Raffaele Morelli - Le Piccole Cose Che Cambiano La Vita

120
Raffaele Morelli - Le Piccole Cose che Cambiano la Vita Il segreto della felicità nascosto nei gesti quotidiani Oscar Mondadori 2008

Transcript of Raffaele Morelli - Le Piccole Cose Che Cambiano La Vita

Raffaele Morelli - Le Piccole Cose che Cambiano la Vita Il segreto della felicit nascosto nei gesti quotidiani

Oscar Mondadori 2008

Introduzione Questo libro ha un titolo semplice, Le piccole cose che cambiano la vita, e il lettore potrebbe credere che con una serie di gesti compiuti in modo idoneo, la sua vita diventer meravigliosa, realizzata o, con una parola che oggi molto di moda, "efficiente", insomma di successo. Se pensa cos, ha acquistato il libro sbagliato... Qualcun altro potrebbe ritenere che piccoli cambiamenti allo stile di vita possono produrre grandi effetti, tipo un nuovo lavoro, un amore pi coinvolgente, relazioni meno conflittuali con i figli: una nuova vita. Anche chi ragiona cos ha acquistato il libro sbagliato... Questo libro, in realt, scritto per gli occhi. S, per gli occhi, o meglio per chi vuole avere "buoni occhi"... Quando tengo una conferenza, prima di cominciare io guardo gli occhi delle persone che vengono a sentirmi, li guardo senza farmi vedere, senza mostrare alcun particolare interesse. Cos, nei gruppi che conduco, guardo sempre gli occhi dei partecipanti. E sono quasi sempre e quasi tutti completamente offuscati-Che cosa intendo per offuscati? No, non intendo che vi sia una particolare malattia agli occhi, che la vista sia deficitaria o il campo visivo ridotto. No. lo sguardo che lontano, le persone sono l a sentire le cose che dico, ma sono lontane... Sono l che ascoltano, ma con il pensiero sono altrove. I loro occhi non sono l, a sentire, ad ascoltare, a vedere se c' qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto, di straniero, che potrebbe loro veramente "aprire gli occhi". No, sono "occhi vecchi", stanchi, quelli con cui guardiamo

le cose, occhi comuni, occhi senza speranza. "Il mondo questo, bisogna prenderlo cos com', bisogna accontentarsi" sembrano dire. Sono "occhi accontentati" quelli di cui parlo, occhi statici, occhi domati, pieni della certezza di una vita gi tracciata. Per la verit, questi "occhi spent" li vedo anche nei giovani medici e psicologi che vengono alle lezioni di psicoterapia. Non tutti, ma la stragrande maggioranza sa gi come sar la sua vita. A trent'anni tutti sanno gi dove andranno a parare. Mi accorgo di questi occhi offuscati quando, mentre parlo, qualcuno si accosta al suo vicino di sedia per commentare quello che dico. In genere interrompo la lezione e mi rivolgo alle due persone, dicendo loro: "Se parlate tra di voi, non siete qui e, se non siete qui, se siete distratti... non siete niente". Queste parole colpiscono: non c' cosa che ci fa pi paura, nella nostra cultura legata alla becera apparenza, di non essere qualcuno, di non essere importanti. Mai il Nulla, il Niente, attributi della morte, hanno spaventato un'epoca quanto la nostra. In chi parla con il vicino, gli occhi non sono l ad ascoltare, no, gli occhi sono altrove, non sono immersi nel presente, sono offuscati dai pensieri, dalla propria visione del mondo, dalle proprie certezze, insomma dal passato; non sono l nell'adesso. Nessuno ha niente da imparare. Ciascuno si porta in giro la sua "mentalit". Mentre facevo vedere a un gruppo un esercizio per allontanare il mal di testa, e mentre ascoltavo una signora soddisfatta la quale diceva che il dolore era scomparso, Rosanna, un'altra del gruppo, si messa subito a dire: "Il mio mal di testa diverso, non passa con niente". Un giorno Rosanna mi ha raccontato di avere finalmente provato e il mal di testa, dopo anni di analgesici, si attenuato e in poche sedute scomparso. La mia tecnica semplicissima: si tratta di portare l'attenzione sul capo, ed esattamente nel punto in cui il dolore si

avverte pi forte. Si tratta di far lavorare l'attenzione, la presenza ulteriore. Dove mi fa male? In che punto esattamente? Il mio mestiere consiste nel percepire in che luogo, magari una piccolissima zona, sento il dolore pi forte. Da qui, immagino che il dolore si espanda dolcemente per tutto il capo, sino ad allontanarsi. Cos ha fatto Rosanna, e la cefalea che durava da anni scomparsa. una cosa semplice da fare, facile da praticare. Eppure, quando qualcuno ai gruppi mi parla dei suoi dolori e io lo invito a fare cos, cio a cercare semplicemente il punto dove nasce il dolore, il disagio, e a portarci sopra l'attenzione, all'inizio tutti dicono: "Vede Morelli, il mio mal di testa diverso". In realt, tutti vogliono dire un'altra cosa: "Io sono come sono, i miei disturbi sono speciali, la mia vita non cambier mai". Quando parli con il vicino mentre qualcun altro cerca di insegnarti qualcosa che non conosci, non sei l in quello che sta accadendo, e se non sei l come se non esistessi, come se non fossi nulla. Gli occhi sono offuscati dai pensieri... Nessuno presente a ci che fa. Nelle scuole non si insegna la presenza interiore, al contrario, si riempie il cervello di nozioni. Chi valuta se i nostri bambini hanno una loro specificit? Chi ritiene che sia importante sapere che "pianta" sono, che cosa ha di diverso Roberto da Francesco? Noi vogliamo che siano attenti alle cose che insegniamo loro, non ci viene il dubbio che a loro non servano le nostre nozioni vecchie, superate, ormai morte. Sino a quattordici anni il cervello non attiva i circuiti per la matematica, e quindi insegnarla serve solo a stancarli, a ri-durne la creativit. Certo, se uno un "genio matematico" la imparer facilmente, ma per tutti gli altri sar un esercizio inutile. Cos come inutile far leggere Dante, che scriveva nella lingua del suo tempo, o i Promessi Sposi. Sono libri datati, figli della loro epoca... Ma noi ci siamo identificati con quei modelli, e pensiamo che siamo arrivati a essere ci che siamo grazie a quelle let-

ture. Personalmente, penso che siamo arrivati a essere ci che siamo "nonostante" quelle letture. I bambini lo sanno bene: essi sono la nuova semenza del mondo e per questo il loro cervello, che il seme dell'universo, partorisce nuovi modelli, nuovi modi di essere, nuovi linguaggi Basta guardare Internet e gli SMS nelle loro mani, cos come la PlayStation, quali intelligenti innovazioni mentali sono in grado di produrre. Insomma, dovremmo essere noi a imparare dai nostri piccoli, dai loro occhi sempre svegli, attenti, aperti, curiosi, facili alle sorprese, pronti a ogni magia. Siamo riusciti a far trovar loro insopportabile persino il Libro dei libri, l'Odissea, il libro che racconta i percorsi inferiori della vita come nessun altro, che racconta, nel suo linguaggio sempre attuale, il viaggio che ognuno di noi deve compiere verso la sua Itaca, verso la sua terra promessa, e quali demoni si debbano incontrare. Calipso, il Ciclope, Circe, le Sirene sono i temi eterni, i volti dell'anima che spettano a ognuno di noi. Questo libro si basa sugli occhi, e sulla luce: s, perch c' una luce misteriosa dentro di noi. Il sole non sorge tutti i giorni solo intorno a noi, come lo vediamo, no, la stessa luce inonda il nostro cervello, lo rende cosciente, e quell'ammasso di atomi e di sostanze che siamo, quel codice animale in cui siamo imprigionati, capace di secernere la coscienza, la consapevolezza, la presenza interiore. Ma questa "luce interna" quasi sempre offuscata dai pensieri, dai ragionamenti, dagli scopi che diamo alla nostra vita, e ancora dai ricordi, dal passato, dalle abitudini, dagli schemi di tutte le epoche che ci hanno preceduto e che ci si sono depositati dentro. Il filosofo greco Plotino sapeva che in ognuno di noi esistono due personaggi: quello esteriore, condizionato, domato dai pensieri, dalle convinzioni, dalle mode dell'ambiente. Plotino lo chiamava "la copia". Ma chi di noi accetta di essere una copia o, si potrebbe di-

re oggi, una fotocopia di tutti gli altri? E poi c' il secondo personaggio, antico, vivo, autentico, che ci risulta completamente estraneo e sconosciuto. Per questo vale la pena di vivere, pensava Plotino. Chiss chi sar stato in un'altra vita, si chiedono in molti. Ma, in realt, solo un alibi per giustificare l'assenza di successi, di risultati, gli amori frustrati di questa vita. Mentre ci chiediamo quale principe o principessa siamo stati nel Settecento, mentre pensiamo a una vita migliore di quella che conduciamo, mentre seguiamo i modelli, mentre cerchiamo di assomigliare a questo o a quel personaggio, noi non siamo mai veramente l nelle cose che facciamo. Mentre ci poniamo domande su noi stessi, mentre cerchiamo di capire chi siamo e dove andiamo, stiamo compiendo il pi imperdonabile degli atti: perdere quella "luce interna", quel bagliore che riposa incessantemente dentro di noi. C' qualcosa adesso, proprio adesso, che sta partorendo l'essenza che sono, il corpo che vedo. L'essenza di me stesso vive nel silenzio, e fa ci che sono senza il mio parere, senza alcun pensiero. Non lo vedo perch guardo dalla parte sbagliata, perch sono identificato nella mia storia, in ci che credo di essere e, pi di tutto, nei miei pensieri. I pensieri sono un altro campo energetico, un altro territorio, un'altra dimensione. Vedersi, vedersi senza pensieri e giudizi tutta la partita: se voglio cambiare vita non potr mai farcela ragionandoci su. La mia forza, il mio potere interiore, la mia realizzazione, vivono agli antipodi dei pensieri. L'anima non ama i pensieri, vive in un altro mare, dove le "gocce dell'immenso" si propagano attraverso quella "luce senza tempo" che la mia presenza ulteriore. Percepire il mio interno, adesso! Che cosa mi abita adesso? Che cosa percepisco dentro di me adesso? Come sto? Quando pongo questa domanda ai partecipanti dei miei gruppi, quando chiedo: "Tu come stai?", tutti rispondono: "Bene", come si fa sull'ascensore incontrando l'inquilino di un altro piano. La risposta scontata: "Bene, grazie, e lei?".

