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1 Rapporto tra violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) e Induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.). Brevi osservazioni a margine della sentenza Cass. III Sez., 17 maggio 2016, n. 33049, depositata il 28 luglio 2016. Di Pasquale Mandolfino Sommario 1 PREMESSA........................................................................................................................................... 1 a) QUAESTIO IURIS .............................................................................................................................. 1 b) QUAESTIO FACTI ............................................................................................................................. 1 c) ITER PROCESSUALE.......................................................................................................................... 2 2 I DELITTI DI VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.) E INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.) ....................................................................................................................... 2 a) DUE DIVERSE FATTISPECIE INCRIMINATRICI ...................................................................................... 2 b) VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.) .............................................................................................. 3 c) INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.) ........................................... 6 3 LA DECISIONE ...................................................................................................................................... 8 a) INTRODUZIONE............................................................................................................................... 8 b) QUAESTIONES IURIS AFFRONTATE ................................................................................................... 8 c) OSSERVAZIONI FINALI .................................................................................................................... 13 1 PREMESSA a) QUAESTIO IURIS Con la sentenza n. 33049 del 17/05/2016, depositata lo scorso la Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Penale (Presidente Rosi, Estensore Gai) ha indagato il rapporto intercorrente tra i delitti di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. e di induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319 quater c.p. Ciò ha dato occasione alla Corte di tracciare un’actio finium regundorum tra i due illeciti de quibus, dei quali ha evidenziato i punti di contatto e le divergenze, prendendo infine una posizione netta in ordine alla possibilità o meno di un loro concorso. b) QUAESTIO FACTI Esattamente la problematica che ha impegnato gli Ermellini è stata l’esatta qualificazione giuridica della vicenda concreta consistente nel contegno del ministro di culto, esercente le funzioni di

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Rapporto tra violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) e Induzione indebita a dare o

promettere utilità (art. 319 quater c.p.). Brevi osservazioni a margine della

sentenza Cass. III Sez., 17 maggio 2016, n. 33049, depositata il 28 luglio 2016.

Di Pasquale Mandolfino

Sommario 1 PREMESSA ........................................................................................................................................... 1

a) QUAESTIO IURIS .............................................................................................................................. 1

b) QUAESTIO FACTI ............................................................................................................................. 1

c) ITER PROCESSUALE .......................................................................................................................... 2

2 I DELITTI DI VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.) E INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE

UTILITA’ (art. 609 bis c.p.) ....................................................................................................................... 2

a) DUE DIVERSE FATTISPECIE INCRIMINATRICI ...................................................................................... 2

b) VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.).............................................................................................. 3

c) INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.) ........................................... 6

3 LA DECISIONE ...................................................................................................................................... 8

a) INTRODUZIONE ............................................................................................................................... 8

b) QUAESTIONES IURIS AFFRONTATE ................................................................................................... 8

c) OSSERVAZIONI FINALI .................................................................................................................... 13

1 PREMESSA

a) QUAESTIO IURIS

Con la sentenza n. 33049 del 17/05/2016, depositata lo scorso la Corte Suprema di Cassazione, III

Sezione Penale (Presidente Rosi, Estensore Gai) ha indagato il rapporto intercorrente tra i delitti

di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. e di induzione indebita a dare o promettere utilità ex

art. 319 quater c.p. Ciò ha dato occasione alla Corte di tracciare un’actio finium regundorum tra

i due illeciti de quibus, dei quali ha evidenziato i punti di contatto e le divergenze, prendendo infine

una posizione netta in ordine alla possibilità o meno di un loro concorso.

b) QUAESTIO FACTI Esattamente la problematica che ha impegnato gli Ermellini è stata l’esatta qualificazione giuridica

della vicenda concreta consistente nel contegno del ministro di culto, esercente le funzioni di

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cappellano all’interno di una Casa Circondariale, che compulsava i detenuti a subire atti

sessuali in cambio di favori, quali piccole donazioni di denaro e di prodotti vari, offerte di contatti

telefonici con parenti e consigli sull’assistenza legale.

c) ITER PROCESSUALE

Il caso concreto giungeva all’esame del Supremo Collegio dopo essere stato valutato in modo

differente nel corso del giudizio dei due gradi di merito.

Il giudice di prime cure, infatti, in sede di giudizio abbreviato celebrato in udienza preliminare,

perveniva ad una pronuncia di condanna relativamente ad alcune delle condotte contestate e di

assoluzione relativamente ad altri episodi, essenzialmente escludendo in modo netto la

configurabilità di un concorso tra i due delitti in esame.

A seguito di impugnazione della sentenza di primo grado ad opera sia del Pubblico Ministero, sia

dell’imputato, si svolgeva il giudizio di secondo grado, all’esito del quale la Corte d’Appello, in

accoglimento dell’appello promosso dal rappresentante dell’Ufficio Requirente, riconosceva

l’imputato colpevole dei fatti contestatigli e riteneva gli stessi sussumibili all’un tempo nelle due

diverse fattispecie incriminatrici di violenza sessuale e di induzione indebita a dare o promettere

utilità. Il giudice di secondo grado dunque ammetteva il concorso tra i due illeciti, in tal modo

ribaltando la decisione del precedente grado.

