RADICI PROFONDE - CAI sezione di Gorizia · Nati nel luglio 1858, il dott. Julius Kugy (19 luglio)...

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIA DEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883 ANNO XLII - N. 1 - GENNAIO-MARZO 2008 “Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - 70% - DCB/Gorizia” In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia Anniversari RADICI PROFONDE di MANLIO BRUMATI Prisojnik, versante nord V enticinque anni ci separano da quella domenica del maggio 1983 nella quale abbiamo ce- lebrato i cento anni della no- stra sezione. “Festa del socio” aveva- mo voluto chiamarla e, in effetti, di una vera festa si era trattato, con una parte ufficiale dedicata all’intera città di Gorizia concentrata al mattino nella splendida cornice del Castello ed una seconda, al pomeriggio, meno formale e più mirata verso i soci, organizzata all’auditorium Fogar e negli spazi con- termini. In quella sede avevamo pre- miato soci che nel corso degli anni si erano avvicendati nella conduzione della sezione ed altri che si erano di- stinti per particolare impegno a favore del sodalizio. Avevamo pure allestito una mostra, presentando moltissimi documenti e reperti fotografici prove- nienti dal ricco archivio sezionale. Oggi la ricorrenza dei centoventi- cinque anni di vita del C.A.I. Gorizia, mi consente di indulgere su alcuni ri- cordi personali, senza la pretesa di tracciare la storia dei tanti anni vissuti nella sezione, con la consapevolezza di dover tralasciare molti argomenti e con il rimpianto di non poter ricordare tanti amici e consoci. Innanzitutto sento la necessità di esprimere l’orgo- glio di appartenere ad un’associazione che pur partendo da tanto lontano continua ad attrarre sempre nuove fre- quentazioni ed evidenzia un trend di crescita sempre positivo. In città, la sola Unione Ginnastica Goriziana può vantare origini più remote delle nostre. Mi sono più volte chiesto quali siano, nell’ambito della nostra sezio- ne, le differenze tra il 1983 ed oggi. In apparenza l’attività continua a correre su binari ben definiti: corsi, gite socia- li, attività culturali e stampa sociale. Ma, a ben vedere, la realtà è molto di- versa ed è giusto che sia così: oggi, molto più di allora, in ogni attività sportiva, vengono ricercate le presta- zioni e lo stesso modo di accostarsi alla montagna è profondamente muta- to. Nel 1983 ha suscitato molto inte- resse la spedizione al Cerro Mercedario. Oggi nostri soci hanno di- 1920, dopo la liberazione della città. Nel 1883 gli alpinisti goriziani avevano infatti aderito alla neonata Società degli alpinisti triestini (poi Società Alpina delle Giulie), organizzandone peraltro il primo convegno annuale con escursione sul Monte Frigido. Di Mario Lonzar mi piace ancora ri- cordare l’impegno e la lungimiranza che hanno portato alla nascita dei convegni “Alpi Giulie” tra alpinisti della nostra regione, della vicina Carinzia e mostrato di essere in grado di affron- tare, con successo ed in modo non episodico, anche i colossi himalayani e hanno visitato e salito montagne in tutti i continenti. Possiamo vantare una vera Scuola di Alpinismo: i corsi di un tempo possono far sorridere, ma sono stati proprio quelli ad avviare alla montagna tanti giovani, alcuni dei quali hanno avuto la possibilità e le ca- pacità di crescere tecnicamente, so- stituendosi gradualmente ai vecchi vo- lonterosi maestri. Molti ricordi riaffiorano nella mia mente e su tutti vorrei soffermarmi spendendo qualche parola di com- mento: ad esempio, senza la costanza e la caparbietà di Mario Lonzar, forse quest’anno non potremmo celebrare il 125° di fondazione. È stato lui, infatti ad ottenere il riconoscimento, al pari della Società Alpina delle Giulie, del periodo precedente alla effettiva affi- liazione al C.A.I. avvenuta solo nel 125 125

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIADEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883

ANNO XLII - N. 1 - GENNAIO-MARZO 2008

“Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - 70% - DCB/Gorizia”

In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia

Anniversari

RADICI PROFONDEdi MANLIO BRUMATI

Prisojnik, versante nord

Venticinque anni ci separano daquella domenica del maggio1983 nella quale abbiamo ce-lebrato i cento anni della no-

stra sezione. “Festa del socio” aveva-mo voluto chiamarla e, in effetti, di unavera festa si era trattato, con una parteufficiale dedicata all’intera città diGorizia concentrata al mattino nellasplendida cornice del Castello ed unaseconda, al pomeriggio, meno formalee più mirata verso i soci, organizzataall’auditorium Fogar e negli spazi con-termini. In quella sede avevamo pre-miato soci che nel corso degli anni sierano avvicendati nella conduzionedella sezione ed altri che si erano di-stinti per particolare impegno a favoredel sodalizio. Avevamo pure allestitouna mostra, presentando moltissimidocumenti e reperti fotografici prove-nienti dal ricco archivio sezionale.

Oggi la ricorrenza dei centoventi-cinque anni di vita del C.A.I. Gorizia,mi consente di indulgere su alcuni ri-cordi personali, senza la pretesa ditracciare la storia dei tanti anni vissutinella sezione, con la consapevolezzadi dover tralasciare molti argomenti econ il rimpianto di non poter ricordaretanti amici e consoci. Innanzituttosento la necessità di esprimere l’orgo-glio di appartenere ad un’associazioneche pur partendo da tanto lontanocontinua ad attrarre sempre nuove fre-quentazioni ed evidenzia un trend dicrescita sempre positivo. In città, lasola Unione Ginnastica Goriziana puòvantare origini più remote delle nostre.

Mi sono più volte chiesto qualisiano, nell’ambito della nostra sezio-ne, le differenze tra il 1983 ed oggi. Inapparenza l’attività continua a correresu binari ben definiti: corsi, gite socia-li, attività culturali e stampa sociale.Ma, a ben vedere, la realtà è molto di-versa ed è giusto che sia così: oggi,molto più di allora, in ogni attivitàsportiva, vengono ricercate le presta-zioni e lo stesso modo di accostarsialla montagna è profondamente muta-to. Nel 1983 ha suscitato molto inte-resse la spedizione al CerroMercedario. Oggi nostri soci hanno di-

1920, dopo la liberazione della città.Nel 1883 gli alpinisti goriziani avevanoinfatti aderito alla neonata Societàdegli alpinisti triestini (poi SocietàAlpina delle Giulie), organizzandoneperaltro il primo convegno annualecon escursione sul Monte Frigido.

Di Mario Lonzar mi piace ancora ri-cordare l’impegno e la lungimiranzache hanno portato alla nascita deiconvegni “Alpi Giulie” tra alpinisti dellanostra regione, della vicina Carinzia e

mostrato di essere in grado di affron-tare, con successo ed in modo nonepisodico, anche i colossi himalayanie hanno visitato e salito montagne intutti i continenti. Possiamo vantareuna vera Scuola di Alpinismo: i corsi diun tempo possono far sorridere, masono stati proprio quelli ad avviare allamontagna tanti giovani, alcuni deiquali hanno avuto la possibilità e le ca-pacità di crescere tecnicamente, so-stituendosi gradualmente ai vecchi vo-

lonterosi maestri.Molti ricordi riaffiorano nella mia

mente e su tutti vorrei soffermarmispendendo qualche parola di com-mento: ad esempio, senza la costanzae la caparbietà di Mario Lonzar, forsequest’anno non potremmo celebrare il125° di fondazione. È stato lui, infattiad ottenere il riconoscimento, al paridella Società Alpina delle Giulie, delperiodo precedente alla effettiva affi-liazione al C.A.I. avvenuta solo nel

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2 Alpinismo goriziano - 1/2008

Julius Kugy

Anniversari

“Il re delle Alpi Giulie e il suo vassallo”Julius Kugy e Henrik Tumadi BRANKO MARUØIŒ

della Slovenia, ben prima che pren-dessero corpo i più noti incontri AlpeAdria.

E poi, la riscoperta di Julius Kugy,sempre promossa da Lonzar, primacon la ristampa, a cura della nostra se-zione, del volume Dalla vita di un alpi-nista, e poi con la prima pubblicazionein lingua italiana de La mia vita nel la-voro, per la musica, sui monti e Le AlpiGiulie attraverso le immagini, semprecon la traduzione del germanista prof.Ervino Pocar, goriziano e nostro socio.In occasione del centenario abbiamoinoltre dato alle stampe Dal tempopassato ancora con la traduzione diPocar rivista dal prof. Rinaldo Derossi.Molti oggi parlano di Kugy ma dimen-ticano quasi sempre di citare i meritidella nostra sezione e quelli di MarioLonzar.

Vorrei poi ricordare Luigi Medeot,vera fucina di idee e di iniziative, ac-compagnate da una non comune de-terminazione e capacità organizzativa.Al suo attivismo si deve il successodel concorso di diacolor che, neglianni settanta seppe passare dalla di-mensione triveneta a quella internazio-nale, esperienza purtroppo terminataprematuramente e finita nell’oblio.

Nel mese di giugno del 1935, duemesi dopo la morte (10 aprile)del settantenne avvocato lubia-nese dott. Henrik Tuma, appar-

ve nel periodico della Società AlpinisticaAustro-Tedesca un necrologio, scrittodall’alpinista e pubblicista alpino vienne-se dott. Paul Kaltenegger, in cui, tra l’al-tro, si leggeva: “… Nella conoscenzadelle Alpi Giulie nessuno era alla sua al-tezza. E se qui Kugy era un re, Tuma erain verità il suo primo vassallo”. Il dott.Kaltenegger non fu il primo a fare delleconsiderazioni sul legame tra i due giuri-sti e alpinisti, il dott. Julius Kugy e il dott.Henrik Tuma. Qualcosa di simile scrissegià nel 1928 il direttore del periodicodegli alpinisti sloveni dott. JosipTominøek: “Il dott. Kugy viene chiamato‘re delle Alpi Giulie’, ma il dott. Tuma èinvece il ‘padre delle Alpi Giulie’” . In ve-rità già nel 1926 fu Tuma a valutare lapropria opera scrivendo: “Indubbia -mente posso affermare di conoscere leAlpi Giulie meglio e in modo più partico-lareggiato del famoso turista il dott.Kugy…”. La valutazione che fa Tumadella propria opera rivela chiaramenteche egli probabilmente non avrebbe ac-cettato – anche per i connotati del suocarattere – la parte del vassallo, soprat-tutto se questa gli fosse spettata per laconoscenza geografica delle Alpi Giulie.D’altronde, molto spesso vengono ripor-tate le parole che Tuma espresse in oc-casione del suo settantesimo complean-no: “Per favore, niente esagerazioni lau-dative! – Camminavo da solo, scono-sciuto finché non mi scoprì il dott. Kugy”.Con queste parole egli si sdebitò conKugy per ciò che questi aveva scritto inuna delle note del suo libro Aus demLeben eines Bergsteigers (1925): “Quidebbo menzionare anche colui che cam-minò per cinquant’anni come me su que-ste montagne, ma sempre da solo e insilenzio, per cui furono pochi a saperlo.Questi è il dott. Henrik Tuma, goriziano.In questo capitolo cito spesso l’uomodel futuro al quale spetterà di fare altreascensioni rimaste finora inesplorate. Ildott. Tuma, al quale prestai attenzionesolamente negli ultimi anni, seppellì pur-troppo con la sua morte i suoi risultati”.

Con questa citazione di Kugy abbia-mo toccato solamente il problema prin-cipale della loro reciproca collaborazio-ne relativo alla toponomastica delle AlpiGiulie. Il legame tra Kugy e Tuma, non-ché la ricerca delle somiglianze e delledifferenze tra i due, sembra essere unproblema essenzialmente filologico, main realtà vale piuttosto la pena di mette-re a confronto il loro corso vitale, il loropensiero montano-alpino, nonché, ov-viamente, il loro tempo, compreso tra laseconda metà del XIX secolo e i primiquattro decenni del XX secolo. Si po-trebbe inoltre aggiungere che, se Tumasentì il bisogno di volersi confrontarecon Kugy, fece ciò soprattutto in quantoconsapevole della propria conoscenzadelle Alpi Giulie e del fatto che la suaopera era sconosciuta al mondo non slo-veno, specialmente ai mondi italiano egermanico. Kugy probabilmente neppu-re immaginava qualcosa di simile: evi-dentemente non ne era motivato.

“L’uomo è un prodotto della natura edella società che lo circonda, ed è pos-sibile capirlo solo conoscendo la suaevoluzione dalla giovinezza alla vec-chiaia”, scrisse Tuma nell’introduzionealle sue memorie. Questa constatazionevalga come introduzione alla nostra ana-lisi.

Nati nel luglio 1858, il dott. JuliusKugy (19 luglio) ed il dott. Henrik Tuma (9luglio), entrambi giuristi, alpigiani e alpi-nisti, invitano naturalmente a rilevare leloro individualità. I paragoni soprattuttotra le doti comuni e le decisioni vitali, gliaccostamenti e i distacchi, erano pressogli sloveni percepiti in particolare daipubblicisti alpinisti, per gli altri – in parti-colare a causa della non conoscenzadella lingua slovena – anche il testo diTuma rimaneva “chiuso a chiave” (paro-le di Kugy), benché i suoi scritti sull’alpi-nismo venissero pubblicati anche inceco, in italiano e in tedesco. Raffrontitra i due vennero fatti in particolare in oc-casione del loro settantesimo complean-no. Del resto, a contribuire a simili com-parazioni e valutazioni fu lo stessoTuma, in quanto, seguendo l’impegno diKugy, conosceva molto bene le sueopere, molto meglio di quanto Kugy co-noscesse quelle di Tuma. La figlia diTuma, Anka, ricorda così le parole delpadre: “Kugy era benestante, un esteta,un artista, che si dilettava con la minorfatica. Erano i portatori a trainargli tuttol’occorrente fino ai bivacchi. Non era le-gato a doveri di professione né a preoc-cupazioni per la famiglia; poteva conce-dersi congedi illimitati. Io invece inizial-mente compivo le mie scalate da stu-dente povero, ed anche in seguito dor-mivo assieme alla guida sulla nuda terra,dividendo con lui un misero pasto, sem-pre in fretta per la preoccupazione di tor-nare al lavoro per procurarmi il panequotidiano. Lui è scapolo, io invece hosette figli. L’alpinismo era per lui un di-letto, per me lotta, studio e riposo dal fa-ticoso lavoro. C’era tra loro una grandediversità di carattere. Di condizioni e diprincipi, ma lo stesso amore per le mon-tagne…”.

