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ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 1 RAPPORTO “INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ” PRIMA PARTE COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA LA COMPETITIVITÀ COME PARAMETRO DELLA QUALITÀ E DELLA SOSTENIBILITÀ DELL’ECONOMIA 2 COMPETITIVITÀ E SOSTENIBILITÀ _________________________________________________________ 4 LA FORMAZIONE DEI PREZZI DI MERCATO _________________________________________________ 6 IL PARADOSSO DI KALDOR_______________________________________________________________ 8 POLITICHE ATTIVE PER LA COMPETITIVITÀ_________________________________________________9 LA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COMPETIZIONE_____________________________________________ 12 L’IDEA DI SVILUPPO ____________________________________________________________________ 12 LA CRISI ITALIANA _____________________________________________________________________ 13 LA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA _______________________________________________________ 13 TECNOLOGIE AMBIENTALI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE ___________________________________16 ECO-EFFICIENZA, TECNOLOGIA E SOSTENIBILITÀ ____________________________________________20 I FATTORI DELL’ECO-EFFICIENZA SECONDO HERMANN DALY _______________________________ 23 CRESCITA ED ECO-EFFICIENZA __________________________________________________________ 24 ECOLOGIA INDUSTRIALE __________________________________________________________________ 29 ECOLOGIA E STRATEGIE DI ECO-EFFICIENZA INDUSTRIALE _________________________________30 APPLICAZIONI DELL’ECOLOGIA INDUSTRIALE A LIVELLO INTERNAZIONALE __________________ 32 POSSIBILI PROPOSTE PROGRAMMATICHE ________________________________________________ 36 IL PUNTO DI VISTA DELLE IMPRESE_________________________________________________________ 39 LA RESPONSABILITÀ SOCIALE ED AMBIENTALE DELLE IMPRESE ____________________________39 LA SOSTENIBILITÀ COME STRATEGIA DI IMPRESA _________________________________________ 41 IL CONTESTO NAZIONALE_______________________________________________________________ 51 CONCLUSIONI _________________________________________________________________________ 52 LO STRUMENTO DELLA FISCALITÀ ECOLOGICA ______________________________________________53 INCENTIVAZIONE DELL’INNOVAZIONE ECOLOGICA NELL’UNIONE ____________________________57 LINEAMENTI PER UNA NUOVA FISCALITÀ ECOLOGICA IN ITALIA _____________________________59 DATI EUROPEI ED ITALIANI A CONFRONTO __________________________________________________ 63 DATI ED INDICI DELLA COMPETITIVITÀ IN ITALIA _____________________________________________ 72 GLI INDICI DEL WORLD ECONOMIC FORUM (WEF) __________________________________________ 73 IL SISTEMA DI INDICATORI DI COMPETITIVITÀ DELL’UNIONE EUROPEA _______________________ 76 IL SISTEMA ISSI DI INDICATORI CNEL 2005 ________________________________________________ 83

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RAPPORTO “INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ”

PRIMA PARTE

COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

LA COMPETITIVITÀ COME PARAMETRO DELLA QUALITÀ E DELLA SOSTENIBILITÀ DELL’ECONOMIA 2

COMPETITIVITÀ E SOSTENIBILITÀ _________________________________________________________4

LA FORMAZIONE DEI PREZZI DI MERCATO _________________________________________________6

IL PARADOSSO DI KALDOR_______________________________________________________________8

POLITICHE ATTIVE PER LA COMPETITIVITÀ_________________________________________________9

LA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COMPETIZIONE_____________________________________________12

L’IDEA DI SVILUPPO ____________________________________________________________________12

LA CRISI ITALIANA _____________________________________________________________________13

LA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA _______________________________________________________13

TECNOLOGIE AMBIENTALI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE___________________________________16

ECO-EFFICIENZA, TECNOLOGIA E SOSTENIBILITÀ ____________________________________________20

I FATTORI DELL’ECO-EFFICIENZA SECONDO HERMANN DALY _______________________________23

CRESCITA ED ECO-EFFICIENZA __________________________________________________________24

ECOLOGIA INDUSTRIALE __________________________________________________________________29

ECOLOGIA E STRATEGIE DI ECO-EFFICIENZA INDUSTRIALE _________________________________30

APPLICAZIONI DELL’ECOLOGIA INDUSTRIALE A LIVELLO INTERNAZIONALE __________________32

POSSIBILI PROPOSTE PROGRAMMATICHE ________________________________________________36

IL PUNTO DI VISTA DELLE IMPRESE_________________________________________________________39

LA RESPONSABILITÀ SOCIALE ED AMBIENTALE DELLE IMPRESE ____________________________39

LA SOSTENIBILITÀ COME STRATEGIA DI IMPRESA _________________________________________41

IL CONTESTO NAZIONALE_______________________________________________________________51

CONCLUSIONI _________________________________________________________________________52

LO STRUMENTO DELLA FISCALITÀ ECOLOGICA ______________________________________________53

INCENTIVAZIONE DELL’INNOVAZIONE ECOLOGICA NELL’UNIONE ____________________________57

LINEAMENTI PER UNA NUOVA FISCALITÀ ECOLOGICA IN ITALIA _____________________________59

DATI EUROPEI ED ITALIANI A CONFRONTO __________________________________________________63

DATI ED INDICI DELLA COMPETITIVITÀ IN ITALIA _____________________________________________72

GLI INDICI DEL WORLD ECONOMIC FORUM (WEF) __________________________________________73

IL SISTEMA DI INDICATORI DI COMPETITIVITÀ DELL’UNIONE EUROPEA _______________________76

IL SISTEMA ISSI DI INDICATORI CNEL 2005 ________________________________________________83

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LA COMPETITIVITÀ COME PARAMETRO DELLA QUALITÀ E DELLA SOSTENIBILITÀ DELL’ECONOMIA

di A. Barbabella e T. Federico

Lo stato della sostenibilità a scala planetaria non sembra mostrare segni di miglioramento. I parametri fisici della sostenibilità mostrano per lo più trend negativi o insufficienti, a parte qualche rara eccezione che testimonia come sia comunque possibile invertire tendenze avverse. Nonostante gli sforzi e qualche progresso gli obiettivi del Millennio fissati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2000 non verranno conseguiti in tempo utile senza ulteriori e decisi interventi. Anche nei Paesi ad alto reddito compaiono avvisaglie se non di un deterioramento, di un rallentamento dei progressi in campo sociale, con disparità ancora crescenti, nuove fasce di povertà, insicurezza in campo lavorativo ecc. I risultati del programma Millennium Ecosystem Assessment promosso delle Nazioni Unite, il più recente e completo tentativo di reporting e valutazione dello stato dell’ecosistema planetario, indicano un declino di ben 15 servizi ambientali su 24, servizi dai quali dipende direttamente la sopravvivenza di tutti gli esseri umani, indipendentemente da censo e regione di appartenenza (Tab. 1). A livello locale vi sono oramai prove evidenti di collasso dei sistemi ecologici, come il caso di diversi stock ittici dell’Atlantico. I cambiamenti del sistema climatico, per i quali si è finalmente riconosciuta a livello del G8 una qualche responsabilità umana, rappresentano una minaccia sempre più concreta, in particolare per le economie meno sviluppate. Più in generale sembra lecito ipotizzare che gli attuali livelli di prelievo di risorse e di produzione di rifiuti delle attività umane abbiano raggiunto e superato, su scala globale, la carrying capacity planetaria. Se ciò è vero, in accordo tra l’altro con quanto registrato dall’indice dell’impronta ecologica planetaria, si determina la necessità di intervenire con estrema urgenza e profondità per evitare gravi ripercussioni sullo sviluppo e sul benessere dell’umanità. Lo sviluppo sostenibile è un progetto globale, come testimonia la sede in cui è nato, le Nazioni Unite. Il ruolo degli stati nazionali è definito in accordo con il principio di responsabilità condivisa ma differenziata: esso assegna ai paesi ad alto reddito, in base all’impatto cumulativo prodotto dalla loro storia, il compito di guidare il cambiamento verso un futuro sostenibile. Ogni tipo di relazione internazionale, economica ma non solo, deve tenere conto di questi due fattori: i progressi verso obiettivi comuni e un impegno differenziale. Nei Paesi ad alto reddito, e non solo in questi, un numero crescente di persone chiede al mondo della rappresentanza politica una maggiore attenzione alle tematiche ambientali, della equità e della giustizia a livello internazionale, della qualità della vita libera da considerazioni di tipo strettamente economico. Tali cambiamenti sono stati rilevati, tra gli altri, anche in due recenti indagini di Eurobarometro1 che evidenziano come per la maggior parte dei cittadini europei esista un nesso positivo tra tutela ambientale e sviluppo economico. Sembrano, insomma, esserci le condizioni per ottenere un ampio consenso intorno a politiche 1 Special EUROBAROMETER n° 215 “Lisbon” e 217 “Attitudes of European citizens towards the environment”

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orientate alla sostenibilità ma anche per supportare una domanda sostanziosa di beni e servizi sostenibili. D’altro canto il mondo imprenditoriale non è rimasto a guardare. Sono fiorite una quantità considerevole di iniziative volte a garantire adeguati standard di tutela ambientale e sociale utilizzando, ad esempio, il sistema delle certificazioni. Gruppi di imprese hanno stretto alleanze per avviare progetti di sostenibilità, per rinnovare i propri metodi di produzione o per promuovere una ricerca mirata, come nel caso di alcune compagnie petrolifere che investono sulle fonti energetiche alternative. Intere economie, come quella cinese, puntano sempre più, per il loro sviluppo economico, su recupero e riciclo di materie prime, aumento della efficienza di processo e così via. È probabilmente vero che alcune di queste operazione siano state compiute più per spirito opportunistico che per sincera adesione ai principi della sostenibilità. Ma è anche vero che non spetta al mondo delle imprese intervenire autonomamente sui modelli di produzione e consumo: ciò significherebbe, infatti, gravare il sistema economico di un compito squisitamente politico che non ha e che non deve avere.

Tab. 1. Lo stato dei servizi ambientali secondo il Rapporto ONU 2005 sullo stato degli ecosistemi globali

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Se il sistema produttivo sarà in grado di soddisfare la nuova domanda di sostenibilità e di alimentarla, in questo coadiuvato dalle opportune misure politiche, si potrà generare un ciclo virtuoso con effetti benefici sia in termini economici che di sostenibilità. Ciò, oltre ad avere ripercussioni già nel breve periodo, date le condizioni di cui sopra sembra essere anche l’unico modo per dare ragionevoli garanzie in termini di sviluppo economico, sociale ed ambientale sul medio-lungo termine.

Fig. 1. Impronta ecologica globale e stato dello stock ittico dei …

L’Italia si trova oggi a dover affrontare una crisi economica particolarmente grave che ha investito alcuni settori cardine del sistema produttivo nazionale, come quello tessile e dell’automobile. Sembra esserci consenso intorno al fatto che le misure da prendere per superare tale crisi debbano essere di carattere strutturale, chiamando in causa una rinnovata politica industriale per il Paese che, in quanto tale, assuma orizzonti temporali più ampi. Per quanto detto sopra, mentre sarebbe possibile, anche se non desiderabile, promuovere interventi in termini di competitività non orientata alla sostenibilità che siano efficaci sul breve termine, non sembra altrettanto possibile che tali interventi abbiano su di essa effetti positivi sul medio e lungo periodo, dal momento in cui l’uso efficiente delle risorse e la capacità di limitare gli effetti negativi sull’ambiente diventeranno inevitabilmente un elemento premiante anche in termini strettamente economici.

COMPETITIVITÀ E SOSTENIBILITÀ Il rapporto tra sostenibilità e competitività non è univoco, sostanzialmente a causa della diversa natura dei due termini. Riprendendo i principi e la terminologia dell’economia ecologica, la sostenibilità è una proprietà che fa riferimento ai tre domini società, economia ed ambiente. Per potersi definire sostenibile lo sviluppo di un sistema richiede che la crescita complessiva del reddito, del patrimonio infrastrutturale e tecnologico, del capitale umano e sociale, mantenga gli input-output di materia ed energia da e verso l’ambiente entro i limiti della capacità portante del pianeta, senza erodere il capitale naturale e deteriorare quelli che abbiamo chiamato servizi ambientali. La competitività è un parametro che attiene tipicamente agli equilibri interni del sistema economico globale. In linea di principio un sistema equilibrato garantisce

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migliori condizioni di equità ed è quindi più sostenibile. Ovviamente il sistema attuale è ben lungi dall’essere vicino all’equilibrio, permanendo grandi disparità circa l’accesso alle risorse, l’acquisizione dei diritti, la disponibilità di capitale umano e sociale. Una analisi della questione della competitività a livello globale deve tener conto dell’influenza che gli scambi economici hanno sul processo della sostenibilità e, in particolare, sul raggiungimento di un equilibrio globale capace di garantire a tutti un livello di benessere - inteso in senso più ampio della interpretazione strettamente economica - sufficiente e crescente. Alla interpretazione, più o meno diffusa, basata unicamente sulla capacità di produrre a prezzi decrescenti, preferiamo l’idea di competitività come indice dinamico della qualità globale di una economia, come indice della capacità di produrre di più con meno risorse, di fornire servizi migliori, più scienza, più conoscenza, secondo la fortunata definizione del Consiglio di Lisbona2. Secondo tale visione la crescita economica e la competitività sono direttamente connesse alla capacità di accrescere il capitale umano e sociale garantendo la conservazione di quello naturale: in particolare si teorizza la presenza di un legame stretto tra occupazione e crescita economica che passa attraverso il paradigma della economia della conoscenza.

Fig. 2. Il doppio dividendo dello sviluppo sostenibile

Nel quadro generale della qualità di sistema trova posto la competitività di impresa, così definita dalla Commissione Europea3, parametro al quale viene prestata la massima attenzione oggi in Italia nel quadro delle analisi delle cause del declino del sistema economico. Questa rappresenta un sottoinsieme concettuale della interpretazione più ampia di Lisbona, e viene misurata in termini di performance relativa e di acquisizione di quote di mercato da parte del sistema imprenditoriale. Qualità dei prodotti, dei servizi, prezzi di vendita ed efficienza della distribuzione e del management determinano la competitività delle imprese. Non è dunque il costo unitario di produzione dei beni e dei servizi il solo né il principale determinante di tale competitività. È bene chiarire che il carattere relativo della competitività di impresa fa sì che essa vada rapportata senza confusione ai mercati di riferimento. Esiste un problema di

2 Nel marzo del 2000, a Lisbona, l'Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: “…diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale …” 3 EU Competitiveness Report 2001

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competizione con i paesi emergenti che coinvolge tutto l’occidente ed è determinato dal dumping sociale, basso costo del lavoro, ostacoli alla sindacalizzazione, negazione dei diritti civili, e dal dumping ambientale, mancato rispetto di normative adeguate alla protezione dell’ambiente interno dei paesi emergenti e dell’ambiente globale. È un problema di equilibri planetari che trova le sue sedi di regolazione nel WTO e, per gli aspetti ambientali, nelle sedi del negoziato multilaterale, promosso essenzialmente dal sistema delle Nazioni Unite. Ovviamente nessuna strategia di intervento nazionale può pensare altresì di ignorare tali questioni globali quando queste influenzano direttamente la disponibilità interna di risorse, la capacità di affermarsi nell’economia globale ect. Non è comunque questo stato delle cose alla radice del declino italiano che, con dinamiche molto diverse, è determinato dal nostro deficit di qualità e competitività rispetto ai mercati occidentali. Qui le condizioni sociali della produzione sono comparabili e si gioca ad armi pari. Poiché non possiamo più praticare politiche di bassi salari né svalutare la moneta vengono alla luce i vizi storici della nostra imprenditoria, scarsa innovazione, errori nelle scelte strategiche, poca propensione alla ricerca nel settore privato, polverizzazione delle imprese, ritardi nelle trasformazioni imposta dalla globalizzazione dei mercati. La stessa amministrazione pubblica è troppo spesso poco efficiente rispetto agli standard europei, si osservano sprechi, corruzione, conflittualità, ritardi tecnologici, cultura inadeguata etc. Abbiamo un sevizio sanitario pubblico di avanguardia, ma siamo stati gli ultimi a dotarci del sistema dei controlli ambientali; il sistema scolastico è prevalentemente pubblico ma, mal sostenuto e sottofinanziato, è in fase di arretramento, come la ricerca scientifica pubblica e le università. La gestione del territorio e il sistema dei trasporti sono fortemente penalizzati dalle perduranti asimmetrie Nord-Sud, dall’economia sommersa, dalla malavita organizzata. La competitività del sistema Italia va dunque recuperata con un percorso di riforma dei settori pubblici e del sistema delle imprese che necessariamente dovrà essere durevole e sostenuto per tempi lunghi. Per ora è indispensabile invertire sollecitamente tutte le tendenze e tutti gli indici che determinano il declino.

LA FORMAZIONE DEI PREZZI DI MERCATO Nell’ambito della teoria corrente si riscontra la tendenza ad individuare nel prezzo di mercato il principale determinante della competitività di impresa. In relazione agli obiettivi di crescita economica si propone di agire su quei fattori che impongono ai produttori costi di produzione più alti rispetto alla concorrenza e, quindi, prezzi più alti e perdita di competitività. In un siffatto sistema è ragionevole supporre che l’internalizzazione di costi ambientali o sociali da parte del sistema economico produca, almeno sul breve periodo, degli svantaggi in termini di competitività di impresa, incrementando alcune voci di costo che incidono sulla formazione dei prezzi. Tale ragionamento poggia sull’assunto che il meccanismo di formazione dei prezzi si debba considerare dato ed invariabile. Non è così: l’insieme delle regole che determinano il sistema di formazione dei prezzi è a sua volta determinato dalle misure di politica economica le quali, a loro volta, sono definite in accordo con gli obiettivi di politica generale. È d’altronde generalmente accettato il fatto che uno dei

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compiti delle politiche ambientali sia proprio quella di assegnare un prezzo alle risorse capace di riflettere tutti i costi per la società, attraverso azioni di orientamento e redistribuzione: quindi le politiche ambientali, come tutte le altre, incidono sul meccanismo di formazione dei prezzi in modo decisivo. Nel dibattito sulla competitività si tende spesso ad invertire i termini della questione ponendo come obiettivo sovraordinato quello che invece deve essere considerato strumentale alla capacità di immaginare un futuro migliore. Quando una economia nazionale si confronta sul mercato, lo fa immettendovi servizi e prodotti il cui meccanismo di formazione dei prezzi è in buona parte determinato da un sistema di regole interne che è il prodotto dalla definizione di benessere condivisa. In un confronto tra paesi molto diversi, ad esempio in termini di livello di sviluppo raggiunto, una economia efficiente può non aver alcuna possibilità di competere in termini di prezzo con una economia non altrettanto efficiente ma che, ad esempio, può contare su fattori di produzione a basso costo o che scarica alcuni costi di produzione sulla collettività. La questione della crescita economica dei paesi di prima industrializzazione come Cina ed India va certamente inquadrata in questo contesto. In tali casi le soluzioni, certamente non banali, non possono essere ricercate solo a livello nazionale, ma devono coinvolgere organismi, primi tra tutti le sempre più criticate Nazioni Unite, poi il WTO, capaci di tracciare un percorso condiviso e sicuro che porti ad equilibrare il sistema del commercio mondiale. Tale percorso non può che fare propri i principi della sostenibilità la quale, oltre ad essere un obiettivo comune, rappresenta una visione minima di benessere globale, ossia il minimo comune denominatore per garantire a tutti un futuro desiderabile. Diverso è il caso di un confronto di competitività tra economie simili, qualora non si riscontrino visioni di benessere significativamente diverse. In tal caso una minore competitività è in genere da ricondurre ad inefficienze del sistema economico, cui è possibile rimediare dall’interno. Sulla base di questo presupposto la situazione della competitività italiana, ai fini della definizione di un programma di governo, deve essere correttamente riportata in ambito comunitario. Solo da un confronto svolto a questo livello è, infatti, possibile trarre indicazioni utili circa eventuali diseconomie che ricadono sotto la responsabilità del governo di turno. Assumendo tale interpretazione si deve osservare come la leva della formazione dei prezzi di mercato non porta necessariamente ad una maggiore competitività né verso la sostenibilità. Una politica a favore del solo abbattimento dei costi di impresa e di contrazione dell’occupazione, se può in qualche caso far quadrare i bilanci nel breve termine, può fallire strategicamente. Pur riuscendo nel compito di migliorare le performance economiche, il bilancio complessivo in termini di sostenibilità può rimanere negativo, avendo prodotto una variazione più ampia di segno inverso nel capitale naturale, umano o sociale.

D’altro canto anche le politiche di sostenibilità hanno duplici effetti sulla competitività d’impresa: se da un lato possono portare ad un aumento di alcune voci di costo, dall’altro possono, promuovendo la razionalizzazione e l’efficienza dei processi produttivi, come si è evidenziato nelle fasi attuative dei sistemi di certificazione

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ambientale, abbattere anche a breve termine alcuni costi di produzione con positive ripercussione per la competitività sui prezzi.

IL PARADOSSO DI KALDOR Il nesso tra competitività e retribuzione del lavoro dipendente, che come si è visto è stato troppo spesso fino ad oggi ricondotto ad una semplicistica relazione para-lineare che recita: meno salario, meno diritti e meno sicurezza sociale = minori prezzi di mercato del prodotto industriale e dei servizi = maggiore successo commerciale = maggiore competitività = maggiore crescita dell’economia, deve tenere conto degli effetti delle misure di riduzione salariale e degli arretramenti contrattuali sulle qualità del capitale umano e del capitale sociale, indispensabili entrambe per il successo della competizione non meno e forse più di altri fattori. La concezione della competitività che sta alla base di questa ricetta è antiquata e controfattuale, superata fin dagli anni ’70 dalla moderna teoria dello sviluppo4. I dati macroeconomici dimostrano che i paesi che hanno più successo nella competizione internazionale conquistando quote crescenti di mercato, presentano dinamiche più accelerate della retribuzione del lavoro rispetto ai paesi concorrenti. Il fenomeno, noto come paradosso di Kaldor dal nome dell’economista dell’Università di Cambridge che lo osservò per primo, è contrario all’assunto dei modelli econometrici tradizionali, secondo i quali una riduzione dei costi relativi e dei prezzi delle esportazioni dovrebbe assicurare quote di mercato più consistenti. È evidente che l’errore sta nella sottovalutazione degli altri fattori della competività, diversi dal prezzo unitario dei prodotti e dei servizi, come il management, le politiche commerciali, l’abilità innovativa, la qualità e la affidabilità dei servizi resi al consumatore. Prezzi più alti alle esportazioni possono essere letti dai mercati, a determinate condizioni, come vantaggi nella qualità, efficienza ed affidabilità dei prodotti e come miglioramento della specializzazione produttiva delle aziende o come riduzione delle esternalità sociali ed ambientali. I teorici della crescita endogena dell’economia sottolineano il ruolo della specializzazione produttiva ai fini della competitività e della crescita, osservando che l’innovazione tecnologica si differenzia nel settore industriale, assumendo ritmi molto elevati nei settori tecnologicamente avanzati. I paesi con specializzazione tecnologica medio-alta sperimentano indici di crescita più elevati. Inoltre le specializzazioni produttive tendono a riprodursi nel tempo ed a strutturarsi, senza che le forze del mercato riescano a correggere questa tendenza. Dal 1992, in dieci anni, è raddoppiato lo scambio commerciale di prodotti hi-tech in area OECD mentre, all’estremo opposto, è cresciuto del solo 30% nei settori cosiddetti tradizionali a tecnologia medio-bassa. In termini di politica economica queste elaborazioni spingono verso la riconsiderazione costante del modello di specializzazione produttiva di un paese ed ove necessario, ed in Italia le condizioni si sono ormai create da tempo5, verso l’adozione di politiche industriali attive intervenendo sul credito, sulla fiscalità, sugli

4 Lilia Constabile; “La crescita lenta dell’Italia ed il contesto europeo”; Univ. Federico II; Napoli; ottobre 2005 5 Sugli errori storici del management e dell’amministrazione italiana nelle scelte di specializzazione produttiva si veda: L. Gallino; “Il declino industriale dell’Italia”; Einaudi; 2002

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incentivi, sulle garanzie finanziarie, sugli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, sulla propensione del settore privato ad investire sulla propria innovazione tecnologica, sul miglioramento della qualità del capitale umano e sociale. La politica commerciale più praticata dall’Italia in tempi precedenti all’entrata nell’euro è stata prevalentemente quella della svalutazione competitiva mediante la leva dei tassi di cambio della moneta. Questa scelta privilegiava implicitamente, ma forse deliberatamente, la concezione della competitività basata soltanto sui prezzi. La specializzazione produttiva non veniva però modificandosi, nemmeno a fronte delle maggiori entrate del commercio estero, anzi, la continua riproposizione della visione emergenziale dei rapporti economici e commerciali, finiva per deprimere il miglior spirito imprenditoriale e la propensione per gli investimenti a medio termine, riconsegnandoci un’economia confermata nella sua struttura tradizionale e nelle scelte tecnologiche apparentemente più conservative, ma in sostanza soltanto più arretrate e timorose.