L’imputato dunque presentava ricorso per Cassazione, deducendo numerosi motivi di doglianza, tra

i quali pregnante appariva la valutazione giuridica, asseritamente errata, del rapporto tra i due titoli

di reato, sostenendo l’impossibilità di un loro inquadramento a titolo di concorso.

2 I DELITTI DI VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.) E INDUZIONE

INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.)

a) DUE DIVERSE FATTISPECIE INCRIMINATRICI

L’analisi approfondita della possibile relazione intercorrente tra i due delitti non può prescindere

dall’identificazione dei singoli punti sia di contatto, sia di divergenza tra le stesse fattispecie. Tale

indagine impone una preliminare disamina della struttura di ciascuno di essi e quindi dello stato

dell’arte sia in dottrina, sia in giurisprudenza in ordine ai loro elementi costitutivi.

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b) VIOLENZA SESSUALE (art. 609 bis c.p.)

La violenza sessuale ha da sempre rappresentato uno fra gli illeciti più odiosi e allarmanti nel nostro

ordinamento penale. Cionondimeno tale figura criminis ha ricevuto nel tempo ad opera del

legislatore risposte sanzionatorie molto eterogenee e purtroppo mai del tutto soddisfacenti.

Il codice penale del 1889 lo annoverava tra i Delitti contro il buon costume e l’ordine delle

famiglie e lo prevedeva all’art. 331, che puniva chi costringesse una persona, con violenza o

minaccia, alla congiunzione carnale. Successivamente il codice penale del 1930 includeva tale

illecito tra i Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume e lo sanzionava all’art. 519, oggi

abrogato, rubricato Della violenza carnale, che puniva chi, con violenza o minaccia, costringesse

taluno alla congiunzione carnale. Sottesa a tali fattispecie incriminatrici vi era l’idea di fondo che

esse offendessero la morale sessuale, intesa come quella forma di sessualità in linea con le

regole convenzionali del vivere sociale . Si trattava dunque di un bene giuridico dal sapore

pubblicistico, ben coerente con la visione pan-pubblicistica e paternalistica che imperava in quel

tempo.

Il delitto di violenza sessuale che oggi noi conosciamo (art. 609 bis c.p.) è il frutto di un radicale

mutamento di prospettiva di politica criminale registratosi in occasione della novella legislativa di

cui alla l. 15 febbraio 1996 n. 66 recante “Norme contro la violenza sessuale”. Essa ha determinato

un restyling della collocazione topografica del reato all’interno del codice penale, espungendolo dal

novero dei reati contro la moralità pubblica ed inserendolo nella Sezione rubricata Dei delitti contro

la libertà personale. Lungi dal configurarsi come un mero mutamento di etichetta, la scelta del

legislatore del 1996 risponde ad un giudizio di valore, in base al quale il delitto in esame viene

rimosso da una categoria valoriale ormai anacronistica per far emergere un nuovo bene giuridico,

la libertà sessuale, che finalmente acquista autonomia e dignità. In tal modo viene definitivamente

reciso il legame tra i reati a sfondo sessuale ed una concezione vetero-moraleggiante della

sessualità, la quale viene invece riscoperta quale dimensione attuativa della libertà di

autodeterminazione dell’uomo, in piena sintonia con l’art. 2 Cost.

Trattasi di un reato comune, il responsabile non dovendo rivestire qualifiche particolari, ma

potendo essere chiunque.

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il legislatore circoscrive la condotta penalmente rilevante

ad un duplice ordine di ipotesi.

Il co. 1 dell’ art. 609 bis c.p. incrimina la violenza sessuale cd. per costrizione, che si concretizza

attraverso l’uso di un triplice ordine di strumenti tra loro alternativi, rappresentati da violenza,

minaccia o abuso di autorità.

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E’ ormai pacifico che la costrizione sia concetto connotato da una carica intimidatoria notevole a

danno del destinatario, il quale infatti quoad effectum si ritrova nell’impossibilità di operare la

benché minima scelta in ordine all’adesione o meno ai desiderata del reo, non potendo opporgli

alcun diniego e quindi non avendo altra scelta che assecondare le richieste di prestazioni sessuali

prospettategli. La costrizione, in altre parole, determina “un senso di sopraffazione sulla vittima

tale da coartarne la libera scelta”1.

Varie sono poi le opzioni metodologiche di realizzazione della violenza sessuale che il legislatore

ha scelto di incriminare.

