di nessuno inclusa nel volume Ballata per mille ombre continua il tema delle Lettere della sposa demente. Essa fu scritta il ’53 subito dopo la loro pubblicazione. Qui l’amore, anche se il linguaggio si è disciolto .n cadenze iterative, ha perduto la demenza del sogno e si è proiettato n un futuro prossimo (andremo, incontreremo, vedremo, pasceremo, scriveremo, viaggeremo) che ha riassorbito ogni singulto, ogni tensione. Vi resta la speranza-certezza:

Andremo a villeggiare a un’isola verde, dove si fanno ceste con raggi di sole …………………. e si può scrivere t’amo sulla luce.

I Poemetti pubblicati nel ’58 sono stati scritti tra il ’50-53. Questo spiega

il loro legame stretto con le Lettere. Diciamo subito che il poemetto d’apertura « La sonnambula in esilio » (1950-’51) è senz’altro un anticipo della sposa demente. Non solo l’amore è al centro del poemetto quanto la vicenda si svolge in un’atmosfera di sogno, al limite della realtà. L’altra caratteristica che avvicina la sonnambula alla demente è l’impossibilità dell’amore che ingenera nel personaggio solitudine e un palese desiderio di amore verso la natura. Anche qui la pena si estrinseca nel parteciparla ad altri esseri: la rosa, la tortora, le farfale. il vento che sono gli interlocutori di questo monologo:

Ascoltami, tu, rosa venuta fin dietro i vetri. Ascoltami e non dirmi che son triste. . . . . . . . . . …e quando dormo guarda se ancora penso o sogno chi non torna. (p. 7)

Come pure la demenza (qui appena partecipata), l’essere in preda al sogno, il dissolversi di ogni misura spazio-temporale, creano in tutto il poemetto quella fabulosità che è propria della fiaba. Invece nel « Soliloquio di una fanciulla antica » (1949-50) è il fiabesco il tono predominante. Il linguaggio ha tutti gli ingredienti della fiaba (il tono del racconto, l’uso frequente del discorso diretto, l’inizio del verso col quando temporale, ecc.). Addirittura il raccontare è la misura di questo poemetto; un raccontare, a volte, eccessivamente innocente ed ingenuo:

Nonna mi dice sempre: Vedi la luna? Vedi la sua faccia? Guardala, guardala sempre. Essa è una signorina che non volle morire. Mai volle morire veramente. E allora se ne andò nel cielo

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per essere felice e non morire. lo so che non ancora è morta; non è morta; ma si è fatta più bianca. (p. 15)

Si noti anche l’uso insistente del verbo dire (mi dice, mi ha detto) proprio della narrazione; e nel finale il racconto porta al sonno e al sogno. Questo poemetto ci induce a pensare che sia stato scritto proprio per gli adulti-bambini e bene starebbe in un’antologia di favole e racconti. Meglio risponde alla natura mitico-favolosa della poesia piazzolliana. Il sogno è la ricreazione di un sovramondo, vero e solido mondo, oltre l’effimero del sogno; perchè questi poemetti non sfociando nella favolistica didattico-morale sono un chiaro ritorno del poeta all’infanzia; rifugio alla sua solitudine:

Se la luna venisse sul mio letto a farmi compagnia, io la vestirei da sposa con il velo: quello che la nonna nascose in un tiretto dicendomi, felice: questo non è un velo; questa è l’anima mia; e chiuse a chiave. (p. 31)

Il verso qui è un puro pretesto che sottintende un più vasto disegno

autobiografico e una pena più vasta che l’apparente ingenuità della scrittura in parte riesce a nascondere. Ora questa « ingenuità » è anche l’estraneità di un mondo non suo; il fuggire sin da giovane il suo mondo meridionale: prima Parigi, poi Roma.

Eppure questo dolore non si traduce in lamento verso la sua terra che apparentemente mai riesce ad essere oggetto immediato di canto. Estraneità che è sempre avvertita:

Io sono fermo in un celeste esilio a guardia della luce. (Quando l’angelo parla)

E pensiamo ad autori come Quasimodo, Gatto, Sinisgalli e ai più giovani

Scotellaro, Pierro, Marniti e al recupero tramite la memoria della loro terra, avvertita in un mondo lontano dalla loro esistenza, ma gioia immensa. Gli accenni di Piazzolla al Sud sono rarissimi, quasi evitati, e in genere sobrii; la pena è quasi trattenuta:

Morire fra gli ulivi; con le cicale in festa, e l’afa meridionale sulle cime.

(da Le favole di Dio, p. 146)

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Non ha che pietre e vento il mio paese...

(da Il mattutino delle tenebre, p. 43)

Ma il recupero della terra avviene mediante il tema elegiaco incentrato sulla figura paterna e per questa via la sua poesia si salda alla tradizione lirica meridionale. La figura del padre, a parte la sua popolarità nella poesia del Novecento, e in specie in quella meridionale (e pensiamo al volume di Spagnoletti A mio padre, d’estate), ritorna sistematicamente in tutti i volumi del decennio 1950-60. Non solo come simbolo affettivo, ma bisogno impellente di sentirsi attaccato alla propria terra tramite la sua amara esistenza. In questo senso il filone elegiaco e il filone favolostico s’incontrano. E i lineamenti lirici di questa figura ricordano la forza dei versi al padre di Sbarbaro. Non insisteremo mai abbastanza sulla dialettica padre-infanzia-terra-solitudine che è un altro punto di forza della poesia piazzolliana. E ascoltiamone insieme qualche canto:

E tu, padre, metti radice alle nuove ginestre. L’aria d’aprile non sa che sei venuto alle sue contrade di fiori. Ti sanno a memoria tante frasche appassite; e l’ombra che avesti fa da guida alla luna per questa pianura vuota che mi ha fatto straniero. Verrà il tempo in cui ti coglierò come una calda viola al mio paese. (da Esilio sull’Himalaia, VIII)

Il tono idillico è sempre smorzato dai continui riferimenti al paesaggio (le

ginestre del v. 2, le frasche del v. 7, la pianura del v. 10, la calda viola dell’ultimo verso). E queste note di paesaggio non avrebbero alcun senso se non accentuassero il senso di estrancità-separazione del poeta dalla propria terra che la figura del padre mette in moto. Si capirà così il senso della nostra affermazione padre-terra-infanzia-solitudine. Al di fuori di questa dialettica avremmo annotazioni generiche di paesaggio e disarticolate invocazioni affettive. Un volume che in effetti sembra staccato da tutti gli altri, ma che fa il punto su questo primo Piazzolla è Adagio Quotidiano (1958). Per la verità Adagio Quo-

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tidiano resta un diario, se vogliamo lirico, più che un libro di poesia. Un diario in versi che esplicitamente preannuncia le prose di E l’uomo non sarà solo. L’infanzia, il sentimento della morte, della solitudine, la figura della madre e del padre, sono questi i temi che riempiono il volume. Temi che però mai si risolvono in poesia proprio per quell’urgenza di autoanalisi, di autocritica da cui in fondo sono dettati. Le clausole gnomiche testimoniano di questa eccessiva prosasticità, di questo ritornante cardarellismo di Piazzolla. Si legga ad esempio Vivere non è umiliarsi:

Esistere è giacere nell’essere: soffrire tutto per amore finché andremo nel sole

Si noti l’attacco iniziale filosofico (esistere è giacere) che si continua in tutta

la lirica con rigidità sillogistica:

Se è vero che il mondo è soltanto il sogno di Dio, ogni giornata è luce meritata...

pure ragionativa è la struttura sintattica del componimento completamente innervata sugli infiniti esistere è giacere; vivere è non umiliarsi; vivere è... intendersi. La tendenza all’analisi, ereditata anche dalla familiarità con la filosofia, si estrinseca nelle prose di E l’uomo non sarà solo (1960). Confessioni che si accavallano e che ritornano con puntuale frequenza nei quarantacinque capitoli di cui si compone il volume.

E la chiave d’interpretazione dell’intero volume va cercata in una frase posta all’inizio dell’ultimo capitolo: « Ho scritto soltanto per conoscermi. Ho tentato la sapienza: ecco il crollo »4. Questo senso di autoconoscenza e di penetrazione all’interno del proprio io informa questi pensieri, anche se mai vi è in lui quel solipsismo, quel pirandellismo, quella negatività propria delle filosofie e delle poetiche del Novecento. Vi domina un senso di smarrimento, di amarezza, di rimpianto che è insieme attaccamento alla vita e bisogno di viverla fino in fondo: « La mia giovinezza è finita... Mi stringe l’amarezza degli anni e l’ostilità di un mondo che si brucia. L’indifferenza è terribile. E’ finita anche la poesia e sono solo »5.

Ma fondamentalmente è il bisogno di sentirsi radicato in Dio, di non averlo cercato invano che anima queste pagine. E ancora ce ne fa certi il finale dell’ultimo capitolo: « La speranza è questo sentirsi assolutamente vivi nel pensiero costante della morte. Gli uomini di domani scopriranno questa tenera dimensione del tempo. Faranno un

4 ibidem, p. 155. 5 ibidem, p. 31.

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coro, come lo fanno, da sempre, i morti di tutte le latitudini che ci vengono dietro come tante foglie secche e non ce ne accorgiamo. Per questo. senza sapere perché, ogni morto è vestito a festa. E sale dove siamo tutti fratelli; dove Dio solo parla per tutti, col suo silenzio da sempre »6. La morte insomma è l’ultimo atto per chi cerca Dio. Anzi il pensiero della morte come ricongiungimento, come svelamento della presenza di Dio ritorna più volte come in questo capitolo quindicesimo:

« Quando verrà la morte, spero di scoprirmi definitivamente... Pare che la morte si avvicini proprio come un alito in cui la memoria può scoprire tutto ciò che nasconde. Pensate di ritrovare tutta la vita in pochi istanti. E’ il miracolo del tempo che soccombe davanti all’eternità di Dio, venuto a visitarci in un momento così terribile da farci tacere per sempre »7.

Non mancano ricordi autobiografici, pensieri, disgressioni filosofiche, come tutto il capitolo XXIII che si attarda sul problema della felicità e del male. Ma sono queste pagine dettate dall’urgenza di giustificare le proprie azioni, di dare un senso alla propria vita, e quindi indirettamente espressione della tensio-ne religiosa del Piazzolla. Mai i ricordi (siano essi affettivi come la rievocazione della figura materna e paterna; siano essi esperienze di vita vissuta) sfociano in blande pose rievocative o le confessioni in uno stato morboso di autoeccitazio-ne. Così mai del Dio di Piazzolla riusciamo completamente a farcene una idea. Proprio per quel continuo sentirlo vicino e lontano. E questo andare tra cielo e terra fa slittare la prosa in un lirismo, caratteristico del Piazzolla-poeta, che si estrinseca in preghiera. E la preghiera è tutt’uno con l’uomo Piazzolla, in quan-to essa non nasce da un’analisi esistenziale (e pensiamo a Papini): non è il vo-lume un diario di un uomo finito o tantomeno provvisorio: né frutto di una stasi mistico-contemplativa.

La sua spontaneità ci ricorda qualche preghiera a Cristo di Claude e ascoltiamone qualcuna: « Non te ne andare, Signore; non smettere di sognarci anche se tutta la terra è colma di fanciulli uccisi. Lasciaci pregare almeno senza il tuo nome, se tu sai che siamo assassini: se ci pesa la carne e questo antico sangue che ci brucia... Non lasciarci quaggiù se vanno più lontane le tue stelle, da sempre. Dacci l’amore quotidiano e la ragione e il sole; fallo per i fanciulli e le farfalle che scendono dal tuo riposo a dirci che la vita può essere un volo... Colma il nostro abisso almeno con un tuo raggio e torna nelle parole a dar senso alla vita. Da tempo il nulla ci chiama con tutto il buio e l’uomo non sa se è vero più il tuo cielo o la sua fine. Parlaci una volta del tuo paese intatto. Che domani l’aurora sia colma delle tue colombe, colma della tua luce e di silenzio »8.

6 ibidem, p. 160. 7 ibidem, p. 48. 8 ibidem, 150-152.

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La disposizione fantastica che aveva trovato piena attuazione nelle Lettere ritorna con altra misura ne Gli occhi di Orfeo (1964). In apertura Piazzolla chiarisce la sua poetica. Vi si legge:

La parola è sola. Fa luce. Aggiunge suono al vuoto ed è raggio d’un paese volato. Pronta a chiamarsi assenza o a farsi aureola di qua dal Nulla.

Ha sangue d’oro. Vocali ad ala fulmini accesi dall’Eternità. Scatta l’usignolo d’una sillaba e segno resta: null’altro. La parola è tuono di favola, cominciata e finita. Chiama l’angelo. Scorta l’uomo. Addiziona i Soli sulla lavagna e inventa il dio che non c’è.

(Poetica) Ora che altro è questo manifesto se non l’esposizione della sua poetica? O almeno la poetica de Gli occhi di Orfeo. Non si vuol dire che il Nostro è

un voyant o un orfico come ha affermato il Pento9. A noi sembra che non si possa parlare di un orfismo piazzolliano della parola almeno nell’accezione onofriana e campaniana e in genere di gran parte di un certo ermetismo.

L’orfismo consiste sì come vuole il Pozzi: « ... in questa sopraffazione del canto sopra il significato, nell’irrazionalismo metasemantico che domina e determina, con impeto oscuro, il contenuto di Onofri, di Campana, giù giù, fino ad Alfonso Gatto, a Parronchi o a Sinisgalli »10, ma implica altresì dei conati metafisici e delle entrature simboliste assenti nella parabola piazzolliana. E quando il Piazzolla dice che La parola è sola. Fa luce. non ci sembra voglia dire quasi simbolisticamente che essa è un mezzo di penetrazione del reale o meglio del mistero, dell’inconnu, ma piuttosto che è sufficiente a ricreare tutto un mondo di sogno, di favola, d’irrealtà. Infatti aggiunge suono al vuoto ... / Ha sangue d’oro. Vocali ad ala... / è tuono di favola... / Addiziona i soli sulla lavagna / e inventa il dio che non c’è. Ed è in questa ricreazione di un sovramondo, riscattato solo dalle immagini, per cui diventa ba-

5 Cfr. B. PENTO, in « Annali della Pubblica Istruzione », gennaio-aprile, 1965; si

veda anche N. SIGILLINO, in Persona, giugno 1965. 10 G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1970, p. 116.

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roccheggiante, il significato e il valore della parola. Né vogliamo dire che Piazzolla qui fa prova della poetica delle parole in

libertà che si uniscono o si allontanano, si sommano e si sottraggono in preda ad un’empiria immaginale. Né fa della poesia visiva o fonica allineandosi ai movimenti avanguardistici di quegli anni. Per cui è questa poetica della parola in pieno accordo con la parabola lirico-evocativa e lirico-favolistica del Piazzolla. Certo si deve prendere atto di un neobarocchismo piazzolliano proprio come esplosione della parola, prepotenza delle immagini, delle sensazioni, dei suoni, dei colori sui contenuti. Infatti dalle Lettere, attraverso il passaggio obbligato dei Poemetti, a Gli occhi di Orfeo, l’assottigliarsi del contenuto fino alla sua scomparsa è evidente:

Il fulmine giocava al cervo tra i boschi di nuvole obese di tuoni e crepacci briosi d’acqua nuova.

Poi la pioggia, con aghi lucenti, trafisse le foglie accartocciate sui rami; e l’aria musicò, tra il ridere del piano, le margherite. (p. 9)

E non mancano zone di puro capriccio, di vaga surrealità, dove

l’appariscente analogismo incuriosisce:

Butta sangue la nube. E’ un agnello sgozzato sui gigli dell’onda. Fiorisce d’api il ponente: scocca la luce sconfitta fra mille campane.

Perde porpora il sole: cardinale impiccato a una forca di rame. Squilla il fondo marino. Appare la stella bianca caduta giù dalla luna.

Talora come in Estate quasi sulla scia di Marino la natura si esalta in immagini eccessivamente lucidate, sontuose, colorate:

Ecco l’estate col dorso di cicale e l’anima di calce. Butta cetonie ed api dai suoi rami di luce.

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Si scioglie nei frutti scivola nel miele: è frasca sonora al vespro. Asciuga l’ombra ha il sapore del sangue.

E la rosa, la farfalla, il sole, il vento sono momenti di questa esaltazione,

che non evita il fastidio dell’amplificazione e finanche la monotonia dell’elenco:

Cinque vocali cinque rondini che vanno a scuola. Nelle vocali fanciulle il volo delle vocali. Sui fili d’erba la voce delle rondini. Aula bianca nel bianco volo delle vocali. Prato verde nel verde canto delle rondini.

Questo neobarocchismo di Piazzolla trova la sua misura più valida nella

sezione « Gli occhi di Orfeo »: immagini in fuga, suoni, colori, ritmi, legati tra loro da un tessuto lirico fragilissimo al limite di un frammentismo impressionistico:

Sulle vetrate volano agili uccelli colorati di fresche ferite.

Queste felici impressioni che sono già un avvio verso il recupero

semantico della parola non sopportano altro peso se non quello di una lenta sillabazione che crea un dolce piacere retorico. Ed è proprio nella levità di immagini senza peso, scorporcizzate, la misura de Gli Occhi di Orfeo.

Le ultime due parti Dolore e morte e il poemetto Il mare sono un ritorno alla parola pregnante di significato; a una dialettica di vita-morte che sostanzialmente riabilita il contenuto. In particolare il rapporto dolore-morte che presuppone quello di nascita-vita è visto alla luce di una natura umanízzata che partecipa agli avvenimenti-accadimenti della vita umana.

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Gli scrittori al Caffè Strega: (da sinistra a destra) Carlo Ternari, Guglielmo Petroni, Marino Piazzola, Vincenzo Cardarelli,

Vitaliano Brancati e ErcolePatti.

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VIAGGIO NEL SILENZIO DI DIO

La dimensione religiosa nella poesia piazzolliana non è un fatto marginale e tanto meno di poco peso; in effetti l’intera sua produzione sottintende (e come non lo potrebbe la poesia) una presenza costante: Dio. E se la dimensione religiosa resta per così dire nascosta sotto un apparente disimpegno idillico-elegiaco fino a Elegie doriche e alle Lettere della sposa demente esplode in Esilio sull’Himalaya (1953). Ora Piazzolla non è un poeta dichiaratamente religioso almeno nel senso confessionale del termine. La sua poesia religiosa nasce da un’insoddisfazione umana, da uno stato di irrequietudine-solitudine comune a tutta la sua poesia. Insomma Dio non si pone come alternativa ad un mondo dominato dall’ingiustizia o dalla barbarie. La sua preghiera nasce proprio dal bisogno di sentirlo vicino giorno per giorno: « Mi dispero perché non potrò mai ricordarmi di Dio. Ci sfuggiamo da sempre... Eppure batte col mio cuore e si colloca in me come una dimensione su cui è vano ragionare. Mi è necessario come l’aria e come la luce del sole dopo il sonno »11. In Esilio sull’Himalaya il dialogo con Dio accenna a farsi serrato e perfino angoscioso. Infatti Dio è qui luce, come il mondo è tenebre:

T’immagino vestito con il raggio che abbaglia (p. 11) dove non sei che favola di luce (p. 17) Pensarti è vestirsi di luce (p. 18) Io torno alla tua luce (p. 22)

e ancora dantescamente Dio è guida, abisso, sapienza, pietà, rifugio.

Un dialogo sempre riferito ad una condizione umana precaria:

Io brucio e tu m’inchiodi a questa magra terra.

Così consumo i giorni senza mai fissarti mentre vai più lontano. (XX)

Ma Piazzolla è riuscito a tenersi lontano sia dagli ardori di una

commozione troppo sdolcinata sia dal peso di una parola eccessivamente indulgente all’enfasi del cuore; come pure ha saputo evitare il rigore metafisico del verso di Comi:

11 M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, cit., p. 27.

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Ch’io mi perda, come sopra un nevaio, per accostarmi a te, o antica mia innocenza.

(XXXII) Dove l’inizio del primo verso crea un alone di smarrimento e di dolce

perdimento nell’innocenza di Dio. Con Le favole di Dio (1954) il dialogo subisce una brusca svolta. Il linguaggio

si offre a spunti filosofici su una linea di interrogazioni in cui il dialogo-preghiera di Esilio si arrende all’ipotesi di un monologo-assenza.

Dio è relegato nella concavità di mondi favolosi, in plaghe, gli intermundia lucreziani, dove ogni voce umana sembra perdersi nella immensità degli astri:

Eppure siamo soli e tu non odi quando chiamiamo tanto è il tuo silenzio. . . . Ma sei dove nessuno potrà giungere: sei dove nessuno può pensarti.

(Dio è solo, v. 23-24; 59-60) Qui il recupero di Dio avviene all’interno di un discorso che Lo nega in tutti

i suoi attributi, sentiti dal poeta troppo lontani. Piazzolla, così ci sembra, non ipo-tizza un mondo senza Dio quanto Lo nega nella sua infinità per recuperarLo come possibilità realmente umana. E’ una sfida che non ha altro significato se non quello, anche se non mancano sfumature ironiche, di accentuare la fragilità della condizio-ne umana:

Il passo tuo guida fanciulli uccisi. La tua parola è per i sordi che sognano. . . . tu non sei mai morto sulla croce per la troppo innocenza che ti preserva dai millenni. . . . Tu sei troppo eterno per venire quaggiù come un’eco sulle labbra. (v. 80-82; 91-94; 107-109)

E ci viene in mente Piccolo uomo di creta di Cosma Siani12

12 Cfr. C. SIANI, Ciclo chiuso (trenta poesie), Poggibonsi (Siena), 1972.

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dove gli stessi interrogativi si fanno eco di una condizione esistenziale tormentata fino ai limiti della negazione. Ma dicevamo questo tormento è assente in Piazzolla e il finale della lirica è da sillabarsi in lenta preghiera:

O signore, . . . lasciaci soli nella vita lasciaci soli nella morte che a nulla serve credere . . . accompagnaci soltanto per l’infinito quando non saremo più.

(v. 132; 135-137; 142-143) Il crollo del Tempo e Tempo di sangue registrano un acuirsi delle immagini

fino all’esplosione magmatici di ” Sabba ,, che è il canto del dolore umano. Gli accenni apocalittici ad una realtà terrificante di distruzione e di morte sono frequenti:

I fanciulli si uccidono in piena luce con le armi che sognano. E’ cessato il tempo delle rondini. Le colombe si vedono sui quadri dipinti e nelle feste sono sole le girandole cinesi e le orchestre pazze. . . . Poeti murate la bocca e fate bancarotta sulle onde se il sole ha sete di oceani e la fame non basta a punirci. . . . Dai pulpiti di ossame anonimo predicano i profeti di pietra e il loro giorno è grazia nera sui nostri pensieri inabissati.

E non v’è chi non veda in questi versi un’allusione agli avvenimenti

contemporanei e un’ironia sprezzante fino al sarcasmo. li linguaggio si carica di tinte epico-narrative sconosciute alla sua poesia. Meglio la contaminazione tra cadenze epiche e litaniche fa slittare le immagini in una demenza linguistica e sintattica, espressione di una visione di mondi quasi in ebollizione:

Verranno qui a piegarsi le foreste in bufere di foglie immense

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sui capelli dei vivi; verranno a gemere in tuta nera gli operai dai volti rotti, appena sarà viva la notte e suoneranno le luci altissime dell’Orsa...

(Verrà il vento stanotte) Il Mattutino delle tenebre (1966) resta uno dei punti più alti della tensione

lirico-religiosa di Piazzolla. Tutta l’acerbità, il tormento, i singulti de Le favole di Dio si sono rasserenati nel ritmo composto e disteso della confessione.

Nell’Esilio sull’Himalaya la preghiera domina come punto di partenza e d’arrivo dell’inquietudine piazzolliana, in quest’ultima Dio è al centro di un canto più vasto, al centro di una natura redenta dal suo sacrificio.

Piazzolla in questo senso rifà la storia di tutti gli uomini in ascesa verso Dio. La sua storia individuale qui conta ben poco. All’io si è sostituita la coralità del noi:

Ti offriamo le mani crudeli. Ti offriamo le vecchie parole . . . E ora basta di vederci assassini! Te lo chiede il fiore che si sente fratello e il tronco che ti saluta

agli eventi la natura:

Ce lo dice il monte che chiude a sera un mare di ginestre. Ce lo dice il sole che batte ai vetri, come un usignolo di scintille, all’alba.

E la memoria di Dio è certezza del perire delle cose umane:

Quaggiù esatto è il solo perire in una gelida penombra di stagioni. Se tu non fossi che parola vuota io avrei la morte certa.

Allora Il mattutino delle tenebre è il limite-confine dove l’uomo scopre Dio.

