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1 raccontare e raccontarsi per socializzare ricordi, narrazioni ed esperienze di vissuto personale e collettivo

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raccontare e raccontarsi per socializzare ricordi, narrazioni ed

esperienze di vissuto personale e collettivo

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Cosa significa, per noi, essere raccoglitori volontari di testimonianze e

narrazioni personali e sociali?

Abbiamo scelto di intraprendere il sentiero di “raccoglitori volontari” di

testimonianze e narrazioni, dopo diverse esperienze sul campo, accompagnate da una

rigoroso e corretto utilizzo dello strumento autobiografico. Più andiamo avanti in questo

appassionante lavoro volontario, più ci rendiamo conto che ci appartiene quale vocazione

profonda, che richiede di mettere in gioco la nostra capacità empatica e la nostra

consapevolezza del delicato equilibrio relazionale, insito in quello spazio/non spazio che

si crea tra colui/colei che narra la propria storia e colui/colei che la raccoglie.

Percorrere i sentieri, non sempre lineari della memoria personale e collettiva, è

come affacciarsi, in punta di piedi, su spaccati di vita e di spazi temporali sia ritrovati che

sconosciuti sino a quel momento, nei quali risonanze interiori e collegamenti con

l’ambiente, ove la storia si è svolta o si sta svolgendo, rendono unica ed irripetibile ogni

narrazione. E’ in questo percorso che abbiamo sperimentato appieno la serendipity,

ovvero la magia di scovare sentieri non previsti dal nostro progetto ma legati alla

memoria collettiva, mentre si sta lavorando su quella individuale.

Rivivendo l’esperienza di questo laboratorio presso la Comunità di San Frumenzio

che da molti anni si occupa di rendere vivace e ricco di scambi culturali la vita degli

anziani, ci rendiamo conto di quanto ne stiamo uscendo arricchiti di emozioni, affetti e

legami, che possono rendere ancor più ricco e sfaccettato il lavoro volontario che

abbiamo scelto di fare. Perché nei nostro laboratorio sulla “memoria condivisa” ci siamo

donati, a vicenda e senza remora alcuna, immagini mentali del passato, del presente ed

anche del futuro, canti non del tutto dimenticati, modi di dire, timori, speranze e

delusioni, sapori e profumi, vivi nel ricordo di ciascuno di noi, che finalmente abbiamo

potuto liberamente far emergere e condividere.

Abbiamo potuto ritrovare la freschezza del nostro io bambino, la sapienza del

nostro io adulto e l’accoglienza del nostro io genitore, fratello, sorella, padre, nonno e

nonna. Abbiamo sperimentato quanto, in età non più verde, si possa essere capaci di

narrare agli altri, traendone gioia e voglia di esserci, quello che nessuno potrà mai rubarci:

i personali, unici, irripetibili ricordi della nostra vita, dei nostri luoghi e del nostro tempo.

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“In guerra, qualunque parte possa vantarsi di aver vinto, non ci sono vincitori, tutti sono perdenti” (Neville Chamberlain)

Questa raccolta di testimonianze e narrazioni è stata postata sul sito della Libera

Università dell’Autobiografia di Anghiari (l’Approdo di Ulisse – buone pratiche e

progetti portati a termine) nell’anno 2015 quale buona pratica territoriale replicabile,

a disposizione di coloro che la riterranno interessante, ne vorranno fare tesoro e

magari trarne spunto per qualcosa di simile o magari anche…. migliore

Contiene le storie individuali che, nell’essere narrate, raccoglievano arricchimenti

personali (relativi sia a periodi storici che a sensazioni ed emozioni) anche degli altri

partecipanti. Quindi ricordi riattualizzati e ricollocati anche collettivamente. Alla fine

di questa raccolta, anche alcune condivisioni di testi collettivi e giochi che hanno

portato i partecipanti ad immaginare come potrebbe essere il futuro dei loro nipoti e

dei bambini che verranno, ed a scrivere loro una lettera quale passaggio di testimone.

AnnaMaria Calore

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UNA FAMIGLIA DI 48 FAMIGLIE

ELDA RACCONTA

La casa di San Lorenzo dove abitava Elda…..

Tra noi e l’inferno o tra noi e il cielo non c’è che la vita, che è la cosa più fragile del mondo

Blaise Pascal (1623-1662)

Mi chiamo Elda, e sono nata il giorno20 luglio. Nel 1943 avrei compiuto 14 anni. Il giorno

prima, il 19 luglio, giorno del bombardamento di San Lorenzo, dove abitavo con la mia famiglia

vicino alla Chiesa dell'Immacolata, ero rimasta a casa con papà. Mamma era andata a far la spesa

con gli altri tre fratellini, dalle parti di Piazza Vittorio.

Quella mattina mi ero svegliata presto, perché dovevo organizzare la festa del mio

compleanno: mi ero lavata i capelli, avevo messo i bigoudì e stavo preparando un piccolo

rinfresco, perché nel mio palazzo, quando c’era qualche cosa da festeggiare, come pure quando si

verificava un evento doloroso, si partecipava tutti.

Era un palazzo di cinque piani, senza ascensore, uno di quei palazzi con le

loggette/ballatoio che si affacciavano nel cortile interno, come quelle che Vittorio De Sica ha

rappresentato nei suoi film. Si stava sempre lungo le loggette per un sorriso, un saluto, una

chiacchiera… e questo creava un’unione vera tra la gente. Nel palazzo c’erano famiglie di

estrazioni diverse: dal grande giornalista al ladro, dal povero al ricco, quarantotto famiglie in tutto.

Eravamo tutti molto uniti con rapporti di autentico buon vicinato. Quando qualcuno si

sposava, era bello sentire la serenata prima del matrimonio. Noi eravamo una famiglia agiata:

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mamma aveva quattro figli e lavorava con papà, avevamo la tata e la nonna abitava

nell’appartamento vicino.

Quella mattina, sotto casa, c’erano i preparativi per uno sposalizio e lungo la strada, tra via

dei Sabelli, via degli Equi e via dei Latini c’erano posteggiate tante carrozze e tanti landau a

cavalli. Era un momento di grande festa e confusione. Io stavo al secondo piano e sentivo tutti i

rumori della strada.

Verso le 11 principiò a suonare la sirena e poi s’iniziò a sentire la contraerea. Il rifugio era

stato ricavato nelle cantine del nostro palazzo, ma papà non poteva scendere in cantina perché

camminava male con una gamba e nonna, che era molto grossa, non c’entrava con le spalle. Perciò

ci fermammo tutti e tre nella guardiola del portiere. Il bombardamento fu una cosa terribile: si

sentivano le urla delle persone e gli scoppi delle bombe.

Una bomba fece cadere metà del fabbricato dove eravamo, un'altra cadde di fronte e le

altre molto vicino: cinque bombe in tutto. Nel mio palazzo ci sono stati 160 morti, e tutti sono

morti dentro quelle cantine dove pensavano di essere al sicuro.....ricordo che sentii la voce di una

mia amica che gridava aiuto.......... e quelle grida non l'ho più dimenticate!

Quando siamo usciti dalla guardiola del portiere, trovammo il portone di casa bloccato

dallo scoppio delle bombe. Poi un'altra bomba squarciò il portone e potemmo uscire all'aria aperta.

Nonna, che era una donna svelta, mi disse: “Corri, vai a vedere come stanno tutti gli altri”. Perché

i nostri parenti abitavano tutti nelle strade vicino ed io, allora, ho iniziato a correre per tutte le vie

dove sapevo che avrei potuto trovare i miei parenti che, per fortuna trovai, tutti spaventati ma vivi.

A terra c’erano i cavalli, quelli delle carrozze preparate per il matrimonio, feriti o già morti

per le mitragliate e mentre correvo verso il cinema Palazzo a Piazza dei Sanniti, e per le altre

strade del quartiere, trovavo persone morte o ferite, per terra tra tanto sangue, che gridavano ed

imploravano aiuto.

Quanto sangue ho visto mentre i miei piedi, chiusi dentro le scarpe, mi portavano per le

strade del quartiere... e correvo …. correvo.... correvo..... queste sono cose che si ricordano per

sempre......

Nel frattempo mamma aveva trovato riparo a piazza Dante, dove c’era il rifugio antiaereo.

Sulla strada del ritorno passò sotto l’arco di Santa Bibiana, con i tre miei fratellini per mano, tutti

più piccoli di me e con la tata. Camminando vedevano solo macerie, morti e feriti. Disperata,

pensava “Cosa troverò?”..... quando girò l’angolo del caseggiato, vide metà del nostro palazzo

caduto giù e pensò che fossimo tutti morti. Invece io stavo con nonna e con papà vicino al portone.

Ci fu, allora, un grande abbraccio, un grandissimo abbraccio collettivo, disperato ed

incredulo nello stesso tempo, quello di una famiglia che si ritrovava viva ed unita!

Poi risalimmo dentro la nostra casa miracolosamente in piedi anche se fortemente

danneggiata ed io ricordo che, lentamente, mi tolsi i bigodini dalla testa e sfilai le scarpe dai piedi,

senza indossarle mai più.

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CRONACHE DI GUERRA

Zio Gilberto

Foto Gilberto bambino e Gilberto anziano

Gilberto era un giovane ragazzo nell’agosto del 1943. Suo fratello Francesco, che

sarebbe poi diventato mio padre, era partito per la guerra come aviatore ed era stato fatto

prigioniero dagli inglesi durante un’azione bellica. Il suo aereo militare era stato colpito ed

obbligato ad un atterraggio di fortuna tra le sabbie del deserto egiziano nel quale era stato

dichiarato, in un primo momento disperso. Francesco aveva una ragazza di Milano di nome Lidia,

che sarebbe poi diventata mia madre. Lidia attendeva trepidante la fine di quella brutta guerra e

manteneva rapporti di corrispondenza con la famiglia di lui: la mamma Elena, il fratello Gilberto

ed il fratello più piccolo di nome Arduino. Le loro lettere, oltre alle comunicazioni sui vari campi

di prigionia dell’Egitto, del Sud Africa e dell’Inghilterra nei quali veniva trasferito il loro caro,

sono vere e proprie cronache di guerra e degli orrori che questa porta sempre con sè. Di seguito la

lettera che Gilberto scrisse a Lidia nel giorno del bombardamento del quartiere San Lorenzo di

Roma.

Roma, 30 agosto 1943

Cara Lidia,

ho ricevuto le tue lettere del 22 e 25 corrente, dalle quali ho appreso il tuo dolore per la

distruzione che il nemico ha barbaramente portato a Milano. Anche i nostri giornali si sono

dilungati a parlarne e han pubblicato molte foto della città, colpita in ogni quartiere e via.

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Roma invece è relativamente poco danneggiata perché solo dei quartieri periferici sono

stati colpiti. Eppure dopo i due bombardamenti, avvenuti ambedue di giorno, lo strazio che ho

provato è indescrivibile.

Mi trovavo nel centro dove non si riuscivano a ben distinguere i colpi delle batterie da

quelli delle bombe, e si stava a guardare il cielo solcato da squadriglie nemiche che altissime

erano inseguite dai colpi delle artiglierie, quando una enorme nuvola di fumo si alzò dai quartieri

S.Lorenzo e Prenestino. Allora mi avvicinai verso il fumo perché un terribile sospetto mi si era

affacciato alla mente. Raggiunsi Porta Maggiore che ancora durava l’allarme però avevan finito

di sparare, e vidi uno spettacolo terribile: un pastificio era in fiamme e un calore insopportabile

si propagava intorno dalla stazione di S.Lorenzo si alzavano fiamme e fumo.

L’attraversai di corsa e raggiunsi Via Prenestina dove lo strazio fu peggiore: case

distrutte, spezzate, frantumate, un enorme polvere di calcinaccio, e strilli, urli, madri che

chiamavano i figli, figli le madri, fratelli le sorelle. Girai sulla Via Casilina e lo stesso spettacolo

mi si presentò agli occhi. I binari del nostro povero tranvetto eran tutti per aria.

Ormai credevo di trovare lo stesso spettacolo anche a Torpignattara e mi misi a correre

come un forsennato. Incontrai delle persone che venivano verso il centro e con il cuore in gola gli

domandai notizie. Torpignattara non era stata toccata. Che sollievo! In quei momenti si diventa

egoisti, mi parve che tutto fosse tornato normale e corsi a casa ad assicurare la mamma che mi

attendeva con le lacrime ali occhi.

Se Milano è tutto ridotto come qui S.Lorenzo lo strazio deve essere assai più grande e il

dolore infrenabile. Però non bisogna mai disperare e vedrai che un giorno anche la Scala e la

Galleria saranno ritornate belle e celebri come prima. La mamma è ancora fuori, e credo che

ritornerà domani o dopodomani.

Saluti a tutti

Gilberto

Gli originali della lettera.

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LA CHIAVE DI CASA

MARILENA RACCONTA

Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno.

Martin Luther King

Mia madre era orfana di guerra, nessuno si ricordava di mio nonno, un bel giovane partito

per la prima guerra mondiale che venne ucciso con un colpo di fucile alla testa. Nonna era giovane

e si era risposata; mamma, ancora piccola, andò a vivere con una zia che abitava a Testaccio.

Proprio lì da ragazza conobbe mio padre e a 18 anni erano già fidanzati. Si sposarono nella chiesa

più bella di Roma, Santa Croce in Gerusalemme, dove sono stata anche battezzata. Durante gli

anni della seconda guerra mondiale mio padre fu chiamato alle armi e ci stette per tutta la durata

della guerra. Mamma si arrangiava come poteva, aveva me piccolina e mio fratello più piccolo di

due anni e mezzo, non avevamo molto da mangiare allora lei si organizzava e andava per i paesi

intorno a vendere la biancheria e quel poco d’oro che aveva, alla borsa nera. Una volta, al ritorno

da quei viaggi, prese tanta acqua e si ammalò gravemente: ebbe la febbre alta, la broncopolmonite

e il tifo nero. Stette malissimo, perse i capelli e le diedero persino l’estrema unzione.

La curavano con gli impacchi di semi di lino sulle spalle, quegli impacchi così bollenti da

far venire le piaghe … Mentre stava in ospedale io, che avevo solo cinque anni, e mio fratello Pino

stavamo con una mia zia e le nostre cugine, Marisa di quattro anni più grande di me e Franca. La

zia lavorava al Poligrafico dello Stato e faceva anche i turni di notte, ricordo che dovevamo stare

buoni tutti e quattro, perché lei spesso riposava durante il giorno. Eravamo quattro bambini e

ricordo la sensazione di solitudine che provavo: non ero ancora capace di pensare a me stessa e già

dovevo pensare a mio fratello.

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La guerra, la famiglia, la mia grande famiglia. Abitavamo tutti vicini, la zia, le mie cugine

Marisa e Franca; ognuno entrava nella casa dell’altro, non si disturbava, non si chiedeva il

permesso, perché la famiglia era tutta la famiglia.

Anche se ero molto piccola, aiutavo come potevo nelle difficoltà che la guerra ci poneva

quotidianamente davanti.

Facevo la fila alla fontana per riempire le bottiglie d’acqua, poi le mettevo dentro a delle

borse grandi e riprendevo la strada di casa con queste pesanti sporte. Ricordo che l’acqua usciva

dalle bottiglie, eppure le borse continuavano a essere pesanti. Ancora mi domando come facessi a

portare a quattro anni tutto quel peso, superiore alle mie piccole forze.

La chiave del portone di casa era grande e importante: ognuno aveva la propria chiave, ma

ogni chiave era capace di aprire tutti i portoncini delle nostre case.

Una mattina ero al parco di Villa Fiorelli insieme a mio fratello e alle mie cugine quando

sentimmo le sirene. Iniziammo a correre, quattro bambini piccoli, già così responsabili di noi

stessi… , andammo verso la chiesa di San Fabiano e Venanzio, dove, sotto ad una specie di

collina, avevano costruito un rifugio. La gente era accalcata nel rifugio, chi strillava, chi non

voleva morire, chi gridava che non voleva fare la fine del topo… erano tutti vestiti con solo quello

che avevano indosso… Io, bambina, pensavo che fosse meglio farla finita subito, purché mi

portassero in terrazza per poter morire sotto il cielo… Quanto tempo ho impiegato per capire che

anche se fossi stata in terrazza, la casa sarebbe crollata e non sarei potuta morire sotto al cielo…

Dentro al rifugio ci accorgemmo che non avevamo più la chiave di casa, uno di quei

chiavoni lunghi che sembravano d’argento. Mi venne istintivo correre fuori dal rifugio per

ritrovare quella chiave che, non solo apriva la mia casa, ma era la chiave di tutti i miei affetti più

importanti.

Ricordo le persone nel rifugio che cercavano di trattenermi, ma io mi divincolai e uscii dal

rifugio, rifacendo la strada in salita. Ero terrorizzata a ripercorrere la strada di corsa, da sola, così

piccola, la paura mi sconvolgeva, ma dovevo tornare indietro correndo, correndo, correndo... e,

finalmente, ritrovai la chiave per terra.

Il mio ricordo è fissato su quella chiave perché, se non fossi tornata indietro a prenderla,

ero sicura che avrei smarrito il senso dei miei affetti e della mia famiglia.

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AUGUSTO RACCONTA: “HO VISTO I TEDESCHI IN FUGA”

Sono nato nel 1937 e, l’anno dopo, il Governo Mussolini promulgava le leggi razziali.

Ero molto piccolo quando l’Italia entrò in guerra e, dai due anni sino ai sette, ho vissuto al

limite della Città di Roma in una zona allora di campagna, tra la Via Aurelia e Via di

Bravetta.

Vivevo presso una famiglia che abitava in una fattoria in mezzo al verde dei campi, con il

giardino, la casa e la vista su di una piccola valle dove serpeggiava la strada che portava

verso la Via Aurelia.

Ricordo poco del periodo bellico. Mia madre mi aveva fatto accogliere da questa

famiglia, perché lei lavorava tutto il giorno. Quando io sono nato, mamma era una valente

pianista, poi ha lavorato presso una società cinematografica ma, durante il periodo della

guerra, è stata assunta in Banca, al posto degli uomini che erano andati al fronte. Un posto

sicuro in un periodo difficile.

Forse mia madre, affidandomi a questa famiglia, pensava che in questo modo sarei stato

protetto. Non so dirlo, perché non abbiamo mai parlato di questo. So soltanto che mio

nonno materno era di famiglia ebraica, che era un violista e che aveva subito persecuzioni

per la sua origine religiosa.

Nella fattoria vivevo sereno, andavo a scuola insieme ai figli della coppia che mi ospitava

e tutto sommato, per me la guerra era una cosa lontana.

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Una mattina della metà di luglio, mi sveglio con un terribile mal di pancia, febbre e

brividi in tutto il corpo. Dapprima in casa pensarono che avessi mangiato qualcosa che mi

aveva fatto male, ma con le ore che passavano, la situazione peggiorava sempre di più.

Chiamare un medico in tempo di guerra ed in una fattoria tra i campi non era cosa

semplice, ma ebbi fortuna. Un medico, che stava girando per alcune visite nei paraggi

utilizzando la sua auto, fu rintracciato e venne al mio capezzale. La diagnosi fu peritonite

acuta, con necessità immediata di ricovero.

Mi portarono così all’ospedale “Bambin Gesù” al Gianicolo, mi operarono con urgenza e

mi misero in un lettino, con le braccine legate con della garza alle paratie del letto, per

impedirmi di toccare la ferita.

Fu così che vidi il bombardamento di San Lorenzo. Di fronte al mio lettino c’era un

grande finestrone che affacciava, dal Colle Gianicolo, verso la Città di Roma, la quale

appariva tutta raccolta sino all’orizzonte, oltre il quale si intravedevano dei monti. Sentii

un gran trambusto e delle voci provenire dal corridoio della camerata nella quale stavo.

Arrivarono un medico ed un’infermiera che si precipitarono verso il finestrone per vedere

cosa stesse accadendo.

Da dietro le loro figure, chinate sul davanzale, vedevo fuochi nel cielo e sulla terra, boati,

rumore di bombardieri fumo e scoppi terrificanti. Non mi potevo muovere per via delle

bende di garza che tenevano imprigionate le mie braccia e quella scena del

bombardamento, con me prigioniero delle bende, non la dimenticherò mai.

Tornai a casa salvato dalla peritonite e la mia vita di bambino ricominciò come sempre,

con i miei fratelli acquisiti, nella famiglia che mi ospitava.

Nell’estate dell’anno successivo, un giorno di giugno, vedemmo dalla nostra casa che

guardava verso la valle, dove passava la strada che portava verso la Via Aurelia, una

lunga fila di camionette tedesche in fuga. Procedevano lentamente ma inesorabilmente

verso il nord, cercando di sfuggire all’arrivo degli alleati.

Avevo sette anni, ma capii che la guerra stava per finire e che quelle scene terrificanti

degli aerei che bombardavano il cielo e la terra di Roma, forse, non le avrei più riviste.

