Rachele e le altre

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i narratori TERESA GIANFRANCESCO rachele e le altre memorie di donne

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Teresa Gianfrancesco siè formata a Bari neglianni settanta e ottanta.Attualmente insegna nellacittà pugliese, dopo averetrascorso vari anni inprovincia di Matera.Si ritiene “una pellegrinadella parola” che nel proprioviaggio raccoglie erbe, frutti,memorie ed emozioni.“Le mie storie non sonoaltro che delle pietanze persostenere ed indagareil cuore”. Ha cominciato ascrivere da bambina, incantatadal paesaggio naturale edinteriore ma i suoi scritti nonha mai voluto pubblicarli.Fino a quando ha inviato ilracconto Rachele al concorsoorganizzato da Liberalia, e havinto per la sezione “Lucania:terra dei boschi”.Il racconto che apre la raccolta,e dona il titolo alla stessa,nasce proprio dal suo lavoro“lucano”, che le ha permessodi scoprire un sud autentico e“la grande umanità dei lucaniche si nutre di tempi meridianiproprio come il fascino deiboschi, dei monti, del mare sinutre di silenzi”.

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TERESA GIANFRANCESCO

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RACHELE

Giulia Capogrosso viveva con i suoi nelle campagne spinose e ava-re situate ai piedi dei monti, dove una cinquantina di anni addietro era stato catturato l’ultimo brigante.

Le anime di Ninco Nanco, di Carone, di Montedoro e anche dei loro avi Frà Diavolo e Mammone aleggiavano ancora per i boschi e per i di-rupi, e c’era chi giurava di aver udito le loro risate frammiste a bestem-mie nelle notti senza luna. Qualcuno si era avventurato di sera tarda su verso la chiesa sconsacrata dove si diceva fosse sepolto, sotto un al-bero, un consistente tesoro accumulato dai briganti, a guardia del qua-le era stata posta dal buon Dio l’anima di fra Gioacchino da Fiore. Ma mai nessuno era riuscito a metterci sopra le mani perché, nell’attraver-sare quella parte di fiume che introduceva alla spianata del conventino e che in quel punto era più torrente che placido e semi secco fiumiciat-tolo, le bestemmie impronunciabili, le risate e anche gli spintoni erano tali e tanti da scoraggiare chiunque. Così il beato Gioacchino rimane-va lì solo soletto a custodire un tesoro che a lui di certo non serviva ma che a tanta brava e povera gente del paese avrebbe di sicuro consenti-to di condurre una vita meno grama.

Si erano provati tutti nell’impresa, persino il podestà accompagna-to da un esercito di notabili, ma la leggenda avvertiva che il tesoro sa-rebbe stato dissotterrato alla mezzanotte di una sera senza luna da un uomo che rigorosamente da solo avesse superato il torrentello, at-traversato la spianata recitando varie giaculatorie e, infine, scoperto l’albero indicatogli dallo stesso Gioacchino in veste splendente, tale e quale a quella degli angeli posti a guardia della tomba di Cristo la not-te della Resurrezione...

Il Podestà, baldanzoso e sicuro di spuntarla, si era invece coraggio-samente fermato addirittura un centinaio di metri prima del torren-te, dato che “le anime e anche le mani e i piedi di quei dannati briganti

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si erano fatti sentire alla grande” impedendogli così di proseguire. E, in verità, qualche bel livido sul posteriore del Podestà fu visto davve-ro il mattino seguente dal medico, dal farmacista ed anche dalla diletta consorte che pensò bene di divulgare la notizia. La novità dei calci, che mai si era sentita, fece ridere molto i paesani e cominciò a girare voce che i briganti quella notte erano stati aiutati da qualche ardito giova-notto, magari fratello o fidanzato o marito delle donne a cui il Podestà era solito prestare troppe attenzioni.