Questa felice condizione di dialogo s’interrompe nel volumetto Per archi impazziti (1970). Se il paradigma di riferimento resta pur sempre Dio, in effetti Piazzolla si abbandona ad una specie di

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lussuria della parola che allarga le maglie del discorso in saliscendi di immagini che non solo scompigliano per gli ardui riferimenti e vorremmo dire anche sintattici, quanto per il disperdersi delle immagini in pure e rabescate creazioni ipofantastiche come il titolo stesso vorrebbe suggerire. E ascoltiamo l’inizio di una lirica presuntuosamente meditativa:

Ho visto l’anima. L’ho vista come un’ala che abbaglia il buio. Ho udito l’anima: ho udito un’arpa e c’era il mio silenzio. Suonava con verdi scale d’usignoli gole d’aria d’ovunque. . . . Ho udito i galli svegliarmi negli occhi papaveri, lampeggianti negli anelli dell’alba.

(In interiore homine) L’intera lirica vorrebbe essere un fantastico viaggio dell’anima all’interno di

se stessa, condizione indispensabile per un Viaggio nel silenzio di Dio. In effetti la prolissità delle immagini, il ritornante barocchismo, fanno

scadere il componimento in un gioco di preziosità e di geometrie finissime:

Vedo architetture emergere da nebbia; fiato rosa di mesti simulacri guizzi d’alte nubi, guide arcane vive nei colori . . . Ascolto antiche note echi di conchiglie brusio di fossili nel sasso moti di candide geometrie.

In Gesù muore ogni giorno l’ordito intellettualistico è maggiormente evidente per lo scadere del dialogo, né preghiera, né confessione, in una inventio che fa lampe9giare le immagini:

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Ardi come fiocco d’alba e scendi alle spelonche, tu, invisibile. La luna è vela sull’occhio. L’angelo t’asciuga parole; lo scheletro è radice sotto il buio e tutta la tua carne schizza stille come gerani. Il tuo volto è un incrocio di rughe improvvise: paesaggio di vecchio pianto spremuto all’agonia.

In particolare il contrasto tra Dio-luce-creazione-potenza e Diouomo-sofferenza-dolore è niù nel cuore che nella parola, più presunto che vissuto.

Con Viaggio nel silenzio di Dio questo pericolo è corso sin dall’ inizio. Non solo perché Piazzolla tenta il lungo poemetto, accettando una misura stilistica a lui non molto congeniale; soprattutto perché ubbidisce ad una poetica, e non solo poetica, ma ad una filosofia, ad una teologia, che impongono al poeta difficili equilibri e suture non sempre riuscite tra zone filosofico-teologiche e aperture liriche. Il viaggio segue la duplice linea dalla natura a Dio, da Dio alla natura. Ma il fatto più importante è che Piazzolla trasferisce la possibilità di questo disegno su un piano puramente metafantastico. E non è da escludere l’influsso dei simbolisti da Rimbaud a Mallarmé e la tranche surreale di Breton ed Eluard.

In effetti questi influssi restano marginali, interessano più la scrittura che non il disegno piazzolliano. Lo squadernarsi della scrittura quasi magmatica è l’effetto d’un’esplosione fantastica, d’una fantasia che ha fatto come sua misura il proiettarsi dell’io in un al di là. In questo senso il poemetto è in intima connessione, perché ne è il superamento, sia delle Lettere che de Gli Occhi di Orfeo. Piazzolla si è liberato di ogni riferimento temporale. Ogni visione, anche quelle che ci riportano apparentamente nell’al di qua, labili riflessi dell’io che si ricorda del mondo (ne vede le meschinità, gli odi, le lotte, le catastrofi; ne osserva gli spettacoli naturali, le meraviglie, le creature ecc.), si situano in spazi di mondi, più o meno vicini a Dio. Mentre si stabilisce sin dall’ inizio del poemetto un curioso rapporto di causa-effetto tra immagine-parola e veicolo linguistico responsabile in parte della scrittura automatica. Insomma la « qualità » del viaggio non giustifica, come vuole Aventi 13 « l’apparente alogicità di alcune strofe ».

Ed anche l’impostazione filosofica inaridisce e coarta la vena lirica del Piazzolla. Favorisce il dualismo linguistico del poemetto che sem-

13 Cfr. G. AVENTI,, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, Roma, Ippogrifo, 1973, p.

8.

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pre si attorciglia tra il frammento alogico e pause filosofiche, tra scrittura automatica e costrutto logico. Il primo tempo è il tripudio della natura come complesso animale vegetale che fa le sue lodi a Dio. Non mancano abbandoni dove la scrittura si redime in felice tocchi descrittivi:

E nel vespro abbandonarsi al vento, che nel grumo di un’onda sbatte il mare, o ti conduce nell’oro dell’autunno, quando il ramo lamenta il distacco di un fiore il filo d’erba ti rapisce l’occhio per condurlo altrove, forse in un verde limbo di svanite mattine. (p. 15).

ma subito la tendenza al ragionamento si fa avanti:

Ogni immagine è impeto di vita. Necessita d’ogni pensiero e si completa in sé. S’infiamma o cede in un lampo... (p. 16).

e qua e là le clausole gnomiche non mancano:

Sacro è ciò che allo stupore avvia e si rivela quasi come ferita in ogni gemma del creato. (p. 18).

o ancora:

Ogni vita è un impeto che scoppia e si colora in un punto. (p. 19). Amore è questo fermarsi nella bellezza, in una luce che lega l’occhio alle cose e le chiama per nome. (p. 21).

Altrove l’espressione si fa ardua e per il salto delle immagini diviene

oltremodo difficile seguire il poeta:

Occorre compiersi fra gli uomini: non basta più evocare; il tempo

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si fa coltello: e nel midollo che ci regge suona l’essenza, che sale a farsi riso o dolore sul volto, e impasta l’aria e scoppia la parola, nostra presenza tra le cose... (p. 25).

Da questo punto fino alla fine del primo tempo queste sacche filosofiche si

fano più frequenti e Dio compare e dispare: ora vento, ora silenzio, ora morte in questa cosmogonia universale. Ma solo l’evento onirico ce lo può far penetrare. Si assiste così al sogno del poeta vagante (prima gallo, poi rosa, lucciola, fanciullo) per il mistero dell’universo, fra gli astri, per le profondità degli oceani, per le altezze dei monti. Ci viene in mente il bateau ivre di Rimbaud, ma qui diviene tutto più complicato per i continui rimandi ad un linguaggio che sconvolge la stessa logica:

Occorre scomporre l’istante: Qui c’è l’immagine; luce e fumo. paesaggio e acqua in senso verticale, dove passa il mattutino e con l’occhio il poeta ascolta la tangara nel volo... (p. 3 1)

Mentre il finale è tutto per una visione babelica del mondo:

Già le città hanno viscere per mostri; giardini putrefatti per fantasmi. Ogni muro si macchia di sangue bianco; e sembra calce di lazzaretto lo spazio verticale, dove abbaia la notte che verrà da un sole nero, non si sa perché. Già si tace per i mille rami: qui la terra giace e non c’è buio che basti per la sua voce. O terra, morta fino a Dio per sempre.

Il secondo tempo carica di morte il paesaggio. E l’avvento di una umanità più giusta s’intreccia continuamente alla disumanità dell’uomo

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contemporaneo. Per un momento sembra che Piazzolla interrompa il viaggio e gli prema da vicino la condizione umana. Il poeta abbandona gli spazi siderali per unirsi all’altro uomo, per lottare insieme e scacciare il « mostro »:

Ma col sangue perduto s’alza l’uomo che si fa poeta e aiuta chi scaccia il mostro dalla terra, offre fuoco e luce al volto, rivolto al cielo per tacere... (p. 49)

In verità subito dopo il discorso si frantuma in rievocazioni di visioni

naturali, in nuove « illuminations » edeniche. Il terzo tempo ci riporta nel silenzio di Dio. La contrapposizione tra regno di Dio e regno dell’uomo diventa totale. Ad un mondo metatemporale dove la natura partecipa della gloria di Dio Piazzolla contrappone il mondo terreno:

Caotico è questo mondo, che si fa scatto dove la forma erompe e la parola si fa storia per l’uomo. E così vibra il pianto, abisso dì spazio contratto, dove il segno si fa colore di cosa ferma, o forza in movimento nel viso d’un’immagine, che vergine può insorgere e far diversa la terra in moto, fra gli alti soli nota. (p. 56)

Vi domina in questo terzo tempo la cupezza di un mondo in preda al caos. Le visioni apocalittiche si seguono senza lasciare alcun spazio alla speranza;

ritorna quell’insistente monologo inframmezzato di immagini asfissianti di morte, il periodare si fa ellittico, o si carica d’indeterminazione per accrescere maggiormente la tensione:

... Si va nel senso che strazia e decompone il volto. Si è dentro l’ombra... …Si è soli in quel freddo che piomba al risveglio dal sonno. (p. 57)

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Il pessimismo raggiunge punte altissime e Dio è sempre più distante da noi. E voler trovare uno spiraglio di luce è vano. Il linguaggio va ad attingere in un’area linguistica ibrida; connotazioni anatomiche, diluite in un verso ametrico che ribolle, si uniscono alle pause di una prosa distesa e quasi rievocativa:

la pelle ora si sfascia, l’occhio e la vena dimentica, nel tempo la pupilla vuota. Col sangue si patisce; il teschio calvo, il dente sopravvissuto nella bocca, dove l"alcool distilla un’ebrezza che frana. E si sghignazza per tedio, pieni di sogni uccisi e di speranze sconfitte. Si pensa agli amici scomparsi e si chiama con un silenzio nuovo il tempo che ci ha bruciati; e come un’ombra la donna degli anni verdi s’avanza quasi nel fumo coll’appassire della fronte. (p. 59)

Altrove ci sembra di assistere ad un sogno da una passerella lunare e di vedere attorno a noi i pianeti che ruotano, le galassie, le comete. E in fondo a questa visione, di là dei mondi percepiti dall’uomo, comparirà Dio. E il finale è tutto biblico:

Tacerà la terra; il vento nelle ossa scenderà dall’Orsa esatta sulla fronte; e infine sarà il tempo a tacere, fra i lumi piú soli d’ogni essere solo sul pianeta. Verrà l’impeto che squarcia il vortice, sanguinerà la crosta cozzando contro un sole nero, che si nasconde dalla eternità. Si vedrà Dio, di là d’ogni silenzio, Occhio solo nell’occhio ed infinito. (p. 66).

Certo è che la Resurrezione di Dio quale ci è trasmessa dai Vangeli è

tenuta presente in tutti i suoi particolari (Il silenzio, il vento che scuote le membra dell’uomo, il tempo che si oscura fino a fermarsi. Poi il fulmine in mezzo a tanta oscurità, anticipo di un evento più grande: Dio). Piazzolla non dice vedremo, ma si vedrà. Indeterminazione che accresce la sua potenza e ce lo fa sentire ancora lontano.

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Lo scivolamento di quest’ultimo Piazzolla verso posizioni arbitrarie trova conferma nel volumetto di appunti e pastelli. In un pianeta che ignoro (1974). In effetti uno stretto rapporto vi è con Viaggio nel silenzio di Dio. Non solo rapporto temporale, ma soprattutto ideativo e creativo.

Ferrara nel saggio-prefazione al volume parla di: « ... ideogrammi dell’altrove, ierografie cromosomiche affidate ad impulsi in lotta con la massa confusa e, visivamente, articolati nella tensione frenante del tracciato e del collocamento sulla pagina bianca assunta pertanto a significato hylico »14.

Non diversamente si era espresso Aventi 15 nel presentare Viaggio nel silenzio di Dio parlando di immagini che si dispongono in una prospettiva a quattro dimensioni e richiamando in causa le teorie pittoriche del Klee e di Kandinsky. Questa rarefazione del contenuto fino alla proiezione di esso in immagini che si associano secondo schemi aspaziali e atemporali segue graficamente il dissolversi della scrittura in Viaggio. Così un ideogramma rappresenta la « rosa di un volto, in bilico sul raggio attento al mutamento di una gemma astrale » e un altro « Torri su torri nel ghiaccio d’una stella ai limiti del cielo » o un « Astronave in un porto veglia sugli anni luce » ecc. Insomma siamo al limite del regno dell’onirico al di là del quale le forze naturali si sprigionano in arabeschi di giochi-luce. Ora tutto questo nasce proprio per il rompersi di quell’unità fantastica che aveva originato le Lettere o Gli occhi di Orfeo. Rottura che qui è delirio del segno, altrove è delirio della parola. Piazzolla anche se non tenta, animato da soli intenti polemici, la bagarre avanguardistica, poiché sempre quel mondo nasce da un’inquietudine dello spirito, vi si porta molto vicino.

LA BALLATA

La formula Piazzolla poeta della ballata non vuole discriminare il Piazzolla

lirico-elegiaco-evocativo dal Piazzolla lirico-narrativo ché un legame stretto c’è tra i due. In entrambi vi corre quella favolosità, quell’estro eccentrico e delirante. Né è da pensare che egli rimetta a nuovo le canzoni a ballo della nostra letteratura popolare o continui la tradizione della ballata romantica. Si vuole, invece, insistere sulla libertà dirompente, quasi anarchica, di questa poesia. E la ballata nasce al limite di una contaminatio tra lirico e narrativo. Meglio come lui stesso ha sottolineato nell’avvertenza al volume Ouando gli angeli ascoltano come bisogno di sostituire la soggettività del poeta al personaggio poetico.

Quasi per sfuggire ad ogni forma di autobiografismo e di psico- 14 F. FERRARA, pref. a In un pianeta che ignoro, Roma, E.R.S.I., 1974, p. g. Il Cfr.

G. AVENTI, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, cit. p. 8.

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logismo che in effetti avrebbero limitato di molto la sua enèrgeia. Il primo volume di ballate Quando gli angeli ascoltano pubblicato nel 1969 risale agli anni 1945-46. Queste prime ballate rispondono all’esigenza di creare il personaggio:

« ... un personaggio non narrato, non descritto, non dotato di qualità più o meno talentosamente escogitate, o anche acutamente analizzate dal prosatore o dal poeta, ma che è egli stesso la sua dimensione poetica, nell’amore, nella malinconia, nella speranza, nella morte » 16.

Così la ballata « Un negro in Paradiso » rappresenta il mito della libertà, « Lamento di Carmela madre » il mito dell’amore filiale, « Il pilota scomparso » il mito della temerarietà, « Il sole » il mito di Ulisse, ecc.

In tutte la dimensione discorsiva sostenuta qua e là da slanci lirici ci sembra la caratteristica costante. In particolare in « Quando un angelo ascolta » certe arie e alcuni recitativi ci portano nel clima delle Lettere:

Una notte venne il mare nel petto. Sentii battere alla finestra. Fuori c’era solo l’aria e nel mio cuore un altro cuore.

Mentre sin d’ora Piazzolla non sa resistere a certi sfoghi che creano vere zone di stasi come nelle ultime ballate: « Ballata tragica per Ciampolini », « Luigi Ciro Martini suicida », « Canto funebre in morte di Giuseppe Di Vittorio ». Qui la creazione del personaggio diventa un’operazione a posteriori, meglio si attua la poetica del personaggio. I fatti presi a raccontare sono assunti nella loro immobilità. E’ la notorietà dei personaggi o lo scalpore della loro morte a impressionarci di volta in volta. La ricostruzione si attarda su particolari della loro vita che ci incuriosiscono lasciandoci indifferenti. Non tanto assistiamo allo sliricamento o allo sliricizzarsi della sua poesia quanto a un certo compiacimento, a un neo-crepuscolarismo ritornante. Compiacimento che è massimo nel « Canto funebre in memoria di G. Di Vittorio » dove la morte non viene assunta simbolicamente a significare il senso della caducità della vita umana o cristianamente il ricongiungimento dell’uomo a Dio. Il poeta si attarda a cantare le sue lodi ricreando il personaggio in un’aria di estrema morbidezza:

Ti ricorderanno le sirene al mattino quando gli occhi degli operai lacrimano pieni di freddo dolore e le mani sono soltanto mani abbandonate. Ti ricorderà il bracciante che vede crollare il suo scheletro

____________ 16 G, AVENTI, pref. a Gli anni del silenzio, Roma, Cardini, 1972, p. 18.

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e abbraccia il tronco che non è suo. Ti ricorderà il vecchio in esilio nei suoi ultimi giorni e la madre che ai figli offre soltanto il pane sognato ogni notte.

perfino troppo enfatica, sostenuta dalla martellante anafora triadica:

Chi ti chiamava era muto. Chi ti pensava non era più solo. Chi ti portò tra i fiori.

Con Il naese d’Iride (1962) l’eccentricità di questa poesia risulta chiaramente.

Oui il frammentismo in sospensione de Gli occhi di Orfeo si articola nella struttura ampia della ballata. Piazzolla inizia la penetrazione in un regno non meno favoloso di quello della natura o di Dio: il colore.

Il contenuto tradizionale a cui in effetti era legato (si pensi ad Elegie Doriche, Poemetti, Adagio quotidiano) s’invola per cedere il posto ad una inventio che non è solo un invenire, ma è uno scomporre l’anima degli oggetti con la fantasia. Non esistono più davanti a lui gli oggetti, le cose, ma i colori e i loro rapporti con il mondo esterno:

Nell’orchidea si spoglia una bimba cinese e coi fiato spinge l’ombra del seno a posarsi sui vetri. Coi rosso sul dito puoi svestire la nube fare un orto sul dorso dell’agnello appeso al cielo.

(Farandola per Niko Nardulli)

o ancora:

Lo zampillo dell’iride cola sul martin pescatore. . . . Prendile il rosa e il viola che fa da vena al cielo poi schiaccia la colomba celeste contro il bianco curvo dell’orizzonte . . .

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Per impastare il sole e allungarlo nel velo di cenere metteresti un pavone a far vento a una vetrata che mette in fuga i colori a picco. … Se vuoi comporre il caos o sciogliere la luce in uno specchio spremi due rose pungiti con la spina e lascia il sangue colare sui crateri scotti.

(Gavotta per Edoardo Giordano)

Siamo al limite di una poesia che, proprio per questa sua fuga del contenuto,

poggia esclusivamente sul proiettarsi in avanti della fantasia, non senza il rischio di assottigliarsi in una docile prosa in versi. Insomma il rischio di una poesia riflessa è corso sino a prevalicare ogni misura ritmica. Il pericolo è nella fantasia stessa che compone e scompone la realtà a suo piacimento. E se pensiamo a Gli Occhi di Orfeo, al Viaggio nel silenzio di Dio l’ipotesi avanzata dal Sigillino17 di « una scapigliatura novecentesca » non è poi azzardata. Anche perché in tutto questo è evidente l’atteggiamento polemico di Piazzolla nei confronti di una certa tradizione aurea della nostra poesia. Una scapigliatura non sempre spinta fino in fondo se in questo paese d’iride Piazzolla accetta la polemica sul terreno degli altri anche scomponendosi:

Si uccide perché soltanto la vita degli altri non vale. Terra di trippe accomodate piena di cavalieri mascherati borsaioli di luce figli di fauni traditori e di ninfe cornute.

(Minuetto per Antonio Delfini)

o come in « Rondò per Michele Parrella » dove la tradizione, il recupero del paesaggio diventa lamento per il Sud:

A Matera si suona il cupo cupo per le feste nere-

17Cfr. N, SIGILINO, in « La Fiera Letteraria », 14 ottobre 19-62.

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preludio agli amori di giovani che hanno camicie bucate e tasche piene di bestemmie .

Il volume Ballata per mille ombre (1965) raccoglie le ballate scrítte tra il 1951 e

il 1959. Certamente il libro in cui Piazzolla è disposto a sorridere, a concedersi una pausa, a guardare il mondo con una superiorità, con un distacco quasi ariostesco. Vi riversa il suo humour leggero, divertito:

lo sono un dittatore senza scettro e propongo la luce alle stelle. Giuocheremo allo sposa con la luna, faremo il sole compare di nozze. Inviteremo i santi a fare un coro e ognuno di noi avrà un angelo a braccetto.

(Dittatura bianca)

Uno strano mondo, perfino assurdo, dove tutti sono assassini. Il re non meno del prete, il politico e l’uomo della strada, il poeta e il giudice, sono presi alla berlina. Su di essi, protagonisti indiscussi di queste ballate, Piazzolla riversa il suo sorriso e in contemporanea la sua satira amara. Proprio come bene ha nuntualizzato il Marotta nella prefazione qui « favola e beffa si amalgamano ».

Un mondo dove la ragione, il filo della logica sono capovolti non in funzione di un vuoto irrazionalismo, ma perché il sogno diventi realtà, la realtà sogno. E siamo ad un’altra antinomia di queste ballate realtà-sogno. E ci viene in mente il nostro Carrieri e il Prevert di Storie e altre storie. Ma la novità di queste ballate è il ritmo arioso che ora chiama in causa la rima, l’assonanza, la consonanza.

I cardinali se ne andranno tristi a deporre la porpora sui lampioni e li vedremo scavare le fosse per sepellirsi con rassegnazione. Faremo entrare lucciole e milioni nelle stanze dai muri gentili; vestiremo a festa finanche le ortiche e i rospi impareranno le orazioni.

(idern)

Ma è in « Ritocchiamo la vita » che il Nostro mostra la sua natura di poeta-sognatore, di poeta delle favole (non sono forse delle favole Le lettere della sposa demente o i Poemetti?). Il suo stato di anarchico sognatore è l’infanzia, il ritorno alla natura. In « Luna park » l’ironia si riacutizza: il mondo è diventato una luna park sulla stregua delle

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filastrocche di Gianni Rodari e a farne le spese sono ancora ministri e re, cardinali e angeli, re e papi:

In un trenino che non fa rumore viaggiono le bambole cocotte; è qui un monsignore scamiciato che fa discorsi ai grilli mutilati. Chi vuol farsi eleggere ministro basti che rubi un piccolo orologio al controllore che è sempre distratto e giuoca all’aquilone con la nube.

Scesi dai loro piedistalli, certamente più buffi, senza corone, senza

mitrie, diventano piccini piccini come tanti bambini. E’ questa fusione di ironia e favolosità, di sogno e di realtà, che fa di Ballate per mille ombre il libro meno lirico di Piazzolla, ma il più umano perché nasce da una condizione umana che ha risolto il rapporto io-altri nel monologo dell’io per il quale la realtà è estraneità, rottura:

Si liquida, si liquida, Signori. lo sono un venditore di passaggio vendo collane di schiuma al mare e medaglioni con goccie di luna. . . . Vendo poi al dettaglio l’ombra mia che conosce a memoria le strade del mondo e fa da lampione nei vicoli oscuri.

(Bazar in liquidazione)

La ballata si appesantisce in Per archi impazziti relegata al ruolo di un repertorio d’immagini che creano all’interno del verso il gonfiore e perfino una nuova arcadia:

Chi trotta sull’erba è il cavallino d’un re onda riccia agnello insegue la striscia blu segna le tue vene pietà bagna gli occhi d’acqua celeste bagna la strada che inventi ed ecco il cielo per la capra in esilio il lume per lo sposo che vola e s’intreccia a una bocca...

(Balletto per Mare Chagall)

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Altrove come in « Arabeschi e vetrate per Corrado Cagli », « Fantasia per Sebastiano Carta », « Notturno ner Giovanni Stradone » lo scivolare verso posizioni anarchiche e scapigliate è fin troppo manifesto. Anche in Per archi impazziti è possibile registrare un Piazzolla impegnato, portavoce di un umanitarismo evangelico che, a volte, prescinde da ogni condizione ideologica e politica, a volte, è dettato da una concitazione politica che si risolve nella protesta.

Il movente ideologico ritorna con maggiore veemenza in « Lettere a Evtuscenko » dove l’amore per la condizione umana offesa, la primavera di Praga, ha accenti di dura condanna. Non mancano versi di rabbia della ragione:

A Praga hanno strozzato l’aria. A Praga è riapparso il mostro che se stesso covava. A Praga se non si uccide è presente la morte con il suo mitra.

A nessuno sfuggirà la truculenza di questi versi, il cursus delle cadenze

strozzate, quasi a mezza gola; la concitazione anaforica sconosciuta a Piazzolla. A nessuno sfuggirà che qui Piazzolla non cerca di capire la storia o di penetrarne i moventi o i fini occulti; a lui interessa l’umanità vittorinianamente offesa. Umanità che in « Proclama d’assedio » si vanifica in un pessimismo vagamente irrazionale. E’ il momento niù acuto dell’impegno civile che lo porta ad un rifiuto totale e a smarrire il senso della storia:

Dai loro Bunker - dove il sole ha freddo - i funzionari dell’odio dànno ordini esatti: occorre uccidere, uccidere, uccidere anche la morte. . . . Che s’impicchi l’uomo giusto: è un mostro sia soffocato nel sonno l’innocente. Sia fatta bere fiele o cicuta al saggio. Sia falciata, per sempre, la luna. . . . Da oggi, fino al giudizio Universale, gli uomini devono temere finanche se stessi, Devono restare morti nella vita. Devono restare vivi nella morte.

