Raccontare traumi e violenze: l'esempio del Ruanda

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1 RACCONTARE TRAUMI E VIOLENZE: LESEMPIO DEL RUANDA Cristina Demaria Questo breve scritto nasce da una ricerca sui generi discorsivi della memoria in cui trova espressione il racconto di ‘esperienze estreme’ 1 causate da situazioni di conflitto e di violenza organizzata. Tali violenze spesso vengono vissute come dei traumi, e cioè “esperienze “fallite” (Van Alphen 1999) o comunque “non rivendicate” (unclaimed experiences: Caruth 1996). Riuscire invece a raccontarle è un’operazione semiotica che prevede, tra i suoi possibili effetti, quello di poter (per quanto parzialmente) sanare la memoria di un singolo e di un gruppo. Parto dunque dall’idea che la ricostruzione della memoria sia, potenzialmente, una pratica culturale e sociale in grado di costituire (o ri-costituire, in ogni caso di trasformare) le trame di porzioni dell’enciclopedia di un individuo, di una data comunità, ma anche di una nazione; in generale, della cultura intesa come mondo significante in cui i soggetti e gli oggetti vengono ri-prodotti. In altre parole, la memoria come narrazione non è una ripetizione del passato, ma una riserva di forme per affrontare e strutturare il presente. Altrove ho peraltro provato a discutere queste premesse, proponendo alcune analisi di casi specifici (Demaria 2005 e 2006). Qui non vorrei però limitarmi solo a ripetere o sintetizzare il già detto; mi piacerebbe invece porre alcune questioni, e anche abbozzare possibili riflessioni che toccano molto da vicino proprio il rapporto tra narratività ed esperienza discusso nel convegno di Arcavacata. Ogni storia decide infatti il suo incipit, il suo svolgimento, e la sua fine, le sue omissioni e le sue aggiunte: ogni storia ricorda e dimentica. E sovente è nell’incrocio tra oblio (come assenza di narrazione, ma non solo, anche come racconto parziale e lacunoso, in ogni caso come strategia imprescindibile del meccanismo della rimemorazione), e manipolazione del ricordo che il problema della memoria incontra quello dell’identità. Qui gli abusi della memoria divengono abusi di oblio, come sostiene Paul Ricouer (2000, trad. it. : 636), “a ragione 1 Uso qui volutamente l’espressione utilizzata da Denis Bertrand nella relazione che ha tenuto nel convegno da cui nasce anche questo articolo, e cioè Narrazione ed esperienza. Per una semiotica della vita quotidiana, tenutosi nel novembre del 2006 ad Arcavacata di Rende (Cs), presso l’Università della Calabria. Il titolo della relazione di Bertrand era infatti L’écriture de l’expérience extréme.

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Cristina De Maria - Revue E|C

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RACCONTARE TRAUMI E VIOLENZE: L’ESEMPIO DEL RUANDA Cristina Demaria

Questo breve scritto nasce da una ricerca sui generi

discorsivi della memoria in cui trova espressione il racconto di ‘esperienze estreme’1 causate da situazioni di conflitto e di violenza organizzata. Tali violenze spesso vengono vissute come dei traumi, e cioè “esperienze “fallite” (Van Alphen 1999) o comunque “non rivendicate” (unclaimed experiences: Caruth 1996). Riuscire invece a raccontarle è un’operazione semiotica che prevede, tra i suoi possibili effetti, quello di poter (per quanto parzialmente) sanare la memoria di un singolo e di un gruppo. Parto dunque dall’idea che la ricostruzione della memoria sia, potenzialmente, una pratica culturale e sociale in grado di costituire (o ri-costituire, in ogni caso di trasformare) le trame di porzioni dell’enciclopedia di un individuo, di una data comunità, ma anche di una nazione; in generale, della cultura intesa come mondo significante in cui i soggetti e gli oggetti vengono ri-prodotti. In altre parole, la memoria come narrazione non è una ripetizione del passato, ma una riserva di forme per affrontare e strutturare il presente.

Altrove ho peraltro provato a discutere queste premesse, proponendo alcune analisi di casi specifici (Demaria 2005 e 2006). Qui non vorrei però limitarmi solo a ripetere o sintetizzare il già detto; mi piacerebbe invece porre alcune questioni, e anche abbozzare possibili riflessioni che toccano molto da vicino proprio il rapporto tra narratività ed esperienza discusso nel convegno di Arcavacata.

Ogni storia decide infatti il suo incipit, il suo svolgimento, e la sua fine, le sue omissioni e le sue aggiunte: ogni storia ricorda e dimentica. E sovente è nell’incrocio tra oblio (come assenza di narrazione, ma non solo, anche come racconto parziale e lacunoso, in ogni caso come strategia imprescindibile del meccanismo della rimemorazione), e manipolazione del ricordo che il problema della memoria incontra quello dell’identità. Qui gli abusi della memoria divengono abusi di oblio, come sostiene Paul Ricouer (2000, trad. it. : 636), “a ragione

1 Uso qui volutamente l’espressione utilizzata da Denis Bertrand nella relazione che ha tenuto nel convegno da cui nasce anche questo articolo, e cioè Narrazione ed esperienza. Per una semiotica della vita quotidiana, tenutosi nel novembre del 2006 ad Arcavacata di Rende (Cs), presso l’Università della Calabria. Il titolo della relazione di Bertrand era infatti L’écriture de l’expérience extréme.