POLITICHE ATTIVE PER LA COMPETITIVITÀ Un elemento considerato favorevole alla competitività di impresa è la produttività delle risorse, genericamente intesa come la quantità di prodotto generato da una data quantità di risorsa. Più specificamente, per quanto riguarda la risorsa umana, nella teoria economica si fa riferimento alla produttività del lavoro, misurata come quantità di ricchezza prodotta, in termini di valore aggiunto, per unità di lavoro riferita alla singola persona occupata o ad ora lavorata. Secondo la teoria corrente si ipotizza che un aumento della produttività del lavoro sia un fattore positivo in termini di competitività. Gli effetti della produttività definita in termini di valore aggiunto sulla sostenibilità sono da considerarsi, tuttavia, ambigui. In particolare non si distingue tra una produzione di beni materiali che, se non rispettosa dei criteri di uso sostenibile6, ha ripercussioni negative sul capitale naturale, dalla produzione, ad esempio, di determinati servizi a impatto ambientale contenuto, capaci di incrementare lo stock di capitale economico e sociale senza intaccare quello naturale; così come non si distingue tra tipologie di impiego rispettose dei diritti dei lavoratori, dei parametri di equità distributiva del reddito e così di seguito. Se non differenziata o non integrata da misure, ad esempio, di eco-efficienza o tutela dei diritti dei lavoratori, la produttività del lavoro non può essere considerata in quanto tale un parametro utile ai fini della sostenibilità. La stessa Commissione nel recente rapporto per il Consiglio di Primavera 20057, afferma che “la crescita della produttività e dell'occupazione devono andare di pari passo. Occorre evitare il tipo di crescita senza creazione di posti di lavoro che negli ultimi anni ha offuscato l'andamento dell'economia americana”. La grossolana equazione, richiamata da molti, tra prezzi di mercato e competitività è stata definitivamente confutata nel 2000 a Lisbona. Essa sembra poggiare sull’idea di una economia fine a se stessa, un sistema che, se lasciato libero da vincoli, è in grado autonomamente di produrre una crescita indefinita della ricchezza e,

6 Si fa qui riferimento ai principi proposti da H. Daly che definiscono le condizioni di sostenibilità per i tassi di sfruttamento delle risorse rinnovabili e non. 7 EU EC Spring Report 2005 COM(2005) 24.

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attraverso un’altra discutibile equazione dalle rilevanti implicazioni etiche, del benessere individuale e sociale. Su tali basi si costruisce un rapporto distorto tra economia e politica, ipotizzando una più o meno ampia sovrapposizione tra quello che dovrebbe essere il fine di quest’ultima - il benessere del cittadino - e l’accidentale prodotto della prima. Tutto ciò porta ad investire il sistema economico di un rilevante ruolo politico, lasciando allo Stato per lo più il compito di agevolare la libera crescita dell’economia: per far questo, in particolare, si rende necessario sgombrare il campo da tutto ciò che possa essere in contrasto con la necessità di produrre a prezzi più bassi e, quindi, con la capacità di competere con altre economie. Questo modello, oltre ad approssimare poco e male la realtà del presente così come quella del passato, poggia su una serie di assunti la cui correttezza negli ultimi due secoli è stata posta più volte in dubbio da studiosi di scienze economiche e sociali di tutto il mondo. L’economia non può essere considerata un fine, ma uno strumento che la politica deve utilizzare in modo efficace per raggiungere i propri obiettivi. Tra questi il miglioramento del benessere individuale e collettivo ha un ruolo centrale: esso passa attraverso un incremento del capitale umano, sociale, ambientale ed economico di un paese. Si tratta di fattori che devono tutti fornire il proprio contributo positivo alla formazione del benessere individuale e collettivo dei cittadini: quindi anche l’economia, che deve crescere - non necessariamente o non solo intermini di PIL - compatibilmente con gli altri determinanti del benessere. È in quest’ambito che vanno esplorate le relazioni tra economia e politica, assegnando a quest’ultima il compito di orientare il mercato affinché il suo funzionamento sia in armonia con gli obiettivi politici di miglioramento del benessere. Ogni proposta politica idealmente si distingue per la differente definizione di benessere di cui si fa portatrice: questa rappresenta il principale oggetto di scambio nell’acquisizione del consenso democratico. Tra gli strumenti di cui la politica dispone per intervenire sul sistema economico ci sono non solo quelli normativi in senso stretto, fatti di divieti e restrizioni, ma anche quelli che incidono, direttamente o meno, sulla formazione dei prezzi e, più in generale, sul funzionamento del sistema di mercato (incentivi, fiscalità, credito etc.). Ciò vale per qualsiasi economia di mercato, anche la più “liberista”. Si può, quindi, ragionevolmente dedurre che sistemi o paesi, con obiettivi strategici (cioè definizioni di benessere) e strumenti di azione politica significativamente diversi tra di loro, si servano di meccanismi di formazione dei prezzi anch’essi differenti; questi, se messi in competizione tra di loro, potranno risultare a seconda dei casi più o meno favorevoli all’una o all’altra parte in termini di competitività di impresa. I benefici delle politiche pubbliche, non solo di quelle ambientali, non possono essere espressi solo in termini economici e per di più in relazione alla competitività sui prezzi: le loro ricadute sono infatti molto più ampie. Come già detto l’economia è un elemento certamente rilevante per il benessere di un paese ma, secondo il paradigma dello sviluppo sostenibile, non è l’unico e non deve essere considerato quello preponderante. La stessa Commissione Europea nei sui documenti di settore (cit.) definisce, altresì, una competitività di natura diversa, misurandola in termini di andamento dei redditi, degli standard di vita e dei tassi di disoccupazione. Tale definizione sembra accordarsi meglio non solo alla visione strategica di Lisbona, ma

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allo stesso paradigma dello sviluppo sostenibile e, pertanto, verrà utilizzata nel seguito dei lavori. Va comunque notato che questa definizione, seppure più ampia e non direttamente connessa a quella dei prezzi relativi, rimane sostanzialmente ristretta alla sfera economico-occupazionale, misurando lo standard di vita in termini di PIL pro capite e livelli occupazionali. Avendo ora acquisito nuove e più precise definizioni torniamo alla fatidica domanda: politiche per la sostenibilità portano necessariamente ad una maggiore competitività secondo la definizione introdotta sopra? Si potrebbe pensare che in un sistema che si sviluppa in modo sostenibile sia indifferente la distribuzione degli incrementi/decrementi tra i diversi capitali fatto salvo, ovviamente, il bilancio complessivo, necessariamente positivo (visione debole della sostenibilità). Tale approccio non tiene però conto dei legami che intercorrono tra i diversi domini di sistema. Sembra difficile immaginare, ad esempio, significativi miglioramenti ambientali e sociali associati al protrarsi di derivate negative nel dominio economico: banalmente politiche sociali ed ambientali hanno bisogno di una adeguata disponibilità di risorse economiche. È poi dimostrato che il degrado dei servizi ambientali non può essere compensato in nessun modo sia perché i costi di ripristino sono fortemente crescenti, sia perché alcuni servizi legati alla qualità dell’aria e dell’acqua e del territorio ed ad alcune risorse naturali sono irrinunciabili e pertanto insostituibili. Del pari è impensabile che apporti monetari possano compensare il degrado della ricchezza umana e sociale di una comunità. In termini più generali le politiche di sostenibilità efficaci devono garantire uno sviluppo equilibrato e coordinato dei diversi fattori sociali ed economici coerentemente con i vincoli ambientali di sistema. Pertanto tali politiche dovranno essere capaci di garantire, tra l’altro, adeguati livelli di competitività, tali da non generare una erosione del capitale prodotto dall’uomo. Da tutto ciò deriva che non è indifferente la qualità della crescita economica e, quindi, la qualità della competitività: essa deve essere tale da permettere un miglioramento umano e sociale mantenendo, o riportando, i livelli di input-output di materia ed energia del sistema entro i limiti della carrying capacity planetaria. Tale tipo di competitività si baserà non sui prezzi decrescenti, prodotti ad esempio esternalizzando costi sociali ed ambientali, ma sulla efficienza crescente nell’uso delle risorse, sulla capacità di produrre maggiore benessere attraverso la produzione di beni e servizi ad elevato valore sociale, e così via. In questi termini appare possibile, quindi, riconoscere un nesso positivo tra sostenibilità e competitività, non indifferente, però, alla qualità del modello di sviluppo.

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LA DIMENSIONE SOCIALE DELLA COMPETIZIONE di Carlo Donolo

I dati mostrano che l’Italia non è in grado di reggere in modo soddisfacente i termini della competizione globale. In vaste aree del paese è in atto una crisi sociale endemica, con grande distruzione di capitale umano e sociale. Il sistema delle istituzioni, delle regolazioni, della politica e dell’amministrazione non è in grado di fornire adeguate prestazioni di governance, specie a fronte di sfide quali l’innovazione tecnologica, la crisi ambientale, la crisi del welfare, l’aumento delle disuguaglianze e dei divari territoriali. Si tratta di declino, e specificamente di una crescente difficoltà a restare in Europa e di perifericità politica, fatica a soddisfare gli standard, perdita nel sistema sociale ed economico di qualità indispensabili sia per la performance competitiva sia per la coesione sociale, leggibili nel debito accumulato e nella dimensione eccezionale assunta sia dal sommerso che dall’evasione fiscale che, data la loro natura complessa e sistemica, non possono essere trattate solo con il governar bene, ma devono essere trattate con opportune strategie politiche e con un adeguato policy design.

L’IDEA DI SVILUPPO Si propone di seguito una ritematizzazione complessiva del rapporto tra politica e processi sociali, centrata sull’idea di sviluppo che marca un discrimine tra la sinistra, che trova su questo terreno la sua missione appropriata, e la destra, referente di un blocco moderato, in fase di avanzata formazione, costruito sulla centralità della rendita, sulla patrimonializzazione nella nostra società, ed anche sul rifiuto di prendere troppo sul serio l’europeizzazione del paese. Per sviluppo si intende qui il processo di aumento delle dotazioni in termini di beni pubblici e comuni, di crescita dell’enciclopedia dei diritti soddisfacibili ed delle capacità degli attori individuali e collettivi. Lo sviluppo avviene in condizioni di (almeno tendenziale crescita della) sostenibilità, integrazione, coesione e capacitazione. Lo sviluppo soddisfa sia la condizione della salvaguardia degli interessi delle future generazioni che le condizioni della competitività globale a medio termine. Lo sviluppo ha senso soprattutto dove appare più difficile (ovvero: dove la crescita non governata ha creato il massimo di esternalità negative), perché lo sviluppo è l’unica terapia possibile dei deficit, delle sregolazioni, delle disparità. Lo sviluppo – a differenza della crescita – lavora sulle negatività sociali, ne fa l’oggetto principale dell’attività economica, sociale ed istituzionale, conta sulla mobilitazione delle risorse locali e sulla valorizzazione di potenziali inespressi L’unico modello di sviluppo possibile per un paese come l’Italia che mostra deficit strutturali gravi, e un’erosione delle sue stesse basi morali, non può essere che costruito lavorando sui deficit, sulle devianze, sui ritardi e le omissioni. Sappiamo però che non è possibile un keynesismo classico che consisterebbe nella progressiva sostituzione di mali con beni internamente prodotti. La globalizzazione e la stessa integrazione europea non lo permettono.

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LA CRISI ITALIANA La specificità del declino italiano non è solo o propriamente economica, ma culturale ed istituzionale, che si manifesta nella grave destrutturazione delle principali strutture di ricerca e del sistema universitario; nelle politiche di sviluppo locale che, inadeguate alla sfida, non hanno garantito la produzione di beni pubblici e comuni sufficienti; nell’ampliamento dell’area della regolazione; nei condoni e nel lassismo regolativo in campo ambientale, territoriale, urbanistico, nel fallimento delle politiche di emersione; nell’ampliamento massiccio dell’area della rendita e dell’evasione; nella crisi da domanda interna causata dalla crescita della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi; nella erosione delle basi morali cui fa da contraltare un eccesso di presenze confessionali nelle aporie della sfera pubblica . Aumentano i divari territoriali, non solo quelli economici, aumento i divari sociali di classe, si assiste al declino anche delle aree forti economicamente e ancora poco tempo fa socialmente coese, si manifestano alcune tendenze centripete del malinteso federalismo. In sostanza la transizione al postmoderno e al postindustriale rischia di avvenire senza basi economiche, culturali e regolative adeguate Il paradigma dello sviluppo si propone di trattare le sindromi che fanno problema a partire da quelli che riteniamo per certo essere i luoghi e le risorse della possibile innovazione. In particolare la società italiana, nelle sue componenti più scolarizzate e urbanizzate, ha ancora notevoli riserve di senso civico e di intelligenza sociale. Nel sistema delle istituzioni, solo parzialmente riformato, sono presenti componenti modernizzate, in grado di reggere compiti più impegnativi. Nel sistema delle autonomie locali si sono accumulate esperienze significative, non solo di buongoverno, ma anche di trattamento delle sindromi più difficili e pericolose. Nel sistema economico si sta delineando un marcato dualismo tra imprese innovatrici e imprese redditiere, e la componente che sta cercando di portarsi al livello della competitività globale deve essere sostenuta al massimo. I sistemi urbani sono il fattore cruciale sia per le risorse della competitività, sia per la qualità della vita, e che in essi si sono accumulati potenziali in grado di far fronte alle emergenze connesse alle sindromi patologiche.

LA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA La società italiana, che, come altre ha esaurito i benefici del fordismo, ha come ricchezza peculiare il patrimonio dei beni ambientali e culturali, il capitale sociale e il capitale umano. Tali risorse sono le più adatte per entrare efficacemente nella società della conoscenza, delineata a Lisbona. Una simile società può competere solo sul terreno della qualità, con prodotti di nicchia, anche con nicchie tecnologiche significative (aerospazio, elettronica, telecomunicazioni, nautica da diporto, nuovi materiali, biotecnologie…), con il made in Italy centrato a livello medio-alto, con la qualità dei servizi e delle infrastrutture (mobilità, trasporto, comunicazione), con la riqualificazione permanente dell’offerta (come nel caso del turismo), con l’agricoltura di qualità, con il rinnovamento dei centri urbani. La qualità di processo e di prodotto va considerata alla stregua di un bene ambientale, ecosistemico, comune, base e fondamento della competitività, che si realizza, e si può permanentemente innovare, soltanto mediante la cura

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(manutenzione, manutenzione straordinaria, rinnovamento e trasformazione) del territorio, della città, dell’infrastruttura, dell’ambiente, del capitale sociale ed umano. Si tratta di garantire nel tempo, e di riequilibrare nello spazio, la disponibilità dei beni che concorrono come economie esterne8 alla produzione di qualità. Nella società della conoscenza la connessione tra qualità ambientale e sociale e qualità dei risultati diventa più diretta (più osservabile, più governabile), e ciò implica la più marcata rilevanza di ogni esternalità per il processo economico ed innalza la correlazione tra qualità socio-ambientali e qualità indispensabili per la competitività. Le questioni socio-ambientali, come la coesione, la sostenibilità, il capacity building, diventano inerenti al processo produttivo. Il processo economico diventa anche sociale, e il sociale diventa rilevante per l’economia. Allo stesso modo, le politiche sociali ed ambientali diventano parte di quelle economiche, non come aggiunta estrinseca o compensativa (risarcitoria o perequativa), ma come fattore propulsivo Per queste ragioni lo sviluppo (a partire da quello dei sistemi locali) deve diventare sostenibile, integrato e coeso, cioè sociale. Le stesse politiche sociali integrate devono ricalibrarsi sul dato di concorrere allo sviluppo e di avere mete convergenti con le strategie di sviluppo. In conclusione: lo sviluppo è sociale, oppure non vi è neppure crescita. Si tratta di questioni di validità generale, che sono peculiarmente validi in Italia per effetto della debolezza dei settori fordisti strategici, della crisi del made in Italy a bassa qualità, della sopravvenuta difficoltà dei distretti manifatturieri, dell’esaurimento di diverse basi produttive tradizionali, come il turismo senza qualità e molti settori a tecnologia matura, della dipendenza tecnologica crescente e della perdita del controllo su molte imprese acquisite da operatori esteri. Vanno poi considerate altre fragilità sociali a carattere sistematico che indicano una serie di vistose devianze e deficit rispetto al modello europeo: l’invecchiamento della popolazione, il peso del rent seeking, il peso dell’illegalità di massa e di quella criminale, come fonte di squilibri distributivi, di insicurezza e di disordine sociale, l’obsolescenza avanzata di gran parte dell’infrastruttura, i mancati investimenti in ricerca, formazione ed innovazione socio-istituzionale, il degrado ambientale, anche questo fuori dei parametri europei, l’esaurimento del capitale sociale locale, anche per effetto di processi non governati (esaurimento del ciclo distrettuale spontaneo) e di politiche ottuse di valorizzazione (dai patti alla crescita pur che sia), la mancata coesione territoriale e regionale, con il divario Nord-Sud, l’esistenza di aree di crisi endemiche (economica, sociale, legalità, ambientale, urbana) in vaste aree a carattere metropolitano, specie nel Sud, ma non solo. Tali aree di crisi non hanno l’equivalente in Europa, dopo il risanamento delle città de-industrializzate in Germania e in Gran Bretagna, e ricordano piuttosto lo stato delle cose in diversi paesi dell’Est. E ancora, come differenze strutturali rispetto all’ Europa vanno considerati i tassi di attività femminili eccezionalmente bassi, e la presenza del tutto minoritaria delle donne in posizioni di responsabilità, il debito pubblico eccezionalmente alto, tutte le forme dell’abusivismo, l’economia sommersa e il lavoro nero, fuori delle proporzioni 8 Il complesso delle attività economiche che, come frutto dei beni collettivi locali, aumentano la competitività e le risorse delle imprese localizzate in un determinato territorio (C. Trigilia; op.cit.)

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presenti in altri paesi, l’economia criminale, il tasso di evasione e di elusione fiscale, l’usura avanzata dei commons, specialmente del patrimonio culturale (peraltro posto in svendita). In conclusione la situazione in Italia è riassumibile nella contraddizione tra l’imperativo della qualità, come nesso tra qualità sociale e qualità della produzione competitiva, e la minaccia sistematica alla qualità socio-ambientale e quindi alla razionalità stessa del sistema paese. Il governo dei processi sociali macro e locali diventa pertanto inerente alle strategie di sviluppo, finisce il welfare risarcitorio e perequativo (veramente fordista, e residuale anche quando universale), iniziano le politiche della qualità sociale. Queste non sono possibili senza innovazioni (scientifiche, tecnologiche, organizzative, logistiche, culturali…) e senza la facilitazione di milieux creativi. Occorre quindi il concorso di due livelli: quello centrale per gli aspetti macroeconomici e di indirizzo, per politiche settoriali mirate, per l’impostazione strategica ed integrata di tutte le policy, per la garanzia di copertura (e garanzia di ultima istanza) del fabbisogno di tutti i beni pubblici non locali: specialmente l’innovazione tecno-scientifica, la costruzione di reti lunghe, il controllo di parametri e standard, le garanzie di liberalizzazione (contro le rendite), competizione (per l’efficienza) e cooperazione interistituzionale (per la coerenza e coesione transettoriale e transterritoriale); quello locale come luogo della mixité di tutte le risorse, e specificamente tra la valorizzazione sostenibile del patrimonio e dei beni immateriali e il governo dei processi in termini di esternalità positive e negative. Il locale è decisivo come laboratorio dell’integrazione, sostenibilità e coesione; come luogo dell’intreccio di rappresentanza, deliberazione e valorizzazione di tecno-saperi/poteri; come posto dell’innovazione culturale e della creatività imprevedibile. Nella situazione italiana è particolarmente evidente che vi è carenza di beni pubblici essenziali e che sono a rischio ugualmente molti beni comuni indispensabili. Da ciò la necessità del ruolo del “centro”, e quindi di un’accurata valutazione delle forme che deve assumere la federalità e la sussidiarietà. Vi è dunque necessità di un progetto centrato sull’idea di sviluppo, centrato sui beni pubblici e comuni, sul sociale e sul locale, in quanto diverso da e superamento della crescita locale. Come progetto e idea-forza serve a rendere manifesto e condivisibile il nuovo livello delle questioni nazionali dentro l’unificazione europea e la globalizzazione, e a spostare in avanti specificamente l’elaborazione sulle strategie d’integrazione delle politiche locali (radicate localmente o con effetti locali), a partire da quelle sociali. Va evitato, in presenza di una grave recessione, il tentativo di far quadrare i conti senza toccare gli interessi costituiti più forti e di rilanciare la crescita senza qualità. Il rischio è evidente laddove molta dell’attuale cultura politica ed amministrativa non ha la percezione della natura della crisi sociale endemica né del rilievo strategico della crisi ambientale (che in Italia è sempre anche crisi-degrado di beni ambientali e culturali). Manca una reale sintonia con l’ipermodernità9 (nei suoi profili tecnico-scientifici e culturali) e con le sue sfide, che vengono continuamente riclassificate nel vocabolario fordista, o nel caso migliore vengono neutralizzate con il riferimento al 9 Si veda E. Ronchi; “L’ecologia come seconda modernità”; ISSI; Roma 2003

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quadro comunitario; sul terreno delle questioni di principio, quali la laicità della sfera pubblica, l’etica pubblica, i dilemmi bioetica ed altro. Manca quasi del tutto una reale consapevolezza della gravità della crisi cognitiva del Paese, che è una sindrome composta e costruita dagli impatti devastanti della comunicazione di massa, l’entropia della ricerca e della R&S, la miseria strutturale della scuola e dell’università, l’introiezione di massa delle culture e delle pratiche sregolative. Le risorse disponibili nella società civile, pure cresciuta, ma fortemente minoritaria, e in molti luoghi del tutto marginale, si manifestano nel sociale, in alcuni movimenti collettivi riflessivi, sporadicamente dentro e tramite le istituzioni. La civiltà è altamente privatizzata, nel senso che trova difficile accesso alla politica. Tuttavia, è vero che in contesti adeguatamente mobilitati si fanno vive molte risorse impreviste, potenziali (partecipazione, progettazione, presa di responsabilità, creatività). Tutto ciò sottolinea la centralità dei processi sociali e culturali nella società della conoscenza. Si tratta allora di ripartire dagli istituti e dall’institution building del sociale per ancorarvi un processo di sviluppo che sia coerente, convergente e intrecciato alla crescita economica orientata strategicamente ai parametri della qualità. Allo stesso modo le istituzioni diventano la risorsa critica: dalla legalità alla fiducia, dalla capacità di governo strategico e prospettico alla ripresa di investimenti pubblici massici su beni pubblici. Senza politiche che mirino alla ricostruzione di legami sociali non sarà più possibile neppure la semplice crescita economica.

