Quote rosa

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numero 6 Il Serale 16 aprile 2012 Quote rosa Settimanale quotidiano Una terapia aggressiva, ma che funziona e serve

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Una terapia aggressiva, ma che funziona e serve

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numero 6

Il Serale 16 aprile 2012

Quote rosa

Settimanale quotidiano

Una terapia aggressiva, ma che funziona e serve

Non mi muovereIl Paese da solo non sa accettare la parità di genere. E allora imporreil mutamento culturale per svincolare le quote rosa dalla pubblicitàelettorale è la via più sicura per adeguarci all’Europa.

Indietro, sempre più indietro. Le cosiddette“quote rosa”, che sono poi solo la varianteper donzelle di quelle che tutta l’Europa chiama“quote di genere”, in Italia faticano a trovarespazio ed essere accettate. Non solo nel lavoro enella società, e i dati di questo numero neparleranno, ma soprattutto lì dove gli esempihanno l’autorità per imporsi come rotta da seguire.Infatti, nonostante nel 2011 il Ddl Carfagna abbiamesso mano ai Cda delle società quotate in borsa,che avranno tempo fino al prossimo luglio perassestarsi e provvedere, è la presenza femminile inpolitica a rimanere ancora orfana di unaregolamentazione nazionale e di una legge elettoralenon ambientata nel Trecento. Durante l’assenza diquesta indicazione, che sia più precisa dell’articolo 51della Costituzione, tocca alla sensibilità dei Tar e adun labirinto di statuti regionali e comunali garantirela partecipazione rosa nelle liste. Eppure l’esperimento del 1995 dimostrò che anche

in Italia un’inversione di rotta può incidere nellunghissimo periodo; quindi perché non seguirel’esempio del Belgio? Applicare decreti mirati cheimpongano i mutamenti culturali e che viceversa ciimpediscano di aspettarli in piedi nel salotto di casa,come fossero donzelle dai tempi lunghi.Fischiettando ora una riforma ora una commissioneper le pari opportunità, neghiamo, guardandociallo specchio, la disparità di genere. Per chi guardanoi e lo specchio però rimaniamo sostanzialmenteindietro, sempre più indietro. In realtà non cisiamo mai mossi.

di Lorenzo Ligas

Asimmetrie di potereLa sottorappresentanza politica femminile: dopo

l’attivismo degli anni Settanta, la partecipazione di eletteed elettrici in gonnella è calata sensibilmente

In Italia la presenza femmi-nile in parlamento e nei go-

verni locali è particolarmentefragile: vi è un deficit nel rap-porto tra donne e classe dirigenteche appare come una vera e pro-pria anomalia del nostro paese. Ilconseguimento di una piena par-tecipazione è un obiettivo ancorain larga parte disatteso per ledonne, a causa di processi dilunga durata che le discriminanonell'ingresso alle cariche elettivee nell'esercizio delle responsabi-lità di governo.L’asimmetria nei poteri è un

“indicatore simbolico” del man-cato processo di uguaglianza trai generi: tutti quei sistemi socialie politici nei quali le donne risul-tano sottorappresentate, sono daritenersi democraticamente arre-trati. Seppur cittadine, si trovanoancor oggi a combattere per di-ritti formalmente indiscussi, daquelli socioeconomici fino aquelli politici e istituzionali.

Le donne hanno acquisito lacittadinanza politica nel 1946 ot-tenendo il diritto di eleggere e diessere elette: alla Costituente vierano solo 21 donne, ovvero il3,77% dei membri.Nel 1948, con l’en-trata in vigore dellaCostituzione Re-pubblicana e l’ele-zione del nuovoParlamento, le sena-trici risultano esserel’1,27% e le deputate ammon-tano al 6,19%. I minimi storicivengono raggiunti al Senato nel1953 con lo 0,32%, mentre allaCamera dei deputati nel 1968con il 2,7%.Solo dopo sessant’anni, nel

2008, la percentuale è del18,32% in Senato e del 20,95%alla Camera.La crescita, però, non è dovuta

soltanto a una maggiore sensibi-lità politica verso la rappresen-tanza femminile, bensì è connes-

di Silvia Fiorito

I minimi storicisi raggiungono

nel 1953: 0,32%al Senato e 2,7%

alla Camera

sa all’intervento di fattori esternie correzioni legislative; feno-meno agevolato dalle regola-mentazioni internazionali sullepari opportunità (convenzioni