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della funzione mediatrice del racconto. In effetti, prima dell’abuso, c’è l’uso, e cioè il carattere ineluttabilmente selettivo del racconto (…) L’idea di racconto esaustivo è un’idea performativamente impossibile (…) Noi tocchiamo qui lo stretto rapporto fra memoria dichiarativa, narratività, testimonianza, rappresentazione figurata del passato storico (…) l’ideologizzazione della memoria è resa possibile dalle risorse di variazione, che il lavoro di configurazione narrativa offre. Le strategie dell’oblio s’innestano direttamente su questo lavoro di configurazione” . Ma interrogare le politiche della memoria è in ogni caso un’operazione complessa, dal momento che in esse si giocano processi che, tra l’altro, non sempre si possono prevedere: riconoscere, e così ricostruire un passato, significherebbe infatti anche abbandonarsi all’‘altro’ nel presente, alla sua differenza, avendola accolta e compresa. E questo rimane spesso più un progetto che una pratica.

Il racconto “individuale” del trauma: rappresentare

l’irrapresentabile

Della testimonianza del male si è scritto molto, e di

tenore diverso. Vi è pero un aspetto su cui molti autori concordano, e cioè la difficoltà di ricomporre e dare senso a un’esperienza traumatica che conduce alle soglie della desoggettivazione, nel cuore stesso della costituzione di un soggetto sempre minacciato dalla vergogna. Difficile è dunque il racconto del superstes, colui che ha vissuto e visto qualcosa, che lo ha attraversato e ne è stato appunto impresso, egli stesso una prova, caricato non solo del poter testimoniare il trauma in quanto lacerazione della sua identità psicosemiotica e contemporaneamente del suo senso di appartenenza a una collettività, ma anche del dover

testimoniare; inoltre, il singolo che pretende di parlare a nome del gruppo acquista tale ‘diritto’ dall’azione stessa della testimonianza? (Bernstein 2001).

Gli studi di memorialistica, in particolare quelli sulle testimonianze di vittime dell’Olocausto, indicano per esempio come, anche quando il trauma vissuto non è stato pubblicamente negato, e la memoria collettiva manipolata, è comunque difficile trovargli un posto nella memoria individuale, perché per lo stesso soggetto-testimone è a volte impossibile credere alla storia che vorrebbe, potrebbe o dovrebbe raccontare. Il problema non è rammentarsi della ‘realtà’, ma percepirla come tale. Gli orrori sono vissuti in una sorta di contro tempo: “I tentativi di registrare, trasmettere e conservare le prove nel momento in cui gli eventi si verificavano

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effettivamente (appunti contrabbandati, diari sepolti, foto segrete) non erano sufficienti per ‘essere testimonianza’ […] il fatto di essere dentro l’evento rende impensabile il concetto stesso che potesse esistere un testimone” (Cohen 2001: 183). Nella produzione di una testimonianza i problemi sembrano quindi riguardare innanzitutto la collocazione e le modalizzazioni del soggetto rispetto al proprio discorso, che egli non riesce ad assumere, per cui non riesce a costruire simulacri.

Il trauma si fa di conseguenza irrapresentabile. Il dolore subìto non riesce a trovare una forma adeguata e quindi a proiettarsi in un’espressione, a formarla. La vittima non può raccontare, perché non lo sa fare, perché non può scindersi in qualcuno capace di osservare il passato, e qualcuno che quel passato lo ha vissuto. Chi dovrebbe raccontare si è trovato a essere né un soggetto, né l’oggetto di un evento, oppure a occupare entrambe le posizioni contemporaneamente. Il risultato spesso è l’assenza di voce e di conseguenza, di personalizzazione del discorso, l’assoluta sua de-patematizzazione, contemporanea a una de-modalizzazione del soggetto, che diviene autistico (Pozzato 2001: 165-166).

Ma forse le vittime non devono raccontare, come hanno invece sostenuto molti filosofi. Dopo Auschwitz, le immagini non possono funzionare da promemoria. Le posizioni di Theodore Adorno e François Lyotard, per citarne solo alcuni, sono note: sulla violenza dei campi, suggeriva Adorno, è sospeso il divieto di “farsi immagine”: “Ciò che è, è come il campo di concentramento” (1966: 344). Lyotard (1979) ha invece teorizzato un’estetica dell’irrapresentabile propria della condizione postmoderna e post-Olocausto. Molto più recentemente, un filosofo come Jacques Rancière (2006; cfr. anche Coquio 2004) ha invece affermato come l'eccesso di presenza di un evento traumatico richieda una sintesi impossibile, una selezione che, non potendo essere ‘autentica’, tradisce l’evento che dovrebbe richiamare alla memoria. Tale selezione inoltre avviene attraverso un’operazione di finzionalizzazione che indebolisce ciò che è accaduto, riportandolo al noto e al conosciuto, rendendolo se non uguale, per lo meno troppo simile ad altre storie. Lo statuto dell'esperienza traumatica non può poi mai del tutto coincidere con il pathos che il suo racconto può suscitare in un pubblico che si trova a vivere la “sofferenza a distanza”, pubblico oramai divenuto audience, e che in questo passaggio ha anche mutato le proprie forme di appropriazione culturale della memoria e di rielaborazione della sofferenza sociale (cfr. Boltanski 1992 e A. Kleinman e J. Kleinman 1997). La sofferenza a distanza per Rancière non può mai misurarsi eticamente,

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essere posta a confronto con la sofferenza impressa e vissuta.