Al Piazzolla ironico sono da collegare I fiori c’insegnano a sorridere (1973)

o come dice il sottotitolo « favole per adulti » scritte

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pure tra il 1952 e il 1956. Cioè parallelamente alle Lettere e ai Poemetti.

E al linguaggio favoloso, ingenuo, come certe pitture naïf, dei Poemetti, qui si sostituisce un linguaggio malizioso, ironico. Protagonisti indiscussi sono i fiori dalla rosa al garofano, dal mughetto al giglio, dal tulipano alla margherita, all’ortensia ecc., resi indimenticabili nei colori di Omiccioli. Ma più che una tipizzazione di virtù (per la verità ben poche) e di vizi come si può pensare scorrendo i titoli: il tulipano iettatore, il papavero lenone, la vanitosa ortensia, il rosolaccio povero e rassegnato, la casta camelia, il gladiolo pettegolo, queste favole sono la rappresentazione di un mondo in cui domina incontrastata la legge dell’amore. Quasi che la vanità e la castità, la rassegnazione e la miseria, siano delle sottovirtù o dei sotto-vizi che meglio fanno risaltare un mondo in cui prevale il sesso come legge naturale. Il « peccato floreale » è certamente tanto comune e tanto diffuso in questo decamerone floreale che assistiamo a veri e propri vizi sessuali: così la febbre d’amore fa venire i « petaligiri »; e l’eccesso d’amore può causare la « stelite » che è un vero e proprio esaurimento da indebolire lo stelo e renderlo pieghevole e indurre il fiore alla morte. E non mancano gelosie e tradimenti.

Ora a parte l’intento moralistico e satirico, queste favole sono da leggere come espressione di quella vaga favolosità del Piazzolla che si esprime nella dimensione stilistica del raccontare. Come queste pagine de Il Giacinto favoloso: « C’era una volta un Arcobaleno. Da tempo, non sapeva più resistere al desiderio di adagiarsi sulla terra e di riposarsi finalmente della celeste fatica. Lo stare fisso e curvo sull’orizzonte aveva in lui generato stanchezza.

Si era alquanto annoiato di apparire e svanire a cicli prestabiliti, dopo le piogge, come un emblema di festa, messo in Cielo a salutare il Sole, intento lassù a cucire le stille di pioggia ai suoi raggi »18. Sono pagine in cui Piazzolla diventa poeta per bambini, dove il confine tra mondo della favola e mondo reale è annullato. E ci ritorna in mente nel leggere « La rosa addolorata » il prologo della sposa demente: « Quello che vi racconterò accadde molti anni fa. In un giardino delle Fiandre, viveva una donna che parlava da sola e, sovente, veniva in mezzo a noi a confessarci le sue pene... Fu dunque una notte di maggio che noi tutti, presi da una invincibile commozione, decidemmo di fare una sorpresa a quella che mia nonna, chiromante e un po’ maga, definì una Sposa demente. Ci consultammo noi Rose appena bbocciate... Ci consultammo con i Gigli e le Margherite... Le Viole e i Crisantemi fecero una certa opposizione, dicendo che non si poteva danzare il Minuetto senza chiaro di luna. I Mughetti e le Mimose approvarono con energia la nostra idea e dissero che avrebbero invitato tutte le lucciole del quartiere per supplire la luce della luna » `. Men- 18 M. PIAZZOLLA, I fiori c’insegnano a sorridere, Verona, Chelfi, 1973, p. 199. 19 Ibidem, p. 157-58.

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tre non mancano qua e là spunti polemici (L’anemone ermetico) o la violenta satira contro l’organizzazione burocratica del nostro Stato (Il tulipano travet), tirata a tal punto da ingenerare il sorriso. E comicità e satira, ironia e follia, spregiudicatezza e realtà, avventura e sogno, si fondono anche nei due volumetti I detti immemorabili di R.M. Ratti (1966). Espressione compiuta della solitudine del poeta che si autoinventa in un nuovo personaggio. Ma i detti importano per quell’ennesima prova che Piazzolla ci dà della sua inventiva poetica: dalla elegia alla ballata, dal poemetto all’epigrammi, dalla favola alla satira. Essi in ogni caso non vogliono essere la summa della saggezza umana, e come tali non vanno confusi con le massime eterne, niente dì più provvisorio il lettore vi avvertirà leggendo questi detti e provvisorio nel senso di umano, contingente, reale:

A volte, nella vita, mi ricordo di Dio come di una lucciola sospesa nel buio.

(La lucciola, vol. I)

Come pure non vogliono essere scherzi umoristici ché vi circola tanta malinconia. L’autobiografia di R.M. Ratti, quindi, è un consuntivo sincero della nostra vita, senza troppe pretese. Ratti è l’alter-ego che sonnecchia in ognuno di noi ora assillato dal pensiero della morte ora da contingenze economiche ora dal bisogno di sentirsi in armonia col mondo. E’ questa disponibilità che avvicina il Ratti a ognuno di noi; è questa provvisorietà della vita umana che sprigiona da queste nugae a rendercele care. Cimatti20 giustamente ha parlato di « un’allegria che ha le sue trincee in una camera d’affitto ». APPUNTI DI STILE E DI LINGUA

Nell’ambito del nostro discorso sulla poesia di Piazzolla abbiamo accennato a notazioni di stile volta per volta. Qui ne faremo seguire altre per fermare alcuni caratteri dello stile piazzolliano. Primamente è da notare come la poesia piazzolliana è da collegare alla linea Leopardi-Ungaretti, anche se le ultime sue opere ne sono un superamento.

Ora quando si dice che la poesia contemporanea e in specie quella post-ermetica sono da riportare nell’area leopardiana21 più che in quella simbolista22, non tanto si vuol mettere fuori causa la lezione dei

20 Cfr. P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960. 21 Cfr. M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, Milano, Mursia, 1974; in particolare il capitolo I, p. 9-21. 22 Cfr. A. VALLONE, Aspetti della poesia italiana contemporanea, Pisa, NistriLischi, 1960; si veda il capitolo Caratteri linguistici della poesia d’oggi.

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Marino Piazzolla con Giuseppe Marotta.

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poeti « maudits », quanto si vuole insistere sull’attualità della poesia leopardiana, che ha contato tanto da influenzare non solo la fascia lirico-elegiaca o monodico-lirica della nostra poesia, ma anche quella polemico-ironica.

Ma ritornando a Piazzolla dobbiamo notare come più di qualche cadenza leopardiana è in Ore bianche. In « Naufragio » l’inizio « Non somiglia al tuo passo / morte, il mio errare » è già una contaminazione dei v. 17-18 del Passero solitario « Oimè, quanto somiglia / al tuo costume il mio! ». E l’endecasillabo « Pur, tu, necessaria sei al vivere / terreno » (p. 47, v. 23) richiama i versi 61-63 del Canto notturno « Pur tu,... tu forse intendi, / questo viver terreno ».

Frequente anche in questo componimento l’uso dell’infinito leopardiano:

Chi, fino a te, sale, ben s’accorge del patire umano, . . . dell’errare vano . . . Anche tu, morte, mi sei cara nelle sere lente... quando sospiro nella grigia stanza e penso al mio finire, al tuo venire incontro...

(v. 36-37, 40, 46-50)

Così il settenario « ornare ella si appresta » (Il sabato del villaggio, v. 6) in Purità si è trasformato in « a ornar s’appressa l’avvenire » (p. 52, v. 16); e i tre settenari « Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu mortal non sei » di Canto notturno (v. 57-59) diventano in Piazzolla « Forse tale è il destino / ma tu ad altre mete aneli » (Solitudine, v. 57-58). E tipicamente leopardiane sono le aperture di versi con ove e forse, nonché stilemi come acerbo nascer, di spenti, arcana soglia.

E prestiti leopardiani non mancano in Elegie doriche (antica, vasta, remota, immensità, immota soglia ecc.). Mentre lemmi come naufragio, abisso, urlo, inabissata rimandano ad Ungaretti. Come pure la rapidità dei nessi, la dizione evocativa, l’essenzialità della parola. Piazzolla in Elegie insisterà particolarmente sulla memoria. Essa nasce proprio da una situazione di assenza (quasi sempre oggetto di questa memoria è la madre, che non è) e come dice Petrucciani: « Solo quando quelle figure e l’uomo con le sue passioni sono morti, e dunque assenti, insorge la memoria: nel momento cioè in cui, distaccandosi dal flusso biologico, rischiano di polverizzarsi e sparire negli interminati spazi della dimenticanza: di perdersi quindi per sempre »23. Così Piazzolla in « Naufragio » dirà:

23 M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, cit., p. 71. 98

Non distruggete, tempo, quel volto che ogni notte accende la memoria...

Funzione, quindi, di recupero contro l’abisso, il naufragio della vita. E il riferimento a Preghiera viene spontaneo. Solo se si tiene conto che in

Ungaretti il termine della tensione è il Signore, in Piazzolla la madre. In ogni caso per entrambi la memoria è approdo, recupero d’innocenza.

E il Nostro vi ritornerà in Ecco celeste l’Orsa dove il sentimento dell’innocenza nascerà da uno stato idillico-contemplativo, che sottintende Dio. E Ungaretti24 in Inno alla morte dirà « Mi darai il cuore immobile / d’un iddio, sarò innocente » (p. 117, v. 21-22). Piazzolla con più arditezza dirà « lo son di nuovo innocente », p. 14, v. 9. E ancora l’emistichio ungarettiano « o statua dell’abisso umano » (Statua, p. 139, v. 2) si è trasformato in « il favoloso abisso della vita » (Pietà, p. 4, v. 10); e il grido esistenziale ungarettiano « Tutto ho perduto dell’infanzia / e non potrò mai più / smemorarmi in un grido » (Tutto ho perduto, p. 201, v. 1-3) si contrarrà nell’endecasillabo « D’ogni speranza mi rimane un grido » (D’Ogni speranza, p. 22, v. 1).

Quindi memoria-assenza ma anche memoria-evocazione: « ... che - come ha bene puntualizzato Vallone - va al di là del significato acquisito con Dante e Petrarca come puro ricordo perché assume tutto un vago senso di smemorata evocazione... »25. E ad un tempo di atmosfera assorta di vaga intemporalità d’immobilità, di fissità è legato il linguaggio delle Lettere della sposa demente. Infatti il dramma della demente è proprio in questo consumarsi-inconsumato del suo amore tra temporalità e intemporalità, come se il tempo che pure accenna a farsi (il tempo mi travolge), non fosse mai stato (il tempo è fermo). Sospensione che nell’aggettivo si traduce sempre in una connotazione interna: resto muta (p. 11), m’allungo lieve come l’aria (p. 15), mi trovo sola (p. 15), mi sento smemorata (p. 16), ascolto, insonne (p. 22), mi ritrovo sospesa (p. 31). Questi riferimenti sono ancora una prova dei classicismo piazzolliano. La tendenza ad una maggiore discorsività e colloquialità del linguaggio, si accentua in Esilio sull’Himalaya. In particolar modo le strutture linguistiche si avvalgono di una maggiore articolazione sintattica fondata sul come modale e sul quando temporale. o sul che relativo:

Forse tu sei illusione: . . . quando, a sera,

24 Cfr. G. UNGARETTI, Innocence et mémoire, in Vita d’un uomo, saggi e interventi, Milano, Mondador,i, 1974; per le poesie i riferimenti vanno all’edizione mondadoriana Vita d’un uomo - Tutte le poesie, Milano, 72, VI. 25 A. VALLONE, Aspetti della poesia it. contemporanea, cit., p. 214.

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è pozzo la mia noia. . . . quando la voce è piena del tuo nome, . . . ... quando l’alba batte al mio sangue...

(III) . . .

Pietà che mi chiudi neri giorni e che onoro sognando.

Al tempo che mi avanza tu fai l’eco

e tutto il mio dolore non ti cancella ove cresco. Segui il mio passo come una foglia che mai vedrò verde sul ramo che sono. Ti ascolto quando è pietra il mio corpo e il tuo volto che ignoro...

(XV)

Mentre la frantumazione della frase in immagini, fino alla riduzione delle immagini in suoni, fa registrare Gli occhi di Orfeo. I rapporti tra predicato e aggettivo, sostantivo e aggettivo, non sono più rapporti di analogia e di somiglianza, bensì di simpatia fonologica e coloristica. E la predominanza dell’astratto sul concreto, del metatemporale sul temporale, è anche motivata da una riduzione sensibile (fino alla loro scomparsa) dei nessi logici. Così ad esempio:

Nel tuono d’una campana fiorisce l’udito e in fondo al ricciuto orecchio l’eco è volo d’onde accese dal bronzo nell’aria che si dilata fra stuoli di passeri impauriti. (p. 36)

Ora quel tuono d’inizio di verso non è né suono, né fenomeno atmosferico; né il predicato (fiorisce) del verso successivo è con esso in alcun rapporto logico (o analogico) e tantomeno col suo soggetto (l’udito).

Ma sia udito che tuono, in particolare per la carica esplosiva delle dentali, si accordano bene con fondo, ricciuto, onde, dilata, da creare quei suoni stridenti e martellanti di qualche cosa che rompe e irrom-

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pe nell’aria. Il processo di sliricamento già in atto in Adagio quotidiano si completa con Ballata per mille ombre. E non solo per lo slittare del verso nella frase, soprattutto per l’intromissione di patterns espressivi del parlato: mazzo di carte, re, dittatore, ufficio, pistola ad acqua, ministro, pugnale, gabbia, prete, cuscino e di intere locuzioni: a tre soldi il metro, si farà rosso come un peperone, ti mettono di guardia, ti fa l’eco, ecc.

Queste poche considerazioni linguistiche e stilistiche che altri potrà sviluppare, con riferimento ad altre opere di Piazzolla, testimoniano da una parte dell’appartenenza di questa poesia alla linea classica del nostro Novecento, dall’altra della complessità e della dinamicità del linguaggio piazzolliano teso a creare, a rinnovarsi continuamente. PER UNA BIBLIOGRAFIA RAGIONATA DELLA CRITICA

Prima di tracciare un rapido registro della poesia piazzolliana nella critica è bene accennare al posto che occupa nella giovane poesia del dopoguerra.

E accettando il metodo generazionale del Macrì26 colle correzioni apportate da Falqui27 iscriveremo Piazzolla fra i giovani della terza generazione accanto a Corsaro, Laurano, Ghiselli, Tognelli, ecc. Ora pur coincidendo la sua scrittura con le polemiche tra ermetismo e realismo, o meglio tra neoermetismo e neorealismo, essa resta al di qua e al di là di tali posizioni.

Lontana com’è sia dall’accensioni populistiche degli uni, sia: « ... dalle suggestioni del vieto epigonismo dell’arcadia, come bene ha osservato il Frattini » 28, degli altri. Insomma per Piazzolla non si trattava di scegliere nell’intricato panoroma della poesia del dopoguerra tra poesia pura e impura, tra poesia lirica o narrativa, tra poesia monodica o corale, ma di partire da se stesso, fermo restando che la poesia è sempre pura e impura, corale e lirica, impegnata e disimpegnata. Né certamente la sua è una posizione di comodo, o di rifiuto, e tantomeno di attesa nei confronti di una certa realtà29. Forse non sarebbe una soluzione, certamente non la più giusta, se vedessimo nella

26 Cfr. O. MACRÌ, Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi, 1968; in particolare si vedano i capitoli I, II rispettivamente p. 465 e 473. 27 Cfr. E. FALQUI, La giovane poesia, Roma, Colombo, 1957, p. 17 e segg. 28 A FRATTINI, in « Idea », 8 maggio 1955. 29 Cfr. A. MARCOVECCHIO, « Presente », inverno 52-53; infatti per il Marcovecchio tra le due correnti, post-ermetica e neorealistica, si registrano: « ... voci solitarie che non fanno corpo con la corale poesia ermetica o mistica o umanitaristica o sociale che intorno a loro si intona »: ma che, « sia pure ai margini della vita letteraria estrinseca e mondana, partecipa per manifesti segni al dramma della poetica e della poesia novecentesca ».

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sua poesia il superamento delle istanze neoermetiche e neorealistiche. In ogni caso resta la sua poesia, accanto a tanti nomi del nostro Novecento, si pensi a Saba e fra i più giovani a Carrieri, una poesia che non si lascia irreggimentare in nessuna corrente, anche per un tantino di irregolarità, di sovversività che è propria del carattere del Novecento, e per quel modo naïf di guardare la realtà. Ma ormai da oltre un ventennio la critica più attenta e più qualificata ha scritto sulla sua poesia. Non sono mancati veleni di certa critica ufficializzata, a volte volontariamente diffidente, a volte palesamente distratta e assente. Ma se è con gli anni ’50 che Piazzolla ha cominciato a far parlare di sé, già la sua poesia era conosciuta negli ambienti letterari francesi. E fu proprio Gide nel lontano 1938 in una lettera ad esprimersi in questi termini: - La poesia di questo giovane poeta italiano, leggendo il mito di « Pérsite e Melasia » mi è sembrata inventata ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci sentivano i loro bellissimi canti -. Insomma Gide poneva nell’inventività e quindi nel momento lirico-evocativo la costante più vera della sua poesia. Inventività che è capacità d’incantarsi, di adererire ad una visione fresca e ingenua, quasi mitico-poetica, della realtà. E l’accostamento ai lirici greci era puntuale se pensiamo ad Elegie doriche. E quando nel ’51 il volumetto uscì la critica fu concorde nel sottolineare quest’aria di ingenuità e di candore di Elegie doriche. E uno dei primi a parlarne fu Frattini in Idea, (novembre, 1951).

L’intervento di Frattini oltre a risottolineare « certi temi e inflessioni e raccordi della lirica antica greca » presenti nella sua poesia l’agganciava alla nostra tradizione più illustre a partire dal Leopardi fino alle esperienze più sicure del Novecento, lievitate e assorbite in tutta naturalezza.

Per di più Frattini parlava di Elegie doriche come poesia oscillante tra idillio ed elegia, a conferma di quanto precedentemente osservato.

Ma da più parti non si finiva mai d’insistere sulla chiarezza, sul pudore, sullo stupore delle immagini. In un altro intervento il Claudi in Alfabeto (Roma, 15-30 settembre 1951) parlava di nitore elementare e di ritorno alla chiarezza del pensiero ontologico greco. Alle stesse conclusioni giungeva E. Miscia (Voce Repubblicana, ottobre 1951). Non meno provocazioni portò negli ambienti letterari l’edizione delle Lettere della sposa demente che si pubblicò in un’edizioncina quasi alla macchia. Il testo, di mano in mano, incuriosì anche un poeta e critico quale F. Fortini che in Comunità (Milano, dicembre ’52, n. 16) così si esprimeva: - Un incontro curioso è quello con le « Lettere della sposa demente » ... un patetico rosario di fedeltà, vagamente rilkiano, con alcuni frammenti notevoli e un fraseggio sensibile -. A suo modo Fortini calcando l’accento su incontro curioso sottolineava la novità delle Lettere, non tanto dal punto di vista strettamente poetico, quanto per l’invenzione del personaggio. Ma fu Ciarletta nella prefazione al volume a indicarne puntualmente ogni aspetto. Ciarletta dopo aver rintracciato nell’Ofelia di Shakeaspeare la sorella maggiore della de-

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mente insiste sulla psicologia tutta femminile della protagonista. Egli parla di « capriccio » come espressione esaustiva dell’amore femminile. Capriccio che poi genera quella tensione continua tra speranza-attesa, sogno-realtà. Entro questi poli oscilla il dramma della demente. Invece Virdia (La Voce Repubblicana, 5 agosto ’52) proponeva il termine « delirio » e considerava le Lettere un poemetto lirico-evocativo. Sostanzialmente Vicari recensendo il volume su La Settimana Incom dell’ottobre dello stesso anno vi si allineava. Era Vernieri che dalle pagine di L’Italia che scrive (novembre ’52) accusava Piazzolla di avere scelto a metà: - Ma l’Autore ha avuto paura del racconto, dei procedimenti narrativi (e fin qua non gli si può dar torto); ma soprattutto non ha avuto la lena di affrontare in pieno la situazione felicemente creata; e di darci nelle linee più profonde e psicologiche il dramma della demente... -. Anche il Mele (Corriere del Giorno, 7 dicembre ’52) e poi il Ramperti (Roma, 12 maggio ’53) si ripetevano in formule ormai acquisite come frenesia, tragico lucore senza modificare il discorso.

A Esilio sull’Himalaya subito dedicava la sua benevola lettura E. F. Accrocca su La Fiera Letteraria del 15 novembre ’53. Accrocca come il Battistini (Il Giornale d’Italia, 7 ottobre dello stesso anno) parlava di Esilio come poesia di affetti, cose familiari, cose vere, cose reali. Un mondo insomma ancorato ad una visione di valori primitivi ed essenziali. Ed entrambi i recensori sottolineavano come il canto di Esilio nasceva da un’accettazione sommessa quasi pascoliana del mistero di fronte alle cose. Sull’aspetto più propriamente religioso insisteva prima Etna (Il Giornale del Mezzogiorno, 17 maggio ’54), poi vi ritornerà dopo molti anni Villaroel nella prefazione a Il mattutino delle tenebre. Etna parlava di misticismo panteistico che lo avvicina a Tagore e agli scrittori religiosi indiani del Trecento. Anche per Villaroel il Dio di Piazzolla resta nei suoi attributi il Dio di Dante: luce ed amore.

Su Le favole di Dio ritornava Frattini (Idea, 8 maggio ’55) sottolineando in apertura il limite immanente di una poesia per vocazione lirico-fantastica.

A dire del Frattini alla complessità della tematica e alla varietà delle soluzioni espressive fa riscontro: « una fantasia logorata da un gioco di invenzioni che sfiorano l’alea del meccanismo, dell’artificio ». Quasi che la poesia piazzolliana non sopporti il peso di una maggiore o più solida partecipazione del contenuto. E sul lirismo di Piazzolla come sua misura, la più naturale e la più congeniale, si parlò con insistenza e da più parti con il volume edito da Cino del Duca Mia figlia è innamorata. Gli interventi e le recensioni che seguirono a breve distanza concordavano con quanto già osservato a proposito delle Lettere. Da Marletta (Il Paese, 30 agosto 1960) che parlava di intenso lirismo a Cimatti (La Fiera Letteraria, 14 agosto 1960) che insisteva sulla fiaba-sogno creata da Piazzolla. Qualche riserva avanzò ancora il Frattini (Humani-

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tas, novembre ’60). L’ampliamento del tema-originario (il testo delle Lettere), secondo il Frattini, ha provocato uno scadere dell’intensità ingenerando qua e là compiacimento e monotonia.

Per ultimo è da notare il recente saggio di R. Méjean (La France Latine, 4e. Trimestre ’74 n.s., n. 60) che una volta sottolineata importanza del personaggio della demente nella poesia del Novecento, faceva scaturire questa poesia dalla ten-denze, di Piazzolla: « ... à capter, par tous les sens, les potentialités oniriques de ce que l’on appelle « le réel » - qui n’est, bien entendu, que la forme un peu plus stable du songe -, l’obsession d’une métaphysique de chair et de sang, une fecondité que l’on pouvait, sans exagération, qualifier d’exceptionnelle, et un pouvoir expressif d’un tel impact qu’il semblait provenir d’une initiation orphique effectuée dans une autre vie ».

Importante nella bibliografia critica su Piazzolla è la prefazione di Aventi al volume Gli occhi di Orfeo che segna un altro aspetto del mondo poetico piazzolliano. Per Aventi Gli occhi di Orfeo non sono l’espressione di un neo-barocchismo o di un marinismo ritornante, bensì la risoluzione-invenzione dell’universo in immagini. Un universo post-relatività. Infatti Aventi usa la parola cosmogenesi come giustifica di quel continuo riandare e muoversi delle immagini in fuga, in combutta, in espansione e in compenetrazione, proprio come tanti protoni e neutroni che ruotano attorno ad un nucleo. Scartata anche da Bevilacqua (Il Messaggero di Roma, 14 settembre ’64) l’ipotesi di un neobarocchismo piazzolliano. E sintetizzando così si esprimeva: « Se in ” E segno resta ” , infatti il colorismo sfiora la rarefazione, senza mai cessare, tuttavia, la sua funzione passionale e sentimentale, in ” Metamorfosi ” il poeta si scopre meno istintivo, più controllato nella correlazione tra immagine e pensiero: una prudenza stilistica ancor più avvertibile nella terza sezione, che dà il titolo al volume e dove la fusione tra istinto e contemplazione si fa pressoché perfetta ».

Il Pento (Annali della Pubblico Istruzione, gennaio-aprile ’65) invece parlava di « poetica » della parola da cui scaturiva l’orfismo piazzolliano: « E’ la parola che crea, in forza di una immanente potenzialità lirica-allusiva, evocativa, fonicamente prestigiosa e simbolica - una polivalente e orfica realtà (una surrealtà, quindi), condizionata a un’ ardua misura metafisica ». Addirittura il Pento collegava tale poetica al filone più attivo del nostro ermetismo.