E il tesoro restava lì. La vita nel paese procedeva senza avvertibili scosse. Una calma ras-

segnata accompagnava le albe e i tramonti, solo Garibaldi, i briganti e la Grande Guerra avevano apportato, a intervalli scanditi da morti e violenze, qualche illusione, poi amara disillusione. Tasse incompren-sibili, privilegi atavici, servizio di leva per la Patria sconosciuta e poi la siccità o la gelatura erano i fatti tristi quotidiani. Ma fidanzamen-ti, matrimoni e battesimi si susseguivano frenetici dopo l’inverno, ac-compagnati da feste di svariati santi e processioni e pellegrinaggi ver-so santuari o ipotetici nuovi beati. Qualche vecchia donna un po’ stre-ga, inoltre, contribuiva a riempire le giornate delle ragazze con intru-gli e spauracchi, ma anche preghiere; così leggenda e realtà, religione e diavolo convivevano in armonia.

Ma quel tesoro nascosto movimentava più di ogni altra cosa le notti di molti paesani, anche del parroco in verità, giovane uomo di cultura giunto lì da Roma fresco di studi e di idee europeiste. Nativo di quei luoghi, anche se gli occhi azzurri e l’alta statura lo rendevano straniero, ci ritornava dopo tanti anni desideroso di riscattare la sua gente dalla superstizione e chissà anche dalla miseria.

Ahimé, era lì da alcuni anni senza aver raccolto grandi risultati, anzi negli ultimi tempi l’acuirsi del desiderio di impossessarsi del te-soro da parte di tutti stava creando non pochi disagi dato che quasi ogni notte era baldoria, con l’aggravante che nonostante i suoi sfor-zi di insegnare a leggere, a scrivere e a fare di conto nella sua canoni-ca, una generale tendenza all’ignoranza alla rozzezza di sentimenti e alla volgarità persisteva, e, anzi, si rafforzava. Il paese era popolo-so, nonché punto di riferimento di villaggi e frazioni vicine, dunque era necessario a suo parere svecchiare nobilitare elevare anime e cor-pi per divenire modello per tutta la zona e perchè no, anche per l’in-tera regione.

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- Ma l’animo umano è più oscuro ed intricato - gli diceva il vecchio farmacista, uomo saggio e discreto: - Ne ho viste tante don Rocco e non sempre le cose che appaiono disdicevoli alla morale sono le peggiori, anzi spesso sono le più pure”.

Passeggiavano nella piazza dopo la messa vespertina e discutevano di filosofia mentre Platone, Socrate e Kant si chiedevano forse come fossero finiti in mezzo a quella campagna desolata e a quegli asini ca-richi.

- Eccoli, si stanno preparando per un’ altra scalata verso il tesoro. Oramai sono due anni che non fanno altro. È diventata una fissazio-ne. Non riesco a fare entrare nei loro cervelli che la loro vita disgrazia-ta può cambiare in un altro modo, non rincorrendo i fantasmi.

- E come don Rocco, me lo dica? - sorrise amaro il farmacista, - l’hanno capito da un pezzo che la loro esistenza non cambierà e dun-que si trastullano. È il modo che conoscono di obliarsi, a parte il vino e le donne. Noi che abbiamo studiato parliamo invece di filosofia. Non cambierà mai nulla caro il mio giovane illuminista! Per quanto non rie-sca proprio a capire come possa un sacerdote sposare idee così sovver-sive...

- Domani sera glielo spiegherò. Buona notte don Giuseppe - si ac-comiatò Don Rocco arrivato davanti la canonica e sorrise al farmacista il quale accennò a levarsi il cappello e proseguì la passeggiata serale in compagnia del Podestà appena sopraggiunto:

- Ma quello non mi può proprio vedere, mi saluta a stento, ma che gli ho fatto.

- Nulla, è giovane e vuole cambiare il mondo, poi è prete e non sop-porta quello che tu vai combinando in giro con le donne degli altri. Del resto non ha tutti i torti…

- Ma don Giuseppe voi mi conoscete da bambino, sapete quanto ho amato quella disgraziata di mia moglie prima di sposarla. Dopo sposa-ti, tempo un mese, mi si è negata, e sono dieci anni che va avanti così. Perchè? Perchè dice che la costringo a vivere con mia madre e con le tre mie dolci sorelle e che fino a quando non le manderò via lei dormi-rà sola. Ma ditemi voi come posso dire a quattro donne indifese di an-dare a vivere da sole.