TECNOLOGIE AMBIENTALI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE da CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo)

Nell’assegnare all’Unione Europea l’obiettivo estremamente ambizioso di diventare “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”, il Consiglio Europeo di Lisbona non aveva affatto focalizzato la sfida ambientali. Soltanto il termine “sostenibile” poteva forse richiamare la nozione di sviluppo sostenibile. La stagnazione che ha colpito alcune economie dell’Unione ha indotto a dare precedenza assoluta alla crescita economica e alla creazione di posti di lavoro, mentre l’ambiente passava in secondo piano. Importanti settori dell’economia hanno contrastato la volontà dell’Unione, e in particolare della Commissione, di ergersi a modello di condotta ambientale sul piano internazionale, anche a rischio di ritrovarsi isolata nelle sue scelte. Tali preoccupazioni e critiche non possono essere liquidate con leggerezza: esse non riguardano principi o politiche, bensì traducono la convinzione che vi sia un conflitto tra le esigenze della crescita economica e della creazione di posti di lavoro e le preoccupazioni ambientali, le quali danno luogo a una regolamentazione eccessiva tale da trascurare la realtà della concorrenza economica. Così la volontà di applicare il Protocollo di Kyoto anche senza la ratifica dei principali concorrenti dell’Europa ha provocato forti reazioni in alcuni ambienti, che hanno visto in tale volontà una pericolosa forma di ingenuità capace di compromettere la competitività dell’economia europea, già alle prese con un’agguerrita concorrenza mondiale. Altri hanno invece ritenuto che gli obiettivi di Kyoto potessero contribuire

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alla razionalizzazione dei processi produttivi, alla diminuzione dei costi, alla riduzione delle pressioni gravanti sulle risorse energetiche e sulle materie prime, e di conseguenza al potenziamento della competitività europea. Le industrie che utilizzano sostanze chimiche hanno accolto con preoccupazione il proposto regolamento REACH per la registrazione, la valutazione e l’autorizzazione delle sostanze chimiche criticandone pesantemente il relativo studio d’impatto, presentato dalla Commissione. Alcune imprese dichiarano però che lo sviluppo sostenibile è un elemento di legittimazione dell’impresa nei confronti della società civile e una carta vincente nella concorrenza mondiale e in termini di attrattiva esercitata sugli investitori. Il dibattito esiste dunque, ed è un dibattito forte, che attraversa la società intera e in primis il mondo economico e sociale e le organizzazioni ambientaliste. L’interrogativo è chiaro: l’integrazione delle considerazioni ambientali costituisce soltanto un ostacolo alla competitività delle imprese o può invece rappresentare un’opportunità per lo sviluppo di nuove professioni, nuovi mercati, nuove tecnologie? Non bastano più i discorsi teorici e pieni di buoni sentimenti se non trovano applicazione pratica. Occorrono analisi precise ed esempi concreti. L’ambiente è un’opportunità per l’economia? Porsi questa domanda significa chiedersi se lo sviluppo di alcuni settori economici non sia condizionato dall’esistenza di un ambiente naturale o di un patrimonio di qualità e, dall’altro, se le tecnologie ambientali possano portare un contributo reale agli obiettivi dello sviluppo economico e sociale definiti dalla strategia di Lisbona. Significa inoltre chiedersi onestamente se le norme e i vincoli ambientali si riducano a un mero ostacolo alla crescita economica, alla competitività e quindi all’occupazione. Le attività del turismo e del tempo libero sono manifestamente legate all’esistenza di un ambiente di qualità. Lo sviluppo economico e sociale di intere regioni, se non addirittura di interi Stati d’Europa, dipende in larga misura dal turismo. La qualità dell’ambiente è un presupposto indispensabile per l’equilibrio delle società in questione. Nei paesi deturpati, nelle città devastate da una speculazione immobiliare selvaggia, il deterioramento dell’ambiente naturale e l’inquinamento del mare provocano disastri economici irrimediabili. Altrettanto vale per settori come la pesca, l’agricoltura e persino la caccia. Va infine ricordato che il turismo dà un contributo rilevante all’equilibrio della bilancia dei pagamenti di numerosi Stati membri, che esso crea posti di lavoro ed è un’attività che, per sua stessa natura, non può essere delocalizzato. Per quanto riguarda le eco-tecnologie, gioverà chiedersi se possano essere un fattore di crescita e di innovazione e, in caso affermativo, trovare il modo di incoraggiarne lo sviluppo e la diffusione senza falsare il gioco della concorrenza in maniera ingiustificata. Di fronte alla legittima aspirazione delle popolazioni dei paesi emergenti ad accedere a un tenore di vita paragonabile al nostro, e considerate le pressioni che verrebbero a gravare sulle risorse naturali e l’ambiente se lo sviluppo di questi paesi avvenisse nelle condizioni tecniche ed economiche attuali, appare necessaria una vera e propria rivoluzione tecnologica. L’80 % della popolazione del pianeta aspira al tenore di vita di cui oggi gode solo il 20 % più ricco della popolazione mondiale. È quindi impensabile continuare a vivere nelle condizioni attuali poiché ciò si rivelerebbe catastrofico.

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Gli interventi adottati per ovviare ai danni ambientali, ad esempio quelli volti a ridurre al minimo le piogge acide attraverso tecniche di eliminazione dello zolfo, hanno contribuito in modo significativo a evitare la scomparsa delle foreste europee. Se è naturale pensare alle tecniche di produzione industriale, occorre però sottolineare che le tecniche di produzione agricola, i trasporti e i processi di produzione dell’energia hanno un impatto tutt’altro che trascurabile sull’ambiente e sulla salute pubblica. L’evoluzione e le trasformazioni delle scienze e delle tecniche comportano necessariamente delle conseguenze sociali. Quanto vale per le innovazioni in generale vale anche per le tecnologie ambientali, in particolare se destinate a sostituire tecnologie tradizionali ben collaudate, ma poco rispettose dell’ambiente. La tutela dell’ambiente non deve apparire come un fattore che va ad aggravare la disoccupazione e la deindustrializzazione. Siamo quindi di fronte a una vera e propria sfida tecnologica. Grazie alle sue capacità scientifiche e tecniche, l’Europa può svolgere un ruolo d’avanguardia nella messa a punto di innovazioni ambientali di vasta portata. Certamente la tutela dell’ambiente ha un costo, ma il costo dell’azione è inferiore al costo dell’inazione. Si possono distinguere quattro tipi di tecnologie ambientali:

le tecnologie di fine processo, le tecnologie integrate, le tecnologie avanzate; le innovazioni radicali (come ad esempio la chimica senza cloro).

A lungo termine le tecnologie integrate e radicali possano offrire vantaggi competitivi. La difficoltà sta nel fatto che in mercati altamente competitivi non sempre le imprese hanno la possibilità di operare scelte di lungo periodo. Propenderanno piuttosto per processi graduali, che assicurano però una diffusione su larga scala dei miglioramenti ambientali nel quadro dei loro cicli abituali d’investimenti. Tuttavia la crescita economica, in particolare nei paesi emergenti, è tale per cui, malgrado i progressi tecnologici, la pressione sull’ambiente e le risorse naturali continua ad aumentare. Nel corso degli ultimi trent’anni il miglior garante del futuro di un’impresa e, in ultima analisi, degli interessi dei suoi azionisti, è stata la sua capacità di innovare e garantire la qualità dei propri prodotti e processi produttivi nei confronti dei clienti, dell’ambiente e dei dipendenti. Ancor prima dell’adozione delle normative ambientali, un numero crescente di imprese si è impegnato a favore dello sviluppo sostenibile, decidendo di rendere pubblicamente conto delle proprie iniziative e risultati in questo settore e facendolo sotto lo sguardo sempre più attento dei clienti, della società civile, dei mercati e dell’opinione pubblica. Nel contesto di forte competitività creato dalla globalizzazione dell’economia, anche la qualità dell’ambiente e l’equilibrio sociale sono diventati fattori determinanti per attirare e conservare risorse umane e capitali. Gli imperativi ambientali non sono quindi in generale un ostacolo alla competitività e allo sviluppo economico, come si afferma con troppa facilità da talune parti. Il mercato ha già risposto a numerose sfide ambientali poste dalla legislazione, come testimoniano i requisiti introdotti in materia di qualità dell’acqua e di trattamento dei rifiuti. In questi due settori le tecnologie ambientali conoscono una crescita

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sostenuta. Fornendo una risposta economica a tali sfide, le imprese di servizi di tipo ambientale hanno creato e conservato posti di lavoro. La ricerca del risparmio delle risorse naturali si è tradotta in tutta una serie di innovazioni tecniche che vanno nel senso di una gestione più parsimoniosa e di una riduzione dei costi. Gli obiettivi ambientali possono essere in contraddizione tra loro: così ad esempio la costruzione di campi eolici può essere in contrasto con la protezione della qualità del paesaggio e dell’ambiente. È inoltre indispensabile che le norme ambientali obbediscano al principio di proporzionalità. Bisogna infatti evitare che il costo economico di una normativa sia sproporzionato rispetto ai benefici socio-ambientali previsti. Parallelamente, le procedure di attuazione della legislazione devono essere accessibili a tutte le parti. Di fatto, in un mercato fortemente competitivo l’introduzione delle ecotecnologie non può che avvenire in modo progressivo e continuativo. Le industrie manifatturiere, metallurgiche, chimiche, cartarie, della pasta da carta e cellulosa, ecc., devono misurarsi con una concorrenza globale particolarmente temibile e hanno un’interazione particolarmente stretta con l’ambiente. Stando a studi comparativi, le unità produttive di questi comparti sono in genere molto efficienti sotto il profilo ambientale, in quanto il loro impiego di materie prime e di energia e le loro emissioni sono ridotti ai minimi consentiti dalla tecnologia. In effetti, la legislazione ambientale cui sono soggette è la più rigorosa al mondo. D’altro canto, migliori risultati ambientali possono essere realizzati progressivamente, investendo nelle tecnologie più recenti e più efficienti, il che a sua volta presuppone che queste imprese siano competitive sul mercato globale. È indispensabile che migliori risultati in termini ambientali vengano richiesti in funzione dello sviluppo della tecnica e dei cicli degli investimenti di ciascun comparto. Infatti, introducendo disposizioni severe troppo presto si rischia di compromettere la competitività e quindi il proseguimento dell’attività, a causa dei costi aggiuntivi o dell’assenza di tecnologie effettivamente applicabili. Le tecnologie innovative concepite fin dall’inizio in modo da combinare le preoccupazioni ambientali con il minor uso delle risorse, diversamente dalle tecnologie di risposta, destinate a rimediare agli effetti dell’inquinamento, sono in molti casi ancora in fase di sperimentazione. Occorrono dunque strumenti atti ad affrontare una varietà di situazioni sul piano sia dei finanziamenti che dello scambio di informazioni; servono inoltre strumenti legislativi e fiscali. Bisogna altresì tener presente la necessità di agire con grande discernimento, individuando le eco-tecnologie veramente promettenti per evitare sprechi nei finanziamenti. I diversi strumenti finanziari, fiscali e normativi contemplabili corrispondono di fatto a diverse tappe nell’attuazione delle eco-tecnologie innovative: gli aiuti alla ricerca, gli studi di fattibilità, gli incubatori di imprese, il capitale di rischio per la fase di avviamento, i prestiti agevolati o classici per la fase di sviluppo, gli incentivi fiscali per il consolidamento del mercato, le eco-tasse come deterrente all’utilizzo di tecniche poco rispettose dell’ambiente, quando si dispone di tecniche alternative, e al fine di contribuire alla ricerca ambientale. Vanno inoltre sviluppate le reti di scambio e di informazione sulle migliori pratiche e sulle nuove tecnologie. Si tratta di un aspetto particolarmente importante sia per gli imprenditori che per i responsabili degli enti pubblici, che hanno bisogno di un ausilio

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valido ed efficace per il processo decisionale onde scegliere con cognizione di causa tra tecniche tradizionali e collaudate, e dunque rassicuranti, e tecniche nuove, più rispettose dell’ambiente ma meno note e meno testate. Questo assume un’importanza particolare se si deve fare degli appalti, in particolare pubblici, uno strumento di diffusione e sviluppo delle eco-tecnologie. Alcune imprese hanno già introdotto il rispetto dello sviluppo sostenibile nell’elenco dei criteri di selezione dei fornitori, adottando, appunto in materia di sviluppo sostenibile, clausole standard che vengono progressivamente integrate nei contratti con i fornitori. Hanno inoltre messo a punto corsi di formazione per educare allo sviluppo sostenibile i loro uffici acquisti. È infine necessario utilizzare l’etichettatura ecologica e tutti i sistemi di premi e ricompense per valorizzare e promuovere l’uso delle eco-tecnologie e creare un vero e proprio mercato. È chiaro che se le tecnologie ambientali consentiranno effettivamente di ridurre i costi di produzione grazie ad un minore consumo di energia e di materie prime, migliorare l’immagine dell’impresa e dei suoi prodotti, aumentare le vendite e ridurre i costi ambientali, esse attireranno l’interesse delle imprese, che allora ne garantiranno lo sviluppo. Ma per far ciò bisogna che le imprese le conoscano e siano in grado di apprezzarne l’efficacia attraverso una vera rete di informazione e di scambio sulle migliori pratiche e sulle tecnologie ecologiche, cui potrebbero essere associate le amministrazioni pubbliche, le associazioni professionali, i centri tecnici e i centri di ricerca. Se la mobilitazione degli imprenditori e dei professionisti è una necessità, quella dei clienti e dei consumatori lo è altrettanto: senza di loro non vi è infatti un mercato. Le eco-tecnologie devono dunque apparire efficaci al grande pubblico dal punto di vista sia della tutela dell’ambiente che della produzione, altrimenti resteranno un elemento marginale, dello sviluppo economico. Allo stesso modo, le conseguenze sociali delle norme ambientali e dell’introduzione delle nuove tecnologie vanno anticipate prevedendo una formazione professionale che consenta al personale che dovrà applicarle di farlo nelle migliori condizioni senza rischiare il posto di lavoro. Grazie alle sue specifiche competenze nel settore delle ecotecnologie, l’Unione europea può diventare un partner privilegiato dei paesi emergenti e approfittare dell’opportunità di aprirsi nuovi mercati.

ECO-EFFICIENZA, TECNOLOGIA E SOSTENIBILITÀ di Toni Federico

Il mediatore tra crescita economico-tecnologica e sviluppo sostenibile è l’eco-efficienza. Si tratta di un concetto complesso con articolazioni in tutti i settori delle attività umane che sposta il centro dell’attenzione dalla protezione dell’ambiente in quanto tale, tradizionalmente riferita al contenimento delle emissioni e dei rifiuti entro i termini della resilienza degli ecosistemi, all’uso sostenibile delle risorse naturali e dell’energia. Un modello diffuso e condiviso dell’attività industriale la interpreta come processo lineare di trasformazione delle risorse naturali in emissioni e rifiuti, attraverso la produzione ed il susseguente consumo di prodotti e servizi. Il ciclo industriale produce valori aggiunti che incrementano il capitale finanziario e accresce il capitale tecnologico composto da macchine ed infrastrutture. L’attività industriale accresce le

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capacità e le conoscenze delle persone, il capitale umano, cui fornisce beni e servizi, e gli aggregati sociali relativi all’organizzazione ed alla governance, il capitale sociale. Questa visione ha in primo luogo modificato le metodologie stesse della protezione dell’ambiente ancorandole sempre più solidamente all’analisi dei cicli di vita dei prodotti industriali e dei servizi, quelli che sono gli scopi ultimi di tutto il ciclo industriale. In secondo luogo ha fornito un modello di analisi della sostenibilità basato sulla rinnovabilità tendenziale dell’input e sulla riduzione tendenziale delle emissioni e dei rifiuti (output), dettate entrambe dai limiti delle risorse naturali e della carrying capacity ecosistemica. Condizione necessaria (non sufficiente) per lo sviluppo sostenibile della produzione e del consumo è il disaccoppiamento dei parametri input-output dai parametri della crescita economica. Si tratta di fare di più con meno, di sostituire le risorse non rinnovabili, di ridurre-riciclare le emissioni ed i rifiuti, in sostanza di aumentare sistematicamente quella che abbiamo chiamato eco-efficienza. L’eco-efficienza si misura dunque in termini di rapporto tra servizi prodotti (le definizioni possono variare nei diversi contesti) e carichi generati sull’ambiente e sulle risorse:

eco-efficienza = e-e = Output/Pressione sull’ambiente

Ad esempio, per il caso delle emissioni, possiamo scrivere: Emissioni = Output/ Eco-efficienza

Quindi, se le variazioni sono piccole10: Crescita delle emissioni (%) = Crescita output (%) — Crescita di eco-efficienza (%)

Se dunque supponiamo, più o meno ottimisticamente, che nella media del sistema industriale la produzione di servizi sia destinata a crescere nel medio termine, è subito visto il ruolo strategico dell’eco-efficienza che, se le emissioni non devono aumentare, deve accrescersi percentualmente più della produzione. Si definisce disaccoppiata un’economia in cui l’incremento dell’eco-efficienza prevale su tutti i fattori della crescita economica mentre se, pur crescendo, non può contrastare che parzialmente la crescita dell’output industriale, il disaccoppiamento sussiste ancora ma è soltanto relativo. È di grande importanza esaminare i determinanti dell’eco-efficienza, in particolare l’accrescimento tecnologico (l’innovazione), l’efficacia delle politiche ambientali, la competitività sui mercati, la qualità del management industriale, in particolare in materia di investimenti e di uso delle risorse. Il consumo industriale di risorse naturali e di energia è legato a numerosi fattori:

Innovazione. Il miglioramento dei processi e dei prodotti riduce nel tempo il consumo di risorse. Molto raramente questo tipo di innovazione può essere perseguito senza modificare sostanzialmente macchinari e processi, cosa che richiede una sostanziosa politica di investimenti.

10 Si effettuino le derivate logaritmiche

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Prezzo delle risorse. La crescita di questi prezzi favorisce la sostituzione delle risorse ed incentiva le alternative, ove possibile anche aumentando il ricorso al capitale finanziario ed a nuova occupazione.

Eliminazione degli sprechi. Lo spreco di risorse si riduce per effetto della competizione sui mercati e dell’efficienza organizzativa interna delle imprese.

Sfruttamento delle capacità produttive. A breve termine se la congiuntura impedisce alle macchine di lavorare a pieno carico e alle infrastrutture di dare il contributo per le quali furono progettate, peggiora l’efficienza di uso delle risorse, in particolare dell’energia.

Le politiche pubbliche possono avere buoni effetti sull’uso delle risorse in molti modi: modulando i prezzi con la tassazione indiretta, favorendo la competizione e l’accesso di nuovi soggetti industriali, sviluppando tutte le riforme del mercato che ne eliminano le distorsioni, a partire dalla ricostituzione dei costi esterni. Le politiche pubbliche possono incentivare la qualità ambientale delle imprese promuovendo la ricerca e la applicazione delle tecnologie ambientali e promuovendo i sistemi di gestione ambientale come EMAS e ISO 14001. Sono egualmente efficienti politiche pubbliche coerenti ed intransigenti in favore dell’adozione e dell’applicazione delle leggi e dei regolamenti ambientali. In molti casi le obbligazioni ambientali favoriscono le trasformazioni interne del management industriale che conseguono dalla nuova organizzazione ed dai nuovi investimenti messi in campo. Queste trasformazioni possono comportare:

Miglioramento dei processi produttivi. Sostituzione delle risorse. È il caso della sostituzione del carbone e del

petrolio con il gas naturale e le fonti rinnovabili nella produzione di energia elettrica.

Uso di altre materie prime e adozione di nuovi processi. È il caso del pretrattamento dei materiali della sostituzione di parti del processo, del recupero di materia, di acqua e di energia in uscita dal ciclo.

Miglioramento tecnologico nei cicli a valle. È il caso dei filtri de-nox e de-sox applicati agli effluenti gassosi, che però, in qualche caso, possono ridurre alcuni parametri dell’efficienza tecnologica.

Miglioramento della gestione delle risorse e riduzione degli sprechi. Le fattispecie industriali, ambientali e sociali sono però molto differenziate e complesse. Ad esempio le emissioni serra non possono essere controllate con interventi a valle del ciclo. Si richiede pertanto la sostituzione delle fonti energetiche e il miglioramento della efficienza energetica delle fonti primarie. I processi di combustione, specifici e concentrati, per altro verso sono molto più facilmente assoggettabili a controlli e misure e possono essere resi ambientalmente più efficienti. Molto più difficile controllare le emissioni dirette nell’ambiente dei processi industriali diffusi e quindi molto più difficile utilizzare strumenti di regolazione del mercato come l’emission trading che consente di ottenere la riduzione di emissioni a costo minimo e di incentivare le aziende ambientalmente più virtuose. . L’OECD ha studiato a fondo i problemi dell’eco-efficienza e da qualche anno pubblica sistematicamente i dati e gli indicatori necessari per seguire l’evoluzione mondiale dell’efficienza ecologica. I rapporti più recenti giungono alla conclusione che i livelli “target” di eco-efficienza, necessari per ottenere la sostenibilità, non

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potranno essere raggiunti solo con la tecnologia, cioè sviluppando nuove macchine e nuovi dispositivi. Occorrono una sostanziale innovazione sociale, nuovi modi di usare prodotti e servizi, nuovi tipi di cooperazione, nuovi stili di vita e nuovi modelli di consumo.

I FATTORI DELL’ECO-EFFICIENZA SECONDO HERMANN DALY Efficienza nell’uso delle risorse vuol dire capacità di produrre il massimo valore o utilità a parità di risorse naturali utilizzate. È molto comune utilizzare misure monetarie di utilità che perdono di vista qualsiasi tipo di utilità sociale o ambientale, salvo nel caso che a queste ultime sia stato attribuito qualche tipo di valore di mercato. Utilizzando moneta non si potrà dare alcun valore alla preservazione dei servizi naturali ovvero all’equità di accesso ai medesimi, per non citare che due tra gli esempi di questioni che contano nelle dimensioni ambientale e sociale della sostenibilità. Un uso efficiente delle risorse naturali consente una maggiore produzione a parità di risorse utilizzate. L’efficienza può dunque ridurre la domanda di una risorsa e ridurne pertanto il prezzo di mercato. Il costo dei prodotti diminuisce esso stesso. Alla fine il miglioramento dell’efficienza potrebbe dunque tradursi in un maggiore piuttosto che in un minore uso delle risorse stesse. Con ciò si dimostra che non è opportuna una visione meramente economicistica dei processi produttivi e che è quindi necessaria una guida complessiva al governo dei processi che punti alla sostenibilità inglobando i fattori sociali ed ambientali del sistema produzione-consumo. Ciò si ottiene ad esempio assumendo che il fine dell’economia non sia una produzione comunque crescente ma la fornitura di servizi11. Per servizio si intende il soddisfacimento di bisogni attraverso beni materiali e immateriali di origine commerciale ma anche di origine naturale o sociale. Nella misura in cui tali beni richiedono trasformazioni che vengono eseguite su risorse naturali, in particolare se si tratta di risorse non rinnovabili o difficilmente rinnovabili, si parla di eco-efficienza dell’economia misurando gli importi di risorse naturali dissipate per la fornitura di un determinato servizio. Queste argomentazioni conducono ad una interessante analisi dei fattori dell’eco-efficienza, qui delineata con riferimento ai servizi forniti dai processi industriali per il tramite delle macchine e della tecnologia, ma riproducibile anche per servizi di altro tipo con una opportuna ridefinizione dei parametri in gioco. I processi industriali trasformano risorse naturali, materia ed energia, umane, lavoro e know-how, e sociali, strutture e governance, in servizi. Vi è dunque spazio per una definizione di efficienza generale di sistema riferita a tutte le risorse impiegate per unità di servizio resa. L’efficienza tecnologica si valuta rispetto ai flussi materiali:

efficienza tecnologica = eT = Servizi/Flussi Materia+Energia = Servizi/ FME

La erogazione di servizi si fa mediante merci (beni commerciali), macchine (beni strumentali) e tecnologie (beni intellettuali, know-how), il cosiddetto capitale man-made, MMC. Se scriviamo la seguente identità:

11 H. Daly; J. Farley; ”Ecological Economics: principles and applications”; Island Press; 2004

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eT = Servizi/ FME = Servizi/ MMC * MMC/FME = efficienza di servizio * durabilità

vediamo che si può avere crescita economica senza efficienza, più servizi con maggiori flussi materiali, per effetto di un cattivo uso delle risorse, ma, al contrario, si può avere crescita a parità di flussi materiali migliorando i due fattori a secondo membro: più servizi per unità di capitale tecnologico (MMC), più tecnologia, macchine e beni a parità di flussi materiali necessari per produrli, riprodurli e conservarli (FME). L’efficienza si manifesta dunque in entrambi I fattori: nella qualità delle macchine e dei beni, cioè nella loro capacità di servizio, quanto nell’economia di materia ed energia nelle fasi della produzione industriale e degli scambi commerciali12. Definiamo sviluppo sostenibile dell’industria un aumento della qualità dei servizi resi in maniera equa e sufficiente in assenza di crescita dei flussi materiali. Lo sviluppo è dunque crescita efficiente, come già messo in evidenza nell’introduzione. La crescita economica senza sviluppo può sussistere laddove il concetto di efficienza venga violato, mettendo a rischio le basi naturali di tale crescita. Al concetto di eco-efficienze si può giungere con naturalezza mettendo in conto i servizi naturali che vengono sacrificati (consumati) per garantire i flussi necessari alla produzione. In questa parte del processo possono adeguatamente essere valorizzate le risorse rinnovabili che possono essere tolte dal conteggio dei consumi di risorse naturali. Si può scrivere:

eco-efficienza = e-e = eT * eN = Servizi resi/ Servizi naturali perduti =

= Servizi/ MMC * MMC/FME * FME/Nstock * Nstock / NSflow =

eservizio * durabilità * ecoltivazione * eecosistemica Il terzo termine, l’efficienza di coltivazione, dà la misura della capacità di accrescere il capitale naturale per i raccolti e per lo sfruttamento, cioè della capacità di fornire materia ed energia per gli usi antropogenici, senza degradare lo stock della risorsa. Dà una misura dell’efficacia tecnologica dell’uso delle risorse naturali. Il quarto termine rende conto dell’entità dei servizi naturali che vanno perduti per la costituzione degli stock di risorse che si rendono necessari per assicurare gli adeguati flussi di materia e di energia alla produzione ed al consumo. Dà una misura dell’efficacia ecologica della catena industriale. Il suo inverso è una misura della pressione esercitata sull’ambiente per effetto delle attività antropogeniche.

CRESCITA ED ECO-EFFICIENZA L’impatto globale ecosistemico di una attività produttiva può essere espresso in termini di eco-efficienza mediante la ben nota master equation IPAT che, in realtà, è una identità:

I = Impatto totale = output / eco-efficienza =

12 Secondo i teorici della sostenibilità debole il secondo termine MMC/FME può essere aumentato sostituendo parzialmente materia ed energia con prodotti tecnologici. Per effetto della sostanziale complementarità tra i due termini MMC ed FME la sostituibilità è nei fatti impossibile per i sostenibilisti forti.