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UNA BAMBINA IN TEMPO DI GUERRA

Alberta Montanari Racconta (stralcio)

Sono nata nella primavera del 1938 e quando l’Italia entrò in guerra, vivevo a Roma con

mia madre, mio padre e mio fratello più piccolo, Arrigo.

Mio padre partì per l’Africa e mia madre, rimasta sola, portò me e mio fratello da suo

padre, ad Ancona. Nella casa del nonno vivevano anche la sorella di mia madre Egle con i suoi

bambini, Pietro e Isabella. Il marito di zia Egle era stato fatto prigioniero dagli inglesi in Egitto

(allora possedimento inglese) dove lavorava come ingegnere portuale in un’impresa italiana.

Purtroppo Ancona fu tra le città più bombardate d’Italia.

Per metterci al sicuro mamma e zia presero una casetta a Marzocca (frazione di Senigallia).

Davanti a casa c’era una spiaggia di sassi con cui noi bambini facevamo le costruzioni perché in

tempo di guerra non si trovavano giochi. Un pomeriggio inoltrato uscimmo da soli per andare a

prendere dei ciottoli sulla spiaggia. Faceva freddo ma il tempo era bellissimo, il mare calmo e

trasparente, il cielo azzurro azzurro. Era il tramonto e lontano sulla spiaggia vedevamo i pescatori

che tiravano a terra le reti con i pesci. Stavamo scegliendo i sassi quando sentimmo il rumore di un

aereo. Era piccolo e brillava e mentre si abbassava sentimmo una serie di spari secchi e ravvicinati

e i sassi saltavano per aria tutt’intorno: dall’aereo stavano sparando proprio su di noi con la

mitragliatrice.

Corremmo come disperati verso il mare tuffandoci sott’acqua.

Trattenevo il fiato quanto più potevo perché avevo paura che se fossi uscita troppo presto

mi avrebbero sparato ancora.

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A un certo punto non ce la feci più e tirai un po’ fuori la testa, solo gli occhi e il naso per

respirare.

Era il tramonto, in basso si vedeva una striscia rosa di cielo. E contro quel rosa si

stagliavano le figurine blu dei pescatori che tiravano la rete. Vidi l’aereo abbassarsi verso di loro e

quelle figurine cadere lentamente una a una.

Poi l’aeroplanino si alzò verso il cielo, diventò un punto luminoso e scomparve. Tutto nel

più assoluto silenzio perché avevo le orecchie dentro l’acqua. Urlai e la bocca mi si riempì di

acqua gelata. Mi sembra ancora di sentire quel silenzio terribile e la sensazione di gelo nella gola.

Dopo di allora non riuscii più a urlare di paura perché mi si ghiacciava la gola e la voce non

usciva.

Poi davanti a me uscì dall’acqua Isabella, ci guardammo e senza parlare tutte e due ci

mettemmo in cerca di Arrigo. Funzionava così tra me e Isabella, ci capivamo con una sola

occhiata e facevamo tutt’e due la stessa cosa.

Isabella si guardava intorno e lo chiamava a voce sempre più alta. A me si era bloccata la

voce. Sapevo che avrei dovuto buttarmi sott’acqua per ritrovare Arrigo ma avevo paura di quella

sensazione terribile di gelo e di silenzio che avevo provato prima. Dovevo ritrovarlo, toccava a me

pensare ad Arrigo che era piccolo perché mamma doveva occuparsi anche di tutti gli altri.

Mi sentivo così vigliacca e colpevole per non avere la forza di tuffarmi e mi misi a tastare

il fondo del mare con le braccia, speravo di trovarlo e di riportarlo a galla, poi di colpo, come

spinto da una molla, Arrigo saltò su dall’acqua, senza ansimare e senza l’aria spaventata.

Lui era così, niente gli faceva paura. Aveva gli occhi spalancati e un’espressione buffa

mezza arrabbiata e mezza sbalordita come a dire «ma che diavolo è successo?»

Mi si allargò il cuore mi venne quasi da ridere, ritrovai la voce e anche le orecchie

tornarono a funzionare. Solo allora sentii mamma e zia Egle che correvano verso di noi

chiamandoci tante e tante volte a voce sempre più alta. Dietro di loro veniva anche Elide. Ci

presero e ci abbracciarono stretti, poi mamma vide quelle figurine azzurre dei pescatori buttate

come stracci sulla spiaggia. Affidò me e Arrigo a zia Egle che ci consolava sempre e si mise a

correre verso di loro.

Poi non si parlò più di quello che era successo ma io continuavo a chiedermi perché quel

piccolo aereo era sceso apposta per mitragliare noi bambini. Era chiaro che voleva colpirci, le

pallottole della mitragliatrice avevano fatto schizzare in frammenti i sassi intorno ai nostri piedi e

si erano fermate solo quando ci eravamo buttati sott’acqua.

Molti anni dopo seppi che un certo ammiraglio inglese, aveva studiato un piano chiamato

di ‘dissuasione psicologica’ che consisteva nel mitragliare non i militari, ma i bambini e le persone

per strada e buttare bombe incendiarie su città d’arte come Dresda in Germania.

Il generale pensava che i governi italiano e tedesco per salvare la loro popolazione

avrebbero smesso di bombardare le città inglesi. Ma Hitler e Mussolini non si curavano della

popolazione. Le persone per loro non contavano, erano come carte da gioco.

L’Inghilterra era stata costretta dalla Germania a entrare in guerra e lottava per la libertà

sua e di tutti noi. Era bombardata notte e giorno, ospitava profughi da tutta l’Europa salvandoli

dalla persecuzione nazista, non aveva aerei, bombe e soldati sufficienti a far fronte alla Germania.

Solo la disperazione e la rabbia l’avevano portata ad accettare il piano dell’ammiraglio inglese.

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Il brutto della guerra è che spinge persone normali a fare cose terribili come decidere di

sparare sui bambini. Solo le persone comandate dalla coscienza come nonno Socrate, non si

facevano cambiare dalla guerra.

Poi bombardarono la ferrovia dietro la nostra casa di Marzocca. Le ferrovie venivano

continuamente bombardate perché portavano soldati, armi e cibo per il fronte.

Così tornammo ad Ancona che subiva più bombardamenti al giorno e dove non si trovava

da mangiare.

In quel periodo i tedeschi davano la caccia agli ebrei e li deportavano nei campi di

sterminio. Deportavano anche chi li aiutava e li nascondeva.

Mamma e zia Egle erano amiche, dai tempi della scuola, di una famiglia ebrea, gli Ascoli,

che aveva una villa a Montemarciano e cercava qualcuno che nascondesse dei loro parenti: una

giovane madre Ester e il suo bambino Davide.

Così mamma propose un patto agli Ascoli.

Lei avrebbe fatto finta di prendere in affitto la loro villa di Montemarciano che risultava

disabitata, e avrebbe tenuto con sé nascosti Ester e Davide.

Così andammo nella grande villa degli Ascoli.

«Era bellissima con un gran cancello di ferro battuto che si apriva su un lungo viale che

portava a una grande villa circondata da un giardino.

Lì ci aspettava Ester con Davide in braccio, ci abbracciò a tutti.

Ci avevano assegnato delle belle stanze e noi bambini potevamo giocare dappertutto con la

sola eccezione del salone che era grande e con tanti tappeti, quadri e divani eleganti.

Dietro la villa dopo il giardino, c’erano le case coloniche dove abitavano i contadini.

Andavamo spesso a giocare con i bambini che vivevano lì che erano però dispettosi. Infatti

il mio nome li faceva ridere e, ogni volta che mi vedevano, cantavano in coro «Alberta bertuccia

butta la banana e mangia la buccia!». Non potevo neanche picchiarli perché erano più grossi di

me. Qualche volta giocavamo con loro e qualche volta ci litigavamo.

Non ricordo se Pietro giocasse con i ragazzi più grandi ma di sicuro non ci litigava. Lui

andava d’accordo con tutti e non faceva mai storie.

Stavamo bene a Montemarciano, non bombardavano, c’era abbastanza da mangiare, tanti

posti per giocare e mamma e zia Egle erano contente per la compagnia di Ester e Davide era un

bambino molto carino.

Una mattina, ci eravamo appena svegliati quando mamma arrivò di corsa e ci portò in

camera sua.

Era la camera con il letto matrimoniale dove dormiva con zia Egle; c’era un tavolino con lo

specchio, i rossetti e le ciprie. Mamma cominciò a spazzolarsi e truccarsi e intanto parlava con la

sua voce bassa e determinata.

Ci spiegò che stavano arrivando i tedeschi e che se sentivano il nome di Sara o di Davide

diventavano pazzi e li portavano via in Germania.

Noi dallo spavento ci infilammo sotto il letto e io chiesi «Ma i nostri nomi vanno bene?».

«Certo» rispose mamma «se sentono i nostri nomi stanno tranquilli». Ma se diventavano

pazzi solo a sentire un nome, come facevamo a fidarci?

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Intanto mamma finito di truccarsi, si infilò un vestito elegante e si mise le perle. Da sotto si

sentì il rumore del portone che veniva spalancato e delle voci che parlavano in tedesco.

Mamma si alzò e si avviò verso la scala che portava a pianterreno, noi a gattoni la

seguimmo e ci sdraiammo sul ballatoio, guardando attraverso la ringhiera. Mamma scese

lentamente con la schiena dritta e a testa alta. In basso alcuni soldati tedeschi si erano fermati e la

guardavano. Mamma si fermò a metà della scala e con la sua voce calma e decisa disse: «Sono la

moglie di un ufficiale italiano che è in guerra per la sua patria come lo siete voi e per questo vi

chiedo di trattare me e i miei figli con rispetto comportandovi come soldati che hanno il senso

dell’onore. Così come vorreste che si comportassero i russi se riuscissero ad arrivare in

Germania».

Ci fu silenzio. Il tedesco piccolo con gli occhiali si strinse nelle braccia e chinò la testa. Poi

disse in italiano «Sarete trattati con rispetto. Vi lasceremo le camere e la cucina e occuperemo solo

il pianterreno».

Iniziò a dare ordini e i soldati portarono molti sacchi di sabbia per sbarrare la scala.

Mamma ringraziò e tornò in camera e noi dietro di lei.

Poi sentimmo arrivare dei cavalli al galoppo, corremmo alla finestra e vedemmo dei soldati

a cavallo entrare dalle portefinestre nel salone della villa, quello in cui non potevamo giocare.

Quei soldati a cavallo, avevano la pelle gialla, gli occhi allungati all’insù e dei baffi lunghi, lunghi

e sottili che gli arrivavano al bavero della giacca. «Sono i tartari» disse mamma, noi non

sapevamo neanche che esistessero, e aggiunse «Non nominate mai più Sara e Davide Ascoli».

Noi bambini uscimmo usando la scala esterna e in cucina facemmo colazione poi

andammo a giocare alle case coloniche.

Lì sul ballatoio di una delle case c’era Sara vestita con un grembiule e un fazzolettone che

le copriva i capelli e teneva Davide in braccio avvolto in una specie di pezza. Rimasi sbalordita

perché Sara era sottile e sempre elegante e sembrava assurdo vederla con quel fazzolettone.

Il giorno dopo Sara e Davide non erano più alle case coloniche. Quel giorno continuavo a

chiedermi: se questi tedeschi diventano pazzi per nomi così comuni come Davide e Sara cosa

possono fare quando sentono i nomi della nostra famiglia Socrate, Spartaco, Zaira? E il mio nome

che anche gli abitanti delle case coloniche non sopportano? Allora decisi che non avrei mai detto il

mio nome.

Ma c’era un soldato tedesco tanto gentile che mi fece vedere le fotografie dei suoi bambini

e mi disse di chiamarsi Albert, allora gli confidai di chiamarmi Alberta e lui si mise a ridere. Mi

prendeva in braccio, mi metteva in alto sui sacchi di sabbia e poi diceva «Eine, swein, stukas!». Io

mi buttavo con le braccia aperte, lui mi prendeva al volo e mi faceva girare come fossi stata un

aereo.

Quando giocavamo in giardino e c’erano anche mamma e zia Egle, il comandante tedesco,

quello con gli occhiali che si chiamava Rudolf e parlava italiano perché aveva studiato arte a

Firenze, veniva a sedersi e parlava con noi bambini. Mamma e zia Egle, infatti, non volevano dare

confidenza ai militari.

Rudolf ci diceva, in modo che mamma e zia Egle sentissero, che lui veniva da una famiglia

di soldati e che combatteva solo contro altri soldati non contro donne e bambini.

Adesso capisco che intendeva rassicurarle sulla sorte di Ester e Davide e sulla nostra. Ma

allora io lo prendevo alla lettera, lui non combatteva contro i bambini ma sapeva che gli altri lo

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facevano, così capii perché l’aereo ci aveva mitragliato e perché lanciavano sempre bombe dove

stavamo.

La guerra era contro i bambini.

Quando lo dissi a mamma lei si preoccupò. Pensava che per una bambina era terribile

pensare che eserciti in armi si muovessero contro di lei e, naturalmente, mi diceva che non era

vero. E io ribattevo: «Ah sì? Ci tolgono i papà, ci bombardano, ci mitragliano, vogliono portare un

bambino in Germania solo perché si chiama Davide e la guerra non è contro i bambini? La guerra

è contro i bambini».

Ora so che la guerra non era contro i bambini però i bambini sono sempre le prime vittime

di una guerra. So anche che Rudolf da soldato con il senso dell’onore, salvò la vita a tutti noi e

così voi nipoti siete potuti nascere dai nostri figli.

Alberta Montanari

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STORIE DI ORDINARIA BUROCRAZIA

Ci sono tre tipi di intelligenza: l'intelligenza umana, l'intelligenza animale

e l'intelligenza militare. (Aldous Huxley)

Antonietta racconta

Intorno ai miei 18 anni mi è arrivata la cartolina per presentarmi a fare il militare; io non

c’ho creduto, non gli ho dato importanza… Dopo un po’ di tempo me n’è arrivata un’altra, ma io

stavo tranquilla, non ero Antonio, mi chiamo Antonietta.

La terza cartolina me la portarono direttamente i carabinieri, i quali mi avrebbero arrestato

se non mi fossi presentata in caserma. Con l’aiuto di mia sorella sono andata in Via Paolina, a fare

la visita medica. Io ero una studentessa di stenodattilo e contabilità e in quel posto erano tutti più

grandi di me. Non vi dico le battute e l’ironia che hanno fatto i militari presenti, quando mi hanno

visto arrivare! Poi, però, mi hanno detto di andare a casa, che ci avrebbero pensato loro a

sistemare la faccenda.

Dopo aver verificato che non ero un uomo, mi hanno cancellato dalla lista di leva e così

per un certo lasso di tempo, durato molti anni, risultavo morta. Me ne accorsi parecchio tempo

dopo, quando andai a chiedere un certificato, un estratto di nascita e mi sentii rispondere:

“Signora, lei non esiste!” Mi sono così arrabbiata! Sono ritornata alla parrocchia di Sant’Assunta,

dove sono stata battezzata e ho chiesto al vecchio parroco Don Parisio il registro con i miei dati.

Grazie a lui ho potuto fare il certificato di stato in vita.

Ma non finisce qui! Dopo un po’ di tempo è risultato che io giocavo ai cavalli e che avevo

perso una intera tipografia… insomma cominciarono a succedermi cose di tutti i colori. Mi veniva

ingiunto di pagare le tasse di case in Sardegna e quisquiglie di questo genere. Insomma, alla fine

ho dovuto cambiare la data di nascita. Quando mi sono sposata, mio padre ha dato in Vicariato una

mancetta ad un impiegato e quello mi ha cambiato la data di nascita. Così si è risolto il problema.

Tutto questo perché quando sono stata registrata all’anagrafe si era rovesciata una bottiglietta

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d’inchiostro sporcando la mia posizione e chi mi ha registrato è stato costretto ad indovinare.

Dopo questa “correzione” anagrafica, tutto è proseguito serenamente ..fino a quando sono andata

in pensione. Infatti all’INPS risultava che avevo 100 anni, avevano scambiato la mia data di

nascita con quella di mio padre!

Annamaria racconta

…anche io non esistevo perché avevo il nome attaccato invece che staccato… quando

gliel’hanno detto a mio padre lui ha risposto: “Come non esiste? Io je sto a da’ da mangià da

vent’anni…”.

Nicolina racconta

Anche a me hanno mandato la cartolina due volte fino a quando non sono venuti anche i

carabinieri. Allora mio padre mi ha accompagnato in Via Paolina, ha dovuto fare una

dichiarazione e abbiamo dovuto firmare che mi chiamavo Nicolina…..

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CESARE, BAMBINO IN TEMPO DI GUERRA, RACCONTA

Il carretto ghiacciaia della Peroni

Sono l’unico maschio nato dopo tre sorelle femmine, Wilma, Germana ed Antonella. E’

nato anche un altro figlio maschio 15 anni dopo di me di nome Fabrizio, quando mia madre aveva

ormai 46 anni.

Mi hanno chiamato Cesare su suggerimento di un cliente di mio padre e dopo che già due

maschietti, erano morti da piccolissimi. Mio padre aveva un negozio di barbiere al numero civico

65 di Via Alessandria e, quando sono nato, voleva mettermi il nome di mio nonno, come aveva

fatto con i due precedenti nati maschi e morti prematuramente. Questo cliente ed amico di mio

padre, che aveva fatto la guerra ‘15/18 ed aveva subito la disfatta di Caporetto, gli disse:

“chiamalo Cesare quest’ultimo nato. E’ un nome forte, importante e vedrai che questo maschietto

sarà robusto e sopravvive”. E così è stato. Ecco il perché di questo mio nome.

Quel negozio di barbiere e l’attività di mio padre è poi passata a me che ne ho fatto un

salone di parrucchiere per donna. Ora, che mi sono ritirato a vita privata, lo gestisce mio figlio

Corrado, continuando la tradizione di famiglia.

Mio padre era molto preciso nel suo lavoro e non voleva che noi bambini toccassimo nulla

nel negozio. Quando il negozio era gestito da mio padre, il civico 63 di Via Alessandria non era

come è adesso. Mio padre aveva aperto il suo negozio nel 1929 e vi si accedeva anche dal portone

del 63 dopo le scale che portavano alla portineria. Se si riuscisse a togliere lo sportello inchiodato

sulla porta a lato delle scale, si leggerebbe ancora la scritta “parrucchiere per signora”.

Il negozio era piccolo e nel cortile, che ancora oggi esiste anche se tutto diverso, non

affacciavano le case di Via Mantova come ora, ed era un cortile molto grande. C’era un locale con

dentro una vacca dove mungevano il latte e lo vendevano ai clienti. Poi con il tempo, è diventato

una vera e propria latteria.

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Il cortile confinava, sul fondo, con la fabbrica del ghiaccio della Birra Peroni. Dalla

fabbrica uscivano delle colonne di ghiaccio avvolte in grandi teli di juta che venivano caricati su

carretti ghiacciaia trainati da cavalli con delle zampe molto robuste.

Quando il ghiaccio veniva consegnato ai negozi che ne avevano bisogno (macellerie,

latterie etc. etc.) le colonne di ghiaccio venivano spezzate a colpi di accetta dall’operaio della

Peroni addetto alla consegna. Noi ragazzini, allora, ci mettevamo tutti intorno all’uomo che

tagliava il ghiaccio perché, con il colpo, saltavano intorno tutti frammenti di ghiaccio che, noi

ragazzini, ci precipitavamo a raccogliere, leccandoli avidamente come se fossero gelati.

La Peroni è stata l’ultima fabbrica ad abbandonare questa zona del quartiere, perché sulla

parete dello stabilimento c’erano diverse bocchette d’acqua proveniente dalla sorgente sotto lo

stabilimento. L’acqua era fresca e buona e la gente veniva per riempire bottiglie e damigiane. La

fabbrica dei Biscotti Gentilini era già dovuta andare in periferia per via del divieto di inquinare

dentro la città, mentre la Birra Peroni continuava ad avere continue deroghe per il fatto che era

difficile trovare un luogo in periferia dove ci fosse tutta l’acqua necessaria per la sua attività. Dopo

tante deroghe, la fabbrica dovette chiudere i battenti e trasferirsi nella periferia di Roma.

Tornando al negozio di mio padre, ricordo di come io e mia sorella, giocavamo ad

“acchiapparella” tra l’ingresso del portone e quello della strada, rincorrendoci lungo le scale, il

negozio e l’androne del palazzo. Giocavamo così, divertendoci come matti per interi pomeriggi.

Dopo le elementari, ho iniziato a fare le scuole commerciali che erano in via Alessandria, dove

adesso c’è un Hotel, all’angolo con Via Reggio Emilia. Non ero bravissimo a scuola e, non appena

sono stato rimandato in alcune materie, mio padre ha deciso di mettermi a negozio per lavorare

insieme a lui.