Sull’orfismo piazzolliano ritornava qualche mese dopo (Persona, giugno ’65) il Sigillino.

Su Il paese d’Iride ancora è da registrare un intervento di Sigillino (La Fiera Letteraria, 14 ottobre 1962) per il quale il volume è espressione di una « scapigliatura novecentesca ». Scapigliatura come reagente contro l’accademismo di certa cultura. Questo però non vuol dire che si possa parlare di « estetica visiva » o di « avanguardismo » o di « spettacolarità » fumettistica, nascendo quella reazione da un bisogno di « interiore solitudine » e da una profonda umanità.

Importante anche la prefazione di Aventi al volume Viaggio nel

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silenzio di Dio. Anche perché Aventi fa il punto sul periodo francese e sugli influssi dell’avanguardia simbolista nella sua opera. Egli vi ravvisa quattro costanti che s’intrecciono continuamente: la costante lirica, la costante filosofica, la costante teologica, la costante panteistica, le quali si fondono nella categoria dell’Immaginario: « Comunque, Immaginario è qualcosa, o Qualcuno, da cui scaturiscono le strutture nuove, le morfologie nuove della vita ... e della Parola ». Suggestiva, invece, l’idea di Aventi di voler giustificare la scrittura automatica del poemetto perché essa coglie la profonda essenza del creato dove si entra solo « per salti qualitativi, o trapassi e non mai attraverso una analisi logico-esplicativa ».

INTERVISTA CON L’AUTORE D. In che senso ha contato per te l’amicizia con la bohème parigina degli anni trenta: da

Valery a Breton, da Gide ad Aragon? R. Posso dire che da Valery ho imparato la magia dell’impasto lirico e l’idea

architettonica del poema, nelle sue strutture interne e in certe cadenze sostenute dal pensiero.

Breton me lo sentivo lontano come poeta, ma ero interessato alla sua poetica e a quell’amore per la libertà della creazione artistica.

Di Gide ammiravo la impeccabile stesura dello stile e quello spirito di finezza che mi ha fatto capire l’anima della Francia culturale.

Più che Aragon, per un certo periodo m’interessarono Eluard e Reverdy, i poeti che io sentivo congeniali sia alla mia poetica che alla mia poesia.

D. Qualcuno ha scritto che hai ereditato da Cardarelli « il culto per la chiarezza ». Ora la tua ricerca poetica, a parte qualche ricordo cardarelliano come in Ore bianche, si è sviluppata proprio in senso anticardarelliano. Come mai?

R. « Il culto per la chiarezza » ha ben altre origini e non l’ho sempre praticato nel senso cardarelliano. Benché fra me e il poeta di Tarquinia ci sia stato un sodalizio durato circa dieci anni, posso dire che nella mia opera non vi è traccia di rondismo. « Ore bianche » non c’entrano, perché furono scritte a Parigi. C’è inoltre da dire che se la mia poesia non è di proposito anticardarelliana ciò è dovuto al fatto che essa ha le sue radici nella lirica francese da Baudelaire ad Apollinaire.

D. La pubblicazione delle « Lettere della sposa demente » è stata salutata da più parti come l’invenzione del « personaggio poetico » nella poesia italiana del Novecento.

Cosa ha voluto dire per te la sostituzione del personaggio poetico all’io poetico? R. Le « Lettere della sposa demente » sono le fasi di una psicologia

femminile evidentemente diversa dalla mia. Qui è una donna che racconta la sua vicenda interiore ed autonoma. Il personaggio lirico, perciò, si diversifica da me, poeta. Ed è qui il valore oggettivo

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d’una poesia ch’io non avrei mai potuto esprimere direttamente, ricorrendo all’io poetico.

E’ chiaro che, come Flaubert, anch’io potrei dire: la sposa demente sono io. E qui il discorso ci porterebbe lontano. Comunque, il personaggio femminile inventato nelle lettere procede per conto suo e, se mai, potrebbe avere radici, come dice Cimatti, in donne da me conosciute ed amate nel senso più alto e più profondo della parola.

D. Ti consideri un poeta religioso? R. Le mie poesie, anzi in quasi tutte le mie raccolte, il rapporto uomo

Dio o è presente o è alluso con quel pathos che il sentimento autentico della religiosità comporta.

Per me, tutta la vera poesia è mitica e religiosa. L’arte attinge dal Sacro e spinge il poeta verso la trascendenza. E’ una mia antica convinzione.

D. A quale opera tieni di più? R. Le opere nelle quali mi sono maggiormente impegnato e alle quali

tengo di più sono: « Le lettere della Sposa Demente », « I detti immemorabili di R. Maria Ratti » (altro personaggio poetico) e « Viaggio nel Silenzio di Dio ».

D. E’ difficile immaginare un poeta meridionale del dopoguerra (pensiamo a Scotellaro, Sinisgalli, Bodini, Carrieri) che non si ritrovi nel suo paesaggio e nella sua terra. Eppure tu hai evitato sistematicamente ogni accenno alla condizione meridionale. Perché?

R. Se non mi sono occupato esplicitamente della condizione meridionale, nella mia poesia si sente, e questo è dimostrabile sempre, il tono, il calore, la struggente forza lirica che è segretamente implicita nel dramma del mezzogiorno.

C’è poi un’altra ragione. Io ho vissuto pochissimo nelle Puglie e ciò forse ha finito col determinare la mia lontananza spirituale dalla « realtà esterna » del meridione.

D. Tu, sei stato e resti un poeta « solitario » lontano dalle conventicole letterarie e dalle beghe di scuola. Ritieni che tutto questo sia stato nocivo alla tua poesia?

R. E’ vero che sono stato e sono tuttora un poeta appartato. Comunque, ciò non mi ha impedito di avere molti amici poeti e letterati.

Mi manca forse il senso pratico dell’affare editoriale. C’è intorno a me come una tacita congiura del silenzio, pur ricevendo, quotidianamente, attestati di stima da parte di personalità illustri del mondo letterario. Mi hanno dato molti premi, ma non ho ancora il mio editore.

Tutto questo è veramente misterioso; e, in più, per me tanto, ma tanto nocivo. Le conventicole letterarie non mi tentano, come trovo vane le beghe di scuola. Amo semplicemente la poesia e stimo non pochi poeti autentici, molti dei quali sono già scomparsi dalla scena letteraria.

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D. Ci è parso di vedere nelle ultime opere e in particolare nel volume « Viaggio nel Silenzio di Dio » uno scivolamento verso certa avanguardia. Che ne pensi?

R. Nel « Viaggio nel Silenzio di Dio » non c’è affatto « uno scivolamento verso certa avanguardia ». Devi sapere che sin dagli anni trenta io elaborai una poetica che è andata sempre più evolvendosi e sviluppandosi.

Quel che in poesia scrivono oggi gli sperimentalisti o i poeti dell’avanguardia, io l’ho scritto circa quarant’anni fa, al tempo del Dadaismo, del Surrealismo e della scrittura automatica. « Il viaggio » è perciò esattamente il punto di arrivo di un processo poetico che si è maturato nel tempo e dall’interno. Esso comunque richiede una conoscenza profonda e particolareggiata della lirica europea. Non è facile capire tutti i piani della mia poesia. Ti dico questo perché desidero che tu sappia che critici come Bo, Macrì, Villaroel, Salveti e tanti altri, hanno sempre confessato di sentirsi disorientati dalla mia poesia. Gli unici ai quali devo giudizi molto vicini al mio mondo poetico sono stati Giuseppe Aventi, (Villaroel con ritardo) René Méjean; qualche volta Alberto Frattini, Pietro Cimatti e soprattutto Corrado Govoni, che avrebbe voluto includere la mia lirica « Il Mattutino delle Tenebre » al posto di onore della sua antologia « Il fiore della poesia italiana ».

D. Un’ultima domanda: hai in preparazione una nuova raccolta? R. Oltre alla imminente pubblicazione della terza edizione delle « Lettere

della sposa demente » ho in preparazione un’antologia delle Opere edite e un’antologia delle raccolte inedite. Si tratta, per questi due ultimi lavori, di un’operazione difficile e massacrante dal punto di vista editoriale. Roma, gennaio 1975

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NOTIZIE BIOGRAFICHE

1910 Nasce a San Ferdinando di Puglia (Foggia) il 16 aprile 1910 Marino Pasquale Piazzolla.

1913 Muore il padre e con la madre va a vivere in casa del nonno materno dove resterà fino all’età di diciotto anni.

Frequenta le classi elementari in paese, passando gran parte della giornata in campagna di suo nonno. A dodici anni interrompe gli studi. Legge come può testi che trova nella piccola biblioteca paterna, dai volumi di Lombroso a quelli di Darwin, ai testi di sociologia di Zino Zini.

1928 Frequenta il corso allievi sottufficiali e in caserma amplia e completa la sua preparazione scolastica.

1930 Muore la madre mentre sostiene a Roma gli esami di abilitazione magistrale.

1931 Con la sorella si trasferisce a Parigi. Assunto in qualità di segretario e bibliotecario della Società Dante Alighieri, qui conosce Pierre di Nol-hoe, Marinetti e Fiumi.

1933 Quando ormai ha buona conoscenza della lingua, fa amicizia con i gio-vani poeti parigini: Bergeal, Guillik, Méjean, Amelin. Dirà il poeta: « Ci si riuniva nei caffé più rinomati della capitale e si parlava di poesia o si declamavano i nostri versi ».

1934 Conosce il critico Jean Royère, fondatore del movimento poetico « Il Musicismo » e autore di vari saggi importanti su Poe, Baudelaire. E’ Royere a fargli conoscere la lirica simbolista e in particolare Mallarmè e Valery.

1935 S’iscrive alla facoltà di Filosofia alla Sorbona. 1936 Esordisce con un saggio su Pirandello sulla rivista Ars et Idée. In

seguito stringe amicizia con Gide, che lo chiama fra i collaboratori della rivista, e Valery.

1938 Ottiene il diploma di Studi Superiori di Filosofia discutendo una tesi su Le poetiche da Aristotele all’abate Bremond. Collabora a « L’Age Nuveau » rivista diretta da Marcel Fevre che raccoglieva attorno a sé le forze della intellighentia francese. L’ultimo periodo parigino frequenta i poeti surrealisti tra cui Eluard, Breton, ma in particolare apprezza la raffinatezza di Jean Gilbert De Couript.

1939 Pubblica in francese le due raccolte di versi Horizons perdus e Caravanes. 1940 Tornato in Italia dà alle stampe Ore bianche e il poemetto mitologico

Pèrsite e Melasia. Si dedica all’insegnamento di Storia e Filosofia.

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1945 Si stabilisce a Roma dove tutt’ora vive. 1947 Dirige la rivista « Narciso ». Si lega d’amicizia con i pittori Monachesi,

Fantuzzi, Omiccioli, Stradone e con gli scrittori Iavarone, Carta, Mucci, Barilli, Natta con cui subito fraternizza.

1948 Conosce al Caffé Greco Cardarelli, allora direttore de « La Fiera Letteraria » che in seguito gli affiderà la rubrica « Critica di poesia ».

Di Cardarelli diviene uno dei più intimi. Sono questi gli anni di più intensa attività di critico letterario e d’arte: dai saggi su Penna, Valeri, Bontempelli, Montale, Eliot, Raphael, Michaux, S.J. Perse, agli articoli su Klee, Cezanne, Picasso, Roaualt, Braque ecc.

L’assidua collaborazione alla Fiera gli dà modo di conoscere i più noti scrittori italiani da Bernari, a Moravia, a Govoni, a Falqui.

1951 Pubblica Elegie Doriche che gli vale il premio Etna-Taormina per l’opera prima.

1952 Seguono le Lettere della sposa demente. 1953 Esilio sull’Himalaya che merita con Bartolini il premio Chianciano.

Conosce lo scrittore napoletano G. Marotta che apprezzerà moltissimo la sua poesia.

1954 Pubblica Le favole di Dio, un volume che resta quasi clandestino. 1956 Ottiene la cattedra di Filosofia e Pedagogia all’Istituto Magigistrale « B.

Croce » di Avezzano. Mentre s’intensifica la sua collaborazione ai quotidiani dal « Piccolo » di Trieste a « La Gazzetta del Sud » di Messina, nonché ai giornali dell’A.G.A.

1957 Esce il volume antologico Pietà della notte, premio di poesia città di Avezzano. Mentre vanno facendosi tesi i rapporti con Cardarelli, fino alla rottura definitiva che seguirà di lì a poco.

1958 Pubblica Adagio Quotidiano e i Poemetti. 1960 Gli viene assegnato la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al

premio Viareggio di poesia con il volume Mia figlia è innamorata. Dà alle stampe il volume di prose E l’uomo non sarà solo.

1963 Inizia a praticare la pittura ideografica che culminerà nelle due mostre di Parigi e di Milano.

1964 Publica Gli occhi di Orfeo che ottiene ex equo con Sanesi il Tarquinia-Cardarelli.

1967 Dirige la rivista umoristica « L’Idiota ». 1973 Pubblica il volume Viaggio nel silenzio di Dio che merita con Marvardi il

premio di poesia Città di Capua. 1974 Raccoglie i testi delle favole umoristiche nel volume illustrato

interamente da Omiccioli I fiori c’insegnano a sorridere. 1975 Esce con prefazione di R. Méjean la terza edizione delle Lettere della

sposa demente.

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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE

Horizons perdus (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939. Caravanes (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939. Pèrsite e Melasia (mito), pref. di R. D’Este, Trani, Paganelli, 1940. Ore bianche (liriche), Trani, Paganelli, 1940. Elegie doriche, (liriche), Roma, Eros, 1951. Un negro in Paradiso, Roma, Eros, 1952. Lettere della sposa demente, (liriche) pref. di N. Ciarletta, Roma, Ed. dell’Ippogrifo, 1952. Esilio sull’Himalaya (liriche), Roma, Ed. del Canzoniere, 1953. Le favole di Dio (liriche), Roma, Ed. Alabatros, 1954. Pietà della notte, (volume antologico 1937-1957; contiene le seguenti sezioni inedite: Morte è antica e Gli epigrammi del mandarino 1954-1957); Pietà della notte (1956-57), Bologna, Cappelli, 1957. Il paese di nessuno, (volume antologico; oltre una parte inedita che dà il titolo al volume, esso contiene un’ampia scelta dei volumi precedenti dalle Lettere a Pietà della notte), Roma, Porfiri, 1958. Poemetti, Roma, Porfiri, 1958. Adagio quotidiano (liriche), Padova, Rebellato, 1958. Mia figlia è innamorata, Milano, Cino del Duca, 1960. E l’uomo non sarà solo (prosa), Milano, Ceschina, 1960. Il paese d’Iride, (liriche), Roma, Carucci, 1962. Mabò lo straniero (poemetto), in « Il Protagora », 21 giugno 1962. Gli occhi di Orfeo, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1964. Ballata per mille ombre, Roma, Canesi, 1965. Il mattutino delle tenebre, avvertenza di G. Villaroel, Pisa, La Soffitta, 1964. I detti immemorabili di R.M. Ratti, 2 voll., Roma, Ippogrifo, 1965 e 1966. Quando gli angeli ascoltano, Roma, Ed. Ciranna, 1968. Minuetto per ombre sole (antologia poetica 1951-1969), Padova, Rebellato, 1970. Per archi impazziti, Roma, Ed. Veutro, 1970. Gli anni del silenzio, pref. di G. Aventi, Roma, Ed. Cardini, 1972. Viaggio nel silenzio di Dio, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1973. In un pianeta che ignoro (appunti e pastelli), con un saggio di F. Ferrara, Roma, Ed. E.R.S.I., 1974. I fiori c’insegnano a sorridere (favole umoristiche), pref. di F. Ceriotto, con 36 disegni di G. Omiccioli, Verona, Ghelfi, 1974. Lettere della sposa demente, pref. di R. Méjean, Roma, Ippogrifo, 3a ed., 1975. M. PIAZZOLLA-R. MÉJEAN, Balado d’a dos voues / Ballade à deux voix, (testo bilingue, provenzale e francese; contiene M. Piazzolla, Dins Paris li dos oumbro nostro / Dans Paris nos deux ombres; R. Méjean, Balado dou darrie vespre / Ballade du dernier soir), Toulon, L’Astrado, 1975.

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TRADUZIONI

RENÈ MÉJEAN, L’almanacco strappato, Milano, Ceschina, 1974.

BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA LETTERARIA

Surrealismo realtà umana e marxismo, in « La Giustizia », 19 ottobre 1954. Colloquio con Valery, in « Il Piccolo », 20 dicembre 1956. Ritratto di Leopardi, in « Il Piccolo », 5 febbraio 1957, poi in « Iniziative », sett.-ott. 1958. Critica Letteraria, in « Gazzetta del Sud », 13 febbraio 1957. Poesia di Claudel, in « Il Piccolo », 16 febbraio 1957. Sincerità di Gide, in « Gazzetta del Sud », 2 aprile 1957. Ritratto di Edgar Poe, in « Il Piccolo », 13 aprile 1957. Ritratto di Rimbaud, in « Il Piccolo », 30 maggio 1957. Il vagabondaggio del « saggio » Virgilio, in « Gazzetta del Sud », 25 giugno 1957. Lo spirito classico di G. Leopardi, in « Il Piccolo », 12 luglio 1957. Maestro Dante, in « Gazzetta del Sud », 27 luglio 1957. Il gigante Omero, in « Il Piccolo », 7 agosto 1957; poi in « Iniziative », nov.-dic. 1957. Cardarelli a Via Veneto, in « Gazzetta del Sud », 8 agosto 1957. Riflessioni sulla cultura, in « Il Piccolo », 17 agosto 1957. Infelicità di Pascal, in « Il Piccolo », 5 ottobre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 4 giugno 1961. Il messaggio di Nietzsche, in « Il Piccolo », 23 ottobre 1957. Realismo lirico, in « Il Piccolo », 2 novembre 1957. La poesia di Hólderlin, in « Il Piccolo », 14 novembre 1957. Il « Mago » Marotta, in « Gazzetta del Sud », 20 dicembre 1957. Purezza di Mallarmé, in « Il Piccolo », 15 gennaio 1958. L’angoscia di Kafka, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1958. Candore di Govoni, in « Il Piccolo », 25 febbraio 1958. La lirica in esilio, in « Il Piccolo », 1 marzo 1958. Elegia di Villaroel, in « Gazzetta del Sud », 19 marzo 1958; poi in « Cinzia », aprile 1958. Arte di Proust, in « Gazzetta del Sud » 1 aprile 1958. Baudelaire immorale? in « Gazzetta áel Sud », 9 aprile 1958. « Scandalo della speranza », in « Il Piccolo », 24 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 16 aprile 1961. Proust e il tempo, in « Il Piccolo », 29 aprile 1958. Pirandello tragico, in « Il Piccolo », 20 maggio 1958. La poesia di Eliot, in « Il Piccolo », 24 giugno 1958. L’Universo di joyce, in « Il Piccolo » ‘ 4 luglio 1958. Valery il perfetto, in « Il Piccolo », 16 luglio 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 14 maggio 1961. La lirica di Ungaretti, in « Il Piccolo », 19 agosto 1958.

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Garcia Lorca, in « li Piccolo », 6 settembre 1958. Su Apollinaire, in « Gazzetta del Sud », 2 ottobre 1958. Vittorio Sereni, in « Il Piccolo », 15 ottobre 1958. Attilio Bertolucci, in « Il Piccolo », 29 novembre 1958. Poeti d’oggi: lorge Guillén, in « Il Piccolo », 12 dicembre 1958. Poeti d’oggi: Saint-John Perse, in « Il Piccolo », 2 gennaio 1959. Poeti d’oggi: Henri Michaux, in « Il Picolo », 21 febbraio 1959. Giuseppe Marotta, in « Il Piccolo », 5 marzo 1959. L’estetica di Cecchi, in « Il Piccolo », 18 marzo 1959. Il canto di Saffo, in « Il Piccolo », 18 aprile 1959. Poeti d’oggi: Rafael Alberti, in « Il Piccolo », 13 maggio 1959. Alberto Moravia, in « Il Piccolo », 21 maggio 1959. Orfismo di Campana, in « Il Piccolo », 16 giugno 1959. Lirici Greci, in « Il Piccolo », 28 giugno 1959; poi in « Il Sestante Letterario », sett-ott. 1962. La lirica di E. Montale, in « L’Unione Sarda », 25 luglio 1959. Orfeo ed Euridice, in « Il Piccolo », 21 agosto 1959. Critici d’oggi: G. Trombatore, in « Il Piccolo », 28 agosto 1959; poi in « La Fiera Letteraria », 11 febbraio 1962. Presenza di Dio, in « Il Piccolo », 3 dicembre 1959. Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre ‘59. Soren Kierkegaard, in « Il Piccolo », 20 gennaio 1960. Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre 1959. Pietro Cimatti, in « Il Piccolo », 29 marzo 1960. Simone Weil, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1961. Salvatore Quasimodo, in « Il Piccolo », 28 aprile 1961. Il sacro e l’orfico, in « Crisi e Letteratura », (Roma) 15-30 luglio 1961. Lo stile poetico e la rivolta, in « Il Piccolo », 13 luglio 1962; poi in « Il Sestante Letterario », sett.-ott. 1962. Marotta e i suoi alunni, in « Dialoghi », (Roma), sett.-ott. 1967. S. Ouasimodo, « Operaio di sogni », in « La Carovana », aprile-giugno. 1968. De Pisis, pittore-poeta, in « Persona », (Roma), novembre 1969. La lirica di Ungaretti: dal « Porto Sepolto» a « La Terra Promessa », in « La Carovana », aprile-settembre 1970. Ritratto di Barilli, in « Persona », nn. 2, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, giugnodicembre 1970. Saggi apparsi ne « La Fiera Letteraria ». Il poeta di Narciso deriva da Mallarmé, 26 giugno 1949. Gide nel millenovecentotrentotto, visita ad un utopista, 28 agosto 1949; poi in « La Giustizia », 22 settembre 1954. Un uomo antico in esilio in mezzo a noi, 21 maggio 1950. Anna Claudi alla finestra, 4 giugno 1950. Poesie Marginali di S. Penna e Fuoco Bianco di A. Grande, 13 agosto 1950. I martedì letterari; Diego Valeri e le creature di Racine, 4 febbraio 1951. Amore di Gide alle lettere italiane, 25 febbraio 1951.

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Risposta a Leone Piccioni, 11 marzo 195 1. La poesia di Luciana Frassati, 10 giugno 1951. Ritratto di un poeta dopo il trittico della felicità perduta, 20 dicembre 1953. Artisti italiani: Franco lurlo, 2 maggio 1954. Marotta, il suo estro è poesia, 12 dicembre 1954. T. S. Elíot, poeta cattolico, 11 gennaio 1959. Il sacro in Rouault, 17 aprile 1960. Eugenio Montale, 12 giugno 1960. A proposito degli «Alunni del sole» Napoli secondo Marotta, 26 giugno 1960. « Solo, povero, candido se ne è andato M. Bontempelli », 31 luglio 1960. La notte dell'anno uno, 25 dicembre 1960. Michaux surreale, 12 febbraio 1961. I vincitori della « Penna d'oro »; profilo di E. Cecchi, 19 febbraio 1961. Il poeta degli angeli, 26 febbraio 1961. Un ritratto della nostra società in « Visti e Perduti »; Marotta in poltrona, 19 marzo 1961. La sorridente disperazione dell'ultimo Delfini, 26 marzo 1961. Ironia e mistero ne « La Farfalla di Dinard », 2 aprile 1961. La persona e il destino; meditazioni di Simone Weil, 9 aprile 1961. Un'acuta indagine critica di Gianni Nicoletti: la bellezza di Baudelaire, 23 aprile 1961. Artisti italiani: Gino Croari, 30 aprile 1961. L'Assoluto di Mallarmé, 7 maggio 1961. Noteralle di revisione critica; IQ spirito clausica di Leopardi, 21 maggio 196 1. Due critici nella nostra civiltà. Carteggio Nietzsche-Burckhardt, 28 maggio 196 l. Su « Vento in gabbia », raccolta di prose di varia ispirazione. Marotta favoloso e beffardo, 9 luglio 1961. « Il re di Sardegna » e altre poesie. L'ironia di Frattini, 16 luglio 1961. Un nuovo poeta per il Sud: la Calabria di Costabile, 23 luglio 1961. L'antiretorica dell'eroismo: Risi pensieroso, 6 agosto 1961. Per una storia spirituale della poesia italiana. Linea Umbra: un'ardita testimonianza, 10 settembre 1961. Un fanciullo che scopre il mondo e se lo racconta. Poesie di Gatto, 17 settembre 1961. Giovani poeti italiani; Un uomo e una fede, 24 settembre 1961. Giovani poeti italiani. Due lirici della discrezione, 1 ottobre 1961. Il poeta del poeta: Holderlin, 15 ottobre 1961. Ricordi parigini. Sincerità di Gide, 22 ottobre 1961. Ricordi parigini. Valery su Mallarmé, 29 ottobre 1961. Ricordi parigini. Paul Claudel tra Rimbaud e Dio, 5 novembre 1961; poi in « Iniziative », maggio-agosto, 1966. La missione dell'uomo di cultura, 12 novembre 1961. Ricordi parigini. Royere, 26 novembre 1961.