A volte invece non si riesce a raccontare perché non esiste nella memoria culturale un lessico disponibile capace di sostenere il testimone, ovvero esiste, ma è del tutto inadeguato. La memoria individuale del trauma e il lavoro del lutto sembrano cioè aver bisogno dell’inserimento in un quadro culturale prima di essere testualizzati, come ha sostenuto anche Namer (1987) dopo aver lavorato sulle storie di vita dei reduci dei campi di concentramento. Nel commentare gli esperimenti di Namer, Paolo Jedlowski (2002: 60) rileva come “senza l’inserimento dei ricordi della vittima entro una rete di pratiche sociali di memoria che ne consentono l’inquadramento in un mondo di senso condiviso, la memoria individuale non si costituisce. I ricordi permangono, ma frammentari e letteralmente insensati”.

In qualche maniera, come afferma anche Federico Montanari (2004: 249), nel caso dei traumi ciò che viene annullata è la costituzione stessa del senso della temporalità, intimamente intrecciato a una memoria sociale. Per un trauma sovente non c’è memoria collettiva capace di accoglierlo, non c’è catena enunciativa in grado di stabilizzare il racconto e di inserirlo in cornici valoriali di riferimento. Viene in sostanza a mancare non solo una adeguata articolazione del continuum spazio temporale in cui collocare un discorso, ma anche di quello affettivo e passionale, la possibilità di punti di vista capaci di segmentarlo, e di istanze in grado di moralizzarlo. Un evento traumatico annulla la possibilità stessa di un racconto autobiografico come sincretismo, entro una stessa persona, di un ‘io’ capace di scindersi in un ‘egli’ o ‘ella’ in quanto fonte di affetto e di riconoscimento (Montanari 2004: 259 e Klein 1992). E le cose si complicano ulteriormente quando un tale lavoro di ricostruzione, di ri-programmazione direbbe Landowski (2006), è compiuto da un mediatore, un testimone non tanto degli eventi, ma a sua volta della loro testimonianza, caricato della responsabilità del racconto di un altro (storico, giornalista).

Alla mossa interpretativa che riguarda la ricostruzione di un trauma da parte dei testimoni, sia dei superstiti, sia degli astanti, si aggiunge anche la ricostruzione del testo e la sua interpretazione da parte dei lettori. Se il primo è il livello attraverso cui viene recuperata la possibilità di raccontare (vengono cioè recuperate posizioni del discorso, trovati interpretanti, attraverso un testo che diviene immediatamente pratica), nel tentativo di ricomposizione di una memoria individuale, il secondo è quello in cui questa memoria entra nel circuito della cultura e nella semiosfera, si fa

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testo mediatore della memoria di una collettività più ampia, provando anche a riscattarla e, assumendo, in quanto, a sua volta, pratica, una importante funzione di traduzione. Ma i due livelli non sono così distinti, e gli intrecci tra enunciazioni individuali e prassi enunciative (o catene) molto più aggrovigliati di quanto di primo acchito non si possa immaginare. Ma, in ogni caso, perché un ricordo non si fissi e non divenga un’ossessione, esso deve essere inter-agito e narrato, e in questo modo partecipare alla costruzione di un frame comune, entro configurazioni in cui esperienze simili possono essere ricondotte. C’è bisogno di ricostruire e di costituire trame dell’enciclopedia, trovare rinvii, figure, metafore utilizzabili. La memoria come pratica sociale può dunque trasformare il trauma in quanto esperienza potenzialmente indicibile, fallita, capace di mostrare “in modo negativo i sintomi di quella discorsività che definisce un’esperienza ‘riuscita’” (Van Alphen 1999: 27, trad. mia), in una narrazione.

Sopravvivere alla carneficina: la testimonianza di Marie

Béatrice Umutesi

È comunque innegabile che, anche dopo l’Olocausto,

abbiamo assistito al farsi immagine e parola della violenza, benché questa sia stata spesso rappresentata in forme che si distanziavano radicalmente dalle pratiche tradizionali di "scrittura del male"2, entro un linguaggio in cui, per esempio, le figure retoriche tradizionali vengono messe in discussione, e la loro funzione ridefinita. Tra queste vi è l’ironia, che appare come “una forma di negazione troppo elegante, visto che rende commensurabile ciò che non lo è” (Berstein 2001, trad. it.: 392). Le strategie più comuni che la letteratura sull’argomento elenca sono in ogni caso incrociabili con i problemi della rappresentazione che ho citato poco sopra: ellissi, riduzione della parola al minimo, allusione e linguaggio indiretto, frammentazione. Nel complesso,

2 Bisogna però ricordare che il ‘male’, prima dell’Olocausto, è stato origine e soggetto di importanti miti culturali, producendo trasformazioni decisive per la narrativa di finzione, determinando non solo le forme, ma la necessità stessa del racconto. Si pensi per esempio all’allegoria, forma utilizzata per rispondere alla necessità di spiegare l’origine del mondo, o al bisogno di interpretare il peccato originale come ingresso del male nel mondo: come afferma Carole Bernstein “senza alcune forme del male sarebbe stato assai difficile elaborare molti se non tutti i principali generi della narrazione, e visto che la narrazione è un tramite per la memoria culturale, quest’ultima è da tempo in ottimi rapporti con il male” (2001, trad. it.: 396).