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= popolazione * output pro capite / pressione ambientale/output =

popolazione * affluenza / eco-efficienza = P A T

dove T = e-e-1; e dove come misura di output il più delle volte si usa il PIL. Quest’ultima scelta oltre che non necessaria è fuorviante perché, come più volte si è ripetuto, si tratta di una cattiva misura del welfare che dovrebbe essere sostituita da altre misure comprensive di qualche elemento almeno della qualità sociale e ambientale se non della sostenibilità in quanto tale. Appare ben evidente che, per mantenere gli impatti ecosistemici a qualsiasi scala, locale, regionale o globale, al di sotto della carrying capacity, ovvero entro i limiti della resilienza dell’ecosistema stesso, il termine I dell’impatto generale deve essere quanto meno non crescente. La relazione IPAT sopra scritta è in realtà molto semplicistica perché è indipendente dal tempo. Sappiamo invece che, per effetto della dinamica dei sistemi, pressioni ed impatti non sono affatto proporzionali, si pensi alla concentrazione di gas serra in atmosfera rispetto alle emissioni, cui sono legate da relazioni dinamiche nelle quali la concentrazione risponde in ritardo alle emissioni, con costanti di tempo di decine di anni, tanto che per rendere non-crescente la concentrazione occorre ridurre grandemente le emissioni piuttosto che semplicemente stabilizzarle. Si veda a tal proposito la bella trattazione prodotta nel terzo Assessment Report della IPCC alla Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici. Qual è il potenziale di controllo sugli effetti ambientali totali dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico? Se si accolgono le istanze dei sostenitori della crescita, quanto meno della crescita dell’affluenza A, cioè della disponibilità individuale del welfare, il termine A deve essere lasciato libero di crescere. La popolazione dei consumatori P, ancora in pericolosa crescita a livello mondiale può al più essere considerata stabile nei paesi occidentali industrializzati13. Ne consegue che le possibilità di controllo, e con esse le chance che possono essere attribuite allo sviluppo sostenibile, sono tutte contenute nel termine T, cioè nello sviluppo tecnologico, e quindi sostanzialmente nella possibilità di migliorare l’eco-efficienza. La scuola europea degli economisti cresciuti attorno al Wuppertal Insitut ed al suo leader Von Weizsacker, oggi parlamentare della Repubblica Tedesca, ritiene che sia possibile entro tempi ragionevolmente brevi raddoppiare tale efficienza.ed anche che sia possibile dematerializzare l’economia riducendo alla metà i flussi di materia, acqua ed energia verso l’antroposistema. È la ben nota teoria del Fattore 4 che la pubblicistica dell’istituto accompagna con cospicui e significativi esempi di successi già conseguiti e di buone pratiche in atto. È stato eseguito un calcolo dei fattori IPAT per l’ipotesi del conseguimento del raddoppio dell’eco-efficienza in 25 anni con una crescita combinata di welfare e di popolazione del 2,5% per anno. I risultati in figura1, calcolati per la crescita del solo

13 Si tratta di una questione assai delicata che impatta su fattori etici che non possono essere qui considerati. Non è nemmeno chiaro in definitiva se sia accettabile la non-crescita della popolazione P nei paesi ricchi. Infatti una più che probabile correlazione tra popolazione e crescita, tra P e A, secondo i più sconsiglia il ricorso alla de-natalità come soluzione ai problemi dello sviluppo. Si consideri che la correlazione tra i fattori della master equation esiste assai probabilmente per tutti e tre.

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PIL (GDP), mostrano che l’impatto globale, come è piuttosto evidente, riprende a crescere se il miglioramento dell’eco-efficienza non viene più oltre implementato. Questo esempio semplice, ma altri se ne potrebbero fare, mostra che l’equilibrio tra i fattori dello sviluppo è molto delicato. Ci sono dispute attorno al concetto di crescita, alla questione molto presidiata della crescita economica che, indubbiamente, ha un ruolo rilevante, regolato dai suoi ben conosciuti parametri monetari, PIL, valore aggiunto, produzione industriale, gettito fiscale, etc. specialmente nei momenti più acuti di crisi economica come quello che l’Italia sta attraversando. E però ormai da tutti accettato che esistono altri tipi di crescita, dove contano fattori sostanziali di tipo sociale, occupazione, diritti civili, salute, sicurezza, cultura e ambientale determinati dalla qualità intrinseca dell’ambiente e dalla qualità dei servizi che l’ambiente rende all’uomo in termini di aria, acqua, territorio, paesaggio etc. Tutti i tipi di crescita hanno impatti aggiuntivi sul proprio dominio, economia, società ed ambiente ma anche sugli altri. Quello che conta per determinare le condizioni che chiamiamo di sviluppo sostenibile è che qualsiasi tipo di dinamica, sia crescita o altro, non superi e comprometta la resilienza globale dell’ecosistema di cui va considerato parte, evidentemente, l’uomo con le sue città, le sue infrastrutture e i suoi consumi. Fig. 1 Effetto della crescita sugli impatti ambientali per mancato sviluppo della eco-efficienza

anni

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Si potrà obiettare a proposito dell’imprecisione di questi concetti, ma una cosa certa ed accettata è che la resilienza è una risorsa viva, ricca ed attiva della dinamica degli ecosistemi ma è limitata e pertanto tendenzialmente scarsa a fronte di parametri esasperati delle crescita delle varie tipologie. A ben riflettere si tratta ancora una volta di comprendere bene quale tipo di percorso si vuole fare e di non scambiare i mezzi con i fini. La crescita di questo o quel parametro non è un fine, pur se può essere scambiato per tale sul breve periodo, ovvero per insipienza. Il fine è la sostenibilità con la quale la crescita può essere certamente compatibile in ogni sua dimensione, purché la sostenibilità non ne risulti violata. Chiameremo dunque sviluppo sostenibile qualsiasi dinamica economica, sociale o ambientale che non comprometta la sua stessa riproducibilità nel tempo, l’accesso equo ai suoi benefici e la preservazione dell’ambiente naturale come produttore di servizi per l’uomo ma anche come entità a sé, dotata di un pari diritto di conservazione. I parametri della crescita, dell’efficienza, dell’innovazione, della produttività etc. sono dunque parametri interni all’obiettivo dello sviluppo sostenibile, parametri, controllabili, plastici, adattabili, strumenti ma non necessariamente finalità dell’azione politica. La tecnologia, della quale la eco-efficienza è un parametro cardinale, è un indispensabile fattore della sostenibilità, ma può non bastare. Scrive Allenby (1999): “… I cittadini e la società non devono essere lasciati con la impressione che semplicemente affidandosi alla tecnologia sarà possibile evitare la responsabilità di assumere decisioni importanti per il proprio futuro… e per la sostenibilità” ed Ayres (1998): “… i livelli più alti di eco-efficienza messi possibilmente in campo dalle compagnie industriali possono non garantire la sostenibilità …” senza (Graedel; 2000): “… transizioni tecnologiche e sociali che indispensabilmente saranno molto più che semplici perturbazioni …”. Il miglioramento dell’eco-efficienza, senza una visione adeguata dei fini, può paradossalmente dimostrarsi inefficiente laddove la riduzione dell’impiego di risorse, e la riduzione conseguente dei prezzi di mercato, si risolve in un incentivo alla crescita dei consumi di beni e di servizi, fino al punto che i flussi materiali complessivi crescono ulteriormente. Ciò sta effettivamente accadendo in tutti i paesi industrializzati. Le cifre dei flussi materiali di Stati Uniti Giappone Olanda e Germania mostrano (Ehrlich; 1999) negli ultimi vent’anni un aumento del 30% circa mentre tutte i parametri di intensità di uso di energia e materiali si riducevano di circa altrettanto. È dunque in corso un processo effettivo di dematerializzazione dell’economia e dei consumi, con un imponente avanzamento dell’eco-efficienza, ma si tratta di una dematerializzazione relativa, molto più che compensata dall’accesso ai consumi, A, e, certamente almeno negli Stati Uniti, dalla crescita demografica, P, sostanzialmente sotto controllo in Europa. La tendenza a consumare più risorse è evidentemente aggravata dalla pervasività dei modelli di consumo occidentale, che tendono a trasferirsi per imitazione alle popolazioni in via di sviluppo, anche quando, come oggi accade, sono al di sopra delle effettive necessità.

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Il miglioramento dell’eco-efficienza, per effetto combinato dell’innovazione tecnologica e del progresso nel management delle risorse, ha dunque promosso la crescita senza smettere di erodere le basi materiali della sostenibilità.

Fig. 2 La visione dell’eco-efficienza del WBCSD, World Business Council for Sustainable Development

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ECOLOGIA INDUSTRIALE Principi, sviluppi e possibili proposte programmatiche

di Maurizio Cellura

Il quadro evolutivo delle strategie di eco-sostenibilità è fortemente incentrato sul binomio parallelo “opportunità economiche – sviluppo sostenibile”, dalla attuazione del quale scaturirà “un potenziale per una nuova ondata di innovazione tecnologica e di investimenti, generatrice di crescita e di occupazione”14. Più in dettaglio, nel contesto europeo è sempre più enfatizzato il concetto di eco-efficienza (“dissociare crescita economica e sfruttamento delle risorse”) da attuare in stretta cooperazione con il tessuto imprenditoriale, si sottolinea il ruolo industriale nell’adozione di tecnologie a ridotto impatto ambientale per promuovere crescita e occupazione, si evidenzia la necessità di compendiare le esternalità ambientali nella formazione dei prezzi di beni/servizi da acquistare15. La chiave del modello di sviluppo delineato dalle strategie anzidette è fondata sulla qualità, che deve estrinsecarsi nella dimensione economica non meno che in quella sociale ed ambientale, adottando la “Triple Bottom Line”, che si basa sul principio che il “welfare” sia il prodotto del successo economico-finanziario non meno che della qualità etico-sociale ed ambientale di ogni impresa. Secondo la Commissione Europea16 l’esperienza dimostra che le politiche ambientali e la modernizzazione ecologica promuovono tanto la crescita quanto lo sviluppo, preservano ed incrementano l’occupazione, contribuiscono alla competitività, creano nuova conoscenza e nuove professioni. La Politica Integrata di Prodotto17, IPP, testimonia la significativa attenzione della Commissione europea nel promuovere lo sviluppo di un mercato di prodotti più ecologici. La Commissione individua come principale obiettivo delle politiche integrate di prodotto quello di “ridurre l'impatto ambientale dei prodotti lungo l’intero ciclo di vita, ricorrendo, ove possibile, ad un approccio orientato al mercato, nel quale integrare le considerazioni relative alla competitività. La politica integrata dei prodotti favorirà infatti una maggiore coerenza degli interventi, sia all’interno del ciclo di vita sia tra i vari strumenti di azione, rafforzando in tal modo la competitività delle imprese”18. I prodotti e i servizi del futuro dovranno utilizzare minori risorse,

14 Consiglio Europeo di Goteborg, Conclusioni della Presidenza, 15-16 giugno 2001, Bollettino 18/6/2001 IT 15 Il Consiglio europeo di Goteborg ha altresì individuato, come orientamento generale, una serie di obiettivi e misure per il futuro sviluppo di politiche in quattro settori prioritari: cambiamenti climatici, trasporti, sanità pubblica (sicurezza e qualità dei prodotti alimentari) e risorse naturali. In tale consesso è stata riaffermata la determinazione a rispettare l’obiettivo di produrre elettricità da fonti energetiche rinnovabili entro il 2010 per il 22% del totale lordo a livello comunitario, si è sottolineata la necessità di scindere significativamente il binomio tra crescita dei trasporti e crescita del PIL - in particolare passando dai trasporti su strada ai trasporti su rotaia e su vie navigabili e ai trasporti pubblici di passeggeri- e di attenuare il trend di proporzionalità tra crescita economica, consumo di risorse naturali e produzione di rifiuti. La forte crescita economica deve andare di pari passo con un utilizzo delle risorse naturali e una produzione di rifiuti che siano sostenibili, salvaguardando la biodiversità, preservando gli ecosistemi ed evitando la desertificazione 16 EC; “2004 Environmental Policy Review”; {SEC(2005)97} 17 vedi scheda IPP nel Rapporto 18 COM (2003) 302 def., pag.6

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presentare un minore impatto e rischi inferiori per l'ambiente ed evitare la produzione di rifiuti fin dalla fase di progettazione (Eco-design). Per ciò che concerne l’integrazione degli aspetti ambientali nelle politiche comunitarie, si sottolinea la necessità di promuovere un’impostazione integrata di coesione territoriale19. Si ritiene infatti che “ la politica di coesione può contribuire alla creazione di comunità sostenibili in quanto permette di affrontare le questioni economiche, sociali e ambientali attraverso strategie integrate di rinnovamento, recupero e sviluppo delle zone urbane e rurali20”. Da quanto sinteticamente descritto in precedenza appare chiaro come gli scenari di politica ambientale che si stanno configurando siano caratterizzati dal tentativo prioritario di rafforzare le sinergie tra la tutela dell’ambiente e la crescita economica. Per perseguire strategie di eco-efficienza e di sostenibilità in riferimento all’obiettivo di convergenza21 sarà pertanto necessario concentrarsi sugli investimenti e sui servizi collettivi nel settore ambientale, fornendo servizi alle PMI dei settori ritenuti nevralgici per lo sviluppo.

ECOLOGIA E STRATEGIE DI ECO-EFFICIENZA INDUSTRIALE L’Ecologia Industriale nasce come disciplina scientifica con l’obiettivo principale di ridurre gli impatti antropici sulle risorse naturali prendendo a modello i fenomeni di riciclo caratteristici degli eco-sistemi naturali. Per orientare le strategie industriali verso un approccio eco-orientato bisogna intervenire sui processi produttivi minimizzando l’impiego di input di massa ed energia e riducendo i reflui di processo, anche attraverso un re-impiego in altri sistemi produttivi (simbiosi industriale). Un paradigma di indirizzo consiste nel considerare le imprese come sistemi interconnessi di un tessuto produttivo a scala maggiore. A differenza dell’approccio tradizionale alla gestione ambientale, incentrato sulle singole organizzazioni, l’ecologia industriale presuppone un “approccio sistemico”22 nell’analisi delle attività industriali: piuttosto che agire sulla produzione di rifiuti di una singola azienda potrebbe, infatti, essere più economico o “ecologicamente” conveniente agire per minimizzare i rifiuti del sistema produttivo indagato nel suo complesso.

Evoluzione dei principi dell’ecologia industriale I sistemi produttivi non possono raggiungere la “perfezione” dei sistemi naturali in termini di riciclo degli scarti; possono, però, tendere a migliorare il tasso di utilizzo delle risorse e parimenti ridurre le emissioni inquinanti e la produzione dei rifiuti. 19 Fonte: COM (2005) 299, 5/7/2005, Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013 20 COM (2005) 299, 5/7/2005, “Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013” 21 COM (2005) 299, 5/7/2005, “Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013”, pag. 9 22 L'approccio sistemico si propone come una metodologia generale e non riduzionista per la comprensione dei sistemi. Il riduzionismo propone di suddividere un problema in sottoproblemi che vengano separatamente risolti. All'opposto, i sistemisti affermano che un sistema deve essere prima compreso come entità globale, nella speranza che nel contento di questa entità i sottoproblemi diventino risolvibili [J. Jolion. “Computer vision methodologies”; 1994].

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L’obiettivo prioritario è ovviamente quello di migliorare le prestazioni ambientali dei sistemi stessi. L’ecologia industriale inizia a svilupparsi negli anni ’70 come una raccolta di principi, pratiche e proposte che le aziende adottavano per rendere più ecologici i loro processi; ma solo alla fine degli anni ’80 essa venne rielaborata divenendo una vera e propria disciplina scientifica. Una delle prime definizioni è quella formulata dall’IEE (Institute of Electrical and Electronic Engineers) che definì l’ecologia Industriale come “lo studio multidisciplinare dei sistemi economici ed industriali e dei loro legami con i sistemi naturali fondamentali”. Tale disciplina stabilisce i principi scientifici e teorici sui quali basare la comprensione ed il miglioramento delle pratiche produttive attuali. ”Semplificando, l’ecologia industriale può essere pensata come la scienza della sostenibilità”23. La vecchia mentalità del credere che la “diluizione sia la soluzione all'inquinamento” è stata ormai superata. I prodotti devono essere progettati imponendo ai produttori il controllo dei rifiuti generati all'interno dello stesso processo di produzione. Inoltre non si deve rivolgere l’attenzione alla gestione dei rifiuti solo a produzione ultimata: “quando il prodotto è commercializzato il margine di manovra per migliorarne le caratteristiche ambientali è relativamente esiguo”24. Questo significa passare da un "design finalizzato alla sola produzione, ad un design finalizzato alla produzione, alla scomposizione e al riciclaggio". Applicata al settore produttivo, l’ecologia Industriale concepisce il sistema industriale in stretta connessione con l’ambiente circostante, in un rapporto di reciproca interdipendenza. I principi di tale disciplina possono essere così riassunti:

i prodotti, le attività e i servizi possono produrre residui, ma non rifiuti; le industrie dovrebbero far uso della minor quantità possibile di risorse di

materia ed energia nei loro prodotti, nelle loro attività e nei servizi; le industrie dovrebbero ricavare i materiali necessari alla produzione da

operazioni di riciclo piuttosto che dall’estrazione diretta di materie prime; ogni prodotto o attività dovrebbe essere progettato in modo tale da ottimizzare

la possibilità d’uso dei materiali, ad esempio mediante il prolungamento della vita utile del prodotto o il riciclo di tutte le sue componenti;

ogni prodotto dovrebbe essere progettato per ricavare altri prodotti utili alla fine del suo ciclo di vita.

ogni attività, ogni infrastruttura o insediamento industriale dovrebbe essere progettato, costruito o modificato allo scopo di mantenere inalterati gli habitat naturali e la diversità di specie, e ridurre al minimo gli impatti sulle risorse ambientali.

deve essere incentivata la promozione di ecosistemi industriali, cioè di raggruppamenti di industrie, ognuno dei quali utilizza, proprio come un ecosistema naturale, i prodotti di scarto delle altre, al fine di ridurre i consumi

23 IEE; “White Paper on Sustainable Development and Industrial Ecology”; Tab. Environment, Health

and Safety Committee; 1992. 24 EC; “Libro Verde sulla Politica Integrata di Prodotto (IPP)”, Bruxelles 7/02/2001

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energetici dei processi produttivi e minimizzare i costi di utilizzo delle materie prime.

Lo sviluppo dei sistemi eco-industriali è un’evoluzione dei principi della Politica Integrata di Prodotto sviluppati per la promozione nel mercato di prodotti più ecologici. Il nuovo approccio nella valutazione dei sistemi industriali include dunque due strategie complementari:

una strategia basata sull’analisi del prodotto lungo tutto il suo ciclo di vita (Life Cycle Assessment - LCA) che permetta di valutare gli impatti sull’ambiente delle diverse fasi, dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento finale;

una strategia basata sulla simbiosi industriale che focalizza la sua attenzione sugli impianti fissi ed i processi produttivi al fine di migliorarne l’efficienza energetica e valutare la possibilità di riconsiderare gli “scarti” industriali come prodotti intermedi e possibili input per altri processi.

APPLICAZIONI DELL’ECOLOGIA INDUSTRIALE A LIVELLO INTERNAZIONALE Lo scopo dell'ecologia industriale può essere definito dal motto della ZERI (Zero Emission Research Initiative) un'associazione finanziata dall'UNU (Università delle Nazioni Unite) e presieduta dall'imprenditore belga Gunther Pauli25: "non aspettiamoci che la terra produca di più, ma cerchiamo di produrre di più con quello che la terra già ci offre". L'attività della ZERI è diretta alla promozione di ecosistemi industriali, cioè di raggruppamenti di industrie ognuna delle quali utilizza, proprio come in un ecosistema naturale, i prodotti di scarto delle altre, cercando di eliminare del tutto la produzione di sostanze inquinanti e mirando all'“emissione zero”, come appunto viene definita, e compatibilmente con l’obiettivo economico di massimizzazione dei profitti. Uno dei primi esempi di applicazione dei principi dell’Ecologia Industriale è la città danese di Kalundborg. L'ecosistema industriale di questo piccolo paese si è sviluppato gradualmente ed organicamente negli ultimi decenni. Le rigide norme di tutela ambientale del nord Europa e il diminuito spazio disponibile per le discariche stimolarono le aziende a trovare impieghi alternativi ai loro materiali di scarto. Dopo i primi esperimenti avvenuti qualche decennio fa, i risultati ottenuti a Kalundborg sono stati sorprendenti: in tale area industriale si sono ottenuti cospicui abbattimenti delle emissioni in atmosfera e notevoli riduzioni della produzione di rifiuti e del consumo di risorse.

L’esempio di Kalundborg fu inizialmente interpretato come una risposta intelligente ai mutamenti legislativi in campo ambientale. In seguito si è compreso che il processo di simbiosi industriale avviato spontaneamente da queste imprese danesi ha rappresentato la prima applicazione concreta di un modello avanzato di ecologia industriale.

25 Il presidente e fondatore della ZERI, Gunther Pauli, è anche titolare della Ecover, la prima azienda ecologica del mondo che produce detersivi con materie prime di derivazione vegetale, 6000 volte meno inquinanti della media dei prodotti concorrenti.

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Il caso studio della città danese di Kalundborg Kalundborg è sede di quattro grandi industrie: la Asnaes Power Station (centrale elettrica a carbone), la Novo-Nordisk (fabbrica di enzimi e prodotti farmaceutici), la Gyproc (fabbrica di pannelli di carton-gesso) e la Statoil (raffineria). La Asnaes produce elettricità generando vapore utilizzato dalla Statoli e dalla Novo-Nordisk (che coprono così rispettivamente il 40% ed il 100% del loro fabbisogno di energia termica). Il resto del vapore è distribuito al settore della pescicoltura ed al settore dell’edilizia (si prevede che entro il 2005 tutte le abitazioni saranno riscaldate con questo sistema). In questo modo l'efficienza del carbone utilizzato dalla centrale elettrica è salita dal 40% a più del 90%. La Gyproc, invece, beneficia del vapore della Asnaes e del solfato di calcio prodotto dai suoi filtri installati per ridurre le emissioni di zolfo. Il gas, sottoprodotto del processo di raffinazione della Statoil, passa attraverso un processo di desolforazione dal quale esce lo zolfo solido (utilizzato dalla Kemira Acid, un’altra fabbrica danese) e il gas desolforato, utilizzato dalla Gyproc e dall’Asnaes. In questo modo l’Asnaes risparmia 30 mila tonnellate di carbone all'anno mentre la Gyproc copre il 95% del suo fabbisogno di gas. La Statoil destina le proprie acque di scarto all’Asnaes che le utilizza per il raffreddamento dei suoi boiler e coprendo così il 75% del suo fabbisogno idrico. La Novo-Nordisk fornisce inoltre gratuitamente i fanghi di scarto, ricchi di azoto, agli agricoltori locali che così arrivano a risparmiare circa $50.000 l'anno di fertilizzanti ciascuno.

L’idea di istituire all’interno di un’area industriale un fitto sistema di relazioni per il raggiungimento di obiettivi condivisi di performance ambientali ed economiche ha trovato da allora altre svariate applicazioni. In tutto il mondo si contano oggi decine di esperienze di parchi eco–industriali, concentrate soprattutto negli Stati Uniti. Una delle principali esperienze statunitensi avviata dall’EPA (Environment Protection) nel giugno del 1997 è il progetto “Industrial Ecosystem Development Project” per lo sviluppo di un ecosistema industriale nell’area industrializzata del North Carolina. Uno dei principali risultati è stata l’attivazione di proposte relative ai possibili re-impieghi delle materie presenti nelle aree e presso le imprese esaminate.

Alcune limitate iniziative sono state intraprese anche a livello italiano. L’ARPAT (Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana) ha presentato nel 2001 il programma denominato CLOSED (Closed Loop Management System, cioè Sistema di gestione a ciclo chiuso), cofinanziato per il 40% dall’Unione Europea nell’ambito dei progetti “LIFE”. Lo studio ha interessato i distretti produttivi di Prato (settore tessile), Pistoia (settore del flor-vivaismo) e Lucca (settore cartario) con lo scopo di realizzare in tali distretti un sistema di gestione delle attività industriali capace di ridurre fortemente la pressione antropica sul territorio, stabilendo un sistema di relazioni interaziendali fondato sulla gestione comune delle problematiche

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ambientali e incentrato sullo scambio dei materiali di scarto e sul loro re-impiego come materie prime all’interno delle filiere produttive (per questo denominato a “ciclo chiuso”).

Un’esperienza statunitense di ecologia industriale

Lo studio “Industrial Ecosystem Development Project” è stato avviato dall’EPA come un’indagine finalizzata ad individuare le potenzialità di riutilizzo dei sotto-prodotti industriali. L’interscambio e l’uso di tali prodotti secondari tra aziende limitrofe permettono non solo di risparmiare sui costi di materie prime, acqua ed energia, ma riducono anche la quantità di rifiuti prodotti e poi immessi nell’eco-sistema ricettore, favorendo un uso più consapevole e razionale delle risorse naturali. I risultati che tale progetto ha conseguito sono stati:

un ritorno economico per le istituzioni e le imprese; un sistema di informazione per le imprese circa le materie

riutilizzabili nell’area; l’identificazione di nuove opportunità d’impresa; l’individuazione di soluzioni per il risparmio energetico ed idrico.

