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Ci proviamo.Da quest’anno Il Weiliero vorrebbe estendere la collaborazione anche ai docenti, con un nome (lo ammettiamo) non originalissimo (Quaderni del Weiliero, o in acronimo QW, e qualcuno penserà forse alle Cosmicomiche calviniane, e non lo si è fatto apposta!...) ma con contributi originali dei colleghi. Uno spin off, per esprimerci con il linguaggio delle serie televisive. Quello che avete in mano è l’episodio pilota, speriamo non l’unico. Anche se falliremo saremo soddisfatti lo stesso. Lo scrive Rilke da qualche parte (vero, prof. Rota?).Cominciamo con tre scritti di musica, di storia, di letteratura, passando dai cantanti italo-americani (Francesco Chiari), all’anniversario della caduta del Muro (Andrea Rota), alla provincia italica (il sottoscritto). Ma siamo aperti a ogni suggerimento: accoglieremo a braccia

aperte racconti, spunti poetici, disegni, progetti, studi critici, minisaggi (partiture musicali no, ma forse brani da inserire nel blog della testata principale forse). Fatevi avanti, please. Si garantisce libertà di espressione, ovviamente. Avremo periodicità irregolare (ci saremo se avremo materiale da pubblicare).Abbiamo preferito un impianto sobrio, quasi spartano, come vedete. Preferiamo la sostanza, ma non trascuriamo l’eleghanzia. L’aspetto grafico è a cura degli impagabili grafici del liceo artistico, che ringraziamo di cuore.Ringraziamo anche i lettori per l’attenzione e la fiducia. Sosteneteci.

Il responsabile del WeilieroAlberto Sana

EditorialeSommario

Italiani in canto di F. Chiari...................................................................p. 6

Le ombre lunghe del muro di A. Rota.................................................p. 12

Storie di provincia e di piccoli isolazionisti di A. Sana...................... p. 16

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Italiani in cantodi Francesco Chiari

Il libro di Antonio Stella L’Orda - quando gli albanesi eravamo noi tratta di come furono accolti i nostri emigrati all’estero, e in questo caso tratteremo dei nostri connazionali negli Stati Uniti e della loro lotta - vittoriosa ma piena di difficoltà - per essere accettati nella società americana: sappiamo bene, infatti, ad esempio dalle storie dei poliziotti Joe Petrosino e Frank Serpico, che gli italiani furono percepiti all’inizio come ‘non bianchi ’, e quindi trattati come i gruppi minoritari, tanto che a loro non furono risparmiati nemmeno i linciaggi - drammatico quello di nove italiani nel 1891 a New Orleans - e discriminazioni, come ad esempio la discussione nello stato del Tennessee, l’anno stesso in cui Petrosino entrava nella polizia, sull’opportunità di mandare i bambini italiani alle scuole per bianchi o alle scuole per neri.Vorremmo in questa sede analizzare alcuni fenomeni legati a questo processo: il primo fenomeno, che come vedremo

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si è protratto fino ad oggi, consiste nel cambiare il nome per assumerne uno che non avesse connotazioni etniche, per cui fosse accettabile anche dalla società maggioritaria statunitense. Così, abbiamo - per limitarci ai cantanti, noti o meno noti - casi come Frankie Laine (Francesco Lo Vecchio, figlio tra l’altro del barbiere di Al Capone), Jerry Vale (Gennaro Luigi Vitaliano), Vic Damone (Vito Farinola), Dean Martin (Dino Paul Crocetti da Montesilvano, in Abruzzo, che gli ha dedicato il PalaDeanMartin), Perry Como (Pierino Como, genitori chietini provenienti da Palena), Johnny Desmond (Giovanni Alfredo De Simone), Bobby Darin (Robert Cassotto), Tony Bennett (Anthony Dominick Benedetto, di origine calabrese), Bobby Rydell (Roberto Ridarelli, che come Dean Martin cantava Volare), Frankie Avalon (Francesco Avallone), Fabian (Fabiano Forte), Dion (Di Mucci, fierissimo delle sue origini italiane), l’arrangiatore Henry Mancini (padre aquilano, di Scanno, e madre napoletana) per arrivare al cantante degli Aerosmith Steve Tyler (calabrese di Crotone, vero nome Stefano Tallarico).Non vogliamo certo dimenticare l’altra metà del cielo, per cui citiamo Madonna (Louise Veronica Ciccone, padre abruzzese di Pacentro, provincia dell’Aquila, e madre franco-canadese, Madonna Fortin), Gwen Stefani (di padre italiano), Cindy Lauper (madre palermitana), Alicia Keys (vero nome Augello Cook, padre afroamericano e madre siciliana, da Sciacca, provincia di Agrigento), Lady Gaga (Stefani Joanne Angeline Germanotta, padre siciliano e madre veneta) e LP (Laura Pergolizzi, padre siciliano e madre napoletana; lei stessa afferma che in casa, dopo l’inglese, non si parlava italiano, ma ora uno ora