Onu, fra cui laCedaw contro la di-scriminazione di ge-nere) e dalle diret-tive emesse dall’U-nione Europea, apartire dalla paritàdi trattamento e re-

munerazione.Vi concorrono altri elementi:

innanzitutto una maggiore scola-rizzazione, il raggiungimento dititoli accademici e professionaliche hanno consentito l’ingressoa posizioni di vertice nel com-parto pubblico e privato. Pourcause, la maggiore impennata daldopoguerra in poi (14,44% allaCamera e il 9,21% al Senato) av-viene nel 1994, un anno dopol’entrata in vigore della legge n.81 del 25-3-1993, che introducele “quote rosa”, ovvero posti ri-servati a candidature femminili1. Il dibattito su tale conquista

dura ancora oggi, suscitando in-numerevoli polemiche, a seguitodi una coalizione bipartisanstretta fra parlamentari uomini,uniti dalla solidarietà di classe edal timore di perdere la primazianel settore. Così avviene nel feb-braio 2006, quando per ben quat-tro volte, in un Senato aprevalenza maschile, viene amancare il numero legale sull’ap-provazione di una norma favore-vole al principio di parità nelleliste elettive. Le ragioni dellascarsa presenza di donne nelleistituzioni vanno rintracciatenella leadership dei partiti chedecidono le candidature e la loroposizione.La Dc considerava la politica

un’attività poco adatta alledonne, tanto da limitarne la pre-senza; il Pci, pur più sensibilealle tematiche di genere, spessole relegava a ruoli periferici.Anche se presenti in manieraconsiderevole, le donne eranodifatti scarsamente sostenute dagruppi influenti2. Fino alla finedegli anni Ottanta, a fronte di un

La Democraziacristiana ritenevala politica comeun’attività pocoadatta alle donne

1) La norma sulle quote di genereinfatti ha regolato solo le elezionicomunali tenutesi nel nostro paesedall’aprile 1993 al settembre 1995:un periodo breve, nel quale non tuttii comuni italiani sono andati al voto:con il sistema delle quote hannovotato 7.716 i comuni, mentre 389comuni non lo hanno mai fatto.

2) In Italia si sono succeduti 11Presidenti della Repubblica, 16

Legislature e 60 governi. A oltresessant’anni dalla sua nascita, laRepubblica continua a vantareprimati negativi: solo 75 donnehanno ricoperto ruoli di governo. - 29 ministre (la prima fu TinaAnselmi nel 1976, nominataMinistro del Lavoro e Previdenzasociale nel III Governo Andreotti); - 2 ministre ad interim; - 17 ministre senza portafoglio; - 1 viceministra (Patrizia Sentinelli

nel II governo Prodi, 2006); - 114 sottosegretarie;- 2 Presidentesse della Camera;L’unica senatrice di nominapresidenziale è stata il Premio NobelRita Levi-Montalcini. Non ci sonomai state: né un Presidente delSenato, né una Presidente delConsiglio, tantomeno un Presidentedella Repubblica donna.

33% presente nella direzione delPci, si aveva un’esigua percen-tuale di donne nella direzionedella Dc, pari al 2,5%.Dopo la riforma elettorale del

1993, col passaggio da un sistemaproporzionale a unomaggioritario, av-viene un profondocambiamento nellosviluppo delle car-riere politiche. Oltreai partiti e ai sinda-cati, intervengononuovi protagonisti

sociali (lobbies e gruppi di pres-sione femminili), favorendo latrasformazione delle modalità diselezione politica. La loro co-stante pressione ha dato qualcherisultato.Essendo il reclutamento ap-

pannaggio della dirigenza deipartiti, diventa più facile per ledonne accedere alle candidaturesolo nel momento di maggiorecoesione interna. Tuttavia nonaccade spesso: le donne, nellamigliore delle ipotesi, vengonoconsiderate come una risorsa dautilizzare all’interno del giocopolitico e come candidate“riempi lista”. Non certamenteda proporre come leader, macome attrattore per ampliare l’a-rea della ricerca del consensoelettorale.Gli anni Novanta segnano co-

munque uno spartiacque nellatradizionale rappresentanza fem-

minile. Nelle elezioni del 1994 – tenu-

tesi con un sistema maggioritariomisto –, si registra il numero piùelevato di donne elette fino adallora in Parlamento: quasi il13% (il 12,8% sul totale dei par-lamentari).L’effetto è stato conseguente

all’introduzione delle “quoterosa”, percentuale tornata sottola soglia del 10% nel 1996, insuccessione alla sentenza (n. 422,1995) della Corte costituzionaleche dichiarava la legge contrariaal principio di libertà, secondocui “ogni cittadino può sceglierese votare o farsi votare, indipen-dentemente dal sesso”. Alle elezioni del 2001, tale li-

mite viene superato di un punto,mentre in quelle del 2006 e del2008 si ha un ulteriore incre-mento della percentuale didonne elette, fino a raggiungereil massimo nelle ultime politi-che. Analoga la situazione a li-vello regionale:nelle elezioni del28-29 marzo 2010sono state elettecome consiglieri re-gionali solo 82donne su 699 seggi,appena l’11,7%.L’esigua presenza

femminile in politica è indicativadi una “emergenza” sociale, eco-nomica e culturale, che cometale va affrontata. Considera-