Viene in rilievo in primis la violenza, che - estendendo le coordinate ermeneutiche già consolidate

in tema di violenza privata (art. 610 c.p.) - deve essere identificata non soltanto nell’impiego di

energia fisica, cd. violenza propria, ma altresì nell’uso di qualunque mezzo idoneo a coartare la

volontà della vittima, cd. violenza impropria. Inoltre “La condotta violenta può manifestarsi in

diverse graduazioni che vanno dalla cd. vis atrox, ovvero un’azione talmente violenta da lasciare

segni visibili sulla vittima, fino a ricomprendere forme di coartazione fisica minima, che,

comunque, producono un effetto paralizzante sul soggetto passivo”2. In secondo luogo viene

stigmatizzata la violenza sessuale realizzata mediante la minaccia, che - muovendo sempre dalle

acquisizioni relative al delitto ex art. 610 c.p. - va intesa quale prospettazione di un male ingiusto, il

cui verificarsi deve dipendere dalla volontà del soggetto agente. La minaccia deve presentare

l’idoneità “a piegare la volontà altrui e tale idoneità va valutata in concreto secondo le circostanze

di tempo, di luogo e, soprattutto, la condizione personale della persona offesa”3. E’ da notare come

dottrina e giurisprudenza interpretino tali due strumenti in maniera abbastanza estesa,

ricomprendendovi non unicamente i casi di annullamento totale della libertà di autodeterminazione

della vittima, bensì anche le ipotesi di una sua sensibile compromissione.

Infine il legislatore enuclea, quale ulteriore veicolo di realizzazione della violenza sessuale, l’abuso

di autorità, ovvero qualsiasi forma di abnorme approfittamento di una posizione di supremazia che

abbia natura pubblicistica o anche solo privatistica. Tale contegno presuppone che l’agente “generi

nella vittima uno stato di soggezione e si avvalga poi dello stesso per ottenere il consenso,

evidentemente viziato dal metus reverenziale ingenerato4”. In proposito la giurisprudenza di

legittimità ha chiarito che tale approfittamento non può essere presunto per il solo fatto della

1 M. Santise-F. Zunica, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, Torino, 2014, pag. 407. 2 M. Santise-F. Zunica, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, cit., pag. 407. 3 M. Santise-F. Zunica, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, cit., pag. 408. 4 M. Santise-F. Zunica, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, cit., pag. 409.

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sussistenza di una posizione autoritativa, ma occorre la “… prova di una strumentalizzazione del …

potere … attraverso una subornazione psicologica …”5.

Il co. 2 della norma incriminatrice in esame sanziona invece la violenza sessuale cd. per induzione,

entità distinguibile dalla già esaminata costrizione per la minore carica intimidatoria, che si

sostanzia in una forma di suggestione o di persuasione, che genera una più blanda pressione

morale e che quindi lascia alla vittima un certo qual margine di autodeterminazione. Tale modalità

di estrinsecazione della violenza sessuale viene dal legislatore ricondotta a due ipotesi specifiche e,

segnatamente, all’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima e all’inganno,

nel quale l’agente trae la vittima, consistente nel sostituirsi ad altra persona.

Le due modalità tipologiche incriminate sono tese a far si che la vittima del delitto compia o subisca

atti sessuali. Il legislatore del 1996, dunque, abbandona la prospettiva precedente, che

stigmatizzava la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine violenti, a beneficio della

categoria onnicomprensiva degli atti sessuali. L’individuazione della esatta latitudine semantica di

tale concetto ha dato vita a tre diversi approcci ermeneutici. Una prima prospettiva ravvisa una

sostanziale continuità tra gli atti di libidine di cui alla formulazione originaria della norma e gli atti

sessuali di cui alla disposizione restaurata nel 1996; un secondo approccio interpretativo avverte gli

atti sessuali come concetto dotato di più ampia latitudine rispetto alla categoria degli atti di libidine;

infine una terza impostazione restringe la nozione de qua ai soli atti che presentino natura sessuale

sul piano oggettivo, occorrendo “il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona

con una zona genitale (compresa la mammella della donna), anale o orale del partner”6. In

generale la scelta legislativa ha avuto l’effetto di ridurre il novero degli atteggiamenti punibili, dai

quali vengono oggi espunti tutti quei contegni classificabili come manifestazioni di una sessualità

particolare o comunque eccedenti il comune sentire in materia.

L’elemento soggettivo del delitto va identificato nel dolo generico, ovvero nella coscienza e

volontà dell’agente di condizionare e pregiudicare la libertà sessuale della persona offesa.

Al fine di rendere possibile una mitigazione del severo trattamento sanzionatorio previsto per la

fattispecie generale, il co. 3 della disposizione in esame prevede poi una riduzione della pena nei

casi di minor gravità. Tale inciso dà luogo, secondo la dottrina prevalente, ad una circostanza

attenuante ad effetto speciale ed indefinita e non già ad un’autonoma fattispecie incriminatrice. Non

poco problematica è l’identificazione dell’ubi consistam della natura meno grave dei fatti di

violenza sessuale, che sembra però oggi attestarsi nella minima compressione della libertà sessuale

della vittima, accertata sulla base delle “modalità esecutive e le circostanze dell’azione attraverso

5 Cass. Pen., Sez. III, 21 settembre 2012, n. 36595. 6 A. Cadoppi, Commentario delle “norme contro la violenza sessuale”, 2006.