I raffronti iniziano già con la data dinascita – Tuma era solo di dieci giornipiù vecchio – e continuano lungo i de-cenni della loro vita. Da essi emergononumerose somiglianze e affinità, maanche altrettante diversità e divergenze.Entrambi erano cittadini, Tuma lubiane-se, Kugy goriziano, nato in una casa d’a-bitazione della villa Graffenberg deiCoronini. Tuma si costruì la propria villaall’inizio del secolo non lontano da lì, invia Trigemina. Entrambi erano nati damatrimoni misti. Il padre di Tuma eraboemo, la madre slovena. La madre diKugy era figlia di madre italiana, maanche figlia del poeta sloveno, non moltoapprezzato, Ivan Vesel Koseski, con-temporaneo di France Preøeren. Il padredi Kugy era nativo di Lind (Pod lipo), lo-calità presso Arnoldstein in Carinzia.Kugy si considerava appartenente allacultura tedesca, Tuma invece si annove-rava tra gli sloveni. Diversa era anche laloro origine sociale. Tuma era figlio di uncalzolaio, Kugy di un commerciante al-l’ingrosso. Da qui la loro differenza negli

studi. Kugy concluse la scuola media aTrieste (1876), mentre Tuma conseguìl’esame di maturità, privatamente, pure aTrieste, ma cinque anni più tardi di Kugy.Già prima della maturità esercitò la pro-fessione di maestro, acquisendo espe-rienza di insegnamento nelle scuole ele-mentari e come maestro privato. Proprioin qualità di maestro privato abitò pressogli albergatori Progler di Postumia. Unpaio di mesi prima della maturità al gin-nasio di Trieste, Tuma insegnò nellascuola cittadina protestante tedesca.Tra le sue allieve c’era anche SilviaPanfili, cugina di Kugy, anche lei nipote,da parte di madre, del poeta Koseski.

Conclusa la scuola media, Kugy pro-seguì gli studi e conseguì il dottorato inlegge all’Università di Vienna nel 1881,come fece lo stesso Tuma benché seianni più tardi. Kugy si impiegò pressol’azienda di famiglia e visse a Trieste pertutta la vita. Tuma durante il periododegli studi a Vienna accumulò da mae-stro privato presso le famiglie aristocra-tiche ricche esperienze. Dopo un brevesoggiorno a Lubiana in qualità di aspi-rante avvocato, nell’autunno del 1887iniziò a Trieste il suo primo lavoro stabi-le da impiegato del tribunale. L’evoluzio -ne della sua carriera lo portò nelGoriziano dove, dagli inizi del 1901 finoal 1924 – eccetto che negli anni dellaprima guerra mondiale – esercitò la pro-fessione di avvocato. A Gorizia si sposòed ebbe dieci figli, sette dei quali riusci-rono a sopravvivere oltre l’infanzia. Solouno di essi seguì la vocazione del padre,ma nessuno coltivò l’intenso entusiasmopaterno per la montagna. Solo la figliaAnka imitò l’attività paterna, anche se inmisura più modesta. Kugy, invece, non siformò una famiglia; nel suo ultimo libro,ricordando i compagni costretti a rinun-ciare alla montagna per doveri familiari,scrisse: “Io però, come si sa, son findalla nascita un vecchio scapolo”. Tumanon rinunciò alla montagna neppurequando, eletto alla Dieta provinciale diGorizia (1895), iniziò l’attività di pubblicofunzionario, dapprima come liberale edal 1908 come socialdemocratico. Dopola guerra organizzò a Gorizia il movimen-to comunista e tentò di organizzare poli-ticamente anche gli operai tedeschi diTarvisio e di Raibl. Cessò la sua attivitàpolitica a metà del 1921, ma ciò non glifu sufficiente per acquisire la cittadinan-za italiana e rimanere a Gorizia. Di con-seguenza, si trasferì con la famiglia aLubiana (1924). Kugy, come già accen-nato, rimase a Trieste dedicandosi allasaggistica. D’estate amava ritornare allemontagne degli anni della gioventù edella maturità. Ottantenne, durante un’e-scursione a Trenta, venne arrestato dalleautorità italiane. Nel periodo della se-conda guerra mondiale visse a Triesteda sorvegliato, in quanto antinazista.

Sin da giovani, Tuma e Kugy ebberoinclinazioni e legami comuni, che neglianni andarono consolidandosi in unprofondo attaccamento. Ciò che inprimo luogo li accomunava era indubbia-mente il concetto di alpinismo congiuntoalla botanica, e, per quanto strano possasembrare, l’amore per Trieste – in Kugyben comprensibile, in Tuma, invece, ri-

È nel campo editoriale che LuigiMedeot ha dato il massimo, coordi-nando la pubblicazione di Tricorno1778 – 1978, della guida del Carsoisontino, di Un secolo di AlpinismoGoriziano e dirigendo, per tantissimianni, il periodico sezionale AlpinismoGoriziano. Se la nostra pubblicazioneè conosciuta ed apprezzata in tuttaItalia ed ha raggiunto quel livello diqualità e di diffusione che le viene ri-conosciuto, lo si deve proprio a LuigiMedeot che ha saputo imprimere alperiodico una precisa linea editoriale,proseguendo il cammino già intrapre-so da Celso Macor.

Da ultimo, mi piace soffermarmibrevemente sul periodo delle opere al-pine: negli anni ’70 e ’80, sotto la spin-ta ed il trascinante entusiasmo diCarlo Tavagnutti abbiamo portato atermine il recupero della CasaCadorna sul Carso Isontino e, nelgruppo dello Jof Fuart sottogruppo diRiobianco, il ripristino del RicoveroRiobianco, il sentiero del Centenarioed il sentiero Lonzar. In precedenza,negli anni ’60, la sezione aveva realiz-zato la scala Pipan al Montasio ed il bi-vacco C.A.I. Gorizia.

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Alpinismo goriziano - 1/2008 3

Henrik Tuma

sultato di esperienze di vita e di riflessio-ni – nonché la comune inclinazione per lamusica.

Kugy ricorda che il suo profondo in-teresse per la botanica era iniziato in se-conda ginnasio; questo interesse lo por-terà sul Carso Triestino e, in seguito, a»botanizzare« sui monti dell’Istria e delQuarnaro, mentre negli anni Settanta sa-rebbe salito già sul Dobratsch. La salitadel Monte Nero/Krn fu la sua prima sca-lata sulle Alpi Giulie. È con il 1875, tutta-via, che avrà inizio la sua vera esperien-za di ascensionista, quando, dopo averscalato le cime del Tolminese e diBohinj, raggiungerà anche la vetta delTricorno; frequentava soprattutto la valledi Trenta con lo scopo di scoprire laScabiosa trenta (invero la Cephalarialeucantha). Tuma negli anni giovanilicompì escursioni sulle colline dellaBassa Carniola nei dintorni di Grosuplje,dove era nata sua madre; nel 1875 salìsui monti delle Caravanche e l’anno se-guente, maestro a Postumia, le sue metefurono la Carniola Interna e il Carso. Salìper la prima volta il Tricorno nel 1887.Nei quattro anni (1890 – 1894) della suapermanenza a Tolmino dimorò, per cosìdire, nel cuore delle Alpi Giulie. Kugy, in-vece, dopo le salite sulle nostre monta-gne, affrontò anche le Dolomiti e le AlpiOrientali e negli anni Ottanta le Alpi eu-ropee centrali, continuando, tuttavia, afrequentare le Alpi Giulie (Trenta,Valbruna), ma unicamente come escur-sionista vacanziero.

Tuma scalò anche montagne all’e-stero, soprattutto negli anni Ottanta,quando, precettore, accompagnava isuoi datori di lavoro in varie località. Inseguito si limitò alle montagne più vicine,saprattutto alle Alpi Giulie. Il settantacin-quenne Tuma nel 1933 compì, salendo ilTricorno assieme con alcuni membridella sua famiglia, la sua ultima ascen-sione: fu dunque un escursionista attivofino alla fine dei suoi giorni.

Il confronto tra le due personalità quiabbozzato, a dire il vero, sembra sminui-re nello spazio e nel tempo il loro inte-resse per la montagna, che, invece, pre-senta anche altri aspetti fondamentali,specie lo slancio esplorativo per scoprir-ne i segreti. Ma prima di proseguire tor-niamo per un momento a Trieste, cittàche in qualche modo li accomuna. PerKugy l’attaccamento ad essa è com-prensibile: “Per di più fui preso da unatremenda nostalgia che mi portava con-tinuamente nella ridente e bella casa pa-terna, verso il sole luminoso ed il mareazzurro della mia Trieste”. Così egliesprime in un passo la sua triestinità ag-giungendo più avanti: “Amo questa bellacittà, il suo sole luminoso, il cielo e l’am-pio mare azzurro di Trieste”. Kugy innessun altro luogo avrebbe potuto trova-re la vera patria se non nella città dellasua giovinezza e della sua attività.

Tuma non trovò parole equivalentiper Lubiana, valutata alla luce della suaesperienza e dal punto di vista di chi erastato allontanato fisicamente e spiritual-mente dal luogo più familiare, dal luogodei suoi anni giovanili, da uno scontromolto duro con la vita. Ed è proprio nelrapporto con Trieste che emergono traTuma e Kugy le differenza di scelte divita e di inclinazioni. Kugy, educato alsenso patriottico come un buon vete-roaustriaco, senza esagerazioni sciovini-ste e senza sterili schiamazzi, come luistesso afferma, è lontano dalla vita poli-tica. Per Tuma è diverso, soprattuttoperché l’alpinismo nelle sue scelte di vitaè solo uno dei suoi interessi, non il fon-damentale, come invece è l’interesse perla politica. La sua predilezione perTrieste nasce dalla convinzione politicache la città doveva svilupparsi e tramu-tarsi in naturale centro economico e cul-

turale di tutta la Slovenia: “Io vedo inTrieste il problema dell’essere o non es-sere della nazione slovena quale unitàpolitica e culturale”. Tuttavia, da interna-zionalista socialdemocratico, guarda allacittà, nella monarchia austroungaricariformata, come a uno dei centri della fu-tura confederazione delle nazioni danu-biane nello spirito dell’austromarxismo.

Kugy non si occupò di politica.Probabilmente l’unico suo atto politicofu l’essere stato, dal 29 giugno 1915 al 2luglio 1918, “referente alpino” nell’arma-ta austroungarica. Tuma, che nel 1915,all’inizio della guerra, aveva dietro di sévent’anni di attività politica, come socia-lista sosteneva la pace, sennonché rite-neva che il conflitto avrebbe offerto l’oc-casione per un necessario cambiamentosociale nello spirito della dottrina socia-lista. In merito alla collaborazione diKugy con l’esercito imperiale, Tuma scri-ve: “Vedo che l’armata austroungaricadurante la guerra si è servita del turistatedesco dott. Julius Kugy quale ‘indica-tore’ mentre io avevo rifiutato l’invito aparteciparvi”. Ad essere richiamati inguerra furono invece i due figli maggioridi Tuma, il figlio Jaroslav (nato nel 1899)venne fatto prigioniero dagli italiani.

Per concludere queste note solo ap-parentemente estranee all’alpinismo,possiamo aggiungere che Kugy manife-stò la propria tolleranza nazionale anchetra le due guerre quando il nazionalismoassunse un aspetto violento. Nell’intro -duzione alla raccolta degli scritti sui cin-quecento anni del Tricorno (1938) ac-cennò, infatti, ai tempi “del sempre piùprevalente nazionalismo”. Tuma alloraera già deceduto, ma già molto tempoprima nelle sue pubblicazioni egli avevarichiamato l’attenzione sui nazionalismiestremi nell’Europa di quegli anni.L’alpinista sloveno e antifascista dott.Lojze Sardoœ al momento dell’entrata inguerra dell’Italia, nel giugno del 1940, in-contrò nel Coroneo triestino tra gli arre-stati lo stesso Kugy. Lo scrittore alpini-sta sloveno prof. dott. France Avœin ri-corda l’ultimo incontro e colloquio conKugy nella sua casa di Trieste in via S.Anastasio, avvenuti nel 1943, prima dellacapitolazione dell’Italia, e riporta le se-guenti parole: “Che vergogna e chescandalo ciò che deve sopportare la po-vera nazioncina slovena! È vero che i fa-scisti erano sempre perfidi assassini,traditori, ma il Tedesco! Tuttavia io credoprofondamente nella vittoria della cultu-ra. E se c’è un Dio giusto i Tedeschi deb-bono perdere e debbono essere puniti…qui sono Tedesco anch’io!”. La secondaguerra mondiale colpì la famiglia diTuma: i suoi due figli minori, il dottore in

legge Boris e l’ingegnere in chimicaZoran, morirono di morte violenta primadella fine della guerra (4 maggio 1945),accusati dalla Gestapo e dalla polizia deicollaborazionisti sloveni d’essere soste-nitori della Osvobodilna fronta.

L’opera letteraria e pubblicistica ca-ratterizza particolarmente il cammino divita di Kugy e di Tuma e rispecchiaprofondamente il loro pensiero di alpini-sti, nonché i risultati della cultura alpini-stica. Gli scritti di Kugy sono dedicatiespressamente alla montagna, quelli diTuma sono invece più vari. Kugy si inse-risce molto precocemente nell’albo degliscrittori alpini; infatti, appena diciasset-tenne pubblica nel giornale botanico au-striaco la relazione della sua escursionesul Tricorno e sulle montagne del Tol -minese e di Bohinj. Il suo primo ampioscritto dedicato alle Alpi Giulie, è com-parso sulla Zeitschrift des Deutschenund Österreichischen Alpenvereins del1883. Furono proprio i nomi adoperati daKugy a provocare i commenti critici diTuma, espressi nel suo primo scritto al-pino, pubblicato in Planinski vestnikisolo nel 1905. Ed è, infatti, soprattuttodalla corrispondenza tra Kugy e Tumache emergono numerosi problemi relati-vi alla toponomastica.Tuma in una lette-ra del 28 settembre 1927 esprimeva al-l’alpinista e scrittore austriaco dott. PaulKaltenegger il suo disaccordo sui topo-nimi usati da Kugy: a metterlo in contat-to con Tuma era stato lo stesso Kugy. Adaccennare alla conoscenza toponoma-stica di Tuma fu anche Kugy nel suoprimo libro Aus dem Leben einesBergsteigers (1925), qui, egli, come ab-biamo già riferito, espresse a Tuma tuttala sua riconoscenza. Questo, nei testi diKugy, è l’unico passo in cui compare ilnome di Tuma.