Sono risposte meccaniche... Con noi stessi facciamo la stessa cosa: "Come stai?", ci chiediamo. "Sento una grande tristezza perch mio padre se ne andato di casa", oppure: "Mi sento agitata perch il mio lavoro non mi piace". Nei confronti delle percezioni interne la parola "perch" andrebbe abolita. Che cosa senti? Tristezza, indecisione, irrequietezza oppure freddezza, apatia o rabbia... Qualsiasi cosa proviamo, la stiamo provando adesso, occorre che i nostri occhi la percepiscano nel momento in cui ce ne accorgiamo, mentre la percepiamo. Io non voglio dare la spiegazione del mio disagio, io voglio percepirlo bene, essere presente. Essere presente il contrario di pensare: semplicemente ascoltare senza commento gli stati d'animo, cio gli stati dell'anima. "Ero in acqua, al mare, e anche mentre nuotavo pensavo alla mia vita che non va, alla mia insoddisfazione, al rapporto con il mio compagno che non funziona. Pensavo e ripensavo", mi scrive Nadia, di trentotto anni. Il pensiero diventato il nostro compagno di viaggio, crediamo di essere pi di tutto i nostri pensieri, e con i pensieri vogliamo correggere, rimettere le cose a posto. Ci dimentichiamo che la soluzione in quella "luce interna": lei sa cosa fare, i pensieri no; essi rimbalzano su se stessi, ridondano, non risolvono i problemi, non hanno soluzioni. Nadia continua: "All'improvviso, mentre ero lontana dalla riva, si sollevato un temporale, il vento e le onde hanno incominciato a travolgermi. Di colpo ho smesso di pensare, di ragionare sulla mia vita, su cosa era giusto o sbagliato. arrivata la paura: un'onda mi ha travolto, ho cominciato a bere, c'era un mulinello, una corrente che mi trascinava verso il basso. Ho nuotato con tutte le mie forze e quando ho visto che non ce la facevo, mi sono lasciata trasportare dalla corrente, abbandonandomi alle onde. "Forse, per la prima volta nella mia vita ero l, presente a

me stessa, tutta coinvolta, presa nei gesti, nelle azioni, nei movimenti del mio corpo che dovevano portarmi in salvo. Non so quanto ho nuotato, ma stavo facendo le cose che dovevo fare; ero totalmente immersa in me stessa. La paura scomparsa: qualcosa dentro di me mi guidava, non mi faceva fare sforzi inutili, seguivo la corrente. Non mi spaventavo vedendo che mi allontanavo sempre di pi dalla riva. Non avevo paura di morire, ero in uno stato di dolce incoscienza, ma consapevole di quello che dovevo fare. A poco a poco sono arrivata a riva senza accorgermene". Qualcosa dentro di noi sa cosa fare se siamo presenti alle nostre azioni. Ancora di pi, dobbiamo imparare a essere presenti quando arrivano i disagi: sono come le onde del mare di Nadia. Non c' da pensare, da ragionare su come allontanarli; c' da percepire bene, con attenzione, quello che capita dentro di me. Io voglio osservare il mio disagio. Non commentarlo, non mandarlo via. La "luce interna" del cervello far la sua parte; cos hanno detto i saggi di tutti i tempi. Sapevano che la consapevolezza un altro territorio energetico, di quella stessa "energia intelligente" che ha il seme che, senza pensare, si trasforma in pianta, la stessa che ha una cellula fecondata che "fa" un bambino senza alcun ragionamento. stata questa "intelligenza innata" che ha salvato Nadia. in lei che vivono le nostre speranze di cambiamento, di realizzare una vita "su misura" per ognuno di noi. E arrivo ora alle "piccole cose che cambiano la vita". Che cosa intendo? Camilla, di trentadue anni, mi ha scritto per dirmi che ha scoperto l'antidoto per la sua ansia, per le sue difficolt esistenziali, per i suoi rapporti insoddisfacenti con il marito e con i figli: "Sa come faccio Morelli, quando sento che l'ansia sta per arrivare? Io mi metto l a percepirla. Da lei e dai suoi libri ho imparato a non combatterla. La lascio salire, parte dalla pancia, e non mi oppongo fino a che arriva al petto e poi alla gola. Quando sento che mi soffoca cedo an-

cora di pi e lei, l'ansia, si ferma, si allontana. A quel punto mi metto a fare il bucato. Prendo i panni sporchi, li metto nell'ammorbidente, metto le mani nell'acqua e sono tutta l. Non c' che quello: spengo TV, telefonino. Mi godo il lavaggio, la lavatrice, i panni bagnati, lo stenderli. Morelli, io sar matta, ma mi godo il bucato. In quello stato non c' alcuna sofferenza, alcun problema. Ma la cosa che le sembrer pi strana che, finito il bucato, mi sembra di essere un'altra donna. Le cose che prima mi assillavano sono del tutto scomparse. I problemi che un'ora prima erano una montagna, dopo il bucato non ci sono pi". Che cos' il bucato? Quella che si potrebbe chiamare un"'azione minima", come versarsi il caff, bere un bicchiere d'acqua, ricamare, guidare, camminare, mangiare, preparare la tavola, fare i letti. Azioni qualsiasi che ci sembrano di secondaria importanza nella vita di tutti i giorni. Ci sembrano di secondaria importanza perch siamo assorti dai pensieri, che ci dicono che cosa giusto o sbagliato per noi, dove andare, cosa cambiare della nostra vita, che cosa va bene o cosa non va bene di noi, cosa migliorare... Chi direbbe mai che esiste una "luce interna", immensa, che regala la gioia, la pace, la felicit quando facciamo il bucato? Non ce ne accorgiamo perch siamo identificati nei ragionamenti, perch pensiamo e crediamo di esistere solo l. Dopo un po', abbiamo una spiegazione per tutto: ognuno crede di conoscere la causa della sua tristezza. E immediatamente associamo la tristezza a un abbandono subito, o ad altro. Ci si deve accorgere che c' tristezza e prenderne atto, prendere visione di quello che percepisco dentro di me. Se non percepisco che in questo momento c' la tristezza o l'ansia o l'insoddisfazione, non potr stimolare la mia "luce interna" ad allontanarla. Quello stato di "estraneit" del bucato non un'azione inutile, ma il gesto che fa tramontare l'Io, i pensieri, che annulla le mie soluzioni, la mia storia, e prepara il terreno perch

la "luce interiore", l'"intelligenza del seme" si affacci, svolga la sua funzione, sviluppi la mia natura, la mia pianta, l'essere che sono. Questo stato di "estraneit", che le donne conoscono bene quando sono dedite alle azioni minime, come il trucco, il lavoro a maglia, lo stirare, il cucinare, forse il pi potente stato terapeutico che possiamo produrre spontaneamente senza farmaci. il balsamo dei balsami, l'elisir. C' una regola da sapere e da imparare: non devo mai ragionare sulle cose dell'anima, mai dare spiegazioni alle emozioni, ai sentimenti, alle fantasie, alle immagini, e men che meno pensare alle cause della mia tristezza o della mia ansia. Il mondo dei pensieri appartiene a un'energia pesante, quella della terra, mentre il mondo delle immagini, dei sentimenti e degli affetti, appartiene alla sfera dell'acqua. Emozioni, sentimenti e immagini sono mutabili, i pensieri invece sono terreni, statici. Ogni volta che penso a un mio disagio sto buttando terra sull'acqua, e cos creo una palude energetica, rendo statica la mia anima. Sentite come parla di questi due mondi (quello della ragione, dei concetti, e quello opposto delle emozioni, degli affetti, delle immagini) Gaston Bachelard, il grande filosofo francese, quando, ormai vecchio, scopre che queste due dimensioni stanno agli antipodi, ai lati opposti della vita psichica: "Cos, immagini e concetti si formano ai due poli opposti dell'attivit psichica: l'immaginazione e la ragione. Tra di loro gioca una polarit di esclusione. Non vi nulla di comune con i poli del magnetismo. Qui i poli opposti non si attirano; si respingono. Bisogna amare le potenze psichiche con due amori diversi se si vogliono amare i concetti e le immagini, i poli maschile e femminile della Psiche. Io l'ho capito troppo tardi".1 Le cose dell'anima, emozioni, sentimenti, affetti, vengono imprigionate dai pensieri, imputridite, rese stagnanti, fissate da quella terra pesante che sono i ragionamenti.

Come l'acqua, i disagi arrivano e se ne vanno: non vero che l'ansia o la tristezza ci sono e ci saranno sempre; l'anima detesta la parola "sempre". No, ci sono adesso: se li guardo se ne andranno, se mi metto a ragionarci su si fisseranno l. I pensieri bloccano l'anima, e Bachelard lo sapeva come nessun altro. E cos, questo libro dedicato a Iside, l'unica vera potenza del femminile, la Dea tra le dee. Gli antichi pensavano che il femminile fosse la forza capace di trasmutare il mondo, di portarlo a destinazione e di portare ciascuno di noi verso la sua casa, verso la sua dimora. L'anima ci porta i disagi non perch siamo sbagliati, non perch siamo vittime di una storia sfortunata, ma per liberarci. La sua "acqua" ce li mette davanti agli occhi, al nostro sguardo, non perch ci ragioniamo su, ma perch li guardiamo, perch portiamo la presenza ulteriore, l'attenzione su di loro. La Dea ci vuole insicuri, incerti, fragili: non ne pu pi delle parole che ci diciamo, dei soliti pensieri, della "copia" che siamo diventati, per dirla con Plotino. I disagi vengono per essere guardati, non combattuti o spiegati. Alla Dea, alla signora delle anime, interessa che ciascuno di noi realizzi la sua natura, e che cos sia unico e non assomigli a nessun altro. Ecco cosa mi scrive Maria, che viene ai miei gruppi del gioved e ha scoperto il ballo come antidoto ai suoi attacchi di panico: "Quando ho iniziato a ballare sentivo dentro di me che ci che stavo facendo era insolito, anche se per me era come se fosse una cosa naturale e che conoscevo da tempo. Se ti ricordi una volta ti ho detto che ogni tanto, mentre mi recavo a scuola di danza, volevo scendere e prendere il tram opposto: sentivo dentro di me che il ballo mi faceva entrare in un'altra dimensione, quasi mi estraniava dal mondo. A volte ho la sensazione che in quel momento esistiamo solo io e i passi che danzano sulle note della musica".

Il suo insegnante non credeva che Maria non avesse mai ballato, che fosse la prima volta. Pensava che lo ingannasse, che avesse gi fatto chiss quanti corsi di ballo... Maria non lo sapeva, il suo insegnante nemmeno, ma la Dea, la sua donna interiore, non voleva che lei ragionasse, voleva farle perdere la testa, insomma, farla ballare. Sentite che riflessioni fa Maria sui suoi disturbi, che l'hanno portata a entrare nelle librerie a leggere testi che mai si sarebbe sognata di sfogliare: "Leggendo Lao Tzu ho scoperto che le varie forme dell'arte sono differenti modi di meditazione, vie di realizzazione di s attraverso lo sviluppo intuitivo della coscienza. Quindi, quando ballo medito, e devo presumere che meditando arriver alla consapevolezza, cio arriver alla mia essenza, alle 'ragioni' per cui sono su questa terra? Ultimamente, anche dalle deduzioni delle mie letture, sono sempre pi convinta che siamo su questa terra per adempiere a un compito e che se non lo realizziamo, visto che la nostra natura, ci ammaliamo. Esso attraverso l'ansia, la depressione, il panico, 'bussa nella nostra anima', e pi non gli diamo ascolto, pi la forza del bussare aumenta. Se non d sediamo, o meglio ci sdraiamo e lo ascoltiamo, possiamo arrivare anche alla morte, e ho letto che poi ci servir un'altra vita per adempierlo. vero ci che dici tu, che l'ansia, il panico, la depressione, i pensieri perversi non sono mai uguali. Quando ero a Catania vivevo perennemente in uno stato ansioso, tutte le notti non dormivo. Poi sono arrivati gli attacchi di panico. Le prime volte ebbi paura, sentivo che stavo morendo, e cercavo di stare all'erta, poi, a mano a mano quella sensazione di morte incominci a piacermi: per un po' staccavo da quello stato ansioso. Con ci non ho voluto rivangare il passato, ma dirti che, pensandoci bene, in quel modo ho ceduto, e credo che siano stati loro a portarmi da te." I disagi vengono per portarci un altro lato di noi stessi, una dimensione sconosciuta. Se i pensieri ci trascinano nel fango, la "luce ulteriore", la presenza ulteriore potenzia l'anima. Che cos' la Dea? Che cos' l'anima?