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una valutazione globale che comprenda il grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le

condizioni fisiche e psichiche della stessa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione

all’età, l’entità della lesione alla libertà sessuale ed il danno arrecato anche sotto il profilo

psichico”7.

c) INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’ (art. 609 bis c.p.)

L’illecito di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) è figura

incriminatrice introdotta con la l. 6 novembre 2012 n. 190, recante “Disposizioni per la

prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, che

è intervenuta a ridisegnare la strategia di contrasto al dilagare del malcostume da sempre

caratterizzante i rapporti tra cittadino e P.A. In particolare il delitto de quo nasce dalle ceneri della

concussione, quale originariamente regolamentata ex art. 317 c.p., che puniva l’agente pubblico che,

con abuso di qualità o poteri, compulsasse taluno, sia attraverso la costrizione, sia attraverso la

induzione, a dare o promettere indebitamente denaro o utilità.

La novella del 2012 ha realizzato quindi un cd. spacchettamento della concussione classica,

riservando all’art. 317 c.p. la punizione del contegno concussivo realizzato mediante cd. costrizione

e facendo transitare invece nell’art. 319 quater c.p., di nuova introduzione, la concussione operata

attraverso la cd. induzione. Tale fattispecie differisce sensibilmente dalla figura di cui all’art. 317

c.p., nella misura in cui il soggetto attivo non è soltanto il pubblico ufficiale, ma anche l’incaricato

di pubblico servizio, ma soprattutto la punizione non è riservata unicamente all’agente pubblico,

parte del pactum sceleris, ma è estesa anche al soggetto che cede alla dazione e/o alla promessa di

denaro o altra utilità. Ciò ha ridefinito il volto della concussione per induzione, che, da reato

unisoggettivo, cioè commesso dal singolo soggetto attivo in danno della persona offesa, è diventato

reato a concorso necessario, nel quale quella che un tempo era la vittima si riscopre correo e il

contegno del concusso viene avvertito come non meno turpe di quello del concussore. A tanto il

legislatore del 2012 è giunto al fine di allinearsi alle raccomandazioni di respiro internazionale

provenienti dalla Convenzione Anticorruzione Ocse, che si incentravano sulla necessità di evitare il

permanere di una facile via verso l’impunità per tutti quei privati che, animati da un autentico

intento illecito, assumessero le sembianze del quivis de populo indifeso dinanzi alle condotte

prevaricatrici di pubblici funzionari senza scrupoli.

La novella in parola, oltre ad aver scisso le due ipotesi classiche di concussione, ha anche realizzato

un cd. slittamento della concussione per induzione verso il reato di corruzione, se si considera che

il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità è stato collocato, nella topografia del 7 Cass. Pen., Sez. III, 2 maggio 2013, n. 19033.

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codice penale, in chiusura delle fattispecie corruttive (artt. 318-319 ter) e che inoltre l’illecito in

esame condivide con tali figure incriminatrici la punibilità del privato cittadino, che - come già visto

- da vittima è diventato, per così dire, carnefice. Si è giunti così a delineare una vera e propria figura

incriminatrice intermedia, al confine tra la concussione per costrizione e la corruzione.

Il delitto di cui all’art. 319 quater rientra tra i reati contro la pubblica amministrazione e, secondo la

prospettiva maggioritaria, si configura come reato plurioffensivo, ledendo, oltre al bene giuridico

della imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, anche la sfera privatistica

del cittadino, l’integrità del suo patrimonio e la libertà del suo consenso.

L’illecito in esame si configura come reato proprio, prevedendo la norma incriminatrice - come

già anticipato - che il soggetto attivo rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di

pubblico servizio.

L’elemento oggettivo del reato è enucleato dal legislatore attraverso due momenti distinti.

In primis viene descritto lo strumento utilizzato dall’agente pubblico per realizzare la condotta

concussiva e che si sostanzia nell’abuso della qualità o dei poteri. L’abuso della qualità

corrisponde ad una strumentalizzazione della qualifica soggettiva del pubblico funzionario, che

agisce pur non avendo competenza all’esercizio del relativo potere. L’abuso dei poteri invece

consiste nell’esercizio di un potere secondo criteri intenzionalmente differenti da quelli imposti

dalla legge, ciò che corrisponde ad una gestione anti-funzionale delle attribuzioni dell’ufficio.

Tale seconda forma di condotta concussiva può emergere nell’attività amministrativa di tipo

vincolato, nel qual caso si sostanzierà nella mancata adozione di un atto ovvero nell’adozione di un

atto avente contenuto diverso da quello imposto dalla legge; essa può emergere altresì nell’agere

amministrativo di segno discrezionale, laddove però la mancata emanazione di un certo atto o la sua

mancata elaborazione attraverso determinate modalità possono non essere univocamente rivelatrici

della presenza dell’abuso. Cionondimeno la fattispecie dell’abuso dei poteri può concretizzarsi

anche attraverso una condotta omissiva, integrata, per esempio, da comportamenti ostruzionistici o

rallentamenti dello svolgimento dell’attività dell’ufficio.