Papà era un uomo molto elegante, amava gli abiti di classe e le belle camicie. Era così

elegante che lo chiamavano “il Conte”. Tutti questi abiti e camicie su misura, però, se li era

comperati prima di sposarsi e, dopo aver sposato mia madre che faceva la camiciaia, non si è

comperato più nulla. Solo in occasione del matrimonio di mia sorella, lo abbiamo visto acquistare

un abito nuovo per sé! Comperava, però gli strumenti per fare bene il proprio lavoro e li teneva

con molta cura, pulendoli ed asciugandoli continuamente.

Mio figlio Corrado, ce l’ha con me perché ho buttato tutti gli arnesi di mio padre, che

erano oggetti d’epoca e molto belli: arricciabaffi e strumentazione antica da negozio di barbiere,

mi sembravano oggetti superati, ma forse ho sbagliato a liberarmene quando ho rinnovato il

negozio.

Papà amava molto il suo lavoro, andava anche a casa dei clienti per fare barba e capelli e

pure presso alcuni ospedali dove tagliava i capelli ai ricoverati. Però il sogno suo era diventare

parrucchiere per signora, perché era molto bravo a fare tagli alla garçonne. Non l’ha potuto fare lui

e lo sono diventato io, parrucchiere per signora. Per fare questo taglio alla garçonne, che doveva

essere molto preciso, mio padre si recava sino a Via dei Villini dove, se non erro, abitava una sua

cliente, la scrittrice Grazia Deledda, mentre io con il negozio per signora, sono state le clienti a

venire da me.

Durante il periodo della guerra, abitavo a Corso Trieste, all’angolo con Via Corsica e

giravo con i pattini per le strade del quartiere, pur sapendo che se mi incontravano i vigili urbani,

mi avrebbero sequestrato i pattini. Mi ricordo molto bene del bombardamento di San Lorenzo,

anche se ero solo una ragazzino. Ho un ricordo legato ad un odore terribile che aleggiava nell’aria

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di quel torrido Agosto quando, per diversi giorni i volontari, con un fazzoletto legato su naso e

bocca, scavavano tra le macerie per recuperare i cadaveri. Faceva caldo ed i corpi delle persone

uccise dal bombardamento, erano ormai in decomposizione a causa del caldo e rendevano l’aria

irrespirabile impregnata di un forte odore di morte. Quell’odore mi restò nelle narici per giorni e

giorni e non l’ho più dimenticato.

Ricordo anche che trovai nel cortile del palazzo dove abitavo, quattro spezzoni di bombe,

perché una bomba era caduta a via Pola, vicinissima a casa mia. Un’altra bomba era caduta a Via

Messina, vicinissima al negozio di mio padre. Quest’ultima aveva sfondato un palazzo, senza

esplodere. Queste bombe, tutte sganciate sopra San Lorenzo, mi fecero comprendere quanto i

civili inermi potessero pagare il prezzo della guerra. La scuola che frequentavo, era chiusa e

quindi stavo a casa. Ricordo pure che, una mattina girando per il quartiere, vidi in alto nel cielo

sopra il parco Nemorense, aerei militari che cercavano di colpirsi a vicenda. Avevo paura di quel

duello aereo e sapevo che qualcuno di quegli aerei impegnati nel combattimento sarebbe potuto

cadere, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quella scena. Della guerra ricordo tanta paura….. e

tanta fame. C’era un fornaio vicino a dove abitavo che esponeva roba da mangiare da far venire

l’acquolina in bocca. Io guardavo la vetrina insieme a mia sorella che era più grande di me e

piuttosto cicciottella. Ma non osavo chiedere mai cibo. Lei no, lei chiedeva e qualche volta

rimediava pure qualcosa.

Quando arrivavano gli aerei da bombardamento, scappavamo nel ricovero antiaereo sotto il

palazzo dei gerarchi fascisti a Piazza Trento. Sotto quel palazzo c’era un rifugio che passava oltre

Corso Trieste, tutto scavato sottoterra. Se invece i bombardieri arrivavano mentre stavamo a

negozio, ci rifugiavamo nelle cantine di Via Alessandria 63, molto più vicine al negozio di papà.

Nel parco Nemorense c’era un campo militare di tedeschi, un loro comando e, dopo la

liberazione di Roma, nello stesso posto, c’era un comando militare di Americani. La guerra era

fatta così! Un altro comando tedesco era all’interno del Liceo Giulio Cesare e, dopo la caduta di

Mussolini vi si era insediato un comando di soldati italiani sbandati. Una mattina vidi il “Giulio

Cesare” circondato da camionette e da soldati con i fucili puntati. Fecero uscire tutti quei militari

sbandati, li fecero salire sulle camionette e li portarono tutti in un campo di concentramento.

Quando arrivarono gli americani, per noi ragazzini fu tutta una festa. Ci arrampicavamo sui

loro blindati e li accoglievamo con gridi di gioia perché loro ci gettavano, a piene mani, delle

strane caramelle colorate con il buco, che noi non avevamo mai visto. Noi ragazzini capimmo che

qualcosa era cambiato e che la vita poteva ricominciare, da queste caramelle con il buco e dall’aria

gioiosa che si sentiva intorno; c’era voglia di ricominciare a costruire una vita normale.

Con più tranquillità, noi ragazzini, riprendemmo a giocare dentro il canneto, lungo il fosso

di Sant’Agnese dove ora c’è il Quartiere Africano. Allora non c’erano tutte le costruzioni che ci

sono adesso e non c’era neppure il ponte delle Valli. Noi andavano a giocare “agli esploratori”

lungo il fosso sino al fiume Aniene. Non era raro che qualche persona morisse affogata nel fiume,

perché lungo la scarpata che portava all’Aniene, c’erano tutti orti coltivati e l’acqua per annaffiare

si prendeva dal fiume. Anche un ragazzo, un nostro amico poco più grande di noi, morì affogato.

Adesso quel fosso è scomparso, coperto per costruire grandi palazzi.

Quando eravamo stanchi di giocare agli esploratori, andavamo nei giardini a rubare la

frutta. Io non mi ricordo di aver mai rubato e mangiato frutta matura perché la rubavamo ancora

acerba, e quella frutta non arrivava a maturarsi mai. Ma aveva il sapore speciale del rischio e

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quello di una “azione” fatta insieme ai compagni di giochi, perché eravamo un gruppo di amici

affiatati, e perché, se ci prendevano i proprietari dei giardini ci davano un sacco di botte. E dopo

che averle prese, ce ne stavamo zitti zittii! Tornavamo a casa facendo finta di niente e se i nostri

genitori vedevano segni e lividi, dicevamo che eravamo caduti. Se no, ti prendevi un altro

supplemento di ceffoni. Però, vuoi mettere il sapore speciale di quelle nespole verdi, di quelle

albicocche che non arrivavano mai ad essere mature e vuoi mettere il piacere di condividere il

bottino con i tuoi compagni di giochi!

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LA PRIMA COMUNIONE DI MARIA,

IN TEMPO DI GUERRA

Rosaria, la sorellina di Maria

L’abito che indossi lo devi sentire come una seconda pelle.

Allora sì che diventa uno dei modi per comunicare i tuoi sentimenti agli altri.

Sono nata nel 1938 a Castel di Tora, un piccolo paese sul lago del Turano, in provincia di

Rieti, e ho fatto la prima comunione nell’immediato dopoguerra. Non c’era ricchezza in quel

periodo e ricordo che mamma mi aveva fatto il vestito con la stoffa di un paracadute, perché mio

zio, che abitava a Monterotondo, era un paracadutista. La stoffa era di seta e bellissima, ma era

sempre stoffa di un paracadute! Allora mamma, per impreziosirlo un po’, fece delle rose con

l’uncinetto, applicandole tutte intorno sul bordo in fondo all’abito bianco della prima comunione.

Da sotto il vestitino bianco, si vedevano le scarpe di pezza, bianche anche loro come si

usava allora. Al paese mio, le scarpe di pezza venivano cucite dalla signora Anita, una bravissima

donna che sapeva fare miracoli con l’ago. Io non ho un ricordo preciso di quel giorno, avevo solo

sette anni, però mi ricordo il disagio di sapere che il mio vestito era diverso da quello di tutte le

altre bambine.

Ero la terza di cinque fratelli e mia sorella più piccola, Rosaria che ha dodici anni meno di

me, non era ancora nata quando io feci la prima comunione! Quando questo giorno così

importante per una bambina toccò a lei, io già lavoravo perché facevo l’assistente presso uno

studio dentistico a Roma. Con i primi soldi che guadagnai decisi di fare un regalo speciale a

Rosaria: quello di comprarle un vestito per la sua prima comunione. Per acquistarlo, andai al

centro di Roma, vicino al Campidoglio, in via della Botteghe Oscure. Regalarle quel vestito, ricco

di tulle e merletto, è stato come se lo avessi regalato a me stessa… le confezionai una bellissima

scatola, ci misi dentro anche le scarpette bianche di pelle vera e persino una piccola borsa per il

fazzolettino ed il libriccino da messa.

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Mentre inserivo, con tutta la delicatezza possibile l’abitino per la prima comunione di

Rosaria nella scatola, provai una grande gioia anch’io, come se potessi festeggiare di nuovo, ma in

modo diverso e migliore di come mia madre, poverina, aveva potuto fare. Ero talmente orgogliosa

di averle potuto comprare quel vestito, che è stato come se l’avessi indossato anch’io insieme con

lei. Dallo sguardo di mia madre si capiva che era molto soddisfatta di quel regalo che stavo

facendo alla mia sorellina più piccola, perché era un regalo quasi di lusso. Questo fatto, però, non

le impedì di sottolineare, più volte, che anche il vestito della mia prima comunione era stato

tanto, tanto carino!

Chissà che fine ha fatto quel vestito cucito con la seta del paracadute, forse è stato

scorciato, forse è stato tinto… forse mamma l’avrà regalato generosamente a qualche bambina che

ne avrà avuto necessità e mentre sto raccontando queste cose, mi sembra di stare lì, in paese, a

rivivere quelle sensazioni ed emozioni.

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LA GUERRA A POGGIO FILIPPO

GIUSEPPINA RACCONTA

…I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé. Essi

non provengono da voi, ma per tramite vostro, e benché stiano con voi non vi appartengono.

Kahlil Gibran,

Era il 1942, c’era la guerra ed io avevo 6 anni. A Poggio Filippo, c’era un uomo

che si chiamava “il sor Giuseppe” e che stava in politica. Quest’uomo addestrava i

ragazzi che dovevano partire per la guerra, non solo i ragazzi del mio paese ma anche

quelli che abitavano a Colle San Giacomo. Mia madre in quel periodo era ansiosa e

spaventata perché era passato solo qualche mese da una tragedia accaduta nella mia

famiglia dove, in brevissimo tempo, erano morti tre fratellini. Aveva paura che accadesse

qualcosa anche a me ed allora mi impediva di mettermi sull’uscio di casa per vedere

questi ragazzi che passavano, cantando, per andare a fare le esercitazioni di guerra. Mi

faceva sedere vicino al camino, dentro casa e ben protetta, impedendomi di andare fuori.

Mi dava tra le mani la “rocca” per filare, così ero distratta da questo lavoro e me

ne stavo tranquilla. La “rocca” l’aveva costruita mia padre con le sue mani. Per costruirla

prendeva una canna abbastanza grossa, poi con un ferro la chiudeva da una parte e

dall’altra ed apriva 4 bracci che poi fermava sopra ricavandone una ciotola dove si

metteva la lana grezza. Dalle scannellature della “rocca” si tirava giù la lana con le dita,

sputandoci sopra e tirandola, sempre con le dita umide, per farne un filo di lana di pecora,

la pecora che mio padre aveva tosato.

E così, filando filando arrivò il terzo anno di guerra, il 1943, quando sono arrivati

i tedeschi ed hanno requisito le case migliori che c’erano a Poggio Filippo, compresa

quella del fratello di mio padre. Si posizionarono anche a Colle Fiaschi, sopra il paese, in

uno spiazzo dal quale si dominava la valle sottostante e la via Cicolana e a San Filippo

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cominciarono ad essere presenti i carri armati che, per arrivare a Colle Fiaschi, dovevano

necessariamente passare per il paese che sembrava sempre di più un campo militare.

La strada che passava per Poggio San Filippo era piena di pietre e solo i carri

armati ci si potevano inoltrare. Io, con gli altri ragazzini del paese, stavo sempre intorno

a questi mezzi militari perché i soldati regalavano caramelle. Mi ricordo in particolare di

un comandante tedesco con una grande mantella a ruota, anche lui ci dava caramelle ed a

me bambina non sembrava poi così cattivo. Sempre nel 1943 c’è stato un brutto

bombardamento su Poggio Filippo, Magliano dei Marsi ed altri paesi della valle e mi

ricordo che tagliarono anche il filo del telegrafo per impedire le operazioni militari.

Durante la guerra, vennero a stare in paese gli sfollati provenienti anche da luoghi

lontani come la Calabria. Arrivarono famiglie intere, ma anche madri con bambini

piccoli. Qualcuna di queste famiglie stava in paese altre a circa tre chilometri di distanza.

Il fratello di mio padre, al quale era morta la moglie da poco, si era affezionato ad

una di queste bambine sfollate insieme alla madre. Tutte le sere si faceva tre chilometri ad

andare e tre a tornare, per andare a trovare la bambina che si chiamava Jolanda e sua

madre che si chiamava Teresa. Finita la guerra, gli sfollati piano piano ritornarono ai loro

luoghi di origine e questo fratello di mio padre, prima che lei partisse, chiese alla mamma

della bambina se volesse sposarsi con lui. Questa donna era molto più giovane di mio zio,

ma acconsentì volentieri al matrimonio.

Chiese solo di poter tornare prima al suo paese, che era in Calabria, per prendere

le sue cose ed il corredo da portare in dote. Stette via un po’ di tempo e cominciavamo a

pensare che non sarebbe più tornata. Ma un bel giorno, lei riprese il treno dalla Calabria

per arrivare a Roma, poi da Roma, a piedi lungo tutta la via Tiburtina, sino a Tagliacozzo

ed infine tutta la strada di montagna in salita, sino a Poggio Filippo.Tutto il tragitto con la

sua bambina per mano, che aveva più o meno la mia età e tutto il suo corredo di

biancheria poggiato sulla testa!

Vedere tornare Jolanda e Teresa è stata una cosa bellissima…. Nessuno in paese

credeva che sarebbe successo! Mio zio ha così sposato Teresa ed ha dato il suo cognome

a Jolanda, quindi Jolanda è stata per me come una cugina carnale ed eravamo molto

affezionate l’una all’altra.

A Poggio Filippo, quando moriva un bambino in una famiglia, i genitori andavano

ad un brefotrofio di Roma dove venivano ospitati bambini abbandonati oppure orfani di

entrambi i genitori . Non aveva importanza se in famiglia c’erano già altri figli, anche o

sei o sette, il bambino preso in brefotrofio veniva trattato come i figli legittimi. Anche

un fratello di mia madre aveva preso in casa una bambina, figlia di una ragazza madre

che lui cresceva come se fosse stata sua figlia ma, dopo diversi anni, la mamma naturale è

venuta a riprendersela.

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Accadde in questo modo: la casa della mia famiglia era proprio all’inizio del

paese, sulla strada che veniva da Tagliacozzo. Mia madre non andava a lavorare in

campagna come le altre donne e quindi stava di solito in casa e da casa poteva vedere

tutto quello che accadeva sulla strada. Vide questa donna che saliva verso Poggio Filippo

e che si fermò davanti alla nostra porta come per chiedere informazioni. Infatti, voleva

sapere dove abitava una bambina di nome Maria che era ospitata presso una famiglia dal

cognome Pendenza. Mia madre e mio padre avevano lo stesso cognome Pendenza e

mamma capì che la donna cercava suo fratello Nino che, appunto, aveva preso la piccola

Maria al brefotrofio. Dette quindi le indicazioni richieste e la donna tornò indietro sulla

strada perché la casa che cercava era vicino alla fontana in basso prima del paese.

L’arrivo di questa madre fu un dramma nella famiglia di mio zio… perché Maria

voleva restare con la gente che l’aveva accolta e non voleva saperne di andare via con la

madre naturale. Piangeva, gridava….. anche mio zio, la moglie ed i loro quattro figli

maschi, erano disperati perché si erano molto affezionati alla bambina. Non ci fu nulla da

fare e Maria se ne dovette andare con la madre che era venuta a riprendersela dopo tanti

anni!

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CECILIA, E IL SUO “ALBUM DI FAMIGLIE”

Quando la lingua vuole parlare, deve al cuore domandare (proverbio contadino)

Sono un’insegnante che ha lavorato in tante scuole della valle dell’Aniene come Tivoli,

Roviano, Guidonia arrivando a lambire la periferia romana nella zona di “Settecamini”.

Ho avuto, prevalentemente, classi composte da ragazze perché insegnavo in scuole

professionali per la moda. In tutta la mia carriera, ho avuto solo due allievi maschi! Con alcune

delle mie allieve abbiamo composto l’albero genealogico delle loro famiglie e ricostruito storie di

vita di paese, sia in dialetto che in italiano.

E’ stata una esperienza bellissima perché molte delle storie ricostruite dalle mie allieve

sono legate emotivamente a me, alla mia infanzia ed alla mia giovinezza. Riportano ad abitudini e

tradizioni alimentari che ho vissuto nella famiglia di mio padre, nel piccolo paese di Vivaro

Romano, a 10 km da Castel di Tora (Rieti). Oggi sono rimasti solo 120 abitanti, in quel paese.

Nelle famiglie di Vivaro, esistono tante storie che sono state raccolte dalla viva voce

degli abitanti, e io stessa ho vissuto quelle narrazioni attraverso i racconti di mio padre. Ricordo la

storia di una famiglia di undici figli che, a causa della mortalità infantile (l’epidemia della

“spagnola” aveva decimato intere famiglie), erano rimasti solo in cinque. Alcune delle storie che

ho ascoltato, le amo in modo particolare.

Per esempio, quando accadeva che un piccino era molto ammalato e non c’era più speranza

che potesse salvarsi, la mamma in preda alla disperazione, iniziava a gridare ad alta voce, come in

una nenia antica, come in un poema tragico senza tempo la parola “Vita, vita”, con l’illusione e la

speranza che la vita, che stava uscendo dal corpo del suo piccino, tornasse indietro, dentro di lui

per salvarlo e farlo guarire. Nel gridare questa speranza, inveiva contro Mussolini e contro il Re,

che avevano portato via i figli suoi e quelli delle altre donne del paese a morire da soldati, in una

brutta guerra che aveva trascinato le loro famiglie nella miseria.

Ecco alcuni di quei versi in strofa

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Altri bellissimi versi in strofa, sono quelli della descrizione di come si fa la polenta; nel

leggerla sembra sentire il profumo della farina di granturco e mentre si gira con lo stenterello,

nello stesso verso senza fermarsi, bisogna essere bravi a non formare i “frati”, quelle palline dure

di farina che rimbalzano come sassolini, scorno delle donne che stanno faticando in quel momento

a cuocere la polenta.

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Quand’ero più giovane al paese di mio padre, Vivaro, ci andavo più spesso, specialmente

da bambina e soprattutto durante le vacanze scolastiche.

Certe volte avevo voglia di fuggire da Roma, e allora andavo da sola al paese… adesso non

ci vado più volentieri come prima, sento troppo il freddo della montagna.

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ANTONIETTA E LE ALTRE

Un dolore condiviso è un dolore dimezzato. Una gioia condivisa è una gioia raddoppiata.

(Proverbio svedese)

Questa narrazione che abbiamo raccolto, ci è stata donata da Antonietta,

bambina durante la guerra in una delle prime borgate dell’Agro Romano: Val Melaina. I

suoi ricordi, frammentari perché Antonietta era molto piccina all’epoca, sono stati messi

in comune nel gruppo “Noi, bambini in tempo di guerra – Comunità San Frumenzio -

con molta partecipazione emotiva perché, nelle case popolari di Val Melaina vi era una

grande capacità di condivisione fra coinquilini, un ambiente di rara umanità e

solidarietà, ben evidenziata nel film "Ladri di biciclette" di De Sica.

Al racconto di Antonietta, si sono agganciate le testimonianze delle altre

partecipanti al gruppo, anche loro “bambine della guerra” ed il risultato è stato un

toccante mosaico di testimonianze diverse viste da occhi di bambine in un periodo

terribile dove era possibile, comunque, avere squarci di autentica profonda umanità.

Abbiamo lasciato le inflessioni dialettali, quali espressioni spontanee di una

vicenda personale raccontata ad altre amiche che stanno condividendo, una esperienza

di emozioni e ricordi, tutte insieme

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Antonietta inizia a raccontare:

… mentre festeggiavamo la nascita di mio nipote Enrico, figlio di mia sorella, che

ha frequentato anche questo circolo di lettura si San Frumenzio, fuori cadevano le bombe.

Noi festeggiavamo con quel poco che c’era, ricordo una bottiglia di vermouth e du’

biscottini risicati, ma a me sembrava comunque una grande festa. Un’altra mia sorella,

Gina, che era una brava sarta, da ‘na coperta grigia m’aveva tirato fuori un bel cappottino

molto carino ed io, che ero una fanatica da piccoletta, avevo, finalmente, un vero

cappottino tipo militare, con le taschette, il bavero e tutto il resto… ed era proprio bello.