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Ricordi parigini, La Grecia di Beaudouin, 3 dicembre 1961. Saggio e antologia esemplari: La Voce, 10 dicembre 1961. Ricordi parigini. Il poeta Topalian, 31 dicembre 1961. Ricordi parigini. Notturno a « Notre Dame », 7 gennaio 1962. Dal terrore alla felicità. Camus uomo della rinascita, 14 gennaio 1962. Dall'assurdo quotidiano alla saggezza. La poesia di Ferrari, 20 gennaio 1962. L'uomo e il divino di Maria Zambrano. Una filosofia per l'uomo, 18 febbraio 1962. Tradotta da Manara Valgimigli la lirica dei Greci, 25 febbraio 1962. Il libriccino di Anna Curcio, 4 marzo 1962. Giuseppe Marotta, scrittore solitario e uomo sulla breccia. Le sue donne, 20 gennaio 1963.

Interviste immaginarie apparse su « La Fiera Letteraria ». Visita a Igor Iravic, 23 ottobre 1960. Visita a Peppotoston, 30 ottobre 1960. Visita a Organon, 13 novembre 1960. Visita a Leviatano, 27 novembre 1960. Visita a Egopatìcos, 4 dicembre 1960. Visita al dott. Ervad, 11 dicembre 1960. Visita a Zatti, 18 dicembre 1960. Monologo del dittatore, 1 gennaio 1961. Visita a Rascellini, 8 gennaio 1961. Visita a Ermete Trimegisto, 15 gennaio 1961. Visita a Salintari, 29 gennaio 1961. CRITICHE D'ARTE Ritratto di Giotto, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1957. Ritratto di Michelangelo, in « Il Piccolo », 24 aprile 1957. I sogni di Utrillo, in « Il Piccolo », 29 novembre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 9 ottobre 1960. Magia di Klee, in « Il Piccolo », 31 gennaio 1958. Libertà di Picasso, in « Il Piccolo », 21 marzo 1958. Tristezza di Modigliani, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958. Il sole di Van Gogh, in « Il Piccolo », 10 maggio 1958. Pollock e il caos, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1958. Monachesi polemico: Apologia della luce, in « Gazzetta del Sud », 21 ottobre 1958. Vangelli: Moderno e umano, in « Gazzetta del Sud », 6 novembre 1958. Le intuizioni di Braque, in « Il Piccolo », 20 novembre 1958. Wassily Kandisky, in « fl Piccolo », 31 gennaio 1959. Georges Rouault, in « Il Piccolo », 15 febbraio 1959. Armiro Yaria, in « Il Piccolo », 29 maggio 1959. Poetica di Cezanne, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 18 settembre 1960. Edoardo Giordano, in « Il Piccolo », 7 agosto 1959.

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VanGogh e il dolore, in « Il Piccolo », 25 settembre 1959. Giovanni Omiccioli, in « Il Piccolo », 17 ottobre 1959. Mauro Manca, in « Il Piccolo », 31 ottobre 1959. La pittura astratta, in « Il Piccolo », 8 marzo 1961; poi in « Iniziative », settembre-ottobre 1964. Antonio Delfini, in « Il Piccolo », 4 settembre 1962. PROSE D'ARTE

Costellazione dell'Orsa Minore, in « Il Popolo di Roma », 4 marzo 1953. Nascita di Roma, in « Il Mezzogiorno », 2 ottobre 1954. Fantasia al Colosseo, in « Il Mezzogiorno », 12 ottobre 1954. « Notre Dame », in « Gazzetta del Sud », 27 novembre 1956. Domenica al Pincio, in « Gazzetta del Sud », 15 febbraio 1957. Le Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 2 marzo 1957. Fantasia al Colosseo, in « Gazzetta del Sud », 13 marzo 1957. Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 23 marzo 1957; poi in « Gazzetta del Sud », 26 marzo 1957. Parole discrete, in « Gazzetta del Sud », 17 aprile 1957. Presenza della natura, in « Gazzetta del Sud », 30 giugno 1957. Immagine dell'universo, in « Gazzetta del Sud », 29 luglio 1957. Con Beethoven nella bufera, in « Gazzetta del Sud », 22 agosto 1957. L'Uomo e la storia, in « Gazzetta del Sud », 29 agosto 1957. Il giorno della creazione con Bach, in « Gazzetta del Sud », 3 settembre 1957. Due ombre, in « Gazzetta del Sud », 7 settembre 1957. Piazze di Roma, in « Gazzetta del Sud », 10 settembre 1957. Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 6 ottobre 1957. Monologo, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1957. Ravel e Agazarian, in « Gazzetta del Sud », 8 novembre 1957. Metamorfosi dell'autunno, in « Gazzetta del Sud », 15 novembre 1957. Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 29 novembre 1957. Favole per Euterpe, in « Gazzetta del Sud », 6 dicembre 1957. Soliloquio del Duomo, in « Gazzetta del Sud », 15 dicembre 1957. Favole, in «Gazzetta del Sud », 28 gennaio 1958. Lirica-Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 11 febbraio 1958. Momenti musicali, in « Gazzetta del Sud », 20 febbraio 1958. Momenti musicali: Grieg e De Bussy, in « Gazzetta del Sud », 27 aprile 1958. Quadri parigini, in « Gazzetta del Sud », 30 aprile 1958. Vecchi volti, in « Gazzetta del Sud », 3 maggio 1958. Bisanzio Topalian: Spettro di poeta, in « Gazzetta del Sud », 9 maggio 1958. Due nani a nozze, in « Gazzetta del Sud », 13 giugno 1958. Momenti musicali: Mozart e Vivaldi, in « Gazzetta del Sud », 8 giugno 1958. Concerto e solstizio, in « Gazzetta del Sud », 8 settembre 1958.

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Considerazioni all'alba, in « Gazzetta del Sud », 11 ottobre 1958. Momenti musicali: Paganini e Scarlatti, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1958. Momenti musicali: Strawinski e Georiwik, in « Gazzetta del Sud », 21 novembre 1958. Elogio dei mansueti, in « Il Piccolo », 24 febbraio 1960. Divagazioni e favole, in « Telesera » (Roma), 17-18 aprile 1961. Condannato all'ozio, in « Il Gazzettino di Venezia », 1 giugno 1962.

Saggi e prose apparsi in « Iniziative » (Roma): Ritratto di Baudelaire, luglio-agosto 1953. Colloquio con Beaudouin; Agazarian e l'usignolo, novembre-dic. 1953. Incontro con Gide, marzo-aprile 1954. Mortificazione dell'intelligenza, maggio-giugno 1954. Un mio incontro con Valery, nov. dic. 1954. Alcuni aspetti della critica letteraria in Italia, genn. febbraio 1955. La funzione della critica letteraria militante, marzo-aprile 1955. Dilettantismo e disumanità della lirica italiana contemporanea, maggiogiugno 1955. Paura della fantasia e disprezzo del cuore nell'arte italiana d'oggi, nov.dic. 1955. J.Paul Sartre o della responsabilità, genn. febbraio 1956. Poesia di Villaroel, nov.-dic. 1956. Ritratto di Virgilio e Versione di Orfeo ed Euridice dal libro IV delle Georgiche, genn.-febbraio 1957. La Catania di Villaroel, genn.-febbraio 1958. Due nani a nozze (racconto), marzo-aprile 1958. Mal di Galleria, genn.-febbraio 1959. Poeti d'oggi: Eugenio Montale, genn.-febbraio 1960. La poesia di S. Quasìmodo, marzo-aprile 1960. Saint-john Perse, premio Nobel, genn.-febbraio 1961. Il sacro nelle meditazioni di S. Weil, genn.-febbraio 1962; poi in « Il Sestante Letterario » (Roma), maggio-agosto 1963. Riflessioni sulla cultura, maggio-giugno 1962. Poeti d'oggi: Alfonso Gatto, nov.-dic. 1962. Narratori d'oggi: Giuseppe Marotta, maggio-giugno 1963. La donna nella narrativa di Marotta, sett.-ott. 1963; poi in « Il Sestante Letterario », marzo-aprile 1963. Nascita dell'uomo, genn.-aprile 1966. Saggi e poesie in lingua francese apparsi su ARTS ET IDÈES (Paris): Aventure (poesia), n. 7 février 1937. Pirandello et la tragedie, n. 8 avril 1937. Paul Valery et l'intelligence du siecle, n. 9 juin 1937. La poesie de Dante, n. 10 aoùt 1937.

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Seine (poesia); Nicolas Beauduin ou la beauté hellenique, n. 11 octobre 1937. Poèmes: « Petrarca » « Dante », n. 12 décembre 1937. Poème: « Fontaine », n. 13 février 1938. Persite et Melasia (fragment d'un myte), n. 14 avril 1938. L'arbre (poesia), n. 15 luillet 1938. Globo (poemetto), n. 17 décembre 1938. Moi,l'inutile (salmo), n. 18 février-mars 1939. Bonheur (poemetto), n. 19 avril-mai 1939. Altri saggi e poesie, prosa in lingua francese:

Terre relleurissante (poemetto), in « Dante » (Paris), n. 8 septembreoctobre 1935. Broderie (poesia), in « Dante », n. 7-8 juillet-aoùt 1938. Deux Poèmes: « La favola dell'universo », in « La Phalange », (Paris), 15 mai 1938. Le theatre et Pirandello, in « L'Age Nouveau » (Paris), n. 12 février 1939. Un monde sans paix (prosa), in « L'Appel » (Paris), n. 3 ianvier 1974. L'utopie possible (prosa), in « L'Appel », n. 11-12 nov.-déc. 1974. Lettre de Rome (prosa), in « L'Appel », n. 18 juillet-aoùt 1975. BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA Elegie doriche: C. CLAUDI, in « Alfabeto », sett. 195 1, n. 17-18. R. D'ESTE, in « Il Tirreno », 3 sett. 1951. E. MISCIA, in « La Voce Repubblicana », ott. 1951. A. FRATTINI, in « Idea », novembre 1951. Lettere della sposa demente: N. CIARLETTA, prefazione al volume. F. VIRDIA, in « Il punto nelle lettere e nelle arti », (Roma) ag.-sett. 1952. F. BRUNO, in « Gazzetta di Salerno », 15 settembre 1952. R. Mucci, in « Idea », 4 ottobre 1952. L.M., in « La Fiera Letteraria », 5 ottobre 1952. F. VIRDIA, in « La Voce Repubblicana », 10 ottobre 1952. G. VICARI, in « La Settimana Incom » 11 ottobre 1952. N. VERNIERI, in « L'Italia che scrive », novembre 1952. A. MELE, in « Corriere del Giorno », (Taranto) 7 dicembre 1952. F. FORTINI, in « Comunità » dicembre 1952, n. 16. M. RAMPERTI, in « Roma », 12 maggio 1953. G. MAROTTA, in « L'Europeo », 20 dicembre 1959. R. MÈJEAN, in « La France Latine », 4e. Trimestre 1974 (Paris), n.s. n. 60. C. SIANI, in « Stampa di Puglia », 12 febbraio 1976.

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Esilio sull'Himalaya:

E. BATTISTINI, in « Il Giornale d'Italia », 7 ottobre 1953. E.F. ACCROCCA, in « La Fiera Leteraria », 15 novembre 1953. F. DESIDERI, in « Il Secolo d'Italia », 18 febbraio 1954. G. ETNA, in « Il Giornale del Mezzogiorno », 17 maggio 1954. A.FRATTINI, in « L'Osservatore Romano », 17 giuono 1954. M. ZAMBRANO, in « Quadernos », (Paris), maggio-giugno 1954, n. 6.

Le favole di Dio:

A. FRATTINI, in « Idea », 8 maggio 1955.

Pietà della notte:

M. CAMILUCCI, in « Il Fuoco », marzo-aprile 1959. F. GRISI, in « Mistica Rosa », (Roma) febbraio-marzo 1962.

Adagio quotidiano:

P. DALLAMANO, in « Paese Sera », 25 febbraio 1959. G. RIMANELLI, in « Rotosei », (Roma) 16 aprile 1959.

Mia figlia è innamorata:

A. DEL MASSA, in « Il Secolo d'Italia », 13 agosto 1960. G. PASSALACOUA, in « La Giustizia », 13 agosto 1960. P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 14 agosto 1960. G. BALDUCCI, in « Telesera », (Roma), 25 agosto 1960. P. MARLETTA, in « Il Paese », (Roma), 30 agosto 1960. M. AYCARD, in « Ponente d'Italia », (Savona), settembre 1960. U. MORETTI, in « Il Reporter », (Roma) 11 ottobre 1960. A. FRATTINI, in « Humanitas », novembre 1960.

ANONIMO, in « Libri e riviste d'Italia », dicembre 1960. V. DE TOMMASO, in « La Carovana », (Roma) genn.-Febbraio 1961. A. CURCIO, in « Europa Sociale », (Roma) luglio-agosto 1962. Il paese d'Iride:

N. SIGILLINO, in « La Fiera Letteraria », 14 ottobre 1962. E. MAIZZA, in « Civitas », (Roma) dicembre 1962.

Gli occhi di Orfeo:

G. AVENTI, pref. al volume. G. Fusco, in « Le Ore », (Roma) 11 giugno 1964. A. BEVILAQCUA, in « Il Messaggero di Roma », 14 settembre 1964. ANONIMO, in « La Notte », (Milano) 1 ottobre 1964.

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B. PENTO, in « Annali della Pubblica Istruzione », (Roma) genn.aprile 1965. N. SIGILLINO, in « Persona », giugno 1965. Ballata per mille ombre:

G. MAROTTA, prefazione al volume. F. GRISI, in « Persona », ottobre 1967.

Il mattutino delle tenebre:

G. VILLAROEL, avvertenza al volume. N. G., in « Il secolo XIX », 21 maggio 1966, V. TALARICO, in « Momento Sera », (Roma) 30-31 maggio 1966. G. SALVETI, in « Pubblicismo Letterario », (Roma) 30 settembre 1966; poi in Dimenticanze e successi ingiustificati, Cosenza, Pellegrini, 1973.

I detti immemorabili di R.M. Ratti:

P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960. M. CAMILUCCI, in « L'Osservatore Romano », 11 luglio 1970. Si veda inoltre la prefazione-saggio di G. Aventi al volume Gli anni del silenzio e i due profili di G. Villaroel (Radio Trasmissioni del 7 novembre 1953: Trampolino) e di R. Gaudio (La Gazzetta del Mezzogiorno, 13 dicembre 1967); nonché i volumi di A. Frattini La giovane poesia italiana; Pisa, Nistri-Lischi, 1964 e Poesia nuova in Italia, Milano, I.P.L., 1967.

Pure riferimenti linguistici a Piazzolla sono nel volume Aspetti della poesia italiana contemporanea, di A. Vallone, cit..

Pure importanti sono le seguenti antologie: Splendore della poesia italiana, a cura di C. Govoni, Milano, Ceschina,1958. Anthologie de la poesie italienne, a cura di I. Chuzev;lle, Paris, Edition d'histoir d'Art, 1959. Lirici pugliesi del Novecento, a cura di F. Ulivi e E.F. Accrocca, Bari, Adriatica, 1967. Prima biennale della poesia italiana, a cura di A. Noferi, Firenze, I Centauri, 1969. Poeti dauni contemporanei, (pref. di M. Sansone) a cura di A. Motta,

C. Serricchio e C. Siani. (In corso di stampa).

ANTONIO MOTTA

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MOVIMENTO DEMOGRAFICO A FOGGIA NEL SEC. XVII

PREMESSA Questo lavoro ha come scopo lo studio della popolazione di Foggia nel

XVII secolo (1601 - 1700) tramite l'analisi di tre fattori essenziali e cioè i battesimi, i decessi e i matrimoni.

La popolazione, per l'intervallo di tempo in esame, è stata studiata in base ai vari ed alterni eventi che in questo intervallo di tempo si sono sviluppati e che hanno su di essa influito.

E' da premettere che tale periodo, per Foggia, è piuttosto oscuro in quanto molti documenti ad esso relativi sono andati distrutti o smarriti. Causa di ciò sono state le varie vicissitudini che Foggia ha attraversato come, ad esempio, il terremoto del 1731 che la rase completamente al suolo.

I dati necessari al lavoro sono stati raccolti nelle parrocchie di più antica istituzione ed a quel tempo esistenti e cioè la Cattedrale, San Tommaso e San Michele Arcangelo. Essi sono stati suddivisi per anni e mesi ed ancora secondo il sesso ed elencati in tabelle che sono state di base per l'indagine.

Purtroppo, nelle tre parrocchie, oltre ad alcuni registri di battesimi, decessi e matrimoni, mancano completamente gli indici e gli stati delle anime. Ecco un elenco, parrocchia per parrocchia, dei registri mancanti.

In Cattedrale sono andati distrutti: 1) per i morti, i registri relativi al periodo:

1 gennaio 1601 - 31 dicembre 1634 2) per i matrimoni, i registri compresi nel periodo:

1 gennaio 1601 - 31 dicembre 1666 A San Michele sono andati distrutti: 1) per i nati, i registri relativi al periodo: 31 dicembre 1628 - 23 novembre 1629 2) per i morti, i registri relativi ai periodi:

1 gennaio 1601 - 19 dicembre 1629 1 gennaio 1693 - 31 dicembre 1700

3) per i matrimoni, i registri relativi ai periodi: 1 gennaio - 31 dicembre 1629 2 dicembre 1661 - 8 novembre 1664 1 gennaio 1693 - 31 dicembre 1700 A San Tommaso sono andati distrutti:

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1 ) per i nati, i registri relativi ai periodi: 1 gennaio 1625 - 15 luglio 1636 21 marzo 1656 - 22 ottobre 1659 2) per i morti, i registri relativi ai periodi: 1 gennaio 1601 - 2 aprile 1608 1 gennaio 1625 - 14 settembre 1636 26 maggio 1656 - 17 ottobre 1659 3) per i matrimoni, i registri relativi ai periodi: 1 gennaio 1601 - 7 aprile 1608 1 gennaio 1625 - 21 settembre 1636 31 gennaio 1656 - 1 novembre 1659.

I registri superstiti sono conservati in buono stato, anche se qualche

pagina è di difficile lettura, essendosi l'inchiostro sbiadito col tempo. Su di essi, non rare sono le annotazioni fatte e, la maggior parte,

riguardano la vita parrocchiale come la benedizione del cero pasquale o della nuova campana, l'insediamento di un nuovo vescovo o parroco, ecc.

Al foglio n. 128 del registro dei morti per gli anni compresi dal 1644 al 1658, conservato in Cattedrale, si legge: « In questo mese di 7mbre (1656), sventurata città di Foggia, incomincia la peste. Cagionò la morte di dodicimila persone. Fra il spatio di tre mesi passarno tutti a miglior vita ».

Le registrazioni iniziano il primo gennaio e terminano il 31 dicembre, secondo l'indizione romana o pontificia.

Come accennato saranno analizzati, nell'ambito del presente lavoro, tre fenomeni essenziali per la popolazione di Foggia nel XVII secolo, e cioè: le nascite, le morti ed i matrimoni.

Delle nascite sarà analizzato il trend, il rapporto dei sessi alla nascita e la stagionalità; dei decessi sarà analizzato il trend, il rapporto dei sessi e la stagionalità; infine dei matrimoni sarà calcolato il trend e la stagionalità.

CENNI STORICI A poca distanza dall'antica Arpi, andata distrutta nel corso dell'ottavo

secolo, sorse, intorno al mille, la città di Foggia, denominata dalle grandi fosse in cui nella zona centrale del Tavoliere era uso conservare il grano.

Caduto l'Impero d'Occidente, nel quale essa formava una sola provincia con i Calabri e gli lrpini, subì la dominazione bizantina, e fu retta da un magistrato, il « catapan », onde la regione fu detta Capitanata.

Il periodo fiorente per Foggia iniziò con la dominazione dei Normanni, come attestano le donazioni delle decime di tutti i diritti regali

121

della città di Foggia ed i monumenti e le piazze che la abbellirono e le conferirono una nota artistica e culturale.

La predilizione di Federico II la rese sede del palazzo reale (del quale oggi, nella piazza omonima, è ancora visibile il pozzetto compreso un tempo nel recinto del palazzo) e di un tribunale chiamato l'Imperial Magistrato di Giustizia; inoltre, in Foggia la Magna Curia emanava i dispacci del Real Governo. Se tanto fu l'amore di Federico per Foggia, non da meno fu la devozione e la fedeltà dei foggiani verso l'imperatore, così che il suo cuore e le sue viscere furono custodite in un'urna e collocate nella Chiesa Maggiore.

Dopo il breve regno di Manfredi, la dominazione angioina, stabilitasi con Carlo d'Angiò, fu altrettanto munifica verso la città arricchendola di opere e monumenti. Ma la svolta decisiva nel campo economico avvenne sotto gli Aragonesi, quando Alfonso, nel 1447, acquistando i pascoli che appartenevano ai baroni ed alla Chiesa, formò un vasto possedimento nella pianura del Tavoliere e istituì la Dogana delle pecore, il cui statuto fissava precise norme per assicurare la destinazione pascolativa a danno di qualsiasi coltura dei terreni.

Nella prima metà del '500, la Capitanata fu teatro delle guerre franco-spagnole; infine la definitiva vittoria di Carlo V le assicurò un periodo di pace, durante il quale molte famiglie nobili del Regno di Napoli si stabilirono a Foggia.

Ben presto però il governo spagnolo non si limitò più alla mera esazione tributaria, e rivelò la propria strapotenza militare, fiscale e amministrativa; la città di Foggia subì le conseguenze più catastrofiche del fiscalismo spagnolo con una serie interminabile di imposte straordinarie, di sequestri, di confische.

Tra il 1632 e il 1644, la pressione fiscale assunse proporzioni intollerabili. Si ebbero le prime rivolte contadine e antifeudali che, specialmente nelle campagne del Tavoliere, si collegano al fenomeno del banditismo.

Il Regno era governato dai vicerè che « smunsero le popolazioni meridionali, vivendo da satrapi in mezzo allo sfarzo e al lusso di una corte corrotta, che contrastava con la miseria dei sudditi » I.

Essi imponevano gabelle che pesavano principalmente sulla povera gente.

Ad esempio, quella del sale « subiva continui aumenti. Nel 1606 era di otto carlini a tomolo, nel 1637 salì a dodici carlini, nel 1640 arrivò a ventidue carlini »

A questo depauperamento economico si aggiunse la svalutazione. Il Prof. Luigi De Rosa ha calcolato, rispetto al 1610, nel 1611 una

svalutazione monetaria dell'8,40%; nel 1617, del 15,90%, nel 1618, del 20,31%; nel 1620, del 33,10%.

1 LA SORSA S., Storia di Puglia, vol. IV, Bari 1955, pag. 43. 2 LA SORSA S., Op. cit., pag. 46.

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Come si sa, i fattori economici spiegano i loro effetti sulla popolazione.

Infatti dalla tavola dei battesimi (Tav. 1) risulta che tali periodi sono immediatamente seguiti da riduzioni di nascite, dovute alle minori disponibilità economiche della popolazione. Ai malanni economici si aggiunsero calamità naturali. Infatti, « numerose furono le epidemie: si lamentarono terremoti, morie di animali, tempeste, alluvioni ed altri malanni... Narra il Giannone che nel 1627 si fece sentire in tutta la Puglia un orribile terremoto ' abbattendo molte terre e facendo strage grandissima degli abitatori '... La Capitanata ebbe infinite rovine ... Anche gravi furono i danni cagionati dai terremoti del 1638 e 1688 ... L'anno più tremendo e luttuoso fu il 1630, quando il Vesuvio entrò in una fase di eruzione mai vista... non danneggiò solo i paesi della Campania ma produsse rovine anche in tutto il Mezzogiorno » 3. Ma « un malanno che non si ricordava da molto tempo fu la comparsa dei bruchi che devastò gran parte della Capitanata nel 1661 ... Erano di insolita grandezza e sul terreno se ne vedeva uno strato di quattro dita »4. Infatti, dalla tabella delle nascite, a partire dal 1661, si nota una contrazione di nati dovuta all'azione devastatrice dei bruchi sui raccolti. Questo perché « l'andamento dei raccolti condizionava in pratica lo sviluppo demografico: abbondanti raccolti significavano una migliore e più abbondante alimentazione, un migliore stato di salute generale e quindi più resistenza alle malattie, una più elevata o prolungata fecondità, maggiori risorse onde poter abbassare l'età del matrimonio. Una carestia o altri fattori, come epidemie e guerre, potevano interrompere questo schema di sviluppo, ma l'equilibrio era presto ripristinato in seguito al più rapido sviluppo demografico che generalmente si aveva dopo tali eventi, sia per le maggiori risorse che rimanevano a disposizione degli scampati, sia per la conclusione di un buon numero di matrimoni rinviati a causa di quegli eventi » 5.