Con ilmaggioritario del1994 si registra ilnumero più altodi donne elette inParlamento

Per le donne èpiù facile

accedere allapolitica quando

c’è coesioneinterna ai partiti

Nilde Iotti alla Camera dei deputati durante ilgiuramento di Francesco Cossiga nel 1985.

zione che dovrebbe far rifletteresu quanto sia fuorviante trattareil problema della delegazionedelle donne come una questionemeramente quantitativa e nonlegata alla qualità della rappre-

sentanza democra-tica. Diventa alloranecessario indicarein quali termini unaloro più consistentepresenza possa daremaggiore spessore atemi di elevata va-lenza sociale, spesso

rimossi o marginalizzati. Le problematiche di genere

vengono accantonate dalla poli-tica tradizionale come “cose dadonne” e quindi di minor rile-vanza. Se come elettrici essesono state e sono tuttora consi-derate una risorsa essenziale peril sistema politico, come elettecontinuano invece a essere si-tuate ai margini dei processi de-cisionali. Il che significa che nonhanno ancora ottenuto un pienoriconoscimento, come esige in-vece ogni democrazia degna diquesto nome.Seppur visibile la crescita di

donne al governo, a esse nonvengono ancora affidati ministeri“pesanti”; si pensi al governoBerlusconi in cui la massicciapresenza femminile era relegataai ministeri senza portafoglio.Un’inversione di tendenza si ri-leva nell’attuale governo Monti,

ove due ministeri portanti comeGiustizia e Interni sono affidatialla direzione di Paola Severinoe Anna Maria Cancellieri.Vale la pena evidenziare la mi-

nore durata della permanenzadelle donne elette in carica: vi èuno scarto fra la durata della car-riera politica femminile e quellamaschile; i colleghi uomini rico-prono la stessa carica per moltelegislature. L’unica vera ecce-zione è segnata da Nilde Iotti,parlamentare per 13 Legislatureconsecutive, dal 1946 al 1999(anno della sua morte), e Presi-dente della Camera dei deputatidal 1979 al 1992, ovvero per treLegislature consecutive. Il ricambio di eletti va consi-

derato positivamente, ma la dif-ferenza di sesso, che si presentanel turnover, risulta bensì ungrosso limite. La Costituzione italiana stabi-

lisce nell’articolo 51 che “tutti icittadini dell’uno e dell’altrosesso possono acce-dere agli impieghipubblici e caricheelettive in condi-zioni di eguaglianza,secondo i terministabiliti dalla legge”.Ciononostante, laleadership femmi-nile rimane tanto scarsa, quantoprecaria.

Le problematichedi genere sono disolito accantonatecome “cose dadonne” dallapolitica

L’unica veraeccezione è

segnata da NildeIotti, dal ‘46 al

‘99 parlamentareper 13 legislature

Quote legate. Giunte sciolteLe legislazioni regionali sono una rete inestricabile in cui ognunofa come gli pare. Le quote di genere sono relegate in poche righe

di statuto e per farle rispettare si ricorre al Tar

Mutare la cultura di un Paese è difficile edeve radicarsi sul territorio. «Rispettare

le quote rosa» è invece il mantra rispolveratosotto elezioni dai partiti, l’aperitivopubblicitario servito freddo, gelido, senzanessuna convinzione, lo stesso che tornerà dimoda per le prossime amministrative il 6 e 7maggio. Ma com’è regolata la presenzafemminile a livello regionale?

La legge elettorale del 2005, il “porcellum”, lastessa in vigore oggi, cancellò su scala nazionalequalsiasi norma sulle quote rosa nelle liste deipartiti e le relegò al concetto di buona azione.Come nell’ultimo governo Berlusconi in cuis’applaudiva la cascata di ministri in gonna,tutte senza portafoglio, o in quello attuale incui Fornero, Cancellieri e Severino occupanocerto poltrone più importanti rispetto allecolleghe dell’altra legislatura.

Sarà vero che gli esempi sono importanti, maè anche vero che non con soli esempi possiamoabbattere l’arretratezza riguardo alle donne inpolitica.

E mentre osserviamo in religioso silenzio idettami della più brutta legge elettorale maiscritta, le regioni, le province, i comuni sonoabbandonati a se stessi, stretti tra la spinta dellaparità di genere e la genericità delle leggiregionali e degli statuti. Statuti ai quali nel 2001la legge cost. n. 3/2001 delegava il compito dirimuovere ogni ostacolo alla piena parità trauomini e donne nella vita sociale culturaleeconomica. Nel 2003 una nuova leggeristabiliva l’impegno dello Stato sempre per«promuovere con appositi provvedimenti lepari opportunità tra donne e uomini». Intantoperò le regioni e i comuni si sono organizzati,ognuno per conto suo.