- Quattro donne è vero, ma indifese non proprio. Quanto poi a ‘dol-ci’ ci andrei cauto. Don Filippo le conosciamo tutti tua madre e le tue sorelle, ed hanno combinato non pochi guai.

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- A me lo dite. Ma io sono quello che sono grazie a loro e poi la verità è che non ce la faccio, non ho il coraggio di parlare, ho paura e allora...

- E allora ti dai da fare con Maddalena, Maria e Annetta. Fosse al-meno una sola... e libera o magari della città...

- Avete ragione don Giuseppe, ci penserò, ve lo prometto, buona notte -. E i due si separarono sull’uscio dei rispettivi palazzotti, uno di fronte all’altro.

Don Rocco intanto, in canonica, seduto alla sua scrivania, vergava con veemenza una lettera al suo superiore e Vescovo, con la quale illu-strava la situazione incresciosa venutasi a creare negli ultimi anni in paese a seguito di quella leggenda ridicola. Chiedeva inoltre il permes-so di organizzare un pellegrinaggio notturno al conventino in questio-ne e di avventurarsi egli stesso, solo, come voleva la leggenda, a dimo-strazione che non c’erano né demoni né beati né tesoro e liberare così definitivamente quella gente da superstizioni e credenze assurde.

La risposta del Vescovo non tardò e fu positiva. Cominciarono così i preparativi del pellegrinaggio, ai quali presero parte anche coloro che abitualmente sbavavano dietro l’idea del tesoro. Un avvenimento, un qualsiasi avvenimento, pur che creasse movimento, era accolto in quei luoghi sperduti come una manna sulla quale avventarsi. E don Rocco sospirò, il qualunquismo della sua gente lo esasperava.

Sulla terrazza della sua casa bianca e quasi signorile Giulia Capo-grosso stendeva le tovaglie linde e ricamate dell’altare. Donna di poche parole e di ancor meno sorrisi, viveva con i suoi e non si era mai sposa-ta, lo sperava, ma nessun giovanotto aveva ancora superato l’esame al quale lei lo sottoponeva. Troppo rozzi, troppo ignoranti e volgari. An-che i suoi fratelli erano così.

Abile e sensibile ricamatrice, aveva anche un po’ studiato e leggeva la sera qualche romanzo che le passava l’anziana moglie del farmacista e che dunque non era proprio all’ultima moda. Poi, don Rocco, le pre-stava qualche libretto religioso di edificazione spirituale: vite di santi, varie versioni della vita di Maria, “La sposa cristiana: ricette spirituali per un buon matrimonio”. Credente ma a modo suo, se si vuole in un modo naturale e pratico, a tali letture in genere si appisolava e pun-tualmente le riportava a don Rocco dicendo: “Scusate don Rocco, ma non avreste qualcosa di ‘diverso’ ?”. Don Rocco l’ultima volta rise e le diede un libro ‘diverso’, che parlava della gente del sud come lei.

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- È un libro particolare, donna Giulia, non proprio ortodosso, poi voi siete una donna e siete ancora un po’ giovane per certe letture, non so se lo capirete.

- Perchè è scritto difficile, don Rocco ? - gli chiese fiduciosa. - No, al contrario. Non sono difficili le parole, ma quello che dice -

sorrise il prete. - Allora non vi preoccupate, lo capirò - e Giulia lo guardò seria ma

non risentita. Mentre don Rocco imbarazzato pensò di averla offesa, sorpreso dalla sicurezza con cui aveva detto quel “lo capirò”.

- Devo cominciare a rivedere le mie idee sulle donne della campa-gna - si disse, - che forse non solo a Roma e al Nord ce ne sono di in-telligenti.

Giulia stese l’ultima tovaglia e poi cominciò ad annaffiare il basilico nelle tinozze all’ombra, prima che facesse troppo caldo. Era terminata da poco la messa delle sette e vide don Rocco passeggiare per la stra-da di sotto con un libro fra le mani. Sua madre sulla porta lo salutò e si fermò a parlare del pellegrinaggio che ci sarebbe stato la sera. Tutto era pronto. Preghiere, canti e postazioni erano stati provati e riprovati per due settimane. Il paese attendeva quella notte come si attendeva la festa di San Filippo e molti, a dire il vero, attendevano con la speranza che il prete si sbagliasse e che il tesoro spuntasse all’improvviso.