Foggia era legata alla istituzione aragonese della Dogana della mena delle pecore che fece assurgere la città a « notevole centro commerciale per la industria delle pecore, delle lane e dei formaggi: veneziani, bergamaschi, napoletani, da ogni parte d'Italia vi accorre gente, vi stanziano i propri fondachi, vi commerciano, s'arricchiscono e con loro non pochi foggiani. In tutto questo splendore, lutti e miserie non mancano: terremoti, pestilenze, tumulti » 6.

Nel 1612 e nel 1625, « per straordinaria mortalità nelle greggi », le entrate della Regia Dogana scemano e il « Governo fu costretto a cercare nuovi cespiti per l'equilibrio del bilancio »7

3 LA SORSA S., Op. cit., pag. 67, 68, 75. 4 LA SORSA, Op. cit., pag. 68, 75. 5 DI VITTORIO A., Tavoliere pugliese e transumanza; distretti rurali e città minori tra il XVII e XIX secolo. Da: « Rivista di Storia dell'agricoltura », n. 3, dicembre 1974. 6 MARANGELLI O., Scritti vari, Foggia 1932, pagg. 45-46, 7 PAPA M., Economia ed economisti di Foggia, Foggia 1933, pag. 107.

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Al pari di Napoli, anche a Foggia si ebbero moti e governi di popolo.

Ciò perché « (la città) era dolente da più tempo pel malgoverno universitario, e per le imposte che sin dal 1642 l'avean ridotta in misero stato »8.

La rivoluzione di Masaniello a Foggia si sviluppa in due fasi: una prima, nel « luglio del 1647, e ci troviamo di fronte a un movimento essenzialmente popolare, spontaneo improvviso; ... la seconda, nel gennaio del 1648, vede dei ribaldi che usano il popolo come mezzo per raggiungere loschi fini »9. Questa seconda fase portò ad una « vera carneficina » 10. Qualche anno dopo, nel 1656, scoppiò la peste. Essa fu portata dalla Sardegna dal conte di Castrillo. Il De Ambrosio scrive che « ... il vicerè di Filippo IV, da Sardegna ove imperversava la peste, ne trasse milizia e con esse il contagio » 11 .

Dal registro dei morti per gli anni compresi dal 1644 al 1658 conservato in Cattedrale, risulta che il crudele morbo « cagionò la morte di dodicimila persone » mentre il De Ambrosio, nella sua citata opera, parla di « millecento ».

Nei dintorni di Foggia vi erano zone paludose, focolai di malaria a cui erano soggetti i contadini che ogni mattina lasciavano la città ed a piedi raggiungevano i campi per lavorare.

Per questo, nel 1671, il giureconsulto Freda propose che « ... i diritti pecuniari... chiamati di porta e rotolo si invertissero a favore della università12

perché (la città) aveva bisogno di essere... ripulita in parecchi siti, perché la nettezza influisse alla salubrità dell'aria » 12.

Nel periodo del vicereame si assiste ad un periodo di stasi nello sviluppo demografico di Foggia. Infatti, la popolazione, che al principio del XVII secolo ammontava a circa 5000 abitanti (1090 fuochi), nel 1648 a 815013, nel 1669 era di 592514: « la popolazione di Foggia diminuisce per l'aggravata situazione economica e per le epidemie che causarono una forte mortalità » 14.

Così il secolo declina su tutto il Regno stremato ed impoverito dopo i flagelli della peste sterminatrice e del fiscalismo, e il Tavoliere diventa una plaga atona e spenta nel disgregamento di tutta la società del Mezzogiorno.

8 VILLANi F., La nuova Arpi, Salerno 1876, pag. 92. 9 MARANGELLI 0., Relazione della ribellione di Sabato Pastore in Foggia nell'anno 1648, Foggia 1932, pag. 6. 10 LA SORSA S., Op. Cit., Pag. 101. Il DE AMBROSio F., Memorie di Foggia, S. Severo 1889, pag. 34. 12 VILLAN[ F., Op. cit., pag. 103. 13 ENCICLOPEDIA ITALIANA, vol. XV, Rorna 1949, ag. 582. 14 BALDACCI 0., Puglia, vol. XIV da: « Le regioni d'Italia », Torino 1962, pag.

474.

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I NATI Lo studio statistico della popolazione può dividersi in due grandi parti: lo

studio dello stato della popolazione che « riguarda il numero e la distribuzione degli abitanti (censiti) secondo determinati caratteri personali (età, sesso, stato civile, professione, lingua, nazionalità) e geografico-amministrativi (distribuzione degli abitanti per comuni, circondari, province, compartimenti, popolazione sparsa ed accentrata; popolazione residente e presente, ecc.) » 15, e quello del movimento della popolazione. « Del movimento della popolazione, si fa distinzione tra quello naturale od intrinseco e quello sociale od estrinseco. Rientrano nel primo, le nascite, le morti e i matrimoni, cioè quei fenomeni demografici che lasciano traccia nei registri dello stato civile, dai quali vengono statisticamente rilevati. Il movimento sociale è costituito dalle migrazioni, interne ed internazionali, e viene rilevato con statistiche ad hoc » 16.

Le nascite sono alla base dello sviluppo numerico della popolazione. « Notevole rilievo assume, in demografia, la distinzione dei nati in nati vivi e nati morti. Quest'ultimi, infatti, non portano alcun contributo all'aumento della popolazione. I nati morti (e gli aborti) hanno, invece, maggiore importanza sotto l'aspetto medico, biologico, ecc.

In Italia, attualmente, si adottano i seguenti criteri per la distinzione degli aborti, nati vivi e nati morti:

1) l'aborto è l'interruzione della gravidanza con l'espulsione del feto entro il 6° mese di gestazione;

2) nato morto è il feto espulso dopo 6 mesi di gestazione, che non abbia dato segni di vita;

3) nato vivo è il feto che, a parte la durata della gestazione, abbia, dopo l'espulsione dal corpo materno, dato segni di vita, anche se subito dopo si sia verificata la morte » 17. Nel presente capitolo analizzeremo, per i nati:

1) il trend 2) il rapporto dei sessi alla nascita 3) la stagionalità delle nascite.

A) Trend

Lo studio di una popolazione, tramite l'analisi di uno dei suoi fattori principali, cioè le nascite, tende alla separazione tra la tendenza di fondo del fenomeno (trend) e le fluttuazioni che ad esso si sovrappongono. Queste possono presentarsi ad intervalli di tempo più o meno regolari (fluttuazioni cicliche) e possono essere originate da cause che agiscono in modo periodico, ma di solito si manifestano ad intervalli irregolari.

15 ZINGAU G., Demogralia, Torino 1930, pag. 3. 16 ZINGALI G., Op. cit, pag. 3. 17 CHIASSINO G., Appunti di demografia, Bari 1971, pag. 59.

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« Ciò che resta... costituisce le cosiddette variazioni residue o variazioni

residuali. Queste includono tanto le variazioni erratiche, o variazioni saltuarie, dovute a fenomeni eccezionali, quali, ad esempio una guerra od una epidemia, quanto le variazioni casuali, che hanno carattere accidentale » 18.

Quindi, si rende necessario sostituire la successione di dati riguardanti il complesso dei nati (MF) anno per anno che sono perturbati da irregolarità con un'altra, che presenti un andamento regolare. A tale scopo, si può effettuare una perequazione analitica e cioè adattare ai valori osservati una funzione matematica i cui parametri vengono determinati analiticamente. Prima di decidere sul tipo di funzione da adottare, si rappresenta graficamente il fenomeno “ nascite”.

B) Rapporto dei sessi alla nascita

Il rapporto dei sessi alla nascita si ottiene dividendo l'ammontare dei nati

maschi (nel caso in esame, l'ammontare espresso in decenni) per l'ammontare delle nate femmine e moltiplicando per 100.

Esso presenta una caratteristica: in qualunque luogo ed in qualunque epoca, il rapporto tra maschi (nati vivi) e femmine (nate vive) è costante e si aggira intorno a 105-106 nati maschi per 100 nate femmine.

Sul problema dell'eccedenza dei nati di sesso maschile sui nati di sesso femminile sono state formulate svariate teorie tutte incapaci di dare una spiegazione sufficiente al fenomeno. Ciò ha fatto pensare che tale legge statistica « dipenda da una legge biologica dell'uomo, e poiché il rapporto dei sessi alla nascita è in stretta dipendenza col rapporto dei sessi al momento in cui il sesso si determina e col rapporto dei sessi nelle eliminazioni che si verificano tra il tempo in cui il sesso si determina e il tempo della nascita, si comprende come le ricerche si siano rivolte verso la misura del rapporto dei sessi al concepimento e verso le eliminazioni che intervengono fra il concepimento e la nascita, cioè verso gli aborti »19.

Negli aborti che si verificano nei primi anni di gravidanza è pressocché impossibile stabilire il sesso del feto, ma tra il 3° e il 6°, periodo in cui tale determinazione risulta più agevole, la prevalenza spetta al sesso maschile (secondo alcuni si aggirerebbe intorno al 160 per 100). « Pertanto l'orientamento demografico prevalente tende oggi a rivolgersi verso l'ipotesi avanzata dal Morgan, secondo la quale lo spermio portatore del cromosoma Y sarebbe più mobile ed aggressivo dello spermio portatore del cromosoma X e di conseguenza si avrebbe di fatto una eccedenza di concepimenti maschili alla quale sarebbe riconducibile l'eccedenza maschile nel rapporto dei sessi alla nascita »20.

18 COLOMBO B., Dizionario demografico multilingue, Milano 1959, pag. 20. 19 MIANI CALABRESE D., Metodologia statistica e statistica dei fenomeni sociali, Milano 1958, pag. 31. 20 MIANI CALARBESE D., op. cit., pag. 32.

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Per il calcolo di tale rapporto, si è diviso l'intero intervallo in periodi

decennali e risulta che l’indice oscilla da un minimo di 85,20 (periodo 1621/1630) ad un massimo di 108,88 (periodo 1681/1690). Per l'intero intervallo considerato, il valore dell'indice è pari a 105,99, essendo 9689 i nati vivi maschi e 9141 le nascite femminili. Ad eccezione del periodo 1621-1630, in cui si è registrato il minimo di 85,20, si è avuto una regolare eccedenza di nascite maschili.

C) Stagionalità delle nascite

Il numero dei nati presenta forti oscillazioni da un mese all'altro. Al fine

di studiare queste oscillazioni, vengono costruiti degli “ indici di stagionalità delle nascite '”che si sono ottenuti sommando tutti i nati di gennaio, quelli di febbraio, ecc. (per 5 ventenni). Le somme dei nati vivi che non corrispondono a mesi di trenta giorni sono state corrette moltiplicandole per il rapporto tra trenta e il numero dei giorni del mese considerato (31, 28 o 29). Il numero corretto delle nascite di ogni mese diviso per il numero corretto delle nascite del periodo lo si è moltiplicato per 1200.

Gli indici, così ottenuti, per le nascite complessive, maschili e femminili, presentano per il complesso due massimi. il primo cade in gennaio-febbraio, l'altro nel periodo settembre-dicembre e ciò all'incirca per tutti e cinque i ventenni.

Le cause di queste oscillazioni non si conoscono con esattezza essendo molteplici i fattori che su di esse influiscono e diverse sono le ipotesi formulate.

Secondo Luzzatto Fegiz, il massimo delle nascite di gennaio-febbraio corrisponde al massimo dei concepimenti che si verificano per aprile. « Sembra ovvio mettere in relazione tale fenomeno col risveglio primaverile della natura, e ammettere che le stagioni influiscono o sull'impulso sessuale o sulla fecondità specifica dell'uno o dell'altro sesso, o su questi elementi insieme »21.

Altri autori adducono l'esistenza di fattori come quelli legati alla metereologia, fisiologia, o connessi « con altri fenomeni sociali e psicologici (nuzialità, feste, ecc.) » 7. Luzzatto Fegiz spiega anche il secondo massimo stagionale nel seguente modo: « Invero, delle donne che hanno partorito in corrispondenza del primo massimo annuale, alcune ridiventano capaci di concepire quasi subito, alcune dopo un mese, altre invece dopo due, tre o più mesi, a seconda della durata dell'allattamento e di altre circostanze. Ora è chiaro che, ogni altra condizione restando uguale, nell'epoca in cui sono più numerose le donne che rientrano nella categoria delle esposte a concepire, si avrà pure una maggiore probabilità di concepimento, e quindi un massimo secondario di concezioni..

Ma un simile riflusso di donne fecondabili si verifica intorno ad un 21 LUZZATTO FEGIZ P., Statistica demografica ed economica, Milano 1951, pag. 112.

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certo intervallo dell'epoca del massimo assoluto (primario) di nascite, e precisamente ad un intervallo pari alla distanza normale fra un parto ed il momento in cui la donna ridiventa disponibile per la generazione » 8. Gli ostetrici hanno considerato « normale un intervallo di sette-otto mesi fra un parto ed il momento in cui una donna che allatta ridiventa disponibile per la generazione » 22. Quindi, il secondo massimo di nascite è dovuto a nati vivi che provengono in parte da donne che hanno partorito all'incirca 15-19 mesi prima.

I DECESSI

I decessi costituiscono la principale componente negativa del

movimento della popolazione e sono soggetti a molteplici fattori: alcuni imprevisti come le epidemie e le guerre, ed altri variabilissimi come le circostanze economiche, il clima, ecc. Data l'esiguità di notizie giunteci, non è possibile sapere con certezza quali siano state le cause che hanno provocato una maggiore mortalità per alcuni degli anni oggetto di studio; ad esempio, nel 1649 e nel 1681 si sono avuti a Foggia rispettivamente 707 e 713 decessi.

Tra le principali cause di morte, ricordiamo in primo luogo la peste. Il facile diffondersi delle epidemie è dovuto alle scarse cognizioni mediche e all'uso « di medicamenti strani, frutto più di superstizione o di attaccamento alla tradizione che di serietà scientifica » 23.

Ad esempio, per purificare l'aria e fermare il diffondersi delle malattie, venivano bruciati per strada cannella e noce moscata.

Sebbene il secolo in oggetto di studio sia caratterizzato da profondi studi sulla cellula, sulla circolazione del sangue, sul fegato, sulla struttura del rene e dall'inizio della pratica terapeutica della trasfusione del sangue, numerose sono le annotazioni di decessi fatte con la dicitura « morto di subito ».

Altra causa di morte è la malaria. Le zanzare brulicano, in ogni parte del Tavoliere; anche Foggia ne è colpita a causa dei pozzi di acqua sorgiva. Vittime preferite sono i contadini che, nel periodo estivo, vanno per i campi per la mietitura.

Altro male del secolo è il brigantaggio e causa determinante di questo fenomeno è la miseria in cui il popolo versa a causa del malgoverno spagnolo. Infatti, esso non solo spinge sulla strada del crimine (e numerosi sono i viandanti che vengono uccisi e depredati sulle strade, stando a ciò che risulta dai registri), ma determina anche quella « inegalité devanta la mort » che è la disuguaglianza più elementare, poiché la miseria comporta sottoaliment azione, abitazioni insalubri (per lo più fatte di fango oppure costituite da capacce o stalle), ecc., elementi che abbrutti-

22 LUZZATTO FEGIZ P., Op. Cit., Pag. 115. 23 BUSACCHI V., Storia della medicina, Rocca S. Casciano, 1951, pag. 236.

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scono gli uomini e li espongono, indifesi, alle malattie.

Anche il clima gioca il suo ruolo, trovandosi Foggia al centro della pianura e con scarso manto boschivo.

In estate presenta un clima torrido, tanto che il Manicone scriverà che « nelle campagne appule è un caldo forte affannoso e d'inferno » 24così che al sole si possono cuocere « non pur le uova delle galline, ma le galline stesse » 25.

Al contrario, l'inverno è rigido. Memorabile è l'inverno del 1683 che fu tanto rigido che due cittadine della Capitanata, e precisamente Vieste e Monte S. Angelo, furono sepolte da otto metri di neve.

A) Trend

Anche per i decessi, analizziamo l'evoluzione storica. Questa evoluzione dipende da condizioni che variano molto lentamente

nel tempo. A questo proposito, c'è da dire che « ... quelle variazioni che a noi, per brevità dei periodo considerato, sembrano secolari o evolutive, cioè sempre nello stesso senso (rappresentabili quindi con curve crescenti o decrescenti) sono probabilmente variazioni di lunghissimo periodo, visibili solo in parte. E infatti non si può ammettere che la mortalità continui ad aumentare o diminuire - sia pure lentamente-all'infinito » 26.

B) Rapporto dei sessi nei decessi

Per ciò che concerne il sesso, balza evidente una maggiore mortalità

maschile rispetto a quella femminile. Al momento della nascita, il numero dei maschi supera quello delle

femmine (106 M per 100 F); ma la maggiore mortalità maschile, in un primo momento riequilibria la bilancia per poi spostare definitivamente l'ago a favore delle femmine.

A cosa è dovuta questa « supermortalità maschile »? I fattori che entrano in causa sono, in sostanza, due: da una parte, vi è la

maggiore partecipazione dell'uomo alla vita attiva e a tutti i rischi ad essa inerenti e, dall'altra, vi è la maggiore resistenza dell'organismo del « sesso debole » rispetto a quello maschile.

L'uomo che abita Foggia nel XVII secolo è essenzialmente agricoltore: ogni mattina, egli abbandona la città per recarsi nei campi, situati alla sua estrema periferia.

Al contrario, la donna si dedica al lavoro nei campi solo all'inizio 24 MANICONE M., La fisica Appula, Foggia 1969, pag. 830. 25 MANICONE M., op. cit., pag. 962. 26 LUZZATTO FEGIZ P., op. cit., pag. 67.

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dell'estate, tempo in cui si raccoglie il frutto di una pianta selvatica, caratteristica del Tavoliere: il cappero.

Il rapporto fra il quoziente di mortalità maschile e quello femminile (calcolati per decenni) oscilla tra un minimo di 125 (nel periodo 1691-1700) ed un massimo di 172 (nel periodo 1641-1650). Per l'intero intervallo, il quoziente è di 152, essendo 8289 il totale dei maschi morti e 5467 quello delle femmine.

C) Stagionalità dei decessi

Gli indici di stagionalità vengono costruiti con lo scopo di studiare le oscillazioni che si verificano nei decessi da un mese all'altro dell'anno.

Per il calcolo degli indici, « ... si sommano i morti nei mesi di gennaio, i morti nei mesi di febbraio, e così via.

Poiché le somme così ottenute non si riferiscono tutte a mesi di 30 giorni, quelle relative a mesi non di 30 giorni vanno corrette moltiplicandole per il rapporto tra 30 e il numero dei giorni del mese al quale si riferiscono... Gli indici di stagionalità dei decessi si ottengono, poi, dividendo i decessi di ogni mese per il totale dei decessi e moltiplicando per 1200: in tal modo la media mensile degli indici risulta uguale a 100 »27.

Nel periodo in esame, l'andamento della curva stagionale dei decessi calcolata per ventenni presenta un massimo che generalmente cade nel periodo autunnale (mesi di ottobre, novembre e dicembre) ed un minimo che cade nel periodo primaverile (mesi di aprile e maggio).

I MATRIMONI

« Lo studio della nuzialità si occupa dell'analisi quantitativa del fenomeno

dei matrimoni, unioni tra persone di sesso diverso, regolate dalla legge o dal costume, da cui derivano particolari diritti e doveri per i contraenti e la loro prole. Si parla di matrimonio, oltre che di nozze, anche per designare la cerimonia con cui, in forme previste dalla legge o dal costume, dette unioni vengono sancite. Le persone che contraggono il vincolo matrimoniale sono chiamate sposi, o coniugi: rispettivamente, secondo il sesso, trattasi dello sposo, o marito, e della sposa, o moglie. Congiuntamente, essi formano una coppia coniugale. Le legislazioni matrimoniali, ed i costumi matrimoniali, o usanze matrimoniali, presentano una grande varietà da Paese a Paese » 28.

« Lo scioglimento del matrimonio, o estinzione del matrimonio, si può avere, o per la morte del coniuge, od anche, là ove ciò è ammesso, in forza di legge e delle costumanze, con conseguente rottura di tutti i vincoli giuridici derivanti dallo stato di coniuge. In particolare ne deriva

27 CHIASSINO G., op. cit., pag. 88. 28 COLOMBO B., op. cit., pag. 73.

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la possibilità di contrarre uno nuovo matrimonio. Quando il matrimonio viene sciolto per la morte di uno degli sposi, il coniuge sopravvivente prende il nome di vedovo, se maschio, o vedova, se femmina, Lo stato in cui vivono i vedovi è chiamato vedovanza. Là ove esiste, il divorzio costituisce un mezzo regolato dalla legge o dal costume, per sciogliere il vincolo matrimoniale » 29.

Il fenomeno matrimoni, dal punto di vista del movimento della popolazione, non costituisce né un'entrata né un'uscita di individui, ma è in stretta relazione col fenomeno della natalità.

A) Trend

Passiamo ora ad esaminare l'andamento del fenomeno “matrimoni” nel tempo.

Si è detto che i matrimoni costituiscono il fattore sociale più influenzabile da fenomeni quali, carestie, guerre, epidemie da un lato e raccolti eccezionali, incoraggiamento alla nuzialità, ecc., dall'altro che ne fanno variare il numero da un anno all'altro.

B) Stagionalità dei matrimoni

Gli indici di stagionalità dei matrimoni permettono una indagine

sull'andamento del fenomeno tramite l'analisi di quegli elementi che, in certi periodi dell'anno agiscono costantemente, determinando la periodicità della nuzialità.

Sui matrimoni, influiscono i divieti religiosi. Proibizioni alle solennità nuziali, la Chiesa le ha poste dal giorno delle Ceneri (inizio della Quaresima) alla Domenica in Albis (sette giorni dopo Pasqua) e dalla prima Domenica dell'Avvento (col quale si inizia l'anno ecclesiastico) sino al giorno dell'Epifania dell'anno seguente.

Ma non sono solo i divieti religiosi ad influire sul movimento annuale dei matrimoni. Vi sono, infatti, anche fattori economici, sociali e climatici che esercitano su essi la loro influenza.

La stagionalità dei matrimoni si appura uguagliando a 1200 la frequenza complessiva, nei dodici mesi dell'anno, dei matrimoni. Così facendo, la frequenza mensile dei matrimoni corrisponde a 100.

Diviso l'arco di tempo oggetto di studio in ventenni, vediamo che divieti religiosi, pregiudizi, ecc., sono stati rispettati.

Infatti, mentre le punte massime cadono in gennaio-febbraio, i minimi si presentano in marzo, luglio ed agosto (i mesi più caldi) e dicembre, per i motivi esposti.

In conclusione, quest'indagine si presenta come il risultato della fusione di due elementi: l'elemento storico e l'elemento demografico.

29 COLOMBO B., op. cit., pag. 76.

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Il primo non ha fatto solo da sfondo per l'indagine, ma ha assolto una

funzione ben precisa. E' stata proprio la parte storica in esame (XVII secolo) che ci ha illustrato il motivo di tante fluttuazioni che si sono verificate nella popolazione (elemento demografico). Infatti, ad ogni evento, positivo o negativo che sia stato, la popolazione ha sempre reagito. Questa reazione ha assunto la forma di aumento o riduzione delle nascite, aumento o riduzione dei decessi, aumento o riduzione dei matrimoni.

I dati necessari allo studio sono stati tratti dai registri conservati presso le parrocchie di più antica data e sono stati inseriti nelle tavole di cui in Appendice. Essi, poi, sono stati illustrati mediante grafici che hanno ben posto in evidenza le oscillazioni di cui sopra.

Tutto il lavoro si è articolato in quattro capitoli: i cenni storici, le nascite, i decessi ed i matrimoni.

RAFFAELE NIMO

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ESTIMONIANZE DEL CULTO DI ATTIS-SABAZIO O ERCOLE ACI-IERONTINO AD ACCADIA,

NEL SUBAPPENNINO DAUNO Il contado di Accadia si va rivelando come un'antica arca sacrale, dedica-

ta al culto della Magna Mater e del suo paredro. E' del 1970 il rinvenimento di un'antichissima e caratteristica statua della

dea, alla quale è legato anche il toponimo.

Figura 1 - Statua di Eca, l' << acca dia>>

(foto Prof. S. Schiavone)

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La statua, conservata nel Palazzo Comunale di Accadia, presenta un sin-

golare aspetto tra fallico e androgino, quasi che il popolo che ne introdusse il culto avesse presente o il mito dell'Afrodite preolimpica, nata in mare da Ura-no evirato a opera di Kronos, o piú probabilmente il mito di Agdisti-Cibele e Attis, sul quale c'illumina Arnobio1.

Data la scoperta di numerose epigrafi e figure, successiva al breve lavoro dedicato al reperto appena effettuato il rinvenimento2, sull'argomento andiamo preparando un nuovo e più ampio studio.