di Filippa Deditore

Le amministrazioniintanto devono fare i

conti con la spintapopolare per la parità

La legge elettorale del2005 ha cancellato

ogni norma nazionalesulle quote di genere

«La Regione riconosce e garantisce i diritti dilibertà ed uguaglianza sanciti dalla Costituzionee dalle convenzioni comunitarie edinternazionali ponendoli a fondamento e limitedi tutte le proprie attività. La Regione rimuovegli ostacoli economici, sociali, culturalideterminati dalle differenze etniche». Questo èl’articolo 5 dello statuto della Campania. Diarticoli come questo ce ne sono in ogni statutoregionale e cercano di assicurare un generalerispetto della parità di genere. Solo in alcunicasi, come quello della regione Sicilia o, meglioancora del Lazio, le leggi regionali elettoralicorrono in soccorso alla sacrosanta precisione«In ogni gruppo di liste nessuno dei due sessipuò essere rappresentato in misura superiore aidue terzi dei candidati» stabilendo una normaanche «in caso di quoziente frazionario siprocede all’arrotondamento all’unità più vicina.I movimenti ed i partiti politici presentatori diliste che non abbiano rispettato la proporzionedi cui al presente comma sono tenuti a versarealla Giunta regionale l’importo del rimborsoper le spese elettorali di cui alla legge 3 giugno1999, n. 157». Specificare però non è sufficiente a togliersi il

dentino rosa. Nei casi sopraccitati infatti le listenon sono bloccate: tocca all’elettore esprimerela preferenza e sostanzialmente decidere ilnumero di donne. Nel caso della Toscana poi,dove le liste sono bloccate, l’elettore non puòesprimere nessuna preferenza, ma ai partiti nonè imposto l’obbligo dell’alternanza: vuol direche nella compilazione della lista le donnepossono essere lasciate al fondo per farenumero.Gli statuti regionali comprendono con più

facilità quelle norme volte ad istituireorganismi di garanzia, quali la Commissione o

Le norme degli statutisono vaghe. Di radosono indicate lepercentuali di genere

Consulta per le pari opportunità, in genereinterni al Consiglio ovvero alla Regione. Inquesto senso vanno letti gli articoli 81 e 83dello statuto abruzzese che istituiscono laCommissione regionale per le pari opportunità(con l’obiettivo, tra l’altro, di «valorizzare» ledifferenze di genere) e l’Osservatorio sui diritti;l’art. 8, comma 1, dello statuto calabrese.Discorso diverso poi per la composizione dellegiunte. L’art. 43, comma 2, dello statutoemiliano romagnolo secondo cui «le nominedegli assessori e le altre nomine di competenzadel presidente [della giunta regionale]s’ispirano anche ai principi di pari opportunità»non stabilisce nessuna quota, ma si limita aevocare un principio. Il rispetto di questoprincipio dagli statuti e dalle leggi defluiscasilenziosamente nell’alveo della sensibilità che ivari Tar applicano in materia. Così accade chenel 2010 il Tar della Lombardia giudichilegittima la giunta regionale con un soloassessore donna o che, al contrario, per lo stessomotivo l’anno scorso il Tar del Lazio sciolgaquella comunale di Viterbo. Schizofreniaamministrativa.Le quote rosa in politica regionale assumono i

contorni di un concetto astratto e lasciatolibero di vagare tra statuti e leggi elettorali.Ognuno fa un po’ come gli pare: tolte le regionidiligenti, ci sono quelle che gettano l’obolo allaparità di genere con cinque righe d’etichetta;intanto ignorano la presenza delle donne inpolitica, pensano che al massimo qualchecittadino pignolo ricorrerà al Tar il quale a quelpunto potrebbe anche sciogliere la giunta. Aquel punto, forse, si vedrà un rimpastocontrovoglia: certo non sarà un mutamentoculturale.

Il rispetto delle quotedefluisce spesso versola sensibilità che i Tarapplicano in materia

Candidate dal basso o dall’alto

In provincia di Palermo c’èun comune che si chiama l’I-

sola delle Femmine, la sua giuntaè composta da soli uomini. Notadi colore o tristissimo presagio?Le elezioni amministrative sonoalle porte per molti comuni ita-liani e la cosiddetta “rappresen-tanza di genere” ritorna a farparlare di sé. Prima di adden-trarci nel vivo della competi-zione elettorale, la lente diingrandimento si posa sulla Sici-lia. L’associazione riberese SosDemocrazia ha da poco lanciatoun allarme: poche donne nellestanze dei bottoni. «Il 30,76%dei Comuni siciliani non rispettala norma sulla rappresentanza digenere nella composizione dellagiunta prevista dalla legge regio-

nale n. 6/2011». L’associazione èpartita dal comune di Agrigentoper poi estendere l’analisi sull’in-tero territorio regionale. SarebbeEnna la provincia più virtuosa,con soltanto il 15% dei Comuniinadempienti, mentre la peg-giore è Messina, con il 37% deiComuni senza la presenza fem-minile in giunta.Seguono la provincia di Cata-

nia con il 34,5%, Palermo con il30,5%, Agrigento con il 30,23%,Trapani con il 29,2%, Siracusacon il 28,6%, Caltanissetta con il18,2% e Ragusa con il 16,7%.«Non mancano le isole felici, so-