- Buon giorno don Rocco, aspettate che scendo vi devo parlare -Giulia lo salutò con la solita aria sobria e diretta senza il minimo cen-no di sorriso. Bella ma senza orpelli, come la calce. Arrivò giù compo-sta e lo fissò:

- L’ho capito. L’ho capito e sono d’accordo con voi. Perchè voi sie-te d’accordo con il prete del libro, vero, altrimenti non lo terreste nel-la vostra camera da letto?

- Ma che dici Giulia - fece sorpresa sua madre che intanto prepara-va dei dolci per don Rocco: “Un po’ di rispetto!”.

Ma lei non se ne curò come sempre e proseguì “Me ne sono accorta che il libro non l’avevate né nello studio né in sacrestia e che siete an-dato a prenderlo dalla vostra camera. Dunque è un libro a cui ci tenete, lo leggete spesso, la pensate come lui, il prete del libro... Sono d’accor-do, completamente d’accordo con voi, c’è un’altra strada per noi tutti e stasera, se mi farete l’onore, starò al vostro fianco per aiutarvi a tro-varla”.

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Parlò tutto d’un fiato, la fronte alta dignitosa, senza sfida, solo cer-tezza.

- Che sfrontata, ma di cosa stai parlando. Don Rocco scusatela, a volte non la capisco proprio. Volete anche un caffé?

Don Rocco si sentì infuocato dalle parole di Giulia, il suo segreto era stato scoperto, non solo, ma anche capito, condiviso. I suoi supe-riori, no, più sordi e ciechi che mai, se avessero saputo...:

- Ma Giulia, è solo un romanzo, non dovete prendere tutto alla let-tera, non è prudente. Sono però contento che non l’abbiate trovato difficile, vuol dire che la vostra cultura non è male -. Così, pacata e ra-gionevole, fu la risposta del prete ma i suoi occhi luccicavano e tradi-vano quello che aveva in fondo al cuore. Inoltre chiedevano, pregava-no, che lei non lo scoprisse oltre, non lo esponesse, ci voleva poco in quegli anni per passare per socialista e perdere la reputazione. E Giu-lia capì anche questo:

- Avete ragione don Rocco, è vero a volte esagero. Da ora in poi farò come dite voi” e anche per Giulia le parole non resero giustizia al pen-siero ma solo il suo sguardo. Si capirono e restò un segreto.

- O brava, ascolta don Rocco che conosce il mondo! Volete dell’altro caffé? È caldo. No? Allora a stasera don Rocco - lo salutò cerimoniosa la madre di Giulia accompagnandolo fin fuori e poi rientrò tutta gon-golante e sorridente.

La sera tutto il paese si ritrovò nella piazza della chiesa risponden-do alla campana che suonava già da mezz’ora per i ritardatari e i ritar-datari erano tutte le persone importanti del paese che come d’uso si facevano attendere per vezzo, per non attendere loro, per godere del varco che puntualmente si apriva fra la gente comune al loro passag-gio.

Ed eccoli, con tutti gli stendardi rispolverati e le immagini sacre lu-cidate, le candele accese e protette nelle ampolle di vetro, i vestiti del-le più svariate congregazioni stirati e indossati: le congregazioni fem-minili da un lato, quelle maschili dall’altro, le ragazzine e i ragazzini da un altro ancora, dove litigavano per spartirsi le grandi ceste cariche di frittelle e otri d’acqua e anche di vino, che avrebbero accompagnato e rifocillato la processione nella scalata. In attesa dei notabili, che in-tanto si specchiavano e rispecchiavano negli imponenti specchi incor-niciati alla maniera ancora barocca o rococò, qualcuno intonava canti

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e giaculatorie con voce alta e stridula. Alcune suorine attorniate dal-le vecchiette più devote modulavano invece le voci come pensavano usassero fare gli angeli del paradiso e si abbandonavano a virtuosismi spericolati che andavano a coprire lo spettegolare dei più.