l’altro dei due dialetti!)Il primo, cronologicamente, a non voler adottare uno pseudonimo anglosassone fu Francis Albert Sinatra, sicuramente avvantaggiato dal fatto di non sembrare tipicamente italiano: negli anni Venti e Trenta del secolo scorso ‘italiano’ era associato con ‘gangster, malavitoso’, alto un metro e sessanta, con gli occhi neri, una pancia formidabile e quintali di brillantina, mentre come noto Frank Sinatra era alto e magro - all’epoca almeno - coi capelli chiari e gli occhi azzurri, che gli valsero in seguito l’appellativo di ‘Ol’ Blue Eyes’. Giocava in questo il codice genetico del padre, Martin Sinatra - palermitano di Lercara Friddi, proveniente cioè da una zona dove gli abitanti avevano ascendenze normanne oltre che greche e arabe: non a caso passò al figlio gli occhi azzurri - e da cui Frank ammise candidamente di aver ereditato il tempestoso carattere siciliano (mentre la madre Natalia ‘Dolly’ Garaventa, figura importantissima per tutta la vita del figlio, era originaria di Genova, tanto che Frank era un appassionato tifoso del Genoa), e anche il signor Martin, nella sua carriera di pugile, aveva dovuto combattere sotto il nome di Marty O’Brien, perché un irlandese era accettato meglio di un italiano nei primi anni Dieci del secolo scorso; comunque, il padre insegnò al figlio anche come difendersi da chi lo infastidiva, e certo Frank imparò molto bene la lezione, come sa chiunque abbia avuto la sventura di fare a pugni con lui.Al di là di questi dettagli biografici, la componente italiana in Sinatra si concretizza nel dettaglio che lo distingueva sin dagli

inizi da tutti - soprattutto da Bing Crosby, suo idolo e in seguito suo amico - ossia il legame strettissimo fra il suo stile di cantante e il portato della sua esperienza linguistica: detto molto sommariamente, l’italiano si differenzia dall’inglese per due dettagli fondamentali, innanzitutto perché è una lingua prevalentemente polisillabica mentre l’altra è tendenzialmente monosillabica (il che la rende particolarmente adatta a stili ritmicamente vivaci come il blues e il rock: basti pensare a molti titoli dei Beatles, in prevalenza composti di parole monosillabe), e poi - questo davvero è l’elemento fondamentale - in italiano le vocali sono ‘piazzate’ dall’accento in maniera inequivoca, e non risentono delle consonanti e/o vocali precedenti o successive, al contrario di quanto avviene in inglese. Se infatti osserviamo l’onda sonora di una vocale italiana per mezzo di un oscilloscopio, notiamo - solo un esempio fra tanti - che la ‘o’ accentata in ‘giorno’ e in ‘tronco’ mantiene la stessa forma, e questo giustifica la definizione dell’italiano come lingua eminentemente plastica, tendente all’articolazione netta e disambiguata, al contrario dell’inglese (e anche del francese, il che spiega come mai le canzoni francesi tradotte in italiano presentano spesso finali tronchi o costrutti come ‘io amo te’, a dir poco discutibili).Se ora applichiamo queste caratteristiche allo stile vocale di Frank, possiamo scoprire- sin dalle prime, embrionali incisioni radio degli ‘Hoboken Four’, quando era appena ventenne, che il segreto del suo stile era proprio quello, ossia cantare in una lingua monosillabica ma con