la forza femminile che porta i semi a diventare piante, e in questo senso provvidenza, piacere, mutamento, crescita, cambiamento, divenire... Insomma, la Iside degli antichi, la Dea di tutte le dee. Che cosa le pi gradito? Ed ecco lo sguardo... Lo sguardo la inonda di luce, libera l'"intelligenza innata" che le ricorda chi siamo e dove dobbiamo andare. Il resto lo fa lei. Per questo fondamentale accorgersi dei nostri stati d'animo, chiedersi: "Come sto?" e percepire la tristezza, se c', e non combatterla. Lo sguardo posato sugli stati d'animo, inonda di luce l'interiorit, la porta in un'altra dimensione, via dalla terra dei pensieri. Se impariamo a "sostare" nelle cose che facciamo e a lasciare tutto cos com', d rendiamo conto che le cose cambiano senza che ce ne accorgiamo. Che la gelosia, l'invidia, il dolore, non durano, che il nostro Io, sono i nostri pensieri che li cronicizzano. Quando sono presente a ci che facdo, quando sono immerso nelle azioni minime il cervello libera la "luce del seme" e il mio essere trasmuta. Jan Vermeer, il grande pittore fiammingo del Seicento, lo aveva capito. Nei suoi quadri illuminava solo le azioni minime come versare il latte, scrivere una lettera, indossare una collana... Aveva capito che senza pensieri siamo immersi in una "luce interna", profonda, capace di cambiare la vita. nota: 1 Gaston Bachelard, La poetica della rverie, Edizioni Dedalo, Bari 1987, p. 61. 1 Immergiti nelle azioni minime Caro dottor Morelli, vorrei sottoporle un quesito per me urgente. Conosco e leggo la sua rivista da tanto tempo, ho letto decine e decine

di libri sulle filosofie orientali (quelle occidentali le ho studiate a scuola), pratico la meditazione yoga vipassana e, soprattutto, cerco di applicare alla vita di tutti i giorni gli insegnamenti che queste letture mi hanno dato, insieme alla psicoterapia che ho fatto in passato. Sono riuscita a superare i miei problemi pi gravi, la bulimia e propensioni auto-distruttive, e oggi sto abbastanza bene. Abbuffate e inclinazioni nichiliste sono solo un lontano ricordo. Anche nella sfera sentimentale sono riuscita ad accettare di non poter avere una relazione stabile e duratura, e non ne faccio un dramma. Vivo la vita come un flusso, senza domandarmi se ho raggiunto o meno le famose tappe obbligatorie: laurea, matrimonio, figli, una casa ecc. Nel lavoro invece ho grandi difficolt, che neanche tutto il mio cammino interiore riuscito a scalfire. Le faccio un esempio calzante e recentissimo. Sono una promotrice finanziaria e due giorni fa ero a Milano per la convention annuale. Era stato invitato Fabio Capello che, come era prevedibile, ha tenuto un intervento su come "essere vincenti". Naturalmente, tutti gli incontri a cui partecipo hanno lo stesso tema, dato che lavoro in un'azienda che deve vendere e guadagnare; quindi questa non un'accusa contro l'allenatore. Si parlato di lotta, di "tener duro", di andare diritti alla meta, di non cedere mai, di avere obiettivi sempre e comunque pi ambiziosi, di considerarsi al di sopra degli altri... Tutto questo agli antipodi rispetto a quello che insegnano il Buddha, il Tao, e ogni altro Saggio. Io mi sento squartata dentro: da una parte questi insegnamenti che mi sono consoni, e che hanno dato sollievo alla mia perenne angoscia, dall'altra la crudezza della realt, l'impellenza delle bollette da pagare e dei soldi per vivere onestamente! Non riuscir mai a essere un "bravo venditore" come la societ pretende da me, e mi chiedo: c' in questo caso una via di mezzo, una soluzione intermedia, o qualcos'altro che non conosco? Si pu vivere in questa societ materialista, consumista e truffldina, coltivando il vuoto, la cedevolezza, e meditando? Per poter essere "cedevole", devo necessariamente ri-

nunciare a un certo tipo di lavoro? Pu la motivazione non essere solo quella economica? Un manager pu essere zen? Spero di essermi espressa chiaramente. Il problema ampio e molto diffuso, mi creda. La prego di rispondermi, perch tengo molto a quello che lei pu pensare al riguardo. La ringrazio anticipatamente. Con affetto, Raffaella Sa, cara Raffaella, che cosa ho imparato pi di tutto in questi anni? A ridurre lo sforzo, la fatica. Quando faccio qualcosa, quando mangio, quando guido, quando scrivo un articolo, quando sono in aereo, in treno, non sempre, ma a volte mi soffermo sulla mia presenza interiore; la ascolto, la osservo, la percepisco. E cos mi accorgo se sto facendo fatica, se sto lottando. Se avverto che mi sto sforzando per realizzare i miei gesti, rallento... Mi dico: "Raffaele, stai facendo troppo sforzo!". Tutto qua. C' poi un'altra cosa che faccio: sono presente, immerso, preso, assorbito, incantato dalle "azioni minime", s, quelle azioni che in genere riteniamo banali; quando bevo il caff, per esempio, io sono l, solo l. Non lo faccio sempre (la parola "sempre" si allontanata dal mio vocabolario), ma quando sento che i pensieri stanno prendendo il sopravvento, io mi tuffo, mi immergo nelle azioni. Guardo la mia mano che scrive, la penna che scorre sul foglio, e sento dilatarsi la mia presenza ulteriore; sono totalmente assorto, rapito dal gesto. Non mi ritiro, amica mia, e neppure penso che serva, in meditazione. Non mi chiedo se il mondo buono o cattivo, no, io porto l'attenzione sul mio gesto. Cos facendo, un giorno, mentre guidavo il pi in fretta possibile per assistere un amico morente, ho sentito una pace, una tranquillit, una serenit che forse non avevo mai sperimentato. Sono arrivato in ospedale, e il mio amico era fuori pericolo... Non so se il mio "stato tranquillo" servito alla sua guarigione, ma so che nel mio interno la serenit sgorga spontaneamente ogni volta che sono immerso nell'azione. Per me non c' quasi pi una meta da raggiungere, non ci

sono pi obiettivi che mi prefiggo. No, ci sono le cose che sto facendo e il mio essere immerso in loro: il pi potente antidepressivo che esista. Secondo il Saggio chassidico Baal Shem Tov, tutti i gesti, anche i pi piccoli e insignificanti, se compiuti in uno stato di coscienza in cui si presenti a se stessi e con la mente vuota, racchiudono una speciale essenza spirituale. Scrive Baal Shem Tov: "La pi alta cultura dell'anima resta fondamentalmente arida e sterile, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ci che spetta loro, non sgorghi, giorno dopo giorno, un'acqua di vita che irriga l'anima".1 Sono le "azioni minime" che cambiano la nostra vita. Si ammala chi crede che debba arrivare "una svolta", o chi passa il tempo a rimuginare sulla sua vita sbagliata, oppure a pensare, come fa lei cara Raffaella, che dobbiamo conciliare teoria e pratica, affari e buddhismo, business e Zen. Non c' da diventare un buon venditore, un buon manager o un uomo d'affari realizzato. No, c' soltanto da essere immersi in quello che si sta facendo e poi, sar quel che sar. Friedrich Nietzsche a questo riguardo afferma: "L'uomo non la conseguenza di una sua propria intenzione, di una volont, di uno scopo, con lui non si tenta di raggiungere un 'ideale di uomo' o un 'ideale di felicit' o un 'ideale di moralit', assurdo voler fare rotolare il suo essere verso un qualsiasi scopo. Noi abbiamo inventato il concetto di 'scopo': nella realt lo scopo manca... Si necessari, si un frammento di destino, si appartiene al Tutto, si nel Tutto...".2 Non avere mai un secondo pensiero Se vogliamo tradurre in immagini il concetto di "azioni minime", possiamo rifarci al grande pittore olandese del XVII secolo Jan Vermeer. Vermeer dipinge le "azioni minime": una donna che ricama, una che cuce, una che versa il latte, una che scrive una lettera... Pochi quadri, capolavori, ma c' qualcosa che lo rende unico, egli fa una cosa sconvolgente: prende queste "azioni minime"e le riempie di luce.

La sua arte questa: riempire di luce le "azioni minime". Che bisogno c', che senso ha inondare di luce una donna che ricama? Perch Vermeer ha capito come nessun altro che c' una "luce interna" che inonda le "azioni minime". Noi ci siamo riempiti la testa di cose importanti da fare, di obiettivi da raggiungere, di successi da inseguire, e poi... e poi? Vermeer ritiene invece che l'Assoluto, il centro dell'universo, la vita, siano l, nelle "azioni minime", dove noi non siamo mai. A tal proposito Martin Buber, filosofo e studioso della cultura chassidica - citando il Maestro Rabbi Bunam - sottolinea: "[...] ci sforziamo sempre, in un modo o nell'altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne che l dove siamo, l dove siamo stati posti: ma proprio l, e da nessun'altra parte, che si trova il tesoro. Nell'ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi toccata in sorte, in quella che mi capita giorno per giorno, in quella che la vita quotidiana, mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, l si trova il compimento dell'esistenza messo alla mia portata".3 Quando bevi il caff, quindi, c' una "luce interna", misteriosa... Perch Vermeer non illumina gli occhi, ma il ricamo, la lettera... perch? Perch inondare di luce un'"azione minima"? Perch in particolare quelle delle donne? Perch Vermeer sapeva che nei gesti femminili d sono tutte le soluzioni: se vuoi capire una donna, guarda il suo bagno. C' il "luogo dei bisogni", le decine di creme dappertutto, la vasca, i trucchi... Una donna che si trucca, una donna che si pettina, sempre l, nel presente. Allora, per esempio, quando arriva il dolore, cara Raf-faella, comincia a pensare che ti devi truccare... Nel bagno le donne rendono possibile un mistero immenso: le cose pi concrete della vita convivono con quelle pi

futili, con l'effimero, con l'apparenza. Ecco perch Vermeer illuminava le donne. In particolare, se volete capire di cosa parlo, dovete guardare le donne incinte, si distinguono per pochi gesti: quel movimento cos, quella posizione col... Se hanno accettato bene la gravidanza sono molto naturali, per nulla trattenute. Sapete cosa fanno le donne incinte? Niente. Non fanno niente. Noi dobbiamo imparare a non fare niente. Non passano il tempo a domandarsi come sar il figlio che deve nascere, se sar intelligente, bello, alto... Gli uomini fanno cos, non le donne. Bisogna fare come le donne incinte: un'altra vita cresce dentro di loro, e loro sono l, e non fanno niente. Sono l in quel processo. Quindi necessario che io impari a stare, ogni tanto, nelle "azioni minime". Se sto guidando, guido e basta. Senza pensare a cosa sar, a cosa devo fare... Ogni volta che non sono l, sto male. Non devo guarire, non devo combattere il dolore, non devo evitare che torni, devo stare l, e basta! Devo sostare dentro l'"azione minima". Quando c' un disagio, anch'io faccio questo esercizio con me stesso. "Devi stare qui", mi dico, e allora la "donna interiore" incomincia a ricamare per me! Vedi, cara Raffaella, noi siamo una serie di progetti, di intenzioni, di sogni da realizzare, e non ci accorgiamo che c' qualcosa dentro di noi che sta facendo quello che va fattoQuesto il pensiero di Vermeer. Lui non si chiedeva se le donne che ritrae sono felici o meno, anzi, si comprende che molte non lo sono, ma lui vuole illuminare l'"azione minima". Lui illumina l'"azione minima". Io devo stare, sostare l, non devo fare la cosa che si fa sempre: correggere. Devo osservare il disagio senza correggerlo, perch dentro io sto ricamando, sto compiendo l'"azione minima". Nessuno come Vermeer riempie di luce i gesti quotidiani, nessuno come lui li sospende nel senza tempo, nessuno co-