Mia madre aveva avuto undici figli, dieci femmine e un maschio, il maggiore di

tutti, che era partito per la guerra, era stato dato per disperso e non avevamo avuto più

notizie.

Tornando alla festa di mio nipote Enrico, ecco che mentre festeggiavamo, suona

l’allarme. Dovevamo scappare al ricovero ma io, con questo cappottino nuovo, manco

potevo correre bene …ed ecco che casco dentro ‘na pozzanghera de fango… e me se

impiastra tutto ‘sto cappotto! Questa è un ricordo di quella giornata che mi è rimasto

molto impresso ………..

Le altre: ah… poverina…..

Antonietta: .. e gli altri mi facevano…. “Corri, non ti fermare, corri!”. Perché

dovevo andare al rifugio, c’era il bombardamento. Come cerco di entrare nel rifugio, e il

bombardamento non era ancora finito, ho visto una scena terribile che mi ha colpito

profondamente, alla quale ancora mi capita di pensare: una signora anziana, una

vecchietta, nella fuga era caduta per terra e, nella fretta di scappare nel ricovero,le

passavano tutti sopra ...

Marilena: anche a me, durante la fuga per raggiungere il rifugio, mi sono passati

sopra, ero per le scale, a San Giovanni, Via Taranto, mi s’era slacciata una scarpa..

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Un rifugio antiaereo del 1940

Antonietta: … Dentro al ricovero di Val Melaina per sederci avevamo dei sassi e

cerchevamo di ridere per superare la paura che era tanta!… c’era chi faceva il teatro, chi

cantava ‘na canzone… ognuno s’inventava qualcosa, soprattutto i giovani; poi mi ricordo

ancora che, quando arrivavano i tedeschi, io che ero piccoletta e non insospettivo, andavo

a bussare a tutte le porte per far scappare i ragazzi che, con una corda, s’arrampicavano

sul terrazzo e se nascondevano dentro i cassoni dell’acqua. Oppure scappaveno sul monte

sopra Val Melaina, vicino la Chiesa, e noi non sapevamo che fine facevano, perché

scappavano tutti insieme, perché se li prendevano li fucilavano. C’era un signore, una

bravissima persona, che abitava all’interno 1 e faceva il sarto, che, rischiando la propria

vita, andava ad avvisarli tutti e così ha salvato tantissimi ragazzi.

Io ero piccolina e andavo a scuola vicino casa, a Montesacro; c’avevano insegnato

che quando sentivamo la mitraglia, ce dovevamo buttà per terra. Noi ragazzine che

andavamo a scuola tutte insieme c’eravamo ormai abituate a tutto quello che c’accadeva

intorno. Avevo cinque anni e facevo l’asilo. Sentivamo la mitraglia e ci buttavamo per

terra, poi quando la mitraglia taceva, ci rialzavamo e arrivavamo a scuola. Era diventata

una cosa normale per noi, se viveva anche in quella maniera.

Mio padre in quel periodo non c’era perché aveva un’impresa di costruzioni ed era

fuori per lavoro, mio fratello Biagio era prigioniero ad Addis Abeba e non sapevamo

niente di lui…..ma poi è tornato e adesso frequenta il laboratorio di lettura anche lui e

scrive poesie in dialetto romanesco..

Le altre: Biagio, st’altr’anno fa cent’anni!

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Antonietta: si, adesso mio fratello Biagio c’ha novantanove anni… Lui racconta

che ha salvato la pelle dalla guerra in Africa per miracolo, stava su una nave con gli altri

militari italiani …. sò dovuti scappà via…. E racconta pure che ce l’ha fatta a

sopravvivere e a fa’ la traversata grazie ad un pezzo di legno, … ha raccontato che

bagnavano i lenzuoli per sopravvivere, perché lì faceva caldo. E allora con i lenzuoli

bagnati addosso lui è stato uno dei pochi che ce l’ha fatta a ritornare a casa. Io ero troppo

piccola per sapere tutti i particolari, lui lavorava all’aeroporto dell’Urbe.

Maria: questo fatto dei lenzuoli…mi ricordo che una mia professoressa di

educazione domestica…sì, economia domestica.. Ci raccontava di essere stata ad Addis

Abeba e quando doveva uscire di casa, per andare ad un’altra casa, doveva mettere queste

lenzuola bagnate sopra e quando arrivava là queste lenzuola erano asciutte. Me lo hai

rifatto venire in mente….

Antonietta: Quando ci hanno avvisato che mio fratello era tornato a casa e le mie

sorelle sono andate alla stazione per prenderlo, mamma era diventata quasi matta

……….. non capiva più niente, più niente!!!

Ho solo questi ricordi del ritorno di mio fratello dalla guerra, e quello di una

filastrocca di persone che venivano dentro casa e lui, Biagio, con la barba lunga, vestito

con i pantaloni a metà gamba… Poi un’altra cosa che adesso mi viene in mente del

periodo della guerra e che mi aveva colpito è che dovevamo tenere i vetri delle finestre

con le coperte, tutte chiuse non se doveva vede’ la luce fuori…

Le altre: copriluce… no, coprifuoco

Antonietta: si, coprifuoco, le finestre non si potevano proprio aprire. Mi ricordo

che mamma riusciva a preparare dei buoni pranzetti, però non potevamo mangiarli a casa,

perché suonavano le sirene; allora ci portavamo tutta questa roba al ricovero. Era una

festa, per noi: peperoni col pomodoro, il pane… ognuno portava qualcosa e si mangiava

là dentro. Ancora sento l’odore della muffa di quei sassi, un odore strano…

Marilena: … io sento l’odore degli scantinati, di quei ricoveri… uhh io non ci

volevo andare perché non volevo morire sotto terra. Io non avevo né mamma né padre

con me nel rifugio….

Antonietta: un’altra cosa strana: il palazzo era fatto tutto di cemento armato,

quindi era forte come palazzo, e mio padre ci diceva …. “Mettetevi sotto le colonne di

cemento”. Allora facevamo venire tutte le persone della scala e le facevamo mettere sotto

alle colonne di cemento, bene al sicuro, e noi invece, ragazzini, ce ne stavamo fuori…….

questi sono i ricordi che mi vengono in mente… insieme a quelle della vita dentro il

rifugio, dove i ragazzi organizzavano spettacoli, cantavano, ballavano, facevano

l’imitazione di Totò, oppure… (canta) “E Ciccio ciccio, non lo sa…”

Le altre: Pippo pippo….. non Ciccio!

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Antonietta: si, Pippo pippo… ci divertivamo, ballavamo, e quasi, quasi non si

sentiva nulla della guerra, però ogni tanto certi botti.. bum bum … le bombe ci cascavano

proprio intorno, era tremendo, mamma mia… poi la paura, perché i marocchini passavano

per le case: bussavano, io mi ricordo queste facce brutte…le ragazze avevano paura

perché i marocchini combinavano macelli, dovevano sparire tutte, le ragazze. Non me li

scorderò mai, infatti quando adesso guardo un marocchino dico: chissà, forse questo

poraccio non c’entra niente, però…

Le altre: …una tensione, perché tante ragazze sono state violentate

Antonietta: le ragazze dovevano scappare via, un macello. Ero io, la più piccola,

che cercavo di andare al forno vicino casa a prendere la roba da mangiare, le ragazze

dovevano uscire il meno possibile…. non sapevamo niente, lui, tornando avrà mandato

una cartolina.. penso io… ma ero troppo piccola per ricordare…., però lo voglio chiedere

alle mie sorelle…..…

Una delle mie sorelle, Luigia era sposata e viveva in casa con noi, allora si stava

tutti insieme, non è che c’era la camera per quello e la camera per l’altro… io me ricordo

certi calci nel sedere con mia sorella Iole… …perché dormivamo in due su di una

brandina, una da capo una da piedi….. Quando sono nata io, pesavo 5 chili e 8, e mio

fratello Biagio, l’unico maschio di casa, non me voleva vedè, perché s’era stancato: dieci

femmine e un maschio, lui era il primo. Quando sono arrivata io non ne poteva più di

avere sorelle femmine…

Adesso siamo rimasti solo in sei in vita, gli altri non li ho neanche conosciuti

perché sono morti piccoli: adesso siamo rimasti Gina, Maria, Iole, Biagio, Antonietta e

Rita, ne sono morti cinque. Quando ero piccola oltre a noi fratelli, c’erano anche i miei

genitori e i nonni: una bella famiglia!

Mi ricordo quando mamma metteva.. quella pentola di pasta e patate a tavola…

Mamma mia! … Ci chiamaveno per mangiare e noi, che stavamo giù a giocare, chi

c’andava a mangià pasta e patate… che schifo!

Elda: Ti posso dire un altro particolare? Noi eravamo quattro figli, mamma si

riforniva da una infermiera del Policlinico che ci portava il mangiare che levava dai

comodini dei morti al Policlinico.

Bianca: Mio padre andava con la bicicletta sull’Appia Antica e comprava la roba

alla borsa nera; noi abitavamo a piazza Tuscolo e avevamo una stanzetta piccolina con

tutte le provviste. Quando c’era il bombardamento mia madre preparava una grande

zuppiera, con i cannolicchi e con il sugo e andavamo a mangiare giù nel rifugio. Mi

ricordo che una volta sentimmo un odore di gallina in brodo;…….. a una signora era

sparita una gallina e il portiere l’aveva presa e c’aveva fatto il brodo. Almeno è una cosa

allegra, questa….

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Elda: Invece ve ne dico un’altra. Quando siamo sfollati in Toscana, io avevo

quattordici anni e, ad Orbetello erano sbarcati gli americani. C’erano i marocchini, che

passavano lungo la Maremma per andare verso l’entroterra. Io avevo quattordici anni ma

ne dimostravo di più, a noi avevano dato come tetto, un’aula della scuola sulla curva della

strada principale dove passavano questi marocchini…… poi vi porterò una fotografia…

Una volta passò la ritirata dei tedeschi; ed ecco che entrò in casa un tedesco, un

ufficiale , un bellissimo ragazzo, vide per aria attaccati dei salamini. Avevano fame e lui

entrò e disse: “Fame.” Mamma gli disse: “Ti prendo questo”, riferendosi al salamino

appeso. Lei aveva tanta paura, perché c’ero io davanti. Lui invece andò via, senza

molestarmi, proprio da galantuomo.

La casa era divisa in due locali che poi erano due aule scolastiche, una a noi e una

agli sfollati di Livorno. In questa aula era stato fatto un armadio per i libri che

comunicava con due sportelli, da una parte e dall’altra. Quando passavano i marocchini e

noi li vedevamo arrivare, io mi infilavo dentro a quest’armadio, in modo che potevo

scappare dall’altra parte…. Facevo su e giù, dentro quest’armadio… per la paura dei

marocchini!

Maria: il ricordo che ho io è una cosa più allegra. C’era un tedesco che si era

innamorato di mia zia. Mia zia aveva il fidanzato prigioniero da loro… Il tedesco la

corteggiava e, per arrivare a lei, era gentilissimo con me. E’ l’unico ricordo che ho della

guerra, io ero piccola avrò avuto due-tre anni e questo tedesco mi ha portato nella stanza

di una casa dove mi ha regalato fiori e caramelle. Lo raccontai alla mamma e lei mi disse

che lì i tedeschi avevano la loro sede. Non avevo paura ….. noi stavamo in un paese, a

Percile…..

Bianca: Noi da Roma andavamo a Velletri, a casa di nonna che aveva la vigna. Io

ero piccolina e quando venivano gli aeroplani ci sdraiavamo nella vigna, per terra. C’era

mia sorella, che aveva sei anni più di me, lei aveva molta paura e piangeva a tutto

spiano… la bocca le arrivava sino alle orecchie per quanto era impaurita……… mi è

rimasto questo ricordo .

Elda: Sempre in Toscana, papà era in comunicazione con Radio Londra insieme

al parroco del paese. Una volta arrivarono da Orbetello alcuni tedeschi che cercavano un

sacerdote ed un “uomo zoppo”. L’uomo zoppo era mio padre che non poteva camminare

bene. Noi li abbiamo dovuti nascondere! Come avevano saputo che mio padre era zoppo

e che ascoltava radio Londra con il sacerdote, non lo so! Io mi ricordo la musica di Radio

Londra. Era una cosa che mi stordiva, perché loro capivano i messaggi attraverso i tocchi

della musica, perché non erano messaggi veri, sembrava solo musica. …

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Il paese, Perèta, e la prossima volta vi porto la fotografia… è dentro un castello,

mille abitanti in tutto, con una torre enorme e molto alta. I tedeschi dissero che a

Orbetello c’era un cannone puntato sulla torre e se avessero continuato a sentire Radio

Londra, avrebbero buttato giù la torre del paese.

Un’altra storia riguarda il 25 aprile, quando c’è la festa del paese, perché S. Marco

è il protettore del paese. Io ero diventata amica di tre ragazze, una era molto ricca, aveva

anche i cavalli e il calesse. Nella festa del paese, tutte le ragazze rinnovavano il vestito e

io principiavo ad essere una signorinella. Mamma, per non farmi sentire a disagio, prese

una coperta militare e la portò da una cugina, perché mamma non sapeva cucire, per farmi

cucire una giacca per quel giorno di festa,. Così ho rinnovato anch’io il guardaroba!....

Ci lasciamo con l’impegno di portare, la prossima volta delle foto da condividere

per attivare sia i bei ricordi che quelli dolorosi, perché condividere la memoria tra più

persone è un balsamo per l’anima.

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ZIA OLGA E LE SUORE CAPPELLONE

Zia Olga a sinistra, con alcune anziane dell’ospizio (1942)

La vecchiaia è un privilegio di alberi e pietre.

(Wislawa Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996)

A Santa Maria in Cappella c’era un ospizio solo femminile, gestito da suore che noi

bambini chiamavamo “cappellone”. Erano talmente grossi questi cappelloni che passavano con

difficoltà attraverso le porte. Con i miei fratelli pensavamo che portassero le cappellone, perché la

Chiesa si chiamava Santa Maria in Cappella… Poi da adulto ho capito che è stato tutto un insieme

di malintesi, non c’entrava niente e anche la Chiesa di Santa Maria era erroneamente chiamata in

Cappella, perché c’è una lapide all’ingresso dove si legge, in latino, “que appell” che tradotto

significa “che si chiama”.

Nell’ospizio vivevano persone anziane, assistite anche da infermiere. La sorella di papà,

Zia Olga, era un’infermiera e lavorava là dentro. Zia aveva un problema alla spina dorsale ed era

un po’ gobba, però lavorava sempre, anche prestandosi per i lavori più umili; non era sposata e

quell’ospizio è stata la sua casa e anche la sua famiglia. Mio padre, che era più piccolo della

sorella, portava me e i miei tre fratelli ogni tanto a salutare la zia. Eravamo nati a poca distanza

l’uno dall’altro, ed essendo in piena crescita, avevamo sempre fame…

L’ospizio aveva le finestre che affacciavano sul lungotevere e la suora cappellona che ci

accoglieva festosamente ci chiamava tutti per nome. Poi, una volta entrati, eravamo assaliti da una

puzza di muffa terribile…

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Zia Olga ci dava il pane, che gli anziani, per problemi di masticazione, non potevano

mangiare. Noi siamo cresciuti anche grazie al pane che ci dava zia Olga e nel periodo della guerra,

è stata una vera benedizione.

Oltre al pane, la zia ci teneva da parte le scatolette vuote dei fiammiferi, perché potessimo

utilizzarle come piccoli giochi. Infatti, sulla strada del ritorno – noi abitavamo alla Garbatella –

passavamo su Ponte Palatino e gettavamo quelle scatolette da una sponda del Tevere e poi

attraversavamo di corsa il ponte per vedere quale scatoletta arrivava per prima alla sponda

opposta. La corsa accelerava la fame, ma avevamo la preziosa scorta di pane.

Quando siamo cresciuti, andavamo da soli a trovare la zia, allora ci mettevamo sotto i

finestroni sul lungotevere e la chiamavamo a squarciagola… si affacciava qualche vecchietta che

ci riconosceva e ci diceva: “ Mo’ te la mando, zia Olga…”. Ha trascorso tutta la sua esistenza ad

assistere le vecchiette di quell’ospizio e sono state proprio loro a tenerle compagnia negli ultimi

istanti della sua vita.

Della sua storia non si troverà traccia da nessuna parte: per questo mi fa piacere ricordarla

e lasciare un ricordo di questa donna, che ha dedicato la sua vita a tante persone anziane, le quali

grazie a lei non si sono mai sentite sole.

Gianfranco

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LA PASQUA DI MARIA

La mamma di Maria con i suoi figli

Andiamocene in viaggio, senza muoverci,

per vedere la sera di sempre

con altro sguardo,

per vedere lo sguardo di sempre

con diversa sera.

Andiamocene in viaggio, anche senza muoverci.

( Xavier Villaurrutia, Messicano 1903 – 1950)

Quando ho raccontato a mio nipote come trascorrevamo le festività pasquali tanti anni

addietro, nel mio piccolo paese affacciato sul Lago del Turano non lontano da Rieti, lui mi ha

risposto: “Quant’è bella questa storia”…. forse è così bella perché si stava tutti insieme e le

famiglie del paese erano come un’unica grande famiglia!”

Infatti era vero, ci sentivamo come un’unica grande famiglia e, nelle festività c’erano una

serie di ritualità alle quali si partecipava tutti insieme. Il venerdì santo si “legavano le campane”

come si diceva in paese. Si legavano le campane perché tutte le chiese erano a lutto per la morte di

Gesù. Sempre la sera del Venerdì Santo, passavano i ragazzi con il “ticchetau”, un pezzo di legno

che batteva su un altro e richiamavano le persone alla messa. Il Sabato Santo, in ogni casa si

addobbavano le tavole con le tovaglie più belle, dopo che le case erano state ripulite da cima a

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fondo, per accogliere degnamente la benedizione che il prete portava in ogni abitazione.

Venivano benedette anche le uova sode, che noi bambini ci divertivamo a pittare con coloretti

allegri e luminosi e che mettevamo nei cestini pasquali accanto al pane di pasqua, la pizza

pasquale e tutti i cibi che si preparavano per festeggiare la Pasqua di Resurrezione.

Appena il prete bussava alla porte, tutta la famiglia si radunava intorno alla tavola per

ricevere, in silenzio e perfettamente composti, la Santa Benedizione. Appena il prete usciva per

andare in un’altra famiglia, si raccoglieva tutto il cibo benedetto nella sottostante tovaglia bianca

che si riponeva, con molta attenzione, nella scansia che nessuno doveva aprire, perché non si

poteva toccare nulla sino alla domenica mattina, Festa di Pasqua!

Finalmente, arrivava quella mattina di Domenica di Pasqua e allora si poteva fare una bella

e ricca colazione, insieme a tutti i familiari: coratella, uovo sodo, frittata con gli asparagi….. ma

prima dovevamo aspettare che suonassero le campane! Entravano allora in casa anche gli altri

paesani, per bere insieme“un goccetto” ed io ero felice, perché la mamma mi aveva stirato il

vestitino più bello.

A dire il vero, quando ero bambina di “bello” non ve ne era poi molto, ed i miei vestitini

erano quello che erano perché in famiglia eravamo poveri. Di veramente bello era quello che si

sentiva nell’aria in quei giorni di festa: gioia, voglia di stare insieme e condividere quel cibo

semplice che a noi sembrava speciale perché condito da affetto e senso di appartenenza.

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“Quello che ti voglio raccontare, non si legge sui libri. Ma la storia che ti

voglio raccontare è vera… io ero là e me lo ricordo…. Mi ricordo il sole, il

cielo ed il vento che mi chiamava per nome………..”

(versi della canzone tratta dal film Spirit – Cavallo Selvaggio)

“Raccontare e raccontarci ci era piaciuto troppo e non volevamo che tutto finisse così

presto! Allora abbiamo pensato di aggiungere, ai racconti di noi bambini al tempo della

guerra, altri piccoli spezzoni di storia personale da condividere insieme nel laboratorio

autobiografico” (Anna, Augusto, Loredana, Nannarella, Nilde, Annamaria A., Elisa, Marilena, Consilia,

Cecilia, Carmelina, Maria, Carla, Nicolina, Elda, Angela, Alberta, Antonietta, Bianca, Ornella, Giuseppina,

Biagio)

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ANGELA E I SUOI RICORDI DELL’UMBRIA

Con le buone maniere si muovono le montagne (antico proverbio)

Mi ricordo di quando bisognava fare i compiti con la penna stilografica, io non l’ho mai

posseduta, mi veniva prestata in classe.