L’invito pubblico di Kugy a Tuma(1925) a esprimersi in merito alla termi-nologia delle Alpi si realizzò nel 1929quando uscì Imenoslovje Julijskih Alp /Toponomastica delle Alpi Giulie. L’operadi Tuma non venne in risposta alla solle-citazione di Kugy; fu invece il risultatodella raccolta di materiali iniziata fin dallesue prime frequentazioni delle Alpi ePrealpi Giulie. Né risulta che il libro diTuma Pomen in razvoj alpinizma /Significato e sviluppo dell’alpinismo(1930) fosse stato scritto in risposta agliscritti letterari alpini di Kugy. In questolibro Kugy occupa un posto adeguato: “Ildott. Kugy non ha nulla di estremo, è di-screto rappresentante dei vecchi classi-ci alpinisti tedeschi che per decennierano in prima fila quando tra i tedeschiebbe inizio l’esuberante sviluppo dell’al-pinismo”. Tuma, inoltre, non volendo sindall’inizio paragonare Kugy a se stesso,ricorre alla personalità del giovane alpi-nista sloveno dott. Klement Jug, tragicavittima della parete nord del Tricorno nel1924, e scrive: “Il dott. Jug cercava rifu-gio nell’alpinismo per sottrarsi alle diffi-coltà della vita, ai conflitti spirituali distudente solitario; il dott. Kugy cercavasulle montagne la pura gioia, possiamoperciò dedurre che il dott. Kugy era so-prattutto un esteta, mentre il dott. Jugaveva una visione etica”. Continua poispiegando l’estetica alpina di Kugy e ilsuo rifiuto delle priorità sportive dell’alpi-nismo, quindi analizza i risultati di Kugyanche dal punto di vista sociologico e ri-chiama alla memoria la sua vicendaumana. Continuando con Tuma dobbia-mo rilevare che i suoi scritti sono paginedi vario genere. Da giurista pubblica, in-fatti, saggi attinenti a questo settore. Labibliografia di Kugy non contiene, inve-ce, titoli che facciano pensare a scrittidal contenuto diverso da quello sull’alpi-nismo. Tuma, viceversa, scrive articoli esaggi di filosofia e di psicologia (soprat-tutto su problemi sessuali), di storia e di

linguistica. Numerosi sono i suoi saggisul marxismo e sulla sua realizzazionepratica. Tra i suoi scritti vi sono pure re-censioni letterarie. Come uomo politicoscrive anche articoli d’attualità. MentreKugy scrive sulla sua vicenda di alpinistaquando si avvicina ai sessant’anni, Tumalo fa dopo aver appena compiuto il set-tantesimo anno d’età. Il suo libro Izmojega æivljenja. Spomini, misli in izpo-vedi (1937) esce postumo, come puretardivo è l’ultimo libro di Kugy Aus ver-gangener Zeit (1943). Tuma descrive lapropria vicenda umana considerandol’alpinismo come una delle componentidella sua biografia. Il suo libro ancor oggidesta maggior interesse tra gli storici po-litici che tra gli alpinisti. Tradotto in ita-liano, è stato edito dalla casa editricedella minoranza slovena in Italia.In conclusione, a restare aperto è il pro-blema dei loro successi alpinistici, il piùimportante ed insieme il più difficile darisolvere. La diversità degli stimoli che lispinsero ad accostarsi alla montagna, ladistanza di tempo che divise i loro primicontatti con le Alpi Giulie, nonché il fattoche Kugy avesse conosciuto anche lecime delle Alpi Centrali, non ci permetto-no di esprimere valutazioni congrue.Marjan Lipovøek, compositore e alpini-sta sloveno, comparando e valutando lescalate alpine di Kugy e di Tuma, rilevòche Kugy visse a stretto contatto con lemontagne e che tale fusione fu raggiun-ta presso gli sloveni “almeno in parte,solamente dal dott. Henrik Tuma. Nondico che lo abbia raggiunto dal punto divista alpinistico, sebbene alcune suescalate possano essere paragonate aquelle di Kugy, o addirittura le superino”.

Molti autori si sono chiesti se Tuma eKugy si conoscessero personalmente.Anka Tuma riteneva che essi non si fos-sero mai incontrati in montagna, oppureche si fossero, forse, trovati contempora-neamente “in qualche rifugio” a SellaNevea, ma senza sapere l’uno dell’altro.Intorno al 1923, quando Tuma abitavaancora a Gorizia, entrarono in contattoper lettera. In seguito, si conobbero per-sonalmente, probabilmente quandoKugy teneva conferenze a Lubiana coneccezionale successo. La loro corrispon-denza è confermata dalle lettere e carto-line postali inviate da Kugy e dalle copiedelle lettere e cartoline postali di Tuma.Si sono conservate trentotto lettere e unacartolina postale, che vanno dal 19 otto-bre 1923 al 20 settembre 1934. Kugy tra il28 marzo 1926 e il 27 settembre 1934spedì a Tuma 26 lettere e 13 cartoline po-stali. Naturalmente non tutta la corri-spondenza è conservata. Le loro lettere ecartoline postali, in realtà, contengonopochi dati e poche considerazioni, insuf-ficienti a esprimere un giudizio sulle lororelazioni. Entrambi erano molto concretie nello stesso tempo molto cordiali.

In conclusione, possiamo tornare alpunto di partenza e chiederci se Tuma eKugy fossero o potessero essere in rap-porto di … vassallaggio. Gli amanti dellamontagna coronarono Kugy re delle AlpiGiulie. Ma è lecito dubitare, come già ac-cennato all’inizio, che Tuma avrebbe ac-cettato la parte di suo primo vassallo,non solo per il fatto – se mi è permessoironizzare – che era repubblicano con-vinto, convinzione che gli fece perdere ilposto di maestro a Postumia. Questotipo di sottomissione non era conformeal suo carattere. Tuttavia, non è lontanadal vero la constatazione che Tuma so-stanzialmente stimava Kugy, anche senon lo avrebbe mai ammesso.

Sul letto di morte, prima di morire (5febbraio 1944), Kugy si congedò dallasua fedele governante con le parole“Addio Pepina!”; nove anni prima Tuma,raccogliendo le ultime forze, aveva can-tato l’inno francese, la marsigliese.

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4 Alpinismo goriziano - 1/2008

Ero da solo in giro per le AlpiGiulie il 15 agosto 1962. Primadel rientro a casa avevo deci-so di passare da Cave del

Predil a salutare gli amici. Li trovai chestavano festeggiando Ignazio, Berto,Sergio (Piussi, Perissutti, Bellini n.d.r.)per la salita al pilastro del PiccoloMangart. Mi presentarono Sergio e par-lando del più e del meno mi disse cheaveva ancora parecchi giorni di ferie adisposizione. Ci accordammo così perandare in Lavaredo. L’appuntamento fufissato per il giorno 18 al rifugio“Locatelli”.

Al rientro a casa comincio subito apreparare lo zaino: alcuni ricambi dibiancheria, qualcosa da mangiare e ilmateriale alpinistico che consiste inventi moschettoni di ferro, alcuni spez-zoni di cordino di canapa e la mia primacorda di nylon comperata per l’occasio-ne.

Il sabato sono a Udine in viaMercatovecchio pronto a salire sullacorriera, la USA, che parte da Trieste efa sosta in ogni paesino. Verso le 15,con mio grande sollievo, scendo final-mente a Misurina. Zaino in spalla, mi in-cammino e alle 19 sono in vista del rifu-gio “Locatelli” dove c’è Sergio che miaspetta. Prima di arrivarci però facciouna breve fermata nei pressi di unmasso che mi aveva dato riparo primadella salita allo spigolo Dibona allaCima Grande. C’erano ancora i sassicon i quali avevo costruito un murettoper proteggermi dal vento durante lalunga sosta.

Ma ritorniamo a noi. Ceniamo e ciaccordiamo per la salita del giornodopo: la Comici alla Punta Frida.Dopodiché ci ritiriamo nel sottotetto delrifugio a dormire.

19 agostoMentre cammino verso l’attacco

della via mi chiedo se sono all’altezzadel compagno. Ma oramai è tardi per idubbi, sarà quello che sarà.

Arriviamo alla base della parete, ciprepariamo, siamo pronti. AttaccaSergio, lento e sicuro supera la pareteverticale, aggira il tetto e sparisce dallamia visuale. Poco dopo mi chiama e inbreve lo raggiungo. Proseguo io per unatrentina di metri di roccia gialla e stra-piombante. Quando il compagno mi rag-giunge riparte immediatamente e, dopoaltri venticinque metri mi recupera. Oraè nuovamente il mio turno: devo attra-versare verso destra per entrare nel die-dro strapiombante. È chiodato ma ionon conosco la tecnica dell’artificiale,così preferisco saltarne parecchi per farscorrere meglio le corde. Salgo fino araggiungere una cengia dove recupero ilmio compagno.

Sergio prosegue per un marcato ca-mino e quando lo raggiungo lo ritrovoseduto comodamente su un cengione.Da lì per una serie di paretine, salendosempre a comando alternato ci ritrovia-mo in cima. Una stretta di mano e poi, insilenzio, osserviamo il paesaggio che cicirconda: un mare di cime.

La giornata è bella e il sole ci scaldama bisogna scendere. In breve ci trovia-mo sull’ampia forcella che divide laCima Piccola di Frida dalla CimaPiccola. Sostiamo per osservare la via

fa freddo. Ci alziamo per rocce facili esiamo alla base della via. Dopo i con-sueti preparativi siamo pronti per affron-tare i primi tiri di corda. La via si fa sen-tire con le sue difficoltà: tiro dopo tirosuperiamo la parete con passaggi chediventano sempre più difficili. Penso conmolto rispetto agli uomini che hanno su-perato questa parete per la prima voltanel 1909 con mezzi molti più rudimenta-li dei nostri. La via è poco chiodata.Seguendo una fessura e dopo un cami-no arriviamo in cima. Siamo soli e ci go-diamo il superbo panorama che ci cir-conda. Rimaniamo lì sopra a lungoprima di deciderci a scendere.Rientriamo al rifugio passando sotto loSpigolo Giallo, la nostra meta di domani.Ma è ancora presto, così gironzoliamonei dintorni. La sera prepariamo gli zainie rileggiamo la relazione della via, poi acena e ci ritiriamo a dormire.

21 agostoColazione a base di pane nero e

marmellata con l’accompagnamento diun mezzo litro di acqua calda alla qualepoi Sergio aggiunge la polvere“Ovomaltina” della quale ha fatto buonascorta in Svizzera. Ancora un’occhiataalla relazione. Lo Spigolo è lì e non ci sipuò sbagliare per cui decidiamo di la-sciare la guida in rifugio così evitiamo dirovinarla. Ci avviamo verso il nostroobiettivo e, arrivati alla base, attacchia-

Helvesen da me già salita nel ’59.Partiamo risalendo il camino, poi lungo iltratto della parete grigia e ancora versodestra entriamo nel camino per arrivaresotto lo strapiombo giallo. Lo superiamodirettamente e, nuovamente nel camino,arriviamo alla forcelletta. Di lì alla cima iltratto è breve come breve è la sosta.Scendiamo e con alcune corde doppiearriviamo alla base.

20 agostoUsciamo dal rifugio verso le sette, fa

freddo. Oggi il nostro obiettivo è la viaFehrmann alla Cima Piccola. Risaliamo ilcanalone gradinando, poi deviamo a si-nistra. Guardo l’attacco dello spigoloDibona alla Grande e molti ricordi mipassano per la mente.

Dobbiamo muoverci, siamo a nord e

mo lungo un evidente diedro. Si sale poiverso sinistra e di lì, su piccoli appiglilungo lo spigolo, mantenendoci di pocosulla destra. Ci avevano assicurato chela via era chiodata. Di chiodi invecenemmeno l’ombra. Tiro dopo tiro supe-riamo la verticalità della roccia. Oramaici siamo alzati di parecchio e ad ognitiro ci aspettiamo di trovare traccia dipassaggio. Difficoltà estreme, appiglinon buoni e di chiodi nessun segno.Comincio ad innervosirmi. Adesso è ilturno del mio compagno che sale pertrenta metri e mi recupera. Vado avantisu roccia sempre verticale con appiglipiccolissimi e dopo circa 25 metri sonointrappolato dalle difficoltà, sospeso nelvuoto e senza alcun chiodo intermedio.Per forza devo attraversare verso destrae, con mia grande sorpresa, vedo quat-

giornata. Poi inevitabilmente arriva ilmomento di scendere e quando arrivia-mo alla forcella Lavaredo la nostra at-tenzione è catturata dalla via Comici allaparete nord della Cima Grande osser-vando alcune cordate ancora alla base,alle prese con le prime difficoltà del per-corso. Rientriamo al “Locatelli”.

22 agostoCi svegliamo con il ticchettio della

pioggia che batte sulla lamiera del tettodel rifugio. Non ci rimane che continua-re a dormire. Quando ci alziamo, versole nove, cade ancora una pioggia legge-ra. Durante la giornata mantengo l’alle-namento salendo la Salsiccia diFrancoforte da tutti i suoi lati sperandonel contempo che il tempo migliori.

23 agostoDurante la notte piove a scrosci e

alle 5, quando mi alzo a guardare fuori,piove ancora. Non ci rimane che dormi-re. Verso le sette ha smesso e vedo ilcielo con ampi spazi d’azzurro.Decidiamo quindi rapidamente di anda-re alla parete nord della Cima Grande.Alle nove siamo alla base e mentre mipreparo osservo due francesi che stan-no arrampicando. Quando li raggiungia-mo sono alla base della fessura, doveiniziano le difficoltà vere e proprie, edopo diversi tentativi ci lasciano ilpasso. Salgo lungo la fessura fino adove questa si perde nella parete, attra-verso a sinistra e poi ancora su diritto.Devo superare diverse difficoltà prima diarrivare ad un punto di sosta dove miraggiunge il mio compagno che si la-menta con me perché sono salito sal-tando troppi chiodi. “Oggi ho una gior-nata buona” - rispondo, ma in realtà l’hofatto perché non ho molta confidenzacon l’arrampicata artificiale e infatti nonabbiamo con noi nemmeno le staffe.

Sergio parte verso destra e lo vedosalire una fessura strapiombante e dopocirca 25 metri si ferma e ci riuniamo.Osservo alla mia destra un diedro nerostrapiombante. Parto e lo supero. Laroccia è compatta. Mi sposto ancoraverso destra e dopo pochi metri sono sudi un terrazzino. Recupero il compagnoche riparte a sua volta verso sinistra, sialza per una decina di metri e si trovaalla base di una fessura strapiombantealta circa 20 metri che arriva ad un ter-razzino. Parto, supero i primi dieci metrie sono alla base della fessura, la studio,ricomincio a salire e mi rendo conto dicome strapiomba. Quando ci riuniamo,poco dopo, intuisco dal suo sguardoquello che mi aspetta: un diedro stra-piombante. Lo supero molto lentamentefino ad arrivare al suo termine, poi con-tinuo su roccia compatta spostandomiverso destra e salendo alcuni piccolistrapiombi fino a raggiungere un puntodi sosta dove recuperare Sergio. È a luiche spetta adesso di superare un diedrodi roccia nera e compatta. Prosegue finoad una sosta abbastanza comoda.Salgo lungo un pilastrino e vado versodestra, continuo per una fessura e arrivoad una terrazza. Quando ci riuniamo ilcompagno mi dice che le difficoltà sonoormai finite. Lo vedo scendere alcunimetri, fa un traverso a sinistra e poi risa-le una serie di camini. Quando lo rag-giungo mi accorgo che non vedo più ighiaioni sotto i piedi. Adesso spetta ame superare la fessura di destra conbuoni appigli. Poi è il turno del mio com-pagno di salire un camino-colatoio finoad arrivare sopra un grande tetto nerodove si ferma. È la mia volta adesso.Vado veloce, ho visto due corde chevorrei recuperare ma Sergio non vuoleche lo faccia ed è irremovibile. Ci riman-gono da salire ancora pochi camini checi portano alla cengia che attraversa la

Alpinismo

Tre Cime (con mezzi francescani)di MARCELLO BULFONI

Tre Cime di Lavaredo

tro chiodi. Senza pensarci due volte econ una traversata molto esposta li rag-giungo e, dopo essermi ben assicurato,mi faccio raggiungere dal compagno.Adesso è lui davanti ma passa poco emi chiama. Devo superare un diedrogiallo strapiombante al termine di unaparetina anch’essa strapiombante.Fortunata mente trovo qualche altrochiodo. Arrivo sotto un soffitto e non mirimane altro da fare che seguire le cordefacendo anche qualche tentativo di to-gliere alcuni chiodi per averne una scor-ta minima di sicurezza. Dopo esserci riu-niti viene il mio turno in testa. Attraversoa sinistra e prendo lo spigolo vero e pro-prio che risalgo fino ad una terrazza. È lavolta di Sergio, lo vedo sparire dentro adun camino strapiombante. Il comandoritorna a me e velocemente supero ledifficoltà che mi trovo davanti. Adessosiamo nuovamente riuniti e devo supe-rare un tratto di roccia malsicura. Passole corde in alcuni chiodi e sfilo 35 metri.È il turno del mio compagno, così quan-do mi chiama faccio un ultimo tentativodi togliere qualche chiodo ma immedia-tamente le corde si tendono come quel-le di un violino. Non mi rimane altro cherinunciare. Una stretta di mano e un’oc-chiata all’orologio. Sono passate tre oreda quando ci siamo staccati dalla base,tre ore che non dimenticherò mai perchéintensamente vissute. Sulla cima siamosoli e rimaniamo a lungo a goderci la

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Alpinismo goriziano - 1/2008 5

parete nord. Sostiamo per slegarci eproseguiamo verso destra fino a giunge-re sul versante sud e poi, in breve, incima. Festeggiamo con una stretta dimano.