Amministrative 2012: donne che si propongono per unascelta e altre che gonfiano le liste elettorali perché unalegge ne impone la presenza

L’associazione Sos Democrazia ha lanciatol’allarme: «Il 30,76% dei comuni siciliani non

rispetta la norma sulla rappresentanza di genere

di Michela Mancini

stiene Sos Democrazia. A Sola-rino (nel Siracusano), ad esem-pio, su sei assessori quattro sonodonne; a Burgio (in provincia diAgrigento) la giunta è compostada quattro assessori di cui duedonne e in consiglio comunale cisono quattro donne». La maglianera va al Comune di Ventimi-glia di Sicilia (nel Palermitano) -sottolinea l'associazione riberese- dove sindaco, assessori, presi-dente del consiglio e consigliericomunali sono tutti uomini». Hadell’incredibile quanto avvenutoal Comune di Favignana: dopodieci giorni dall'entrata in vigoredella legge sulla rappresentanzadi genere, l'architetto MonicaModia, unico assessore donna, èstato sostituito da un assessoreuomo.

Leggi fatte per essere violate, oaggirate, a seconda del caso.

La corsa verso le candidaturefemminili si è da poco conclusacon la chiusura delle liste. Senza

voler generalizzare, non è il casodi chiudere gli occhi davanti allabeffa.

Massimo Costa, candidato sin-daco di Palermo del Pdl, Udc eGrande Sud, nel corso di un con-fronto con altri candidati ha di-chiarato: «Metà della mia giuntasarà composta da donne». È benericordare che in Sicilia è entratain vigore una nuova legge regio-nale che impone alle segreteriedei partiti e ai comitati elettoralidi inserire nelle proprie liste il 30per cento di candidati donna. Maper Massimo Costa non è lanuova norma a condizionare lesue scelte. Riferisce che la deci-sione è per lo più legata a fattoriscientifici. «Mi piace la scienza»,dice, e, «secondo la scienza - ag-giunge - le donne delinquono iltrenta per cento in meno degliuomini».

Le donne delinquono meno, ledonne sono più vicine ai pro-blemi della gente, le donne sì chehanno la giusta sensibilità pergovernare. A dargli torto, pur-troppo, è la storia. Donne come

Massimo Costa, candidato sindaco di Palermoda Pdl, Udc e Grande Sud, ha dichiarato: «Metà

della mia giunta saranno donne»

In Sicilia è entrata in vigore la nuovalegge elettorale che impone allesegreterie dei partiti di inserire nelleliste il 30% di candidati donne

Margaret Thatcher non vengonocerto ricordate per la loro sensi-bilità: giuste o sbagliate, sonostate le loro scelte politiche lehanno rese celebri.

Idee forse ancora troppo “pro-gressiste” per buona parte delBelpaese, che si inventa delleleggi per promuoverne la pre-senza nelle stanze del potere, piùper quietarsi la coscienza che perresponsabilità. Accade, quindi,

spesso, che – accanto a valorosis-sime candidature – si ritrovinoquote rosa imposte dall’alto piut-tosto che volute dal basso. Impo-ste, perché senza la percentualeimposta dalla norma, la lista elet-

torale non può essere presentata.E in quelle regioni dove la normaancora non c’è, il meccanismonon cambia: una piccola, inno-cua presenza femminile, rendel’immagine del candidato sin-daco più appetibile, più simpa-tica, più “sensibile”, appunto.

Analizzando le liste presentatea Palermo per le amministrativedel 6 e del 7 maggio, viene quasida sorridere. Il rapporto è co-stante: su una media di 50 candi-dati a lista, le donne sono 15.Sempre. Strano, no? Esattamentequanto richiesto dalla legge. L’u-nica eccezione la fa la lista Pd: 23donne su 50.

Le quote rosa sono utili, o ri-

mangono uno strumento inmano ai partiti gestiti da uomini?La risposta non è sempre uni-voca. Ci sono anche donne che,in occasione delle amministra-tive, alle quote rosa hanno detto

Nelle liste presentate per ilcomune di Palermo la legge vienerispettata alla lettera: su 50 candidatile donne sono sempre 15 (il 30%)

«Le donne delinquono meno esono più vicine ai problemi della

gente». Nel Belpaese si fanno leggiper promuovere la presenza delle

donne più per quietarsi la coscienzache per responsabilità

no e si sono organizzate da sole.Nessun contentino. Nessunaconcessione.A Lucca, per esempio, Gemma