un sostrato mentale che viene da una lingua polisillabica, il che gli permette di pensare alla frase melodica poggiandola su arcate più ampie di quanto non avessero fatto i suoi predecessori, trasportando insomma nel mondo della canzone popolare quanto già i compositori italiani avessero fatto nell’opera (genere questo che però Sinatra non considerò molto, a parte la sua predilezione per Puccini). Se vogliamo una prova provata di quanto detto finora, possiamo confrontare due versioni di I’m A Fool To Want You, l’originale di Sinatra del 1952 per Columbia e il rifacimento di Billie Holiday del 1958 - sempre per Columbia- incluso nell’intensissimo album ‘Lady In Satin’: Sinatra accarezza testo e melodia fondendoli in un continuum sonoro nel quale la tensione si accumula fino al devastante finale ‘But right or wrong I can’t get along without you’, con le ultime due parole sparate sul registro acuto come farebbe un tenore operistico (Sinatra, che stava vivendo la storia tormentosa con la seconda moglie Ava Gardner, scappò dallo studio in lacrime appena terminata la registrazione), mentre Billie frammenta il testo secondo una logica del tutto confacente alla struttura della lingua inglese, ottenendo la stessa intensità di Sinatra ma stavolta per mezzo di un bilanciamento ben calcolato fra tensione, malizia, sprezzante ironia e dolorosa autocommiserazione, che comunque riesce a comunicare la passionalità del brano e la sua ambiguità in maniera diversa ma non meno efficace.Se ora riconsideriamo, anche solo sommariamente, gli artisti italoamericani -

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soprattutto i cantanti - che abbiamo elencato sopra, ritroviamo questi elementi sinatriani un po’ in tutti loro, con un filo ininterrotto che arriva fino al già citato Tyler: si veda la ballata elettrica a cuore aperto Don’t Wanna Miss A Thing, registrata con gli Aerosmith per la colonna sonora del film Armageddon - dove fra l’altro appare come attrice la figlia di Steve, Liv Tyler, la folletta del Signore degli Anelli - e si ascolti come il procedere per frammenti di poche note contigue o ad intervalli ravvicinati, agglutinate in fraseggi fra loro ben spaziati, ottenga il curioso ma non imprevedibile effetto di ascoltare un’aria di Puccini per l’epoca di Internet e dei social. Detto per inciso, a testimonianza di quanto la mentalità italiana rimanga anche come rimosso in gente come questa, Steve Tyler non volle un centesimo per la sua partecipazione al film perché - lo disse lui stesso - ‘è il primo regalo che faccio alla mia bambina’: come noto, Tyler era un tale cocainomane che la moglie, l’ex-playmate Bebe Buell, dovette andare a vivere con un altro musicista, Todd Rundgren, per proteggere la bambina, poi Liv a sedici anni andò a sentire gli Aerosmith e tornata a casa disse alla mamma che il cantante aveva le sue labbra, al che Bebe le rivelò la verità. Possiamo solo immaginare cosa deve aver provato Tyler nell’aver mancato al suo dovere di padre italiano - e cosa gli deve aver detto suo padre, da buon calabrese - anche se ora Steve si consola col fatto che Liv lo ha appena reso nonno per la terza volta. (Steve Tyler nonno? Ebbene sì!)Vogliamo concludere questo nostro primo viaggio nel mondo degli italoamericani in musica con una notizia singolare che

abbiamo scoperto nel corso delle nostre indagini: è inutile ricordare come il disco paradigmatico nel R’n’R sia Rock Around The Clock di Bill Haley & His Comets, del 1954, ma è invece utile ricordare che in quel disco quattro strumentisti su sette sono italiani: abbiamo infatti il chitarrista Danny Cedrone - purtroppo morto d’infarto poco dopo la registrazione - il quale riprese testualmente (da una incisione dell’anno prima sempre con Haley, Rock The Joint per la Essex), l’assolo di chitarra che tutti i solisti con Haley avrebbero dovuto replicare fin nei dettagli, e poi il sassofonista Rudy Pompilli, di origine marchigiana, il pianista Johnny Grande, di origine siciliana - come testimoniano le foto pubblicitarie, aveva i baffetti da ‘picciotto’ che dovette radersi per le apparizioni televisive così da non apparire troppo etnico - e il contrabbassista Al Rex, vero nome Alfonso Piccariello. Come ciliegina sulla torta, aggiungiamo che alcuni dei Comets, lasciato Haley, incisero un brano, Clarabella, scritto da Mike Pingatore, ossia Michele Pingitore - di chiara origine laziale -, brano finito poi nel repertorio di quattro ragazzi inglesi che non lo incisero mai su disco ma lo eseguivano volentieri alla radio; volete sapere chi sono? Be’, cercatelo nel primo volume di Live At The BBC dei Beatles… gli italiani arrivano proprio dappertutto.