Abbiamo vissuto ancora una voltamomenti indimenticabili. Le sei ore cheabbiamo trascorso in parete sono statemolto intense e ora ci appaga anche ilsuperbo panorama con la Croda deiToni, la Croda Rossa d’Ampezzo, ilCristallo, l’Antelao, le Marmarole con i vi-cini Cadini, il tutto sotto un cielo di nubiche si rincorrono. Scendiamo lungo la

via normale. In breve siamo alla base. Ciincamminiamo verso il rifugio superandola forcella Lavaredo. Volgiamo gli sguar-di alla parete appena salita. Sono nove lecordate impegnate, i francesi sono ora-mai usciti dalle difficoltà ma gli altri sa-ranno costretti a bivaccare. Al rifugio ciprepariamo subito gli zaini per la salitadell’indomani, la Cassin alla Ovest.

24 agostoQuando mi sveglio sento ancora il

familiare ticchettio della pioggia. Smetteche sono circa le 10 e 30 e sul pianoro

delle Tre Cime comincia a soffiare unvento gelido che spazza le nuvole e ilcielo si fa di un azzurro intenso. Così de-cidiamo di andare a ripetere la Preussalla Piccolissima. A mezzogiorno siamoall’attacco. I soliti riti poi il mio compa-gno parte, supera la paretina iniziale euna fessura che porta sotto un lungo ca-mino che viene salito un po’ a destra eun po’ a sinistra. Dopo tre tiri di cordasiamo sulla cima a goderci il panoramae il sole adesso caldo. Scendiamo acorde doppie e ci avviamo al rifugio.Domani ognuno ritorna a casa sua.

Con la solita corriera verso le 20sono a Udine e per i mezzi di trasportolocali sono fuori orario ... non mi rimaneche percorrere i 9 kilometri che mi sepa-rano da casa con le mie gambe.

Il sogno di salire la Cassin alla Ovestè rimasto nel cassetto. I compagni cheho trovato in seguito non si sono sentitisicuri poco prima della famosa traversa-ta e così, pur avendo in seguito ripetutopiù volte la Cassin alla Piccolissima, lospigolo Demuth alla Ovest, la Dulfer allaCima Grande, mi è sempre mancata laparte nord della Cima Ovest.

Esplorazione

Alpi Giulie sconosciute: il Rio del Ventodi LORENZO MARINI

Scendendo il Rio del Vento

Poiché esplorare significa inol-trarsi in terreno ignoto per conoscer-lo e descriverlo, si potrebbe dire chela rivelazione alpinistica delle Giulie siè conclusa il 12 ottobre 1927 con lasalita di Dougan e Pezzana al Jôf diMiezdì. Bisogna tuttavia ricordare chequeste nostre amate montagne nonsono fatte solo di cime, ma anchedelle trarotte forre torrentizie che inci-dono i loro fianchi. Gli alpinisti si sonolimitati a risalire quelle gole che por-tavano a strategici intagli, ma in tantealtre nessuno ha avuto motivo di av-venturarsi e quando i valligiani lohanno fatto per cacciare il camoscio,sono significativi i nomi dati a questiluoghi inquietanti e minacciosi: sfon-derât, infiâr. Nemmeno le più recentifoto aeree hanno rivelato quante ca-scate ci sono nell’inaccesso trattomediano del Rio Montasio. Mi sonfermato spesso davanti alla tetra fen-ditura con la quale il Rio del Ventosfocia quasi sulla strada della ValRaccolana e il gelido soffio che neesce mi pareva quasi un invito a co-glierne il segreto. Memore dell’aristo-telico mònito (potentia est in juniori-bus, prudentia autem in senioribus)ne ho parlato a mio figlio e leggendociò che ha scritto è come se avessipreso parte anch’io all’impresa, menodifficile del previsto ma ugualmenteesaltante per le sensazioni che si pro-vano visitando terre incognite.

D.M.

Il Riu dal Vint dei locali è una golache solca per tutto il suo sviluppo ilversante orografico sinistro della ValRaccolana, dall’omonimo torrente al

crinale di spartiacque con la Val Resia,per un dislivello di 900 m. Il nome derivadal fatto che dallo sbocco della forra sisprigiona un forte e costante vento cata-batico dovuto alla conformazione acanyon della profonda forra, la quale sipresenta nella parte terminale, visibiledalla strada, angusta e verticale, in modoche i raggi solari vi penetrano brevemen-te e per pochi mesi all’anno. La portatadel rio che vi scorre è piuttosto scarsa e,da nostre ripetute osservazioni, non subi-sce sensibili variazioni in relazione alleprecipitazioni atmosferiche; abbiamoanche notato che in occasione di pioggeintense il flusso idrico non aumenta mai alpunto da divenire pericoloso, come suc-cede generalmente nei torrenti montani.Ciò dipende dal fatto che il Rio del Ventonon ha un vero e proprio bacino imbrife-ro, in quanto non è stato formato dall’a-zione escavativa delle acque meteorichema verosimilmente da un anomalìa tetto-

nica, ovvero da una linea di faglia, ipotesiquesta avvalorata dal suo andamentoperfettamente rettilineo.

Alcuni anni fa prendemmo in consi-derazione la possibilità di una discesadella gola, ma il progetto tardava a con-cretarsi per la convinzione che qualcunol’avesse già fatta ed avesse omesso, pertrascuratezza o per altri motivi, di darnenotizia. Il dubbio di esser stati precedutiprivava l’impresa della componente piùstimolante: passare dove altri sono giàpassati è un po’ come avanzare sullaneve segnata già da impronte, perdendocosì il gusto di farlo.

Avuta conferma dai valligiani che sa-remmo stati i primi, in autunno partiamoda Stolvizza con il materiale necessarioper scendere i primi 200 m del Rio, aven-do deciso di attrezzare tutto con corde

fisse, una tecnica più impegnativa e fati-cosa rispetto a quella delle doppie, chegarantisce però maggior sicurezza di pro-gressione e di ritorno. L’accesso al Riodel Vento si trova a pochi metri dalSentiero CAI 632 che porta al BivaccoCrasso ed appena usciti da una faggetalo si vede sprofondare con una china de-tritica che subito s’incassa tra pareti ver-ticali. Scendiamo tenendoci alti sulla sini-stra per evitare il fondo ghiaioso dellagola, incontrando molte difficoltà perpiazzare i fissaggi a causa della cattivaqualità della roccia alquanto marcia e allafine del traverso ci caliamo in verticaleper 35 m nel cuore del canale. Il primo im-patto è deludente: siamo in una golamolto stretta e ripida, occupata da un in-sidioso ghiaione di pietrame mobile checi costringe a procedere attrezzando fino

ad un punto più sicuro. La prima corda da150 m è finita, ma ora è possibile avanza-re più speditamente grazie alla minorpendenza, mentre via via che si scende ilcanyon diventa più ampio e meno oppri-mente. Superati in arrampicata alcuni sal-tini ecco comparire la prima acqua, chefiltrando dai sassi forma subito un vivacetorrentello e pozze intervallate da scivoliche bisogna armare fino all’orlo di unacascata di una certa importanza. Sonostati superati circa 350 m, la corda èesaurita e si tornerà la prossima settima-na, decisi a completare la discesa. La ca-scata dove ci siamo fermati è alta 35 m eda qui inizia la parte più semplice e mo-notona, con le pareti distanti circa 40 m eil fondo occupato da massi di ogni di-mensione, tra i quali l’acqua si è infiltrataverso livelli più bassi. A 650 m dall’iniziola gola cambia nuovamente morfologia, sifa più stretta ed assume l’aspetto chemanterrà fino allo sbocco sulla strada perSella Nevea. Grandi macigni incastrati trale pareti verticali formano salti problema-tici che c’impegnano parecchio e consu-mano rapidamente la scorta di corde echiodi, mentre l’acqua, che era sparita300 m più a monte, è ricomparsa sull’al-veo roccioso. Comincia qui la parte piùtecnica ed avvincente della discesa, in unsuccedersi di saltini acquatici, meandriallagati e traversate su placche limosedove non c’è posto per l’arrampicata ele-gante. Arriviamo così in vista della strada,ma prima bisogna superare il salto piùsuggestivo di tutta la discesa, spostando-si con una breve traversata dalla linea dicaduta dell’acqua; per esso e per i se-guenti utilizziamo l’ultima corda da 50 me, rimasti quasi senza materiale, ci calia-mo dalle ultime asperità con una sorta dispago marcio scovato in qualche cantina.L’avventura si conclude con alcuni saltigrondanti che ci portano all’uscita delcanyon, con l’acqua che, persa la suaenergia cinetica, stancamente confluiscenel torrente Raccolana per avviarsi versol’Adriatico, dal quale tornerà un giornoalla montagna nel suo ciclo senza fine.Noi invece dobbiamo risalire subito perrecuperare il materiale messo in operanelle due uscite, affidando agli ancoraggila testimonianza che l’uomo ha voluto in-dagare anche quest’infima ruga del pia-neta. Per la verità una traccia l’abbiamotrovata nell’unico punto in cui una facilecengia consente di entrare nella forra dauna pendice boscosa non lontana dallastrada: è un vecchio e contorto piolo diferro confitto in una placca, messo permotivi inspiegabili da boscaioli o caccia-tori, oppure risalente alla Grande Guerra,quando si realizzarono nella Raccolananumerosi apprestamenti difensivi.

La discesa del Rio del Vento non haportato a scoperte interessanti, non hafrapposto eccessive difficoltà o rivelatoparticolari bellezze; d’altra parte non ci haimpegnati ai limiti delle nostre capacitàné ci ha esposti a pericoli mortali.Tuttavia ha suscitato in noi, che per primine abbiamo svelato il mistero, quell’inef-fabile piacere che si avverte camminandosu un lenzuolo candido e virginale di neveappena caduta.

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6 Alpinismo goriziano - 1/2008

Il racconto

Sul Trisul con un amicodi MARIO SCHIAVATO

Ecco ancora qualche nota trattadal mio quadernetto: “Ci voglio-no ancora due giorni per arrivarea quello che sarà il nostro campo

base. Risaliamo dapprima la morenafino al punto in cui confluisce con le ca-scate di ghiaccio che scendono dalMaiktoli, poi scantoniamo e siamo final-mente sul bordo del Trisul. E possiamovedere la vetta agognata. Si capisce su-bito che, da questa parte almeno, non cisaranno difficoltà tecniche particolari al-l’infuori di alcune vaste crepacciate e diqualche breve murata di ghiaccio che sipotranno comunque superare. E logica-mente l’altezza e l’estrema ampiezzadella montagna. L’immen sità come l’hasubito definita Maurizio. Il tempo si man-tiene bellissimo, ma sulle creste i ventisollevano la neve fino a considerevoli al-tezze. Talvolta il rumoreggiare del ghiac-ciaio che crolla, gli schianti, i boati sem-brano terremoto. La dorsale della more-na s’allarga sotto il Devistan. C’è unaltro gruppetto, francesi, che sta andan-do verso il basso. Hanno tentato ancheloro, ma senza troppa fortuna pare.Eppure avevano un tempo splendido.Ma i venti? Già, i venti...

Io e Maurizio ci fermiamo presso untorrentello a farci un bagno, in fretta,nudi tutti e due, e quando arriviamosullo spiazzo ad oltre quattromila metri,gli sherpa ed i portatori hanno già mon-tato le tende. Una minestra calda con-sumata in fretta all’aperto, una scatolet-ta di tonno per ciascuno e poi, piuttostostanchi, io con i primi sintomi del mal dimontagna, ci mettiamo al sole.

Giù la vallata è tutta ruggine, i tor-renti nastri d’argento, le fauci spalanca-te dei crepacci azzurre e verdi. Si stabene dietro il masso. Le vette sono unaprocessione di giganti incappucciati.Maurizio mi mostra pietruzze che hatrovato tutte luccicanti di cristalli verdi erossi e neri. Il suo sorriso buono è perme come una medicina. Indugio a bellaposta con i suoi gioielli in mano, il cuoreche trabocca non so neanch’io per checosa. Forse per la consapevolezza diessere un uomo fortunato o per la co-munione con la natura così primordialeche mi esalta. E Maurizio pare capirmi,sta tranquillo mentre scrivo sul mio qua-dernetto. Tace. Non mi chiede che cosaannoto ma ad un tratto mi agguanta lemani, guarda a lungo le mie palme.Dice:

- Calli. Calli grossi sulle tue. Le miemani invece lisce, sono quelle di un fi-glio viziato e sfaticato. Dicono, un pa-rassita.

La nostra sarebbe potuta diventareuna lunga serata di confidenze. Ma eglitace schivo, imbarazzato. Posa il caposul masso, chiude gli occhi ed è piutto-sto tardi quando andiamo ad infilarci nelsacco a pelo. Joshu con gli sherpa ed iportatori si è chiuso nella sua tenda bu-cherellata. Stanno certamente fumandoi sigarini fatti col tabacco coltivato incasa e con una presina di canapa, quil’hashish non è peccato, è una piantaspontanea, dà un po’ di euforia sola-mente, un po’ di benessere e di riposodopo tanta stanchezza. Il tè che ci ven-gono a portare più tardi, non ha più ilbuon sapore dell’acqua di sorgente. Èghiaccio sciolto, ributtante. Ce lo dovre-mo subire per parecchi giorni.

volge le viscere, una forte emicrania mifa persino battere i denti. Sono coseche conosco. Le ho già provate. LascioMaurizio solo. Mi dispiace, lui vorrebbeseguirmi ma io insisto, lo incoraggio arimanere per potersi acclimatare meglioe faccio ritorno alla base. Con uno sher-pa. Un ritorno difficile. Ogni tanto cona-ti di vomito mi fanno strabuzzare gliocchi, mi fanno ansimare. Ma il giornodopo sono di nuovo in forma. È incredi-bile la possibilità di recupero scenden-do di poche centinaia di metri.Raggiungo Maurizio che mi è venuto in-contro a metà percorso e posso pernot-tare a 5400 metri senza un filino di nau-sea, senza - addirittura, - il minimo maldi testa. Comunque mi sembra che eglistia più bene di me perché questa seraparla e parla. Tutto teso, infervorato, mispiega che lo studio delle religioni hi-

malayane è certo uno dei capitoli piùcomplessi e ancor oggi controversidelle religioni asiatiche dati gli apportibuddisti, induisti, maomettani che neimillenni sono confluiti mescolandosi fraloro. Ne è risultato un mosaico che èben difficile districare, davvero. Ma percapire veramente l’Himalaya e le suepopolazioni – ehi, mi senti? sei sveglio?– bisognerebbe almeno conoscere lelinee essenziali del buddismo che è l’e-spressione tipica dell’anima orientale e

cuore grande ed i calli sulle mani. Rimango a bocca aperta. Inutile la miarequisitoria.