E’ un ricordo preciso della mia infanzia; mamma non stava tanto bene e aveva un po’ di

problemi con la salute e io e mia sorella siamo andate in un collegio delle orsoline, in un paese

dell’Umbria. In quel periodo ho frequentato la scuola elementare, avevo dei compagni di classe

che abitavano in campagna e non avevano la luce elettrica. Venivano a scuola con i compiti pieni

di macchie d’olio, perché forse li facevano nella cucina. C’era un bambino che era il più bravo

della classe, di una intelligenza superiore eppure nella vita ha fatto il netturbino, perché non ha

avuto la possibilità di studiare. Le suore ci facevano una volta alla settimana le lezioni di galateo,

però non ci hanno mai insegnato a stare in ordine a tavola e a tagliare la frutta. Una volta, d’estate,

la suora ci portò a cena a casa del dentista e venne servito il prosciutto e melone. Noi abbiamo

preso le fette di prosciutto e ci siamo fatte la pagnottelle a tavola. La suora ci riempiva di calcetti

sotto il tavolo, ma noi non capivamo.

Io ricordo il pennino con cui scrivevo e ripensando agli episodi del libro “Cuore”, posso

dire che quelle storie le ho vissute e trovo bellissimo il privilegio di aver vissuto in quei tempi,

anzi non li cambierei con quelli di oggi, erano tempi più semplici. Io sono felice di aver trascorso

quel periodo in collegio, anche se la mamma se lo rimprovera per tutta la vita, ma non poteva fare

diversamente.

Da adulta mi sono trovata, in ufficio, in un ambiente dove c’era molta maleducazione e

allora ripensavo a quelle lezioni delle suore, ma alla maleducazione non mi sono mai abituata.

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LA SAGGEZZA DELL’ETA’

Angela racconta

Chi si nasconde nella tenerezza non conosce il fuoco della passione (Alda Merini)

Io vengo da una cultura cattolica piuttosto rigida: dai cinque ai dieci anni sono stata

allevata in un collegio di suore (le Orsoline, note per il rigore con cui allevano le educande) e

questo ha prodotto in me una personalità alquanto ribelle agli schemi continui e priva di effusioni

affettive. Infatti, nell’adolescenza mi sentivo una ragazza complessata e facevo tanta fatica a

studiare, perché avevo tanti pensieri negativi per la testa. L’unica materia per cui provavo

interesse era il disegno; mia madre, lungimirante, preferì iscrivermi a una scuola di lingue e ancora

la ringrazio per questo, perché proiettata nel mondo del lavoro, avrei potuto realizzarmi. Così è

stato.

Trascorsa l’adolescenza, da ragazza non mi sentivo affatto bella, e non lo ero, almeno

quanto mia sorella che tutti ammiravano, anche per il suo carattere estroverso e amante della vita,

molto simile a quello di mio padre, mentre io ero introversa e pessimista. Nonostante tutto, però,

sentivo di avere un certo sex appeal e mi accorgevo quanto i ragazzi fossero attratti dalla mia

persona e cercavo in tutti i modi di sottolineare questa qualità, truccandomi eccessivamente (senza

essere mai volgare) e vestendomi con abiti attillati, calze nere a rete e tacchi alti a spillo. Il

successo nella conquista dei ragazzi mi dava quella pseudo sicurezza di cui avevo bisogno e che

ostentavo. In fondo avevo vissuto un’infanzia molto diversa da quella delle mie coetanee, avevo

frequentato scuole private, dove di maschi non se ne vedeva traccia!

Nell’approccio con i ragazzi, però, non avevo difficoltà: ero spigliata e m’interessava

soltanto conoscere la personalità maschile da cui ero molto attratta. Poi, però, quando si toccavano

certi argomenti, quelle mie strane idee, molto controcorrente (io non ero favorevole al

matrimonio), davano un’idea falsata di me, forse di una donna spregiudicata, quasi una hippy,

quindi non in grado di avere una relazione seria. Così ho avuto soltanto brevi storie amorose,

piene di contraddizione e litigi.

Infatti, quando con le mie coetanee il discorso andava sull’argomento matrimonio e figli,

io mi dissociavo completamente: sentivo di non aver nulla in comune con loro.

Ero indecisa tra il voler diventare missionaria laica o suora di clausura, o addirittura

rimanere “zitella”, come all’epoca si definiva una ragazza che non si sposava, o per sua scelta o

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perché non aveva trovato marito. La parola “single” che si usa oggi è molto più appropriata,

perché fa parte di una scelta di vita.

Quando, però, vidi per la prima volta l’uomo che sarebbe poi diventato mio marito, sentii

un tuffo al cuore: non ho dubbi, l’attrazione fatale è un fatto puramente chimico!

Il mio ragazzo non era né alto, né bello, né simpatico, anzi, era grasso, basso, ma non

aveva alcun complesso d’inferiorità e forse era proprio quello che mi attirava di più della sua

personalità. Mi sentivo forte accanto a lui, sicura di essere accettata per quella che ero e vicina a

un compagno di vita di cui essere fiera, non tanto per il suo aspetto esteriore, ma per le sue qualità

morali: l’onestà, la serietà di vita, l’alto concetto della famiglia, molto diverso da quelli che

conoscevo… non avrebbe mai tradito sua moglie (cosa in cui ho sempre creduto e così è stato). La

sua sicurezza per me era tutto: aveva ciò che a me mancava!

Angela, nel giorno del suo matrimonio

La mia vita matrimoniale, però, non è stata tutta rose e fiori e purtroppo mi sono dovuta

reinventare continuamente commettendo una quantità di errori e pagandone amare conseguenze.

Sono tuttavia convinta di essere oggi sulla buona strada, di cambiare atteggiamento alle avversità

della vita, di essere ottimista anche quando tutto dimostra il contrario. La fede mi aiuta tantissimo,

il Signore è sovrano anche nelle circostanze più avverse, la sua misericordia verso i nostri

fallimenti è grande e ci dà il coraggio necessario per andare avanti, perché Lui ha il controllo di

tutto ciò che accade nel mondo, anche nell’intimo dei nostri sentimenti. Prova ne è che, oltre a star

meglio con me stessa, sto molto bene anche con gli altri e sono in grado persino di dare dei saggi

consigli a chi, frastornato da difficoltà, mi chiede aiuto su come relazionarsi con le persone più

vicine.

Sono riuscita ad aiutare un’amica che attraversava momenti difficilissimi con suo marito;

non era rispettata da lui e si straziava, trascurando persino l’affetto per le sue figlie. Ho cercato

molte volte di convincerla di cambiare atteggiamento, finché è riuscita a chiedere la separazione.

Le scrivevo di godersi le sue ragazze di non fare come avevo fatto io in passato quando, nel

periodo dell’adolescenza, frequentando cattive compagnie, ho alzato un muro con le mie figlie

rovinando un rapporto idilliaco: era cessato il dialogo con loro, pur essendo state fino a quel

momento la luce dei miei occhi! Tutto l’amore e la dedizione nel crescerle erano andati in fumo.

E’ stato un grosso errore di cui sento ancora il peso.

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Sono felice che almeno la mia amica abbia ascoltato il mio consiglio e si stia adoperando

per avere un comportamento consono a una madre che dimostra tutto l’amore e la comprensione

per le proprie figlie, soprattutto nel momento più critico della loro vita: l’adolescenza.

Con la saggezza che ho acquisito negli anni e con la fede nel Signore, ho iniziato un nuovo

cammino e non ho dubbi che porterà a qualche buon risultato. All’età di 69 anni, credo di aver

raggiunto una saggezza che mai mi sarei sognata di poter avere.

Lo dico in tutta sincerità: “… rimettermi in gioco continuamente, facendo leva su quanto di

più importante ho nella vita, gettando dietro le spalle i miei fallimenti; se fossi un uomo, non

esiterei a sposare una donna come me perché, a dispetto di tutto e di tutti, sarebbe come toccare il

cielo con un dito!”.

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ELISA E LA NEVE

La neve e il suo magnifico silenzio. Non ce n’è un altro che valga il nome di silenzio, oltre

quello della neve sul tetto e sulla terra.

Erri De Luca, da Il peso della farfalla

Anche se quello che dico può far sorridere, io mi considero un “residuato bellico”; mio

padre era polacco, un soldato polacco che combatteva a Cassino nell’ultimo conflitto mondiale.

Era un concertista e proprio dopo un suo concerto ebbe un infarto e morì. Quando ero piccola, lui

mi voleva portare con sé in Inghilterra, dove ho altri fratelli, ma mia madre non ha voluto e così,

quando lei si è risposata, io chiamavo papà il suo secondo marito.

Mamma doveva lavorare ed allora, quando avevo più o meno sei anni, sono andata in un

collegio italo polacco, dove ho studiato e sono vissuta per molti anni. Quando avevo 14 anni,

nacque mio fratello, con il quale ho un buonissimo rapporto.

Mi sono sposata a 18 anni, nella Chiesa di Sant’Anna in Vaticano e ho fatto il viaggio di

nozze, verso la Svezia, insieme a mia suocera ed il suo compagno, dentro una Fiat 600. Andavamo

in Svezia, perché mia suocera era interprete e conosceva tante lingue soprattutto dell’est. La

Svezia aveva la necessità di attirare persone di altri paesi europei “per mischiare il sangue”, o

almeno così sentivo dire. Per questo la famiglia di mio marito, originaria di Belgrado, era venuta

in Svezia per prenderne la cittadinanza, cosa che in Italia non erano riusciti a fare malgrado ci

vivessero da più di sette anni.

Io non ero mai stata in Svezia e vi sono rimasta per sei anni. Mio marito, per motivi legati

al suo lavoro, che era nel campo cinematografico, viaggiava sempre, mentre io rimanevo in

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Svezia. Ero quindi sola a crescere mio figlio e, dopo quattro anni, avrei potuto vivere dei sussidi,

perché lo stato svedese aiuta a crescere i figli, ma il mio orgoglio personale non me lo consentì.

Avendo la passione per la lingua italiana, mi misi ad insegnare nelle scuole serali e

privatamente nella cittadina dove abitavo. Quando finì il corso di studi, invitai tutti a casa mia e

cucinai la pizza: fui la prima ad insegnare come si prepara la pizza in Svezia, ed i miei allievi

furono tutti molto carini e riconoscenti con me. In Svezia non c’è l’abitudine di fare regali, a loro

basta il pensiero… invece in quell’occasione si presentarono con una bellissima cartolina e dei

soldi dentro. Fu un gesto che mi fece veramente tanto piacere.

Dopo sei anni lontani dall’Italia, mi prese una grande nostalgia dei miei affetti, avrei voluto

che mio figlio conoscesse i nonni e ritornai a Roma, però me ne sono pentita quasi subito. Per mio

figlio, invece, la scelta di tornare in Patria è stata buona, perché gli ha dato opportunità che in

Svezia non avrebbe avuto in campo lavorativo.

Nel 1991 mio figlio, a 26 anni, espresse il desiderio di ritornare nei posti dove aveva

trascorso la sua infanzia. Avevamo ancora tanti amici, nella cittadina dove avevamo vissuto e mio

figlio ricordava una bambina con la quale giocava, Eva, che quando veniva a casa nostra

mangiava, con gusto, il minestrone che facevo io. Alex, mio figlio, ed Eva, andavano in triciclo

insieme.

Ritornammo così in Svezia durante le feste natalizie e la notte di Capodanno fummo

invitati ad una festa in un albergo. La sala della festa era divisa da un pannello, i giovani da una

parte e i meno giovani dall’altra; mio figlio naturalmente stava con i giovani. A mezzanotte

univano le due sale e mio figlio mi venne incontro con due ragazze. Una di queste due ragazze mi

disse che da piccola giocava con un bambino che si chiamava Alex. Era Eva! E’ stato come

tornare improvvisamente indietro nel tempo e quel momento così straordinario è rimasto fissato

nella mia memoria dall’immagine della neve che vedevo cadere al di là della cornice della

finestra; la neve… quante ne cadeva! Mi sembra ancora oggi di vederla. Eva aveva un bambino

piccolo e non usciva mai perché il bimbo aveva qualche problema di salute; quella sera dietro

insistenza delle amiche, si trovò per caso in quella festa dove incontrò, sempre per caso, il suo

amico di giochi infantili, mio figlio Alex, un ricordo meraviglioso, come se qualcosa o qualcuno li

avesse fatti ritrovare per magia.

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Le prime conquiste familiari di A.Maria

Un cassetto di calze di lana: questo è sicurezza!

(Linus in Peanuts di Charles M. Schultz)

Da bambina abitavo di fronte al cinema Orione, che oggi viene utilizzato come teatro;

c’erano due nonnetti, moglie e marito, che si mettevano vicino al cinema per vendere i bruscolini.

Io mi mettevo sempre vicino alla vecchietta, perché aspettavo che lei andasse al gabinetto e mi

chiedesse “Me rimani a guarda’?”. Io non le prendevo niente né chiedevo niente, però quando la

nonnina ritornava mi dava sempre qualcosa. Non c’erano soldi, erano i tempi subito dopo la

guerra, e anche quando chiedevo una lira a mamma, speravo di muoverla a compassione e di

ricevere almeno cinque lire. “E che ci devi fare con una liretta?”, mi chiedeva mamma, perché una

lira non era proprio niente… Io le rispodevo: “Mi compro due caccolette”…

Le caccolette erano dei pezzettini di liquirizia duri e di forma rettangolare e costavano

mezza lira l’una.

Non è stato facile per i nostri genitori farci crescere. Io sono stata la prima di due sorelle e

con me mamma e papà hanno sperimentato le prime concessioni. Ricordo che avevo tredici anni e

andavo alla prima classe delle superiori ancora con i calzini e mi vergognavo. Qualcuno disse a

mia madre che era ora che usassi le calze di nylon e finalmente le comprò. Nel darmele mi disse:

“Attenta, che se le rompi ti rimetti i calzini!”. Tutte le sere, allora, mi mettevo davanti all’abaschur

e controllavo punto per punto se c’era qualche piccolo foro o un filo tirato e le rammagliavo con

l’ago e il filo di nylon di un paio di calze vecchie di mamma. Quel primo paio di calze mi sono

durate sei mesi!

Con mia sorella, più piccola di me di quattro anni, le cose sono state più facili,

naturalmente, io le avevo spianato la strada…

Anche mia madre, da giovane, aveva le sue difficoltà nelle concessioni familiari: quando

mio padre l’andava a trovare e trascorreva la serata con lei e tutta la famiglia, mamma veniva

redarguita da nonna: le ginocchia tue vicine alle sue non ci devono stare!

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UN RICORDO SPECIALE DI A.MARIA

“La pochette dei miei 18 anni”

Ci sono bellissime storie d'amore nel fondo delle borse, tra i pacchetti di sigarette e le chiavi;

per questo a volte si fa fatica a trovarle, semplicemente perché tentano di nascondersi per poter

rimanere lì.

Fabio Volo da Un posto nel mondo, 2006

Questa pochette che vedete, la conservo gelosamente. E’ il ricordo dei miei 18 anni,

quando alla fine dell’anno scolastico facemmo una cena con tutti i professori e il preside della

scuola. Adesso i ragazzi fanno una pizza con gli insegnanti, per noi, invece, era un rito atteso per

settimane e mesi. Preparavamo quella serata con molta cura: la scelta del ristorante, il vestito

nuovo… era come diventare grandi. Ai miei tempi si raggiungeva la maturità a 21 anni, ma

quando si compivano 18 anni, si viveva l’ingresso nella società. In questa pochette tenevo i guanti,

il rossetto e lo specchietto. Io non mi truccavo, però il rossetto non mancava mai.

La cena si organizzava prima degli esami, per un momento di saluto collettivo tra

professori e allievi. In quell’occasione anche i professori si lasciavano andare, perché in aula ci

davano del lei. Vivevamo quell’evento con ansia nei momenti della preparazione, e poi, nei giorni

successivi alla cena se ne parlava tanto, con le compagne di classe. Era il 1961.

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La cena con la classe del quinto anno

Fu una serata molto chic, il ristorante era dentro Villa Chigi. Il mio vestito era verde acqua,

leggero, con la cinta di raso nero. Non ricordo che cosa si mangiò quella sera, ma la sensazione di

quell’atmosfera magica ancora mi vibra dentro. Si chiudeva un capitolo della mia vita ed ero

diventata grande, anche se con il cuore semplice di una ragazza.

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IL DIVERTENTE PREPARATIVO

DEL MATRIMONIO DI MARIA A.

Chi cadde e si rialzò, è spesso più fermo in sui piè di chi non cadde mai. (Arturo Graf)

Per il pranzo dell’imminente matrimonio, avevamo contattato, attraverso un mio zio, un

ristorante sull’Appia Antica. I gestori del locale, amici di famiglia, vollero a tutti i costi invitarci a

cena per darci una prova della loro buona cucina e ci fecero accomodare in una saletta riservata.

Ad un certo punto della cena, ho avuto la necessità di andare in bagno. Entrata che fui, rimasi

colpita dal lusso e dalla ricercatezza di quel bagno.

Tornata al tavolo dei miei genitori, raccontai a mia madre l’arredamento lussuoso che

avevo visto e lei, a sua volta, mi chiese di accompagnarla in bagno. Mentre percorrevamo insieme

il tragitto per giungere alla toilette tenendoci per mano, io le descrivevo le meraviglie che avevo

visto. Accendendo la luce, abbiamo fatto questa considerazione: ”E questo è solo il bagno di

servizio, chissà quanto sarà bello il bagno padronale!”. Ci addentrammo verso quello che pensavo

fosse l’interno del bagno, con l’intenzione di accendere la luce invece ………i miei piedi

trovarono delle ripide scale! Ho cominciato a cadere lungo quelle scale, trascinandomi appresso

anche mia madre… Ci siamo fatte una rampa di scale che non finiva mai gridando, perché io non

riuscivo a frenare la caduta e, quindi, non poteva fermarsi neanche lei, visto che la tenevo per la

mano…

Finalmente le scale finirono e ci siamo ritrovate per terra: allora abbiamo iniziato a ridere

come matte. La padrona del ristorante ha capito subito di che cosa si potesse trattare: la porta della

cantina, vicino a quella del bagno, era stata dimenticata aperta! Allora è corsa ad accendere la luce

e a chiamarci per sapere se ci eravamo fatte male, ma noi ridevamo talmente tanto che non

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riuscivamo neanche a rispondere. Insomma, lei ci chiamava dal paradiso, mentre noi pensavamo

di essere precipitate nell’inferno!

Per fortuna mi sono sposata dopo sei mesi, perché per tanto tempo sono stata con i dolori

dappertutto e piena di lividi. Forse sarà stato per quell’episodio, ma in quel ristorante non ci

abbiamo messo più piede, soprattutto per il pranzo del matrimonio!

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MARIA -nata a Castel di Tora -RACCONTA IL SUO MATRIMONIO

Il matrimonio di Maria a Castel di Tora

Amare non significa stare a guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta.

(A.Saint Exupéry)

Il giorno del mio matrimonio, mentre mi recavo in Chiesa per la cerimonia, avevo l’intero

paese che ci seguiva, anche se non tutti erano tutti invitati. Mi sono sposata il 24 aprile del 1960 a

Castel di Tora, il mio paese, vicino al lago del Turano. E’ stato un bel matrimonio per quell’epoca,

anche perché non tutti si potevano permettere un vestito bello come il mio. L’avevo comprato da

Procaccia a Piazza Vittorio.

Mio marito l’avevo conosciuto nel suo ristorante a Roma, “Le maschere”, in Via

Massaciuccoli. Io lavoravo da un dentista ed ero ospite di una signora che abitava proprio in Via

Massaciuccoli, ci siamo conosciuti così. E’ stato come un colpo di fulmine. A quell’epoca il

fidanzamento era molto casto, non è che potevamo fare dimostrazioni d’amore troppo spinte e

bisognava anche stare attenti alle chiacchiere della gente. Quando abbiamo fatto la festa per il

fidanzamento ufficiale, i miei genitori mi hanno imposto di tornare in paese, con la corriera, la

sera prima mentre, il mio fidanzato, che guidava la macchina, è venuto il giorno dopo.

Erano gli ultimi giorni delle vacanze natalizie e a Castel di Tora aveva nevicato. La notte

ero agitata perché sapevo che il mio fidanzato doveva venire con la neve e mio padre, che aveva

capito la mia agitazione, mi diceva: “Non lo far venire, che sennò si scapicolla!”. Ma lui era

pratico di guida ed è venuto lo stesso. Però quando finalmente è arrivato mi disse subito: “E’ vero

che mi ami, ma mi volevi vedere morto, con tutta questa neve…” Alla fine della festa il mio

fidanzato è stato costretto, sempre dalla neve, a rimanere a dormire a Castel di Tora, in una

pensione naturalmente…

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Anche quando ci siamo sposati, io sono andata con la corriera in paese e lui è venuto con la

sua macchina. Al mio paese il matrimonio si usava così: il rinfresco lo preparavano i genitori della

sposa, con sette portate di dolci e sette liquori diversi. I liquori li avevo preparati tutti io, con le

essenze e l’alcool. Il pranzo lo offriva lo sposo, ma noi abbiamo scelto di fare il pranzo al

ristorante, anzi io sono stata la prima sposa a infrangere questa tradizione. Abbiamo speso, nel

1960, 1.800 lire a persona.