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Jetzt wächst zusammen, was zusammen gehört, ovvero: ora crescerà insieme ciò che deve stare insieme. Non una semplice traduzione, bensì una parafrasi può rendere il senso delle parole con cui Willi Brandt, storico cancelliere tedesco e premio Nobel per la pace, avrebbe commentato la caduta del Muro di Berlino, di cui il 9 novembre si è celebrato in Germania il trentesimo anniversario. Dal 1961 al 1989 il Muro ha diviso la città in due settori, rappresentando al contempo il tratto più controverso della Cortina di Ferro. Comprensibilmente, i media di tutto il mondo ne hanno rievocato la rapida scomparsa, che ha spianato la strada alla Deutsche Wiedervereinigung, la “riunificazione” tedesca siglata il 3 ottobre dell’anno successivo. “Riunificazione”, tra virgolette. Di nuovo, infatti, una traduzione 1:1 non basta per comprendere fino in fondo il senso delle parole, ovvero il portato di

una definizione storica che di per sé risulta quasi allontanarsi dagli eventi da cui origina; eventi che vale la pena rievocare.

Lo stato di crisi terminale in cui nel 1989 versa la Repubblica Democratica Tedesca (RDT, basata sul modello socialista di stampo sovietico) erompe in tutta la sua evidenza a partire dal 2 maggio di quell’anno, quando il governo ungherese decide di aprire il transito verso l’Austria. Attraverso questa via ha inizio un esodo di massa di tedeschi orientali diretti verso la Germania Ovest (o RFT, Repubblica Federale Tedesca, basata sul sistema capitalista). Alla conseguente chiusura della frontiera tra RDT e Ungheria, nell’estate dello stesso anno in migliaia chiedono asilo politico presso le ambasciate tedesco-federali di Praga e Varsavia. A settembre, nella RDT si costituiscono

Le ombre lunghe del murodi Andrea Rota

gruppi di opposizione politica ampiamente coinvolti nelle Montagsdemonstrationen di Lipsia, le ‘manifestazioni del lunedì’ che hanno reso la città sassone uno dei più importanti luoghi di dissenso durante l’autunno 1989. Gli slogan di queste dimostrazioni pacifiche (tra i più noti: Wir sind das Volk! – ‘Noi siamo il popolo’ – in cui wir, ‘noi’, viene pronunciato con particolare enfasi; keine Kosmetik sondern Reformen! – ‘niente cosmesi, riforme!’) – assurgono presto a metonimia di una vasta parte della cittadinanza che, trovando sulla piazza la propria voce, si riappropria dell’identità e dell’autonomia individuali a lungo oppresse ad Est del Muro. Alla guida della SED (Partito Socialista Unitario Tedesco, al potere nella RDT) si succedono presto nomi e volti, ma ciò non basta alle centinaia di migliaia di manifestanti

che il 4 novembre, sull’Alexanderplatz (Berlino Est), rivendicano una riforma radicale del socialismo tedesco, sulla scia di quanto in corso in quegli anni in URSS (nel 1985 Gorbacev aveva avviato Glasnost e Perestroika). In una situazione di stallo senza precedenti, alle 18.57 del 9 novembre 1989, Günter Schabowski – membro di spicco della SED - dichiara durante una conferenza-stampa televisiva, senza particolare enfasi, la concessione di visto immediato a chiunque desideri recarsi ad Ovest. Nelle ore seguenti, questo improvvisato annuncio si traduce nell’apertura dei checkpoint presenti lungo il confine tra le due Berlino e, dopo più di 28 anni di esistenza, nell’abbattimento del Muro.In visita a Dresda (città della RDT), il 19 dicembre il cancelliere tedesco-federale