Don Rocco si era già sistemato al suo posto dal quale riusciva facil-mente a controllare il capo e la coda di quel lungo e vociante corteo e donna Giulia e la madre, per motivi assolutamente diversi, gli erano vi-cine, un passo o due indietro come si conviene.

Giulia seria e silenziosa come sempre, osservava il prete in ogni suo anche impercettibile movimento. Nutriva per lui un rispetto e una sti-ma nuovi in lei, in genere così poco incline a manifestare forme di os-sequio umano generalizzato e dato per scontato. Ma quel prete così di-verso da tutti gli altri che lo avevano preceduto, veniva dalla capitale, aveva viaggiato, aveva studiato cose diverse dalle solite che studiano i preti, trattava le donne con gentilezza e rispetto, ne ascoltava seria-mente il parere, parlava di nuove strade da percorrere e anche lei cer-cava strade che non fossero le solite. Tutti in paese lo stimavano e gli volevano bene, i vecchi perchè era giovane, bello e “somigliava sicura-mente a Gesù Cristo con quegli occhi azzurri”, i giovani perchè vedeva-no in lui una possibilità, di cosa o di che tipo o perchè non lo sapeva-no proprio, ma rappresentava in ogni caso una possibilità. Le sue pre-diche erano seguite e quel poco che lì riusciva a fare era già tanto per i paesani che certo non si aspettavano granché da un prete. Invece don Rocco avrebbe voluto rivoltare quella terra da cima a fondo alla manie-ra di un aratro, trascinandoci fra le zolle anche un bel po’ di signoroni, magari quelli di Roma.

Sempre più immerso in questi pensieri, negli ultimi tempi spesso si intristiva, si rabbuiava, si riscopriva nel cuore troppa rabbia per essere un prete. Aveva cominciato a soffrire di uno strano e nuovo malessere a lui sconosciuto prima d’allora: soffriva di solitudine, di una solitudi-ne che gli attanagliava l’anima oramai non più solo di notte, nelle not-ti fredde e magari ventose, ma anche in pieno giorno, anzi fra la gente forse ancora di più. Solo le chiacchierate con il farmacista placavano in parte questa angoscia sorda che lo andava divorando; don Giuseppe lo capiva fin dentro l’anima, ne era certo, ma troppo vecchio e rassegnato per creare con lui una comunione di intenti e di azioni. Non gli resta-va altro allora che la preghiera, la preghiera intensa, dolorosa, assolu-ta, nella quale il pianto e il senso di vuoto, facevano purtroppo capoli-

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no sempre più spesso. Cercava la forza in sé, in un Dio ora muto, cer-cava qualcuno che gli porgesse sorridendo una mano, ma che la por-gesse a lui tutto intero, non soltanto alla sua veste. Sentiva, contraria-mente alle convinzioni eroiche di cui si era pasciuto, che da solo non ce l’avrebbe fatta. Una sconfitta lancinante che diveniva sempre più lace-razione man mano che cresceva la consapevolezza, bruciante, di que-sto suo limite inaccettabile, per un prete. Non si contavano più ora-mai le notti insonni, le passeggiate solitarie... aveva bisogno di un pro-getto, un progetto nuovo, magari grandioso, difficile, bastava che fos-se concreto e che gli riconsegnasse la sua anima.

In processione al suo posto pensava tutto ciò illudendosi di prega-re, non era ancora preghiera, era ancora e sempre il suo cervello che lavorava incessantemente. Ma con il buio, ne era certo, il suo Dio gli avrebbe finalmente risposto, indicato una via e avrebbe così scovato il vero tesoro, vero per lui e per tutta la sua gente.

Il varco si era finalmente aperto.In pompa magna e bardati a festa tutti i signori del paese fecero il

loro ingresso nella piazza gremita e don Rocco si sorprese a contar-li: erano pochi davvero, eppure le loro idee e la loro morale dettavano legge a tutti gli altri. Morale e idee delle quali quasi mai davano una reale testimonianza, ma che in realtà servivano a preservarli da qual-sivoglia cambiamento e a legarli più fortemente ai loro troni secola-ri. Rabbia, ancora troppa rabbia e il desiderio appena controllabile di spazzare tutto il vecchiume sudicio a colpi di sincerità. Nella sua ter-ra quando si voleva comunicare un concetto con onestà e veridicità si usava l’espressione bellissima ed evangelica “dire pane al pane e vino al vino” e la verità doveva essere sempre “nuda e cruda”... Ecco cosa cer-cava don Rocco e prima di tutto nel suo cuore, qualcosa che gli fosse essenziale come lo erano il pane ed il vino, una passione che gli appa-risse nuda e cruda.