Erano molto emozionanti le cerimonie di matrimonio a Castel di Tora, perché

partecipavano tutti gli abitanti ed era una festa che coinvolgeva tutti, giovani, anziani e bambini.

Ricordo che il letto della prima notte, nella nostra casa di sposi a Roma, era venuto a farlo

mia madre, che era partita dal paese accompagnata da una vergine. Doveva essere così, anche se

non c’erano ginecologi che potevano garantire che fosse vergine sul serio. Comunque questo non

evitò che mi facessero il “sacco” nel letto, uno scherzo classico riservato agli sposi novelli.

Finalmente, dopo sposati, ci hanno dato il permesso di poter andare in macchina insieme,

a casa nostra, in viale Etiopia. Io ero una ragazzina, avevo solo vent’anni, pudica e immacolata!

Quando arrivammo a casa, mio marito andò in camera da letto e io mi preparai in bagno. Ero

pensierosa… come dovevo fare? Avevo indossato la biancheria nuova, una camicia da notte

ricamata e lunga fino ai piedi e una vestaglia di raso rosa, scampanata sino ai piedi e con i polsini

ricamati… entrata in camera da letto, mio marito mi guardò e disse: ” e tu ti saresti spogliata? Mi

sembri più vestita di prima…”.

Pochi giorni dopo siamo partiti per il viaggio di nozze, che abbiamo fatto a Napoli e a

Capri; io ero proprio tanto felice, perché mi sentivo veramente una signora. Il ritorno è stato

traumatico, perché la tradizione voleva che al rientro dal viaggio di nozze si passasse dai suoceri,

che dovevano “controllare” che fosse tutto a posto, diciamo così... l’ingenuità era veramente tanta

e non ci pensavo proprio a quanto fosse invadente il comportamento familiare di indagare in una

faccenda privata e del tutto naturale. E’ stato così che sono diventata grande, senza neanche

accorgermene.

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ANTONIETTA RACCONTA

Antonietta e la sua famiglia

La mano laboriosa fa sempre qualche cosa…( antico proverbio contadino)

Il giorno prima del mio matrimonio, per pulire una macchia, ho combinato un pasticcio: ho

usato l’acido muriatico mischiato con la varecchina. Mi si sono gonfiate le mani

spaventosamente… Così alla cerimonia non ho potuto mettere neanche la fede. Siamo partiti per il

viaggio di nozze, siamo andati a Milano, ma in albergo non volevano darmi la stanza, perché ero

piccola e sembravo una ragazzina e non sembravo neanche sposata. Dopo aver mostrato il

certificato di matrimonio ci hanno dato una camera, però a due letti! Così quando siamo entrati ci

siamo dovuti mettere a spostare i comodini, ad avvicinare i letti…io, con quelle mani gonfie

sembravo una pupazza… Abbiamo trascorso la serata sul balconcino della nostra stanza, a

chiacchierare.

Il giorno dopo abbiamo chiamato un dottore che mi ha medicato le mani, però mi ha

consigliato di non muovermi per tre giorni per controllare le ferite, così abbiamo ritardato la

partenza per Palma di Maiorca.

Quando finalmente siamo partiti per il nostro faticoso viaggio di nozze, mi sembrava di

riprendere un po’ di fiato. A Palma di Maiorca si mangiava benissimo e i piatti erano una

squisitezza, ma io con quelle mani non riuscivo neanche a tagliare un pezzetto di carne. Mio

marito mangiava, e neanche si preoccupava di aiutarmi a mangiare. Un giorno mi avevano portato

una bellissima bistecca, me la stavo sognando…, il cameriere vedendo che il piatto rimaneva

pieno si era avvicinato per portarmelo via. In quel momento ho cacciato un urlo alla “romana” per

fargliela riportare subito!

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I cappelli di Zia Flora

Bianca racconta

… le donne sono le artiste più grandi di questo mondo: esse modellano la vita quotidiana

dell’uomo, degradata dall’avidità, e la trasformano

con il loro amore.

da “La Duchessa di Padova” (con cappello…) di Oscar Wilde

Per portare il cappello ci vuole disinvoltura… Flora era la sorella di mia suocera, e mio

marito Peppino mi raccontava che il marito di lei diceva, prendendola in giro: “Dove vai, piccola

donna con quel grande cappello?” Perché Zia Flora, fisicamente, non era propriamente longilinea

e neppure alta di statura, ma curava moltissimo il proprio aspetto e si vede anche dai cappelli che

portava! Il marito, invece, che pure aveva un’attività importante ed era spesso all’estero, sapeva

essere anche una persona umile e in casa sua faceva tanti lavori: accudiva alle galline, faceva il

falegname. Mio marito Peppino, che era suo nipote, mi raccontava che si metteva un giornale in

testa e nel tempo libero faceva anche i lavori per casa. Il marito di Flora è morto di vecchiaia,

aveva quindici anni più di sua moglie, e la figlia è morta giovane per colpa della tbc, ereditata dal

padre, che negli anni ‘20 non si poteva curare. Oggi la figlia di Flora avrebbe 85 anni.

Zia Flora aveva un villino in via Latina, uno di quei villini dei ferrovieri, ma in tempo di

guerra, rimasta sola, lo vendette e andò a vivere in via Labicana, in un appartamento senza balconi

e all’ultimo piano; lo scelse lì perché era vicino al mercato di Piazza Vittorio e perché tutti i sabati,

puntualmente, andava al Teatro dell’Opera. Le donne di quell’epoca non guidavano e quindi per

comodità sua aveva scelto questa casa. Sua sorella, invece, che era mia suocera, era tutto un altro

tipo! Per fortuna non abbiamo vissuto insieme… purtroppo era rimasta vedova giovanissima con il

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figlio, a causa di un incidente, accaduto proprio nel villino di Zia Flora; Infatti mio suocero, che

era dottore in agraria, si era arrampicato su di un albero per raccogliere i fichi; avrebbe dovuto

sapere che il legno del fico è fragile….e che lui era di corporatura massiccia…. Non ci ha pensato

ed è morto cadendo da quell’albero.

Non ho conosciuto mio suocero, ma so che era un uomo che godeva di grande

considerazione nell’epoca fascista, un vero idealista. Alla morte di lui mia suocera, si è trovata da

sola con suo figlio, e lo ha cresciuto con molta apprensione!

Madre e figlio vivevano a Poggio Mirteto e, lei, gli aveva messo addirittura il nome e

cognome sulla maglietta, per paura che si perdesse. La sua apprensione arrivava al punto che, in

un paese piccolo come Poggio Mirteto lei, in preda all’ansia di riportarlo al sicuro a casa, lo

andava a cercare per tutto il paese, dove il figlio andava a giocare a carte con amici e compaesani.

Con una madre di questo genere, si può immaginare come quest’uomo sia cresciuto.

Ho conosciuto mio marito tramite alcuni parenti, a 22 anni. Veramente avevo altri progetti

per la mia vita, mi ero diplomata ed avrei voluto insegnare. Quando mi hanno fatto conoscere mio

marito, che aveva dieci anni più di me, non sapevo neanche io se mi piacesse o no… non avevo

conosciuto altri uomini. Ricordo che, dopo il primo incontro, mia madre mi chiese: “ Ma ti è

piaciuto?” ed io non sapevo cosa rispondere. E’ stato così che sono diventata una moglie, e

diventando moglie di quest’uomo ho abbracciato la croce di lui e della mamma di lui. Mia madre,

per il matrimonio, aveva fatto cucire dalla sarta un bellissimo vestito, ho voluto sposarmi a San

Gregorio al Celio, una chiesa tra le più belle di Roma e, su quella grande scalinata, io nel mio

vestito da sposa sembravo proprio una principessa.

Bianca il giorno del suo matrimonio

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Del rapporto con gli uomini non avevo esperienza alcuna, perché ai miei tempi i genitori

non ti raccontavano niente. Mio marito era più grande e diceva che per i primi tempi era meglio

non avere figli, perché lui lavorava in giro per l’Italia: invece sono rimasta subito incinta, al primo

colpo, e mia figlia è nata dopo 8 mesi e mezzo dal matrimonio.

Appena sposati, mio marito è stato trasferito a Sondalo, al confine svizzero, ed io ho

trascorso tutta la gravidanza lassù, in una casa ammobiliata, in quel paese che sembrava un

presepe. Di giorno stavo da sola e mio marito mi raggiungeva la sera. Per fortuna avevo anche due

amiche, che mi chiamavano Biancaneve, e poiché ero l’unica a possedere una macchina, giravamo

per i paesi intorno, facevamo la spesa a Livigno… ma i soldi finivano subito, perché la Valtellina

era cara. Una volta siamo andate in un bar, ognuna di noi pensava che l’altra pagasse la

consumazione, invece nessuna aveva una lira! Quante risate!

Poi al nono mese mio marito mi ha riportato a Roma da mia madre, in Via Britannia ed è

ritornato su a Sondalo, confidando in un veloce trasferimento nella capitale. Invece i tempi si sono

allungati. Intanto era nata mia figlia Laura, ed io faticavo a convivere con i miei. Ricordo che mio

fratello quando mi vedeva con la bimba in braccio diceva: “Ecco la sacra famiglia!”. Ma a me la

mia famiglia mancava perché mio marito era lontano!

Un giorno mi sono decisa: sono andata dal parrucchiere, ho lasciato mia figlia ai miei

genitori e mi sono fatta accompagnare alla stazione da mio fratello, perché volevo tornare da

Peppino, a Sondalo. Mio marito, però, aveva lasciato la casa e viveva in una camera ammobiliata.

Quando mi ha visto, invece di venirmi incontro e abbracciarmi si è arrabbiato moltissimo, perché

temeva che la mia presenza compromettesse il suo trasferimento. Quell’abbraccio mancato ancora

mi pesa tanto, ma rientrava nei suoi comportamenti dovuti alla presenza di una madre che era stata

troppo invadente nei suoi confronti.

Non mi sono persa d’animo e mi sono messa a cercare una casa per noi a Sondalo. Ho

trovato una stanza sopra una vaccheria, non aveva neanche il pavimento, solo la terra, e c’era una

culla e un fornello, ma io ero contenta perché così riunivo la famigliola. Dopo poco è arrivato il

trasferimento, si vede che ho portato fortuna a mio marito, e ci siamo trasferiti a Pisa, per un lungo

periodo, poi è nata un’altra figlia, Elena.

Mio marito era buonissimo d’animo e mi adorava, ma qualche volta s’innervosiva senza

motivo. Se in una discussione dicevamo le stesse cose, lui voleva la supremazia su tutto ed io non

mi sentivo libera di manifestare le mie idee. A ripensarci mi viene da sorridere, perché alcune

volte discutevamo così vivacemente che lui se ne andava da casa, ma rimaneva davanti al portone

e dopo un po’ ritornava su. Per mio marito sono stata il suo grande amore. Io, invece, mi sento di

aver rinunciato alla mia gioventù, perché mi sono completamente dedicata a lui ed alla sua

mamma, fino alla fine.

Ogni fine settimana andavamo a Poggio Mirteto, dove abitava mia suocera, insieme a mio

marito e le bambine. Lei si alzava alla sei di mattina e iniziava a camminare con delle scarpe

rumorose per tutta casa: era una brava sarta e per questa ragione non si curava della pulizia della

casa. Io, per l’igiene delle bambine, portavo il mangiare da casa mia e, quando arrivavo, mi

mettevo a pulire tutto. Mia madre mi aveva consigliato di portare una mia credenza per la cucina,

dove riporre le mie pentole e stoviglie sempre pulite, ma mia suocera si lamentava se le spostavo

qualcosa. Quando andavo a Poggio Mirteto, non riuscivo neanche ad andare in piazza, perché

trascorrevo tutto il sabato a pulire.

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Tante volte mi veniva il mal di pancia, come vengono ai bambini a scuola quando le

maestre non funzionano…, ma io, per amore di mio marito, sopportavo l’insopportabile, nuocendo

anche alla mia salute. Mia suocera era molto gelosa del figlio e quando mio marito mi regalava

qualcosa, io dovevo inventarmi che era stata mia madre a regalarmela. Ero giovanissima, mentre

lei, molto più grande di me, poteva essere mia nonna. Quando veniva a trovarci a Roma, mi

occupavo anche della sua igiene personale a cominciare dal lavarle i capelli con molta energia,

perché ne aveva veramente bisogno.

Però era una bravissima sarta. Ricordo che avevo un vestito di mio padre, molto bello, era

blu con la righina bianca. Le chiesi se poteva trasformarlo in tailleur. Impiegò un mese intero per

lavorarlo ed io pensai a cucinare per tutto quel periodo: colazione, seconda colazione…. Aveva un

appetito formidabile mia suocera! Alla fine le ho preparato un pranzo sontuoso, per riconoscenza,

dall’antipasto fino al dolce. L’abito che mi aveva cucito era un bel tailleur, con la giacca in doppio

petto e ancora lo conservo. Mia suocera aveva tanta considerazione di me, e prima di morire ha

voluto che fossi io ad allacciarle le scarpe; mi ha voluto veramente bene.

Poi è venuto, finalmente, il mio momento e, quando le mie figlie sono cresciute, ho

finalmente realizzato il mio sogno di insegnare. Giravo per tante scuole facendo supplenze e

quando c’è stata l’occasione di partecipare a un concorso interno, l’ho vinto. Ho anche fatto dei

corsi per insegnare agli handicappati e ho lavorato in alcune scuole speciali all’aperto, a Monte

Mario. Le scuole “speciali” mi piacevano tanto! Erano una struttura con tante casette bianche e si

mangiava tutti insieme. Il Direttore mi stimava molto.

E allora, finalmente, ho potuto vedere nello sguardo di mio marito, tutto l’orgoglio che

provava nell’avere una moglie come me.

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CARLA E IL RICORDO DELLA SUA “RICCHEZZA”

Una furtiva lagrima

negli occhi suoi spuntò:

quelle festose giovani

invidiar sembrò….

Mia nonna ha mantenuto la sua famiglia facendo la portiera in uno stabile popolare a

Testaccio, non guadagnava molto e noi eravamo veramente poveri. Oggi, Testaccio, è un

quartiere bellissimo, ma a quell’epoca non lo era affatto, anche se aveva comunque le sue

bellezze… Noi abitavamo in quattro in una stanza e a scuola andavo dalle suore della Divina

Provvidenza. Lo stipendio di nonna era veramente magro, ma ci tenne tantissimo a comprare la

stoffa di pizzo francese, per la mia prima Comunione. Mi cucì il vestito una sartina di

Monterotondo, che abitava in un casa con una sola grande stanza, con il letto matrimoniale e due

lettini. La finestra di quella stanza dava su una grande vallata, e quando era il tempo della

vendemmia si vedevano arrivare gli asini carichi di bigonci con l’uva. Anche la macchina da

cucire era in quella stanza.

Quando finì di cucire il vestito, lo appese su una stampella, esposto in modo che tutti lo

potessero vedere.

Mio padre, che era stato militare di carriera, conosceva un cappellano militare, che tutti

chiamavano, ma non ricordo il perché, “Padre Fanghiglia”, al quale chiese di farmi fare la prima

comunione a San Pietro in carcere, sotto il Campidoglio. C’eravamo solo noi alla funzione, perché

eravamo riusciti ad avere una cerimonia tutta privata. Un collega di papà di nome Luigi, che aveva

una bella voce da tenore, venne in chiesa a cantare l’Ave Maria di Gounod.

Io mi ero preparata, con tutta me stessa, studiando dottrina per tre mesi dalle suore. Il

giorno della prima comunione ero tutta compresa dall’evento ma, quando sentii il bel canto di

Luigi mi sono distratta, non riuscivo più a concentrarmi sulla Messa in latino. Ho cercato di

seguire le preghiere sul mio libriccino che era bianco, di madreperla, con le scritte in oro, ma ero

proprio frastornata. Quando mi diedero l’ostia, iniziai a piangere e, commossa ed emozionata,

andai ad abbracciare mamma. Il pomeriggio, a casa dell’altra nonna, ci fu il rinfresco e venne

anche il tenore Luigi, che cantò ancora una volta. Il pezzo che intonò era “Una furtiva lagrima” ed

io piansi dall’emozione. Dalla povertà in cui vivevamo, affiora questo ricordo bellissimo di una

giornata di grande lusso e “ricchezza” e, ancora oggi dopo tanti anni, mi emoziono nel ricordarla.

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CARLA E STEFANO, ANCORA INNAMORATI

Siamo qui io e te in questo mondo senza pensare a quello che succederà.

Siamo qui io e te come in un sogno senza pensare a quando ci si sveglierà.

Io e Stefano ci siamo conosciuti nel 1968, in quel periodo di grandi cambiamenti: la guerra

del Vietnam, i primi scontri a Valle Giulia tra gli studenti e la polizia, la rivoluzione sessuale…

Erano anni molto politicizzati. Avevo preso il pulman per andare sulla neve, ad Ovindoli e

occorrevano più di quattr’ore di viaggio. Guardavo questo ragazzetto che era carino da morire,

abbiamo iniziato a chiacchierare e ho subito detto una bugia sull’età, perchè mi sono sempre

sentita più vecchia degli anni che avevo. Anche oggi, che ho 69 anni, mi vergogno della mia età,

mi sento più anziana di quello che effettivamente sono.

Malgrado un padre rigido ed una mamma con un carattere un po’ instabile, ho tanta

nostalgia di quei tempi, eravamo così innamorati, con tanto slancio e poesia… Siamo stati insieme

per quattro anni e poi ci siamo sposati. I primi tempi che ci frequentavamo, esitavamo ad avere

rapporti e ci ha molto aiutato un sacerdote, (si vede che un angelo ce l’ha messo sulla nostra

strada), che ci ha fatto capire che Dio, se ha creato l’uomo e la donna, desidera che l’amore sia

una cosa naturale.

Dopo due anni che ci frequentavamo, abbiamo fatto una vacanza insieme a mia sorella e al

suo ragazzo, ogni coppia con la sua tenda, in campeggio. Ci chiamavano “I fidanzatini di Peynet” .

Ne ho un ricordo veramente dolce e tenero, ma la cosa bella è che ancora oggi siamo così, dopo 46

anni di matrimonio, ancora ci teniamo mano nella mano.

Quando Stefano iniziò a lavorare a Milano, provammo a vivere insieme, in una camera

ammobiliata di un pensionato; una sua zia ci trovò questa stanza che aveva un bagno in comune

con tanta altra gente. Non ero capace di fare una cosa del genere, non mi sentivo a mio agio e

provai un senso di abbandono da parte di entrambe le nostre famiglie. Mi presi l’esaurimento

nervoso e ad un certo punto s’impose mio padre: mi rivolle a casa per farmi curare,mentre Stefano

avrebbe fatto avanti e indietro da Milano. Ricordo che diceva di prendere il treno “Bombay –

Lahore”, un treno che impiegava circa otto ore da Milano a Roma e fermava a tutte le stazioni.

Io temevo di lasciare la mia famiglia e assumermi la responsabilità di un’altra persona, che

era Stefano, a Milano, lontano da casa mia. Passai un periodo di crisi molto profonda. La mia

famiglia non condivideva il mio stato d’animo, anzi, insistevano che non potevo lasciare quel

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ragazzo dopo quattro anni… “gli puoi far fare quello che ti pare…”, dicevano. Ma non era così: lui

aveva la sua ferma volontà: mi aveva scelto proprio perché sapeva che con me non avrebbe fatto il

“pacco postale”, non mi sarei imposta sul suo modo di fare.

I miei vedevano in Stefano un bravo ragazzo, un’occasione da non perdere… ma anche io

avevo trovato lavoro a Roma. Un altro conflitto da gestire… Anche Stefano convenne che non

potevamo andare avanti così e mi propose di sposarci durante l’estate, periodo in cui poteva

usufruire delle ferie. Ho pensato che anche io non potevo vivere tutta la mia vita con questo stato

di indeterminatezza, così accettai.

Organizzai la cerimonia in maniera molto tradizionale, con le bomboniere e il vestito da

sposa. Quando Stefano vide il vestito si arrabbiò moltissimo e trascorse tutta la giornata di

pessimo umore: non avevo capito che lui aveva fatto uno grande sforzo nell’accontentarmi a

sposare in Chiesa e vedermi con il vestito bianco fu un vero colpo. Non ne avevamo parlato prima

e non ho pensato che avesse questo reazione: io invece, ero entrata nella parte come una perfetta

sposina e quell’episodio non lo abbiamo più affrontato.

Stefano e Carla, nel giorno del matrimonio

Ci siamo sposati nel 1972, ma io non mi sentivo pronta; l’indipendenza è una cosa che non

ho mai capito fino in fondo, anche andare a lavorare non l’ho vissuta come una forma di

indipendenza, ma un dovere da assolvere verso i genitori che erano in ansia per il mio carattere un

po’ indifeso.Abbiamo vissuto a Milano, per un periodo, in una casa molto carina e ne ho un dolce

ricordo. Avevamo fatto anche amicizia con una coppia deliziosa, Stella e Aldo, e per quei due anni

abbiamo vissuto molto serenamente il nostro matrimonio godendoci la libertà di uscire la sera,

trovarci a casa di amici, essere indipendenti.