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testimoniare il campo ha significato rompere le convenzioni sulla continuità e sulla connessione narrativa, verso una “metanarrativa della trasformazione estetica e dell’occultamento” (ibidem). Questo tipo di metanarrativa ha cambiato la scrittura del male, prima dell’Olocausto spesso 'compresso' in un modello che prevedeva o la redenzione, o comunque un lieto fine per i sopravvissuti, dunque una chiusura narrativa. Al posto della chiusura, le narrative contemporanee post-Olocausto3 sembrano optare per la ripetizione di immagini (dire troppo), che si coniuga all’ellissi (dire troppo poco), in una sorta di paradossale alleanza in cui le figure stesse diventano testimoni di ‘ferite dimenticate’ (Caruth 1996), verso un finale a cui ci si deve avvicinare in forma asintotica.

Un esempio di scrittura che coniuga sia quella che potremmo definire una forma pre, sia una post Olocausto, in cui è la figuratività del testo a risultare centrale, è il memoriale di una giovane donna ruandese di etnia Hutu, Marie Béatrice Umutesi, scritto pochi mesi dopo essere riuscita a “sopravvivere alla carneficina” (Surviving the slaughter, così recita il titolo del suo libro4) scatenata dalla presa di potere dei Tutsi in Ruanda dopo il genocidio subito dagli stessi Tutsi ad opera degli Hutu. Provare a raccontare le vicende ruandesi, e in generale i conflitti etnici africani, è un'operazione che richiederebbe in sé pagine e pagine di analisi non tanto semiotiche quanto storiche e politiche. In ogni caso, quel che è arrivato al pubblico occidentale è un insieme molto ridotto e selezionato di notizie in cui molto spesso veniva posta una divisione netta tra vittime (Tutsi) e carnefici (Hutu) buoni e cattivi, e da cui era quasi del tutto assente ciò che accadde dopo il genocidio dei Tutsi, quando centinaia di migliaia di Hutu, tra cui molte donne e bambini del tutto estranei alla carneficina appena avvenuta, furono a loro volta costretti prima ad ammassarsi in campi profughi al confine tra Ruanda e Zaire, e poi a fuggire non solo dai soldati ruandesi, ma

3 L’esempio di narrativa forse più citato è quello del film documentario Shoah (1985) del regista francese Claude Lanzamann, in cui immagini di repertorio si mescolano a testimonianze di sopravvissuti che tornano nei campi insieme al regista, scandite da una figura che si ripete per tutta l’opera: il treno che corre lungo i binari diretto verso i campi di concentramento. 4 Béatrice Umutesi dopo la fuga attraverso la Zaire giunge finalmente in Congo, e di qui arriva in Belgio, dove aveva studiato per due anni prima dello scoppio del conflitto etnico in Ruanda. La prima versione del testo venne pubblicata in fiammingo (e cioè in olandese, una delle due lingue ufficiali del Belgio). La versione inglese costituisce però una versione riveduta e corretta dalla stessa autrice insieme alla traduttrice, e ci sembra quindi di poterla considerare quasi un’originale.

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anche dai ribelli di Laurent Kabila (molto spesso mercenari), che a sua volta aveva scatenato una guerra civile in Zaire ed era vicino al governo ruandese di etnia Tutsi.

Umutesi divide la sua lunga testimonianza in molte tappe, fornendo anche una sorta di cornice storica che dovrebbe servire a comprendere le cause del genocidio dei Tutsi nel 1994 e del successivo massacro degli Hutu, violenze in realtà precedute da decenni di tensioni, disordini e conflitti tra le due etnie alimentati dalla classe politica e dalla propaganda di regime. Ma è ovviamente la parte centrale del testo a interessarci, quella che riguarda i mesi successivi la ‘fine’ del genocidio (che ebbe luogo tra l'aprile e il giugno del 1994), in cui gli Hutu, costretti a lasciare il paese, vengono deportati in campi di rifugiati dove vivono in condizioni terribili. Dopo poco più di un anno, questi campi vengono distrutti e i rifugiati costretti a fuggire verso ovest, nelle foreste equatoriali dell'interno dello Zaire. Lungo un percorso che doveva portare alcuni in Congo o nella Repubblica Centrale Africana, morirono più di cinquecentomila persone, di fame, per le malattie contratte lungo il cammino, massacrate dai ribelli, avvelenate dai serpenti o affogate nei fiumi che cercavano di attraversare, o anche solo di sfinimento.

Umutesi ci racconta la sua Odissea collocandola in una narrativa in cui c’è effettivamente un inizio, uno svolgimento caratterizzato da frequenti climax in cui si sfiora la morte ed esplode la violenza, e un lieto fine: dalla discesa nell’inferno (immagine utilizzata più volte) verso la salvezza (l’ultimo capitolo si intitola ‘The end of the ordeal’, e cioè la fine del tormento), il racconto si snoda seguendo gli schemi più canonici, e quindi le sceneggiature e i frame, i topoi più assodati entro cui il soggetto ritrova la sua collocazione, recupera il proprio ruolo e riafferma le proprie competenze. Raramente è però un enunciatore che ritrova le proprie passioni e percezioni: nella maggior parte dei casi la voce narrante che ci guida lungo le tappe di questo viaggio è quella di un osservatore distaccato e non quella di un corpo che firma la sua testimonianza in modo ‘sensibile’. La voce si recupera nella distanza e nell’affidarsi alla “conoscenza”, perché non si può essere di nuovo lì, e il sapere e il valutare ‘dopo’, in qualche modo, sopperiscono l’insensatezza, la desoggettivazione in cui si era caduti ‘durante’ gli eventi. L’effetto di verità straziante, l’orrore come passione è dato invece dall’inserimento nello schema generale di ellissi e soprattutto di ripetizioni. In questo resoconto estremamente dettagliato di azioni, cause, effetti, ragioni, ogni tanto esplodono immagini, si addensano descrizioni che, pur continuando a