Si fece violenza e si scosse da questo continuo rimuginare. Attese paziente che i signori si facessero baciare le mani o comunque osse-quiare e chiamò a sé con lo sguardo l’amico farmacista il quale fu sin-ceramente felice di staccarsi dalla combriccola altolocata e di sistemar-si, se non proprio fra i cafoni, fra gli onesti artigiani dalle velleità pic-colo-borghesi che attorniavano rispettosi il prete: “Partiamo don Roc-co, così almeno si canta e non si dicono stupidaggini”, fu il consiglio di

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don Giuseppe. A un cenno col capo del prete e alla sua lenta e alta be-nedizione, le piccole suore, tutte contente del privilegio, attaccarono: “Evviva Maria, Maria evviva. Evviva Maria e chi la creò”.

Il corteo partì e si snodò composto e celere per la via principale del paese appena in salita, poi raggiunse le ultime case e il bosco profuma-to nell’ora del crepuscolo. Le ombre della sera cominciavano ad alzarsi e si delineavano con chiarezza nel cielo creando il netto confine della notte. Della luna non c’era traccia e inerpicandosi sulla mulattiera si-nuosa e quieta la gente poneva già mano alle lanterne e anche alle ce-ste colme di frittelle e agli otri.

Pareva una bella scampagnata notturna, qualcuno della retrovia ac-cennava a timidi passi di ballo, così, per diluire un po’ l’eccessiva sa-cralità dell’evento. Qualcun altro si attardava a guardare la valle sem-pre più cupa. I ragazzetti saltavano. Le suorine, le vecchiette, le donne e gli uomini delle congregazioni cantavano e pregavano a voce alta. Si procedeva ora un po’ più lentamente e ci si distanziava a seconda del-le necessità di ognuno, si incominciò anche a chiacchierare del più e del meno.

Si giunse nella parte del colle dove il piccolo torrente cominciava a scorrere parallelo al sentiero. Il suo rumore si insinuava nelle chiac-chiere e nei canti della gente e avvertiva che ci si stava avvicinando alla meta, allora qualcuno fino ad allora ridanciano o distratto, si unì ai canti ed alle preghiere ora più sommesse.

- Lo sapevo. Lo sapevo che sarebbe piovuto - esordì la madre di Giu-lia asciugandosi la fronte dalle prime gocce. In realtà lo avevano previ-sto tutti, data la stagione e si erano premuniti, così si procedeva senza problemi, mangiucchiando e bevendo qualcosa tanto per rinforzarsi e placare l’ansia che prendeva quasi tutti al pensiero di vedere il beato Gioacchino o magari qualche angelo o chissà Gesù Cristo in persona. E poi sicuramente luci abbaglianti, tuoni e fulmini del buon Dio avrebbe-ro fatto da coreografia e da colonna sonora all’apparizione del tesoro. Per non parlare poi delle risate, dei calci e dei pugni dei briganti...

- Vedrete che stanotte i briganti se ne staranno buoni buoni, non va mica il Podestà a scovare il tesoro! - insinuò una donna e le altre ridac-chiarono sommessamente ma con grande gusto; fra di esse la madre di Giulia incalzò: “Se quel... non posso dire il nome che si merita... aves-se tentato con qualcuna della mia famiglia sarei andata io per prima a

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dare una mano ai briganti! Non come fa la madre di Annetta che finge di non sapere” e tutte annuirono con aria alquanto disgustata.