Con il trasferimento a Roma, abbiamo abbandonato queste belle abitudini e con la nascita

del nostro bambino abbiamo dovuto affrontare nuovi problemi, ma il ricordo di quei due anni da

sposetti è ancora vivo e tenero.

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IL NATALE DI CARMELINA

Vieni vieni Bambino Gesù

Vieni vieni non tardar più

Vieni a nascere nel mio cuore

Caro mio bambino d’amore…

Sono solo tre anni che vivo a Roma, dove già abitano le mie figlie e adesso sono contenta.

Però il mio paese è Montefalcone in provincia di Benevento, un paese diroccato a 850 metri sul

livello del mare e dove d’inverno nevica.

Mio padre faceva il sarto, era un bravissimo sarto da uomo e lavorava in casa. In una

stanza di casa c’erano il bancone e la macchina da cucire e papà lavorava là dentro, dove, come

consuetudine, si faceva il presepe ad ogni Natale.

Io ricordo, quando nell’aria già si incominciava a sentire l’odore del Natale, quanta fretta

avevamo di fare quel presepe! Ma papà lavorava proprio in quella stanza. Allora, noi bambini

chiedevamo alla mamma di sollecitare papà, perché si sbrigasse a finire il suo lavoro. Perché il

desiderio e la gioia di fare quel presepe era incontenibile per noi bambini.

La preparazione del presepe era l’evento più bello di tutto l’anno. Ricordo un’atmosfera

dolcissima: papà faceva le pecorelle con la pasta appositamente preparata e costruiva le capanne

con il cartone. Poi, tutti insieme e portando con noi delle ceste, andavamo a raccogliere il

muschio. Una volta terminato il presepe, tutte le sere si recitava il rosario. La mia gioia era

chiamare tutte le vecchiette che abitavano vicino a noi, la più anziana recitava il rosario, davanti al

presepio, e poi si cantavano tutti i canti natalizi. Ne ricordo uno, che si cantava prima della notte di

Natale

Vieni vieni Bambino Gesù

Vieni vieni non tardar più

Vieni a nascere nel mio cuore

Caro mio bambino d’amore…

Poi quando Gesù era nato, si cantavano altre strofe, me le ricordo anche nel nostro dialetto.

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Che bel bambino è nate

Ndrè ‘na Vergine incarnate

Uommo factus est

Verbum carum factum est

In quelle serate, fredde e buie, mamma offriva un bicchiere di vino a tutti e ci sentivamo

felici, nell’attesa della notte nella quale si sarebbe ripetuto il miracolo della nascita. Anche se fuori

nevicava ed era tutto gelato, il presepe ci teneva caldo e tutti uniti. Per me adesso il Natale è

troppo consumistico, perché nel mio ricordo ci sono sempre quelle vecchiette tanto contente di

venire in casa nostra e quell’atmosfera che vivevamo condividendo, tutti insieme, la gioia

dell’attesa del Natale!

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CARMELINA RACCONTA

Spesso ragiona meglio il cappello che la testa (antico proverbio italiano)

Mi sono sposata il 25 luglio del 1970, dopo dieci anni di fidanzamento. C’eravamo

lasciati per un periodo e poi, quando ci siamo ritrovati, ci siamo sposati quasi subito. Io avevo 25

anni. Il matrimonio è stato un momento molto atteso, perché mio marito aveva perso la mamma a

12 anni e aveva tre sorelle suore.

Ci siamo sposati nel mio paese, a Montefalcone, in provincia di Benevento, e la mia

emozione è stata tanta, anche perché non avevamo mai avuto momenti d’intimità prima del

matrimonio. Oggi non è più così: se ci sentissero i giovani d’oggi non ci crederebbero e si

metterebbero a ridere… Non c’era possibilità di conoscersi in altri modi, perché la cultura e

l’educazione cattolica frenavano il bisogno di maggiore intimità fisica.

Arrivavi a quel giorno tanto atteso, con molto pudore e inesperienza. Il mio vestito da

sposa era di pizzo spagnolo ed era stato cucito da mia cugina, che faceva la sarta.

Ricordo un fatto accaduto il giorno del mio matrimonio, che oggi mi fa ridere di gusto, ma

in quel giorno… Avevo scelto come testimone mia zia Olga, che mi aveva anche tenuta a

battesimo. Lei abitava a Benevento e mi raccomandai che arrivasse puntuale alle 10,30, perché il

parroco celebrante era molto rigido e rispettoso dell’orario.

Le campane suonarono a festa annunciando il matrimonio e mia zia arrivò in orario… ma

quando scese dalla macchina, in testa aveva un cappello elegante a falde larghe e indosso un

vecchio abito che usava in casa. Il vestito per la cerimonia era rimasto a Benevento in una busta!

Tutti c’innervosimmo: mio papà le disse che poteva indossare uno dei vestiti di mia madre. Mia

zia Olga, invece, voleva a tutti i costi indossare il vestito scelto con tanta cura.

Per farla breve: mio zio tornò a Benevento a prendere l’abito e il rigido parroco aspettò per

più di due ore per celebrare la cerimonia, ma aspettarono anche gli sposi, i parenti, gli invitati e

tutti i paesani …. Il grande e profumato tiglio antistante la chiesa, accolse tutti pazientemente sotto

la sua ombra, in attesa che, la zia distratta, potesse indossare l’abito intonato all’elegante cappello

a falde larghe.

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UN VESTITO IMPORTANTE

CONSILIA RACCONTA

I genitori di Consilia

…..Ricordo un vestito bellissimo di mia madre, era di velluto con bordure ricamate e

perline; era orgogliosa di quel vestito e lo indossò, con le scarpette di vitello fatte su misura, per

andare in Comune in occasione del giorno delle promessa del matrimonio.

Lei lo raccontava con una luce particolare che si accendeva nei suoi occhi, orgogliosa di

quel vestito e per l’evento che rappresentava. Nessuno si poteva permettere un vestito del genere

e, forse proprio per questo, quando ne parlava, assumeva un’aria molto fiera.

Questa foto di mia madre con il suo vestito di velluto a bordure ricamate e perline, è

capitata tra le mani di mia figlia e del suo fidanzato che ha commentato: “A quell’epoca chi se lo

poteva permettere un vestito così?”……

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IL VESTITO DA SPOSA DI CONSILIA

Ogni matrimonio riuscito è territorio segreto…

Stephen King

Era il mese di settembre, nel 1953 quando mi sono sposata ed avevo 19 anni. Mi sono

sposata con un abito molto audace perché “décolleté”. A quell’epoca non si poteva entrare in

chiesa vestiti così ed allora ho dovuto tenere sempre il giacchino addosso. Il vestito era tutto

rameggiato e il pannello davanti era di organza bianca semplice e, quando camminavo, il vestito si

apriva davanti. Avevo i guanti bianchi, lunghi fino al gomito e un giacchettino della stessa stoffa

del vestito per coprire le spalle.

Il giorno del matrimonio io e mio marito abbiamo fatto la “sfilata” per le vie del

centro di Latina. Sono passata nella piazza della cittadina per raggiungere il corso, dove c’era la

chiesa. La mia amica Nennè mi guardava dalla finestra e siccome si sarebbe sposata quindici

giorni dopo, voleva rubarmi qualche idea, perché avevo anche una bellissima acconciatura che

scendeva con il velo dietro le spalle

Ancora oggi mia figlia mi chiede di quel vestito, perché avrebbe voluto vedere la parte di

sotto del vestito, che si apriva mentre camminavo. Il décolleté era dritto e io ero talmente magra

che al bustino avevamo dovuto mettere le stecche di balena, per tenerlo dritto.

Le scarpe erano bianche di pelle e le ho utilizzate anche in viaggio di nozze, a Venezia.

Ognuna di noi ha avuto un vestito di nozze bellissimo, perché il ricordo di quel momento della

nostra vita così importante, in cui si era giovani e si avevano tante speranze, è legato anche alla

preziosità ed unicità dell’abito.

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CONSILIA RACCONTA: MIA COGNATA,

SUORA NON PER SCELTA

Suor Margherita Ricci

Siediti ai bordi del silenzio, Dio ti parlerà. (Swami Vivekananda)

I miei suoceri sono morti giovani lasciando due figli, uno di otto anni, che sarebbe

diventato mio marito e la sorellina che ne aveva sei.

Gli zii di questi due bambini, che stavano piuttosto bene perché erano artigiani del rame, li

hanno cresciuti fino all’età adulta, mettendo da parte per loro anche un po’ di risparmi. Entrambi i

ragazzi sono andati in collegio a studiare, mio marito al collegio dei marinaretti a Sabaudia e mia

cognata Margherita in un collegio femminile.

Quando Margherita è uscita dal collegio, i suoi zii volevano farla sposare, ma le avevano

messo vicino un ragazzo che proprio non le piaceva. Margherita era una ragazza che ha sempre

accettato la volontà dei suoi parenti, anche se non ha mai potuto disporre della sua vita

liberamente, ma in quella occasione non c’è stato niente da fare: sarebbe stato troppo sposare un

uomo che non amava e tenerselo vicino per tutta l’esistenza. Così ha fatto quello che si sentiva di

fare ed è diventata suora.

Suor Rita questo è il nome che ha scelto. Una volta mi ha raccontato in convento, parlando

con le altre suore confessò a loro che, se fossero rimasti in vita i suoi genitori, forse non avrebbe

preso i voti. Una consorella, un po’ cattiva, riportò questa confidenza alla madre superiore e Suor

Rita, addolorata per questa chiacchiera, voleva spogliarsi. Il fratello, di fronte a questo gesto,

avrebbe accolto volentieri in casa sua Margherita. Io a quell’epoca avevo quindici anni ed ero

fidanzata con lui, ma ancora non eravamo sposati perché troppo giovani. Margherita, però, non

voleva ritornare tra le persone che la conoscevano e sapeva la sua storia, perché per lei sarebbe

stato imbarazzante. Così rimase in convento.

Io penso spesso a lei, con una vita cucita addosso da altri e senza sentirsi libera di

scegliere. Mi compenetro nella sofferenza di mio cognata che non ha potuto disporre liberamente

della propria vita. Comunque, alla fine, è stata veramente una brava suora, amata e rispettata da

tutti.

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IL VESTITO DELLA PRIMA COMUNIONE

MARILENA RACCONTA

Marilena con il fratellino, il giorno della Prima Comunione

“Che ci fanno queste figlie a ricamare e cucire, queste macchie di lutto rinunciate all’amore,

Fra di loro si nasconde una speranza smarrita, che il nemico la vuole, che la vuol restituita”

(Fabrizio De Andrè da “Disamistade”)

Mia madre lavorava nel laboratorio dell’istituto Principessa Maria Pia di Savoia, in Via

Giovanni Branca a Testaccio; era gestito dalle suore “cappellone” di San Vincenzo, una specie di

collegio femminile fino ai 18 anni. Mamma era la responsabile della maglieria e oltre a cucire,

insegnava alle ragazze del collegio. Mio fratello pensava che quelle ragazze fossero le figlie delle

monache e mi chiedeva sempre: “Mi porti a vedere le “figlie” delle monache?”.

Il laboratorio aveva tante specialità e ogni ragazza si specializzava in qualcosa: lingerie,

pizzo, merletto... ricamavano dei corredi bellissimi. Con gli avanzi dei lavori, mamma ci vestiva, e

così qualche volta i nostri pigiami erano cuciti con le stoffe dell’alta nobiltà di Roma…

Quando andavo a trovare la mamma al laboratorio, ero tanto felice, perché le ragazze,

mentre lavoravano, mi raccontavano delle favole bellissime, mi sembrava un mondo magico.

Forse perché era finita la guerra, forse perché il desiderio di ricominciare una nuova vita rendeva

tutti più sorridenti, non saprei… ma ricordo la serenità che quel luogo mi procurava.

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Il ritiro della Prima Comunione lo facemmo là dentro. Le suore ci diedero un libriccino,

dove dovevamo scrivere i fioretti. Che problema… io non sapevo proprio che scrivere e mio

fratello era peggio di me. Pino mi disse che li avrebbe inventati e scrisse: “ Non mi piace la

marmellata, ma per il cuore di Gesù ho mangiato pane e marmellata”. Io gli dicevo, che Gesù

sapeva tutto, non poteva scrivere bugie e lui mi rispondeva “Ma che ne sa…”.

Per la mia Prima Comunione, le “figlie” delle suore cucirono un bellissimo vestito di pizzo

per me e uno da cadetto per mio fratello; mi ricordo il momento in cui lo indossavo, mi giravo da

una parte e dall’altra, muovendo i capelli biondi e lunghi; mio fratello, invece, lo vestirono da

cadetto, con i bottoni dorati. La difficoltà più grossa fu quella di rimediare le scarpe: mamma ne

comprò una per volta, forse per non dare nell’occhio… le prese alla borsa nera.

Nella cappella del collegio le “figlie” delle monache organizzarono un piccolo altare come

se fossimo due sposetti e con la presenza di un vescovo. Alla cerimonia era presente anche la

sorella del vescovo, che mi regalò un bellissimo medaglione d’argento con dentro la coroncina. Io

avevo una borsetta di pizzo rotonda e misi in tasca quel medaglione.

Dopo la funzione, andammo a San Pietro, perché, a quei tempi, lo stesso giorno della

Prima Comunione si faceva anche la cresima. Ho un dispiacere enorme di quel giorno, perché

dalla borsetta scivolò il medaglione e lo persi. Era una cosa veramente preziosa.

Il mio vestito di pizzo fu arricchito con tanti fiocchetti e fu indossato da mia cugina, nel

giorno della sua Prima Comunione. Io, invitata alla cerimonia, lo riconobbi subito e dissi: “Uh,

come somiglia al mio vestito!”. Venne subito mia zia a zittirmi… “Non lo dire, altrimenti la gente

crede che sia tuo…”. Non mi avevano detto niente, io sono sincera e l’ho detto subito…

Poi quel vestitino è stato modificato in un bel vestito corto, ma mentre camminavo per via

Taranto, mi sono avvicinata ad un albero e mi si è strappato. Non finisce qui: mia madre pur di

non buttarlo, ne ha ricavato una bella camicetta per sé!

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UNA DICHIARAZIONE D’AMORE PARTICOLARE

NICOLINA RACCONTA

Nicolina, nel giorno del suo matrimonio

“Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”

(Lao Tzu, filosofo cinese del 500 a.c.)

Sono la più grande di tre sorelle e mi sono sempre sentita la più brutta delle tre.

La sorella dopo di me invece era bella e coccolata e insieme alla terza sorella era ricoperta

di un sacco di complimenti dai vicini… Quann’è bella Nannuzza (mia sorella Anna)… Quann’è

bella Mariuccia (mia sorella Maria)… e mia madre dondolava mia sorella dicendole: “Mammà chi

tiene? ‘A pupatiella mariuola! (la bambola ladra..)”.

Da ragazza mi guardavano solo gli uomini anziani e quando salivo sull’autobus, la gente

diceva: “Guarda gli americani come hanno ridotto questa povera ragazza…”, perché ero grassa e

sembravo incinta.

Un episodio mi convinse che ero veramente brutta.

Una sera, alla scuola serale a Piazza Indipendenza di Roma, arrivò Ennio, un nuovo

studente, veramente bello e si mise seduto vicino a me, ero così contenta…

Dopo tre sere mi ha chiesto di uscire insieme, non mi sembrava vero! Io, che avevo paura

ad uscire da sola con lui, chiesi a Lidia, un’amica, di uscire con noi. Lei era un po’ più bruttina di

me… La sera dopo, a lezione, Ennio mi disse che doveva parlarmi. Aspettavo ansiosamente che

cosa mi dovesse dire e quando rimanemmo soli mi disse:

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“Non portare mai le amiche con te, perché mi sono innamorato di Lidia.”. Che delusione,

da quel momento ho cominciato a sentirmi veramente brutta.

Da ragazza provavo sempre vergogna, quando mi presentavo agli uffici e facevo le prove

stenografiche per essere assunta. Mi presentavo sempre con mia sorella: a me dicevano che mi

avrebbero chiamato e poi s’interessavano di mia sorella, ma lei non aveva studiato… Adesso c’ho

una faccia che potrei recitare su diecimila persone senza provare vergogna!

Avevo tre sorelle molto belle, una in particolare, Anna, era talmente bella che il regista

Zavattini la voleva far recitare. C’era un giovanotto che mi dava i biglietti da portare a mia sorella.

Quando glieli davo, lei mi diceva: “Questo è scemo, io voglio sposare bene, questo c’ha grilli per

la testa…”.

Un giorno ho detto a questo giovanotto: “Senta, mia sorella non la vuole, perché non si

fidanza con me?” e lui mi ha risposto: “Ma a me piace Anna!”

“Se si fidanza con me, sta pure vicino a mia sorella…”. Che scema che ero!

Così ho fatto io la dichiarazione e all’epoca mia, 72 anni fa, era un vero scandalo.

Mi sono fidanzata a 17 anni ma è stato un fidanzamento particolare.

Dopo qualche giorno, mi diede un appuntamento con suo fratello, che in tutta onestà era

anche più bello di lui. Forse non voleva fidanzarsi con me e così mi ha fatto conoscere il fratello…

Passeggiavamo insieme e suo fratello, fra un complimento e l’altro che mi faceva, guardava le

altre ragazze … Non mi potevo fidanzare con quello lì e il giorno dopo andai al suo negozio di

frutta e gli dissi: “Io voglio lei, se mi vuole…”.

Mia sorella andò a riferire a mia madre che mi ero fidanzata con lui. Il mio futuro marito

aveva solo la prima elementare, mentre io avevo studiato. Mia madre allora andò in frutteria e lo

affrontò molto seriamente:

“Lei s’è fidanzato con mia figlia?”

Lui rispose: “E chi è sua figlia?”

E mamma disse: “Lina è mia figlia e lei la deve lasciare!”

Allora lui replicò: ” Signora, glielo dica lei a sua figlia, è lei che viene dietro a me…”

Le botte, le botte…. Io prendevo le botte, ma gridavo: “Tanto a 18 anni me lo sposo lo

stesso!”

Allora mia madre fu durissima: “Te lo vuoi sposare? Allora te lo sposi subito”. Io e mio

marito siamo stati fidanzati solo sei mesi, … per modo di dire. Mio padre è stato fidanzato con lui

per sei mesi! Tutte le sere stavano a casa a chiacchierare della guerra; io spesso rimanevo zitta in

un angolo e mio marito che capiva che mi avevano menato mi diceva: “Ce le hai prese?”.

Quelle volte che uscivamo insieme veniva sempre una sorella con me, come se dovesse

fare la guardia.

Quando ci siamo sposati mia madre per dispetto non mi ha fatto l’abito bianco e questo

non l’ho mandato giù, perché io lo meritavo. Mamma provò a dire che era per non far sentire a

disagio gli invitati e costringerli a vestire eleganti.

Ma che c’entravano gli invitati? Era il giorno del mio matrimonio.

I regali che avevo ricevuto erano ceci, fagioli, la farina… era il 1944. Malgrado tutto ero

così felice quel giorno, che non ho mangiato neanche un biscottino. Poi nel pomeriggio abbiamo

lasciato gli invitati a casa e mio marito è voluto andare al cimitero, al Verano. Siamo arrivati

davanti alla tomba di sua mamma, come se mi volesse presentare a lei… e ha iniziato a piangere e

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io appresso a lui… Mamma mia, ho pensato, che malinconia la giornata del nostro matrimonio…

Quando siamo ritornati a casa, non vedevo l’ora che se ne andassero tutti, perché avevo fame e

volevo mangiare. Invece arrivò sua sorella, che non era potuta venire al nostro matrimonio e si

mangiò il piatto mio.

Io non sapevo cucinare, perché da ragazza ero impiegata da Zingone e la sera andavo a

scuola per computista commerciale, non avevo molto tempo anche perché abitavamo in quattro

famiglie in una casa, noi eravamo in sei in una stanza, il bagno era uno solo e in comune con tutti.

Così lo dissi a mio marito e lui è stato buono e ha detto di non preoccuparmi che a cucinare

c’avrebbe pensato lui.

Il giorno dopo del matrimonio mio maritò uscì la mattina insieme a suo fratello e mi chiese

di cuocere i fagioli. Io li misi con acqua e sale, mi sembrava che fosse giusto così.

Quando tornò e assaggiò i fagioli, salati e crudi, prese la pentola di coccio e la buttò per

terra, rovinando il pavimento oltre a rompere la pentola. Ho un ricordo terribile di quella giornata.

Un giorno in cui andammo a mangiare da mia madre, mi chiusi in bagno e guardai, al di là

delle persiane, le mie compagne che giocavano a corda. Mi venne un groppo in gola e

improvvisamente mi resi conto di quanto fossero fortunate a godere ancora della loro giovinezza,

mi sentii improvvisamente triste. Piangevo e pensavo: “Beate voi, beate voi…”.