me lui rende eterno l'effimero, nessuno come lui ha rinunciato a dipingere santi, madonne, di, per santificare, illuminandolo, ogni gesto banale del quotidiano; lo porta nella "casa dell'eternit". Non sono me stesso quando penso, rifletto, rimugino, quando decido se la mia vita giusta o sbagliata, e neppure quando cerco di far entrare questo mondo nei miei schemi, nelle mie convinzioni, nelle mie teorie. Lo conferma anche Nietzsche quando scrive: "Inconsciamente noi cerchiamo i principi e le dottrine che si confanno al nostro temperamento, sicch alla fine sembra che siano stati quei principi e quelle dottrine a produrre il nostro carattere e a conferirgli tenuta e sicurezza: mentre accaduto esattamente il contrario. Del nostro pensiero e del nostro giudizio si fa in seguito, come sembra, la causa del nostro essere: ma in effetti il nostro essere la causa per cui pensiamo e giudichiamo in un certo modo".4 Non so, cara amica, se diventer una buona venditrice, ma le garantisco che se lei sar immersa nelle sue azioni, l'immenso che in lei verr fuori e sar lui a decidere dove portarla. E come minimo far di lei una venditrice "tarata" sulla misura della sua anima, sulla sua specificit, sulle sue caratteristiche. Oppure, l'immenso che in lei, il suo S, la porter senza fatica a realizzare il suo "talento", quindi la sua unicit, e magari questo avverr con un altro lavoro, che dovr essere scoperto senza sforzo. Anche Buber vede la vita come un processo che deve poter dispiegarsi fluidamente e in libert, e paragona l'uomo a un albero che si sviluppa senza sforzo: "L'uomo come un albero. Se ti metti di fronte a un albero e lo guardi incessantemente per vedere se cresce e di quanto sia cresciuto, non vedrai nulla. Ma curalo in ogni momento, liberalo dal superfluo e tienilo pulito da scarafaggi e vermi, ed esso, a tempo debito, comincer a crescere. Lo stesso vale anche per l'uomo: l'unica cosa che gli serve superare lacci e impedimenti, e non mancher di svilupparsi e crescere."5 E quando lei mi chiede se un manager pu essere zen, Ver-

meer ha la risposta: stai nelle cose che fai, e la luce riempir le tue azioni, i tuoi gesti. Nelle "azioni minime", nell'effimero, nel banale, se siamo concentrati, attenti, persi, incantati, siamo nella trama luminosa dell'universo; di pi non possibile chiedere. A chi fa cos, il S regala salute, gioia, "talento" e, ancor di pi, la realizzazione del suo destino. Essere l nelle cose che facciamo la vera, la sola meditazione. Anche la saggezza chassidica lo ribadisce: "C' una cosa che si pu trovare in un unico luogo al mondo, un grande tesoro, lo si pu chiamare il compimento dell'esistenza. E il luogo in cui si trova il tesoro il luogo in cui ci si trova".6 Alan Watts, il pi grande studioso di Zen, ricorda che il segreto dei segreti non avere mai un secondo pensiero, vale a dire essere totalmente l, immerso nell'azione. Il mondo tutto l per chi presente a se stesso, per chi non decide che cosa importante e cosa banale. Anzi, il banale, l'effimero, sono la casa dell'immenso, del S. Fermati a osservare i tuoi gesti Ogni giorno compiamo migliaia di azioni a cui associamo migliaia di pensieri. Ma quanti di questi pensieri ci rappresentano davvero? Di quanti possiamo dire: "Mi corrispondono, sono io, sono proprio io?". In genere viviamo immersi in azioni e pensieri inutili, cos che spesso scambiamo l'inutile per il fondamentale. La nostra mente satura di impegni da rispettare: cose da fare e da dire, immagini di noi stessi da dare agli altri, risposte da non sbagliare, doveri da assolvere. Sogni, idee, preoccupazioni, programmi... In questa selva di "fantasmi della mente" ci sentiamo alla fine sperduti, soli. Cos cerchiamo qualcosa in cui radicarci. Ma questa ricerca finisce per portarci ancora pi lontano, dentro ad altri sforzi o ad altri modelli a cui assomigliare. No, non c' bisogno di intraprendere percorsi per migliorare. Serve fermarsi a osservare ci che c', in quell'istante. Solo cos il nostro cervello si mette nella condizione ideale per secernere le sostanze del benessere e dell'autoguarigione, che spengono lo stress e regalano la pace ulteriore.

Dobbiamo ricordare che da ogni pi piccolo gesto sgorga una luce infinita... Allora poni attenzione a ogni azione che fai. Concentrati, rimani nell'azione e dimentica lo scopo! Baal Shem Tov, dopo un viaggio in terra d'Israele, riflette sull'angoscia che produce il pensiero di ricevere una ricompensa: "E, tuttavia, possibile agire senza alcun fine in mente? Pu l'Ego agire senza aspettarsi qualcosa in cambio? Quando agiamo senza un fine, senza alcuna aspettativa di ricompensa, l'azione diventa un fine, e la ricompensa immediata. Questo quello che sanno tutti i grandi mistici: fare ricevere! Fare la salvezza!".7 Se crei in te uno stato di assenza mentale, arriverai a muoverti come se non avessi alcuna intenzione: in questo modo l'Io sfuma e, nello stato contemplativo, ogni tuo gesto diventa luce. Ora osservati: stai leggendo, respiri, ti prepari un caff, scrivi un appunto... Piccole azioni. Di solito non diamo importanza alle "azioni minime", pensiamo che siano solo un ponte per arrivare al nostro piccolo o grande obiettivo di oggi, di domani, della nostra vita. questo che ci rende sperduti, in perenne e affannosa ricerca. Viviamo per qualcosa che non esiste: quel "domani" non c', e quando arriver, anche allora non lo degneremo di uno sguardo; sempre proiettati altrove. Viviamo sempre in un altrove che non esiste. Invece, prova a pensare: che tutto qui, ora! Ci che fai non vale perch ti porta a qualche meta, ma vale di per s. Tutto si esaurisce nel gesto che stai facendo: quel gesto tutta la vita. Non un "attimo fuggente". Prova a sentire e a godere la pienezza del gesto che stai facendo. Rimani nei gesti, nell'"azione minima", nel presente. Il mistico armeno Gurdjieff, sostiene che il nostro scopo dovrebbe essere cercare semplicemente il piacere del corpo in movimento, del gesto che si sta compiendo: "Quando il corpo pi libero, tu ti senti guidato da un'energia interiore, un'energia essenziale che non pi quella dell'automatismo. A un certo momento, perseverando, senti che il movimento

realmente preso in carica da questa energia, che esso esprime il linguaggio di questa energia. E tu sei l senza intervenire. Noi sentiamo solamente che in noi c' qualcosa di puro, che importante avere un corpo e un'attenzione che restano abbastanza liberi per continuare a essere in contatto con questo movimento che appare".8 Non esistono azioni banali, tutto importante. Quando sei concentrato nell'azione che stai facendo, ogni cosa si illumina. una luce che splende in ogni azione e in ogni oggetto. Tutto - noi compresi - esiste nell'istante; non dobbiamo fare altro che osservarlo. E il nostro sguardo in quei frangenti, se libero dal pregiudizio, accende la luce della consapevolezza. Gurdjieff ce lo racconta con queste parole: "Uno sguardo libero, lo sguardo che vede. Senza questo sguardo posto su di me e che mi vede, la mia vita la vita di un cieco che va dove lo spinge l'impulso senza sapere n come n perch. Senza questo sguardo posato su di me non posso sapere che esisto [...] Senza sguardo sono condannato all'automatismo e alla legge dell'accidente. Questo sguardo allo stesso tempo mi colloca e mi libera. E nei miei migliori momenti di raccoglimento accedo a uno stato nel quale mi dato di conoscere, di sentire il beneficio di questo sguardo che scende su di me, che mi abbraccia. Mi sento sotto la luce, sotto lo splendore di questo sguardo".9 Non c' bisogno di cercare niente, tutto ci che ti serve qui. Qui splende la vita! Le donne sanno che cos. S, dobbiamo imparare dall'antica saggezza delle donne. Nel trucco, nella toeletta, nell'attenzione all'effimero, a ci che c' ma "sta gi passando", nell'infinito tornare su se stesso del gesto del ricamo c' un insegnamento fondamentale: l'importanza dell'istante, l'attenzione all'"azione minima". Noi siamo abituati a pensare alla "durata", a ci che rester nel tempo: cerchiamo di rendere perenne ci che non lo e per questo siamo infelici.

Pensiamo che il significato della nostra vita dipenda da ci che faremo, diremo o costruiremo, e non vediamo la luce che splende in ogni azione. Cos diventiamo esseri inutili. note: 1 Martin Buber, Il cammino dell'uomo, Edizioni Qiqajou, Comunit di Bose, Biella 1990, pp. 61-62. 2 Friedrich Nietzsche, Opere 1882-1995, Newton Compton, Roma 1993, p. 727. 3 M. Buber, Il cammino dell'uomo, cit., pp. 58-60. 4 F. Nietzsche, op. cit., p. 692. 5 M. Buber, I dieci gradini della saggezza, Baroli Editore, Novara 2003, p. 76. 6 M. Buber, Il cammino dell'uomo, cit., p. 59. 7 Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, in Racconti chassidici, Giuntala, Firenze 2004, p. 205. 8 George Ivanovitch Guidjieff, La via maestra, vol. I, Riza, Milano 2001, pp. 238-241. 9 Ibid. 2 Diventa puro sguardo Esplorare lo spazio interno richiede un grande coraggio: quello di non cambiare le cose che troviamo dentro di noi. A volte sentiamo arrivare all'improvviso dei brutti pensieri, rancori, sensi di colpa, ricordi, nostalgie, rimpianti, e quasi sempre reagiamo, li combattiamo; vogliamo espellerli dalla nostra anima. Quasi mai vogliamo che il "fango" venga ad assalirci, la nostra "idea di perfezione" non tollera di vederci seduti su "serpenti tentatori" come l'invidia, la gelosia, la rabbia, l'avidit... Ma non basta, abbiamo grandi aspettative su di noi, puntiamo a diventare quel personaggio che ci siamo messi in testa di essere, e cos quasi sempre recitiamo, fingiamo, diventiamo artificiali. Lottiamo per essere quel modello che vogliamo imitare, e non ci andiamo mai bene, siamo sem-

pre l a giudicarci, ad assolverci o a condannarci. Finiamo con il pensare che la vita non stata generosa con noi, e passiamo il tempo a lamentarci, a rimuginare, a farci domande, a darci risposte che quasi mai ci soddisfano. E allora? Come si trova la pace, come si entra dentro se stessi senza farsi troppo male? Diventando puro sguardo! S, osservando, contemplando le cose brutte, quelle che non ci piacciono di noi, ma con un nuovo modo di vedere a cui siamo poco abituati. Non si tratta di cercare di cambiare le cose, ma di accoglierle, invece, cos come sono. Scrive William Shakespeare: "Questa cosa di tenebra io la riconosco mia".1 I Saggi hanno insegnato che tutto quello che si deve fare perdere la personalit che conosciamo, lasciarla "andare via" per essere sostituita da quella che sgorga limpida dal profondo. Non c' da cambiare vita, non c' da migliorarla: occorre inondare lo spazio interno di consapevolezza, di quella luce che il cervello possiede e che oscurata, pi di tutto, dai nostri tentativi di diventare le maschere che indossiamo e a cui vogliamo assomigliare. Guarda con dolcezza i tuoi pensieri, belli o brutti che siano, non sono altro che energia che si sedimentata, non sono altro che i modelli che hanno preso il sopravvento sulla tua essenza. Se li guardiamo e basta, senza alcun commento, se ne andranno da soli: questo il potere della consapevolezza, dello sguardo libero che disintegra tutto l'inutile che ci sovrasta. Se continuiamo a pensarci e a ripensarci, se cerchiamo di capire, di spiegare, ci si attaccheranno addosso ancora di pi. I pensieri sono pesanti come il fango, solo il libero sguardo ulteriore capace di portarci in un'altra dimensione di noi stessi. Una dimensione in cui le cose avvengono senza che neppure ce ne accorgiamo. Negli anni ho imparato a "disturbare" sempre meno il mio