E così il giorno dopo affronto da solo lalunga dorsale innevata che porta alcampo due. Due passi e un ansimo. Altridue passi e una sosta. La neve talvoltaè così soffice che mi infilo come unapertica fino al collo e tirarmi fuori diven-ta faccenda seria, estenuante. Stupidocome sono, non mi sono portato dietrole racchette. Due muraglie di ghiacciopoi mi fanno diventar quasi scemo!Devo aggirarle e non è semplice.Raggiungo il campo due. Breve pausa,altro tè schifoso, e quella sera, al ritornoin quello più in basso, nella tenda vuotaperché il mio compagno è sceso con lesue fisime e con le sue ubbie, chissà selo troverò più al campo base, scrivo:“Sono state sei ore di solitudine e disforzi terribili. La rarefazione dell’aria miobbligava a frenare il passo, a sostaredi tanto in tanto, curvo sulla piccozza.Mi dispiace per Maurizio. Un vero testo-ne!”Io dovrei passare la notte assieme alpiccolo sherpa Kami. Di poche parole ilgiovanotto, che però mi assiste comese fosse una balia. Beh, qualche parolala dice anche se io non capisco il suoidioma. Accenna ad un numero tre conle dita spalancate. Dunque devono avermontato il campo tre. Io comunque adun tratto decido di scendere perchém’accorgo dei banchi di nebbia che sal-gono su rapidi anche se il Nanda Devi èspuntato, giganteggia dietro lo schiena-le del Devistan e il Changabang è unafavola di zucchero. Infatti quando arriviamo al campo unofiocca fitto, la temperatura è notevol-mente scesa, l’azzurro è scomparso. Hola barba incrostata di ghiaccio e forseanche per questo non mi fermo, conti-nuo a scendere a saltelloni fin quando,col buio, arriviamo al campo base.Maurizio m’aspetta in tenda ma nonparla, tossisce a tratti ed io, con ungrande sforzo, non riesco a dirgli altroche la sua decisione è una assurdità.- Perché scappi? – ripeto. - Perché? Seipulito come me. Dentro, sei pulito comel’aurora dei tuoi occhi.- Tu non sai, tu non puoi capire...Fuori il sibilare del vento diventa unasinfonia macabra. Ogni tanto quellanotte dobbiamo uscire dai sacchi a peloper scuotere la neve dalla tenda. Checontinua a cadere per tutto il giornodopo ed io mi consolo al pensiero chequello doveva essere uno di riposo.

Il mattino che segue s’annuncia comeuna giornata stupenda: il cielo è terso etutt’attorno il panorama ha assuntonuove, stupende proporzioni. Gli sherpacon una trappola rudimentale hannocatturato una donnola che devastava lederrate alimentari e Joshu parla dellatigre delle nevi le cui tracce sarebberostate viste poco lontano. Ma forse sonosolo chiacchiere. Un’aquila invece, dalvolo solenne, sorvola la zona certo allaricerca dei resti delle due capre sacrifi-cate sulla nostra mensa. Gli sherpa checon me s’avviano su per la dorsale,chiacchierano senza posa, ridono. Poianche Maurizio ci raggiunge, trafelato.Si vede che ha cambiato idea.

Giglio martagone

Il mattino dopo si parte per tempo.La salita non è difficile. Neanche ci oc-corrono corda e ramponi. Ma quandoarriviamo al campo uno – gli sherpasono partiti prima di noi, hanno monta-to la tenda e preparato la solita minestraper la cena – vediamo rotolare sulla cre-sta terminale enormi ventagli rutilanti,come una danza macabra che ci metteaddosso non poca apprensione.Comunque io non rimango al campo.Non mi sento bene. La nausea mi scon-

si fonda sull’evidenza che la vita umanaè dolore, proponendo una via di libera-zione che conduca lo spirito a sfociarenella gioia contemplativa. Secondoquella religione – capisci quello chedico? – il dolore nasce dall’attaccamen-to alle cose. La vita deve tendere ad unprogressivo distacco con meta ultima ilnirvana, cioè il vuoto assoluto. Quandosi riesce ad entrare nell’ordine di questeidee, allora diventano chiare moltecose... E ancora bla, bla, bla... Ad un certo punto Maurizio mi scrolla,violentemente. Immagino i suoi occhispalancati quando mi dice:- Senti: tu continua da solo. Io mi fermoqui, mi fermo qui ad aspettarti. Sonotroppo sporco, io. Non voglio profanarequesta montagna che è fatta solo pergente come te, con gente che ha un

(seconda parte)

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Alpinismo goriziano - 1/2008 7

Ed ecco in breve quell’ennesima salitadalle note riassunte dal mio quadernet-to:“Il sole nuovo taglia tutte le vette di cri-stallo. Diretti al campo uno procediamospavaldi nel gioco di peste di animali inquesto che io credevo un deserto pietri-ficato: è tutto un ricamo tra uno spunto-ne e l’altro. Topi, uccelli... La sera calapresto dietro il Trisul due (la terza vettanon è visibile da questo versante) e bi-sogna ficcarsi in tenda perché il termo-metro cala rapidamente di parecchiosotto lo zero. Ad un tratto Mauriziocerca la mia mano, se la stringe al petto.Poi se la poggia su una guancia e dice:- Una carezza... Forse tu non mi crede-rai, ma nessuno mi ha mai accarezza-to... Soldi sempre, carezze mai. Miopadre pensa agli affari, mia madre aglistracci dell’ultima moda. – A fatica miracconta dei suoi problemi, delle sueangustie, delle sue ansie. Anch’io miapro ed è come se parlassi ad un fratel-lo. Lui mi chiama affettuosamente gran-de Gigi e quando s’addormenta nonposso fare a meno di controllare se èben coperto. La notte è freddissima. Ilvento porta fin dentro la tenda il nevi-schio sollevato sulle creste. I nostrisono brevi sonni pieni di incubi. Poi fi-nalmente spunta il giorno e si parte peril campo due. Ma la situazione è cam-biata. Questa volta, dato che non abbia-mo imbragature, dobbiamo legarci allavita due cordini, prendere corda e mo-schettoni, infilarci i ghettoni, legarci iramponi. Appena dopo, su e su. Ho co-munque tutto il tempo per guardarmi at-torno, per godere del caracollare divette che, man mano che ci alziamo,appaiono numerose all’orizzonte, mura-glie fantastiche nel gioco di luci edombre. E quando avanziamo, sotto s’a-prono i crepacci. Nei larghi ed ampi tor-nanti dei dossi ripidi alla ricerca dellacrosta gelata rapide sventagliate ci in-vestono, furie scatenate. Ho tanta sete.La gola è come se fosse di scorza d’al-bero ma se riesco ad inghiottire un po’di saliva i conati di vomito mi sconvol-gono. Già, lo dico a Maurizio duranteuna pausa mentre ci riposiamo acco-vacciati dentro un buco nella neve: - IlTrisul non è una vetta difficile, no!, midicevano i bene informati. Un’immensaestensione di neve e di ghiaccio. Ma bi-sogna provare. Venire qui e provare. Iventi mi hanno asciugato e quando miprendo il viso tra le mani nel tentativo discaldarmi le guance non ritrovo più lamia fisionomia. O sono davvero dima-grito tanto? - Arriviamo finalmente alcampo due messo su un tratto di more-na scoperta. Giunti prima di noi i duesherpa con Joshu hanno già preparatoun tè. Oro colato. Nella notte però nonriesco a seguire i discorsi di Maurizio.Strambo filosofare il suo?”.

Ancora verso il campo tre: “Andiamo con passo regolare, lentissi-mamente ma avanziamo. Da una parte edall’altra, crepacci e crepacci. Dobbia -mo fare molta attenzione, aggirarli sepossibile. Non avrei mai creduto cheMaurizio fosse così esperto, preparato.Fa un freddo cane. Il passamontagna diseta attraverso il quale respiro è diven-tato un baccalà, ho le mani tanto gelateche mi pare di avere due moncherini.Quando raggiungiamo la dorsale ognitanto sono costretto a tirare la corda,fermarmi e tentare di scaldarle sotto leascelle. Ma è inutile. Comincio a preoc-cuparmi, la piccozza mi sfugge, allungoil passo. Il campo tre non deve esserelontano. Appena dietro il colle, dentrouna buca ha detto Joshu, a quota 6400metri. Il vento aumenta di intensità e tal-volta, per affrontare i refoli, dobbiamoancorarci per non farci scaraventare giù

senza ritegno. Joshu mi leva le mano-pole, anche i guanti di seta, sbatte i suoisulle mie dita, le friziona, le riscalda cer-cando di riattivare la circolazione. E ciriesce perché sento pian piano ritornarela sensibilità, il dolore farsi acuto e poi,d’improvviso, allontanarsi. Quindi arrivanientemeno che una camomilla! Calda!Calda! Fuori le raffiche sono apocalitti-che. L’altra tenda è stata sventrata.Siamo dunque costretti in quattro entroquesta con due muri di ghiaccio chepremono ai fianchi. Ci sistemiamo allameglio. Maurizio si tiene abbracciato,aggrappato a me. Teso. Per scaldarmi?Per scaldarsi? Durante la notte mi sonochiesto tante volte che cosa cerco suquesta montagna. Mi sono chiesto ilperché della caparbia lotta contro lafuria degli elementi, quel cercare testar-do, in fondo all’anima, una scusa perandare avanti. Non era importante so-pravvivere, no, davvero. Io almeno nonmi sono mai posto quell’imperativo! Perme era importante giungere all’alba e

per parecchi mesi, saprò risolverla orache è diventata una necessità? - Glisherpa non ci accompagnano. Ti aiuta-no a montare i campi alti, gioiscono etremano con te, ma la conquista di unavetta per loro è un profanare gli dei, de-vono superare un trauma che noi bendifficilmente riusciamo a capire – comesempre sono parole sapute di Maurizio.Dobbiamo dunque pensare a sbrogliar-cela da soli. Da soli e senza vittimismi. Èlui che apre la strada. Accorto, tiene lacorda tesa, spesso sonda la neve. I suoipassi sono incredibilmente sicuri.L’orizzonte si allarga subito in modo im-pressionante, quasi ad ogni sosta. Oltreil Nanda Devi si può già vedere la cate-na che continua all’infinito. Riconoscol’Api dalle descrizioni e la GurlaMandhata ad est. Il Kamet ad ovest.Daghi, Kalanka, Changabang si sonoconfuse con le vette minori. La dorsaledel Trisul diventa sempre più vasta, lalunga cresta che lo collega al BerthatoliHimal rimane in basso nel suo sfavillare.

Bosco di faggi con neve

per la dorsale, per non precipitare tra icrepacci che da quassù sembranoenormi fauci spalancate di mostri inde-moniati. Davanti ad un basso muraglio-ne di ghiaccio che non riesco a scaval-care comincio a piangere, inconscia-mente. Maurizio avvolge la corda allapiccozza ben piantata, mi assicura perbene, poi mi agguanta per le spalle, perla vita, mi alza, mi spinge su verso il cri-nale che s’appiattisce. E così arriviamoalle due tende. Uno sherpa esce dallaprima, mi leva lo zaino, mi slaccia il cor-dino, mi spinge dentro. Adesso piango

continuare, su e su, come un dannatoorgoglioso della propria dannazione”.

Ancora le mie note: “Alle due Joshu si mette a sciogliere laneve, ma la fiammella della bombolettadel gas vacilla, fiacca. Probabilmente aquest’altezza non ha l’ossigeno suffi-ciente. Alle cinque sorbiamo dell’acquamezzo gelata. Alle sei siamo fuori. Lacorda è così dura che sembra d’acciaio.Per fortuna il vento è scemato.Un’apprensione mi assale: ce la faremoad arrivare in vetta? Ed il ritorno?Quell’incognita che mi ha tormentato

I ramponi voraci mordono la crosta, losforzo è estenuante. Ogni due passidobbiamo fermarci, ansanti, la cordaben ancorata alle piccozze. Le tempiesembrano scoppiarci. Anche la luciditàse n’è andata e ci pare, talvolta, di al-zarci in volo. Per fortuna non ci sono piùmuraglie di ghiaccio. Poi tutto diventapiù facile anche se praticamente siamodiventati due automi. Ma la vetta,dov’è? La dorsale è diventata tantoampia, tanto estesa che pare inverosi-mile. Ormai l’altro versante s’estendeampio davanti ai nostri occhi, tutto divette aguzze. Maurizio comincia a gri-dare. La mia voce invece non esce dallagola asciutta. Ci abbracciamo, convul-samente. Non ho tempo per pensare,non riesco a pensare. Né ad esserecommosso o contento. Altri pochipassi, in fretta. La vetta del Trisul, perme almeno, è quel pezzetto di ghiaccioin quella immensità.Due foto scattate a fatica e poi giù.Frastornati, rotolando. Non ci interessapiù niente. Come se non esistessimoneppure. Indifferenti come se ci fosseroaltri al nostro posto e non ci cantasse ilcuore. Microbi o dei sappiamo di pian-gere, questo sì, tutti e due, ma non co-scientemente.”Nel frattempo gli sherpa hanno smonta-to il campo tre e sono scesi. Nel pome-riggio inoltrato arriviamo al secondodove veniamo accolti con pacche sullespalle ed abbracci. Poi ancora giù, lapista s’è allargata, ma al campo uno ar-riviamo sfatti. Siamo così sfiniti che nonriusciamo a reggerci in piedi. Re cu -periamo la corda, ci slacciamo i cordini,ci mettiamo subito in tenda, nel sacco apelo senza slacciarci gli scarponi, mal’insonnia fa diventare lunghissimaquella nostra notte. Io ho paura. Comese fossi solo. Ogni sventagliata è comela zampata della tigre delle nevi.Un’assurdità. Al primo sole ci avviamotenendoci per mano. Siamo diventatidavvero due fratelli. Arriviamo nel tardopomeriggio al campo base, un buonpasto ci rimette in sesto e poi ancoraneve, tanta neve. Tutta la notte nevefitta, fitta. Il monsone, dice Joshupreoccupato, ha una sua bella coda, laritirata è una disfatta. Soprattutto per luiperché dai passi alti non possono arri-vare altri portatori e dunque siamo co-stretti ad abbandonare molte attrezza-ture e forzare le gole del Rishi Gangacome avevano fatto i primi esploratori.E quell’andare tra anfratti e dirupi, spes-so guadando il fiume impetuoso o attra-versandolo su ponti improvvisati daipochi portatori e dagli sherpa abbatten-do degli alberi colossali, avrebbe potu-to essere un supplemento di avventurase la fame non ci avesse attanagliato leviscere. Per cinque giorni senza nienteda mettere sotto i denti.