In secondo luogo il legislatore all’art. 319 quater c.p. enuclea l’effetto a cui l’abuso è preordinato,

identificabile nella induzione del concusso a dare o promettere denaro o utilità. Il concetto di

induzione viene quindi qui preferito dal legislatore a quello di costrizione, rispetto al quale

mantiene un’essenziale diversità contenutistica. La costrizione, che sopravvive ex art. 317 c.p.,

infatti, consiste in un contegno di tipo violento in senso psichico, capace di elidere totalmente la

capacità di autodeterminazione del concusso, il quale, quindi, non avendo possibilità di scegliere vie

alternative alla dazione e/o alla promessa illecite, si atteggia quale vera vittima del reato. Ex

adverso l’ubi consistam dell’induzione di cui all’art. 319 quater c.p. coincide con una sorta di

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suggestione o persuasione del concusso, il quale, mantenendo un certo margine di

autodeterminazione, preferisce dare e/o promettere denaro o utilità anzicchè percorrere le vie

legittime, ciò che lo rende concorrente necessario nel reato e quindi meritevole di punizione.

Si perviene oggi a tale assetto disciplinare solo a seguito dell’evoluzione normativa che ha

interessato la generale figura incriminatrice della concussione, originariamente unitaria, che il

legislatore immaginava configurabile indistintamente aut vi aut fraude. Già il codice penale del

1889 prevedeva le due diverse fattispecie, mentre il codice penale del 1930 mantenne la duplicità di

ipotesi delittuose, ma le unificò quoad poenam. Come già visto, l’ultimo tratto evolutivo ha

interessato lo sdoppiamento della concussione classica nelle fattispecie da un lato di tipo costrittivo

ex art. 317 c.p. e dall’altro di tipo induttivo ex art. 319 quater c.p.

L’evento del reato è rappresentato dalla indebita dazione o promessa di denaro o altra utilità ad

opera del concusso. Mentre la dazione consiste tecnicamente nel transito materiale di ricchezza

dalla disponibilità di un soggetto a quella di un altro soggetto, invece la promessa si sostanzia nella

assunzione dell’impegno ad effettuare la prestazione in futuro. Oggetto delle due possibili forme di

iniziativa sono il denaro o altre utilità, tali dovendosi intendere tutto ciò che possa soddisfare un

bisogno umano e che sia in grado di apportare un vantaggio oggettivamente apprezzabile. Lo

scambio deve poi avere carattere indebito, cioè non deve essere previsto come dovuto da alcuna

norma scritta o consuetudinaria.

In ordine all’elemento soggettivo del reato, appare chiara la sua riconducibilità al dolo generico,

consistente nella consapevolezza e volontà nell’agente della sussistenza delle componenti

dell’elemento oggettivo dell’illecito.

3 LA DECISIONE

a) INTRODUZIONE Dopo aver valutato analiticamente gli elementi costitutivi dei delitti di violenza sessuale e di

induzione indebita a dare o promettere utilità, è ora necessario esaminare la pronuncia della

Suprema Corte di Cassazione, per approfondirne gli snodi fondamentali e successivamente trarne

delle conclusioni.

b) QUAESTIONES IURIS AFFRONTATE

La decisione in questa sede esaminata si è concentrata essenzialmente sull’esatta qualificazione

giuridica del contegno del ministro di culto, esercente le funzioni di cappellano all’interno di

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una casa circondariale, che compulsava i detenuti a subire atti sessuali in cambio di favori,

quali piccole donazioni di denaro e di prodotti vari, offerte di contatti telefonici con parenti e

consigli sull’assistenza legale . Trattasi infatti di fattispecie concreta che prima facie ben si presta

ad essere sussunta entro le maglie sia dell’art. 609 bis, sia dell’art. 319 quater, illeciti il cui rapporto

la Corte prima ha esaminato e poi ha definito con precisione.

In apertura delle argomentazioni in punto di diritto, gli Ermellini hanno sgombrato il campo dal

dubbio preliminare relativo alla qualificabilità o meno del ministro di culto, che operi quale

cappellano all’interno di un penitenziario, in termini di incaricato di pubblico servizio. La

quaestio iuris - lungi dal rispondere a mere esigenze definitorie - ha delle ripercussioni pratiche di

non poco momento ove si ponga mente al fatto che la mancata riconduzione alla qualifica di

incaricato di pubblico servizio comporterebbe l’inoperatività sia dell’art. 319 quater c.p., sia

dell’art. 609 septies co. 4 nn. 3 e 4 c.p., che infatti circoscrivono la responsabilità penale ai soli

agenti pubblici. La Corte ha riconosciuto quindi la configurabilità del cappellano penitenziario

quale incaricato di pubblico servizio, basandosi sull’essenziale argomentazione per cui la

funzione in discussione è non già di natura meramente religiosa, bensì è rispondente al preminente

interesse pubblico dello Stato al trattamento delle persone condannate o internate , come già

statuito dalla Cass. Sez. VI n. 12 del 24/09/2008, Stroppiana, Rv. 242226. Hanno notato infatti i

componenti del Collegio come l’art. 15 della l. 354/1975 di riforma dell’ordinamento penitenziario

faccia della religione una delle componenti dell’opera di trattamento rieducativo e dunque faccia del

ministro di culto uno dei protagonisti dell’attività di recupero e risocializzazione attraverso la

gestione delle pratiche di culto e l’assistenza morale ai ristretti.