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Helmut Kohl viene trionfalmente accolto dalla piazza. Nelle manifestazioni di quei giorni comincia a farsi strada una netta spaccatura fra chi, a Est, chiede ormai a gran voce la riunificazione dei due stati tedeschi e coloro che al contrario continuano a progettare una riforma in senso socialista della Repubblica Democratica. Le attese di questi ultimi si rivelano ben presto utopiche: di fronte al benessere occidentale, ora ad apparente portata di mano, e alla sempre più drammatica evidenza del totale collasso economico ed ecologico del paese, le speranze di una concreta riformabilità del sistema socialista perdono rapidamente credibilità. Il 18 maggio 1990 viene siglato a Bonn (allora sede del governo della RFT) lo Staatsvertrag, il trattato che istituisce l'unione valutaria, economica e sociale dei due stati tedeschi a partire dal successivo mese di luglio. Alla base degli accordi è l'introduzione dell'economia di mercato,

della proprietà privata e della libera concorrenza nei Länder della Germania orientale. Nel frattempo si estende progressivamente alla RDT l'intero sistema amministrativo, finanziario, tributario e previdenziale della RFT.Il vento del cambiamento soffia ad Est sul fuoco della Abwicklung, l’insieme di controversi provvedimenti finalizzati alla liquidazione e all’epurazione della struttura burocratica, amministrativa e culturale del mondo socialista; mondo di cui l’Ovest che avanza - consapevole della propria indiscutibile vittoria sull’antagonista filosovietico - mira a cancellare a priori, e nel più breve tempo possibile, ogni traccia istituzionale. Il 1° luglio 1990 entra in vigore la Währungsunion, l’unione valutaria: con un valore di cambio alla pari (tuttavia senza un immediato adeguamento dei salari dell’Est), la Deutsche Mark della ricca Germania occidentale diventa

l’unica valuta circolante sull’intero suolo nazionale, entro i cui confini sono sospesi tutti i controlli lungo la frontiera interna. Ed eccoci infine al 23 agosto 1990, data in cui a Berlino Est si ratifica il Beitritt, alias l’ingresso della RDT nell’ambito di competenza costituzionale della RFT. È proprio la formula del Beitritt a rendere problematica, nel biennio 1989/1990, la traduzione del lemma Wiedervereinigung: la “riunificazione” ad esso sottesa, di fatto non è tale. Se “A+B=AB”, nella Germania del 1989 “A+B= una ‘A’ più grande”. La cosiddetta riunificazione nazionale avviene di fatto tramite il completo assorbimento della Germania socialista nella compagine politica tedesco-federale, anziché tramite la somma di due distinte esperienze sociali e politiche maturate in quarant’anni di storia. Più che di una riunificazione, il 9 novembre è anniversario della dissoluzione unilaterale del modello

tedesco-orientale, sostituito da quello occidentale. Conseguenza: in seguito alla caduta del Muro, i Tedeschi dell’Est devono adeguarsi – e lo faranno con estrema fatica – alle istituzioni, alla mentalità e al modo di vista dei connazionali dell’Ovest, nel quale invece nulla cambia rispetto allo status quo vigente fino all’apertura dei varchi. A trent’anni da quel fatidico 9 novembre e al di là delle reali condizioni materiali di vita, numerosi cittadini dell’ex RDT si percepiscono ancora come “tedeschi di serie B”, alla rincorsa di un Ovest spesso considerato prevalentemente come standard di riferimento, ma sovente avvertito come alterità. È su tali premesse che tutt’oggi poggiano molte difficoltà di un Est che nel termine Wiedervereinigung legge la promessa - non ancora completamente realizzata - di un’effettiva uguaglianza tra cittadini; cittadini per i quali le ombre del Muro non sono ancora del tutto svanite.

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Storie di provincia e di piccoli isolazionistidi Alberto Sana

Gli scrittori che attendono di essere letti e riscoperti sono certamente legione, e sono legione quelli che meritano il dimenticatoio. Credo di aver avuto la fortuna – su segnalazione altrui – di essermi forse imbattuto in uno di quelli la cui opera (sarà davvero così?) probabilmente resterà.Si chiama – o meglio, si chiamava, giacché è defunto da tre anni – Tommaso Labranca ed abitava, con scelta perentoria e consapevole, in provincia, a qualche chilometro da Treviglio, esattamente a Pantigliate, cintura milanese (si diceva una volta), ora parte della città metropolitana. Per ragioni che sarebbe lungo e noioso spiegare qui, amo visceralmente le lande extraurbane e per predilezione personale mi trovo più a mio agio a Zingonia o a San Felice del Molise che a Roma o a Milano. Labranca fu contemporaneamente il cantore (il termine è troppo ottocentesco?) e il critico della provincia dei nostri tempi iperconfusi, di cui ha descritto come pochi altri il fascino anche perverso.T-La, come si faceva chiamare, è morto a cinquantaquattro anni di infarto nel 2016, solo, di notte, nella sua Maison, un appartamento dei più comuni, in cui teneva miniparty patafisici: al mattino il cadavere è stato rinvenuto dalla madre, residente nella stessa palazzina. Ha scritto libri bellissimi (non tutti), è stato un agitatore culturale (si può ancora dire?), a detta degli amici aveva