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tenere il passato a distanza, tradiscono il trauma. Una di queste è racchiusa in quello che l’osservatore vede durante le marce forzate tra un campo di profughi appena attaccato dai ribelli, e il successivo. Ai lati delle strade che i rifugiati percorrono spesso infatti giacciono, abbandonati, i corpi di persone che stanno morendo. E questa immagine, con poche variazioni, ricorre più volte nel testo, come nella descrizione di questa terribile agonia di una giovane adolescente:

Tre giorni dopo aver lasciato Tingi-Tingi iniziammo a

incontrare i corpi dei morti e di coloro che stavano morendo. Quando qualcuno stava troppo male per poter

continuare a camminare, si sedeva ai lati della strada e

aspettava la morte. La prima e ultima volta che osai guardare a uno di questi sfortunati, il mio sguardo cadde su di una adolescente che probabilmente non aveva nemmeno sedici anni. Come gli altri, giaceva ai lati della strada, con i grandi occhi sbarrati. Guardava, senza vederli, i compagni che nella loro miseria e disperazione l’avevano abbandonata senza darle alcun aiuto, e che non avevano nemmeno aspettato che morisse prima di consegnarle la bara. I vestiti la coprivano in maniera quasi pudica, ma non potei fare a meno di notare che erano intrisi degli escrementi che non poteva più trattenere. Una nube di mosche le sciamava intorno. Le formiche, insieme ad altri insetti della foresta, correvano e strisciavano intorno alla bocca, al naso, agli occhi, e alle orecchie. Iniziavano a divorarla ancor prima che avesse smesso di respirare. Il rantolo che a tratti esalava dimostrava che non era ancora morta. Tutti quelli che passavano le gettavano un’occhiata veloce, e poi riprendevano la loro conversazione là dove l’avevano interrotta” (Umutesi 2004: 165-166, trad. mia).

L’occhio che qui guarda, benché resti disincarnato,

non è certo neutro. I salti enunciativi (da ‘noi’, a ‘qualcuno’, e poi di nuovo attraverso un embrayage a ‘io’) e aspettuali (da qualcosa che incoativamente si inizia a vedere, per poi continuare durativamente ad accadere, al racconto di un evento specifico, puntuale: “la prima e ultima volta che osai guardare”) ci portano dentro la scena, ai lati della strada. La ripetizione della morte non ha fine e continua puntualmente ad accadere. E chi parla non solo osa guardare, ma addirittura scrutare e ascoltare i particolari e i dettagli dell’agonia, giungendo a sostituirsi al corpo morente e a immaginarne le sensazioni, a farsi quindi testimone della disperazione, dell’indifferenza e dell’assuefazione collettiva, oltre che dell’annullamento di un essere

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umano. L’osservatore non può non vedere la devastazione del corpo che sfinito, cede e si disfa, aggredito dagli insetti. Il soggetto che quel corpo abitava è in realtà già morto, nel momento in cui, abbandonato dal gruppo, perde anche la sua umanità; resta solo la sua carne, il suo involucro, un corpo che diventa scarto organico, cibo per gli animali. Questa immagine è il luogo in cui più si addensa una disperazione peraltro mai urlata, bensì suggerita dalla dinamica narrativa insita nelle stesse figure. Il corpo abbandonato condensa la storia dell’annullamento di un soggetto, senza più valore in sé, come più nessun valore ha la vita dei singoli in quelle circostanze. E la figura di questa strada, che peraltro non viene mai descritta nei dettagli, percorsa da un fiume di persone da cui ogni tanto qualcuno si stacca per morire, torna incessantemente a ricordarci sia lo sfinimento, sia l’orrore di confrontarsi con la morte, che non solo viene resa fin troppo visibile, ma ci cammina accanto.

Come in quest’altro esempio, dove è il possibile contatto con il sangue di una morente, e quindi un eventuale contagio definitivo dei profughi con la morte stessa, a far trasalire gli astanti:

In questa corsa contro il tempo, quando qualcuno cadeva,

raramente una mano si allungava per aiutarlo a rimettersi in piedi. Se poi per caso non veniva calpestato, lo si lasciava a dimenarsi per terra. Un giorno, mentre stavamo approfittando del fresco del mattino per coprire quanta più distanza possibile prima che il sole ci rallentasse, una vecchia cadde per terra (…) si era fatta un taglio in fronte e il sangue aveva sporcato la strada. La gente trasaliva quando la vedeva giacere immobile sulla strada come se fosse morta, e continuava per la sua strada, devianod solo un po’ per non calpestare il sangue (Umutesi 2004: 124, trad. mia)

Poche righe dopo la descrizione dell’agonia

dell’adolescente si incontra uno dei pochi passaggi in cui il Béatrice ammette la sua disperazione e dà voce ai propri fantasmi, soprattutto alla rabbia scatenata dalla percezione della sua totale impotenza:

Persino ora, a distanza di più di un anno, l’immagine di

questa ragazza mi perseguita, e con essa il sentimento di futilità e di disgusto che provavo ogni volta che mi trovavo di fronte alla morte che aleggiava tutto intorno, e contro la quale ero del tutto impotente.