spazio interno, a lasciare l dentro di me, senza commento, tutto ci che sento, a rispettare ogni stato d'animo. Dopo un po' si sta con se stessi senza alcun giudizio, e allora... Arriva la pace, arrivano parole che non ti aspetti, pensieri che mai avresti sospettato potessero albergare dentro di te. Diventi vuoto, diventi nulla, e sei come una pianta che germoglia. A questo punto, senza saperlo, sbocci come un fiore, il tuo fiore, e arrivano le "parole dell'indicibile", ti chiedi: "Chiss da dove saranno scaturite, chiss quali parti dell'anima le avr partorite?". E avrai imparato che, mettendo da parte te stesso, il tuo Io, la tua storia, il tuo passato, l'"eterno presente" che ti attraversa. Posiziona lo sguardo sull'adesso Quindi, tutta la partita sta nel posizionare lo sguardo. Se non lo fai non puoi stare bene, li ti giochi una grande occasione. Per esempio, quando qualcuno ti chiede: "Come stai?", la tua risposta deve posizionarsi sull'adesso. Non ti hanno chiesto come stavi ieri, n come starai domani. Se rispondi: "Sono stata molto male e non riesco a disfarmi di un dolore che continua a camminare accanto a me", lo si pu accettare. Ma se ti chiedono: "Come stai?" e tu non porti lo sguardo sull'"adesso", non ce la puoi fare, non ce la puoi fare ad affrontare la vita stando bene. necessario posizionarsi sull'"adesso"! Il problema che tutti noi siamo convinti di portarci dietro un disagio, ci siamo convinti di avere un disagio che solo nostro; un figlio che morto, un marito disgraziato, qualcuno che amiamo ma non pu vivere con noi, un lavoro che non ci piace... Un motivo vale l'altro: siamo diventati persone che ragionano in un modo qualsiasi, e nel tempo, collettivamente, si formata in noi una convinzione errata: che i dolori durano per sempre. Ma non cos, non cos! Anche il filosofo greco Epicuro a proposito del dolore, sostiene che: "Ogni dolore facilmente disprezzabile, perch

la massima sofferenza di breve durata, e la sofferenza pi lunga ha una intensit minima".2 S, dobbiamo aver ben chiaro che i disagi li creiamo noi, soltanto noi. Non stiamo male perch lui o lei ci ha lasciato, perch non ci capisce, perch nostro figlio non studia... Il nostro disagio dipende solo da noi stessi. Solo da noi stessi, e non anche da noi stessi. Solo da noi stessi. Se partiamo da questo presupposto, abbiamo delle possibilit di uscirne, altrimenti no. una mentalit malata che ci ha portato ad attribuire la responsabilit dei nostri disagi al mondo esterno. In realt stiamo male perch ci siamo riempiti la testa di modelli inadeguati, di progetti che non hanno nulla a che vedere con noi, siamo condizionati da continui giudizi che proferiamo a ogni pie' sospinto, abbiamo convinzioni sbagliate che ci intasano la mente... Insomma, abbiamo una visione errata del mondo, questo il motivo principale delle nostre sofferenze. L'importante essere l Tutto il lavoro, il vero lavoro, semplicemente essere l. Cosa accadr dopo non mi interessa, perch io sono stato l. Perch quando sono l il mio cervello distilla gocce di un'energia particolare che altrimenti non si potrebbe produrre. E devo essere l senza intenzione alcuna. Blaise Pascal fa un'interessante riflessione sull'incapacit di vivere nel presente: "Ciascuno esamini i propri pensieri, li trover tutti presi dal passato oppure dall'avvenire. Non pensiamo quindi affatto al presente; e se ci pensiamo, solo per prendere lumi per predisporre l'avvenire. Il presente non mai il nostro scopo: il passato e il presente sono i nostri mezzi; l'avvenire solo il nostro scopo. In tal modo noi non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, predisponendoci sempre ad essere felici, inevitabile che non lo siamo mai".3 Quando, per esempio, nel cervello nasce un pensiero come: "Oddio, mio marito non mi piace pi!", bisogna metterci un punto. Quello il pensiero. Punto. Oppure: "Giovanni

non mi vuole". Punto. Oppure: "Mi piacerebbe vivere con Roberto, ma non ho il coraggio di dirglielo". Punto. Il cervello chiede solo che tu gli formuli il problema, non che tu lo risolva. Il cervello ha semplicemente bisogno che una volta che gli hai presentato il problema, tu ti "tolga di mezzo" e ti limiti semplicemente a stare nel presente, senza pensare a nulla, e che, ogni tanto, ti dedichi alle cosiddette "azioni minime". Robert Louis Stevenson, poeta e scrittore scozzese, parla cos delle "azioni minime": "Le cose migliori sono le pi vicine: il respiro che sale lungo le narici, la luce nei tuoi occhi, i fiori al tatto, i compiti affidati alle tue mani. Non cercare di afferrare le stelle, ma svolgi con semplicit i compiti assegnati dalla vita, nella certezza che gli incarichi di ogni giorno e il pane quotidiano sono le cose pi dolci della vita".4 Agisci senza intenzioni Perch i dolori durano? Perch siamo pieni di intenzioni, pieni di intenzioni... I chassidim ebraici insegnano che quanto pi le nostre intenzioni diventano forti, tanto pi la nostra anima rischia di ammalarsi: "Come si ammala l'anima? Quando pensiamo, parliamo e agiamo, intenzionalmente, in modo contrario all'inclinazione naturale di un'anima sana, noi ne provochiamo il deperimento".5 Ti sei mai chiesto come mai tutto possibile per i bambini? Vuoi che sia cos anche per te? Osserva un bambino quando gioca. Lui l nelle cose che fa, l, non ha un progetto, non ha intenzioni, non si domanda: "Sar un buon bambino? Star giocando bene?", non si sta chiedendo: " il gioco giusto da fare oggi?". Sei tu, adulto, che cerchi di mettergli in testa queste cose. Lui presente all'azione e basta. E tu devi fare lo stesso. Il bambino in un altro stato della mente, e noi adulti dobbiamo imparare da lui come si fa. Plotino riflette sulla relazione che esiste tra l'essere presenti a se stessi e la felicit dell'anima: "La felicit uno stato che esiste tutto nel presente. [...] Il ricordo della felicit non

importa affatto, essa non consiste in un discorso che si sviluppa, ma in uno stato. Ora, lo stato esiste nel presente ed anche l'atto della vita".6 Quindi io devo essere l, non devo risolvere i problemi, io devo essere l, l! Un tempo le donne ricamavano. E mentre ricamavano parlavano, si raccontavano di tutto, s'incantavano. Solo con "il ricamo" ti incanti: fai lo stesso gesto, non lo modifichi per ore e ore, fino a che - raccontano molte donne - senza rendersene conto raggiungevano l'orgasmo. Quindi l'orgasmo non nasceva per via genitale, ma da un atteggiamento mentale. Un altro esempio interessante viene osservando una donna dopo la fecondazione. Durante le prime settimane, non si accorge neppure di essere incinta, se ne accorge solo nel tempo, da alcuni segnali: il seno gonfio, le mestruazioni che non vengono... Si tratta di segnali "indiretti", non c' una voce interna che annuncia "sei gravida". Non c'! E in pi, per tutta la gravidanza, la donna di questo grande evento spesso quasi non se ne accorge. Segno, quindi, che un grande evento cos possiamo solo accompagnarlo. Essere presenti e accompagnarlo. Non dobbiamo fare nulla o, al massimo, possiamo "covare" noi stessi, s, come fanno i volatili. Essere presenti e consapevoli. Il cervello ha bisogno di presenza, il cervello ha bisogno della nostra presenza. Quando ci diciamo "i dolori non mi passano", perch non siamo presenti; altrimenti passerebbero subito. Invece, incominciamo a ripeterci: "Come? Una donna come me stata lasciata dal marito? Impossibile!...". E ci lamentiamo, inveiamo, ci disperiamo. E siccome la parola "feconda" il cervello, noi fissiamo queste parole, e nel tempo creiamo e ci portiamo in giro una persona che non esiste. L'abbiamo creata noi, ma non esiste, non c' mai stata! La magia delle azioni minime C' un'unica cosa da fare: tre-quattro volte al giorno bisogna essere presenti alle "azioni minime".

Se sei presente nelle azioni minime, si sprigiona una luce sconosciuta. Il bambino pensa che la magia dipenda dal fatto che una luce sconosciuta capace di produrre fatti prodigiosi. Quante volte ci accaduto che ci chiamasse proprio chi cercavamo, o incontrassimo ci di cui avevamo bisogno. Se fossimo stati attenti ci saremmo chiesti come era potuto avvenire, e ci saremmo accorti che, in quei frangenti, avevamo la mente vuota. Cos hanno detto i Saggi. Dobbiamo toglierci dalla testa l'idea che le cose si realizzano con sforzo e con fatica; la fatica misura solo la nostra resistenza. La fatica non produce niente... Il cervello ha bisogno che tu osservi il disagio, poi, automaticamente, lo corregge lui. Quindi, bisogna che io sia presente e che non pensi. Ed cos che nell'azione minima arriva la pace, perch sei "seduto sull'eternit". Perch non disturbi con il pensiero ci che naturalmente sarebbe cos. Quando arriva un dolore, qualsiasi dolore, io devo solamente "illuminarlo" con il mio sguardo. Se ho paura che il dolore mi annienti perch non lo sto guardando, perch insisto a dare spiegazioni, a giudicare, a commentare. Queste sono le cose da non fare. "Lui mi abbandona, un disgraziato, se non torna da me morir..." No, cos non ce la puoi fare! Io sto male, questo il mio dolore, io lo osservo, non che cosa lo causa. E non penso a nulla... I miei pensieri sono solo un nemico da allontanare! In genere come si pensa di ritrovare se stessi? Attraverso i propri pensieri. Li ripassiamo di continuo: quanti soldi ho in banca, la casa da sistemare, le mie abitudini, i miei ragionamenti, le teorie in cui mi riconosco... In sintesi, io mi convinco di essere quello che sono stato in passato. Ma come far a cambiare se il mio passato sempre con me? Se noi fossimo solo i nostri pensieri non ce la potremmo fare! Nessuno ce la pu fare. Dobbiamo aver sempre presente che eravamo una cellula

fecondata, uno spermatozoo o un ovulo. Questo siamo: uno spermatozoo che entrato in un ovulo, oggi come allora. Non cambiato niente, niente. Dobbiamo ricordarci che quella cellula fecondata ha fatto operazioni di una complessit sconvolgente. Quindi, non da un pensiero che siamo stati creati, e non stato con i pensieri che si formata la nostra vita. Quindi, io non sono i miei pensieri. I miei pensieri mi danno l'illusione di esistere nei ricordi del passato, di esistere nei progetti per il futuro. Ma quelli non siamo noi, non siamo noi! Quindi la partita, la vera partita della vita sapere che noi non siamo i nostri pensieri. Anzi, il pensiero un vero, grande inganno! Nietzsche, per spiegare i limiti del pensiero e della razionalit, ci propone come metafora un'antichissima favola romantica: "Noi nani intelligenti, con la nostra volont e con i nostri fini, veniamo molestati da stupidi, arcistupidi giganti, i casi, gettati a terra dalla loro corsa, spesso calpestati a morte, ma nonostante tutto ci, non vorremmo rimanere senza la terribile poesia di questa vicinanza, poich questi mostri giungono spesso quando la vita nella tela di ragno dei fini diventata troppo noiosa o troppo angustiosa e ci offrono un sublime diversivo per il fatto che la loro mano lacera l'intera ragnatela".7 Il cervello ti sta covando Mentre noi parliamo, mentre pensiamo, mentre ci lamentiamo... C' qualcosa che sta facendo quello che va fatto. Sta covando. Il cervello sta covando te. Nell'utero aveva ben chiaro che le influenze esterne avrebbero disturbato il processo... Una storia vale l'altra. Una vita vale l'altra. Potevamo frequentare questa o quella scuola, potevamo avere dei dolori pi o meno forti, sposarci o no, abortire o no... E se noi non ci fossimo "attaccati" a questi eventi, con tutte le nostre forze, essi sarebbero scivolati via nel nulla. Noi siamo semplicemente quella presenza interiore che c'era nel momento in cui si formata l'anima, e che, adesso