E poi il finale una volta arrivati aJosimath. Rifocillati nel tempio dei mo-naci arancione, sostiamo per un paio digiorni di riposo in una cella come duefrati francescani. Alla fine decido di ri-partire col solito pullmino lasciando lapaccotiglia che mi è rimasta a Joshu.Maurizio ha preso una sua decisione.Me la spiega con poche parole all’orec-chio mentre mi abbraccia:- Ho trovato il mio Shangri-La. Torno aLata. Ad intrecciar canestri con quelvecchio monaco. Ti ho pur detto chesono uno sporco. Vado a purificarmi.Prima di salire sul tetto del pullmino trai soliti ragazzoni yes mister, mi abbrac-cia un’altra volta. Ansimando aggiunge:- Ti prego grande Gigi, accanto alla tua,conserva un po’ della mia anima.Commosso, non posso fare a meno diaccarezzargli una guancia.

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Quattro passi

Ritorno alle originidi RICCARDO CECOVINI, CRISTIANO DELISE e ANDREA GRADEN

Podmelec, 1944. Alojz Øorli e suamoglie Mojca decidono di riunirsiai propri figli a Gorizia. Tra la valledella Baœa e quella del l’Isonzo si

combatte la guerra partigiana. LaTransalpina non è sicura per i civili, sicorre il rischio di vedersi requisire i pro-pri beni. Di qui la scelta di compiere ilviaggio a piedi per difendere il propriotesoro: carni, formaggi, vino e altri ali-menti spinti su un carretto. Sarannomolto apprezzati giù a Gorizia...

Gorizia, ottobre 2007. Tre ragazzi, af-fascinati da questa storia, decidono diintraprendere lo stesso viaggio ma, que-sta volta, dalle loro case verso quella deiØorli a Podmelec.

Questa è stata la nostra avventura.Lasciatoci alle spalle il valico confi-

nario di Solkan, risaliamo le pendici dellaSveta Gora lasciando presto l’artificialeasfalto per il bosco ormai autunnale.

Il terreno è tagliato, bucato, a voltesquadrato. - “Ciò, se qua te gavevi ilmetal se mettevimo a scavar!”. - “Te sache non se pol!”

Un po’ dappertutto trincee, gallerie,resti quasi irriconoscibili di vecchi co-mandi ci ricordano la Grande Guerra.

Tra Sveta Gora e Vodice ci si apredavanti l’altopiano, Banjøice. Cruenti fu-rono i combattimenti fra le truppe italia-ne e l’esercito austro-ungarico che siscatenarono in questa zona tra il 17 e 29agosto 1917. Di questi feroci scontri ri-mane la testimonia dei numerosi cimiteridi guerra dislocati anche in piccolissimicentri. Dalle quattro case di Baøke e dalsuo cane lupo libero, una carrareccia nelfitto bosco di castagni ci indirizza versoKanalski Vrh. Ogni tanto il sentiero cimostra l’Isonzo: non lo sentiamo scorre-re, è troppo lontano. Invece, sentiamocome un rumore macinante: è la Salonitdi Anhovo, adesso anche la vediamo! Èuna macchia grigia laggiù a fondovalle,creatura dell’industrializzazione sociali-sta ex jugoslava. - “Se un schifo deveder!”. - “Almeno adesso i fa solo ce-mento!”

Proseguendo il cammino, siamo sui700 m, l’ambiente cambia e il sentiero at-traversa zone prative, punteggiate qua elà da qualche abete e qualche ginepro.Qui il legame tra terra e uomo è sottoli-neato dalla presenza di vasti pascoli re-cintati: Kanalski Vrh è praticamente unvillaggio di allevatori. Mucche e capre vi-vono all’aria aperta, fienili e orti ricondu-cono a uno stile di vita ancora ruralesebbene supportata da mezzi agricolimolto moderni. Esempio illuminante dicome si possano conciliare natura esviluppo.

Ormai, come primo giorno, crediamodi aver fatto abbastanza e quindi deci-diamo che sarà il villaggio ad ospitarciper la notte. Per nostra abitudine, purnon conoscendone le motivazioni razio-nali, ci muoviamo sicuri verso la chiesa:il manutentore-majster locale è personamolto cortese e ci consiglia in effetti dipiantare lì la tenda.

Sistemato il campo, inizia a fare buioma, sono appena le 18,30 e, andare adormire a quest’ora ci sembra contro na-tura! Ci sarà pure una gostilna in questopaese! E invece no…

Compriamo così un litro di vino dauna gentile signora e ci posizioniamosulla panchina centrale del villaggio: al-meno così il tempo passerà prima e sequalcosa dovrà succedere sarà lì, pen-siamo, che probabilmente accadrà. Chi

Dal Golak verso NO, sullo sfondo le Giulie e al centro il Krn

Ma torniamo alla nostra panchina…Tra una ciacola e l’altra son passate

due ore, questo vino non è proprio unBordeaux, fa freddo, non è passato nes-suno, e anche se le 21 ci sembrano an-cora troppo presto decidiamo di tornareal campo.

Sappiate che: non abbiamo una pila,la tenda dista circa 300 metri da dove citroviamo ed è posta subito fuori delpaese in posizione elevata, non c’è luna.

Vabbè, e allora? Allora c’è che ad uncerto punto ci sono due cani lupo liberiseduti in mezzo alla strada. Sì, non duecani che vagano, ma seduti, in coppia,se non ti prende uno stai pur certo che tipiglia l’altro.

-“Porca putt..! Io di là non passo!”-“Ma dai! Basta che non sentano

che hai paura!”-“Appunto, la paura ce l’ho e quindi

la sentono sicuro!”Sembra incredibile, ma non ci sono

altre strade per tornare a ‘’casa’’. Il vil-laggio è stretto come in una valletta e‘’la via dei lupi’’ è l’unica possibile.

No! Siamo uomini e siamo dotati diintelletto! (Mmm..)

Passeremo per i campi!Così la prendiamo larga, giriamo

tutt’intorno al paese, ma non ci sonovarchi, sempre e solo recinti di filo spi-nato: sta diventando un incubo. Non cisono soluzioni, bisogna entrare in uno diquei recinti e puntare dritti alla meta,

Ma dove? Uno di qua e l’altro di quapure, convergiamo, ci scontriamo. Labottiglia di plastica del vino si accartoc-cia e risuona tetra nella valle. Dai che cela facciamo, ecco la fine del pendio, unaltro filo spinato. Uno di noi lo prendealla garibaldina: si scortica tutto.

Trafelati, con il cuore in gola, ecco latenda…

-‘’Mi vien da vomitare…’’Solo adesso non stiamo in piedi

dalle risate! Abbiam riso due giorni!‘’All’alba del nuovo giorno’’, sotto

una pioggia antipatica, la nostra via se-gnata dalle carte subisce un’imprevistainterruzione a quota 640 m.s.l.m.... Unenigmatico ed enorme cratere ci diso-rienta. Più tardi, forse, vi sveleremo cosaabbiamo scoperto al riguardo. Le nostrepercezioni ci consentono di ritrovare ilsentiero che scende vertiginosamente alpaese di Avœe, che ricorderemo soloperché coincide con la metà del nostroviaggio.

Una cosa certa è che andando persentieri uno arriva dove gli pare…!

Da qui e fino a Most na Soœi il per-corso segue dall’alto la linea ferroviaria,attraversando i vari ”Log”. Anche in que-ste microfrazioni isolate disposte suipendii la vita degli uomini è basata sul-l’aiuto reciproco, un sistema quasi coo-perativo applicato dalla costruzione deitetti delle case al portare i figli a scuola.

Dalla stazione di Most na Soœi en-

vato si aiuta ancora il proprio vicino, silasciano gli animali liberi di pascolare(anche troppo) e si lavora per ciò di cui siha veramente bisogno. Ciò che noi ab-biamo riscoperto era per loro assoluta-mente naturale.

Il viaggio di ritorno in treno è di as-soluto stupore: in 5 minuti siamo a Mostna Soœi, in 25 a Kanal e in altri 15 rive-diamo Gorizia e questo ci sembra incre-dibile! Nelle nostre menti si crea unasorta di paradosso per il quale le dimen-sioni spazio-temporali tra andata e ritor-no appaiono inconciliabili.

Siamo così giunti alla fine e consen-titeci di lasciarvi con un nostro pensiero.

Siamo molto legati a Podmelec e allacasa che i Øorli ci han lasciato. Il nostroviaggio sarà anche stato faticoso, ma lavoglia che abbiamo sempre di tornare inquel luogo supera qualsiasi ostacolo. Lastrada fatta a piedi ha creato nelle nostrecoscienze un filo che ha unito la nostrameta al luogo in cui siamo nati. Ora, que-sti due luoghi ci sembrano veramenteuniti nonostante esistano da tempomezzi di comunicazione più veloci e pra-tici. Il gesto che abbiamo compiuto ci hacome purificato tramite la fatica e ci hapermesso di nutrire un amore ancora piùvero e spontaneo verso la natura.

P.S. Il cratere da noi osservato è unbacino artificiale in costruzione che ser-virà a produrre energia idroelettrica...

avrebbe immaginato che la nostra sera-ta sarebbe stata così movimentata! Perspiegare il seguito bisogna però fare unpiccolo passo indietro d’un paio d’ore.Mentre eravamo ancora alla ‘’periferia’’di Kanalski Vrh, infatti, avevamo avutoun imprevisto e, direi, quasi drammaticoincontro con una simpatica mucca loca-le che, forse spaventata o per altre suemotivazioni, ci aveva attaccato con unafuria più confacente a un toro. E guarda-te che non stiamo esagerando, di muc-che in vita nostra ne abbiamo viste, maquella era proprio invasata!

lassù, su per il pendio! I primi 50 metrinessun problema, abbiamo il passo svel-to, ma senza correre, di chi comunque èin forte disagio. Giuro, non si vede che a5 metri! A un certo punto un rumore, omeglio la consapevolezza di una presen-za. In una frazione la presenza si mette acorrere. È il panico!!! Sappiamo che c’èqualcosa, che corre, forse verso di noi, èmolto vicina, ma non si vede. In un atti-mo il pensiero sbatte sulla mucca delpomeriggio.

-‘’Corri cazzo!’’ (Scusate l’espressio-ne ma ci sta tutta)

triamo nella valle della Baœa e purtroppodobbiamo seguire la strada asfaltata.Dopo circa un chilometro non possiamonon notare il monumento dedicato allalotta partigiana, costruito con i binari fer-roviari e una grande stella rossa al cen-tro; in altri tempi per questi posti avrem-mo potuto incrociare i Øorli... Arrivati al-l’altezza della stazione di Podmelecdiamo uno sguardo dal piccolo pontealla gola suggestiva e a quella che fu laprima fabbrica del territorio a sfruttarel’energia idroelettrica per la produzione.Ormai si è fatto buio, ci manca solamen-te l’ultima rampa, ripidissima ma breveche arriva alla nostra meta! Podmelec,nominato fin dal 1300 per la sua impor-tanza religiosa, svolse nel corso dell’800con la sua biblioteca la funzione di “ri-svegliatrice”. Forse, inconsciamente,anche questo ci ha portato a venirequassù.

Casa Øorli è lì, davanti a noi: ha oltredue secoli. Alojz e Mojca non ci sonopiù, ma in certe realtà che abbiamo ritro-

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Vita sezionale

Tutti a scuola

Lo “scudo dell’Innominata”di BRUNO CONTIN

Avremmo potuto desistere, anchenella preoccupazione di eventuali ag-gravanti sorprese che il lungo tracciatoavrebbe potuto riservarci, ma decidem-mo per il proseguimento non senzaaver convenuto sull’attuazione di unminimo di sicurezza.

Al termine della prima, maledetta-mente troppo corta, lunghezza dicorda, ci rendemmo conto che una solapiccozza per due era insufficente inrapporto all’estensione e ripidità delnevaio.

A quel punto però, per non aggra-vare la situazione palesando le miepreoccupazioni non rimase che limitar-mi a vaghi suggerimenti contando sullacapacità ed esperienza di Lorenzo.

Nella sosta successiva fui costrettoa fermarmi sopra una quindicina di cen-timetri di neve marcia appoggiata pre-cariamente su di uno spesso lastrone dighiaccio.

La piccozza, non penetrandovi cheper pochissimi centimetri non sarebbestata in grado di fornire alcun ancorag-gio, né potevo contare sulla sola tenutaa spalla in assenza di un’idonea au-toassicurazione.

Rimaneva soltanto la speranza dinon scivolare trascinandoci l’un l’altronella caduta.

Non successe nulla di allarmante,se non nella mia mente tesa ad analiz-zare spasmodicamente tutte le even-tualità ed i conseguenti rimedi atti aneutralizzare uno strappo.

Lorenzo, pur nella palese pericolo-sità, appariva abbastanza tranquillomentre io cercavo di sdrammatizzare ildelicato momento con blande e scan-zonate raccomandazioni.

Sul lato opposto del nevaio cheraggiunsi con estrema circospezione,un robusto spuntone mi permise final-mente di fissarmi a qualcosa di solidoe, recuperatolo in vista del facile prose-guimento gli confessai le mie angoscie.

- Quelle di poc’anzi erano solo assi-curazioni morali: se fosse scivolato nonsarei riuscito a trattenerla.

- E solo ora me lo dici! - Certo, e le garantisco che è stata

la soluzione migliore.In seguito, venne opportunamente

attrezzata una variante che evita a Sudil sempre presente nevaio d’inizio sta-gione. Scongiurando situazioni similialla nostra e forse anche qualche di-sgrazia.La cima dell’Innominata da est

Appena possibile, il passaggiodalle natie montagne delPontebbano alle Alpi Giulie fula logica evoluzione del mio al-

pinismo.E la frequentazione, integrata dalle

poche letture disponibili negli anni ’60,si fece intensa ed entusiastica, a pre-scindere dall’importanza o meno dell’i-tinerario scelto.

Quel 18 luglio ’74, la neve ricoprivaancora abbondantemente estesi trattidelle pareti del gruppo dello Jôf Fuart ei ripidissimi e spesso ghiacciati scivoliche trovammo sul lato settentrionaledella Cengia degli Dei ci costrinsero arimanere legati assicurandoci.

L’avevamo raggiunta, risalendo iltetro sperone dell’Innominata, guidatida una delle vie con cui Emilio Comiciiniziò a costruirsi la sua leggenda.

La discesa in quelle condizioni,verso e lungo la ripida gola Nord-Est, ri-chiese un’attenzione particolare.

Naturalmente, oltre all’entusiasmoper la prestazione garantitami dalla ca-pacità e disponibilità di Silvano, anchequel raccordo sottostante agli antri re-pulsivi e agli esposti speroni delleMadri dei Camosci, si inseriva conestremo interesse nelle mie mire cono-scitive di quelle celebrate vette.

L’occasione per un ulteriore ap-profondimento si prospettò la serastessa quando, incontrato Lorenzo edescrittagli la salita, mi propose per tregiorni più tardi un’ulteriore puntata nelgruppo, alla scoperta dell’appena inau-gurato percorso attrezzato “AnitaGoitan”.

Al tempo io, trentenne, avevo circala metà dei suoi anni, ma il divario ana-grafico non aveva impedito attraversonumerose uscite in montagna, un belrapporto che si prolungava anche nellavita quotidiana.