Dopo aver fatto quella macabra scoperta, non riuscii più a trattenere più le lacrime. Avevo bisogno di quel fiume di lacrime per alleviare l’amarezza, per poter accettare il fatto che non avevo alcun potere sugli eventi che si erano riversati nella mia vita a partire dal 1990. Dovevamo sopravvivere a ogni costo. Per farlo dovevamo camminare fino all’esaurimento. Se per qualcuno di noi giungeva il momento, si accovacciava a terra a lato della

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strada e attendeva la propria morte. Gli altri continuavano a camminare (Umutesi 2004: 166, trad. mia)

Non è un caso che le emozioni vengano recuperate al

presente, nel momento del ricordo come selezione, aggiustamento e valutazione del vissuto. L’immagine torna allora come uno spettro, un fantasma che aleggia e infesta (haunts) la narrazione, a cui spetta il compito di suggerire e indicare l’orrore. Ma se l’orrore è appunto lasciato alle figure, ciò che viene recuperato patemicamente e incarnato nel resoconto del soggetto è l’effetto che esso scatena, la rivolta fisica e morale, il disgusto per il proprio annullamento: per essere divenuta un oggetto del tutto manipolato da eventi che si ‘riversano’ nella sua vita, dall’esser chiuso entro un unico programma di sopravvivenza, senza più possibilità di controllo e di sviluppo, senza più soggettività.

Inoltre, quando dal racconto puntuale si passa al generale, alla sintesi che ogni storia inevitabilmente produce, scompare anche l’accusa a chi abbandona i compagni. Non c’è più distinzione tra soggetti, ma solo un unico attante collettivo con un solo fine, attante che, tra l’altro, ogni tanto perde qualche pezzo. E quando qualcuno, già privato di ogni volere e potere, si corica per attendere il suo definitivo annullamento anche come oggetto, è perché “era venuto il suo tempo”. Accettare, o comunque alleviare la rabbia con il pianto porta chi parla non solo a trovare una posizione e un ruolo patemico ma anche a identificarsi in un gruppo, e da questo anche in un destino. C’è comunque, da qualche parte, un destinante più forte e grande che decide del tempo, una dimensione che trascende quella del destino sulla “terra”. Viene così recuperato un qualche senso della sopravvivenza stessa e della sua ‘direzione’.

Altro luogo in cui si condensa il racconto di Béatrice, altra immagine che ritorna, è quella dei campi per rifugiati, veri e propri inferni dove i bambini e le donne incinte muoiono come mosche:

Arrivammo a Tingi-Tingi in sette. Il campo era costruito su

una palude instabile, “tingi-tingi” nella lingua locale dei Kumu. Quando pioveva, il terreno si gonfiava emanando un caldo soffocante. Era un clima perfetto per la proliferazione delle zanzare e di ogni tipo di microbo. L’acqua era di un colore giallastro sporco. Le prime settimane nel campo, prima che giungessero gli aiuti umanitari, furono l’Inferno […] La salute dei rifugiati era già compromessa dalle lunghe marce e dal cibo scarso. In quella sozza palude, vennero sterminati da epidemie di malaria, dissenteria e colera. Morivano come mosche. Ogni giorno seppellivamo più di cinquanta persone, per lo più bambini e donne incinte […] Quando ripenso a quel periodo, non riesco a capire come siamo riusciti a sopravvivere (Umutesi 2004: 143-145, trad. mia)

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In poche righe è riassunta la discesa nell’inferno,

che qui diventa una sozza palude puzzolente infestata da malattie e insetti. Colpisce innanzitutto l’immagine di questa terra che ha vita propria, vero e proprio agente opponente: si muove, si gonfia, emana calore: è soffocante e al tempo stesso del tutto instabile, in ogni caso mostruosa. In questo luogo infernale e soprattutto sporco, infestato, nuovamente i soggetti non possono che morire, a loro volta come insetti. Denis Bertrand5, analizzando il testo di un’altra esperienza estrema, nota come a volte si restituisca il passato attraverso forme di presenza del senso in cui vi è contemporaneamente l’iscrizione di una assenza. L’interpretazione e i percorsi figurativi suggeriti da determinate immagini comprendono cioè anche quello che non viene detto, ma verso cui l’immagine tende, o che ci nasconde, ma in modo esplicito. Nelle righe che seguono la descrizione dell’inferno il soggetto scompare per debrayarsi nei “rifugiati”, assenza che si comprende grazie all’ultima affermazione: “non riesco a capire come siamo riuscito a sopravvivere”, e cioè grazie al distacco totale dalla propria coscienza di sé. E la ripetizione della figura della morte ci parla invece dei vivi e di ciò che a loro accade: “le persone morivano, e noi li seppellivamo”. Il racconto non dice altro, ma nello scarto tra queste due azioni ciò che è assente e quindi presente è la disperazione, l’assenza stessa di una condanna, l’evidenza che a morire sono i più deboli, la fragilità e l’apparente inutilità della potenza della vita, in altre parole come l’intera realtà umana, per quanto disperatamente presente nei gemiti e nei lamenti di cui qui non si racconta, fosse resa invisibile e inudibile. In questo modo il testo forse ci restituisce quella che, sempre Bertrand, chiama una “emozione etica”, distinta da una estesica, mostrandoci non solo lo sporco e il mostruoso, ma il vuoto stesso che si era ‘riversato’ nelle vite dei rifugiati. Violenze postcoloniali

Ma che cosa accade quando a parlare sono i carnefici?