Tralasciando di occuparci per ora di un rilievo d'ispirazione orfica-celebrante attraverso gocce di pioggia cuoriformi la ierogamia fra Cielo e Terra - rinvenuto in contrada « Bosco Bolano » il 19 agosto 1975, il cui esame, già pronto, viene rimandato a una prossima pubblicazione, intendiamo ora occu-parci di una singolare statuina bronzea, trovata nell'agosto 1974 in contrada « Limitoni 3, altra area archeologicamente fertile e interessante, trovantesi sulla rotabile Accadia-Monteleone di Puglia.

La statuina, alta una decina di cm., fu salvata da sicura dispersione grazie alla passione e alla diligenza del Sig. A. Grieco, Comandante dei Vigili Urbani, il quale l'assicurò al sorgente Museo civico; essa raffigura un eroe o semidio nudo e sessualmente ambiguo: le fattezze e il piglio sono indubbiamente virili, ma è evidente l'evirazione e l'artificiosità della zona mammaria. La destra. giunta monca si presenta in atteggiamento di lancio, mentre la sinistra impugna un og-getto claviforme terminante con testa scimmiesca. I piedi mancano. La testa, recante una sporgenza falcata, è caratterizzata da un volto grossolano - forse per influsso d'iconografia tradizionale - e ìn contrasto con la spigliatezza dell'in-sieme, che, specie per il movimento, presuppone una perizia tecnica non ante-riore all'età alessandrina. Per tali contrastanti caratteri si ha l'impressione di una singolare contaminatio fra un paredro evirato della Gran Madre e la tipologia dell'Ercole grecoitalico.

1 V, 5 sgg. (158 sgg.). Com'è noto Agdisti, nata in Anatolia dal Monte Agdos, per

errore fecondato da Zeus che si accingeva a congiungersi con Cibele dormente, era una creatura mostruosa, ermafrodita. Dioniso la costringe a evirarsi, e dal sangue della mutila-zione nasce un melograno, un cui frutto ingravida di Attis la figlia del re Sangario, Nana. Agdisti s'innamora di Attis e, quando questi sta per sposare la figlia del re di Pessinunte, scatena un orgiastico furore che spinge Attis a evirarsi: cruento rito immortalato dai versi di Lucrezio (Il 598 sgg.) e di Catullo (carme 63).

2 E. PAOLETTA, Presenza greca e messapica nel Subappennino dauno-irpino, e-stratto dalla rivista SILARUS pubblicato a cura della PRO LOCO di Accadia, Salerno 1973.

3 A parte altri reperti andati irrimedìabilmente perduti, nel 1968 v enne qui alla luce e salvata a opera del Vigile P. Maselli una lastra di pietra di cm. 70 x 50 recante la scritta SEPTIMIA / C.P.S. Il A., cioè Septimia, clara puella sita II annorum.

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Fig. 2. - Attis - Sabazio di Accadia o Ercole Acherontino

(foto Dott. G. Mele) Siccome ad Accadia la Magna Mater era venerata col nome di

Eca4, accortiativo di Ecate (intesa però come dea di fecondità allo 4 Il toponimo Eca è confermato, oltre che dalla tradizione locale, dal signi-

ficativo abbaglio del Cluverio che confonde il luogo con Aecae (Troia) nella

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stesso modo dell'Artemide efesina) e insieme di Ecuba (ma un'Ecuba divina corrispondente a Cibele-Ecate, in quanto Phrygia Mater, e anteriore perciò alla laicizzazione operata da Omero nei suoi poemi), è nostra convinzione che la statuina raffiguri appunto Attis-Sabazio, paredro della Gran Madre. La nostra convinzione poggia, fra l'altro, su testimonianze toponomastiche ed epigrafiche. Cerchiamo di enumerarle:

1) sulla rotabile Accadia-Monteleone di Puglia, un Km. prima della con-trada « Limitoni », s'incontra il curioso e significativo toponimo « Fontana di Sabato », pertinente a una sorgente potabile, -ma facile a intobidarsi per la sab-bia che vi si agita col pullular dell'acqua;

2) a N. E. di Accadia, in direzione di Bovino, s'incontra presso la con-trada « Centra », altra area archeologicamente fertilissima il toponimo « Savuk’ », in corrispondenza di un sacello mariano; il termine, che non ha rapporto con la pianta del sambuco, può essere la deformazione del grecoóáâïý÷ïò, « (lu o-go) che conserva Sabazio-Sabós; l'interpretazione è confortata da un toponimo collaterale che suona volgarmente « Chian’ di Tafij », significativo residuo greco per « Piano del sepolcro »;

3) presso la stessa contrada si ha in documenti medioevali un Castrum S. Antollini confermato dal dialettale « Santantullin’ » 5, significativa sovrapposizio-ne cristiana del culto per S. Antonio Abate a un precedente toponimo che per noi potrebbe essere Attidinum, « Luogo sacro ad Attis »; a ulteriore conferma, nei paraggi s'incontra un assai curioso toponimo, « Chian’ lisciant’ » , che ha tutta l'aria di essere una deformazione popolare da Planum ëíóóÜíôùí « Piana dei Baccanti » a indicare il luogo ove i coribanti e le baccanti celebravano le sa-cre orge; il dorismo si spiega con la presente, già altra volta notata, di Dori ad Accadia;

4) la menzionata statua di Eca, l'acca dia o Magna Mater presenta fra l'altro il vocabolo Kule 6, « la Mutilata » (dal grecoêËëïò ) e si pu ò perciò pensare che il bosco di « Serbarola », situato fra Accadia e S. Agata di Puglia, abbia derivato il nome da Silva Hvlae, « Bosco della Mutilata », o forse da Silva Huli, « Bosco del mutilato » o « Evirato », dato che la forma dialettale del toponimo, « Sirva-rul' », presuppone un maschile;

5) nell'antico borgo, ora sciaguratamente diruto, nei sotterranei del Palaz-zo Ducale, sorto presso l'antico Convento di S. Vito, a sua volta innalzato su un preesistente Hekabeion o tempio in onore di Eca, si conservava una caratteristica pietra sacrale, detta volgarmente « preta celebre opera Italia antiqua, Lugduni Batavorum, 1.624, p. 13; e dal Pacichelli che ci fornisce la grafia Echa (Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703, I, 305).

5 Nel sorrentino si ha Sant' Andulin ‘ per S. Antonio Abate. 6 Hule si legge anche nelle Tavole lguvine (cfr. V. PISANI, le lingue dell'Italia antica

oltre il latino, Torino, 1064, T. I. IV, 17).

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du lu rasul’ » cioè « Pietra del rasoio » a ricordo, pensiamo noi, dell'antichissimo rito dell'autoevirazione a cui si sottoponevano, nel furore orgiastico i Coribanti o Galli, sacerdoti di Cibele e di Attis 7 .

Lo slittamento dell'Attis primitivo nella tipologia dell'Ercole grecoitalico, è provato, fra l'altro, dall'oggetto claviforme a testa di scimmia o, meglio, di Cercope che l'eroe impugna nella sinistra: Attis era un paredro di morte e re-surrezione, ma lo stesso Ercole, che, quale capo dei Dattili idei8 - i sacerdoti del corteggio della Gran Madre - era anche lui un paredro di Cibele, era disceso agli inferi e ne era tornato vittorioso; aveva inoltre vinto i Cercopi, demonietti o gnomi predoni e faceti, dalla testa di scimmia 9. Per giunta, altro elemento signi-ficativo e determinante, nel Subappennino dauno si venerava un Hercules Ache-runtinus 10.

Non va dimenticato che la Tabula Peutingeriana presso Aecae, la città a cui appartiene l'epigrafe concernente fflercules Acheruntinus, presenta un curioso to-ponimo, Hercul-Raní; forse l'insoluto rebus è da spiegare come adattamento osco di un equivalente greco: espressione osca che latinamente poteva corri-spondere a Herculea ranu (‘ñáíßò),« Gocce (di sangue) di Ercole » (evirato) 11

La figura di Ercole compare anche sul Signum Aquadiense raffigurante E-ca.

La contaminatio sincretistica fra Attis ed Ercole potrebbe essere avvenuta in età alessandrina: ad Ercole, riconoscibile dalla clava a testa di Cercope, oltre che dall'atteggiamento generale, è rimasto di Attis la evirazione e la sporgenza falcata, posta sulla fronte come a ricordare il cruento rito.

ERMINIO PAOLETTA 7 E' noto che per tale rito si ricorreva alla pietra invece che al ferro (cfr. CATULLo,

63, 5). Non è inutile ricordare che anche Virgilio in Aen. VII, 188 sg. ci presenta con la falce il pater Sabinus, cioè Sabus.

8 « Le groupe dactlylique doni Héraclès est l'ainé et le chef » cfr. P.LÉVÊQUE, Continuités et innovations dans la religion grecque de la première moitié du Ier millenaire, in « LA PAROLA DEL PASSATO » CXLVIII - CIL, Napoli, 1973 pag. 29.

9 Cfr. la metopa dell'Heraion sul Sele (560 a. Cr.) in P. ZANCANI MONTUORO e U. ZANOTTI BIANCO, Heraion alla foce del Sele vol. II, p. II, Roma, 1954.

10 C.I.L., IX, 947, da Aecae (Troia) . 11 Sul rebus di Hercul-Rani, si può notare la perplessità del Mommsen in C.I.L.,

IX, p. 85. Per l'osco cfr. ranu nelle tavole iguvine, II; 19 (V. PISANI 0. C.). Rhanis è anche il nome di una ninfa di Diana nelle Metamorfosi ovidiane (III, 171); e Diana ci porta a Eca.

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LA DAUNIA GRECA

Presenza dorica e orfica ad Accadia, nel Subappennino dauno Il generoso contado di Accadia, che si viene sempre più chiaramente ri-

velando come un'antichissima area sacrale, non cessa di riserbare sorprese. Dopo la singolare statua di Eca, l'accadia o « madre celeste », trovata nel

19701, e dopo il rinvenimento in contrada « Limitoni » della bronzea statuina2 di Attis-Sabazio, corrispondente all'Hercules Acheruntinus greco-italico 3, pare-dro della Magna Mater, ecco venir fuori, ora, in contrada « Bosco Bolano » 4, anch'essa archeologicamente assai fertile, un masso a forma di parallelepipedo con faccia anteriore ricca di figure in bassorilievo; dimensioni cm. 130 x 90 x 30.

La scena, di evidente ispirazione orfica, ci pare raffiguri la ierogamia fra

Cielo e Terra: il Cielo, sotto forma di nube, feconda con gocce cuoriformi la Madre Terra raffigurata pitagoricamente con un quadrato; a sua volta la Terra, denominata accanto col vocabolo dorico FA (GA), trasmette l'umore genitale al sottosuolo attraverso la lettera alpha, indicante il principio di ogni cosa. Il simbolo visibile a destra, a forma di tronco conico può essere una raffigurazio-ne aniconica della Magna Mater, vista come picco montano e come Signora dei monti: caso di litolatria come per la Pietra di Pessinunte inviata nel 204 a. Cr. da Attalo 1 in dono ai Romani.

1 cfr. E. PAOLETTA, Presenza greca e messapica nel Subappennino daunoirpino, Salerno

1973, pubblicato a cura della PRO LOCO di Accadia. Sull'argomento, data la ricchezza di epigrafi e di figure successivamente scoperte, si va preparando una più ampia e documenta-ta edizione.

2 Rinvenuta nell'agosto 1974 e salvata grazie all'appassionata diligenza del Sig. A. GRIECO, Comandante dei Vigili Urbani. La scoperta è stata oggetto di articoli, da noi pubblicati su varie riviste.

3 Cfr. C.I.L., IX, 947, da Aecae (Troia). 4 Il rinvenimento è avvenuto nell'agosto 1975; il 19 di questo mese fu effettuato

un sopralluogo da parte del Prof. A. GIAMPAOLO Sindaco di Accadia, del Vice-Segr. com. A. BENTIVOGLIO, del Geom. S. MAULUCCI e del Vig. Urb. P. MASELLI; que-st'ultimo richiamò l'attenzione dello scrivente con un preciso e dettagliato schizzo.

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Meno chiaro rimane il significato della figura, a forma di quattro colonne riunite, visibile a sinistra. Per noi si tratta dei quattro pilastri che sostengono il mondo secondo la cosmologia orfica5.

La menzionata statua di Eca, l’acca dia, attraversò anch’essa, nella sua lunga storia, una fase orfica, come si rileva da alcuni segni su di essa tracciati in età imperiale: 1) un teschio nereggiante che presenta due bianchi occhi adattati a volti femminili, disposti in opposta direzione e forse raffiguranti i due principi dialettici di giorno e notte, vita e morte; 2) su un grande alpha è scritta in piccolo la frase ï ñöéêòí óÞìá (orphikòn sEma), definitiva conferma ove ancora ce ne fosse bisogno della nostra interpretazione.

E’ nostra convinzione che il toponimo Bola, da cui Bolano, sia da

riportare al greco âùëÜ (bOlà)6, e ciò perché il vicino Monte Crispignano, ora consacrato alla Madonna del Carmine venerata su una sacra roccia, era consacrato nella fase latina, come risulta dallo studio sulla statua di Eca, alla dea Carmenta; del resto anche il toponimo Crispignano può essere la corruzione popolare del latino-bizantino ÷ñçáì ï planum, « (Alti)piano degli oracoli ». Forse un’analoga origine ha il toponimo Faravella, pertinente a una cima del Crispignano: esso potrebbe valere « Soglia di Fanes » (Öáíáâçìòò), una specie di olimpo per i Greci del luogo, essendo Fanes la divinità principe degli orfici e personificazione del cielo stellato.

La presenza di Greci di stirpe dorica è attestato nel contado accadiese da vari toponimi: « ai Greci », « Fossa dei Greci », « Bocca Dora » (quasi valle dorica), « Acqua Torta » probabile adattamento di Accua Doride, un’antica città di cui parla anche Livio in un contesto di lezione peraltro controversa7.

I Greci giunsero, però, solo in un secondo o terzo momento; molto più antico e proveniente da lontane contrade risulta il misterioso popolo introduttore del culto della Magna Mater. Ciò risulterà evidente dal nuovo studio in preparazione sul Signum Aquadiense.

ERMINIO PAOLETTA 5 Cfr.) ôåôñáêßï íï ò ê óóì ï í in ORPH. ad Musaeum, 39. 6 Forma dorica per âï íëÞ (boulé), «volontà» e poi, con progressivo slittamento,

anche «oracolo». 7 XXIV, 20: Accua oppidum per eos dies vi captum. I codici danno anche Acuca.

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Il suo è un ritorno al mondo della memoria come un tuffo in un’acqua che purifica e rigenera; quindi, su uno sfondo di ricordi e di rimpianti, si dipana il suo canto, sospeso tra sogno e ricordo.

Ci troviamo alla presenza di un vero e autentico recupero memoriale, ritmato dal verso e sostenuto da emozioni sincere e profonde.

La nozione del tempo, comunemente intesa come ritmica successione di passato, present e futuro, non sempre ha rinvenuto uguale dimora nelle opere del pensiero, che per sua natura è fuori della storia e quindi alieno dalle scansioni cronologiche che regolano il flusso degli anni. Già gli antichi greci, che pure si muovevano nell’ambito delle tre unità aristoteliche, teorizzarono per l’arte una rielaborazione del reale nella rappresentazione fantastica e coniarono per questo processo intellettivo il termine « idolopea », che, secondo lo Pseudo-Longino serviva « ad indicare la situazione psicologica in cui le cose che vai dicendo sotto la spinta dell’ispirazione e del sentimento pare che tu le veda e che le ponga sotto gli occhi degli ascoltatori ». Le immagini della realtà o « idoli » vengono quindi mediate in tale prospettiva dall’ispirazione e dal sentimento e fissate in un contesto poetico e narrativo senza determinazioni temporali o contingenze storiche. Ma la memoria, quando richiama dal baratro del passato esperienze ed eventi, trasferisce i suoi ricordi sullo schermo della coscienza individuale e li dipone in una successione cronologica, rivivendoli tuttavia in un presente che tende ad annullare ì trapassi e le sequenze temporali.

« Allorchè, scrive infatti Sant’Agostino, noi diamo del passato delle narrazioni veridiche, ciò che ci perviene alla memoria, non sono affatto le cose stesse, che appunto hanno cessato di esistere, ma si tratta di termini concepiti secondo le loro immagini, le quali attraversando i sensi hanno segnato il nostro spirito delle loro postille. La mia infanzia, per esempio, la quale non è più, esiste in un passato che ormai è anch’esso inesistente; ma allorquando io la rievoco e rinarro, è nel presente che io la intuisco, perchè la sua immagine è presente nella mia memoria ».

Nella coscienza individuale il passato, dunque, tende ad essere assorbito dal presente, che si pone come unico protagonista di rievocazione e di giudizio.

Non a caso proprio S. Agostino raccoglie nelle Confessioni la drammatica rievocazione del lungo conflitto che sconvolge l’interiorità della coscienza e ricerca nei valori eterni dello spirito la quiete, che è meta e quotidiana presenza del vivere cristiano. Anche Dante, nel suo itinerario salvivico, proietta sullo schermo dell’eternità le umane vicissitudini, che varcano il tempo e s’affiggono nell’immortalità che vive fuori della storia, ed oltre la contingenza. La vita e le stagioni, gli affanni e le passioni scolorano per tale via le loro cronologiche collocazioni e rinnovano quotidianamente il loro ritmo esistenziale nella coscienza individuale. Il memorialismo, quindi, l’irrazionalismo, il romanzo psicologico e le poesie evocative predisposero l’intuizionismo di Henri Bergson, secondo cui il tempo, nella conoscenza interiore dell’individuo,

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smarrisce ogni riferimento sensoriale e cronologico per affermarsi come perenne immagine di presente e passato. In tal modo la nostra esperienza si carica di valori e si sostanzia di spiritualità per assumere consapevolezza e recuperare il passato che è sempre presente e mai « perduto ». Su questa via si sarebbe posto poi Marcello Proust, che avrebbe affidato alla memoria la « ricerca del tempo perduto » e il suo recupero memorativo.

A questi approdi adduce appunto il libro di Gerardo Maruotti, che non solo sottrae la sua infanzia all’edacità temporale, ma anche quella nostra antica civiltà contadina, che di giorno in giorno si va sfaldando sotto l’incalzare del progresso.

Due piani psicologici, per lo meno, si intrecciano in quest’opera con la flevocazione dell’infanzia e con la ritessitura delle coetanee costumanze daunie, che ricantano con affettuoso rimpianto la Puglia patriarcale dei padri e l’arcaica esistenza di genti felici. Cosi lo scampanio a rintocchi o dispiegato, che vibra in molte pagine del libro, sollecitando quasi una familiare sensazione di suoni ci rituffa nel passato che è perennemente presente:

« Ieri... oggi... sempre, a quest’ora, o campana! Non resterà che questo tuo singhiozzo tra un nugolo di corvi che di schianto si leva in aria, appena tu rintocchi ».

Fuori dai termini cronologici ed oltre gli schemi logici sentiamo in queste «

voci » di campane dai vari nomi e dalle varie modulazioni come contemporaneità l’antico, inseguiamo il palpito armonioso di quei bronzi, riviviamo quel clima e naufraghiamo nell’onda immensa del ricordo. Con questo procedimento tutto il passato di Sant’Agata di Puglia, il borgo natio del poeta, si proietta sullo schermo memoriale e denunzia la sua continua presenza.

Ma accanto al borgo natio rivive la Puglia e la gente daunia con i suoi eterni problemi di sete e dì miseria, di lavoro e di transumanza, di privazioni e di raccolto su uno sfondo brulicante di pastori e di armenti, di massari e di muli, di campieri e di umili animali:

« La Puglia, o Dio, la terra tua promessa? In questa solitudine assetata le processioni che dai borghi vanno alla Madonna Incoronata, a fiumi, sono tribù del popolo Israele che ancora si raccolgono nel maggio al tempio del Signore? Pei tratturi le nenie ronzano, sospese in cielo. Qui l’arca santa, in questa gente antica, ha grande il tabernacolo nei cuori ».

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In questi versi il rito secolare dei salmodianti pellegrinaggi al tempio dell’Incoronata richiama l’immagine del popolo biblico, tormentato come quello pugliese, dall’arsura e dal misticismo. Le due rievocazioni si sovrappongono e si fondono in una sacrale visione del vivere e del soffrire, mentre la gente daunia si innalza alla solennità di popolo prediletto, a paradigma del moderno tormento esistenziale.

Antico e nuovo, sacro e profano, storia e cronaca si intrecciano in un canto, intriso di pianto e proiettato nell’epopea con un procedimento dimesso e discorsivo, come si addice a versi che ricalcano gli emistici biblici in uno stile compatto e commatico:

Potrai nel Tavoliere sitibondo tornare un primitivo della Bibbia: nerastro un gran deserto fa da sfondo ai suoi Abrami curvi sugli aratri. Tu poi li vedi a maggio questi antichi guardare nubi in fondo all’orizzonte; e quando scende l’acqua, udrai ronzare un fremito di gioia lungo il deserto: L’acqua del cielo qui è la nostra manna.

Dal cuore di questo popolo paziente e laborioso sgorga, come la tanto

agognata limpida acqua, un inno di preghiera, una fede semplice e rasserenante che il Maruotti coglie nella sua essenza di esaltazione mistica e di abbandono spirituale:

Incoronata, terra di preghiere, trentuno sono a maggio le tue fiere. Nenie infinite di sagre pugliesi innalza il Tavoliere dai tratturi; tra biade in onde sono gli abituri navi ancorate dai camini ascesi. Come nomadi erranti in processione dai monti a te scendemmo alla pianura. Tra i sassi della via nella calura ci dondolava a sbalzi il carretttone.

La fede avita dei padri, antichi patriarchi d’un popolo, che, tra mito e

leggenda, ritesse la propria storia, rivive non solo nei riti e nei pellegrinaggi, nelle sagre e nelle orazioni, ma anche nel lavoro, quel duro lavoro del contadino pugliese, che con l’aratro e la zappa contende all’avara e arsa terra le biade o la friitta, il grano o le medesime ragioni del vivere. Ma tutto un patos religioso avvolge uomini e cose, sofferenze e lavoro in una commossa esaltazione mistica, che infonde al canto un accorato accento di preghiera, un sommesso tono di implorazione. E per i maggesi e le viti, per gli aratri e gli animali, per i figli e i raccolti, per le seminagioni e gli emigranti, per i morti e i vivi

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s’invoca fidente la benedizione di Dio, sempre sollecito delle necessità umane e presente in ognì occasione:

Chi in questo piano sconfinato porge l’orecchio al suono delle spighe, a maggio, il fiato ancora sente, egli, di Dio, ne ascolta la presenza nel deserto.

Sullo schermo della tenace memoria si agitano, quindi, le vicende della

comunità pugliese, che sono di ieri, ma che già hanno i contorn; del mito e sembrano perciò appartenere ad un’età favolosa e primitiva. A questi umili eventì di un laborioso popolo di pastori e di campieri, di popolane e di fittavoli, di possidenti e di artigiani, il Maruotti porta la sua adesione di uomo e di pugliese, la sua sofferta solidarietà di contadino e di poeta.

Così la fantasia trasfigura i fatti quotidiani di una gente in continua lotta con la natura ingrata e le avversìtà atmosferiche, con la miseria e l’imponderabile, che qui diviene crudele legge del vivere e dell’agire. Le sterminate distese del Tavoliere, gli erbosi nastri dei tratturi, l’antica transumanza, l’infinito notturno silenzio delle campagne, i vasti orizzonti delle pianure, gli immensi cieli stellati, glì echeggianti rintocchi delle campane hanno risonanze arcane ed accensioni cosmiche tanto da farei ritrovare naufraghi nell’occano dell’universo:

A tarda notte tace nero nero, mesto della sconfitta, il Tavoliere. Il cielo, ignaro, arde di stelle, eterno.

mentre in questa immensa verde pianura le cascine sono ancorate come navi, pronte a salpare per l’ignoto:

Tutta murmure ed onde è la pianura, un oceano dolce a contemplare, ove cascine dall’ondante fumo sembrano navi immote ed ancorate.

Anche il rifiuto della moderna tecnologia rientra in questa visi3ne di

struggente rimpianto per un’età arcaica, felice e serena, decisamente tramontata e rivìssuta solo sull’onda del ricordo. Un mondo fatto di semplicità e di sogni, di parsimonia e di ideali, è scomparso trascinandosi nel gorgo dell’oblio pastori e mandrie, aratri e vanghe, muli e butteri con tutta una fitta trama di episodi gentili e dì esistenza tranquilla. I trattori, le mietitrici, le macchìne, le auto, hanno sì alleviato la fatica dei campi, ma nel contempo hanno aperto una profonda insanabìle ferita nei costumi semplici e patrìarcali della nostra gente contadina.