Il progetto ha ricevuto il finanziamento dell’EPA assieme alla partecipazione finanziaria di altre organizzazioni locali (Università, enti di governo locali) e di imprese locali garanti del corretto funzionamento e della ricerca delle informazioni sul territorio. Le imprese selezionate per la ricerca delle informazioni rispondevano ai seguenti criteri:

consumi idrici elevati nel processo di produzione; possesso di rifiuti tossici e/o pericolosi; precedente partecipazione a programmi di prevenzione

dall’inquinamento; rappresentatività della tipologia di produzione nell’area.

Il campione di imprese selezionato consiste di circa 350 unità produttive. La fase di rilevazione dei dati ha avuto una durata di circa 1 anno al termine della quale sono stati definitivamente rilevati i dati di 182 imprese corrispondenti a circa il 53% del campione iniziale. Il progetto si è inoltre avvalso di un Sistema Informativo Geografico (GIS) che ha consentito di immagazzinare e visualizzare le innumerevoli informazioni rilevate circa i potenziali “serbatoi” di rifiuti da riutilizzare. La prossimità e la localizzazione delle imprese costituiscono i principali parametri di fattibilità economica degli scambi sul territorio. L’impiego del GIS si è inoltre rivelato un utile strumento per attivare il flusso di informazioni tra le imprese.

Il progetto ha coinvolto i tre distretti del tessile, cartario e vivaistico che per le loro prossimità territoriali e tecnologiche possono individuare e sviluppare un modello di politica ambientale integrato sull’intero territorio coinvolto, in grado di capovolgere le attuali diseconomie ambientali. Lo scopo del Progetto CLOSED è stato quello di aprire una nuova strada all’ecologia industriale attraverso la creazione di un Distretto

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Eco-Industriale (EID) connotando, in senso ambientale, le interrelazioni tra le attività produttive, le organizzazioni e le istituzioni locali ed evidenziando le conseguenti riduzioni di costo. Anche a livello legislativo nazionale sono stati previsti contributi ed agevolazioni per le imprese che decidano di investire nel settore ambientale e favorendo così lo sviluppo concreto di esperienze di ecologia industriale.

Legge n°598 del 27/10/94 - “Finanziamenti agevolati per innovazione tecnologica e tutela ambientale”. Le iniziative promosse dalla legge 598/1994 includono:

“installazioni di raccolta, trattamento ed evacuazione dei rifiuti inquinanti solidi, liquidi o gassosi;

installazione di dispositivi di controllo dello stato dell’ambiente; opere per la protezione dell’ambiente da calamità naturali; interventi per la razionalizzazione degli usi di acqua potabile e la

protezione delle fonti; laboratori ed attrezzature di ricerca specializzati nei problemi di protezione

dell’ambiente; fabbricazione di attrezzature ed apparecchiature destinate alla protezione

o al miglioramento ambientale; installazione di impianti ed apparecchiature antinquinamento in stabilimenti

industriali, sia volti alla riduzione delle immissioni nell’ambiente esterno di sostanze inquinanti, sia destinati al miglioramento diretto dell’ambiente di lavoro e della sicurezza contro gli infortuni;

conversione e modifica di impianti e/o processi produttivi inquinanti in impianti e/o processi produttivi sicuri;

eliminazione dell’impiego di sostanze inquinanti o nocive durante il ciclo produttivo”.

Al di là dei casi studio sviluppati e delle iniziative più o meno note e proficue, l'ecologia industriale rappresenta una materia ancora lontana dal suo completo sviluppo e moltissimi sono i problemi che l'applicazione dei suoi paradigmi metodologici comporta. In particolare, Braden Allenby, uno dei maggiori esperti in questo campo, suggerisce che le aziende dovrebbero concentrarsi più che sulla riutilizzazione dei propri scarti sulla riprogettazione dei propri prodotti in modo da renderli di nuovo utilizzabili anche dopo la fine del loro ciclo di vita. Lo stesso Allenby sottolinea come le materie prime siano attualmente utilizzate solo per il 10% del proprio potenziale produttivo e suggerisce di aumentare tale resa attraverso l'introduzione di nuove tecnologie o l'impiego di materiali più efficienti che contribuirebbero, in questo modo, a ridurre gli scarti della produzione e i problemi legati al loro smaltimento.

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POSSIBILI PROPOSTE PROGRAMMATICHE Di seguito vengono analizzate in dettaglio le possibili proposte programmatiche.

Realizzazione di aree ecologicamente attrezzate nelle zone industriali e artigianali Le aree industriali, spesso localizzate nelle zone suburbane delle città di dimensione medio-grandi, sono porzioni di territorio appositamente destinate agli insediamenti produttivi. Provviste di infrastrutture per consentire lo svolgimento delle attività produttive e di quelle loro collegate, esse possono essere equipaggiate con impianti centralizzati per il trattamento degli scarichi industriali, per la raccolta delle acque reflue, per l’abbattimento di vari inquinanti, per la gestione dei rifiuti, ecc. Le aree industriali così dotate tecnologicamente sono definite “aree ecologicamente attrezzate”26. Esse rappresentano un buon esempio di come intervenire per proteggere l’ambiente contro l’inquinamento, facendo leva su di un sistema ben consolidato di relazioni tra imprese che permetterebbe di sfruttare al meglio le sinergie che si verrebbero a creare e le evidenti economie di scala. Così facendo si potrebbero gestire in modo più efficiente ed ambientalmente compatibile le risorse ed i problemi ambientali. La presenza di aree industriali attrezzate rende inoltre possibile la realizzazione di impianti centralizzati di produzione dell’energia elettrica e di sistemi comuni di monitoraggio di dati ambientali. L’obiettivo dell’area industriale ecologicamente attrezzata è, quindi, quello di creare un insieme di aziende che operano in collaborazione per:

ridurre i consumi energetici dei processi produttivi e ottimizzare la gestione delle risorse energetiche;

minimizzare i costi di utilizzo delle materie prime; valorizzare dal punto di vista economico scarti di produzione altrimenti

destinati a diventare rifiuti. Le aree industriali ecologicamente attrezzate possono anche offrire altri servizi ed iniziative comuni come: modalità di trasporto collettivo, infrastrutture telematiche e portali informatici, gestione delle risorse umane, project financing, attività commerciali e di marketing, servizi bancari e assicurativi. L’insieme di queste opportunità rende le aree ecologicamente attrezzate “luoghi” particolarmente attraenti per gli investitori. Tali aree offrono alle imprese insediate migliori garanzie in termini di rispetto della legislazione ambientale e di mantenimento della conformità normativa grazie a sistemi centralizzati di trattamento e controllo degli inquinanti e del continuo scambio di informazioni tecniche.

Studio dei flussi di materia ed energia ed il miglioramento dell’ecoefficienza Ogni intervento nel settore ambientale presuppone una conoscenza approfondita degli impatti e delle problematiche ambientali delle realtà in studio A tal proposito è necessario condurre varie analisi ambientali iniziali applicate ai settori chiave 26 L’articolo 26 del Dlgs 31 marzo 1998, n. 112 assegna alle Regioni il compito di individuare e

disciplinare, con proprie leggi, le aree industriali e le aree ecologicamente attrezzate, dotate delle infrastrutture e dei sistemi necessari a garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente.

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dell’economia nazionale e ad aree industriali “tipo”, finalizzate allo studio degli impatti ambientali delle imprese. Tali studi sarebbero propedeutici alla valutazione della possibilità di:

realizzare servizi comuni di rete e impianti (ad esempio reti per l’energia elettrica, per acqua, vapore, fognature industriali; impianti di depurazione, impianti o sistemi di gestione rifiuti; impianti di produzione dell’energia elettrica; creazione di opere comuni di difesa idrogeologica; centri servizi alle imprese, ecc.);

creare un sistema centralizzato di rilevazione dei dati ambientali (aria, acqua, suolo, rifiuti, eccetera);

attuare modalità e procedure gestionali ambientali comuni.

Promozione di interventi ambientali dedicati ai sistemi produttivi locali Particolarmente utile è la realizzazione di interventi integrati di riqualificazione e razionalizzazione ambientale degli aspetti produttivi (es. risparmio energetico e idrico, riduzione delle emissioni atmosferiche, riduzione della produzione di rifiuti) ma anche organizzativi e logistici (es. mobilità delle persone e delle merci), oltre che interventi di rilocalizzazione produttiva per motivi ambientali. Tali interventi potrebbero essere estesi anche a settori del terziario (quale, ad esempio, il comparto turistico27) per conferirgli una forte connotazione eco-orientata. Talune azioni possibili sono:

il sostegno alla realizzazione di forme di collaborazione orizzontale e verticale fra le imprese realizzate in forme associative e consortili, per favorire una riduzione complessiva delle emissioni inquinanti, della produzione di rifiuti e di utilizzo di risorse idriche, nonché ad una gestione razionale dei flussi di energia e merci. In tale ottica, appare opportuno favorire gli approcci in grado di consentire una gestione integrata di tutte le tematiche ambientali;

la promozione di iniziative per la gestione della domanda di mobilità delle persone e delle merci, finalizzate alla riduzione delle emissioni inquinanti derivanti dal traffico veicolare, attraverso l’utilizzo più efficiente e/o il potenziamento delle infrastrutture esistenti (es. riattivazione di linee ferroviarie in disuso), nonché il maggior ricorso all’intermodalità e ai sistemi di trasporto pubblico;

il sostegno alle iniziative di cooperazione tra consorzi di imprese, strutture di ricerca e pubbliche amministrazioni, finalizzate alla diffusione di certificazioni EMAS ed Ecolabel ed alla individuazione di nuove tecniche in grado di proporsi come migliori tecniche disponibili o comunque di ridurre le emissioni inquinanti, la produzione di rifiuti e l’uso delle risorse naturali.

Tra gli interventi ambientali localizzati particolare importanza riveste la creazione degli eco-distretti. Il sistema produttivo italiano è, infatti, caratterizzato dalla presenza di distretti industriali ovvero sistemi locali di imprese caratterizzati da:

27 Il settore turistico riveste un ruolo chiave sia per la sua rilevanza economica che in relazione ai grandi impatti ambientali connessi con l’industria del turismo. A tal proposito la comunità Europea ha deciso di estendere il regolamento Ecolabel anche alle strutture ricettive e ai campeggi con lo scopo di certificare e promuovere le organizzazioni con performance ambientali di eccellenza.

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un ambito territoriale piuttosto ristretto; un raggruppamento umano che vive e lavora perlopiù in tale ambito (con una

specializzazione settoriale); un elevato numero di piccole e medie imprese (PMI) manifatturiere,

indipendenti e specializzate in fasi diverse di uno stesso processo produttivo. Tali aree necessitano di studi ambientali specifici nonché della redazione di programmi di miglioramento ambientale collettivamente condivisi, in cui siano valutati:

gli effetti cumulativi derivanti dai processi di produzione delle PMI dell’area; le interazioni degli impatti ambientali delle aziende con quelli prodotti da altri

operatori industriali limitrofi, dai servizi pubblici e dai complessi residenziali. La creazione di eco-distretti, ovvero di distretti industriali eco-orientati, contribuirebbe al miglioramento della gestione ambientale delle aziende:

favorendo una migliore accettabilità delle attività industriali da parte delle popolazioni e degli enti locali;

minimizzando i rischi di incidenti ambientali; accrescendo la competitività industriale delle imprese, mediante

l’ottimizzazione dell’uso dell’energia e delle risorse e la minimizzazione degli impatti ambientali;

riducendo dei costi di gestione grazie al ricorso ad economie di scala più grandi (passaggio dalla micro-impresa alle aree ecologicamente attrezzate).

Integrazione con altri strumenti per lo sviluppo sostenibile I benefici derivanti dalla realizzazione degli eco-distretti potrebbero essere ampliati correlando tali iniziative con altre attività inerenti lo sviluppo sostenibile quali: Agenda XXI ed Agenda XXI locale, i sistemi di gestione ambientale, i Piani di Sviluppo Territoriale, la Valutazione Ambientale Strategica, ecc. In particolare, l’implementazione di un sistema di gestione ambientale EMAS alle aree industriali produrrebbe i seguenti vantaggi:

crea condizioni per la realizzazione e la gestione responsabile di aree specificatamente dedicate ad attività produttive;

consente un controllo continuo ed accurato della situazione ambientale; crea condizioni favorevoli per intervenire efficacemente in caso di riduzioni

prestazionali e/o di incidenti; consente il mantenimento di alti livelli di qualità ambientale dell’area con

l’impegno al continuo miglioramento; rende credibili e trasparenti i processi decisionali e gestionali adottati.

Uso di fonti energetiche rinnovabili Le fonti energetiche rinnovabili sono attualmente sfruttate nell’Unione Europea in maniera disomogenea e insufficiente28. Malgrado molte di esse siano disponibili in abbondanza ed il loro potenziale economico effettivo sia considerevole, il contributo 28 La quota delle energie rinnovabili nel consumo interno lordo di energia variano fortemente tra gli Stati membri, da meno dell’1% (Belgio) a oltre il 25% (Svezia). L’Italia ha una quota del 5,5 %; la media europea è del 5.3% (Fonte Eurostat, tratto da [Libro bianco UE, 1997]).

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delle fonti energetiche rinnovabili al consumo lordo globale d’energia nell’Unione è molto ridotto. Una delle principali peculiarità delle fonti energetiche rinnovabili è che esse sono “interne” alla nazione e possono quindi contribuire a ridurre la dipendenza dalle importazioni e aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento29. Lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili è dunque un settore chiave dell’Ecologia Industriale che altresì contribuisce attivamente allo sviluppo economico ed alla creazione di nuovi posti di lavoro.

Sviluppo di progetti pilota sperimentali Il modo migliore per dimostrare l’efficacia dei principi dell’Ecologia Industriale è la loro concreta applicazione al contesto produttivo regionale e nazionale. I principi precedentemente enucleati potrebbero essere applicati a taluni casi studio che possano fungere da progetti pilota nazionali e da esempio per altre aziende che vogliano perseguire l’obiettivo di sviluppo sostenibile. Tali progetti dovrebbero inoltre valutare la possibilità di introdurre principi gestionali ispirati ai concetti di simbiosi industriale, ovvero valutare la possibilità di riutilizzare gli scarti (in termini di materia o energia) di un processo produttivo.

IL PUNTO DI VISTA DELLE IMPRESE di Elisabetta Bottazzoli e Davide Vassallo

LA RESPONSABILITÀ SOCIALE ED AMBIENTALE DELLE IMPRESE L’approccio delle imprese alle questioni sociali ed ambientali sta subendo rapide trasformazioni determinate dalla penetrazione di queste tematiche nelle strategie di impresa e nei mercati. Una recente indagine OECD30 che ha coinvolto 107 grandi imprese internazionali ha consentito di stilare una graduatoria di rilevanza tra i diversi strumenti di responsabilità di impresa ambientale e sociale (Corporate Responsibility) che si sono affermati nel mondo (Fig. 1). Una parte di questi strumenti è apertamente indirizzata a promuovere e sostenere l’adesione delle imprese ai principi dello sviluppo sostenibile. È il caso del Global Compact, il primo forum globale chiamato ad affrontare gli aspetti più critici della globalizzazione. Annunciato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, al World Economic Forum di Davos, Svizzera, nel Gennaio 1999, e formalmente presentato al Quartier Generale delle Nazioni Unite nel Luglio 2000, il Global Compact invita le imprese ad aderire a nove principi universali nelle aree dei diritti umani, delle condizioni di lavoro e dell’ambiente. Il Compact si propone di avvicinare le aziende alle organizzazioni delle Nazioni Unite, alle organizzazioni internazionali del lavoro, alle organizzazioni non governative (NGO) e ad altri soggetti, al fine di

29 La dipendenza dell’UE dalle importazioni di energia, già del 50%, dovrebbe aumentare nei prossimi anni e raggiungere, in assenza di interventi, il 70% nel 2020. Ciò è soprattutto vero per il petrolio e il gas che provengono in misura crescente da zone molto distanti dall’Unione e spesso caratterizzate da rischi geopolitici. Si dovrà pertanto prestare sempre più attenzione alla sicurezza dell’approvvigionamento. Le energie rinnovabili come fonti interne saranno importanti per ridurre le importazioni di energia con effetti positivi per la bilancia commerciale e la sicurezza dell’approvvigionamento [Libro bianco UE, 1997]. 30 OECD; “Overview of Corporate Environmental Management Practices”; Parigi; Giugno 2004

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incentivare la creazione di partnership e di costruire un mercato globale più inclusivo ed equo.

Fig. 1 Impatto degli standard di Corporate Responsibility sulle imprese multinazionali

La Global Reporting Initiative, GRI, fondata nel 1997 dalla Coalition for Environmentally Responsible Economies (CERES) in partnership con UNEP, è promossa dalle imprese, da NGO, da sindacati, da organismi di certificazione, università, fondazioni, etc. La GRI è un'istituzione indipendente che ha lo scopo di sviluppare e promuovere linee guida per la redazione di bilanci di sostenibilità, applicabili a livello globale. L'adesione alle linee guida della GRI, pubblicate periodicamente, consente alle imprese di documentare il loro programma sociale, ambientale ed economico. Lo standard internazionale di certificazione di responsabilità sociale (CSR) SA 8000 referenzia il rispetto dei diritti umani, il rispetto dei diritti dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori e le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro Questa norma non nasce da parametri stabiliti da comitati di esperti. SA 8000 nasce dal CEPAA, emanazione del CEP (Council of Economic priorities), istituto statunitense fondato nel 1969 per fornire agli investitori ed ai consumatori, strumenti informativi per analizzare le performance sociali delle aziende. Il CEPAA ha per missione la responsabilità sociale, riunendo i principali stakeholder per sviluppare standard volontari basati sul consenso, accreditando organizzazioni qualificate per verificare la conformità, promuovendo la diffusione dello standard e incoraggiandone l'attuazione a livello mondiale. L'organismo riunisce 21 membri, in rappresentanza delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni non governative, di associazioni che tutelano i diritti umani e dell'infanzia, di imprese che investono in modo socialmente responsabile, dei società di certificazione. Gli standard rilevanti per la responsabilità di impresa sono sostanzialmente di tre tipi.

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Le Dichiarazioni di politica ambientale (EPS) sono dichiarazioni delle imprese in merito ai propri principi e programmi in material ambientale che consente di definire il quadro d’azione ambientale con i relativi obiettivi e target. La dichiarazione deve comprendere riferimenti ai fornitori, ai partner, alle risorse, ai materiali, all’uso efficiente dell’energia, alle emissioni in aria, acqua e suolo, ai trasporti, alla minimizzazione/riciclo/riuso dei rifiuti, agli imballaggi, al progetto ed alla promozione dei prodotti, agli impatti sociali, alla formazione degli addetti, all’inquinamento acustico e luminoso, alla gestione degli edifici etc. Il 58% delle imprese censite pubblica qualche tipo di Dichiarazione di politica ambientale, il 69% in EU, il 62% in Asia-Pacifico e il 44% in USA, le differenze essendo determinate essenzialmente dalle imprese a scarso impatto ambientale, poco disponibili negli USA. Al contrario le imprese a grande impatto rilasciano dichiarazioni per il 78% nelle tre regioni. I Rapporti di performance ambientale vengono rilasciati da un numero relativamente minore di imprese che pubblicano informazione sui propri impatti sull’ambiente. In assenza di standard condivisi a livello internazionale il contenuto di tali rapporti può variare da livelli molto rudimentali fino a rapporti di sostenibilità veri e propri. Il 39% delle imprese censite produce un rapporto di questo tipo, 50% in EU ed Asia-Pacifico e 17% in USA: quasi tutti (91%) questi rapporti contengono dati quantitativi che consentono il confronto tra imprese e la valutazione delle tendenze, il 67% delle volte mediante confronto con i target programmati. Soltanto un terzo dei rapporti vengono assoggettati a verifiche indipendenti, con una prevalenza delle aziende europee. I Sistemi di gestione ambientale (EMS) sono costruiti su standard internazionali a larga diffusione. Alcune imprese optano per Sistemi di gestione auto-prodotti, adattati alle specifiche esigenze. Sono largamente più diffusi nei settori ad alto impatto ambientale, fino all’83% in EU e Asia-Pacifico. ISO 14001 si è affermato come lo standard di maggior successo mondiale: due terzi dei sistemi di gestione sono ISO 14001 o sistemi proprietari derivati. Il 72% degli EMS prevede un audit ambientale di impresa ed anche della catena dei fornitori. I sistemi di gestione della salute e della sicurezza sono meno standarsdizati dei corrispettivi ambientali ma sono in rapida diffusione, specialmente OHSAS 18001, uno standard ISO compatibile. Il 34% delle imprese europee si è dotata di tali sistemi contro il 15% in USA e il solo 9% in Asia-Pacifico.

LA SOSTENIBILITÀ COME STRATEGIA DI IMPRESA Le questioni dibattute nel mondo delle imprese, su tutte le scale dal locale al globale, sono fondamentalmente:

come creare maggiore competitività attraverso l’innovazione e quindi attraverso l’innovazione ecologica;

come creare un più solido rapporto di fiducia tra aziende, clienti e società; come sviluppare nuove opportunità di mercato, con grande attenzione ai paesi

in via di sviluppo. Molte compagnie hanno ormai fatto propria la convinzione che l’integrazione del valore della sostenibilità nel proprio marchio contribuisca al successo sul mercato.

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Prodotti e servizi che rispondono alle esigenze di tutela dell’ambiente e di tutela sociale, attirano nuovi clienti solamente nel momento in cui tali esigenze risultano essere realmente acquisite entro la filosofia dell’impresa. Esempi recentissimi sono dati dai primi tentativi di modificare la propria immagine fatti da Nestlè e Nike. Se, a titolo esemplificativo, si analizzano le difficoltà di diffusione delle certificazioni ambientali e dei marchi di qualità, si osserva che l’acquisizione delle certificazioni che non vengono percepite dal cliente come convinte e concrete, non apportano alcun valore aggiunto all’azienda né producono vantaggi economici o commerciali. Non vi sono pertanto benefici apprezzabili se la nuova visione strategica e gli investimenti non diventano politica aziendale nel medio-lungo periodo. Sia le misure normative di tipo command and control, sia quelle di integrazione del fattore ambientale nelle politiche di settore, incidono in modo indiretto sul comportamento dei vari soggetti economici e sulla formazione dei prezzi, e, quindi, sulle decisioni concernenti il tipo e le quantità di beni e servizi offerti sul mercato31. Gli strumenti economici impattano direttamente sui meccanismi di costo delle imprese e, quindi, sulla formazione del prezzo attraverso:

la internalizzazione di quelli che vengono comunemente definiti costi esterni, mediante tariffe o tasse sull’inquinamento prodotto;

la negoziazione sul mercato delle autorizzazioni, come i permessi di emissione e gli obblighi negoziabili;

apposite garanzie per il rispetto di particolari clausole ambientali nella realizzazione degli obblighi contrattuali (es. depositi, obbligazioni o fideiussioni rimborsabili);

gli esborsi per la violazione di norme ambientali per compensare un danno prodotto direttamente alle parti danneggiate o tramite le autorità pubbliche (contravvenzioni, ammende o procedure di danno ambientale);

la assistenza finanziaria a inquinatori o utilizzatori di risorse naturali che si trovino in zone svantaggiate ed intendano raggiungere performance ambientali superiori agli obblighi di legge (es. sussidi);

gli interventi pubblicitari al fine di evitare distorsioni a favore di prodotti meno rispettosi dell’ambiente o semplicemente per ridurre la spinta a maggiori consumi;

i crediti agevolati a produzioni più rispettose dell’ambiente; politiche internazionali di sostegno ai paesi che intendano applicare le misure

sopra esemplificate. Si consideri a titolo di esempio la Direttiva Europea 2003/87/EC sullo scambio delle quote di emissione32: uno strumento di tipo economico volto al raggiungimento di fini

31 Francesco La Camera; “Sviluppo Sostenibile”; Editori Riuniti; 2005; § 5.3. “Integrazione del fattore ambientale nei mercati –gli strumenti economici”; pag. 465 e sg, 32 Un tipo di permessi all’inquinamento, una sorta di diritto ad inquinare in quantità definite dai permessi stessi. L’OECD distingue quattro tipi di permessi trasferibili: l’esemplificazione più significativa di tali meccanismi flessibili è sicuramente quella del protocollo di Kyoto. OECD, “Sustainable Development – Critical Issues”; Paris; 2001; pag.146

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di tutela ambientale, ritenuto ad oggi uno dei più validi ed economicamente efficaci per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione dei gas ad effetto serra. Per le imprese, la Direttiva ha un impatto economico finanziario diretto sulle spese/investimenti in misure interne di riduzione e sull’acquisto di quote di emissione; un impatto sul valore dell’azienda stessa e sul valore delle azioni per le aziende quotate; un impatto sul costo dei finanziamenti e sulla gestione del rischio e, quindi, sulle coperture assicurative. L’introduzione di misure flessibili di scambio di quote di inquinamento supera l’approccio command and control e viene salutata con molto entusiasmo. Tuttavia il ricorso a tali misure impone uno straordinario salto di qualità nei controlli amministrativi. Il sistema dei controlli va potenziato e reso più efficiente, richiedendo grande maturità da parte di tutti gli attori e capacità di comprensione delle modifiche continue dei sistemi economici, sociali ed ambientali e delle loro relazioni. Le compagnie presenti sul mercato mondiale tendono a seguire le sollecitazioni di una clientela sempre più attenta alle questioni sociali ed ambientali per programmare e sviluppare nuovi prodotti e servizi. Le questioni messe in gioco dagli approcci della sostenibilità, dal punto di vista economico, sociale ed ambientale sono rappresentate in Fig. 2. In questo senso è interessante capire come le aziende stanno gestendo e quindi sfruttando, in termini di mercato, la crescente domanda di beni e servizi che rispondono a criteri di sostenibilità. Nel 1999, la società di Industrial Management Consulting Arthur D. Little33, in partnership con il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD)34 ha svolto un’indagine su 80 aziende per valutare il loro approccio alla sostenibilità e identificare quali fossero le opportunità e gli ostacoli incontrati. Successivamente tra il 2004 e il 2005, in collaborazione con Hedstrom Associates, ha condotto una nuova indagine su 40 aziende globali in Europa, USA, Giappone ed Italia, appartenenti ai

33 Arthur D. Little; “How Leading Companies are using sustainability-driven innovation to win tomorrow’s costumers” Arthur D. Little; 2005. 34 WBCSD, HrH The Prince of Wales’s, University of Cambridge – Programe for Industries; “Marketing and Sustainable Development”; 2005.