un pessimo carattere e non sopportava molte cose e persone. Conosceva molte lingue e per vivere faceva il traduttore, di manuali tecnici tedeschi o di romanzi di serie B. È stato il primo, nei poco mitici anni Novanta, a utilizzare e distinguere scientificamente le categorie di trash, camp e kitsch – ma ci torneremo. Tra le altre cose ha compilato gustose biografie su fenomeni imprescindibili del pop nostrano o di oltremanica/oltreoceano come Riccardo Fogli (!), Renato Zero (!!), Orietta Berti (!!!), Pietro Taricone (!!!!), Michael Jackson, Freddie Mercury, Skin, Coldplay (sento che qualcuno sta già storcendo il naso…), ma anche Jimi Hendrix. Negli altrettanto poco mitici anni Ottanta ha fondato il progetto multimediale La Misère provoque le génie. Con Aldo Nove e altri “cannibali” ha ideato il Nevromanticismo (vedasi whiskypedia). È stato uno dei primi blogger della rete, ha scoperto Faccialibro in tempi non sospetti, ma se n’è allontanato disgustato dopo pochi anni. Ha dato vita nella ticinese Capolago, per la casa editrice 20090 (il cap di Pantigliate), alla rivista “Tipografia Helvetica”. È stato conduttore radiofonico e autore di programmi televisivi, tra cui il quasi celeberrimo Anima mia, con Fazio e Baglioni, che molti ricorderanno.I suoi libri migliori (saggi? romanzi?) non sono mai stati ristampati e trovarli in libreria è impossibile; sono reperibili in rete, usati,

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e ovviamente in biblioteca. Per l’italianista e dantista Claudio Giunta – autore di un manuale di letteratura italiana che qualcuno tra i colleghi conosce – sono opera di un geniaccio. Ecco la sequenza dei volumi più rilevanti, editi perlopiù da Castelvecchi e da Excelsior 1881: Andy Warhol era un coatto (1994), Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli (1995), Chaltron Hescon (1998, per Einaudi, ed esilarante fin dal delizioso gioco di parole del titolo), Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell’eleghanzia (2002), Il piccolo isolazionista (2006), 78.08 (2008), Haiducii (2010; qualcuno ricorda, dell’effimero gruppo rumeno, il tormentone Dragostea din tei?), Astrakhan. La zia e l’estetica perbenista (2011).Al contrario di quello che i titoli potrebbero suggerire, Labranca è uno scrittore coltissimo, e – se il paragone non suscitasse le ire o gli sberleffi del mio amico Aurelio Cavalleri – mi piacerebbe definirlo come il piccolo erede nostrano dei grandi moralisti francesi del Seicento (esagero: l’entusiasmo gioca brutti scherzi). Intellettuale (categoria che aborriva) anarchico-individualista, da alcuni definito addirittura “leghista di sinistra” (e che vuol dire?), sociologo a modo suo, con l’occhio lungo dell’analista ha anticipato di almeno vent’anni la realtà che abbiamo sott’occhio mentre camminiamo per strada, ci fermiamo

all’autogrill o andiamo al supermarket o in pizzeria: il trionfo di un’estetica degradata, del gusto per il pecoreccio, del tamarrismo, dell’estetica trash, appunto, che egli definisce aforisticamente con una formula camp (che dal trash prende ispirazione rivalutandolo intellettualmente) così:

“Intenzione meno risultato ottenuto”.

Il kitsch, invece, mira ad essere elevato, con l’eliminazione degli elementi considerati bassi e volgari, ma, volendo essere ciò che non è, manca il bersaglio e l’originalitàLabranca traccia coordinate cangianti di una reale topografia per “vivere e capire il trash”, come recita il sottotitolo di Andy Warhol, e compilare una “fenomenologia del cialtronismo contemporaneo”. Ciò che distingue l’operazione di Labranca da molte raffinate analisi di intellettuali famosi, alla Debord o alla Virilio, è il fatto che lo scrittore abita e utilizza la realtà che descrive, certo con consapevolezza dai più inattingibile, ma senza snobisticamente allontanarla da sé: in essa Labranca nuota(va) agilmente come un “Giovane Salmone” – la definizione è sua – risalendo la corrente. Insomma, T-La per sbarcare il lunario andava davvero a fare la spesa da Lidl, accettava davvero contratti capestro per tradurre libri improbabili e incontrava realmente i suoi simili per le strade delle