Mio marito aveva una frutteria e mi aveva detto di essere il padrone del locale, invece era

della sorella. Dopo quindici giorni venne questa sorella per conoscermi e appena mi vide, disse:”

Quella è tua moglie? Pensavo che fosse una bella donna!”. Lui mi avrebbe dovuto difendere,

invece…

In tutti gli anni che abbiamo vissuto insieme, non ha mai apprezzato che buona moglie

fossi e quanto mi sacrificavo per lui e la nostra famiglia. Facevo anche tanti lavori extra, riparavo

le cerniere lampo, portavo i clienti a mio fratello che aveva una gioielleria, andavo a raccogliere la

camomilla per le suore, pulivo la cappella al generalato delle Orsoline, persino la borsa nera delle

sigarette e della cioccolata, quella a forma di “cassa da morto”…

Ho messo da parte un soldo per volta e quando raggiungevo una cifra consistente

acquistavo un appartamentino e lo affittavo. Per fortuna che ho fatto così, oggi vivo nella mia casa

piccola e non devo chiedere niente a nessuno!

Le mie figlie le ho dovute mettere in collegio, perché noi lavoravamo tutto il giorno, però

le ho mandate in un buon collegio, dalle Orsoline, vicino Terni e sono cresciute brave ed educate.

Io avevo solo la domenica pomeriggio libera e approfittavo per lavare i panni e poi andavo a

trovare mia madre. Così dalle mie figlie ci andava solo mio marito. Lui non voleva che le nostre

figlie studiassero, perché tanto avrebbero fatto il mestiere nostro. Ma quale mestiere?

Se avessero avuto un negozio di frutta come sarebbero andate avanti? Da quel dì che ho

dovuto vendere il negozio…

Oggi, con la maturità degli anni e ripensando alle immagini della mia fanciullezza, mi vedo

sempre alla ricerca dell’affetto di mia mamma, forse perché non mi ha potuto allattare. Cercavo

l’affetto di mamma, sentivo che ne avevo tanto bisogno, anche i primi soldi che guadagnavo li

portavo tutti a lei, per sentirmi dire grazie… Forse ero un po’ gelosa, mi sentivo trascurata…

Ricordo che una volta ho indossato una camicetta di mia sorella, dovevo fare gli esami da

computista commerciale e volevo vestire carina; poi dopo l’esame l’ho rimessa a posto. Eppure

quella volta mia madre si è arrabbiata molto.

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Malgrado questo comportamento non ho creato distanze con mia madre e le sono stata

vicina fino all’ultimo giorno. Ho sofferto, è vero, ma ho avuto occasioni diverse anche per

diventare una persona diversa e oggi mi sento serena e bella per quello che sono.

'A speranza

Ogne semmana faccio na schedina:

mm a levo 'a vocca chella ciento lire,

e corro quanno è 'o sabbato a mmatina

'o Totocalcio pe mm' 'a ji a ghiucà .

Cuccato quanno è a notte, dinto 'o lietto,

faccio castielle 'e n'aria a centenare;

piglio 'a schedina 'a dinto 'a culunnetta,

'a voto, 'a giro, e mm' 'a torn' 'a stipà

Io campo bbuono tutta na semmana,

sultanto 'o lluneri stongo abbacchiato,

ma 'o sabbato cu 'a ciento lire mmano

io torno n'ata vota a gghi a ghiucà .

Nun piglio niente, 'o ssaccio... e che mme 'mporta?

io campo solamente cu 'a speranza.

Cu chi mm'aggia piglià si chesta è 'a sciorta,

chisto è 'o destino mio... che nce aggia fà ?

'A quanno aggio truvato stu sistema

io songo milionario tutto ll'anno.

'A ggente mme pò ddi: - Ma tu si scemo?

Ma allora tu nun ghiuoche pe piglià ? -

Si avesse già pigliato 'e meliune

a st'ora 'e mo starrie già disperato.

Invece io sto cu 'a capa dinto 'a luna,

tengo sempe 'a speranza d' 'e ppiglià .

Totò – Antonio de Curtis

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IL CINEMA PARROCCHIALE

NILDE RACCONTA

Nilde durante le scuole elementari

Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate.

(Alfred Hitchcock)

Quando ero bambina, abitavo dalle parti di Villa Fiorelli, e frequentavo la parrocchia di

SS. Fabiano e Venanzio, dove ho fatto la prima comunione. Mi ricordo che la domenica

pomeriggio, noi ragazzini della Parrocchia, andavamo al cinema parrocchiale dove facevano dei

film adatti a noi adolescenti. Nel palazzo eravamo in tanti ragazzetti ad andare al cinema e

mamma mi preparava, per merenda, le polpette di carne infilate dentro uno sfilatino di pane che a

Roma si chiamava ciriola. Ho ancora il sapore in bocca di quelle polpette, legato all’attesa del

film che avrei visto insieme ai miei compagni di giochi del quartiere.

Il cinema era nella parte retrostante la chiesa e, per arrivarci, bisognava salire una bella

scalinata. Don Carlo, che ci accompagnava al cinema, prima ci faceva dire una preghiera e solo

dopo, in silenzio, avremmo visto il film. Per noi ragazzi era impossibile non fare commenti e stare

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zitti fino alla fine del film,e quindi, sottovoce, chiacchieravamo tra di noi. Allora Don Carlo, che

aveva tra le mani un bastone lunghissimo, ci colpiva per ricordarci che dovevamo tacere. Ci

colpiva senza neppure spostarsi dal suo posto di controllo, e non ho mai capito come facesse a

sentire le nostre vocine basse basse. Durante l’intervallo del film, però, ci scatenavamo a far

rumore e a fare la merenda.

Alla fine del film si faceva anche un breve commento insieme a Don Carlo. C’è un film

che mi è rimasto impresso nitidamente perché mi fece commuovere molto; si intitolava “Il

Giardino segreto” e le emozioni che scatenò in me, allora adolescente, non le ho più dimenticate.

La locandina del film

La parrocchia non aveva un oratorio vero e proprio, però potevamo fare tante cose: c’erano

i vespri con le vecchiette e, noi ragazzi, con la nostra piccola comitiva andavamo tutte le sere.

Anche alla preghiera collettiva andavamo insieme, tutte le sere, ma debbo confessare che era una

scusa, perché tra noi ragazzi iniziavano già le prime occhiate amorose… anche se eravamo ancora

poco più che bambini.

Poi si usciva dalla chiesa tutti insieme e andavamo a piazza Ragusa a mangiare il gelato, a

passeggiare. Se chiudo un momento gli occhi rivedo tutto come allora.

Vicino a Piazza Lodi c’era un banchetto dove vendevano la gratta checca, avevano un

blocco di ghiaccio e lo grattavano dentro un bicchiere, poi aggiungevano il succo di limone o di

arancia, mentre a Villa Fiorelli in primavera, i muretti si riempivano di glicini profumati e noi,

con gli altri amici, ci arrampicavamo per prendere dei fiorellini chiamati “le scarpette della

madonna” e ce li mangiavamo golosamente. Erano dolcissimi, come i ricordi che mi vengono in

mente dei miei primi 23 anni di vita vissuti tutti in quella zona di Roma.

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IL PERIODO DI VITA MIGLIORE

ORNELLA RACCONTA

Io ho avuto la fortuna di nascere nel 1942 e quelli della mia generazione non ricordano

nulla della guerra: posso affermare, senza timore, di essere vissuta e di vivere questo scampolo di

vita che mi rimane nel periodo migliore. Avevamo l’entusiasmo, c’era umanità tra le persone,

mentre oggi si riscontra una disumanizzazione che ha sconvolto la nostra società. Ho vissuto gli

anni sessanta con gioia, usufruendo dei progressi della scienza e delle nuove conoscenze.

Mi sento fortunata così e non m’interessa se scopriranno come arrivare a 120 anni…

Un nostro amico quest’anno compie 100 anni, si sente solo perché il cerchio intorno a lui si

restringe sempre di più: ha scritto una poesia, in cui il treno della vita si avvicina sempre di più

alla stazione. Io cerco sempre di trovare un altro lato per alleggerire lo stato d’animo… siccome

sono le ferrovie italiane, non sono quelle svizzere, possiamo stare tranquilli che quella stazione

arriverà in ritardo.

Lo diceva anche la seconda moglie di mio padre, che aveva 90 anni: ogni età comporta i

suoi problemi.

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Biagio Casale, che sta per compiere 100 anni.

Biagio viene da una numerosa famiglia ed altre sue sorelle, oltre a lui, frequentano i

laboratori e le iniziative culturali della Comunità Mamre-San Frumenzio. Nonostante sia quasi

centenario, Biagio scrive ancora bellissime poesie e partecipa al laboratorio di lettura.

Se incontri il suo sguardo, riesci a vedere, nonostante gli anni e le prove che la vita riserva

a ciascuno di noi, il bambino che ancora alberga nel suo cuore. Biagio, nella seconda guerra

mondiale, fu dato per disperso e si salvò dal naufragio rimanendo attaccato ad un pezzo di legno

galleggiante…. Ma questa è una storia che già ci ha raccontato sua sorella Antonietta ed è una

storia inserita in questa raccolta.

DUE POESIE DI BIAGIO

La stazione della vita

Il treno corre veloce,

tu non lo vorresti, tu vorresti che andasse piano

vorresti sempre più tempo,

per assaporare la bellezza

dei paesaggi, vorresti più tempo

ma il treno va veloce

ti specchi nel vetro del

finestrino, e a quella figura,

le chiedi chi sei, dove vai

ma il treno corre veloce

e la stazione

la stazione è sempre più vicina.

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La Fede

Ho scalato montagne

Ho attraversato tanti mari

Cercavo quello che non si vede

Non si vede, ma si sente

Non ha odori, ma profuma

Non ha luce, ma è luminosa

Non ha colori, ma è un’iride.

Ero desolato, sfiduciato

Ma all’improvviso

Mi è apparso un globo dai mille colori

Che mi avvolgevano

Formandomi una seconda pelle:

era Lei, quella che cercavo:

la fede.

Il tempo ha portato via tutti i miei ricordi

Le mie aspirazioni

Le mie delusioni

I miei amori

I miei timori

I miei rancori

La mia gelosia

La mia nostalgia

Le mie bugie

La mia gioia

La mia noia

La mia paura

La mia bravura

La mia bontà

La mia cattiveria

I miei tradimenti

I miei pentimenti

I miei sentimenti

Le mie antipatie

Mi è rimasta solo la mia solitudine.

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SCRIVERE INSIEME UNA LETTERA

Durante la raccolta di testimonianze e narrazioni presso la Comunità di San Frumenzio, la

Libera Università di Anghiari si fece coordinatrice del Progetto Europeo “Scrivere Oltre Il

Silenzio”, messo in piedi nella giornata del 25 novembre 2013 con l’iniziativa “Scrittura

Simultanea Contro la Violenza sulle Donne”.

Accettare di scrive la sottostante lettera ad una donna sconosciuta che vive l’oltre

confine dell’amore, è stato un momento molto commovente nel gruppo.

Allegare nella pagina successiva, in fondo a tutti i racconti raccolti nel laboratorio

Mamre-San Frumenzio tra i partecipanti del progetto “RaccontarsiRaccontandonoi bambini al

tempo della guerra”, ha il significato di speranza verso il futuro, perché sempre più donne

trovino il coraggio di denunziare le violenze subite, anche tra le mura domestiche.

Di seguito, nella pagina successiva, la lettera collettiva che abbiamo, tutte insieme,

approntato.

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“La farfalla non conta i mesi ma i momenti. Ed ha tempo a sufficienza.”

(Rabindranath Tagore

LETTERA AI BAMBINI CHE NASCERANNO NEL FUTURO

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Cari bambini che nascerete nel futuro,

Noi, nonne e nonni del presente possiamo solo cercare di immaginare come sarà questo pianeta

negli anni a venire e come voi, piccoli abitanti del futuro Pianeta Terra, giocherete, studierete,

amerete e diventerete, a vostra volta, adulti, mamme, papà e nonni…….Il mondo del futuro sarà

vostro e del nostro passaggio resterà, forse, qualche foto sbiadita e qualche ricordo narratovi dai

vostri genitori. Sappiate, però, che anche noi siamo stati bambini fiduciosi, giovani speranzosi ed

adulti consapevoli. Abbiamo vissuto, nel bene e nel male, la nostra epoca con lo sguardo proteso

verso un futuro che ci siamo sempre augurati migliore per voi. E’ per questo che, nonostante

l’avanzare della scienza e della tecnologia,

vi regaliamo questa piccola arcaica valigetta che vi preghiamo di aprire con

cautela e rispetto. Contiene tutto quello che per noi è stato prezioso e che ci ha aiutato a star

bene con noi stessi e con gli altri. Speriamo che queste piccoli accorgimenti di vita possano

essere utili anche a voi, come per noi lo sono stati.

IL CONTENUTO DELLA VALIGETTA:

TENERSI PER MANO

abbiamo imparato da bambini che tenersi per mano è un atto di fiducia verso gli

altri e verso il mondo. Tenersi per mano quando si attraversa la strada da bambini, tenersi per

mano quando bisogna affrontare il primo giorno di scuola, tenersi per mano quando si ama

qualcuno, tenersi per mano quando si ha paura e tenersi per mano quando si ci incammina verso

l’ultimo tratto di strada della propria esistenza. “Tenersi per mano” è nella valigetta che vi

doniamo.

SORRIDERE

Imparare a sorridere e cercare di vedere il lato migliore delle cose: questo è il

nostro piccolo dono, perché per risollevarsi dal disagio e dal malumore, basta il sorriso di chi ci

vuole bene. Tanti rapporti, tanti dialoghi, tante incomprensioni si alleggeriscono con un sorriso.

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E’ un semplice segreto e quando lo metterete in pratica, non potrà che portarvi serenità. Ad un

sorriso avrete per risposta un altro sorriso.

AMORE PER IL PROSSIMO

Per me è la cosa più importante, da mettere nella valigia, è l’amore per il prossimo.

Credo che sia la cosa più importante, perché amare se stessi ed amare gli altri permette di

godere di tutti i doni che la vita possa offrire a ciascuno di noi.

IMPARARE DAGLI ALTRI

Tante cose vorrei mettere in valigia, ma ascoltare gli altri ed imparare quello

che le persone possono insegnarci, è molto importante. Bisogna tenere più in conto le persone

chi ci stanno vicino, perché ogni incontro è un dono e la persona che oggi puoi incontrare sulla

tua strada, potresti non incontrarla mai più.

L’UMILTA’

L’umiltà è la cosa che consiglio di portare sempre con sé nella valigia della vita.

Quell’umiltà che come una timida viola, cresce nascosta nell’erba. Ho sempre tenuto presente

grazie agli insegnamenti dei “Padri”, lungo tutto il sentiero della mia vita, questa piccola grande

verità.

NON GIUDICARE

Vorrei donare, ai bambini del futuro, l’insegnamento di non giudicare mai e di

accertare sempre di persona come stiano veramente le cose, tenendo bene a mente che, ogni

persona, merita rispetto e comprensione anche quando sbaglia.

LA SEMPLICITA’

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Semplicità, umiltà, ascoltare l’altro e sorridere. Queste sono le cose da portare in

valigia. Prima tra tutte resta la semplicità perché è nella semplicità che si annida la bellezza.

LA FEDELTA’

Vorrei lasciare ai bambini che verranno, la capacità di essere fedeli innanzitutto ai

propri valori come pure il saper rispettare e comprendere i valori degli altri.

COLTIVARE UN SOGNO

Anche voi, bambini del futuro, avrete una possibilità meravigliosa: quella di

sognare, sapendo poi perseguire con tenacia, costanza ed entusiasmo il vostro sogno che deve

essere custodito e difeso da chiunque voglia tentare di distruggerlo.

LA CURIOSITA’ INTELLETTIVA

Vorrei lasciare a tutti i bambini del futuro la curiosità intellettiva: i mezzi di oggi

offrono poco, ma con la curiosità si può imparare a conoscere il mondo, comprenderlo, amarlo,

condividerlo con altri e lasciarlo migliore di come lo si è trovato.

LA PAROLA E L’ASCOLTO

Ai bambini che verranno, vorrei dire come sia importante la parola, intesa come

prezioso mezzo per comunicare i propri stati d’animo, e l’ascolto, inteso come prezioso mezzo

per comprendere lo stato d’animo degli altri. Perché imparare a parlare con sentimento e

ascoltare l’altro con interesse autentico, mantiene la comunicazione sempre viva e stimolante.

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LA PACE

Mi piacerebbe comunicare ai bambini di un mondo futuro, che non riusciamo a

immaginare come sarà, la possibilità di vivere in un mondo di pace e non crescere con la paura

della guerra come è successo a me.

L’ONESTA’

Vorrei trasmettere ai nipoti che verranno, tante ma indispensabili virtù:

l’onestà, la serenità, la capacità di mettere pace e fratellanza. Sono virtù che vanno coltivate

durante tutto il tempo della vita e regalate, a piene mani, alle persone che incontriamo lungo la

nostra strada in questo mondo.

LA PAZIENZA

Con pazienza ho atteso che la vita mi consentisse di realizzare i miei sogni.

La mia famiglia ed i miei figli, sono stati la consolazione migliore per il mio temperamento

indipendente. Auguro ai miei futuri nipoti di trovare un posticino nella valigia per la pazienza,

una dote indispensabile per saper godere delle cose che si amano anche se, a volte, bisogna

aspettare che il tempo si prenda il suo tempo.

E PER FINIRE……..

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Noi, bambini nati nello scorso millennio, abbiamo condiviso alcuni piccoli piaceri che vogliamo

raccontarvi:

Fuori dalle nostre scuole, quando uscivamo a fine lezione, c’era sempre un “nonnetto” oppure

una “nonnetta” con il suo minuscolo carrettino pieno di ogni possibile leccornia. Dalla scuola si

usciva sempre con un leggero languorino e così ci ammassavamo tutti intorno al carrettino dei

“nonnetti” dove, per pochi spiccioli delle vecchie lire italiane, si poteva comperare qualcosa.

Volete sapere cosa? Leggete qui sotto:

Il Castagnaccio (farina di castagne in bustina) le mosciarelle (castagne secche da rosicchiare) i

ceci abbrustoliti, i lacci (lunghi tubicini di morbida liquerizia) le fusaje (lupini lessati e salati offerti

in piccoli cartocci di carta paglia) le lecca-lecca, i bruscolini ( semi di zucca abbrustoliti e salati)

etc.etc

La domenica si andava alla Messa dei bambini che cominciava alle 9, digiuni dalla mezzanotte

per fare la comunione. Finita la messa, offrivano un biglietto per il cinema del pomeriggio presso

l’oratorio ed un biscotto doppio con dentro della marmellata e con la scritta P.O.A che

significava “Pontificia Opera Assistenza”. Qualche volta il pomeriggio, all’oratorio, ci veniva dato

anche un formaggino di surrogato di cioccolata (la Nutella ancora non esisteva). Quanto era

buona quella cioccolata……. Non potremmo mai dimenticare il suo sapore, anche perché

ciascuno di noi mangiava queste squisitezze in compagnia dei propri compagni di scuola o di

oratorio……..si rideva, si giocava, si dichiarava la propria amicizia e…… questa era la gioia più

grande, quella di stare insieme!

Poi si tornava a casa e, intorno alle 18 si accendeva la radio per ascoltare la sigla

di una trasmissione radiofonica che andava in onda ogni giorno e che si chiamava “Ballate con

noi”. In più di una abitazione, in cucina oppure nel tinello, si spostava il tavolo e si ballava al

suono di quelle musiche che venivano trasmesse per circa mezz’ora. Poi, l’uccellino della radio,

ovvero il segnale di intervallo tra una trasmissione generata in un luogo d’Italia ed una generata

in un altro, ci avvertiva che era ora del notiziario serale e preannunciava la cena della famiglia al

completo intorno ad un tavolo.

E qui finisce la nostra lettera di accompagnamento al dono della valigetta.

Vi abbracciamo con tutto l’amore possibile

AnnaMaria C., Augusto, Gilberto, Loredana, Nannarella, Nilde, Annamaria A. , Elisa, Marilena,

Consilia, Cecilia, Carmelina, Maria, Carla, Nicolina, Elda, Angela, Alberta, Antonietta, Bianca,

Gianfranco, Ornella, Cesare, Giuseppina, Biagio, Giuseppina

Laboratorio presso la Comunità San Frumenzio

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La realizzazione di un libro è un’operazione complessa che richiede numerosi controlli su

testo ed immagini; la nostra esperienza ci suggerisce che è impossibile pubblicare un

volume privo di errori. Ringraziamo anticipatamente i lettori che vorranno segnalarceli al

all’ indirizzo di posta elettronica , dell’Associazione RaccontarsiRaccontando, che

trovate qui sotto:

[email protected]

FINE

Laboratorio autobiografico 2014/2015

Tenuto presso la sala biblioteca della Comunità San Frumenzio