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settori delle telecomunicazioni, della chimica, del sanitario farmaceutico e dell’energia, per evidenziare, se presenti, i cambiamenti avvenuti. Il tema dell’indagine è stato l’opportunità di business veicolata dall’integrazione della sostenibilità nel processo di innovazione, cioè la c.d. innovazione ecologica. È emerso che la competizione sul mercato globale sta spingendo le aziende verso l’adozione di soluzioni alternative in termini di progettazione, produzione, logistica e distribuzione dei prodotti. In questo senso è interessante capire come le aziende stanno gestendo e quindi sfruttando, in termini di mercato, la crescente domanda di beni e servizi che risponde a criteri di sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Infatti, si sta cominciando ad intravedere un significativo spostamento di strategia verso la sostenibilità da parte delle aziende leader.

Fig. 2 Le questioni prioritarie della sostenibilità per le imprese

Fig. 3 L’evoluzione dell’approccio delle imprese alla sostenibilità

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Dall’indagine emerge che i principali benefici dell’innovazione ecologica sono: l’identificazione di opportunità di business nuove ed inesplorate; la maggiore attenzione alle esigenze della clientela sul lungo termine per

rallentare il processo di obsolescenza dei prodotti/servizi; la migrazione verso aree di business che, per definizione, hanno una

maggiore longevità; l’abilità di creare reali vantaggi sia per il business che per la società.

Inoltre le aziende possono essere vantaggiosamente identificate come entità positive, che raccolgono il consenso delle parti interessate (clienti, istituzioni, dipendenti etc.). Il 95% delle aziende intervistate afferma che l’innovazione ecologica ha il potenziale per generare valore di business (Figura 4). Tuttavia i maggiori benefici sono ancora percepiti in termine di immagine: reputazione e valore del marchio sono citati rispettivamente dal 90% e l’80% dalle aziende che pensano di avere già abbracciato i principi della sostenibilità nelle proprie attività. Il 60% di queste aziende ha registrato miglioramenti nella top line dei prodotti e il 43% ha potuto beneficiare di riduzioni di costo.

Fig. 4 Valore di business percepito per la sostenibilità

Non sorprende che fra le aziende che non hanno ancora adottato i principi di sostenibilità, poche vedano benefici in termini di quote di mercato, ricavi e margini. Fra le aziende leader che ritengono di avere adottato tali principi, il 72% registra benefici per la creazione di nuovi prodotti e servizi, l’80% per l’innovazione dei processi e il 60% per l’accesso a nuovi mercati e per lo sviluppo di nuovi modelli di business (Figura 5).

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In relazione ai benefici commerciali futuri, su un periodo di cinque anni, il 90% delle aziende ha risposto che tali benefici deriveranno dallo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Il 75% delle aziende ritiene che un ritorno economico significativo deriverà dallo sviluppo di nuovi mercati e nuovi modelli di business.

Fig. 5 Fonti e determinanti (driver) dei benefici derivanti dalla sostenibilità

Source: Arthur D. Little: Innovation Sustainable Innovation Survey, 2004

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Nonostante ciò, molte aziende non sono in ancora grado di riconoscere il potenziale dell’innovazione ecologica, ovvero ritengono che questa concezione sia ancora troppo acerba per giustificare una concentrazione di sforzi e risorse, soprattutto economiche. Fra le barriere chiave identificate nell’indagine figurano:

la mancata comprensione del significato delle tendenze e dei determinanti della sostenibilità, dei mercati potenziali e delle opportunità;

un alto livello di scetticismo interno ed esterno all’azienda, accompagnato spesso dalla percezione che queste attività comportino alti livelli di incertezza e di rischio;

l’assenza di modelli di business adeguati, in particolare nei mercati emergenti; la tendenza a utilizzare le risorse disponibili per affermarsi nei nuovi mercati

con il modello tradizionale, anziché per sviluppare nuovi modelli di business od offerte di servizi che possano offrire maggiori benefici a lungo termine per effetto di una migliore risposta ai paradigmi della sostenibilità;

la mancanza di volontà di finanziare nuovi progetti, in particolare nelle fasi base del ciclo di vita dei prodotti.

Analogamente a quanto avviene normalmente quando si ha a che fare con tendenze emergenti, queste barriere sono percepite come quasi superate dalle aziende leader, mentre risultano ancora significative per le altre. In Italia i risultati dell’indagini sono allineati alle tendenze globali. Il 70% delle aziende ritiene che la soddisfazione delle preferenze del consumatore costituisca un determinante critico per l’Innovazione sostenibile (Figura 6).

Fig. 6 I determinanti dell’innovazione ecologica

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L’orientamento dei futuri clienti ha un influsso maggiore sull’innovazione, specialmente per le aziende cui vengono richiesti più prodotti e più servizi che rispondano ai loro propri obiettivi di sostenibilità. Le aziende leader vedono la sostenibilità come un elemento chiave per aumentare la quota di mercato e conquistare questi clienti: esse ritengono che la sostenibilità continuerà a dominare nelle decisioni di acquisto di beni e servizi nel futuro. Le aziende continuano a porre particolare enfasi sulla legislazione e, per il 70%, la rispondenza ai regolamenti di legge è da considerare elemento critico. Questo aspetto probabilmente deriva dall’arricchimento avvenuto negli ultimi anni di normative e leggi in materia ambientale e sociale, relativamente al controllo delle emissioni, alla sicurezza sul lavoro, agli standard di sicurezza dei prodotti etc. Tuttavia le aziende ritengono legislativo che le regolamentazioni avranno una minore importanza nel futuro: solo il 63% infatti è convinta che nei prossimi cinque anni leggi e norme continueranno a rivestire grande importanza, probabilmente perché oggigiorno le aziende si sono dotate di strumenti per identificare e applicare meglio le normative vigenti. Gli altri temi ambientali e quelli sociali, invece, continueranno a essere determinanti importanti anche nel futuro. Una piccola minoranza di aziende ha integrato la sostenibilità nel processo di innovazione agendo su due dimensioni differenti:

la strategia di business; la progettazione di prodotto e di processo.

Sulla prima dimensione, la strategia di business, Fig. 7, pochi leader nell’innovazione ecologica hanno già integrato la sostenibilità nella pianificazione strategica e nel processo decisionale relativo a futuri investimenti, sviluppo di prodotto, ecc. Tuttavia, la maggior parte delle aziende è ancora distante dalla meta, e meno del 35% ritiene di averla già raggiunta. Una quota minore del 5% delle aziende intervistate ha raggiunto l’integrazione su entrambi i fronti. La maggioranza delle aziende si è infatti concentrata solo su una delle due dimensioni citate. Alcune aziende hanno dato priorità ai temi sociali e ambientali nella progettazione di prodotto e di processo, ma devono ancora rafforzare l’integrazione nella strategia di impresa, esse possono essere considerate apprendisti per quanto concerne l’Innovazione sostenibile. Al contrario, una forte integrazione nella strategia di business non accompagnata da una integrazione nella progettazione di prodotto e di processo può suggerire una millantata sostenibilità accompagnata da poche azioni concrete. La maggior parte delle aziende, in realtà, sta raggiungendo un equilibrio fra questi due aspetti, ma solo una minoranza ha già raggiunto una posizione di leadership con una forte integrazione sia nella strategia di impresa, sia nella progettazione di prodotto e di processo. Sulla seconda dimensione (progettazione di prodotto e di processo, Figura 8) l’indagine ha riscontrato che la proporzione di aziende, che considera la sostenibilità alla pari di altri fattori nella progettazione di prodotto e di processo, ha raggiunto un valore superiore al 45%. Poche aziende leader sono passate da riduzioni migliorative dell’impronta ecologica delle proprie attività a riduzioni radicali nell’intero ciclo di vita. La proporzione di aziende che sono passate dal grado di integrazione moderato al grado alto è aumentata solo del 9% tra le rilevazioni del ’99 e del 2004.

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Fig. 7 Integrazione della sostenibilità nella strategia di impresa e nel design di prodotto e di processo

Fig. 8 Livello di integrazione nella progettazione di prodotti e di processi

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Poche aziende leader stanno già esplorando le opportunità offerte dall’innovazione ecologica. L’indagine ha rivelato che sul mercato stanno entrando prodotti e servizi promettenti sul fronte della sostenibilità. France Telecom ha sviluppato strumenti per il lavoro a distanza in risposta alle crescenti pressioni sull’infrastruttura dei trasporti e sulla qualità dell’aria, accompagnate da un aumento nella proporzione di impiegati interessati al lavoro a distanza. Le aziende più innovative si stanno muovendo verso la riduzione degli impatti derivanti dall’intero ciclo di vita delle proprie attività. Un esempio è rappresentato da Sony che ha sviluppato programmi per la riduzione del 50% dell’impatto ambientale del ciclo di vita dei propri prodotti (in percentuale delle vendite) fra il 2001 e il 2011: il programma ha contribuito a migliorare le performance di prodotti. Riducendo il consumo di energia dei prodotti portatili, è stata migliorata la performance delle batterie, così come la miniaturizzazione dei prodotti ha implicato un consumo minore di risorse a parità di performance. Le aziende stanno registrando maggiori successi nell’integrare la sostenibilità nel design e nel funzionamento dei processi. Questo tipo di innovazione è piuttosto matura grazie al grande lavoro e agli sforzi effettuati nel corso degli anni ’90 per migliorare l’eco-efficienza dei processi. Un esempio è l’utilizzo delle tecnologie nel riciclo dei materiali di scarto. Ad esempio, ReCellular ha sviluppato un processo di precisione computerizzato che permette di utilizzare gli involucri di plastica già usati, ridipingendoli e rinnovandoli, riducendo così la necessità di plastica sostitutiva.

Caso di studio: France Telecom

Sviluppo di un sistema di tele-presenza per migliorare il tele-lavoro

Determinanti sociali e ambientali: c’è una crescente domanda per il tele-lavoro. Il traffico stradale nel 2003 è in continua crescita e risulta più alto del 129% rispetto al 1990. La congestione e la pressione sull’infrastruttura del trasporto pubblico sta facendo lievitare il costo dei trasporti. Il traffico aereo e stradale sono fra i maggiori elementi di inquinamento atmosferico. Servizio/prodotto: la tele-presenza elimina la sensazione di distanza permettendo a persone che si trovano a centinaia di km di distanza di comunicare come se si trovassero faccia a faccia in occasione di riunioni e incontri o eventi speciali, ma anche di conversazioni informali. Il sistema è permanentemente acceso in modo da evitare l’attivazione della connessione della tele-conferenza tradizionale, procedura percepita come barriera. Valore di business: La riduzione dei costi di viaggio ha un impatto diretto sulla bottom line. Il contatto fra lavoratori è migliorato e aumentato, con indubbi benefici sul business. Il lavoro a distanza e da remoto offre benefici significativi nella riduzione della congestione e dell’inquinamento atmosferico e aiuterà la Franca a rispettare gli impegni assunti con il protocollo di Kyoto (Fonte France Telecom, 2004).

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Caso di studio: Sony

Sony ha sviluppato un sistema per integrare la responsabilità ambientale nella propria strategia di business e nel design di prodotto. Una Visione Ambientale di Gruppo stabilisce le aspirazioni aziendali a lungo termine, mentre la Gestione Verde 2005 definisce gli obiettivi a breve termine richiesti da ciascuna divisione di business. Gli obiettivi delle divisioni sono definiti sulla base di tali atti di indirizzo e sono revisionati annualmente. Sony ha sviluppato un sistema per valutare l’impatto ambientale dei prodotti legato tutto il ciclo di vita, dalla produzione delle singole parti fino all’utilizzo da parte dei clienti e al fine vita. Tale sistema effettua la valutazione delle emissioni di CO2, del consumo di energia e di risorse per ciascun stadio del ciclo di vita e per il suo complesso. Questo consente a Sony di identificare i prodotti e gli stadi ad alto impatto ambientale, valutare le priorità di miglioramento e pianificare gli obiettivi successivi. Infine, per dare ai clienti informazioni sulla performance ambientale dei propri prodotti, Sony utilizza l’etichetta eco info su cataloghi e siti web per indicare una specifica caratteristica ambientale del prodotto.

Numerosi altri esempi di Innovazione sostenibile sono riscontrabili nel settore dei servizi finanziari. In America Latina, nel 1999, è nata Bangente, prima e unica banca commerciale no profit in tutto il Venezuela, dedicata esclusivamente al micro-finanziamento. Tale banca è stata creata per offrire una risposta locale alle esigenze di finanziamento di un segmento in crescita, ma poco presidiato: gli imprenditori a basso reddito. Vi sono infine sempre più esempi di aziende che cercano di aprire nuovi mercati attraverso lo sviluppo di nuovi modelli di business o attraverso l’applicazione di tecnologie esistenti o emergenti per nuovi e innovativi utilizzi. Il Gruppo Vodafone, ad esempio, in associazione con Safaricon in Kenya, sta valutando le modalità per utilizzare la tecnologia delle comunicazioni per aiutare le banche e le istituzioni di micro-finanza in aree remote35.

IL CONTESTO NAZIONALE La realtà italiana si presenta eterogenea, ci sono aziende leader che hanno abbracciato e attuato politiche e programmi di sviluppo sostenibile ambiziosi, contrapposti a realtà che percepiscono solo gli aspetti di adempimento normativo. Lo studio di Arthur D. Little ha riscontrato le difficoltà reali delle aziende a definire degli scenari di medio-lungo periodo, sui quali basare le proprie strategie di sostenibilità, pianificare gli investimenti e sviluppare un nuovo approccio. La carenza

35 Fonte Vodafone, 2004 pers. com.

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di una visione prospettica ha determinato comportamenti reattivi, guidati più dalla gestione dei rischi che dal perseguimento di opportunità di crescita. Lo studio ha evidenziato alcuni fattori limitanti per l’innovazione ecologica, caratteristici del contesto nazionale italiano:

gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo la circolazione dell’informazione e della cultura le competenze professionali specifiche e dedicate la massa critica per affrontare i mercati internazionali

In particolare le aziende medio-piccole, lamentano la difficoltà di accedere all’informazione e alle competenze necessarie per supportare i processi di rinnovamento e innovazione. Tra gli aspetti positivi emerge, nelle aziende, la percezione che la sensibilità del consumatore e le regole del mercato sono in evoluzione verso modelli che premieranno chi sarà capace di innovare prodotti e processi in modo sostenibile.

CONCLUSIONI L’indagine effettuata da Arthur D. Little ed Hedstrom Associates ha evidenziato che:

il 95% delle società ritiene che l’innovazione abbia il potenziale per aumentare il giro di affari e quasi un quarto ritiene che ne porterà sicuramente;

il 60% delle società vede i benefici potenziali per la propria top line, mentre il 43% li vede principalmente nella bottom line;

la maggioranza delle aziende, tuttavia, deve ancora lavorare molto per integrare la sostenibilità nelle proprie strategie di business e nella progettazione di prodotto e di processo, prerequisito per il raggiungimento dell’Innovazione sostenibile.

Quattro le conclusioni cui Arthur D. Little è pervenuta, che è possibile condividere: l’innovazione ecologica sta cominciando a offrire reale valore di business, ma i

benefici sono tuttora di immagine per i più e persistono significative barriere da superare;

i leader si stanno concentrando su come guadagnarsi i clienti del domani e non solo sulla gestione dei rischi, mostrando così sempre maggiore attenzione ad una strategia di lungo periodo;

una piccola minoranza di aziende ha integrato la sostenibilità sia nelle proprie strategie di impresa e che nella progettazione di prodotto e di processo;

poche aziende leader stanno già esplorando le opportunità offerte dall’Innovazione ecologica.

I risultati dell’indagine mostrano chiaramente che l’innovazione ecologica è ad oggi ad uno stadio embrionale. Inoltre molte aziende operano ancora largamente in quello che potremmo chiamare regime a livello delle aspettative di cinque-dieci anni fa (breve-medio periodo), concentrandosi unicamente sulla risposta del mercato, e andando oltre, quindi ragionando in termini di lungo periodo, solo laddove si riscontrino rischi reputazionali e/o forti impatti sociali e ambientali. L’indagine ha anche mostrato che un piccolo, ma crescente, gruppo di aziende leader ha cercato di progredire, creando nuovi prodotti e servizi che risponderanno ai

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bisogni dei clienti attuali e futuri. L’impegno e il coinvolgimento dei vertici aziendali è un fattore essenziale. Le aziende leader in termini di sostenibilità tendono ad essere quelle in cui il top management ha una chiara visione dell’argomento e la volontà di dimostrare un impegno reale nei confronti dell’innovazione e della sostenibilità, in quanto li ritiene elementi essenziali per il successo del business a lungo termine. Naturalmente, il fattore culturale risulta essenziale per il successo sia in termini di innovazione che di sostenibilità. Le aziende leader hanno attuato diverse misure per garantire lo sviluppo di una cultura aziendale basata sulla sostenibilità, tra cui:

l’assunzione di persone con uno spiccato interesse per le tematiche di sostenibilità;

la promozione di iniziative incentivanti che usino la sostenibilità per guidare l’innovazione;

l’adozione di una prospettiva di sistema e lo sviluppo di una cultura aziendale aperta, che comprenda i legami fra i temi di sostenibilità e l’azienda cui si appartiene.

Il fattore culturale rappresenta un vero e proprio ostacolo laddove le dimensioni dell’azienda sono più ridotte. Le aziende leader hanno strumenti atti ad identificare le preferenze sociali e ambientali dei propri clienti (esistenti e potenziali), per valutare i rischi sulla catena di valore e per identificare nuove opportunità di business. Fra gli esempi di strumenti possiamo citare:

il coinvolgimento dei clienti nella pianificazione degli scenari e nella traduzione dei rischi evidenziati nell’intero ciclo di vita del prodotto in nuove opportunità di business;

lo sviluppo di iniziative che permettano di meglio comprendere le sfide sociali e ambientali dei clienti;

l’analisi del ruolo che la tecnologia, i nuovi modelli di business, nuove partnership e nuovi metodi di lavoro possono avere per soddisfare queste preferenze.

I leader hanno sviluppato alleanze innovative con parti interessate diverse e spesso inattese. Lavorando con ONG, agenzie governative, organizzazioni ed università locali hanno trovato una ricca fonte di nuove idee ed opportunità. Ciò ovviamente richiede un alto livello di fiducia specialmente laddove le organizzazioni non lavorano abitualmente con le aziende.

LO STRUMENTO DELLA FISCALITÀ ECOLOGICA da Lino De Benetti36

Il paradigma della crescita economica illimitata, con i suoi risvolti industrialistici e consumistici, non è più adeguato alla modernità. Il pensiero moderno, nel nuovo secolo, parte dalla coscienza dei limiti, è consapevole della complessità del rapporto con la natura e della responsabilità che ne consegue, non è prigioniero del primato di una crescita economica senza qualità, senza sviluppo, al di sopra della capacità di carico del nostro pianeta

36 Materiali tratti dal testo “Sostenibilità dello sviluppo e riforma fiscale : iniziativa politica e proposta di legge” a cura di Lino De Benetti sviluppato da autori diversi

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L’insostenibilità del modello di sviluppo dei paesi avanzati va attribuita all’uso inefficiente di due risorse fondamentali: il lavoro e le risorse ambientali. Nel primo caso si verifica un sottoutilizzo del fattore produttivo, nel secondo caso uno sfruttamento eccessivo. Il costante incremento della produttività del lavoro verificatosi nel passato ha raggiunto oggi un punto critico; si è spezzata la correlazione positiva tra crescita economica e occupazione, posto che l’aumento del prodotto interno lordo, laddove si verifica, non è più in grado di garantire neppure i livelli occupazionali precedenti. Parallelamente, la correlazione negativa tra crescita economica e tutela ambientale rischia di compromettere la crescita economica a lungo termine. Ma anche questa persistente correlazione che l’ambientalismo scientifico continua a sottolineare e che va affrontata e risolta con forte determinazione (si pensi agli impatti sul welfare), non è più sufficiente a spiegare da sola i problemi che abbiamo dinanzi. Il recepimento ai diversi livelli istituzionali dell’attenzione dell’opinione pubblica per gli effetti delle attività antropiche sull’ambiente naturale (cresciuta a causa del diffondersi dell’inquinamento, degli incidenti industriali, della congestione urbana, ecc.), nell’ultimo trentennio si è concretizzato nell’emanazione di norme specifiche in materia di prevenzione e di tutela ambientale. Queste, rivolte a porre dei vincoli allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, nonché a limitare i danni derivanti all’ambente fisico-naturale per effetto dello svolgimento delle attività di produzione e di consumo, hanno rappresentato ovvi condizionamenti all’operato delle imprese. Gli interventi normativi in materia ambientale si riscontrano, a partire dagli anni ‘70, a tutti i livelli istituzionali nazionali e comunitari. Questi ultimi, in particolare, sono stati rivolti alla definizione di politiche e di linee-guida di ampia portata e sono stati ispirati alla prevenzione dei danni causati all’ambiente, alla correzione alla fonte dei danni causati, al fine di evitare reiterazioni negli eventi inquinanti, - all’addebito dei costi della protezione ambientale direttamente ai soggetti responsabili del degrado (Principio “Chi inquina paga”). Una parte di questi interventi sono stati indirizzati alla introduzione di un nuovo tipo di fiscalità ecologica. Tradizionalmente, la fiscalità sia diretta che indiretta, è stata nelle società industriali essenzialmente orientata al prelievo sui redditi da impresa e da lavoro. In misura assai minore le imposte sono state orientate al prelievo sui redditi da capitale e sulle rendite terriere. Posto che il fattore scarso, quello cioè che limita lo sviluppo, è diventato la risorsa naturale, allora è necessaria una riflessione di carattere generale sullo strumento dell’imposizione fiscale e sul suo utilizzo per riequilibrare i prezzi relativi e, quindi, l’uso di fattori limitati e abbondanti. Obiettivo di una fiscalità ecologica dovrebbe essere pertanto la modifica dei prezzi relativi tra risorse non prodotte e scarse (risorse naturali) da un lato, e capitale prodotto e lavoro dall’altra. Infatti, stante la consapevolezza che le economie moderne sono basate su concetti di labour saving e al massimo di capital saving, e considerati gli sprechi di risorse naturali erroneamente e tragicamente considerate libere ed a costo zero, occorre riequilibrare la situazione e porre un freno ai danni arrecati alle risorse naturali. Quindi, la fiscalità su base ecologica dovrebbe modificare la convenienza economica ad utilizzare risorse scarse e soggette a degrado, in favore di quelle abbondanti, con riflessi positivi, quindi, sull’occupazione.