come allora, ci sta orientando, e ci suggerisce di indossare quegli orecchini, quella collana... Ma gli unici che la trascurano, che sono distratti, che non se ne occupano, siamo noi. Perch siamo sempre l a guardare ci che stato, a fare i soliti ragionamenti, ad autoconvincerci di essere il frutto del nostro passato: il nostro passato sono i nostri detriti. Non c' mai stato "il passato". Siamo noi che abbiamo fatto diventare delle cose "morte", delle cose a cui ci siamo affezionati: la nostra storia. Non ci sarebbe mai stata se noi non ci fossimo impuntati, e non c' nessun progetto che la nostra vita possa seguire. Nessuno. La nostra pianta fa da sola il suo frutto, e lo fa perfettamente. E senza di noi lo fa ancora meglio. Allora le cose cambiano: io sono qui per guardare i dolori, non per lamentarmi. Sono qui per osservare senza commento e senza giudizio. A mente vuota. Seneca, ragionando sull'uomo, afferma che un seme divino basta lasciarlo crescere, senza correggerlo, per assistere a una grande opera: "Semi divini sono stati sparsi nel corpo degli uomini, e se li riceve un buon coltivatore, vengono fuori simili ai loro principi originali... se il coltivatore incapace, come un terreno sterile e paludoso, li fa morire e poi fa spuntare erbacce invece di buone messi".8 Guarda senza giudicare Quando guardi qualcosa, soffermati sullo sguardo non su ci che vedi: qualsiasi cosa accada tu devi dirti: "Io sto guardando, io sto guardando". E in che modo lo sguardo acquista potenza? Quando non corregge. Io sto guardando il dolore che provo... Io sto guardando... Togli poi la parola "io": "Sto guardando, sto guardando..." Se si riesce a guardare e a essere presenti allo sguardo, quello stato ulteriore, da solo, rimette tutto in equilibrio. Io vedo il dolore che provo e francamente non ne conosco la causa, e non la voglio neanche conoscere. Allora lo sguardo fa la sua parte: se non sa, partorisce qualcosa di nuovo, di mai fatto prima. Se lo sguardo "non sa", partorisce te!

Perch, quando eri nell'utero, questo ti ha fatto senza sapere nulla. Io mi devo dire sempre: "Non so, non so", e contemporaneamente devo essere presente. Quindi il mio lavoro, l'unico, purificare lo sguardo, guardare senza alcuna intenzione. Lo sguardo la secrezione dell'occhio. Una sostanza pi sottile del S. Ecco perch nella mistica di tutti i popoli e di tutti i tempi, l'evento supremo era la contemplazione, ovvero guardare senza nessuna intenzione. E poi guardare, ancora, guardare ancora, poi guardare, guardare ancora. Affinch guardando tu ti accorga che dentro di te non c' niente, solo un grande vuoto. E poi guardare, ancora, e poi guardare ancora. Questa l'essenza di tutto il taoismo, perch l'occhio pu trasformare il mondo, il nostro mondo, tutto il mondo. Io devo mettere a fuoco lo sguardo, devo posizionarlo bene. "Sto vedendo bene?" mi devo chiedere. Noterete che molte volte non si "vede chiaramente" perch il nostro sguardo sempre pieno di intenzioni, di ricordi... Lo sguardo sempre pieno di qualcosa del passato. Tant' che in genere la prima cosa che si fa quando viene un dolore, di cercare la causa. Ma lo sguardo non vuole questo. Assolutamente! Nietzsche considera "folle" chi cerca di ragionare secondo il principio di causa ed effetto: "'Causa ed effetto'! - Su questo specchio - e il nostro intelletto uno specchio - succede qualcosa che mostra con regolarit come ogni volta una determinata cosa segue di nuovo un'altra determinata cosa, questo, quando lo percepiamo e vogliamo dargli un nome, noi lo chiamiamo causa ed effetto, noi folli! Come se noi qui avessimo compreso e potessimo comprendere una qualsiasi cosa! Infatti non abbiamo veduto nient'altro che le figure di 'cause ed effetti'! Ed proprio questa figurativit che rende anzi impossibile penetrare con lo sguardo in una pi essenziale connessione...".9 lo sguardo il mio potere. Non c' niente, niente che deve rimanere. Solo lo sguardo. Pi lo sguardo guarda, pi non

conosce la causa da dove proviene il dolore, pi lo disintegra. Lo disintegra! L'unica cosa che serve fare nella vita evitare di riflettere sui dolori. Dobbiamo accoglierli e guardarli. E Basta. Le soluzioni migliori della nostra vita affiorano in momenti di scarsa coscienza e di grande presenza. Presenza vuota. La presenza vuota la sostanza pi potente che possediamo. Io devo essere vuoto. Devo essere presente e vuoto. Allora tutto possibile! Non decidere, osserva Io da tempo ho perso l'abitudine di prendere decisioni. E delle volte mi dico: "Raffaele, mancano due minuti". E mi rispondo: "Non decidere". Io non decido mai. Anzi, quando mi viene da decidere, osservo, semplicemente osservo. A volte, qualcosa di pi forte di me, di atavico, mi porta a prendere decisioni, ma io cerco sempre di non decidere. Perch ragiono cos: se qualcosa mi ha creato senza il mio parere, allora io lascio fare a quel qualcosa. Io devo osservare il problema e basta. Cosa non va bene nel rapporto con mia mamma? Osservo, finito. Non ci devo pensare pi. Basta! E con gli stati d'animo faccio la stessa cosa: li osservo quando arrivano. Io li voglio guardare, e se sono tremendi li guardo ancora di pi. Mi viene un brutto pensiero, io lo voglio guardare! Mi viene una fantasia di morte, io la voglio guardare! Io voglio guardare ci che abita dentro di me, adesso! Questa la partita, perch se io lo guardo lui si dissolver! Devo affidarmi solo allo sguardo, e lasciar perdere il pensiero, anche se spesso rappresenta ci a cui siamo pi attaccati. Il pensiero ci fa commettere un errore fondamentale: ci da l'idea di permanenza. Ma ci che accaduto un minuto fa, non c' gi pi. Sei tu che lo fai durare con il pensiero, ma non ci sarebbe pi e non tornerebbe pi... Se noi non lo richiamassimo in campo con il ricordo, si trasformerebbe in energia, e ci pre-

parerebbe alla prossima mossa; come una partita a scacchi. E questa mossa prepara quella che verr. Ma il pensiero ferma questo processo naturale. Il pensiero ti consegna un'idea di permanenza. Perch in tutte le tradizioni i Maestri cambiano nome agli adepti? come se dicessero: "Guarda che tu con quel nome richiami automaticamente in campo la tua storia. Tu non sei il tuo nome, ricordalo bene. Non sei il tuo nome". Per comprendere come siamo, dobbiamo immaginarci come un cubetto di ghiaccio che si scioglie; l'emblema dell'im-permanenza. Perch, se seguiamo la testa, passiamo il tempo a ripetere: "Guarda com' il mio cubetto, il mio pi quadrato del tuo, pi freddo, pi alto, ha pi acqua, ha meno acqua...". E non ci rendiamo conto che l'"evento" l'acqua e non il cubetto. Che l'acqua si scioglie e torna all'acqua. E che il cubetto non nient'altro che una "forma" dell'acqua. Il cubetto deve fare l'acqua... Questa tutta la partita. note: 1 William Shakespeare, La tempesta, Marsilio, Venezia 2006. 2 Epicuro, La felicit, Newton Compton, Roma 2005, p. 57. 3 Blaise Pascal, Breviari, Bompiani, Milano 2002, p. 236. 4 AA.VV., Cogli l'attimo, San Paolo Edizioni, Milano 2002, p. 37. 5 Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, in Racconti chassidici, Giuntola, Firenze 2004, p. 113. 6 Plotino, Il pensiero occidentale, Bompiani, Milano 2004, p. 119. 7 Friedrich Nietzsche, Aurora, Newton Compton, Roma 2004, p. 87. 8 Seneca, Breviari, Bompiani, Milano 2005, p. 26. 9 Nietzsche, op. cit., p. 84. 3 Accetta le cose come sono

Quando Elisa venuta a trovarmi allo studio, francamente non vedevo soluzioni. Negli anni per ho imparato che quando si affaccia un problema irrisolvibile, io mi oscuro, mi affido al buio interiore, chiudo gli occhi. Insomma, spengo la luce. Mando a riposare la ragione e i pensieri. Cos ha fatto anche Elisa: "Una sera ho tradito mio marito con uno che non mi piaceva. Volevo vendicarmi, punirlo per come mi aveva trattato nei giorni precedenti. Mentre mi rivestivo e tornavo a casa in macchina, sentivo tutto lo schifo del corpo che era entrato nel mio, e insieme una grande tenerezza per mio marito e un amore per lui che non avevo mai provato. Quello schifo mi ha fatto rincontrare l'amore". La sera stessa Elisa fa poi l'amore con il marito "con un'intensit mai provata" e, dopo otto anni di tentativi, rimane incinta. Non pensa nemmeno per un attimo che il bambino possa essere dell'altro... Utilizzando le parole di Rabbi Elimelech, Nilton Bonder rabbino con funzione di leader spirituale della Congregazione giudaica del Brasile - ci aiuta a riflettere sul tema del tradimento: "Tradire un processo, il momento in cui ci dirigiamo verso un'altra direzione, segna un nuovo segmento delle nostre storie individuali e collettive. Il corpo e la morale, per, percepiscono questo atto come un disorientamento, anche se trasgredire necessario".1 Ascolta la tua Dea Per una serie di coincidenze il marito di Elisa viene a sapere del tradimento: messa alle strette, lei confessa, e da quel momento scoppia l'inferno. "Se sapesse quante volte mi ha chiesto di abortire... Ma io non potevo farlo. Dentro di me ero sicura che fosse suo il bambino, anche se lui non ne voleva sapere. Mi sono sentita dire di tutto; insulti di ogni tipo. Mai e poi mai credeva che l'avevo tradito solo quella sera." In quei giorni Elisa viene a trovarmi. al terzo mese di gravidanza, disperata, sola. Suo marito l'ha lasciata, non riuscito a reggere un affronto cos grande, e non disposto

a fare il padre di un bambino che forse non suo. Elisa se ne sta sdraiata sul lettino del mio studio, ormai quasi senza parole, spenta. L'unico gesto che compie spontaneamente quello che accomuna tutte le donne incinte: le mani appoggiate sulla pancia, sul grembo. Quando cammina, osservo che sembra una donna di altri tempi. Una grande familiarit con la sua pancia, come solo le donne che hanno avuto diverse gravidanze sanno fare. Nella sua totale confusione, in quel senso di sconfitta che l'alimenta, tra la disapprovazione della sua famiglia, degli amici (la sua migliore amica Rosaria tutti i giorni le dice: "Come fai a tenere il bambino se non sei certa al cento e per cento che di tuo marito?"), immersa nel dolore dell'abbandono di colui che aveva di colpo scoperto essere l'amore della sua vita, Elisa ha una sola certezza: tenere il bambino. Qualcosa dentro di lei, una Dea sconosciuta, sa che cosa si deve fare. Il deserto intorno a Elisa si amplifica quando si accorge che non pu contare su nessuno: "Mia madre sempre stata una donna egoista, solo mia zia mi venuta a trovare, a stare con me, coccolandomi senza dire nulla". Anche nei momenti pi bui, quando ci sentiamo abbandonati da tutti, se impariamo a guardarci intorno scopriamo che c' sempre qualcuno che corre in nostro aiuto, una figura provvidenziale come stata la zia per Elisa. Queste persone che vengono in nostro soccorso, ad accudirci, le manda l'anima, la nostra Dea ulteriore. Elisa soffre, sta male, ma il dolore che prova la fa sentire libera, pura, senza fronzoli, senza pensieri inutili. Arriva al settimo mese di gravidanza "addolorata nell'anima, ma serena". Per lei non c' pi niente di importante: i negozi, il cinema, le cene con gli amici... Non contano pi nulla. "Le sembrer strano" mi dice "ma tutto questo dolore mi sta facendo diventare una donna." Quella Dea misteriosa, la signora del femminile, ha una strategia per Elisa: non vuole che diventi una donna comune, una donna qualsiasi. No, vuole, attraverso il dolore, portarla via dai lamenti, dalle se-