migliaia di Pantigliate padane, individui educati dall’estetica del mobilificio Aiazzone e di Cesare Ragazzi, persi nelle interminabili notti delle TV locali con palinsesti di réclames in diretta di batterie di pentole e repliche infinite di filmetti pruriginosi; ma ha anche avuto a che fare con la divertentissima e bislacca famiglia di immigrati rumeni che abitava al piano di sopra ai tempi della stesura del romanzo Haiducii. Il risultato della peggior pubblicità e delle aspirazioni fallite ha creato quella categoria vastissima che Labranca chiama “neoproletariato”, in cui all’intellighenzia già scarsa è stata sostituita l’eleghanzia becera finto-borghese, finto-esclusiva, vero-squallida: plagiati masochisticamente, aiazzonizzati e mediasettizzati, non possiamo non dirci brianzoli. Insomma, l’eccessivo e terrorizzante Labranca scoperchia pentole e tetti e mostra di cosa è fatta la vita di tanti (di quasi tutti? di tutti?); e ciò che mostra suscita riso, ma soprattutto compassione e angoscia per quello che siamo diventati, con le nostre laiche estasi davanti al plusinutile pecoreccio, alla ninfetta (s)vestita dallo stilista X che aspira ad essere un’icona, al conduttore pseudosaggio della TV del dolore. I nuovi media non hanno fatto altro che amplificare il pulviscolare e onnipresente potere del vecchio tubo catodico. Aspiriamo quasi

tutti alla falsovera vita dei Very Important People, atteggiandoci ridicolmente senza avere alcuna possibilità di riuscita: e manca totalmente la consapevolezza e la coscienza del limite. Ripetiamo: è un’analisi che hanno fatto in tanti, ma i libri di Tommaso da Pantigliate sono più divertenti di quelli di Deleuze. Labranca studiava il suo e nostro mondo vivendolo nell’appartamento contiguo al nostro, sullo stesso pianerottolo, di fronte allo stesso apparecchio televisivo, di fronte agli stessi prodotti degli stessi hard discount. Mi piace riportare per intero almeno un’unica pagina dello scrittore, tratta da Neoproletariato. Chi leggerà scoprirà il motivo della scelta:

Meglio di qualunque edizione di notiziario è l’eterno loop di promozioni che sull’emittente Studio TV 1 di Treviglio (Bergamo) cancella la fuga del tempo e torna a scadenze

orarie a rassicurarci: la vita continua. Da poco appare al mattino una di quelle veggenti, di quelle cartomanti, di quelle numerologhe… non saprei più come definirle, i loro ruoli ormai si sono ampliati: leggono le carte, danno consigli di vita interiore,

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tracciano oroscopi, ma soprattutto forniscono i numeri del lotto con una generosità che commuove. L’esperta che seguo ultimamente mi ha però colpito per altri motivi. In primo luogo le sue trasmissioni sono repliche. Non comprendo perché si debba assistere in diretta a un programma del genere, in cui si ascoltano i dubbi e i guai di perfetti sconosciuti che telefonano. Questo è un esempio della asimmetria tipica del neoproletario, sempre disposto a piangere sulle disgrazie lontane, ma altrettanto pronto a snobbare i bisogni vicini. Infastidito dalla confidenza dolente dell’amico, è invece morbosamente attento nel seguire drammi e disgrazie di immaginari personaggi di fiction o, addirittura, di terzi invisibili e sconosciuti che si affidano per telefono a una cartomante improvvisata. E la lontananza della non-conoscenza diretta è amplificata dalla lontananza telefonica e poi ancora di più da quella televisiva e arriva a Giove e oltre l’infinito quando quella voce dolente proviene da una replica. Assistere in replica ai programmi con le veggenti, senza nemmeno la possibilità di intervenire, è davvero patologico (io però lo faccio).