Si tratta di un tema meno affrontato, benché non meno problematico: può infatti chi commette il male risultarne altrettanto traumatizzato? E può in ogni caso la sua ‘esperienza’ venire raccontata e rappresentata adeguatamente? Molto spesso la parola degli esecutori delle carneficine e dei genocidi viene ricondotta entro la

5 Mi riferisco sempre alla relazione di Bertrand (cfr. nota 1). Si veda anche Coquio 2004.

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formula forse troppo abusata della ‘banalità del male’, o comunque ricondotta entro strategie volte non tanto ad affermare la responsabilità di singoli, quanto a negarla (Cohen 2002), o comunque a ricondurla entro logiche più ampie, entro ragioni storiche che fungono da memorie parziali, ma comunque collettive, entro cui la violenza trova se non la propria giustificazione, per lo meno una sua narrazione, un suo chiarimento, l’inserimento in una catena di cause ed effetti. Benché non sia qui possibile approfondire questo aspetto, mi sembra in ogni caso interessante ciò che sulla violenza suscitata dal conflitto etnico ha scritto Federico Montanari, secondo cui “la violenza…diviene un modo praticabile di produrre altrimenti: di costruire e formare gruppi e reti di interessi. Più in generale…la violenza va considerata una sorta di mezzo di espressione, diciamo così, di istanze come quelle del ‘fare gruppo’, del mantenere il controllo sui ‘propri’” (Montanari 2004: 293). Montanari peraltro definisce la reciprocità dello schema violenza/contro violenza come un lascito del colonialismo che, a livello semiotico, può leggersi come uno schema narrativo di azione il quale, se attivato, agisce nel tempo come rappresentazione efficace. Questo è sicuramente successo in Ruanda, dove l’incomprensibilità del genocidio diviene non tanto accettabile o risolvibile, quanto per lo meno descrivibile, se si considera l’estrema efficacia dell’ideologia e della propaganda anti-Tutsi (e poi anti Hutu) che, diffusa in particolare dalle radio nazionali, ha preceduto lo scoppio di una violenza inaudita diretta contro vicini di casa, contro persone con cui si era condiviso cibo e birra fino al giorno prima, neonati, donne, vecchi, bambini.

Per fare un esempio lascio la parola a uno dei molti esecutori dei ripetuti genocidi ruandesi, Adalbert Munzigura, che racconta: “Le autorità ci avevano preparato a dovere. Abbiamo sentito che eravamo rimasti tra di noi. Non abbiamo pensato neanche per un attimo di poter avere delle noie o delle punizioni. Dopo che l’aereo [del presidente Hutu] è precipitato, la radio ha cominciato a martellare (…) per la prima volta nella nostra vita non ci sentivamo più sotto la dura sorveglianza dei bianchi (…) e così, al segnale di via, siamo partiti” (in Hatzfeld 2003: trad. it. p. 105).

Jean Hatzeld, giornalista francese che ha raccolto tali testimonianze, commenta inoltre: “in Germania e in Ruanda, un efficace rodaggio precedette la decisione formale dello sterminio. Come se quest’ultima fosse troppo inconcepibile per venire enunciata ad alta voce prima di essere già stata messa in pratica” (ibidem: 66-7). Questa ‘idea’, legata a una memoria manipolata dai governanti Hutu, che inveivano contro i Tutsi definendoli scarafaggi,

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persone inaffidabili e avare, a loro volta oppressori e carnefici, preparata dalla radio e da anni di propaganda, è stata dunque molto più forte di qualsiasi ‘realtà’, come racconta ancora un altro esecutore, Pio: “Io non so perché ho cominciato a detestare i Tutsi (…) non provavo alcun particolare imbarazzo in loro compagnia. L’avversione si è presentata all’improvviso, al momento delle carneficine, e io mi sono adeguato per imitazione e convenienza” (ibidem: 246). E allora, come sintetizza Alphonse Hitiyaremye: “Uccidevamo tutto ciò che scovavamo tra i papiri. Non c’era da scegliere, da sperare o da temere per nessuno in particolare. Facevamo a pezzi i conoscenti, facevamo a pezzi i vicini, facevamo a pezzi e basta” (ibidem: 136). Il contagio passionale è immediato. Potenza della mimesis, e di posizioni (soggettive) già pronte.

Ciò che emerge da questi racconti è in ogni caso come, in una società dove la vita è caratterizzata dalla quotidianità della violenza fisica e del conflitto, non vi sia più un’opposizione automatica tra guerra e pace, stato di natura e vita sociale organizzata. L’ordine, inteso come routine, regolarità, prevedibilità, quotidianità, “presente”, si organizza intorno non solo alla pratica, ma alla prospettiva (narrativa) stessa della violenza, che si adatta ai ritmi di vita locale. Hatzfeld non a caso parla del genocidio ruandese come di una carneficina rurale, distinta da una di tipo urbano, e cita (ibidem: trad. it. p. 76) alcuni studi sull’Olocausto i quali hanno individuato quattro fasi nello svolgimento del genocidio degli ebrei: l’umiliazione e la perdita dei diritti delle vittime, l’individuazione e la marcatura, la concentrazione e la deportazione, e, infine, l’annientamento, l’eliminazione totale. E aggiunge: “Queste tappe erano il portato del processo di urbanizzazione e d’industrializzazione che aveva investito i paesi in cui avveniva il genocidio (….) Nel Ruanda rurale, il processo del genocidio salta la seconda e la terza tappa – la marcatura e il concentramento – perché non erano necessarie proprio a causa delle relazioni di vicinato tra gli abitanti”. Il racconto si concentra sulla perfomanza: sull’umiliazione delle vittime e sulla privazione dei loro diritti, e quindi sull’eliminazione: il racconto rurale non ha bisogno di altre fasi.