rate inutili, dagli amori banali, dagli atteggiamenti infantili. "Ho imparato ad amare in modo del tutto disinteressato: se mio marito vorr tornare, bene, altrimenti io lo amer comunque, silenziosamente dentro di me." Verso l'ottavo mese l'ho rivista in una seduta, serena, con qualche timido sorriso sulle labbra. Non lottava pi: aveva accettato le cose cos come sono. Mi port una lettera che conservo. Vede, caro Morelli, non ho osato dire a mio marito che quella sera, quando l'altro si era tolto il preservativo, ho provato un grande schifo. Ma la cosa davvero sconvolgente stata la notte, quando sono tornata a casa. Per la prima volta in vita mia, dopo quello schifo, ho goduto con mio marito come mai mi era capitato, con un'intensit, un piacere che non sapevo neppure lontanamente cosa fossi. In quel momento io stavo diventando una vera donna, e la mia anima mi ha fatto un regalo: un bambino. Non importa di chi , perch venuto dall'anima. Ho consigliato a Elisa di spedire una lettera uguale a suo marito. Io in genere non do consigli, ma questo mi venuto dal profondo, e non potevo non darglielo. Ogni donna una Dea Elisa spedisce quella lettera solo dopo il parto, tre mesi pi tardi. Ma suo marito si rifiuta di vedere il bambino, nonostante l'esame del DNA dimostri che suo figlio. Un giorno, mentre allatta il piccolo Francesco, Elisa si percepisce diversa: "Forse per la prima volta in vita mia, mi sono sentita bene con me stessa. S, Raffaele, mi sono sentita a casa. Ero l, con il piccolo, serena; avevo tutto. Non c'era nessun rimpianto. Ero presente a me stessa, e sentivo la voce del mio femminile che mi diceva: 'Stai tranquilla, va tutto bene'". Quella voce interna, misteriosa, Elisa la avverte come una presenza provvidenziale, una "madre celeste" che la abita, che provvede a lei. "In quel momento ho ceduto, mi venuto da piangere, un pianto dolce, sereno. Non ero pi una bambina capricciosa, ma una donna." Elisa in quel frangente ha partorito se stessa. Le lacrime,

dolci, serene, senza pensieri, senza lamenti, arrivano dalle parti pi profonde, pi essenziali. come se si fossero rotte le "acque dell'anima", ed Elisa stesse per rinascere. In quel momento, la chiama suo marito per dirle che ancora innamorato di lei. Come tutte le cose significative della vita, il loro riavvicinamento avviene in modo semplice, naturale, come se non si fossero mai staccati l'uno dall'altra. Per entrambi i giudizi degli altri non contano pi: sono diventati un uomo e una donna. Gli di li avevano separati, portati nel dolore, perch si ritrovassero in una nuova maturit, in una consapevolezza pi larga. Le cose si mettono a posto da sole, o meglio, se mettiamo il nostro Io in disparte, gli di ci guidano verso la nostra realizzazione. Ancora Rabbi Bonder, a proposito dei motivi che sottendono un tradimento, afferma: "Il vero grande crimine dell'essere umano quando egli pu dare a se stesso una semplice svolta in qualsiasi momento, ma non lo fa. Il problema non il tempo perso o le stupidaggini commesse nel passato, ma l'ora, il momento presente, un'opportunit non sfruttata per mutare il corso della vita. Due cose rimangono compromesse per l'assenza di trasgressione: la qualit della vita e l'assenza di continuit. La qualit della vita collettiva pregiudicata ogni volta che un individuo non esercita tutto il suo potenziale trasgressivo. La vita potrebbe essere migliore, produrre maggiore soddisfazione, ma gli individui si astengono dai loro diritti e con questo pregiudicano il diritto di tutti".2 A sostegno di quanto scritto da Nilton Bonder, anche Carl Gustav Jung afferma con forza l'importanza di vivere pienamente le esperienze che l'esistenza ci riserva. Le rinunce a priori, sull'onda di modelli o stili di vita a cui rigidamente attenersi, potrebbero rivelarsi assai controproducenti, in quanto: "Ogni vita non vissuta rappresenta un potere distruttore e irresistibile, che opera in modo silenzioso ma spietato".3 Non accusarti A volte in molti di noi si insinua un pensiero ricorrente:

quello di non vivere la vita che abbiamo sognato, di avvertire un irreparabile senso di sconfitta, di aver contratto il fallimento. Quando qualcuno in psicoterapia mi dice che ha fallito, io gli chiedo qual la sua idea di successo. Insomma, la mia domanda pi o meno questa: "Se lei non fosse fallito, se le cose non fossero andate male, se avesse realizzato il sogno della sua vita, adesso dove si troverebbe, cosa farebbe?". Qualcuno risponde: "Avrei pi soldi, una vita pi agiata, mi sentirei pi tranquillo, sarei pi sereno, darei ai miei figli qualcosa in pi". Qualcun altro, invece, la mette sull'amore: "Il mio matrimonio fallito perch non ho sposato la donna giusta, eppure l'avevo trovata, ma ormai ero sposato con un altra", oppure: "Quando l'ho conosciuta eravamo troppo giovani, inesperti, non sapevamo gestire le emozioni, la gelosia... E cos finita". Quanto ci piacciono le illusioni... Cos, Marcello di quarantun anni mi scrive: "Con lei non sarebbe diventata un'abitudine come successo con mia moglie". Come se l'abitudine non fosse sempre in agguato, pronta a far affiorare un'altra energia rispetto a quella della passione. Tutto inesorabilmente diventa abitudine, stasi energetica, continuit, ripetizione. Il che in s non negativo, fa parte dei modi di essere che ci spettano, che ci toccano. Il pericolo l'illusione, la fuga dal reale, il pensiero che ci vuole protagonisti assoluti della nostra vita, che ci vuole far evadere, che immagina quello che non c', che pensa che quello che non accaduto era il nostro vero destino. Nietzsche ci propone un distinguo sottile tra le abitudini di breve e lunga durata, e offre - con un esempio personale una chiave per uscire dal vicolo cieco della ripetitivit: "Amo le abitudini di breve durata e le considero uno strumento inestimabile per venire a conoscenza di molte realt e per calarsi fino al fondo delle loro dolcezze e amarezze;

alla mia natura si confa decisamente l'abitudine di breve durata. Essa mi nutre a mezzogiorno e sera e diffonde una profonda frugalit attorno a s e dentro di me, cos che non desidero niente altro, senza che debba far paragoni o disprezzare o odiare. E poi un bel giorno ha fatto il suo tempo: la buona abitudine si separa da me, non come qualcosa che adesso suscita in me disgusto ma in modo del tutto pacifico e sazia di me come io sono di lei e come se dovessimo esserci reciprocamente grati e ci dessimo la mano in senso di commiato".4 Continua ancora Nietzsche: "Odio invece le abitudini durature, e ho l'impressione che un tiranno mi si avvicini e che l'aria che respiro si appesantisca ogni volta che le circostanze si configurano in modo tale da darmi l'impressione che ne debbano risultare abitudini durature".5 Il fallimento diventa tale perch non accettiamo che le cose siano andate cos, proprio cos, e che le risorse che abbiamo siano qui, adesso, dentro di noi, immutate; oggi come allora. Epitteto, filosofo greco ed eminente esponente della corrente stoica, sosteneva che l'uomo non padrone del proprio destino, n di ci che sta al di fuori di lui. Il Saggio, perci, oltre che sopportare il dolore come un destino ineluttabile, deve imparare a discernere ci che in suo potere da ci che non lo , e, quindi, coltivare quello di cui veramente padrone, cio la sua interiorit: "Non devi cercare di fare in modo che le cose vadano come vuoi, ma accettare le cose come vanno: cos vivrai sereno."6 Il fallimento sempre figlio di "qualcosa" che si opponeva, dentro di noi, a seguire la strada che avevamo deciso di intraprendere, di percorrere. Forse non era la nostra strada, la nostra via... "Sono arrivato all'ultimo esame della laurea in Legge, bastava poco, eppure non riuscivo pi a concentrarmi. Mentre divoravo romanzi e poesie, ogni volta che prendevo in mano il libro del mio esame, mi sentivo un idiota. Pur di non studiare mi inventavo le cose pi assurde. Sono andato avanti cos tre anni, e alla fine ho rinunciato. Adesso faccio

l'impiegato, mi sento un fallito, e sto con una donna che neppure mi piace tanto. Quella di prima, quella che avrei dovuto sposare dopo la laurea, se ne andata. E la mia famiglia di grandi professionisti mi guarda come fossi la pecora nera." Le parole di Marco, trentotto anni, sono assai comuni. Pi o meno in ciascuno di noi, anche in chi ha ottenuto notevoli successi professionali, il senso del fallimento, di una vita che non andata proprio nel verso giusto, si presenta qua e l; a volte si manifesta con un senso di smarrimento, o una tristezza immotivata. "Ho tutto, una bella famiglia, soldi, la casa al mare, eppure mi manca qualcosa" dice Rosalba di quarantadue anni "forse avrei bisogno di innamorarmi..." Nella percezione di una "vita sbagliata" c' sempre l'idea che l'amore avrebbe potuto risolvere le cose. Ecco un'e-mail che ho ricevuto a tal proposito: "Sono arrabbiata con me stessa perch dopo un matrimonio fallito non sono pi riuscita a innamorarmi... Il mio unico amore sono i miei figli meravigliosi". Oppure scrive Eleonora: "Mi arrabbio perch mio marito non capisce che ho bisogno d'amore! Sono sposata da tre anni e da un anno intero non mi sfiora. Non possibile, avendo io ventotto anni e lui trentotto. Mi aiuti Morelli". Quando si parla di fallimento in amore, mi viene in mente il mito di Afrodite e mi chiedo: "Dov' finita la Dea dell'amore che abita ogni donna?". "Afrodite era dotata di soave volutt, dolcezza, sorriso malizioso e riscosse un'accoglienza e un successo strepitoso fra gli di dell'Olimpo. Dea dell'Amore e della Vita Sessuale, ella possedeva un cinto magico gelosamente custodito che faceva innamorare chiunque lo portasse. Al seguito c'erano Peregoros (la Consolatrice delle pene d'amore), Imeros ( il Desiderio d'amore), Pathos (il Dolore d'amore), e sempre immancabile e determinante la figura alata di Eros. Le sue armi erano la dolcezza e la seduzione e al suo servizio erano Peitho (la Persuasione), Apate (la Seduzione) e Philotes (il legame amoroso)."7