Urbani, candidata sindaco per lalista civica Lucca Bene Comune,ha presentato una lista tutta alfemminile, per scelta. Un per-corso nato lo scorso settembre al-l’interno di un dibattito sulla

condizione attuale della donnain Italia, e ispirato dalla campa-gna “Se non ora quando?” e dallabattaglia sul referendum controla privatizzazione dell’acqua. In-dipendenti, autofinanziate, lon-tane dai partiti tradizionali, siprofessano contrarie alle quoterosa e pensano ad un modo piùspontaneo di far politica. Le liste di sole donne sono il

fenomeno elettorale di questeamministrative. Da Sud a Nord. A Jesolo,sotto la guida di Do-

natella Regazzo, in appoggio al-l'ex sindaco Renato Martin eTorre del Greco, dove è nata unalista civica tutta rosa. Sichiama "Torre domani", è com-posta da tantissime under 30, ècapitanata dall'assessore uscenteRoberta Ramondo edappoggia Ciro Borriello nellacoalizione di centrodestraUno scenario inedito per l’Ita-

lia, Paese senza madre, ancoraspaccato a metà.Da una parte le leggi, giuste e

responsabili, di cui ci si prendegioco. Norme che ricostruisconola facciata e dimenticano la par-tecipazione dal basso. E dall’altrolato, tante donne che questeleggi le mettono da parte, e par-tecipano alla cosa pubblica comese fosse normale, come se nonavessero bisogno di agevolazioni.Speriamo che la storia dia lororagione e ribadisca la differenzatra diritto e privilegio.

Il rosa integrale è il fenomenoelettorale di queste amministrative:a Lucca Gemma Urbani (in foto) hapresentatato una lista di sole donne.

Donne al comando, per forzaUna legge obbliga le grandi imprese italiane a fare spazio alsesso debole. Le rafforzerà?

A sinistra Alessia Mosca, a destra Lella Golfo.Sono le due parlamentari ad aver proposto la

legge che entrerà in vigore dal prossimo luglio

di Elisa Gianni

Quattro anni per darvita a una radicale

inversione di tendenza nellaconcezione che il mondodel lavoro ha delle donne: aquesto votarono sì, indistin-tamente dalla loro posizionepolitica, i 438 deputati che,nel giungo 2011, approva-rono la legge che imponevail rispetto dell’equilibrio deigeneri nei Consigli di am-ministrazione, negli organidi controllo delle societàquotate e nelle controllatepubbliche non quotate.Entro il 2015, i Cda do-vranno garantire al “generemeno rappresentato” al-meno un terzo dei posti dicomando. Un traguardo acui giungere per gradi, pas-sando per l’obbligo di inclu-dere negli organi massimidelle aziende un quinto dirappresentanza femminilenel primo rinnovo di Cda apartire dal prossimo 28 lu-glio. Le sanzioni per le so-cietà che non siadegueranno vanno dalladiffida della Consob finoallo scioglimento del Cda,passando per sanzioni pecu-niarie da 100mila a 1 mi-lione di euro, se alla diffida

non dovesse seguire unadattamento della percen-tuale femminile nell’organodecisionale. Ma, si sa, il tasto rosa è

uno di quelli delicati: se dauna parte non tutti sonoconcordi a un ingresso ob-bligato delle gonne nellestanze dei bottoni aziendali,dall’altra il valore sociale dimostrarsi sensibili alla causafemminile è un bocconepubblicitario di tutto ri-spetto. Così le grandi spaitaliane hanno impugnatol’uncinetto e si sono dichia-rate guerra a suon di comu-nicati stampa e ligieottemperanze legislativepro tempore. Quattroesempi per tutti: GeneraliAssicurazioni ha promessoche nel Cda per il triennio2012-2014, che sarà rinno-vato nei prossimi giorni,sarà rispettata la quota mi-nima di un quinto di donne;Fiat ha rinnovato gli organidi amministrazione sia diFiat spa, che di Fiat Indu-strial, e in entrambi figu-rano due donne su un totaledi nove componenti. Si èmostrata diligente anche laBanca Monte dei Paschi di

Siena, che ha presentatodelle candidature, attentealle percentuali rosa, per ilrinnovo che si terrà a fineaprile; un po’ meno, almenoper il momento, Rcs che ap-proverà il prossimo 2 mag-gio un cda dalle tonalitàcipria molto pallide, conuna sola donna annunciatain un gruppo di 12 membri. La legge – guarda caso pro-posta da due donne: LellaGolfo (Pdl) e Alessia Mosca(Pd) – non è ancora vigentema sembrerebbe dare giàfrutti abbastanza buoni inun’Italia dove, ad oggi, lamaggior parte delle aziende,di femminile ha poco piùdel genere del proprio so-stantivo. I dati Eurostat, di-vulgati agli inizi di marzo,mostravano un’Italia al pe-nultimo posto per il tasso dioccupazione femminile, conpercentuali inversamenteproporzionali al numero difigli. Ma le non mamme la-voratrici restano ancora aldi sotto del 64%, a fronte diuna media europea del quasi76%: non per sfidarsi in tri-sti gare alla discriminazionefemminile, ma peggio di noiha potuto solo Malta. Que-sto a dispetto di quanto di-chiarato dai dati delconsorzio degli atenei ita-liani, Almalaurea, che, nel