C’è anche un’altra dimensione in cui lo studioso del trash penetra per spiragli e di cui riferisce. È l’universo ridottissimo di chi rinuncia a immergersi nel flusso degli eventi e si ritira ai margini, non per genialità o spocchia, ma per temperamento, raccogliendo i frammenti di sé in una vita imperfetta e rarefatta, costruita di indefiniti rumori postindustriali da terziario avanzato, di visioni notturne sfuggenti, di autolavaggi automatici intuiti tra le brume delle lunghe tenebre invernali in cui il vapore alonizzato dai neon richiama lontanissimamente esotiche aurore boreali, o dove le strade pianuracole tra anonimi capannoni e tralicci tracciano geometrie diverse, algide ma più domestiche e sopportabili delle variazioni del Nasdaq e della borsa di Tokyo. Eccoci al dunque: esiste una nascosta e impalpabile “metafisica della periferia” di cui l’autore illustra i “prolegomeni”. Il libro preferito da T-La (e, se può importare, dal sottoscritto) si intitola Il piccolo isolazionista. È composto di 146 brevi o brevissimi capitoli e non c’è una vera storia. Un anonimo protagonista degli anni Zero descrive a sprazzi il suo mondo: il monolocale dove brillano tenui i led di molti caricabatterie collegati ai relativi cellulari, segreterie telefoniche, laptop, i-Pod che creano una nebbia elettronica leggera, soporifera, lattiginosa e acquietante, dove filtrano i rumori attutiti di

lontane strade statali e, dal muro del vicino, gli applausi del pubblico dell’ennesimo telequiz; i percorsi notturni in automobile sulle provinciali lombarde (le “strade satellitari”), ritmate da lampioni, rotonde, svincoli; i pensieri e le memorie su un nuovo ‘mondo di ieri’ da poco trascorso e già definitivamente scomparso; la musica che proviene dalle cuffiette e separa dal mondo reale. In ambito sonoro Labranca è ovviamente preparatissimo, e anzi il libro parte da lì. Negli anni Novanta esistette un sottogenere di musica elettronica ambient, genericamente definita appunto “isolazionista”, non ballabile, non cantabile, solitamente eterea, minimale, dal ritmo sghembo, poco piacevole secondo i triti canoni della melodia pop, freddamente malinconica, leggermente perturbante. Sarebbe diventata quella che oggi si chiama dark ambient: sequenze musicali spesso informi, composte al pc da un adolescente depresso nella propria cameretta, che un altro adolescente depresso dall’altra parte del mondo ascolterà nella propria, inserendole nella playlist di un già vetusto i-Pod. Il piccolo isolazionista ascolta strana musica in cuffia, gli piace molto Moby (un musicista americano che dice di essere pronipote di Melville, da cui lo pseudonimo) e istituisce continui paragoni col passato. Negli stessi anni un altro intellettuale, l’inglese Simon Reynolds, si

occupava di fenomeni simili, raccogliendo materiali per studiare la cosiddetta retromania, ossia l’ossessione dei nostri tempi per un passato utilizzato alla stregua di un enorme supermarket pop cui attingere confusamente e rinviare continuamente (in ambito acustico le punte più avanzate sono costituite dalla ghost music e di un atteggiamento che si suole definire hauntology).Il libro di Labranca è accompagnato da una sezione centrale di immagini (intitolata Late Nite Cappuccino): foto notturne di cancelli, lampioni, acquedotti, parcheggi, automobili solitarie, stazioni della metropolitana, lavanderie automatiche, gru, palazzoni, parchetti abbandonati e, ovviamente, autolavaggi. La solita anonima e indispensabile paccottiglia di non luoghi che sono davvero i nostri luoghi e dove si concentra spesso lo svolgimento delle nostre vite. Il piccolo isolazionista raccoglie i sedimenti e le incrostazioni dell’esistenza, origlia, ascolta, e così vive. Si tratta di molto più che di una estetica della depressione: è l’auscultazione di una dimensione esistenziale minimalistica che esclusivamente delle superfetazioni postmoderne si nutre e che, a modo suo, affascina.

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16 DICEMBRE 2019

CLAUDIO GIUNTAUNIVERSITA’ DI TRENTO

LA SCUOLA,

I LIBRI,

GLI INSEGNANTI

Il Liceo

“Simone Weil”

incontra

Claudio Giunta

Teatro Nuovo

Treviglio

Treviglio

Ore 11.00

L’incontro è

aperto alla

cittadinanza

Ingresso libero a

esaurimento posti

TNT

TEATRO NUOVO

TREVIGLIO

PIAZZA

LUCIANO MANARA

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