Comunque vada la nostra vita, siamo sempre pronti ad accusarci, non ci andiamo mai bene. Ecco come si giudica Dolores: "Sono arrabbiata perch ho scoperto che mia figlia falsifica la firma sulle verifiche andate male. Ha solo tredici anni e, in realt, non sono arrabbiata con lei ma con me stessa, perch forse ho fallito, non sono stata capace di metterla in condizione di potermene parlare liberamente. Come difficile essere genitore...". Seneca pensava che stupido accusarci per le cose che accadono, perch c' una legge universale che guida il Tutto e, mentre lo fa, compie una grande opera: "La natura governa con i mutamenti questo regno che tu vedi: alle nuvole succede il sereno; il mare si agita dopo essere stato calmo; i venti soffiano a turno; il giorno segue la notte; una parte del cielo si leva, un'altra tramonta; l'eterno andare delle cose si basa sulla legge dei contrari. Il nostro animo deve adattarsi a questa legge; la segua, le obbedisca; e si persuada che tutto ci che avviene doveva avvenire, e non rimproveri la natura. La cosa migliore sopportare quello che non puoi correggere, e adattarsi senza mormorare a ci che Dio stabilisce, poich tutto procede da lui: un cattivo soldato chi segue il generale lamentandosi. "Perci accogliamo gli ordini sollecitamente e con entusiasmo e non abbandoniamo la via di questa bellissima opera, alla quale intrecciato tutto quello che soffriremo; e rivolgiamoci cos a Giove, dal cui governo dipende l'andamento dell'universo, come il nostro Cleante gli si rivolge in versi eloquentissimi: 'Conducimi dove vuoi, o padre e signore dell'alto cielo; non esito ad obbedire: eccomi pronto. Supponi che io non voglia, seguir piangendo e subir di malanimo ci che avrei potuto fare volentieri'. Il fato guida chi segue, trascina chi recalcitra".8 E continua Seneca: "Viviamo cos, parliamo cos: il destino ci trovi pronti e solleciti. grande l'anima che si abbandona ad esso: al contrario, meschina e vile quella che fa resistenza e disprezza l'ordine dell'universo e preferisce correggere gli di piuttosto che se stessa".9 Non sei tu che fallisci

Ritornando all'amore, Francesca giudica duramente la propria indecisione, la propria incapacit di concludere una storia. "Sono arrabbiata con me stessa. Sono insieme a un ragazzo stupendo da due anni e mezzo, ma vado sempre a cacciarmi nei guai: ho cominciato a frequentare un ragazzo conosciuto in chat, che ieri mi ha detto di essersi innamorato di me. Sono arrabbiata perch non so mai decidermi: gli ho detto che non dovevamo n sentirci n vederci e invece, ieri sera, siamo stati insieme. Non sono innamorata di lui perch amo il mio ragazzo, ma non riesco a stargli lontana". Perch non proviamo a pensare che dentro di noi, nella nostra essenza esiste una "volont pi profonda", una "forza" che rifiuta i nostri modelli, il nostro modo di essere, il tragitto di vita che ci siamo imposti. Il senso di inadeguatezza, l'indecisione, il fallimento, arrivano perch la nostra testa, il nostro Io, la nostra mente vogliono andare in direzione opposta al nostro S, alla nostra vera natura. Come quando ci rinfacciano di non seguire l'esempio dei nostri genitori, ma se lo facessimo, finiremmo per realizzare la loro esperienza e non la nostra, ci che siamo nel profondo. Allo stesso modo accade in amore: ci adattiamo a un partner, un marito, una moglie, per qualcosa dentro di noi vuole con tutte le sue forze un'altra persona, non perch siamo leggeri, ma semplicemente perch quella persona pi affine a ci che siamo nel profondo. Quando arriva un fallimento, sia nel lavoro che negli affetti, l'unica cosa da fare non sognare o fantasticare un'altra vita, rimpiangere, ma accettare quello che accade. Non sono io che fallisco, semplicemente la mia anima che vuole portarmi in un'altra direzione, verso la mia vera fioritura, verso il mio vero "talento". Accettarsi quando si sbaglia, senza rimproveri, senza punirsi, il primo passo verso la propria autoguarigione e quindi verso la gioia di vivere. Accettare non significa rassegnarsi

La storia di Elisa, con cui ho iniziato questo capitolo, una storia a lieto fine. Ma il fatto che suo marito sia tornato da lei, che le abbia dichiarato il suo amore dopo aver superato il tradimento e accettato il bambino non ha per me nessuna importanza. In questo caso le cose sono "andate a finire bene", quasi come in una bella fiaba o in un bel fotoromanzo, ma non per questo che ho voluto soffermarmi su Elisa. Ci che mi ha colpito e commosso, che lei a un certo punto ha accettato le cose cos com'erano. Attraverso il tradimento ha ritrovato la sua capacit di amare, di lasciarsi andare all'eros, ha scoperto che questo coinvolgimento sessuale poteva viverlo con suo marito, con cui cercava un figlio ma con il quale non si era mai veramente coinvolta. Il tradimento le ha fatto provare lo schifo e poi la passione amorosa. stata quella "intensit mai provata" a regalarle un bambino? Non lo sapremo mai. Ma sappiamo che da quel giorno Elisa ha cambiato atteggiamento mentale. Non pi la "donna superficiale" di prima, decide di tenere il bambino perch "sa" che di suo marito, e va avanti nonostante tutti siano contro di lei; tutti, anche le amiche pi care. Ma Elisa orientata verso il suo interno, acquisisce il "sapere dell'anima", va avanti, continua la gravidanza, si affida all'interiorit e basta. Accetta le cose come sono, non si lamenta, non guarda pi, come le sue amiche, le cose futili dell'esteriorit: si affida alla sua Dea ulteriore, si dice "sia quel che sia" senza aspettarsi nulla. La storia a lieto fine perch Elisa cambiata, maturata. Ha imparato a contare sulle proprie forze interne, sul suo femminile, sulla Dea. Vogliamo davvero cambiare vita? Il primo segreto quello di accogliere le cose cos come so-

no, di accettarle senza alcuna condizione, senza opporsi. L'accettazione non va vista come un modo di rassegnarsi alle vicissitudini della vita, o come la sopportazione religiosamente intesa. No, va piuttosto guardata come uno stato energetico terapeutico per il cervello. In questo stato energetico il cervello produce soluzioni, libera quell'energia femminile, la Dea provvidenziale che si mette a riparare il danno, mette le cose a posto. Perch il nostro cervello ha cento miliardi di cellule intelligenti, di lampadine creative capaci di risolvere i nostri problemi. I pensieri spengono queste lampadine, l'accettazione le accende. Se vogliamo veramente cambiare vita occorre che guardiamo le cose come sono, senza pareri, senza commenti, senza ragionamenti, accettandole cos come vengono. Senza dirci niente, senza giudicarci, senza lamentarci. Come ha fatto Elisa. L'energia provvidenziale del cervello ha risolto, ha riparato perch Elisa si arresa, perch non ha titubato un attimo. "Sia quel che sia" quello che ha bisogno di sentirsi dire la nostra Dea. note: 1 Nilton Bonder, L'anima immortale (tradimento e tradizione attraverso il corpo), Citt aperta Edizioni, Traina, Enna 2003, p. 78. 2 N. Bonder, op. cit., p. 78. 3 Carl Gustav Jung, Opere complete, vol. XI, Bollati e Boringhieri, Torino 1985, p. 39. 4 Friedrich Nietzsche, Divieni ci che sei (pensieri sul coraggio di essere se stessi), Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006, pp. 144-145. 5 Ibid. 6 Federico Ronconi (a cura di), La saggezza degli antichi (massime e aforismi greci e latini), Mondadori, Milano 1993, pp. 407-410.

7 Rosa Agizza, Miti e leggende dell'antica Grecia, Newton Compton, Roma 2005, pp. 52-54. 8 Seneca, Breviari, Bompiani, Milano 2005, pp. 279-280. 9 Ibid. 4 Parla con te stesso Vi sono parole che non sopporto, frasi che francamente detesto. Tra queste, vi sono quelle che suonano pi o meno cos: "Ci vuole il coraggio di vivere", oppure: "Devo trovare le forze per andare avanti". Sono parole che rivelano il nostro rifiuto del mondo, della vita: appartengono alla nostra maledetta superbia, la quale vuole farci credere che l'esistenza deve scorrere come noi l'abbiamo pensata, programmata. Invece, la vita, senza chiedere il nostro parere, scorre in noi e si fa parola, immagine, fantasia, sentimento, emozione, pensiero... Coscienza. E tra le secrezioni di tutto il mio organismo, la coscienza il tesoro pi sublime, l'energia pi preziosa, che ha il sapore dell'eterno. Scrive Giuliano Kremmerz, grande simbolista dei primi del Novecento: "Avere, possedere, sentire la coscienza propria e integrarla al punto di sottrarsi all'ambiente immediato e ai pregiudizi storici, opera che passa i limiti delle nature comuni".1 Occuparsene, dunque, determinante, la partita della vita. Ma occuparsene significa che io devo semplicemente essere cosciente, non cambiare le cose... Avere coraggio non significa sforzarsi o possedere la capacit di sopportare le sventure, e quindi pronunciare l'altra infelice frase: "Tanto la vita continua". Si tratta solo di luoghi comuni, come i lamenti a cui ci siamo abituati; non vediamo l'ora di incontrare qualcuno per poter raccontare quanto le nostre disgrazie sono peggiori di quelle degli altri. Anche quando il problema risolto ci piace raccontarlo, esporre le difficolt che abbiamo dovuto superare per arri-

vare a risolverlo. Come nella lettera che mi scrive Franco: "Tutte le mie pi grandi vittorie le ho ottenute con tenacia e determinazione. Ma questo come si concilia con il lasciarsi andare e 'cedere' - a cui lei spesso allude - senza farsi sopraffare dalla passivit? Sono molto confuso". Con tenacia e determinazione, lottando e sforzandoci, otteniamo in genere quello che non ci interessa. Nella vita capita che ci si convinca di voler diventare un personaggio che, in realt, non vogliamo affatto diventare. Scrive William Shakespeare: "Desideri e destini vanno in senso contrario, tanto che i nostri calcoli sono sempre rovesciati: nostri sono i progetti ma non i risultati".2 Ti piace il tuo lavoro? A volte, da bambini, quando ci domandavano "Cosa vuoi fare da grande?", rispondevamo l'autista, il ferroviere o il fruttivendolo. Non perch questo ci interessava realmente, ma perch eravamo attratti dalla curiosit di quei mestieri, o perch stavamo imitando dei personaggi a cui volevamo assomigliare. Con il tempo, queste fantasie se ne vanno e lasciano il posto ad altre identificazioni che ci hanno trasmesso i genitori, la famiglia, l'ambiente. E allora, magari, vogliamo diventare un manager perch lo il nostro migliore amico, oppure immobiliarista perch pensiamo piaccia alla nostra compagna. Ma se nel profondo della nostra anima il lavoro che stiamo svolgendo non ci interessa, non possiamo che far conto su tenacia, determinazione e fatica. Se, invece, quel che facciamo ci piace per davvero, noi siamo allora come i bambini quando giocano. Possiamo lavorare ore, ore e ore senza sentirci mai stanchi, perch presi da quello che facciamo; siamo talmente coinvolti che non ci accorgiamo che sono passate dieci-dodici ore, e che magari non abbiamo nemmeno mangiato. Vede, caro Franco, quando facciamo quello che ci piace per davvero non siamo affatto confusi, anche se il mondo ci contrasta e altri non sono d'accordo, sentiamo una forza che ci spinge a svolgere il nostro compito, a seguire la nostra strada. Se vogliamo sapere se nella vita stiamo ottenendo le

nostre vittorie, lo capiamo dal fatto che tutto accade senza alcuna fatica, senza alcuno sforzo, senza alcuna lotta. Platone cita a proposito un detto del drammaturgo greco Euripidei "Ciascuno brilla in una cosa e a questa portato, dedicando ad essa la maggior parte del giorno, perch in essa si trova ad essere superiore a se medesimo".3 Posa lo sguardo sul dolore Ci piace il personaggio dell'eroe che ha superato la sofferenza ed poi riuscito a farcela. "Sapessi quanto stata dura!", cos, in questo modo, evochiamo la fatica, il dolore, la sofferenza, che se ne erano gi andati via. Ma ogni volta che li raccontiamo, senza saperlo li "chiamiamo" e li prepariamo a tornare la prossima volta, al prossimo problema. Non siamo quasi mai attenti, e men che meno presenti