- Ci avviciniamo, don Rocco - avviò il discorso Giulia affiancandosi rispettosa, ma determinata, alla sinistra del prete. Alla destra invece il farmacista aveva appena terminato di esporgli il suo pensiero sulla situazione politica incandescente in cui versava la nazione tutta, frut-to a suo parere di giuste, sacrosante e auspicabili rivendicazioni, che tuttavia non tenevano conto della difficile realtà economica post-bel-lica: “Tutti parlano, tutti chiedono, tutti esigono... Troppi... Ecco don Rocco, io penso che nel caos nazionale ma anche europeo in cui ci tro-viamo, ci vorrebbe un grande uomo, serio, onesto, appassionato, che prendesse le redini del paese per un po’ e mettesse ordine. Ma onesto però, che avesse a cuore il bene della gente, non il suo”.

- Ci vorrebbe allora lei don Giuseppe, degli altri non mi fido, specie se poi restano soli. La troppa solitudine credo che a volte possa diven-tare cattiva consigliera e creare qualche mostruosità nell’anima - re-plicò il prete che cominciava a vederci un po’ più chiaro in sé proprio grazie a quello scambio. Il farmacista sorrise alla lusinga, scosse il capo all’obiezione, annuì alla riflessione spirituale e infine sporse il capo e guardò donna Giulia che aveva parlato. Poi guardò don Rocco che si volse verso di lei.

- Sì, stiamo arrivando. Provate timore? - chiese protettivo il prete.- Quando sono sicura di qualcosa non provo mai timore. Ed io sono

certa che quello che state facendo stanotte non solo è giusto ma ne-cessario.

Nella notte buia anche solo la fioca luce della lanterna, non proprio vicina, accese il luccichio degli occhi della donna, che scrutavano diret-ti, sì, erano “nudi e crudi” pensò il prete. Ancora una volta don Rocco uscì imbarazzato dallo scambio di battute con Giulia, pensò di averla offesa e allora si scusò aggirando l’ostacolo: “Non dubito del vostro co-raggio, so che ne avete, del resto poche donne trasmettono la vostra forza. Voi siete senza orpelli, parlate il giusto e siete sincera. Chiedevo invece se aveste timore della pioggia e del torrente, non del fatto che potrei essere smentito.” Giulia allora si sciolse un po’ apprendendo che i timori a cui egli si riferiva non erano legati a questioni importanti, in-somma non dubitava della sua intelligenza. “Se per timore intendete che potrei cadere nell’acqua data la veste lunga ed ingombrante, bè un po’, vi confesso, un po’ di timore ce l’ho. Ma credo che anche la vostra

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veste sia lunga ed ingombrante e del resto non sarete voi, da solo, ad avventurarvi tra le acque? Non dice così la leggenda?” e Giulia conclu-se ridendo. Don Rocco tossicchiò ancora più imbarazzato e il farmaci-sta al suo fianco rise invece apertamente sentenziando: “Le donne ne sanno una più del diavolo”.

A un tratto il vociare della gente si fece più forte. Cominciava a pio-vere seriamente. Tutti lo avevano previsto, è vero, ma nessuno aveva previsto che si aprissero le cateratte del cielo. Sulla mulattiera si era giunti al punto in cui il torrentello l’avrebbe tagliata, da lì a poco tutto il corteo si sarebbe dovuto fermare e avrebbe guardato allontanarsi il prete, solo, oltre di esso verso il convento.

Uno scroscio improvviso sorprese tutti. Poi lampi e tuoni comincia-rono a ballare nel cielo e a incendiare l’aria. La gente riprese ora a can-tare e a pregare con lena crescente proporzionata alla paura, gli albe-ri fitti rappresentavano un pericolo serio. Ed ecco allora che mentre il cielo dava a suo modo la risposta al mistero del tesoro, tutti quanti, in-curanti di briganti, demoni e santi si buttarono nel torrente per gua-darlo e raggiungere in corsa il modesto convento unico riparo sicuro.

I signori in pompa magna misero da parte la loro dignità e si al-zarono brache e sottane fino ai mutandoni, le vecchiette cantando e pregando vennero sollevate dai giovanotti più robusti, insegne croci e stendardi furono abbandonati senza rimpianto e il minimo senso di colpa sul terreno già fradicio, frittelle e otri di vino invece no. Le don-ne avvolte nelle coperte gridavano a più non posso e a sproposito tan-to per sfogare rabbia e delusione, più per abiti calze cuffie e capelli ro-vinati, che per altro. Il farmacista, il prete, i giovanotti e gli altri uomi-ni ancora in forze, si erano posti a gambe divaricate fra le pietre e l’ac-qua del torrente ingrossato e traghettavano tutti gli altri da una spon-da all’altra. Lampi e tuoni incalzavano e il vecchio convento a tratti spuntava dal buio; già la prima gente arrivava e si sistemava nei posti migliori sgocciolandosi le vesti e non imprecando ad alta voce solo per pudore del luogo, seppure sconsacrato.