La Corte è passata poi ad affrontare il vero punctum dolens posto dal caso in esame: la

configurabilità o meno del concorso tra il reato di violenza sessuale mediante costrizione ex

art. 609 bis co. 1 e il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319 quater,

che nella vicenda in esame era stato prima escluso dal giudice di prime cure e dopo positivamente

affermato dal giudice di seconda istanza.

Esattamente la decisione di appello condannava l’imputato in quanto responsabile di costrizione dei

detenuti al compimento di atti sessuali mediante “…violenza consistita in condotte repentine di

toccamento dei genitali e sfregamento del pene sul corpo dei detenuti, e nell’abuso di autorità

derivante dalla posizione di [cappellano] del carcere…”; tali condotte sono state ritenute da tale

giudice sussumibili all’un tempo sia entro la figura della violenza sessuale per costrizione, sia entro

le maglie dell’induzione indebita a dare o promettere utilità. Ebbene la Corte di Cassazione ha

preso una posizione netta riguardo alla possibilità che i due reati in esame concorrano, escludendo

radicalmente una logica compatibilità tra le due fattispecie e quindi sbarrando qualunque varco alla

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benchè minima probabilità di coesistenza dei due delitti de quibus, i quali dunque, ad avviso della

Corte, meritano più corretto inquadramento in un rapporto di reciproca esclusione .

L’argomento giuridico fondamentale sul quale i giudici fondano il proprio convincimento riposa

sulla essenziale diversità metodologica di realizzazione dei due reati in discorso. Mentre la

violenza sessuale di cui al co. 1 della relativa norma incriminatrice viene operata attraverso il

metodo della cd. costrizione, ex adverso il delitto di induzione indebita si contraddistingue

essenzialmente per lo strumento operativo della cd. induzione. Quest’ultima si atteggia a fulcro

della norma incriminatrice, nonché quale componente fondamentale che ha indotto il novellatore

del 2012 alla genesi stessa dell’art. 319 quater. La stessa ratio legis oggettiva della novella del 2012

appare, quindi, secondo la Corte, argomento dirimente e chiarificatore ai fini della decisione: non è

giuridicamente proponibile la convivenza tra due reati che si contraddistinguono l’uno per un

modus operandi di segno costrittivo e l’altro per uno di tipo induttivo, laddove proprio la

tendenza legislativa più recente si assesta sullo spacchettamento della induzione e della

costrizione dal medesimo contesto incriminatore, addirittura giungendosi allo sdoppiamento

di una figura incriminatrice originariamente unitaria, quale la concussione.

Nel caso de quo il Collegio ha dovuto dunque giudicare se ricondurre le repentine condotte a sfondo

sessuale tenute dal prete ai danni dei detenuti entro il paradigma della cd. costrizione, di cui al reato

ex art. 609 bis c.p., ovvero al meccanismo della cd. induzione, di cui all’art. 319 quater c.p.;

quest’ultimo in particolare contempla anche la dazione di utilità, concetto che ben si presterebbe a

ricomprendere l’elargizione di prestazioni sessuali. Insomma la traduzione in termini giuridici del

contegno dell’imputato ha posto all’attenzione della Corte l’esame di due problemi, l’uno

intimamente collegato all’altro: in primis è venuta in rilievo l’esatta identificazione del modus

operandi dell’imputato (se costrittivo oppure induttivo), quindi in secondo luogo si è dovuta

identificare la figura incriminatrice più adeguata al caso concreto tra le due in discorso,

apparendo chiaro che dalla opzione preferita in prima battuta dipendesse essenzialmente anche la

soluzione in ordine al secondo dubbio.

Gli Ermellini in proposito hanno fatto applicazione delle ormai consolidate coordinate ermeneutiche

volte a distinguere la costrizione dalla induzione, secondo le quali - e come già più su esaminato -

la prima consiste in una violenza psichica che annulla totalmente la capacità di

autodeterminazione della vittima, mentre la seconda corrisponde ad una forma di pressione

morale più blanda, quasi una suggestione, che lascia sopravvivere nel deceptus un certo qual

margine di manovra valutativa. Orbene la Corte si è espressa senza mezzi termini nel senso della

riconducibilità del contegno del sacerdote alla fattispecie della costrizione realizzata mediante

violenza ed abuso di autorità piuttosto che alla mera induzione. Dalla valutazione del compendio