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L’imposizione diretta ad aumentare il livello di sostenibilità del sistema economico comporta l’internalizzazione delle esternalità ecologiche negative: la tassazione ecologica deve essere commisurata alle esternalità generate. Questa operazione può essere anche molto difficile, stante la difficoltà operativa a misurare le esternalità. In una prima fase nella quale si mette a punto uno strumento di contabilità ecologica adeguato, si potrebbe commisurare la tassa agli obiettivi di contenimento, usandola come segnale più che come strumento di regolazione fine, almeno in alcuni casi e laddove non si è in presenza di domanda rigida o poco elastica al prezzo. A questo si aggiungono problemi di contesto generali che pure andrebbero adeguatamene considerati quando si propone l’introduzione di una tassazione/detassazione ecologica. Il primo capitolo della fiscalità ecologica è sempre, storicamente e metodologicamente, la tassazione ambientale. Quando si parla di tasse ambientali ci si riferisce, in genere impropriamente, ad un vasto e generico insieme di tasse, imposte ed entrate fiscali. Il termine quindi non viene spesso usato in modo proprio e corretto. L’OECD qualifica come ambientali quelle tasse basate su una unità fisica, o un’approssimazione della stessa, laddove si sia determinato e provato un impatto negativo. Lo scopo fondamentale delle tasse ambientali è l’internalizzazione dei costi esterni ambientali, costi che non sono sopportati da chi li provoca, ma che si riversano su altri soggetti e per i quali non vi è compensazione. In origine le tasse ambientali sono state semplici strumenti per aumentare il gettito fiscale; successivamente, col tempo, si sono trasformate in veri e propri strumenti di politica ambientale, aumentando il loro peso sul totale delle entrate fiscali, ma soprattutto venendo meglio disegnate e indirizzate per rispondere ad obiettivi effettivi di protezione dell’ambiente modificando il comportamento degli inquinatori, con l’ambizione di incentivare l’economia attraverso la promozione dell’eco-efficienza. Non mancano i problemi. Infatti, in assenza di uno nesso ben definito, quantitativo e qualitativo, tra uso delle risorse e fiscalità, la tassa ambientale viene in sostanza ad essere un risarcimento per il danno prodotto e non un corrispettivo per un servizio pubblico o un atto amministrativo ricevuto. Il danno ambientale non può essere risarcito fiscalmente: fare questo significherebbe infatti attribuire all’inquinatore un diritto ad inquinare. L’applicazione della tassa non può che essere fatta sul produttore del bene o del servizio inquinante (i presupposti soggettivi ed oggettivi non sono di facile determinazione), il quale la percepirà come un costo aggiuntivo e come tale la considererà componente del prezzo. Il consumatore finale, visto l’aumento del prezzo dovrebbe progressivamente allontanarsi dal bene o servizio inquinante. Se però le condizioni di mercato rendono il bene o il servizio poco elastico alle variazioni di prezzo, come accade quando sia impossibile, difficile o poco gradito spostarsi su beni alternativi, l’efficacia della tassazione ambientale risulta di fatto limitata. La figura 1 indica lo stato e l’evoluzione della tassazione ambientale in diversi paesi. Per ora, come si vede, l’incidenza sui gettiti è sistematicamente sotto il 10% circa e le dinamiche evolutive sono poco pronunciate.

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Fig.1 Entrate derivanti da tasse ambientali in percentuale delle entrate fiscali totali (fonte OECD;2004)

La tassazione ambientale può influenzare, direttamente ed indirettamente, l’innovazione dei processi e dei prodotti, benché la teoria economica corrente consideri lo sviluppo tecnologico una variabile esogena oppure, se endogena, non modificabile nel breve periodo. In considerazione del fatto che le tasse ambientali sono finalizzate ad una riconversione ecologica della produzione, alla sostituzione di materiali e di tecnologie, alla riduzione di consumi e perfino alle modifiche degli stessi stili di vita, esse possono sortire probabilmente effetti di maggiore consistenza nel lungo periodo. A questo riguardo vanno esaminati anche gli effetti ambientali dei sussidi e degli incentivi introdotti a vario scopo, che possono avere e in qualche caso hanno avuto, degli effetti negativi sull’ambiente L’OCSE pone questa tematica in relazione ai cosiddetti “environmentally harmful subsidies”, come ad esempio quelli sull’uso di carbone e lignite prodotti localmente. Sono pochi poi gli esempi di sussidi eliminati perché dannosi per l’ambiente. Si possono citare i casi virtuosi della nuova Zelanda e della Commissione norvegese sulle tasse verdi che, tra le altre cose, ha il compito di analizzare gli impatti ambientali di molteplici tipologie di spese, tra cui quindi anche i sussidi. Esempi di rimozione di sussidi aventi effetti negativi sull’ambiente li abbiamo potuti vedere con la riforma della PAC, politica agricola comunitaria, esperienza nella quale, non essendo state preparate per tempo modifiche nella politica dei sussidi promovendo, ad esempio, innovazione, si sono determinati impatti sociali negativi, soprattutto in termini di occupazione. Tra l’introduzione di tasse ambientali e la presenza di sussidi aventi diversa finalità si può quindi generare un trade-off, anziché una sinergia positiva per il raggiungimento

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di uno stesso obiettivo di riduzione dell’impatto ambientale. Questa situazione rende ancora più necessaria una politica ambientale di vasto respiro e di più alto livello che comprenda i diversi strumenti di azione e li riduca ad una visione unitaria: non basta quindi l’introduzione di questo o quello strumento di azione ambientale, quanto piuttosto un insieme coerente di strumenti e una più approfondita analisi degli effetti ecologici degli strumenti posti in essere per motivi diversi di politica economica e sociale. Quindi, anche per la materia fiscale vale lo stesso principio, ed anche la politica dei sussidi alle attività economiche non può che essere assoggettata ad una finalità globale, intersettoriale, che rimanda ai principi ed alle regole dello sviluppo sostenibile.

INCENTIVAZIONE DELL’INNOVAZIONE ECOLOGICA NELL’UNIONE Su queste basi è dunque opportuno che tutte le trasformazioni necessarie in materia di economia e di organizzazione sociale vengano promosse con misure dirette, con la fiscalità, i sussidi e gli incentivi. Ad esempio i sostegni all'innovazione tecnologica, ritenuta da tutti il fattore principe della ripresa economica e della competitività, possono essere sviluppati con l'intervento diretto di politiche pubbliche che finanzino la ricerca e lo sviluppo: queste sembrano più efficaci, nel breve periodo, ed anche auspicabili per poter sviluppare al massimo livello gli effetti sinergici di politiche diverse, come la fiscalità ambientale, orientate agli stessi obiettivi di innovazione ecologica dell’economia e di sua maggiore sostenibilità. La promozione di tecnologie ambientali, dell’innovazione di processo e di prodotto, è perseguibile attraverso la contestuale promozione dell’offerta e della domanda di tali tecnologie. Un primo passo, sul lato dell’offerta, è quello di accrescere gli investimenti settore della ricerca e dello sviluppo (R&S) finalizzati alla creazione di tecnologie ambientali che consentano innovazioni di processo e di prodotto. Gli investimenti nella ricerca, sia pubblici che privati, sono infatti un elemento decisivo per l'economia dell'UE e per lo sviluppo delle eco-industrie o industrie verdi37, aziende che operano nel settore del trasporto, dello stoccaggio, dello smaltimento di rifiuti, nel trattamento e depurazione delle acque, società che svolgono attività di studio e consulenza in campo ambientale, ecc. Da uno studio della Commissione pubblicato del 2003 sul livello di innovazione nei 25 Paesi europei risulta che l’Europa si trova in una posizione di crescente arretratezza rispetto agli Usa ed al Giappone e che all’interno dei diversi Stati membri dell’Unione sussistono forti disparità: i Paesi con il maggior livello di innovazione risultano essere Finlandia e Svezia; Germania, Francia e Paesi Bassi si collocano ad un buon livello; Spagna, Portogallo e Grecia si collocano a livelli bassi, mentre l’Italia insieme alla Bulgaria è caratterizzata da livelli minimi38. 37 In base ad una definizione adottata dalla Commissione europea nel 1994: "...possono essere definite eco-industrie le imprese che producono beni e servizi in grado di misurare, prevenire, limitare, o correggere danni ambientali quali l’inquinamento dell’acqua, dell’aria, del suolo, così come i problemi legati ai rifiuti ed al rumore. Esse includono le tecnologie pulite dove l’inquinamento e l’utilizzo di materie prime è stato minimizzato..." 38 Carpinelli et al.; “La ricerca come opzione strategica”; Università Progetto n.2/2005, bimestrale Flc Cgil. La percentuale di investimenti italiani (pubblici e privati) in R&S rispetto al Pil è da anni la metà della media europea e poco più di un terzo rispetto a Usa e Giappone, mentre risulta essere all’ultimo posto in termini di aumenti nei finanziamenti alla ricerca.

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È interessante osservare la composizione degli investimenti nella ricerca del nostro Paese39: la quota dei finanziamenti pubblici si presenta di poco al di sotto della media europea (il 69% contro il 77% della media europea), mentre quella relativa ai finanziamenti provenienti dal settore privato (43% del totale) risulta notevolmente inferiore non solo rispetto ai Paesi scandinavi (dove raggiunge il 70%), ma anche rispetto a Paesi come Spagna, Irlanda e Belgio. L’Italia inoltre risulta all’ultimo posto in Europa per la presenza di imprese operanti in settori ad alta innovazione che cooperano a scopo di ricerca con altre imprese e istituzioni di ricerca pubblica, solo il 10% contro il 18% della Grecia ed un 70% della Finlandia. Le cause di questa scarsa attitudine all’investimento in ricerca delle imprese italiane sono ascrivibili, secondo un rapporto sulla ricerca in Italia dell’OECD del 2002, ad una serie di limiti nel sostegno alla ricerca: la frammentarietà e disomogeneità qualitativa della ricerca in ambito pubblico; lo scarso coordinamento tra politiche di ricerca e politiche industriali; il modesto impatto dei tentativi compiuti per incentivare la ricerca privata e la collaborazione in ambito pubblico. Le politiche e le misure per invertire questa tendenza abbisognano di un solido riferimento alle iniziative dell’Unione Europea. Nell’ambito del patto di stabilità e crescita e degli indirizzi di massima per le politiche economiche, la Commissione raccomanda infatti di riorientare la spesa pubblica verso investimenti più produttivi, in particolare verso la ricerca e l'innovazione e traduce questa priorità in una serie di raccomandazioni specifiche agli Stati membri40:

valutazione più dettagliata della qualità della spesa pubblica. Riorientamento della spesa pubblica verso i settori della conoscenza, in particolare ricerca e innovazione;

costruire e rafforzare le proprie strategie dell'innovazione, definire i propri obiettivi politici e le proprie mete, e dotarsi di indicatori compatibili con le statistiche europee e internazionali;

mettere a disposizione informazioni sulle politiche dell'innovazione e sui risultati ottenuti, produrre altri dati e indicatori e incoraggiare gli istituti statistici nazionali nello sforzo di raccolta e fornitura di dati statistici comparabili nel settore dell'innovazione;

partecipare attivamente al processo di reciproco apprendimento avviato con la Carta delle tendenze dell'innovazione in Europa e all'analisi del fenomeno dell'innovazione;

cooperare con gli Stati membri nell'analisi del processo, delle politiche e dei risultati dell'innovazione;

39 il Consiglio europeo di Barcellona del 2002 ha deciso di aumentare la spesa complessiva per la ricerca e sviluppo nell'Ue fino a raggiungere il 3% del PIL per il 2010. Almeno i due terzi del totale dovranno essere finanziati dal settore privato. Lo scarto esistente in investimenti a favore della ricerca tra Stati Uniti ed Europa supera già i 130 Mld€ l’anno e continua ad aumentare. Per conseguire nel 2010 l'obiettivo del 3% il settore pubblico e le imprese in Europa dovrebbero aumentare i loro investimenti a una media dell'8% annuo, ripartita tra una crescita annua del 6% della spesa pubblica e una crescita annua del 9% degli investimenti privati (COM (2003) 226 def/2) 40 Cfr. in particolare le raccomandazioni 13 e 14 della proposta della Commissione relativa a orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell'occupazione, COM(2003)170 dell'8 aprile 2003

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lanciare un'iniziativa pilota che offra valutazioni indipendenti (su base volontaria) dei programmi, progetti e agenzie di sostegno per la promozione dell'innovazione;

coinvolgere i Paesi candidati; riferire, ogni due anni, sui progressi compiuti nel rafforzamento della

politica dell'innovazione a livello nazionale e a livello dell'Unione europea; contribuire alla promozione dell'innovazione nel settore pubblico:

organizzando scambi di esperienze sulla promozione e la diffusione dell'informazione sull'innovazione nelle amministrazioni e nei pubblici servizi, promuovendo attività di formazione e di sensibilizzazione sulle politiche e i fattori che influiscono sulla capacità di innovazione delle imprese; promuovendo la diffusione di buone pratiche adottate dalle autorità in materia di appalti pubblici.

intensificare la cooperazione e creare un quadro comune per il rafforzamento dell'innovazione nell'Unione europea che comprenda meccanismi di valutazione dei progressi compiuti.

Ai fini della promozione il secondo passo, sul versante della domanda, è quello di incentivare le imprese all’adozione di tecnologie ambientali, innovazioni di processo e di prodotto, implementando misure di fiscalità ecologica. Tra le misure fiscali per la ricerca:

incoraggiare l'uso concertato degli incentivi fiscali per affrontare aspetti della ricerca che rivestono un interesse comune, in particolare per stimolare la creazione e la rapida crescita di società che svolgono un’intensa attività di ricerca ed agevolare la raccolta di fondi da parte di fondazioni nuove o preesistenti che sostengono le attività di R&S in Europa;

prendere in considerazione un uso concertato degli incentivi fiscali tale da rendere più attraenti le carriere nel settore della ricerca;

migliorare le misure fiscali a favore della ricerca sulla base di: - valutazioni formali, i cui risultati dovranno essere divulgati; - apprendimento reciproco; - applicazione di principi di progettazione razionale, quali semplicità, ridotti costi amministrativi e stabilità;

divulgare i dati sui costi di bilancio delle misure fiscali Sempre sul versante fiscale, la Commissione mira inoltre a favorire lo sviluppo di un quadro europeo equo ed efficiente che possa risultare di attrazione per le imprese per gli investimenti in ricerca e innovazione, in particolare eliminando i problemi di natura fiscale che ostacolano le attività tra i paesi nel mercato interno: nel breve termine, l'attuazione di una legislazione specifica mirata alla rimozione di ciascun ostacolo particolare; nel lungo termine, la definizione di una soluzione sistematica e integrata per tutti i problemi a livello transfrontaliero, per fornire alle imprese un quadro fiscale codificato e comune per le loro attività economiche all'interno della UE.

LINEAMENTI PER UNA NUOVA FISCALITÀ ECOLOGICA IN ITALIA La promozione dell’innovazione ecologica e delle tecnologie ambientali dell’industria italiana rappresenta una scelta strategica per fornire un’iniezione di competitività al

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sistema delle imprese italiane ed un’occasione di modernizzazione mediante riconversione ecologica di alcuni comparti industriali ormai in declino. La diffusione di tecnologie ambientali e l’adozione da parte delle imprese delle migliori tecniche e tecnologie disponibili, costituisce comunque una necessità alla luce della direttiva europea 96/61/CE sulla prevenzione e la riduzione integrata dell’inquinamento (IPPC) la quale prevede l’applicazione delle migliori tecniche e tecnologie disponibili nell’ambito del sistema autorizzatorio per l’utilizzo di impianti industriali dal 200741. Le BAT costituiscono infatti la base per la determinazione dei livelli di emissione consentiti ai fini del rilascio delle autorizzazioni per la costituzione di nuovi impianti e per quelli esistenti. In tale contesto lo strumento della fiscalità, per il carattere di trasversalità e flessibilità che lo caratterizza, può giocare un ruolo di assoluto rilievo nella promozione delle tecnologie ambientali, ma soprattutto nel rilancio di un’economia caratterizzata da elementi immateriali strategici quali la ricerca, l’innovazione, la formazione, il know-how, elementi strategici non soltanto in termini di competitività, ma soprattutto ai fini della sostenibilità. È infatti di fondamentale importanza che tali elementi siano orientati al perseguimento della sostenibilità, economica, sociale e soprattutto ambientale, attraverso misure di fiscalità nel rispetto dei principi di semplicità amministrativa, bassi costi amministrativi e di adesione per le imprese, credibilità e stabilità nel lungo termine degli incentivi42. La leva fiscale deve diventare, come previsto anche dai programmi d’azione comunitari, uno strumento per il perseguimento reale dello sviluppo sostenibile, come “motore” per la riconversione dell’economia attraverso una spinta fondata sulla sostenibilità. Essa si muove lungo un percorso secondo cui una efficace politica fiscale e di governo possa guidare il prelievo delle risorse e, al contempo, regolare gli impatti ambientali, stimolando convergenze tra economia e ecologia, tra mercato e ambiente, tra sviluppo competitivo e sostenibilità. Tale percorso si basa su una imposizione fiscale proattiva, concedendo condizioni di premio ai migliori attori, quelli cioè che con il loro operato procurano benefici all’ambiente. Si tratta di una forma di scambio sociale: chi contribuisce a far diminuire i costi che la collettività deve sostenere per difendersi dagli inquinamenti o per riparare i danni ambientali può avere a disposizione maggiori risorse da destinare a sviluppo, competitività e ricerca. Modificare in senso migliorativo gli obblighi fiscali di una impresa vuol dire, infatti, non mutare le condizioni in cui essa crea il suo valore

41 Le BAT (Best Available Techniques - Migliori tecniche disponibili) vengono descritte all’articolo 2 punto 11 della direttiva 96/61/CE Integrated Prevention Pollution Control (IPPC) intendendo per tecniche sia le tecniche impiegate, che le modalità di progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura dell’impianto. La parola disponibili qualifica le tecniche sviluppate su una scala che ne consenta l’applicazione in condizioni economicamente e tecnicamente valide nell’ambito del pertinente comparto industriale prendendo in considerazione i costi e i vantaggi. La parola migliori qualifica le tecniche più efficaci per ottenere un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso 42 “Raising EU R&D Intensity – Fiscal Measures” Report to the EC, 2003, pag.33

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aggiunto, ne’ significa ridurne il valore, ma significa definire diverse modalità di distribuzione della ricchezza creata. Gli obiettivi di promozione dello sviluppo sostenibile devono essere concretamente perseguiti attraverso un insieme di interventi in materia tributaria in coerenza con le esigenza di incremento della competitività dei sistemi territoriali e del sistema produttivo orientata alla:

rimodulazione del carico tributario dal lavoro al consumo e al prelievo delle risorse naturali non rinnovabili;

internalizzazione dei costi ambientali dei cicli produttivi aperti; riconversione ambientale delle attività produttive; promozione delle attività e degli investimenti in campo ambientale; risparmio ed efficienza energetica; mobilità sostenibile; politica delle risorse agricole; politica dei prodotti; gestione del territorio; promozione dello sviluppo sostenibile.

Il pieno raggiungimento degli obiettivi non può che passare attraverso il consenso da parte del sistema produttivo ed imprenditoriale, da ricercare ragionando sulla formazione della base imponibile per le imprese. Vanno dimensionati interventi tendenti a sostenere gli investimenti sull’innovazione tecnologica e sul rinnovamento produttivo mediante:

agevolazioni fiscali per investimenti ambientali per le PMI: investimenti di ricerca e sviluppo rivolti all’adozione di innovazioni di processo e di prodotto; costi dei diritti di brevetto industriale e di utilizzazione delle opere dell’ingegno che comportano innovazioni tecnologiche nei processi produttivi che determinano risparmi energetici, idrici e riduzioni di emissioni inquinanti; costi di acquisto delle immobilizzazioni materiali necessarie per prevenire, ridurre e riparare i danni ambientali tra cui le attrezzature, impianti e macchinari; partecipazione al sistema comunitario di eco-gestione ed audit EMAS; marchi di qualità ecologica Ecolabel; costituzione di consorzi finalizzati alla ricerca e sviluppo di prodotti o processi a basso impatto ambientale.

revisione dei criteri di ammortamento: revisione dei coefficienti di ammortamento per i beni strumentali orientata a criteri di premialità per le situazioni di eco-efficienza.

previsione di crediti d’imposta per investimenti nella sostenibilità, nell’adesione ad EMAS ed Ecolabel; nella sostituzione delle strumentazioni industriali aventi potenzialmente un carico inquinante. Si parla in particolare di motori industriali, sostituibili con motori ad alta efficienza energetica; di trasformatori, sostituibili con congegni dotati di tecnologie che permettono una alta efficienza energetica; di mini centrali idroelettriche e termo-elettriche alimentate con combustibili a basso impatto ambientale (metano, celle a combustibile ad idrogeno, metanolo, biomasse).

rimodulazione del carico fiscale in materia di IRAP: agevolazione sul piano della formazione della base imponibile dell’imposta per le aziende aderenti al sistema di ecogestione ed audit EMAS e di quelle che ottengono la

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certificazione ambientale di prodotto Ecolabel mediante l’esclusione dalla base imponibile dell’imposta del costo del lavoro; la possibilità di differenziazione delle aliquote da parte delle Regioni in funzione dei settori di attività e per categorie di soggetti passivi sulla base di standard comunitari di sostenibilità ambientale dei processi e dei prodotti.

agevolazioni per il potenziamento della politica delle risorse agricole: attività di rimboschimento; attività agricole biologiche certificate sulla base di standard comunitari; attività connesse allo sfruttamento delle biomasse a fini energetici; integrale deducibilità ai fini dell’IRAP dei costi relativi all’impiego di esperti e di tecnici al fine dell’adozione di pratiche agricole eco-compatibili e conformi ai criteri dell’agricoltura biologica.

creazione di regimi tributari agevolativi per le nuove attività produttive di rilevanza strategica nel contesto dello sviluppo economico sostenibile: attività di raccolta differenziata, riciclaggio e recupero dei rifiuti; salvaguardia ed implementazione del patrimonio boschivo; agricoltura biologica; sfruttamento energetico delle biomasse e produzione di biocombustibili; risanamento idrogeologico; produzione di dispositivi per il risparmio energetico; servizi alle imprese in materia di gestione e certificazione ambientale.

Disciplina tributaria agevolativa per nuove attività nel settore delle fonti rinnovabili: per i soggetti che iniziano una attività produttiva nel settore delle fonti rinnovabili di energia. Le attività meritevoli di sostegno sono quelle relative alla ricerca, allo sviluppo e alla realizzazione di impianti finalizzati alla produzione di energia elettrica e di calore attraverso l’energia solare, eolica, idraulica, geotermica e attraverso lo sfruttamento delle biomasse; alla produzione di idrogeno da fonti energetiche rinnovabili e dal gas naturale; alla realizzazione di impianti a celle combustibili per la produzione di energia e di sistemi di propulsione a idrogeno per il trasporto.

Disciplina tributaria agevolativa per i frutti del risparmio investito in fondi comuni ambientali: per i frutti ed i proventi derivanti dal risparmio affidato in gestione a fondi comuni di investimento ecologici, qualora abbiano rilevante porzione del capitale gestito investito in titoli di imprese che realizzano progetti ed interventi di sviluppo sostenibile suscettibili di utilizzazione economica. Tale tipo di misure è finalizzata ad incentivare la partecipazione del capitale privato alla realizzazioni di progetti di investimento in campo ambientale tramite la partecipazione in qualità di convogliatori di risorse specifici intermediari finanziari come i fondi comuni d’investimento.