Sapevo della sua difficoltà nel tro-vare qualche coetaneo in grado di ac-compagnarlo, il che lo spingeva a fre-quenti e poco opportune uscite solita-rie; quindi accettai allettato dalla no-vità.

Memore dell’esperienza appenavissuta, presi con me la piccozza e, vo-lendo fugare ogni possibile contrattem-po, anche una corda di una ventina dimetri.

Dalla Forcella di Rio Freddo rima-nendo a Sud della cima omonima il per-corso mi era noto ed ora, con l’ausiliodei cavi, guadagnammo facilmente l’in-taglio sovrastato dall’ardita beccadell’Innominata.

L’affacciarsi sul versante oppostomi incuriosiva, anche per il ricercatocolpo d’occhio sulla via percorsa di cuisubivo prepotentemente il fascino.

La parte negativa della sorpresa, fuinvece la vista di quanto ci attendevanel proseguimento. Passando a Nord,lo splendido itinerario dedicato all’alpi-nista triestina cambiava totalmente ca-ratteristica: uno scivolo innevato espiovente sopra raggelanti baratri rico-priva totalmente le rocce su cui sarem-mo dovuti transitare.

Era il famoso “Scudo dell’Inno -minata”, citato e considerato con estre-mo rispetto già da Julius Kugy. Una la-bile traccia residua indicava l’avvenutopassaggio in traversata; sopra, nella ri-cerca di appigli rocciosi, la ripiditàsconsigliava soluzioni alternative.

Vi è mai capitato, mentre siete allavoro, a fare la spesa o statestudiando, di ritrovarvi persi inun sogno ad occhi aperti, nel

quale voi siete i protagonisti di un’av-ventura in montagna? Non importa sequello che sognate è un sentiero, unavia normale, una ferrata, una via di roc-cia o di ghiaccio; ciò che conta è esse-re lassù, tra il verde di prati e pini, osulla grigia roccia, o su ghiaccio e neve,con il sole in viso e il cielo azzurrosopra la testa.

I vostri sogni sono questi? Vi garan-tiamo che lo sono anche per noi!

Per tale motivo la Scuola Isontina diAlpinismo si propone di diventare parte

ancora più attiva delle sezioni del CAI diGorizia e Monfalcone, rendendosi di-sponibile per qualunque informazione ochiarimento tecnico, ogni primo e terzogiovedì del mese.

Avete domande su materiali ed at-trezzature? Volete saperne di più suuna determinata via di roccia?Desiderate chiarimenti su manovre dicorda o su come affrontare qualunqueambiente con la massima sicurezza?

Troviamoci il giovedì sera, dalle21,00 alle 22,00, al CAI di Gorizia e vi ri-sponderemo in modo semplice edesaustivo. Sarà anche questo un moti-vo in più per stare assieme. In questomodo darete inoltre a noi la possibilità

di capire se desiderate partecipare aqualcuno dei nostri corsi, che possonoessere:- alpinismo base ed avanzato- roccia base ed avanzato- arrampicata libera (non preoccupatevi,si utilizza la corda!)

- ghiaccio.Contiamo sulla vostra presenza!

Ricordate ... il primo e terzo giovedìdi ogni mese

Fin da ora possiamo fornire le dateprogrammate per i corsi 2008 (lezionipratiche) di Roccia AR1: 29/30 marzo,5/6, 20, 25/26/27 aprile; e GhiaccioAG1: 14/15, 21/22 e 29/30 giugno.

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10 Alpinismo goriziano - 1/2008

In libreria

Le Alpi Giulie in Casadi GIORGIO CAPORAL

Memoria di pietradi MARKO MOSETTI

tenta lettura-rilettura. Ho creduto di rico-noscervi i pregi di una introspezione chegiustifica ed esalta le miserie umane (nonsolo sue proprie) nell’impari confrontocon l’impassibile empireo alpino (costru-zione ideale frutto della nostra mente).

Dalla perplessità sul come una ouver-ture discorsiva potesse adeguatamenteintrodurre alla comprensione dei 126 attidell’opera fotografica di Inthall, sono cosìpassato ad un affettuoso interesse versola vita di questo “collega” contempora-neo tra le montagne di sempre e di tutti.Sinceri e quasi casuali i suoi sguardi sul-l’ambiente alpino nel senso più esteso:dalla vita associazionistica nella tradizio-ne del loro club all’ atteggiamento giova-nile, ai rapporti tra generazioni solo persfumature diversi da quelli che ognuno dinoi può aver vissuto, ma nondimeno utiliindicatori per la piena comprensione del-l’opera in esame.

Come nelle elegie di Rilke, l’ascesa diKarl Pallasmann alla vetta più alta nasceda una caduta, ossia dall’espressione piùbassa e pericolosa dei nostri limiti umani.Poteva essere una disfatta (la morte), almeglio forse una giustificata rinuncia. Un

soffio di speranza, buoni amici e un grancarattere (la scuola?) ribaltano i tarocchidel destino. La prima conquista è scen-dere in strada, lasciare il marciapiede eimboccare un viottolo. Ridotto a guardar-si i piedi per non incespicare di continuosui consueti sentieri, Karl “incontra” i fiori(simbolo potentissimo!) e con essi il so-spetto che alla montagna, se pure finiscein cima, bisogna arrivare guardandosi“dentro” con una nuova e più consapevo-le fatica, quella della comprensione. Unafilosofia con cui, potendo finalmente alza-re lo sguardo, si può percepire l’esistenzadei Naurasiz (le belle montagne prive dinome sulla carte), mete dignitosamenteritrose e riservate a una classe esclusivadi estimatori. Il finale è canonico ma ognitanto ci vuole, anche perché è lì che sitrova “il dove”, l’appagamento cui tuttiostentiamo di mirare finché in noi pulsa ilsangue.

Alpinista battezzato quindi “all’uso diCarinzia”, nella tradizione di chi sin dabambino aprendo le finestre a sud pensa(in tedesco) “Ecco le Giulie”, aPallasmann è toccata invero una bendura cresima. L’uomo così severamente

formato non è in genere molto conformi-sta, ma sviluppa sempre un apprezzabilesenso del pudore e sin dall’inizio Karl mo-stra di credere alla favoletta che vorrebbela gens Julia Claudia patrona nel nomepopolare di queste rupi calcaree, altri-menti note come parte delle Alpi adriati-che meridionali. Lo fa però riportando lasplendida intuizione giovanile della suagentile consorte, intuizione che distruggetale pregiudizio chissà quando formatosi.Tesi cui (in quanto spudorato) aderiscoimmediatamente col sospetto di arrivarebuon ultimo e certamente dopo Inthall,senza dubbio più di me consustanzialecon le Giulie. La gens Julia, girando daovest a nord del gruppo e occhieggiandoi taurisci, vanta al massimo documentatidiritti verso la Statio Larix quale presidiodi valico, e qualche miniera nelPontebbano. È anche responsabile (più aovest) di uno stradone su per la Carnia,via Tricesimo e Zuglio, atto a romper lescatole e civilizzare gli energumeni d’ol-tralpe. Poi si è allargata al di là della fo-resta Ercinia, che ci voleva un mese a tra-versarla. Pare anche si sia visto un fer-raugusto in Valromana, per quella storiadell’alta velocità.

Ma la vera cognizione delle JulischeAlpen ci è pervenuta solo nel secoloscorso attraverso la scoperta e l’operametodica (mediatica!) di Julius Kugy(esploratore, botanico, poeta).

A lui molto giustamente i posteri de-dicarono quei monti, le Alpi Giulie. VieleDanke, Onkel Julius!

La presenza sempre più ricca dilibri di montagna, fenomeno carat-teristico di questa nostra era con-sumistica, ha fatto sì che molti di

noi posseggano o abbiano ereditato(ohimé, cominciamo a esser tanti!) unacospicua libreria alpina. Sbaglierò proba-bilmente nell’immedesimarmi in questotipo di acquirenti, ma penso che il loro in-teresse verso nuove opere librarie delramo sia indirizzato solo verso altri possi-bili capolavori. Di guide di mappe di ma-nuali ne abbiam piene le mensole, salvoaver il coraggio di buttar via i più datati.

Per la scelta del “bel” libro di monta-gna vale allora il criterio con cui si affron-ta l’ascolto musicale. Non ci si stanca maidella musica del cuore pur se eseguita dadiversi interpreti e, nella presentazione diuno stesso brano (se si è dotati d’orec-chio), si passa dal giudizio sul timbrodegli strumenti a quello sui musicanti, al“nome” del maestro direttore e alla qua-lità dello studio o teatro di produzione. Siconservano poi i ricordi (records) di mira-bili audizioni o, beati tempi odierni, le loro“tracce” con le tecnologie disponibili – in-certi magari tra analogico e digitale.

Perciò una nuova “ prima “ dellasinfonia alpina Julische Alpen si può cer-tamente apprezzare, oggidì per i tipi diJohannes Heyn, edizioni artistiche diKlagenfurt. Le “parole” di quest’opera(fortunatamente per noi italiani tradotteuna volta tanto in modo corretto) sono diKarl Pallasmann mentre la “ musica “ sigusta nel linguaggio internazionale dellaLeica di Teddy Inthall.

Non azzardo qui apprezzamenti sullatecnica esecutiva, oltre all’approvazionedel formato: un libro di questo tipo si apree si sfoglia e, se piace, è per sempre. Unfotografo di montagna avrebbe ben altriappropriati modi di spiegare pregi e deme-riti dell’interpretazione di Inthall, verso cuicomunque mi congratulo per la vena ine-sausta nella ricerca della perfezione. Unafaticaccia mica da poco traspare nel suoalpinismo teso allo scatto di vetta, all’albao al tramonto che sia, e poi magari piove!

Coetaneo come sono del bravo enoto alpinista Karl Pallasmann, come lui“arrivato” sulle Alpi Giulie partendo dailibri di Kugy, ho in questi miei giudizi il na-turale vantaggio di chi scruta queste 126foto ed esclama “Toh! Guarda chi sivede”, e sente assieme una... chiamiamo-la atmosfera.

Ho dovuto impormi una cadenza“d’ascolto” per non saturare di ricordi unpo’ stinti e per gustarne l’aroma. Grandeè la montagna, e va presa un “pizzico”per volta!

Inthall spiega che a monte di ciò cisono qualcosa come quarantamila scatti.Da bibliofilo, mi corre a questo puntol’obbligo di ricordare Le Alpi Giulie attra-verso le immagini (1933) in cui Kugy rac-coglie il lavoro di 31 diversi autori (di ogninazionalità – ci tiene a dichiararlo!) com-mentando qualche 6x9 in più, attinto daarchivi senza dubbio piuttosto scarni e intempi ancor più magri. Nessun paragonepossibile, beninteso, al di là di un con-fronto visivo di qualche scorcio: per quelche sembra, potrebbero esser passatiduecento anni. Ad ogni modo, nel 1933Kugy aveva senza dubbio molte più coseda ricordare, e Teddy è dopotutto un gio-vanotto.

Ecco perché gli invidio l’incredibilefortuna di poter scegliere per noi il megliodel suo sterminato archivio , e con ciòprovare a ridescrivere le “nostre” monta-gne.

Karl Pallasman (parole di ) aiuta chinon è un adepto kugyano, introducendo-lo alle “sue” montagne con una mite au-tobiografia. Da sempre scettico versoquesta forma espressiva, vi confesso cheKarl è riuscito quasi subito a rimuovermidal pregiudizio e a trascinarmi in una at-

Zadnja Trenta con il Razor

All’inizio ci furono lo studio el’impegno sul campo delColonnello Abramo Schmidvolti a riconoscere e preservare

le memorie storiche del Vallone, quel-l’ampia parte di Carso che va dal fiumeVipacco al monte Hermada. Memoriestoriche che per forza di cose avevanodovuto fare i conti con la GrandeGuerra che su quel terreno aveva im-perversato per tre lunghi, tragici anni,lasciando a sua volta indelebili tracce.

Tracce e segni che vennero letti e inter-pretati nel corso del tempo con ottichee obiettivi assai diversi a seconda dellafunzionalità del momento: dalla retoricaad uso del turismo dei reduci fino ad ar-rivare ai volumi dello storico Lucio Fabiche ne propongono una rilettura conottiche diverse, più fedeli allo spirito diquella tragedia e degli uomini che lavissero e la subirono. Arrivò nel 1992una guida ai campi di battaglia delCarso Isontino che offriva un’approfon-

dita ricerca sui manufatti militari rinve-nibili sul territorio: dalle trincee, caver-ne, ricoveri, fino ai fregi dei reparti e allescritte o graffiti di singoli militi. Si veni-va condotti così alla scoperta di aspet-ti minimi o marginali della grande storia,ma proprio per questo sentiti molto piùveri, vivi, vicini al comune escursionistache sul filo di quelle pagine si aggiravaper il Carso. Fu probabilmente l’interes-se che quel volume suscitò che originòl’idea da parte dei due autori, padre efiglio, Antonio e Furio Scrimali, l’uno aitesti l’altro alle fotografie, di dare vitaad un censimento delle scritte e deifregi del fronte italo-asburgico dellaPrima Guerra Mondiale. A quella primaguida ne seguirono altre, a coprire glialtri settori del fronte in regione, dalleAlpi Carniche al mare, la costituzione in

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seno alla Società Alpina delle Giulie -sezione di Trieste del Club AlpinoItaliano del “Gruppo ricerche e studidella Grande Guerra”; una ricerca sulcampo ininterrotta fino ad oggi.

Giunge ora nelle librerie un’ulteriorepubblicazione ad opera degli Scrimali,Le pietre parlano - Graffiti e incisionidella Grande Guerra dal Carso alle AlpiGiulie-Carniche, edito dall’Ufficio Sto -rico dello Stato Maggiore dell’Esercito.Si tratta di un volume fotografico digrande formato che compendia l’impo-nente e più che ventennale lavoro deidue autori. Dai primi anni ’80 ad oggisono state oltre un migliaio le iscrizionifotografate e catalogate con l’esattaposizione topografica. In questo librone viene proposta necessariamenteuna selezione, sebben corposa, che dàun’idea precisa e dell’importanza dellaconservazione di questo tipo di memo-rie e dell’enormità del lavoro svolto.Testi brevi, concisi, frutto di un lungo,paziente e appassionato lavoro di ricer-ca d’archivio, ma ricchi di rispetto ecommozione, accompagnano le splen-dide foto a colori dei manufatti, delle la-pidi, dei fregi, delle semplici iscrizionisulla pietra o nel cemento fresco dellatrincea. Alle foto attuali spesso si ac-compagnano riprese dell’epoca, foto ecartoline che ci fanno rivivere quei luo-ghi e l’atmosfera del tempo. In una se-zione in coda al volume si sono voluteriproporre affiancate le foto storichecon lo stato attuale. È un viaggio neltempo, oltre novant’anni, che si compiecon un semplice spostamento d’occhi.L’effetto e l’emozione sono forti forsepiù del trovarsi fisicamente sul campo,che la natura, per quanto lentamente econ difficoltà sta lenendo quelle ferite,sta inglobando quei manufatti, sta fa-cendo in qualche maniera sue quelletracce. I resti di baraccamenti in altamontagna oramai fanno parte del pae-saggio tanto che l’escursionista o l’alpi-nista frettolosi quasi non ci fanno piùcaso; l’intrico di gallerie del Vodice ciappare oggi quasi asettico, pulito; lapietra incisa ci induce a meditare. Maaltra cosa è avere davanti agli occhicontemporaneamente l’immagine sep-piata di novanta anni prima. Il disagioche percepiamo non è solamente quel-lo del vento freddo sulla sella, o delbuio opprimente nel cuore del monte, ol’umido del bosco. È, assieme, il gelodelle notti invernali, la precarietà dellavita, la paura dell’assalto fatto o subito,il lezzo della morte e quello della vita inquelle condizioni.