Il progresso ha sconvolto le campagne e torme di uomini sono

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fuggiti in città, dimentichi della bontà ineguagliabile della terra e sordi ai richiami della sua georgica pace. Fra questi transfughi anche il Maruotti, che ritorna però, con il pianto nel cuore nella sua casa natía invocando:

E’ questa, o padre, la mia casa ancora! Qui il mio mondo! Un esilio la città! Tu che volesti che io studiassi tanto, Un esule del figlio tu ne hai fatto. Apri la porta! Accogli un disilluso! Non vedi con quanta ansia son venuto? lo sono venuto per piangere un’ora! Apri la porta al prodigo figliuolo!

Perchè egli vuol ritrovare, come lo ritrova in questi canti, quel mondo

perduto e rituffarsi nella genuinità della sua gente:

Io voglio ritrovare la mia pace pei vichi e per le balze del paese, tra i miei ulivi della Tofra, il bosco di Serbaroli, il campo di Gìannuzzi.

Così il suo itinerario umano e poetico si conclude tornando alle origini e

ritrovando nella memoria tutto il calore e la bontà di una età scomparsa. Folclore e dramma, miseria e lutti, leggende e fatti, uomini e bestie scavano,

quindi, la loro dimora nelle pagine del volume e nella memoria che li richiama dall’oblio e li affida al futuro. Sono piccole cose di un minuscolo territorio, che nel quotidiano fluire del suo vivere sa rinvenire gli eterni valori dell’amicizia e della bontà, dell’ironia e della fede, della parsimonia e della realizzazione, dell’intelligenza e della semplicità. Anche la morte, in questo clima surreale e quasi religioso, ha la solennità di un rito tanto da confondersi con le grandi festività liturgiche per stringersi in un unico abbraccio di fede e di pianto:

« Era Natale! Non consente il rito che il giorno della nascita di Cristo suonino in pianto le campane a morto. Volemmo le campane tutte quante piangessero con noi la mamma nostra. Per tutti i morti piange la campana: era pur mamma un’anìma di Dio! ».

La civiltà contadina, vanto ed epopea dell’autore, permea, dunque, queste

liriche che sanno dare una voce al lavoro umile, agli uomini semplici, agli animali affaticati, alle terre avare. Come un biblico pa-

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triarca il vecchio genitore, infatti, osserva e quasi numera con plastica dignità i capi del suo gregge, frutto di tanti sacrifici e di sì modesta fatica:

« Usciva il gregge dagli stazzi antichi. Sedeva, solo, il babbo accanto all’uscio; tranquillo accarezzava quelle agnelle: per tutte aveva un nome, un dolce nome ».

Ma i campi si popolano di antenati, le zolle avite hanno una storia, il passato

riemerge ammonitore e... « Piangeva il babbo alle memorie sante. Li vidi, o morti, tutti quanti arare nel nostro immenso cimitero spoglio ».

Gli animali, in questa arcaica vita di lavoro e di genuinità, condividono con

gli uomini emozioni e palpiti, onde la puledra non riportando a casa in groppa il suo padroncino quasi con umana sofferta compartecipazione pascolianamente:

« gli orecchi raccorciò, puntò le zampe; la prima volta la senti nitrire ».

Ma di questo mondo potremmo ancora additare il conciso sentenziare o il vivace dialogare, il dignitoso soffrire o il misurato gioire, le secolari contraddizioni o le umili credenze in una tensione lirica che sa evocare e plasmare un’età sì lontana eppure sempre presente.

Non può destare sorpresa in questo clima di rievocazione e di recupero anche l’uso metrico tradizionale, che ben s’addice, a nostro avviso, ad un’epopea che sa di antico anche se viene memorialmente rivissuta con animo moderno. Anche l’impasto linguistico conserva il sapore delle cose lontane e quando utilizza nuovi apporti tutto avviene sempre con discrezione e garbo. Le parole, in modo particolare, pur avendo in molti casi il valore quasi di reperti archeologici, adempiono alla duplice funzione di testimonianza e di rievocazione memorativa.

Il lessico, per tale via, si arricchisce di termini che vanno scomparendo e che il Maruotti ha il merito di conservarci (bardi, bardarì, pumpinero, zeza, spartenza, cavezza, trapeto, trapetaro, centrella, fiscella, locco, trasonna, pignone, frischietti, ecc.). Anche qui l’antico e il trascorso rivive con nuova grazia nel presente.

Siamo come si è detto, dinanzi ad un vigoroso recupero memoriale di una civiltà quasi scomparsa e lo stesso autore inconsciamente sa di operare tale rinascita quando scrive: « Certi fatti sono rivissuti con la sincerità del cuore nella perennità del mio affetto e del mio rimpianto per un primitivo e felice mondo scomparsi, di fronte al rapidissimo incalzare dei tempi nuovi ». E di questo noi gli siamo sinceramente grati.

POMPEO GIANNANTONIO

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LA POESIA « PUGLIESE » DI MARUOTTI

A guardar dentro a questa nuova poesia del Sud, poniamo dell’alta Puglia,

tra S. Agata di Puglia Manfredonia e Siponto, due modi sembrano più decisamente proporsi: quello di chi guarda alle cose, alle piccole cose della realtà e della famiglia, e quello di chi, invece, dinanzi alle stesse si pone in stato di reminiscenza e di soggezione. Non sono vie diverse o del tutto disgiunte dal fare poesia o da quello che poi si traduce in effetto di poesia. Ma è certo che la condizione iniziale è diversa: attraverso la prima via si giunge a quella civiltà « contadina », di che mi pare genuino rappresentante Gerardo Maruotti: attraverso la seconda via si approda al mito, ad una realtà che più vale e pesa quanto più si sveste del concreto e si rifonde nel passato, e di questo modo mi pare schietto rappresentante Cristanziano Serricchio. E’ evidente che lì, nel primo, domina la cosa in quanto tale e per essa l’elegia della vita rusticana; qui, nel’ secondo, la suggestione della realtà e per suo mezzo l’epica della vita umana che guardando nel passato fila insieme presente e futuro. Se lì, nel primo, si sente operare fecondo l’alito della campagna, il fiato generoso del lavoratore, l’umore terragno dei venti umidi del Sud; qui, nel secondo, si prova il tremore delle grandi cose, affidate all’eternità del vivere quotidiano, l’infinita nostalgia delle attese secolari, la lusinga perennemente giovanile delle fiabe. Lì il contadino, il proprietario o il fattore, il vecchio e il giovane con legami insolubili dinanzi alla casa e alla campagna; qui l’ombra impalpabile, eppure possente, degli dei della terra o del cielo, che si ridestano, la forza indomita di Diomede, creatore e custode di quei luoghi, presente ovunque « ora che il vento sibila (come si dice nella bella raccolta L’estate degli ulivi, tra i ruderi di San Nicola e nelle cale il pescatore riasculta « l’urlo saraceno ».

Il Maruotti parte contadino da Sant’Agata di Puglia e torna professore, ma poi non cessa mai di essere contadino. La terra non è solo ispirazione, segno-limite di una meta a cui costantemente si guarda o su cui si commisurano tendenze e amori; è innanzitutto un fatto istintivo e naturale: un modo di essere che risale alle origini della vita e che poi diviene un dato di coscienza. Cresce la cultura, variano le esperienze, si moltiplicano le occasioni, ma l’uomo resta quello ch’è stato nella sua prima infanzia, l’uomo di Sant’Agata di Puglia, che si duole di essere cresciuto e di avere rotto i legami che origini e forse proposìti perennemente hanno intessuto e intrecciato. Quando però egli rientra

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in paese si sente escluso, escluso perché ha tradito, e bussa invano alle porte amiche e chiede di restare. E’ un po’ la sorte del giovane dei Malavoglia, che ha abbandonato il paese e poi, rientrando, amaramente non più vi si riconosce: chi resta è della tempra di padron ’Ntom. Ha un bel dire: i fratelli di Sant’Agata non sembrano commossi dalle preghiere dell’esule che ritorna professore ed ha il piglio carducciano:

Aprite, buona gente! Un professore bussa alla porta, un triste peccatore! Gli abiti miei «di lusso»; oh, non guardate! Lo sapete che, dopo tanto studio. ve lo confesso, so meno di voi? Voi, sì, sapete e soffrire e pregare! Voi, sì, sapete guadagnare il cielo. Aprite, buona gente cara a Dio! Voglio il Rosario qui con voi cantare! lo lo cantai, bambino, in questa casa, sopra i ginocchi della mamma mia.

E’ la notte di quaresima. li sud purga nel silenzio e nell’intimità familiare,

a porte sbarrate, le avventure e i divertimenti del pazzo carnevale. Non c’è ascolto per chi viene di notte e da lontano. C’è da sentire cosa dice la coscienza ed ognuno recita il Rosario per sé e per gli altri: si può pregare per il forestiero, non gli si può darc ospitalità. Risorge cupa e grave l’ombra del peccato che la storia trid-ntina e la dominazione spagnola impressero a fuoco nella coscienza civile del vecchio Sud.

Si tenta allora la porta di casa. Vi dovrà pure essere, lì, qualcuno che attende:

Vecchio portone di mia casa antica, io venni da lontano e sei sbarrato Il mascherone col battaglio in bocca fulmineo mi gettò lo sguardo in faccia. « Uomo della città, tuo padre ha chiuso a te le porte. Le ha sbarrate! Vedi? Uccello, tu, di bosco, via volasti e qui mettesti piede al funerale. Ritorna al grattacielo di città. [...] ». « Vecchio portone che vedesti mamma seduta sulla soglia a far la calza, tu che vedesti mattiniero il babbo caricare bisacce ai nostri muli [...] Apri la porta! Accogli un disilluso! Non vedi con quanta ansia son venuto? lo son venuto per piangere per un’ora! Apri la porta al prodigo figliuolo! ».

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Ma anche questa volta nessuno sta ad attendere. Gli anni passano per tutti: crescono i lutti: le amarezze soffocano pietà e comprensione. Questo, almeno, crede di cogliere il « figliuol prodigo ». Non si rinnova per lui la parabola evangelica. In realtà è un’altra cosa: nessuno può tornare indietro: nessuno può rifare due volte lo stesso cammino: chi si allontana dalla propria terra, chi sbatte l’uscio di casa sua, ha perduto ogni diritto di rientrarvi. E’ la legge dei patriarchi del Sud, dei capifamiglia legati agli usi e ai modi, che hanno voluto ed ereditato, come a religione inviolabile. E’ tutto questo non un’invenzione crepuscolare, una malinconia dell’animo, un gioco del dilettantismo sentimentale, che più o meno tutti sentono ripiegando nel passato; è il rigore di una legge avita, è l’imperio di una consuetudine che non impunemente si può offendere. Se lì, nei giorni di quaresima, si scopre la terra del peccato, l’ombra del rimorso; qui, nel chiedere asilo quando non se ne ha più diritto, si urta contro il passato. le buone regole di ogni comunità famigliare. Nell’un caso e nell’altro si è decisamente oltre la sfera del sentimento e delle passioni offese o umiliate; si è nella storia e nella civiltà millenaria della gente del Sud che su queste cose ha costruito vicende e testimonianze, ricavandone illusioni, amori, dissapori: tutte le certezze, ad ogni modo, suggellate, dal passato e riproposte come tali al presente e al futuro. Non so se valga ancora al « figliuol prodigo », al « professore » « che bussa alla porta » in tempo di quaresima, dichiararsi vinto, promettere e sperare una reintegrazione nel passato remoto nel mentre si denunciano volontariamente gli errori del passato recente e del presente. Egli lo fa, certo, ma lo fa, a me pare, senza speranza:

Credetemi! Non valse a me la pena conoscere la vita sino in fondo. [...] Ritorno indietro al dolce mio passato in fuga coi pensieri al vecchio mondo; purificato dai ricordi antichi esalerò quest’anima moderna.

E’ un proposito: e basta. Dentro c’è tutto il tu~bamcnto di una coscienza

che sa di avere tradito e sa che al tradimento non si può più riparare. Ognuno è prigioniero di quel che fa: e non v’è pietà cristiana che paghi scotto: non v’è preghiera o acqua che lavì. Si è soli nel bene e nel male: e non v’è passaggio o viatico alcuno dall’uno all’altro e viceversa. Questa inesorabilità « pagana » scorre al fondo della linfa pugliese di Maruotti: e da questo fondo, ch’è etnico civile e sociale, si deve partire per capire gli esiti, i guizzi, i pronunciamenti di tutta la sua poesia.

I mezzi di realizzazione sono soprattutto due: l’osservazione realistica e l’esegesi meditativa. Le cose si piantano robuste nella fantasia, che ha poco gioco e limitata libertà, e poi si travasano tutte d’un pezzo, chiare, definite, senza aggiunte ornamentali: sono res, appunto, non verba. Non c’è godimento di esse; non c’è compiacimento. La parola non

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è canto: il canto non è suono: il suono non è vagheggiamento. Tutto è a portata di mano, si potrebbe dire: l’autore fa toccare le cose, non le sottrae o le annebbia alla vista del lettore. Eccole, lì, quasi ferme o ferme quel tanto che giovi a loro per coglierle compiutamente con uno sguardo d’insieme. Sono cose forti, pesanti, mai lievi o lievi per quel tanto che voglia il ricordo. Smussate, mai; rozze, anzi, cioè sane, modellate con vigore e con taglio netto e perentorio:

Nel mio paese vissi coi campieri; li vidi a schiere risalire al monte su barde o selle, su calessi e carri, pellegrinaggio immenso che ogni sera brusiva serpeggiando sui pendii.

Mestieri, attività di campagna, nomi di lavoratori, attrezzi agricoli valgono per se stessi, parlano loro, non si appoggiano ad aggettivi di sorta, son soli dinanzi alla natura, sola anch’essa. L’aggettivo, quando c’è, come nel « pellegrinaggio » ch’è « immenso », non qualifica, in genere, precisa il numero o la specie. Otiando si coglie il poeta nella ripetizione, questa non delude mai la matrice, ne conserva anzi l’impronta: così quel « pellegrinaggio immenso », che ogni sera « brusiva serpeggiando sui pendìi », si adonera in un altro luogo (e non è il solo) per il « gregge lento » che ronza « a serpentina pei tratturi ». E’ una natura vista e fermata nell’immagine più probante ed emblematica: un paesaggio visto dall’alto a cui il poeta non aggiunge nulla di suggestivo, ma che realizza e resta così come si presenta. E Zi’ Rocco è dritto e fermo come una rupe, « a più di novant’anni » va sulla mula « in fretta in fretta all’orlo del dirupo », « arzillo, arzillo », come « un giovane di primo pelo ». E padre e mamma parlano di dotare i « sette figli » comprando terra « quanto l’occhio ne scopra », anche se sanno che « in masseria, con gente di confine » v’è sempre « pericolo di guerra ad ora ad ora ». Passa la mula che mai galoppò come « puledra », né saltò « coi sauri cavallini », mentre « sacchi e bisacce » regge a dorso « dalla tenuta al paesello a sera ». Passa il vecchio pastore, « esile e stanco », scuote « un campanello » e si ferma « un poco » e ricava di qua « una giumella di farina », di là « un misurino d’olio ». Sul fondo « il castello di Sant’Agata » che, pare lanciarsi « in bilico sulle digradanti casapule », di sotto, gli « offrono, timide, a braccia tese, cinque campanili sonori »: è una preghiera ed uno scongiuro, insieme, a che non venga il finimondo. Ridente s’apre la « piazza di Sant’Agata di Puglia » come « una terrazza », « cinquanta metri lunga, né più larga » e lì si aduna tutto il « borgo » per la « festa di San Rocco », con l’orchestra al centro e luminarie attorno »: da lassù non è raro cogliere l’incedere di sposi « dritti, dritti, tra pioggia di confetti e monetine ».

« Aspro », invece, si diffonde l’« odore di morchia », che la caverna « vomita col fiato caldo d’uomini e di muli »: dentro al trapeto « rotolando stride » la macina e Rocco di Ciotta « le pestate olive in-

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sacca ai fichi, che altri affila sotto i torchi ». Nessuno è di troppo: ognuno ha il suo lavoro e silenziosamente v’attende. E’ un’umanità seria, che ama poco gli scherzi e per nulla le chiacchiere. Lavora e fatica: e il tempo passa nel muto raffronto tra la realtà paesana e l’uomo. Se le cose si animano, come nei Ricordi della fontana vecchia, con le donne che « si avvicendano a porre i barilotti alla fontana » o con il maresciallo che immerge « una cannuccia nel barile e succhia » « e succhia pur Rampino, Don Mimì », sempre però esse rimangono se stesse, animate tutt’al più dal contatto (oggi si direbbe, dalla frequentazione) con gli uomini. E qui la « fontana vecchia » si allieta « dei canori uccelli » « e dei campani delle greggi erranti »; ascolta « le lotte, i rombi dei barili urtanti », invita le oche « in acqua », ammira « nella valle » le « residue navi resistenti al sole » e, nonostante il silenzio ignaro della « gioventù novella », canta tutto il suo passato di « battaglie combattute coi barili, duelli e pace, amori, occulti abbracci e cavalieri e rodomonti infami ». E’ questo il limite a cui può giungere l’osservazione diretta delle cose: farle, cioè, parlare, come parlavano agli antichi e non come entrano nella suggestione dei moderni. Il contatto è diretto. Non v’è tramite, non vi sono sovrastrutture che imprigionino la realtà. Si fanno avanti le cose e assumono in proprio le file dei rapporti del colloquio. E di questo v’è una spia eloquente. Quando il ricordo sta per prendere tono a sé e incantarsi staccandosi da quel ch’è d’intorno e giace nel presente, allora si avverte uno strappo energico, vigoroso e lacerante. E’ il tempo del verbo che fa da cerniera. Si passa dall’imperfetto al presente, da quello che sì suppone che sia una vicenda a quello che realmente è, dalla narrazione alla constatazione. Ricorda i « poveri della casa del Sacro Cuore di Gesù » e li evoca con l’imperfetto; li vede muoversi e li fissa nel presente:

Qui giungevate la vigilia al borgo, e s’apriva con voi la processione; agli usci sostavate a mezzogiorno. Di festa in festa, da un paese all’altro, sembrava un canto il vostro ed era pianto. [...] Voi, non più mendicando, non sentite il batticuore d’un pane negato. [...] Umiliato, una lagrima si asciuga l’umile mendicante del paese, ma benedice ed implora perdono.

L’effetto si accentra in quel passaggio tra realtà del ricordo e realtà di

presenza concreta: la disarmonia è apparente: la sostanza esce tonificata proprio quando l’evocazione rischia di appesantirsi o sciogliersi in generica e vaga atmosfera.

E’ un modo, in definitiva, chiuso e assorto, colto nella osservazione e nella meditazione, che però non resta distaccato, freddo, visto e non assaporato. Frenato il dilagare del sentimento per rispetto delle cose, schiarita la nebbia dei ricordi, posta al centro la quotidianità, la poesia

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ha un suo modo di essere, assume movenze proprie, toni e colori che più adeguatamente le si addicono. Il rischio, che pur qua e là emerge paurosamente inquietante, è fugato dal Maruotti in una felice alternanza di memoria uditiva e visiva. E’ un mondo che non resta muto. Se parlano le cose, come ho detto, le cose ascoltano anche, vedono e sentono: si vestono di colori, vivono e gioiscono. Si crea una luce speciale che tutto investe con saggezza e prudenza, senza che mai il colore assuma autonomia o il suono stordisca cupamente. C’è un equilibrio che si addice al mondo agreste, alla vita campagnola e primitiva, alle piccole cose della grande famiglia contadina. Il « brusire » di gente sui pendii, il « ronzare » di nitriti di cavalli, lo « squillare » dei lento calpestio delle lunghe carovane, si mescolano all’« affondare » a valle ed « echeggiare » a monte di un urlo, all’« urlare » dei pumpineri (= lupi mannari), al tintinnio dei ferri sul selciato », all’« abbaiare dai fondi » dei cani, al perennemente presente « scampanio » di campane che « squillano », appunto, « zampillano », « rintoccano », « rimbombano », « rincalzano », « tuonano », « squillano », « ronzano », (tutto questo è, con evidente virtuosismo, ne Le campane di Sant’Agata). A tenere dietro al poeta ovunque si sente, anche nelle notti scese « in crepitio di stelle », « nitriti, beli, scampanio, latrati ». Ma di chi? D’uomini o di animali? Degli uni e degli altri, perché « uno » è il « dolore ». « Sunt lacrimae rerum ».

Più casto e misurato è ancor più il colore. Esso si riduce, in sostanza, a toni di fondo, semplici e naturali: verde, azzurro, nero: poco più, poco meno. L’asciuttezza del colore è il segno di una terrestrità operante attiva e forse anche polemica nella poesia di Maruotti. Il poco o il sobrio è certo un elemento antidannunziano; esprime una riverenza ed una modestia, che anche per questa via vogliono dare spazio solo alle cose.

Più felici e, forse, più ricche, ma mai lussuose, sono le commistioni, non infrequenti, di suoni e colori. Quest’insieme ridesta il ricordo e dà come un brivido alla fantasia. La testimonianza più alta si ha con Il Tavogliere pugliese nel mese di maggio: il ritratto, con questo materiale, più persuasivo è in Così ricordo mio padre. La Puglia sconfinata si colora di « verde » « nella serena mattina di maggio »: e l’occhio « tra azzurro e verde si riposa ». L’aria « spira nei piani » e « s’agita e brusisce »; e lì il grano « fluttua ad onde come mare chiazzato dal vermiglio rosolaccio », mentre il sole salendo all’orizzonte fa crescere « l’immensità del verde ». Più in fondo i « botri » dell’Ofanto in piena « mandano » riflessi scintillanti di metallo » « tra il verde lontano della pianura ». Ma se già prorompe l’estate, allora l’antica terra cambia volto e si copre di silenzi e suda per lunghe fatiche: « ansano i muli », « fumanti di sudore ed assetati »; « arde » il Tavoliere « deserto al sole » e « polverosi ardono i torrenti in secca »; « soffoca la calura i petti ansanti », né « s’ode canto nelle stoppie d’oro ». Alla luce il suono appropriato; ai silenzi il buio dei colori. Non s’incrina mai questo mondo. La compattezza è, ovunque e comunque, un elemento essenziale.

Capita così che il poeta fugga dalla Puglia, col cuore in pena, per-

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ché non vi sente più i « rumori », né vede più i « colori » della sua terra. « Fumeggerà (si chiede) fra poco quel camino? ». « Non fuma in aria più (gli si risponde) camino a sera ». « Suonerà (incalza) di belati l’aria azzurra »; « ascolterò quel calpestio di muli »; « rintroneranno ora i galoppi, i trotti di quei vannini »; « dimmi se ascolterò (implora) le nenie a sera dei nostri giovanotti ed aratori » o « se udrò dalla cortiglia e dai pagliai cantare solitari i miei pastori ». Ma chi gli deve rispondere, preferisce tacere; non v’è risposta, del resto, che consoli.

« Vendemmo pecore, vannini e muli e se ne andarono i pastori via ed i garzoni erranti per il mondo in cerca di lavoro nei cantieri! ».

Il passato è ben morto. La civiltà avanza, sì, ma seminando lutti e rovine.

Si sfiora un tema antico, tra idillio e filosofia. Ma la prudenza è saggezza e il lamento si spegne d’incanto. L’uomo si sente, allora, estraneo ed esce di scena. Qui è il tutto e il meglio della poesia. Quando però in questo mondo, così osservato e meditato, il Maruotti penetra con mano più esperta, allora egli sale in cattedra e diviene professore. Voglio solo alludere ad alcune forme dotte (come quel « lieta... a ravvivar di ceppi il fuoco »), a cadenze ricercate o a preziosismi di assonanze e rime interne (e basti citare la prima parte della pur efficacissima La fornarina), e certe condizioni o agganci di alta letterarietà (e per i primi versi de La campana di ventun’ora rimanderei decisamente alle Grazie foscoliane, 11, 121-35; e per altri luoghi, come per i primi versi de La festa di San Rocco a Sant’Agata di Puglia, al leopardiano Sabato del villaggio, seppure meno perentoriamente; e così per altre reminiscenze pascoìíane, come negli ultimi versi di Regina, o più propriamente pascoliane-deamicisiane, come Il sogno della mamma). Sono piccoli debiti di scuola o di gusto che pur si devono pagare: e che il Maruotti paga con buona umiltà. Più credito, se mai, è bene concedere al dialetto foggiano, forte e colorito, come appare da alcuni sapidi inserti (e valga qui il ricordo de Il pianto e la preghiera d’una madre), che avrebbe portato il poeta ad una felice sperimentazione linguistica, atta pienamente a caratterizzare il mondo delle cose e degli uomini che gli è proprio. Se questo accade, e non v’è dubbio che non accada nelle prossime prove, la poesia contemporanea potrà salutare una voce generosa, pura, ben oltre gli atteggiamenti delle nuove correnti e le astuzie perenni delle scuole.

ALDO VALLONE

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