Il libro di Hatzfeld è il frutto di ripetuti colloqui condotti con nove “esecutori” del genocidio in Ruanda, al momento delle interviste (gennaio-marzo 2003) detenuti in attesa di processo. Di questo testo risulta particolarmente interessante quel che l’autore sostiene a proposito delle confessioni dei carnefici, se lo si prova a comparare con ciò che nei paragrafi precedenti ho accennato sulla possibilità di raccontare il male: “vado

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al penitenziario intuendo che le conversazioni all’interno della prigione saranno (…) faticose e inutili”. Ma “sin dai primi incontri la discussione con i prigionieri si rivela di natura diversa, molto più diretta e concreta (…) evidentemente, più gli Hutu sono liberi sui loro terreni, meno lo sono rispetto alle parole. Inversamente, più le mura della prigione sono spesse e più riescono a incoraggiare i racconti, impedendo che i loro autori siano esposti alla riprovazione da parte delle vittime” (Hatzfeld 2003: 145). Inoltre, l’autore sostiene l’importanza di aver scelto di intervistare e far confessare un gruppo di persone unite, che si conoscono e già si accettano, e che hanno tempo, tra un incontro e l’altro, di consultarsi e di affrontare insieme i “propri ricordi di uccisori” (ibidem: 146). Gli uccisori riescono a raccontare proprio perché non sono costretti in certi ruoli, sia attanziali, sia tematici, perché non divengono carnefici, e non vengono guardati o giudicati dalle vittime. Inoltre, la loro memoria diventa quella di un attore collettivo attraverso cui viene rielaborata l’esperienza dei singoli.

Sia la narrazione di Béatrice Umutesi, sia le parole

dei carnefici, sono comunque riconducibili alla narrazione di traumi e violenze frutto di terribili e purtroppo contemporanee biopolitiche, capaci di straziare il corpo non solo di singoli, ma di intere nazioni. E la biopolitica si serve di strategie narrative attraverso cui cerca di arrivare a una normativizzazione assoluta della vita grazie al dispositivo della doppia chiusura del corpo (Esposito 2004), e cioè alla pratica innanzitutto discorsiva e ideologica attraverso cui il soggetto viene incatenato al proprio corpo, che conseguentemente è incorporato in quello più ampio di una comunità etnica. Sono queste, allora, alcune delle nuove narrazioni che inquadrano l’esperienza di un processo di globalizzazione che è sempre di più globalizzazione della violenza e dei conflitti? Mi sembra rilevante, per concludere, riportare alcune riflessioni di Arjun Appadurai (2005), secondo cui la violenza etnica è un dispositivo per produrre persone, una modalità ritualizzata per concretizzazare la propria appartenenza nel quadro di un sistema di identità etniche divenute ostili: “quanto più popolazioni di vaste dimensioni si trovano a occupare spazi sociali complessi, e quanto più i tratti culturali primari (abbigliamento, stili linguistici, modelli residenziali) si rivelano indicatori inadeguati dell’appartenenza etnica, tanto più si assiste a un aumento della ricerca di segnali ‘interni’ o ‘nascosti’ della vera identità delle persone” (Appadurai 2005: 59-60).

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Il corpo diviene il luogo ove risolvere l’incertezza attraverso forme brutali di distruzione. L’incertezza categoriale portata dalla globalizzazione è ciò che produce le violenze dell’etnocidio, in cui le identità collettive sembrano aver bisogno di un teatro del corpo. Oggi, quindi, i vincoli della globalizzazione sono “forze che implodono sulle località, deformandone il sistema delle regole, riconfigurandone le politiche [….] la scomparsa praticamente totale perfino della retorica di un’economia nazionale (…) rende quello della cultura il principale campo dove possono attecchire fantasie di purezza, autenticità, confini e sicurezza” (ibidem: 62). Lo stato nazionale è ridotto alla dimensione fittizia del suo ethnos, risorsa culturale estrema su cui esercitare il dominio assoluto, entro non tanto uno scontro di civiltà quale quello prefigurato da Hungtinton, ma una ‘civiltà degli scontri’; scontri che dopo l’11 settembre procedono con una duplice mossa: globalizzano i capri espiatori interni, e localizzano i nemici fisicamente distanti, nutrendosi di un odio a distanza fomentato innanzitutto dalle immagini dei mass media. Non si tratta quindi di andare a vedere solamente come si narra la violenza subita e quella perpetrata, ma anche quella progettata e immaginata. Nella produzione di questi discorsi, uno dei problemi centrali a mio parere rimane quello dell’articolazione della memoria individuale in quella collettiva, che è un po’ come dire dell’esperienza in una narrazione di testimonianza o di violenza che entra immediatamente in un discorso sociale, e viceversa, delle strategie (narrative) che ne permettono la compenetrazione, oppure l’estraneità, la ricongiunzione, o la constatazione di uno scarto incolmabile6.

6 Tali questioni si collegano parzialmente a quelle avanzate da Cinzia Bianchi e Valentina Pisanty sulla comunicazione politica, in particolare sul ruolo che in essa vi gioca il meccanismo di costruzione identitaria e i processi di identificazione (si vedano quindi i loro interventi su questo stesso sito).

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Data di pubblicazione on line: 20 marzo 2007.