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probatorio è emerso indiscutibilmente, infatti, che i detenuti sottoposti a questo genere di

vessazioni venissero a ciò propriamente obbligati, senza che residuasse alcuno spazio per una

loro possibile, seppur minima, scelta di aderire o meno alle iniziative a sfondo sessuale loro

prospettate. Da tanto è dunque derivata la logica e necessaria conclusione del Collegio nel senso

della ravvisabilità del solo reato di violenza sessuale ex art. 609 bis co. 1, piuttosto che della

concussione per induzione di cui alla norma introdotta nel 2012. Tale scelta operata dalla Corte

appare di certo pienamente condivisibile ove si consideri che la condotta esaminata presenta una

preponderante componente di stampo costrittivo, che polarizza il nucleo di disvalore penale

dell’intera vicenda e che quindi opportunamente orienta la scelta dell’interprete verso la figura

incriminatrice più aderente alle sfumature del caso concreto.

Una volta identificato nella sola violenza sessuale il reato che meglio si presta a tradurre

giuridicamente il contegno tenuto dall’imputato, la Corte esamina un’ulteriore quaestio iuris che

sorge con riferimento a tale specifico delitto. In particolare viene in rilievo la riferibilità o meno

del concetto di abuso di autorità di cui all’art. 609 quater c.p. alla figura del sacerdote-

cappellano penitenziario; tale dubbio emerge dalla intuitiva considerazione che l’attività del

ministro di culto appare essenzialmente di natura religiosa ed assistenziale e con non poche

difficoltà potrebbe essere ricondotta ad uno schema di stampo autoritativo.

La Corte ha preliminarmente ricostruito lo stato dell’arte sul punto, dando atto dell’esistenza di due

opposti orientamenti. Una prima impostazione vuole che “…in tema di violenza sessuale, l’abuso

di autorità rilevante ai sensi dell’art. 609 bis, comma primo, cod. pen. presuppone nell’agente una

posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, che determina, attraverso la

strumentalizzazione del potere esercitato, una costrizione della vittima a subire il compimento degli

atti sessuali…”. Tanto viene sostenuto in quanto l’art. 609 bis, come modificato dalla l. 66/1996,

risulterebbe integrato solo da una effettiva strumentalizzazione del potere autoritativo, il cui

esercizio si estrinsechi in una subornazione psicologica tale da costringere la vittima al rapporto

sessuale. Questo orientamento è stato seguito da numerose sentenze8, che hanno sottolineato che, ai

fini dell’integrazione della fattispecie, sia necessario che l’agente ricopra una posizione

autoritativa di tipo formale e pubblicistico, di talchè la coercizione al compimento degli atti

sessuali dipende essenzialmente “dall’affidamento del soggetto passivo in ragione del pubblico

ufficio ricoperto dall’agente”. L’opposta tesi invece propone una lettura ben più ampia della

nozione di abuso di autorità, che si spingerebbe fino a ricomprendere “non solo le posizioni

autoritative di tipo pubblicistico, ma anche ogni potere di supremazia di natura privata, di cui

8 Sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 6982, dep. 22 febbraio 2012, Rv. 251955 e Sez. III, 19 giugno 2002, n. 32513, dep. 30 settembre 2002, Padova, Rv. 223101.

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l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali”9. Facendo

applicazione di tale paradigma ermeneutico, la giurisprudenza è giunta a ritenere integrata la

fattispecie in esame in numerosi contesti di tipo privatistico, come ad esempio nel caso del datore di

lavoro che abusi della lavoratrice dipendente10, dell’imputato convivente che abusi del minore figlio

della propria partner11, dell’istruttore di arti marziali che compia abusi nei confronti dei propri

allievi minorenni12, del marito che eserciti un potere di soggezione sulla cognata minore destinataria

degli atti sessuali13. Tale impostazione ha di certo il pregio di preferire una valutazione di tipo

sostanziale del dato normativo piuttosto che una lettura solo fredda e formale, laddove arriva a

svelare casi di abuso, andando al di là delle etichette che formalizzano ed ufficializzano situazioni

autoritative di fonte pubblicistica e ravvisando le innumerevoli ipotesi aventi i medesimi connotati

in concreto, seppur derivanti da fonti di stampo privatistico.

La Corte ha operato una scelta tra i due orientamenti, propendendo expressis verbis per la seconda

opzione ricostruttiva, ritenuta maggiormente idonea a ricomprendere il variegato panorama di casi

concreti che affiorano nella realtà giudiziaria.

L’argomento giuridico che in primis giustifica la scelta del Supremo Collegio è di tipo letterale e

riposa sulla considerazione che il legislatore ubi voluit dixit, cioè, ove abbia voluto riferirsi ad

una situazione autoritativa di carattere solo pubblicistico, lo ha fatto espressamente. E’ quanto

è avvenuto nell’art. 608 c.p., rubricato Abuso di autorità contro arrestati o detenuti, che stigmatizza

infatti abusi emergenti all’interno di una dimensione autoritativa necessariamente fondata su norme

di diritto pubblico. Sempre sotto il profilo letterale viene segnalato l’art. 61 n. 11 c.p., che sancisce

una circostanza aggravante riconducibile a numerose ipotesi sia di stampo pubblicistico (“abuso di

autorità”), sia di stampo squisitamente privatistico (“di relazioni domestiche, ovvero … di relazioni

d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità”), analiticamente evidenziate.