- Don Giuseppe andate, ci pensiamo noi, riparatevi. Non per offen-dervi, ma non siete più un giovanotto! - “ma sono un galantuomo”, ri-spose l’uomo al prete, “piuttosto dite a donna Giulia che dopo l’ultimo bambino che mette in braccio a suo cugino, attraversi anche lei e se ne vada al riparo dove sua madre e le altre indomite già si trovano da un pezzo!”. Il diluvio continuava.

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- Donna Giulia potete andare - le gridò il prete. - Ecco, ho finito - rispose la donna, - Datemi una mano don Rocco.

Da sola non ce la faccio e la sottana è lunga ed ingombrante; avevate ragione... ho un po’ di timore di ritrovarmi nell’acqua - e così dicendo, mentre gli afferrava la mano e si sorreggeva, gli sorrise.

Fu la prima volta. Il riverbero dei lampi le scoprì il sorriso e il pre-te sorpreso indugiò nel guardarla anche quando fu di nuovo buio pe-sto. Aveva ancora una mano e anche l’altra che gli si aggrappavano e si scoprì nelle gambe una resistenza nuova, poi lei si spostò sull’ultima pietra, staccò una mano, piano, lentamente, ecco... via via che stabili-va l’equilibrio staccò anche l’altra...andata.

- Grazie don Rocco - e andò via quasi correndo sotto l’acqua.Il prete, con le mani di nuovo libere, provò uno strano senso di vuo-

to... e di nostalgia... aveva sorriso, poi un tuono, lontano e nel cuore sentì aprirsi un varco dolce, caldo, nel quale si lasciò andare e lo sentì vero, “nudo e crudo”, proprio suo.

Allora chiamò il farmacista e la raggiunse.

Sono trascorsi molti anni dalla notte del tesoro, tesoro che è anco-ra sepolto: è arrivato il grande uomo e anche una nuova grande guerra, una riforma agraria e una Cassa specifica per quelle terre. Non ci sono ancora state grandissime novità, però si vedono più strade e i ragaz-zi studiano.

Donna Giulia da quella notte e per tutti questi anni ha continuato a riempire con le sue le mani del prete. Perchè don Rocco è rimasto pre-te, pur avendo avuto e continuando ad avere tanto bisogno di lei.

Il Vescovo l’aveva pregato di non abbandonare l’abito, era un pre-te bravo, c’era tanto bisogno di lui, se aveva bisogno di amore che se lo prendesse, con rispetto, con discrezione, magari vivendo vicini ma in case separate, la gente infine accetta tutto. E la gente accettò: non somigliava in fondo a Gesù Cristo? E con la Maddalena come la met-tiamo?

Don Rocco aveva pianto tanto, Giulia no. Non vide mai più i suoi genitori, solo quando furono sul punto di morire, come si conviene. Era sempre stata certa di quello che faceva per questo non aveva mai avuto timore, in tutti quegli anni così duri e felici.

Poi era nata Rachele, un tesoro di bambina, e seppe da grande che quel bell’uomo con il vestito lungo che andava a trovarla ogni giorno,

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che l’aiutava a studiare, che la spronava e al quale la madre solo sorri-deva, quell’uomo era suo padre. Fu un po’ difficile quella rivelazione.

Rachele è stata la prima donna di quel paese un po’ sperduto a di-ventare una professoressa. E questo fu per don Rocco e Giulia il vero tesoro, a parte quella notte.

I figli di Rachele ora guardano le foto, rigorosamente separate, dei loro nonni: non vedono un sorriso o un cenno di cedimento sui visi scarni, fissi come pietre, “nudi e crudi” e mandano a mente la lezione che bisogna solo e sempre dire “pane al pane e vino al vino”, anche se fa un poco male.