2010, hanno contato sei lau-ree su dieci conseguite dastudentesse e con una vota-zione media di tre punti piùalta, rispetto ai colleghi ma-schi.Un rapporto, datato 2009,

della Cerved Business Infor-mation, posizionava l’Italia29esima (su 33) per il nu-mero delle donne all’in-terno dei cda delle societàquotate in Borsa. Tra le im-prese con fatturato annuosuperiore a 10mila euro,erano 0,4% i Cda di almenodue persone composti esclu-sivamente da donne afronte di un 55,4% di quellisolamente maschili. All’e-poca il rapporto denun-ciava: «nei consigli diamministrazione delleprime dieci società non vi ènemmeno una donna; tra leprime 15, solo il gruppo Be-netton e Vodafone hannoun board non completa-mente maschile (una donnanel Cda di Benetton e duedonne in quello di Vo-dafone)». La parità netta digenere si riscontrava solonella Marcegaglia spa condue donne e due uomini aivertici. Ma se le aziende hanno

dimostrato – e stanno dimo-strando, casi eccezionali aparte – tanta diffidenza nel

La Fiat ha già inseritodue donne nel cda:Joyce Victoria Bigio ePatience Wheatcroft

sesso debole, le giustifica-zioni addotte non dovreb-bero appellarsi a unapresunta incapacità delledonne: è questo stesso stu-dio infatti a svelare una ren-dita e una velocità maggioredelle – poche – aziende ca-peggiate dalle gonne, ri-spetto a quelle coldopobarba. C’è poi la questione del-

l’altra fetta di società per cuientrerà in vigore la leggedello scorso giugno – ossia,le partecipate pubbliche –che stenta a dare il buonesempio: la scrivania più in-fluente della Rai affidata aLorenza Lei al vertice dellaRai, controbilancia il vuotofemminile nei cda di societàcome Eni, Enel, Autostradee FS, tanto per citarne al-cune. Tutt’al più si riscontraqualche donna nei collegisindacali, come in quello diAnas spa o di CinecittàLuce.E in Europa? Se l’Italia si

svela ancora abbastanza re-frattaria ai capi con il rim-mel –con 194 donne e 2643uomini nei cda – le rispet-tive percentuali europeenon lasciano molto spazioalle speranze di cambia-mento a breve termine. Gliultimi dati parlano di solo12 donne ogni 100 uomini

ai vertici delle aziende pre-senti in borsa; 3 su 100 leamministratrici delegate.Un’agguerrita Viviane Re-ding (vicepresidente allaCommissione Europea, ndr)rassicura sull’esistenza di unimpegno comunitario perfavorire l’ingresso dellegonne nei board. Dopotuttol’Europa non manca di casiesemplari a livello mon-diale. Come l’Islanda, can-didata all’ingressonell’Unione, che ha propo-sto e ottenuto già nel 2006che le società statali o diproprietà degli enti localifossero amministrate per il50% dalle donne; o la Nor-vegia, dove la quota rosa siferma poco sotto il 38%.Quindi, donne, dormite

pure sonni tranquilli – sem-brano dire le autorità: ibuoni propositi per colmareil gap di presenze femminiliai piani alti delle aziendenon mancano. Ma sonobuoni propositi che nascon-dono dei punti interrogativia lungo termine: quante sa-ranno, ad esempio, le futuremanager corteggiate per leloro qualità e quante perpura ottemperanza legisla-tiva? Appunto, solo iltempo saprà darci una ri-sposta.

L’Italia è posizionata29esima su 33 Paesi peril numero delle donne

all’interno dei cda

Danese utopiaI Paesi scandinavi sono i modelli europei da seguire:

dietro tutti gli altri, dal Belgio alla Francia, dalle normemirate alle sanzioni che non funzionano

Il caso più recente ha riguar-dato Viterbo: lo scorso 20

gennaio il Tar del Lazio ha ac-colto il ricorso presentato dal Pd,azzerando la Giunta del Comunelaziale; motivo della sentenza, latotale assenza di donne nell’é-quipe del sindaco Marini – ex de-putato Pdl, dimessosi due giorniprima in ossequio alla sentenzadella Corte Costituzionale chesancisce l’incompatibilità fra lecariche di parlamentare e sin-daco di comuni con oltre 20.000abitanti. Il commento di DanielaBizzarri, membro della Segrete-ria Provinciale democratica delcapoluogo laziale, immortala lasituazione meglio di qualunqueistantanea: «In questi ultimitempi, sia a Roma che a Viterbo,sono stati i ricorsi vinti a permet-tere che le donne avessero un

posto in Comune, quando sa-rebbe stato molto semplice ri-spettare dei regolamenti precisi(anche se in molti Comuni e Pro-vince nello statuto non è nean-che contemplata la norma cheprevede il posto in giunta didonne) e pertanto non potrebbeintervenire neanche la giustizia».Il riferimento è all’analogo prov-vedimento che, lo scorso 15 lu-glio, ha imposto anche nella