In secondo luogo ha contribuito a condurre alla soluzione ermeneutica scelta un argomento di

natura sistematica, da ravvisare nella avvenuta abrogazione ad opera della l. 66/1996 dell’art.

520 c.p., rubricato Congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico

ufficiale, che puniva esclusivamente l’agente pubblico che realizzasse una congiunzione carnale ai

danni di persone sottoposte alla sua autorità in ragione del suo ufficio. Che la medesima novella

del 1996 all’un tempo determini il venir meno di un illecito a sfondo sessuale proprio del

pubblico ufficiale e introduca, nel reato di nuovo conio ex art. 609 bis c.p., la nozione generica,

9 Sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990, dep. 1 dicembre 2014, Rv. 261594. 10 Sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990, dep. 1 dicembre 2014, Rv. 261594. 11 Sez. III, 3 dicembre 2008, n. 2119, dep. 20 gennaio 2009, Rv. 242306. 12 Sez. III, 10 aprile 2013, n. 37135, dep. 10 settembre 2013, Rv. 256849. 13 Sez. III, 19 aprile 2012, n. 19419, dep. 22 maggio 2012, Rv. 252768.

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onnicomprensiva e non ulteriormente circostanziata, di abuso di autorità, è dato interpretabile

come una svolta legislativa improntata all’estensione del concetto di autorità, una scelta dal

sapore liberalizzante. Emerge dunque che tale nozione, nella mens del legislatore, non risulta più

essere ristretta entro le rigide e formali maglie del tessuto pubblicistico, ma deve poter

ricomprendere anche le più disparate ipotesi di genesi privatistica che realizzino di fatto quella che

la Corte ha definito la cd. supremazia asimmetrica dell’agente sulla vittima.

c) OSSERVAZIONI FINALI La pronuncia affronta, in definitiva, tre problemi giuridici, ai quali vengono fornite soluzioni

pienamente condivisibili, che fanno corretta applicazione dei criteri ermeneutici esistenti nel nostro

ordinamento.

Il primo nodo giuridico, come visto, concerne la riconducibilità o meno della figura del

cappellano penitenziario al novero degli incaricati di pubblico servizio. Nel fornire una risposta

positiva, la Corte non si limita ad effettuare una interpretazione di tipo letterale, che si fermerebbe

semplicemente a rilevare l’essenza lato sensu religiosa delle funzioni svolte dal ministro di culto,

ma, attraverso un’ermeneusi di carattere sistematico, che svela il trait d’union tra funzioni

religiose e trattamento penitenziario, giunge a far emergere il tratto pubblicistico della attività

svolta dal sacerdote in carcere .

La quaestio iuris centrale della decisione attiene all’esame del rapporto tra i reati ex art. 609 bis

co. 1 e 319 quater c.p., che il Collegio effettua applicando in modo coerente le già consolidate

acquisizioni giurisprudenziali relative ai due poli di cui si compone il reato di concussione, la cd.

costrizione e la cd. induzione. Le conclusioni a cui i giudici pervengono non sono altro che la

naturale conseguenza del riconoscimento della essenziale diversità e della ontologica

incompatibilità tra l’una e l’altra metodologia operativa. E’ da tale presupposto che la Corte parte

per riconoscere la impossibilità di convivenza tra le due figure e quindi la necessità di dar

prevalenza nel caso de quo all’emersione della costrizione anzicchè dell’induzione e quindi dell’art.

609 bis co. 1 c.p. anzicchè dell’art. 319 quater c.p.

Ultimo dubbio giuridico affrontato è relativo all’identificazione della latitudine semantica del

concetto di abuso di autorità di cui all’ art. 609 bis co. 1 c.p. In tal caso la Corte si lascia guidare

da un criterio ermeneutico di segno sostanziale, giungendo a riconoscere l’ubi consistam del

concetto di autorità prescindendo dalla natura delle fonti normative genetiche di situazioni

autoritative e, quindi, scardinando la limitazione alle sole ipotesi di carattere pubblicistico ed, al

contrario, affermando la rilevanza anche di tutti i possibili casi di genesi privatistica.

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In conclusione la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione merita piena condivisione alla luce

del percorso interpretativo seguito, che ha selezionato e fatto applicazione dei più consolidati

orientamenti pretori. Cionondimeno l’importanza della sentenza esaminata va riconosciuta anche

nella misura in cui essa segna una traccia importante nella futura esegesi della fattispecie di cui

all’art. 319 quater c.p. Essa infatti rappresenta un notevole contributo allo sviluppo

dell’elaborazione pretoria in ordine all’illecito di concussione per induzione, configurandosi come

un nuovo tassello nel mosaico ermeneutico, ancora in fieri, costruito intorno alla nuova figura di

reato.