Trecento pagine, oltre trecento fo-tografie arricchite da ulteriori immaginie documenti d’archivio per invitarci anon dimenticare e per far conoscere, aldi là dei confini territoriali e degli ap-passionati, questo patrimonio storiconazionale. Riaffiorano, dalle pietre lavo-rate e incise, testimonianze emozionan-ti, di alto valore storico e umano che cipermettono oggi di ricordare, rivivere,commemorare anche personaggi o epi-sodi apparentemente minori, particolarimeno conosciuti di quel gigantesco gi-rone infernale che inghiottì milioni dipersone.

La natura ripara lentamente le sueferite ma la memoria rimane, indelebile,nei tatuaggi che l’uomo le ha imposto:memento e monito.

ciarono dieci anni di allegre scorribandemontane con l’amico Adelchi.

Lui che, come orgogliosamente te-neva a sottolineare, si era formato nelmondo alpinistico triestino, allora era giàun alpinista maturo; le sue capacità diarrampicatore avevano fatto sì che, an-cora nel 1980, avesse potuto prendereparte alla spedizione italo-nepaleseall’Everest - “Everest 80” - che purtrop-po non poté raggiungere la cima deltetto del mondo a soli “due passi dallacima” a causa delle avverse condizioniatmosferiche. Ma molte altre erano statele ascensioni che Adelchi aveva compiu-to negli anni ’70 e ’80 sulle nostre Alpi,specie nelle amate Dolomiti.

Attraverso di lui, attraverso i suoiracconti, le sue foto, i suoi libri, la sua in-finita ed entusiastica passione per l’alpi-nismo, io imparai a conoscere e ad ap-passionarmi ogni giorno di più al mondoverticale. Le Pale di San Martino, l’Agner,il Bianco, le Tre Cime, le nostre Giulie ele Carniche diventarono ben presto nomiconsueti, oltreché motivo di interminabi-li racconti ed aneddoti, conditi da avven-ture di cui lentamente anch’io cominciai,a poco a poco, timidamente, ad essereassieme a lui protagonista.

Tuttavia, se le Dolomiti rimaserosempre le sue montagne predilette, il fa-scino dell’ambiente himalayano non loabbandonò mai, portandolo negli anni’90 altre due volte in Nepal, non più, que-sta volta, per tentare di conquistare un8000, ma per poter ammirare quelle fan-tastiche catene montuose e conosceremeglio la cultura e la società nepalese dicui era rimasto profondamente affasci-nato. Le Ande, avrebbero dovuto essereil suo ultimo sogno nel cassetto, ma,purtroppo, il destino aveva già deciso di-versamente.

Ad ogni modo, la grande passioneper la montagna che Adelchi aveva e cheriusciva a trasmettere “contagiosamen-te”, potremmo dire, ed entusiasticamen-te anche a chi gli stava vicino, rappre-senta, per quanto mi riguarda, soltantouna parte del ricordo dell’uomo, dell’a-mico che oggi non c’è più.

Adelchi era persona curiosa, intelli-gente ed arguta, con la quale nei lunghitrasferimenti autostradali, in rifugio o co-modamente seduti sul divano di casa siriusciva a dialogare e a confrontarsi sututto. Il racconto dei paesi che egli visi-tava per lavoro o per passione, le vicen-de di stretta attualità, le lunghe e accalo-rate discussioni politiche, le vicende se-zionali vissute con passione e intensità,erano soltanto alcuni dei temi che piùspesso ritornavano nelle nostre lunghechiacchierate, e che si intersecavano edaggrovigliavano in quel filo rosso dellanostra amicizia che era il comune amoreper la montagna.

Come ho già avuto modo di ricorda-re, io conobbi Adelchi nel periodo, percosì dire, della sua maturità alpinistica, esono certo che altri meglio di me sareb-bero in grado di raccontare con maggio-re incisività e dovizia di particolari le viealpinistiche più ardite da lui percorse, leavventure tibetane della spedizioneall’Everest ed altro ancora, ma proprioquesto incontro, per così dire, “tardivo”,ha fatto sì, credo, che si instaurasse tradi noi un rapporto di amicizia che non dirado andava anche al di là di quello “dicordata”, e che sovente finiva per pro-lungarsi pure nel quotidiano.

Di Adelchi, del suo comportamentoun po’ guascone, del suo modo civettuo-lo e scaramantico di portare sempre inmontagna un fazzoletto attorno al collo,mi rimarrà sempre un ricordo indelebile ecaro, legato indissolubilmente a quellapassione per la montagna che anchegrazie a lui tuttora continua in me.

Ciao Adelchi.

Estate 1997. Adelchi Silvera (primo a destra) al rifugio Tissi

4 febbraio 2008. A 64 anni dalla morte e nel 150° anniversario della na-scita le rappresentanze delle associazioni alpinistiche di Carinzia,Slovenia, Trieste e Gorizia con Luciano Santin hanno reso omaggio allatomba dell’alpinista-scrittore Julius Kugy.

Adelchi nel ricordodi MAURO GADDI

Antonio e Furio Scrimali - LE PIETRE PAR-LANO - Graffiti e iscrizioni della GrandeGuerra dal Carso alle Alpi Giulie - Carniche- ed. Stato Maggiore dell’Esercito - UfficioStorico, pag. 301 - Euro 15,00

Teddy Inthal, Karl Pallasmann - ALPI GIU-LIE - ed. Johannes Heyn - Klagenfurt, pag.224 (116 foto a colori) - Euro 80,00

Èla prima volta che mi viene chie-sto di scrivere in ricordo di unamico che non c’è più. Franca -mente non mi è facile farlo. Non è

facile perché mentre guardo lo schermobianco di fronte a me, la mente corre aricordi oramai lontani, che si intreccianocon sensazioni, stati d’animo, che riman-gono e rimarranno indelebilmente scol-piti dentro di me. E mentre sto qui atto-nito, quasi d’istinto mi viene da pensareche, forse, sarebbe il caso di non scrive-re proprio nulla, di conservare candido,inalterato e intimamente personale quelricordo, di non dividerlo con nessuno, ditenerlo gelosamente dentro, massimeoggi, costretti a vivere in un quotidianoche ci impone di esternare tutto, di con-

dividere tutto perché possa essere piùvero, più sentito e – come si usa dire diquesti tempi – più “partecipato”. ForseAdelchi mi darebbe regione, lui che sen’è andato in punta di piedi, con grandecoraggio, con grande dignità e grande ri-servatezza.

Adelchi e io ci conoscemmo, quasiper caso, o meglio fu lui un giorno di unaquindicina di anni or sono a decidere cheavrebbe voluto conoscere me. Una mat-tina, di cui non ricordo la data, suonò in-fatti il telefono, ed una voce maschile ame sconosciuta, mi disse che ci erava-mo visti la domenica precedente ad uncorso Cai, e che, se mi avesse fatto pia-cere, si sarebbe potuti andare a farequalche gita insieme. Fu così che comin-

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12 Alpinismo goriziano - 1/2008

Il 16 ottobre del 2007 il nostro presi-dente onorario, per lunghi anni alla testadell’ÖAV di Villaco, ha compiuto il set-tantesimo anno di vita. La sua dedizioneverso il Club alpino si è espressa attra-verso molteplici attività, lungo un arco ditempo di quarantacinque anni. Fattosisocio della sezione di Villaco nel 1956, ècresciuto all’interno del gruppo giovani-le fino a diventare un alpinista entusia-sta. Nel 1962 era già responsabile dell’e-scursionismo, e dopo aver ricoperto lecariche di terzo e secondo presidente,nel 1986 assunse per la prima volta lamassima carica. Allo stesso modo in cuiegli assistette, prima di diventarlo, ilprimo presidente di allora, FerdinandThomaser, così anche oggi egli soccor-re me quale suo successore, in partico-lar modo nella veste di “ministro degliesteri” per ciò che riguarda il Friuli.

Durante il suo primo mandato – dal1986 al 1989 –, quale terzo presidentepotei conoscere ed imparare ad apprez-zare la sua concezione del ruolo calma etesa all’integrazione delle diverse com-ponenti. Durante il suo lunghissimo pe-riodo di attività – primo presidente peroltre ventun anni! – il Club alpino diVillaco si è espanso fino a contare 4.500soci e ad essere la maggior associazio-ne cittadina, e il suo impegno, in parti-colar modo a favore dell’ideale sovrana-zionale dell’alpinismo, è stato esempla-re.

Di notevole rilevanza sono i vincolid’amicizia allacciati e vissuti con il CAIdi Gorizia e di Tarvisio, e che quest’an-

no si rinnovi per la ventunesima voltal’escursione dei membri del Consigliodirettivo della sezione di Villaco assiemecon i consiglieri comunali guidati dalsindaco Helmut Manzenreiter, è indicedel rapporto stretto con la propria città econ chi l’amministra. Sue iniziative furo-no anche la costruzione degli impiantiper l’arrampicata sportiva e l’acquisizio-ne della vecchia torre della cinta murariacittadina quale sede del club. Che in luisi celino anche doti di fondatore è dimo-strato dall’istituzione dell’OrtsgruppeUnteres Drautal (Gruppo locale dellabassa valle della Drava) – un unicumnell’ÖAV, un’emanazione locale “gene-rata” da Spittal e Villaco.

Quale suo successore auguro a luidi godere di tanta salute e di trascorrereore felici tra le montagne, e a me di aver-lo ancora a lungo nel Club alpino qualeconsole generale “d’Italia”.Ad multos annos.

Karl Pallasmann

Da „Alpenverein Villach“, 4/2007

*****A queste parole associo le mie felici-

tazioni ed il mio ringraziamento a KlausKummerer per la sua squisita e signoriledisponibilità e per essere stato un puntodi riferimento. Ci unisce l’amore per il si-lenzio delle vette e per la musica degliuomini, due modi per elevarsi nell’incon-tro con sé e con l’altro.

Bernardo Bressan

Incarichi sezionali per il triennio 2008/2010:

CONSIGLIO DIRETTIVO

Fabio ALGADENIPresidenteincaricato rapporti con la stampareferente scialpinismoreferente Monti kids-Alpinismo giovanilereferente Scuola Isontina AlpinismoDelegato sezionale

Franco SENECAVice Presidenteincaricato Tesseramentoincaricato Sede socialereferente Gruppo Speleoreferente Coro Monte Sabotinoreferente FISI/sci nordicodelegato sezionalemembro Delegazione regionale

Paolo CETTOLOSegretarioincaricato spedizione Alpinismo Gori -zianocollaboratore Tesseramentomembro Commissione gite

Roberto FUCCAROConsiglierecassiereincaricato Serata Socio

Aurelio NALGIConsigliereincaricato della Biblioteca sezionaleincaricato rapporti con le scuoleincaricato Magazzino sociale

Lino FURLANConsigliereresponsabile corsi escursionismomembro Commissione giteaccompagnatore Escursionismo

Roberto LEBANConsiglierepresidente Commissione Gite

Barbara PELLIZZONIConsiglieremembro Commissione giteispettore del Bivacco C.A.I. Goriziaispettore Sentiero del Centenario

Giorgio PERATONERConsigliereincaricato palestra rocciareferente mountain bikereferente Casa Cadorna

REVISORI DEI CONTI

Manlio BRUMATI

Giancarlo CERIANI

Paolo GEOTTI

Manlio MINIUSSIRevisore dei Conti supplente

PROBIVIRI

Carlo TAVAGNUTTI

Dario OLIVIERI

Alvise DUCA

Eugenio TURUSProboviro supplente

COLLABORATORI ESTERNI

Paolo BESTIIspettore Scala Pipanmembro Commissione gite

Matteo BOREANCollaboratore Corsi escursionismoAccompagnatore Escursionismo

Federico BIGATTONCollaboratore Corsi escursionismo

Gianluigi CHIOZZAIspettore del Sentiero Lonzar

Bruno DEL ZOTTOResponsabile Squadra agonisticaSci CAIresponsabile corsi fondo

Paolo GEOTTIIncaricato Opere Alpine revisore dei conti della Commissione Bertidelegato Sezionalemembro Delegazione regionale

Giorgio GRATTONAssistenza fiscale

Carlo GULINIncaricato Sito internet

Andrea LUCIANIIncaricato Montikids-Alpinismo giovanile

Fulvio MOSETTIDirettore di Alpinismo Goriziano

Giovanni PENKOMembro Commissione gitecollaboratore Corsi escursionismoaccompagnatore Escursionismo

Maurizio QUAGLIAIncaricato Corsi Ginnastica

Roberto DRIOLIIncaricato Sentieristica

Robert TABAJIncaricato Gruppo Mountain bike

Carlo TAVAGNUTTIIncaricato dei servizi fotografici di Al -pinismo Goriziano

Eugenio TURUSIncaricato gestione Casa Cadorna

Bruno ZAVERTANICollaboratore Serata Socio

Benito ZUPPELIncaricato Albo socialecollaboratore Bibliotecamembro Commissione gite

Alpinismo gorizianoEditore: Club Alpino Italiano, Sezione diGorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia.Cod. fisc.: 80000410318 - P. IVA 00339680316E-mail: [email protected]

Direttore Responsabile: Fulvio Mosetti.

Servizi fotografici: Carlo Tavagnutti.

Stampa: Grafica Goriziana - Gorizia 2008.

Autorizzazione del Tribunale di Gorizia n.102 del 24-2-1975.

LA RIPRODUZIONE DI QUALSIASI ARTICOLO È CON-SENTITA, SENZA NECESSITÀ DI AUTORIZZAZIONE,CITANDO L’AUTORE E LA RIVISTA.

Cariche e incarichi

I settant’annidi Klaus Kummerer

27 maggio 1973 - Jof di Miezegnot

ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIAL’Assemblea generale ordinaria dei soci è convocata in prima convocazio-

ne per mercoledì 26 marzo 2008 alle ore 22.00 presso la Sede sociale di viaRossini 13 ed in seconda convocazione per giovedì 27 marzo 2008 alle ore20.30 presso la stessa Sede, per discutere il seguente ordine del giorno:

NOMINA DEL PRESIDENTE E DEL SEGRETARIO DELL’ASSEMBLEA;LETTURA ED APPROVAZIONE DEL VERBALE DELL’ASSEMBLEA DEL 29

NOVEMBRE 2007;RELAZIONE DEL PRESIDENTE SEZIONALE;PROGRAMMA DI ATTIVITA’ SOCIALE PER IL 2008,NOMINA DEI DELEGATI SEZIONALI PER IL 2008;BILANCIO CONSUNTIVO 2007;VARIE ED EVENTUALI.Si prevede che L’Assemblea si riunisca in seconda convocazione.

Il Presidente