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DATI EUROPEI ED ITALIANI A CONFRONTO

Scheda statistica di T. Federico e A. Barbabella43

Composizione comparativa dell’industria manifatturiera italiana

%numero di imprese in EU-15 % numero di addetti in EU-15

Eco- efficienza in EU: Materia (Minerali)

43 Tutti i dati ricavati, salvo esplicita notazione, da pubblicazioni ufficiali della Commissione Europea e da Eurostat

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Eco- efficienza in EU: Emissioni di precursori dell’ozono

Eco- efficienza in EU: Energia

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EU: Consumi ed intensità energetica

Intensità energetiche nel mondo

Con e senza la correzione del PIL in PIL PPP

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EU: Evoluzione a medio termine del PIL, dei consumi energetici e della relativa intensità

EU: Scambi commerciali con l’esterno

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Vantaggio comparativo = export/(export+import)

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Paesi membri EU: Dinamica della produttività del lavoro totale in PIL/occupato

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Dinamica della produttività del lavoro

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Paesi membri: Investimenti in ricerca e sviluppo nei settori privato (BERD) e pubblico

Brevetti accreditati da EPO nel 2002 (European Patent Office) per milione di abitanti Settore HI-Tech (ICT, Biotech, Farmaceutica, Aerospaziale) vs. altri

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OECD: Indice comparativo della capacità di innovazione (World Competitiveness Report 2002)

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DATI ED INDICI DELLA COMPETITIVITÀ IN ITALIA di A. Barbatella

Si propone di seguito una analisi, attraverso una selezione di sistemi di indici e indicatori internazionali, comunitari e nazionali, della competitività del sistema Italia al fine di fornire una valutazione sintetica della situazione attuale e di individuare i principali fattori di deficit. A tal fine sono stati scelti gli indici proposti dal World Economic Forum, gli indicatori di competitività selezionati da Eurostat per il sistema Sustainable Development Indicators (SDIs) e lo specifico indice tematico elaborato nell’ambito del recente progetto “Indicatori per lo sviluppo sostenibile in Italia” del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Nell’ultimo paragrafo si propone una integrazione degli indicatori proposti con l’intento di coprire tutti gli aspetti rilevanti che rientrano nella definizione di competitività adottata nel presente documento secondo i criteri indicati al capitolo In particolare secondo tale definizione, coerentemente con l’approccio adottato a Lisbona nel marzo del 2000 e confermato al Consiglio di primavera 2005, vengono proposte specifiche analisi relative al tema dell’occupazione, dello standard di vita e delle retribuzioni. Tale integrazione è opportuna non tanto perché gli approcci proposti siano estranei alla definizione adottata, quanto piuttosto per evidenziare aspetti rilevanti per la competitività che, altrimenti, non sarebbero emersi con la sola illustrazione degli indici e indicatori utilizzati. Ciò è dovuto da un lato all’elevato grado di aggregazione degli indici WEF che non rende visibili i singoli fattori componenti, dall’altro al fatto che nei sistemi Eurostat e CNEL la competitività è solo uno degli elementi utili alla più ampia valutazione della sostenibilità e che, pertanto, aspetti come l’occupazione o il reddito sono stati opportunamente trattati in altre aree tematiche, seppur connesse alla competitività. Tutti gli approcci riportati forniscono per l’Italia la stessa valutazione sullo stato della competitività: una condizione non in linea con le aspettative e le dimensione del Paese e che in rapido declino. Particolare attenzione è stata posta nel fornire un confronto con quelli che dovrebbero essere i principali riferimenti europei per l’Italia: anche tale analisi ha evidenziato una preoccupante deriva negativa del nostro Paese. L’analisi puntuale delle principali componenti che influenzano la competitività dell’economia ha messo in luce quelle che sembrano essere le principali criticità nazionale, in particolare:

Scarsi investimenti nell’economia della conoscenza e scarsa capacità di innovazione, alimentate da un sistema di educazione/formazione carente;

Quadro normativo e istituzionale inadeguato, con elementi di illegalità diffusa (corruzione, economia sommersa, sistemi clientelari...);

Livelli e qualità dell’occupazione inadeguati, uniti a retribuzioni sotto la media europea e a una bassa produttività del lavoro;

Fattori demografici avversi aggravati dall’incapacità di coinvolgere i giovani e di trattenere a lungo le persone nel mercato del lavoro, perdendo così capacità di innovazione e minacciando la coesione sociale;

Fattori di costo per le imprese (energia, lavoro) al di sopra della media europea.

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GLI INDICI DEL WORLD ECONOMIC FORUM (WEF) Da alcuni anni il WEF44 propone una analisi dello stato della competitività a livello globale (Growth Competitiveness Report) basata essenzialmente sui risultati di due indici: il Global Competitiveness Index (GCI),e il Business Competitive Index (BCI). GCI, il primo dei due indici è stato sviluppato per valutare la capacità di una crescita economica sostenuta sul medio-lungo termine, attraverso una analisi dei principali fattori che, secondo la teoria economica corrente, la influenzano. Nello specifico GCI risulta dalla combinazione di tre sub-indici: ambiente macro-economico, istituzioni pubbliche, tecnologia. BCI, il secondo indice, da considerarsi complementare al primo, pone una maggiore attenzione a quei fattori, tipicamente riferibili all’ambito della micro-economia, che influenzano la produttività e l’efficienza a livello di singola impresa. Il BCI è costruito su due sub-indici: la raffinatezza delle strategie e delle pratiche operative delle imprese, la qualità dell’ambiente per il business a livello micro-economico. Come prevedibile i due indici risultano fortemente correlati tra loro: è infatti difficile immaginare progressi significativi a livello di economia nazionale senza un miglioramento delle performance dei singoli attori del sistema imprenditoriale, e viceversa.

Correlazione positiva tra gli indici di competitività del WEF

44 WEF è un’organizzazione no-profit dell’imprenditoria internazionale con sede in Ginevra fondata 34 anni orsono. Promuove annualmente il Meeting a Davos, ormai una tappa obbligata nella quale si incontrano imprenditori e governanti per fare il punto sullo sviluppo mondiale. Pubblica dal 1979 il Rapporto noto come The Global Competitiveness Report. Con la ColumbiaUniversity di NY, il CIESIN e la Yale University pubblica annualmente l’importante Environmental Sustainability Index (ESI), forse il più noto tra gli indici unitari globali “privati” di sostenibilità.

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Per il prossimo rapporto il WEF sta sviluppando un nuovo indice di competitività per rappresentare meglio la complessità, crescente in una economia globale, di quei fattori che determinano la crescita economica e di benessere. Nel nuovo indice saranno inclusi, tra gli altri, indicatori per il capitale umano, per l’efficienza del mercato finanziario e del lavoro, per la qualità delle infrastrutture, per il grado di apertura al mercato etc. Il posizionamento dell’Italia Entrambi gli indici del WEF indicano per l’Italia una situazione critica e in peggioramento. In particolare nella elaborazione del BCI si rileva come l’Italia sia, tra i Paesi avanzati, quella che ha mostrato la più alta perdita di competitività a livello micro-economico, mostrata nelle figure seguenti dall’innalzamento pronunciato del ranking

Gli indici di competitività del WEF: confronto europeo

Business Competitiveness Index

0

10

20

30

40

ITA GER FR UK

104

Coun

tries

Ran

king

2003 2004

Growth Competitiveness Index

0

10

20

30

40

50

ITA GER FR UK

104

Coun

trie

s Ra

nkin

g

2002 2003 2004

L’analisi delle singole componenti degli indici è utile per individuare, in un quadro complessivamente negativo, quegli elementi particolarmente critici sui quali dovrà

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 75

concentrarsi l’attenzione di chi avrà il compito di risanare la situazione economica del Paese. La causa principale della performance negativa del BCI è il deterioramento dei fattori relativi alla già critica capacità di innovazione: investimenti in R&D e disponibilità di capitale di rischio, capacità di collaborazione tra mondo accademico e industriale, richiesta pubblica in tecnologie avanzate etc. Questo aspetto appare evidente anche analizzando il sub-indice tecnologico del GCI, che vede l’Italia passare tra il 2003 e il 2004 dal 44-esimo al 50-esimo posto della classifica globale, ben ultima tra i Paesi membri dell’EU. Nel calcolo del sub-indice sono inclusi elementi come il numero di telefoni cellulari, per il quale l’Italia si posiziona stabilmente nelle prime posizioni della classifica mondiale. Un elemento preoccupante della situazione italiana è la 48° posizione occupata stabilmente nella classifica del sub-indice del GCI che quota la qualità delle istituzioni pubbliche. Nell’EU-25 peggiore della nostra è solo la performance delle Repubbliche Slovacca e Ceca: questo rappresenta un fatto anomalo una c.d. core economy, ossia uno tra i primi paesi ad alto grado di industrializzazione. Nel calcolo del sub-indice rientrano parametri giuridici, contrattuali e di corruzione. A tale proposito è utile evidenziare come il WEF consideri l’aspetto della corruzione centrale per la competitività non solo, secondo l’approccio corrente, per le economie in via di sviluppo ma anche per i paesi ad alto reddito e industrializzazione.

L’indice tecnologico NRI del WEF: confronto in EU

Networked Readiness Index

0

10

20

30

40

50

ITA GER FR UK

104

Coun

tries

Ran

king

2002 2003 2004

In linea con l’idea che ha dato vita al progetto Europeo di Lisbona, scienza e tecnologia rappresentano, secondo il WEF, il principale motore del cambiamento profondo che sta caratterizzando il sistema sociale ed economico del nuovo millennio. Tra tutte le tecnologie, quelle della informazione e comunicazione (ICT) sembrano essere destinate a giocare un ruolo crescente nelle strategie economiche e di competitività a livello globale. Ciò vale, almeno in questa prima fase di questa nuova età dell’oro, in modo particolare per i paesi industrializzati. Per monitorare il

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 76

fenomeno il WEF, nell’annuale Global Information Tecnology Report, utilizza il Networked Readiness Index (NRI). L’indice è costruito attorno a tre pilastri: il quadro dello sviluppo delle ITC, definito, ad esempio, dal quadro normativo e dalla disponibilità di infrastrutture; la preparazione alla multimedialità di individui, imprese e governo; l’utilizzo attuale delle ICT sempre a livello individuale, di impresa e di governo. L’indice WEF-NRI mostra per l’Italia una situazione in preoccupante peggioramento. Il dato è comunque in linea con quanto emerso dallo studio degli indici specifici di competitività che indicavano nel c.d. dominio della conoscenza elementi di particolare criticità. L’analisi delle componenti del NRI mostra un ambiente politico e di regolamentazione particolarmente sfavorevole per lo sviluppo delle ICT, unito ad un bassissimo tasso di utilizzo delle stesse ICT a livello di governo.

IL SISTEMA DI INDICATORI DI COMPETITIVITÀ DELL’UNIONE EUROPEA Nel sistema di indicatori di sviluppo sostenibile (SDIs) l’Eurostat ha introdotto, all’interno del tematismo “Sviluppo economico”, il fattore competitività, monitorato attraverso sette indicatori. Di questi quattro fanno riferimento alla economia della conoscenza, due a quella che si potrebbe definire efficienza della forza lavoro, uno alla competitività dei prezzi a livello internazionale. Per effettuare una valutazione dello stato della competitività dell’Italia si prende come riferimento la posizione occupata per ogni indicatore nella graduatoria dei 15 paesi membri. Considerate la struttura socio-economica, le potenzialità e le aspirazioni del sistema Italia la valutazione andrebbe fatta prestando particolare attenzione alle migliori performance europee registrate piuttosto che alla media EU-15 e, in particolare, andrebbero sempre analizzate le distanze rispetto a quei sistemi che, sotto molti aspetti, sono da considerarsi più simili al nostro, Francia, UK e Germania. Eurostat non usa combinare l’informazione degli indicatori in indici di livello superiore, lasciando all’utente il compito di elaborare un giudizio sintetico. Dalla tabella seguente, che riassume tramite facet e freccette lo stato e l’andamento degli indicatori selezionati ne caso dell’Italia, si desume una situazione non certo confortante: nella classifica di sei indicatori su sette l’Italia occupa una posizione compresa nel terzo più basso (dal decimo al quindicesimo posto nell’EU-5), con una tendenza ad un ulteriore peggioramento di cinque di questi, mentre per nessuno si rilevano trend positivi che possano far pensare ad un qualche recupero.

Il set di indicatori europei Competitività SDIs

Indicatore Stato Andamento Labour productivity per hour worked ↓ International price competitiveness ↓ Unit labour cost growth ↓ Life-long learning ↓ Turnover from innovation ? Total R&D expenditure ↓↑ Public expenditure on education ↓

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 77

La Produttività oraria del lavoro misura la produzione media in termini monetari (PIL in PPS) di un’ora di lavoro.

Labour productivity1

3

5

7

9

11

13

15200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

Labour productivity

80

90

100

110

120

130

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

EU

-15=

100

Germany France Italy

Trattandosi di un rapporto sono diverse le combinazioni che portano ad un aumento o ad una diminuzione dell’indicatore. Il trend negativo mostrato potrebbe essere dovuto ad una minore produzione di valore aggiunto, ad un aumento delle ore lavorate o ad una combinazione di entrambi. L’indice di Competitività internazionale dei prezzi fornisce una misura delle variazioni in termine di costi o prezzi in relazione ai principali competitori sul mercato globale: più l’indice è alto e minore è la competitività in termine di prezzi. Si tratta di una misura della competitività di impresa a livello internazionale. L’indice è espresso in valori indice su base 1999: si tratta, pertanto, di un confronto sugli andamenti, non sul suo valore assoluto. I dati mostrano un generale peggioramento della competitività internazionale dei prezzi delle principali economie comunitarie: in questo quadro però l’Italia sottostà ad un trend particolarmente negativo.

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 78

International price competitiveness

1

3

5

7

9

11

13

152004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

International price competitiveness

80

90

100

110

120

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

1999

=100

Germany France Italy

Unit labour cost growth

-6

-4

-2

0

2

1995 1997 1999 2001 2003 2005

%

Germany France Italy EU15

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 79

Unit labour cost growth1

3

5

7

9

11

13

1520052004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

L’indice di Crescita del costo dell’unità di lavoro misura il tasso di crescita del rapporto tra il compenso e la produttività per singolo lavoratore in termini di PIL a prezzi correnti. L’indice, mettendo in relazione la retribuzione di un lavoratore con il valore monetario di ciò che produce, stima indirettamente la capacità della forza lavoro a partecipare alla crescita del valore aggiunto nazionale. Entrambi gli indici di efficienza economica della forza lavoro, primo e terzo sopra esaminati, disegnano una situazione non buona e in peggioramento. Va altresì precisato che per una corretta lettura di tali indici è necessario essere certi che un loro eventuale miglioramento non sia il risultato di un generale peggioramento delle condizioni lavorative. Nel caso italiano sembra di assistere ad una singolare congiuntura negativa che vede peggioramento di entrambi i termini. Quattro indicatori su sette hanno a che fare con il concetto di società basata sulla conoscenza, stabilito a Lisbona, considerata come cardine essenziale della competitività. Anche il paradigma di Lisbona conferma per l’Italia una situazione critica. L’indice di Apprendimento permanente45, connesso all’obiettivo di formazione permanente della forza lavoro, promosso a Lisbona, registra per l’Italia una performance che la posiziona penultima nella classifica dei 15 paesi membri, con un rapido peggioramento a partire dall’inizio del secolo. L’indice di Turnover dell’innovazione misura la percentuale del fatturato derivato dall’introduzione di prodotti (beni e servizi) nuovi all’impresa o al mercato sul fatturato totale. Nella tabella successiva si riporta il dato del 2000.

45 Misura la percentuale della popolazione adulta tra i 25 e i 64 anni coinvolta in programmi di educazione e formazione permanente

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 80

Life long learning1

3

5

7

9

11

13

152004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

Life long learning

0

2

4

6

8

10

12

1995 1997 1999 2001 2003

%

Germany France Italy EU15

All

NA

CE

bran

ches

- To

tal

Indu

stry

Min

ing

and

quar

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g

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W

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and

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t, st

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Fina

ncia

l int

erm

edia

tion

Rea

l est

ate,

rent

ing

and

busi

ness

act

iviti

es

Belgium 13,9 13,5 13,8 14,3 6,7 13,9 5,6 79,0 Denmark 18,0 21,9 8,6 23,7 4,1 15,4 16,2 8,2 15,7 27,4 Germany 23,3 35,2 6,4 36,5 22,3 13,1 7,4 16,0 16,0 20,3

Greece 8,9 7,5 7,6 13,6 20,2 4,0 10,3 24,4 Spain 33,1 31,0 32,3 32,5 2,7 35,7 26,4 49,5 34,4 36,5

France 11,9 12,2 0,5 12,9 3,1 11,2 6,6 24,9 13,9 13,6 Italy 16,1 19,1 8,3 19,9 9,4 12,1 6,7 13,2 14,3 32,3

Luxembourg 7,4 11,7 12,6 0,0 6,7 7,8 3,6 6,4 31,6 Netherlands 12,1 18,1 19,8 8,9 6,0 12,2 11,5 12,0

Austria 22,0 26,4 2,4 26,7 26,0 16,3 19,0 15,4 13,3 32,6 Portugal 15,1 18,2 15,5 12,3 10,4 11,0 12,4 48,6 Finland 17,5 24,1 7,8 27,3 4,6 7,0 2,9 15,9 20,9 Iceland 7,7 16,8 22,8 4,7 1,4 3,1 3,8 32,6 Norway 7,0 7,8 2,1 12,5 3,6 6,2 4,5 3,7 5,1 23,2

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 81

L’Investimento nazionale lordo in Ricerca e lo Sviluppo (R&D), che misura gli investimenti fatti dal settore privato e da quello pubblico in R&D in percentuale del PIL, è un indicatore tradizionalmente considerato essenziale per valutare i livelli di competitività di un Paese. L’Italia si posiziona agli ultimi posti della classifica europea a 15, senza mostrare significativi segni di miglioramento.

Gross domestic expenditure on R&D

0

1

2

3

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

%

Germany France Italy EU15

Gross domestic expenditure on R&D

1

3

5

7

9

11

13

15200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

L’ultimo degli indicatori del dominio della conoscenza è quello di Spesa pubblica per l’educazione, che include tutti gli investimenti pubblici nel settore, diretti o indiretti, in percentuale del PIL. Anche in questo caso l’Italia mostra valori non in linea con le sue aspettative. Un fenomeno solo in parte correlato ma comunque significativo in materia di educazione è il tasso di abbandoni scolastici prematuri particolarmente alto, anche se in progressivo miglioramento.

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 82

Public expenditure on education

4

5

6

7

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002

% G

DP

Germany France Italy EU15

Public expenditure on education

1

3

5

7

9

11

13

1520022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

Early school leavers

10

15

20

25

30

35

1995 1997 1999 2001 2003

%

Germany France Italy EU15

Early school leavers

1

3

5

7

9

11

13

152004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 83

IL SISTEMA ISSI DI INDICATORI CNEL 2005 Il Consiglio Nazionale Economia e Lavoro, CNEL, ha recentemente proposto un proprio sistema di indicatori per lo sviluppo sostenibile per l’Italia. Il sistema è stato elaborato utilizzando la metodologia originale sviluppata dall’Istituto Sviluppo Sostenibile Italia, ISSI, che prevede, tra l’altro, il calcolo di una serie di indici tematici tra cui uno specifico sulla competitività del sistema Italia. Tale indice, oltre ad essere stato costruito tenendo conto delle specifiche caratteristiche nazionali, ha il pregio di essere stato condiviso dalle parti sociali, dalla Confindustria e dai principali rappresentati del mondo economico e produttivo del Paese.

COMPETITIVITA'

0

5

10

15

20

1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004

anni

% d

el ta

rget

201

2

L’indice è espresso in termini di percentuale di conseguimento dei target fissati per ogni singolo componente dell’indice e condivisi in sede CNEL. I target di questo indice chiave si riconducono tutti al ristabilimento di un equilibrio con gli altri paesi dell’Unione Europea, adottando quando esistono, gli obiettivi di Lisbona, altrimenti il criterio dell’eguaglianza alle medie europee. La situazione descritta dall’indice proposto dal CNEL, in accordo con le altre valutazioni riportate, è decisamente negativa, avendo conseguito appena il 10-15% di quanto previsto per il 2012. L’indice è composto da cinque indicatori: i primi tre fanno riferimento al dominio della conoscenza di Lisbona e, in particolare, alla capacità di produrre innovazione; gli ultimi due sono relativi a due fattori ritenuti determinanti per la competitività sui prezzi del sistema industriale italiano.

Componenti dell’indice tematico di Competitività CNEL 2005

Indicatore Stato Andamento

Investimenti per R&D da settore privato ↓↑ Investimenti per le ICT ↓ Brevetti ↑ Costo energetico per l'industria ↓↑ Oneri sociali sul costo del lavoro ↓↑

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 84

Tra gli indicatori del dominio conoscenza l’unico a mostrare qualche segnale confortante è l’indicatore relativo al numero di brevetti che, seppure al di sotto della media europea in rapporto al numero di abitanti, mostra un trend inaspettatamente positivo se confrontato con gli indicatori di investimento cui dovrebbe essere naturalmente correlato. Nei grafici, secondo la metodologia ISSI, la linea del target rappresenta il percorso ideale, di minimo sforzo, per il conseguimento dei target fissati.

Gli ultimi due indicatori misurano due fattori ritenuti determinanti dalla industria italiana nella determinazione dei costi e, quindi, della competitività d’impresa. Per quanto riguarda i prezzi dell’energia, nonostante la privatizzazione del settore, a partire dal 1996 si è assistito ad un rapido peggioramento rispetto alla situazione media europea. Inoltre, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, tali prezzi

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 85

tendono ad aumentare. Nel grafico sottostante è rappresentata la distanza dei prezzi dell’energia in Italia dal prezzo medio europeo, differenziata per energia elettrica e fornitura di gas.

L’altro elemento che è stato ritenuto determinate dal sistema industriale per la competitività sui prezzi è la percentuale di oneri sociali sul costo del lavoro, più alta della media europea ma, a differenza dell’energia, con una derivata favorevole. Va comunque osservato come il confronto con altri paesi europei tra gli oneri sociali sul costo del lavoro sia solo in parte significativo in quanto influenzato da sistemi di fiscalità strutturalmente diversi ed è connesso a fattori come la flessibilità dell’occupazione, la privatizzazione del sistema sanitario etc.

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 86

Altri elementi utili ai fini della analisi e valutazione della competitività La definizione di competitività data a Lisbona impone a qualsiasi tentativo di analisi e valutazione di includere elementi in grado di monitorare l’andamento dello standard di vita, dei redditi e della occupazione. Di seguito si riportano gli andamenti di una serie di indicatori ritenuti significativi in questo senso, nel tentativo di giungere ad una valutazione il più possibile completa della competitività.

Indicatore Stato Andamento

Growth rate of GDP per capita ↓ GDP per capita ↓↑ Total employment rate ↓↑ Total unemployment rate ↑ Unemployment rate aged less 25 years ↓↑ Average gross annual earnings ↓

Lo standard di vita, in linea con i documenti europei, viene misurato in termini di Prodotto Interno Lordo pro capite. Si propongono due diversi indicatori. Il primo misura il tasso di crescita nazionale del PIL (a prezzi costanti) e il secondo il suo valore pro capite (in PPS). Come risulta evidente dalle figure a livello comunitario i PIL nazionali sono strettamente correlati tra loro. Eppure in questo quadro l’Italia mostra una performance particolarmente deludente che la porta al peggiore tasso di crescita europeo nel 2004. Anche in termini di ricchezza pro capite a parità di potere di acquisto la situazione non sembra incoraggiante. La piena occupazione è uno degli obiettivi strategici europei. Per un paese ad alto reddito, la qualità dell’occupazione diventa altrettanto rilevante. Purtroppo quest’ultimo aspetto non è facile da misurare e per una sua valutazione si rimanda ad analisi estensive sull’argomento, registrando l’idea diffusa che le recenti evoluzioni degli standard contrattuali non abbiano migliorato la qualità dell’occupazione. Rimanendo ad una analisi dei soli aspetti quantitativi del mercato del lavoro la situazione italiana appare critica. Il tasso di disoccupazione sembrerebbe restituire una immagine, seppur negativa, meno critica. A differenza dell’occupazione, che in accordo con la definizione corrente al denominatore conta la popolazione totale tra i 15 e i 64 anni, il tasso di disoccupazione è calcolato sul numero delle sole persone occupate o in cerca di lavoro, che rappresentano la c.d. forza lavoro: da ciò un suo miglioramento dell’indicatore potrebbe essere dovuto al fatto che molte persone disoccupate non cercano più lavoro in quanto scoraggiate. Un fattore rilevante ai fini della competitività e del mercato del lavoro è legato agli aspetti demografici. Un sistema poco inclusivo nei confronti dei giovani e che espelle precocemente forza lavoro non è efficiente. In Italia entrambi i fenomeni sono rilevanti. Particolarmente grave è l’elevato tasso di disoccupazione tra i giovani che, unito ad alti indici di vecchiaia della popolazione e di conseguenza a tassi di attività strutturalmente bassi, incidono in modo negativo non solo sulla competitività, ma sulla stessa coesione sociale.

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 87

Growth rate of GDP per capita

-1

0

1

2

3

4

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

%

Germany France Italy EU-15

Growth rate of GDP per capita

1

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152004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

GDP per capita in PPS

105

110

115

120

125

1995 1997 1999 2001 2003

EU-2

5=10

0

Germany France Italy EU15

GDP per capita in PPS

1

3

5

7

9

11

13

152004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 88

Total employment rate1

3

5

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13

15200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

Total employment rate

50

55

60

65

70

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

%

Germany France Italy EU15

Total unemployment rate

1

3

5

7

9

11

13

152004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU-

15

Total unemployment rate

6

7

8

9

10

11

12

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

%

Germany France Italy EU15

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INDUSTRIA E SOSTENIBILITÀ COMPETITIVITÀ ED ECOEFFICIENZA

ISTITUTO SVILUPPO SOSTENIBILE ITALIA 89

Unemployment rate of population aged less than 25 years

1

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7

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13

152004200320022001200019991998199719961995

ITA

Ran

king

EU

-15

Unemployment rate of population aged less than 25 years

10

15

20

25

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1995 1997 1999 2001 2003

%

Germany France Italy EU15 Un elemento che fa parte in modo esplicito della definizione europea di competitività è quello della crescita delle retribuzioni. L’indicatore Reddito annuo medio lordo dei lavoratori a tempo pieno nel settore industria e servizi mostra per l’Italia valori molto al di sotto della media europea e dei partner di riferimento, con scarsi segnali di progresso. Un altro elemento che fa parte in modo esplicito della definizione europea di competitività è quello della crescita delle retribuzioni. L’indicatore Reddito annuo medio lordo dei lavoratori a tempo pieno nel settore industria e servizi mostra per l’Italia valori molto al di sotto della media europea e dei partner di riferimento, con scarsi segnali di progresso.

Average gross annual earnings

15000

25000

35000

45000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

Euro

Germany France Italy EU15

Average gross annual earnings

1

3

5

7

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ITA

Ran

king

EU

-15