Capitale l’azzeramento dellaGiunta con identica motiva-zione. L’avvilente conta po-trebbe proseguire quasiall’infinito: dal Comune di Ta-ranto (2009) alla Regione Sarde-

di Pasquale Raffaele

I ricorsi ai Tar salvano le quote rosa: l’ultimocaso ha riguardato Viterbo: giunta comunaleazzerata a causa della totale assenza di donne

gna (2011), l’elenco delle sen-tenze di condanna per la man-cata applicazione delle “quoterosa” nelle nostre amministra-zioni – per non menzionare ilcomatoso quadro politico - costi-tuisce già di per sé un chiaro in-dizio dell’arretratezza culturaleitaliana in una materia troppospesso demandata alle aule giu-diziarie. Ad ogni modo, unosguardo d’insieme al panoramaeuropeo può farci comprenderecome tale arretratezza sia non dirado la prassi, sebbene una gene-ralizzazione sarebbe impossibileoltre che mendace, vista le pecu-liarità – politiche, sociali, cultu-rali - di ogni stato membro.

ECCELLENZA SCANDINAVA. Ilprimo campanello d'allarme lan-ciato dalle istituzioni europee ri-sale ad oltre vent'anni fa. Nonriscontrando particolare sensibi-lità in alcuni ambiti nazionali,attraverso la risoluzione 169 del1988 il Parlamento europeo in-vitava i partiti politici – non gliesecutivi e neppure i parlamenti– a stabilire quote di riserva perle candidature femminile: dun-que, l’Europarlamento “sugge-riva” di agire per consuetudine e

non per legge ordinaria, vale adire modificando gli statuti deipartiti. Un modello teoricamentevirtuoso, ma non sempre suffi-ciente. In tal senso, fra le realtàpiù felici spicca la Danimarca,dove il Partito socialista popo-lare è stato pioniere delle quote

rosa su scala mondiale, avendoleintrodotte nel proprio statuto ad-dirittura nel 1977 (rappresen-tanza minima per sesso del 40%in ogni assemblea elettiva), se-guito negli anni Ottanta dal Par-tito socialdemocratico conrisultati sorprendenti, suggellatilo scorso ottobre dalla vittoria distretta misura nelle elezioni par-lamentari, che hanno condotto ilsegretario Helle Thorning-Sch-

Il Partito socialista danese introduce le quoterosa nel proprio statuto già nel 1977 stabilendo

una rappresentanza minima del 40%

I Paesi scandinavi sono il modello:già nell’88 il Parlamento europeosuggerì di agire per consuetudine enon per legge ordinaria

midt alla poltrona di premier,prima donna danese a ricopriretale incarico. Per comprendereappieno gli esiti di questo pro-cesso di parificazione, basti pen-sare che il sistema informaledelle quote è stato abolito nel1990, ritenendo che avesse giàampiamente raggiunto i propriobiettivi. Ipotesi suffragata daidati, dal momento che la rappre-sentanza femminile nel Folke-tinget – il Parlamento Danese –è schizzata intorno al 40% ri-spetto al 10,6% del 1968. Oltre-tutto, a differenza della maggiorparte delle carte costituzionalidei paesi di area Ue, la legge fon-damentale danese non contienenessuna disposizione relativaall’uguaglianza fra i sessi.

A VOLTE OCCORRONO LE MA-NIERE FORTI. È possibile giungeread un livello soddisfacente dirappresentanza femminile anchetramite interventi legislativi mi-rati, laddove le circostanze socio-culturali non siano di per sérisolutrici delle iniquità. L’esem-pio illuminante di tale percorsoè rappresentato dal Belgio, doveun primo macigno è stato ri-mosso grazie alla modifica del-

l’articolo 85 della Costituzioneche, sino al 1994, impediva alledonne la successione al trono.Nello stesso anno, la legge del 24maggio ha modificato il codiceelettorale attraverso l’introdu-zione dell’articolo 117-bis:quest’ultimo prevede un tetto

per i candidati dello stesso sessodi 2/3 nelle liste di qualunquetornata elettorale, pena l’esclu-sione delle liste non a norma.L’effetto deterrente della nuovanorma è facilmente desumibiledalle statistiche, che hanno regi-strato quasi un raddoppio dellarappresentanza femminile all’eu-roparlamento nella decade 1989-1999 (dal 20,8% al 40%) e,soprattutto, un notevole incre-

Lo scorso ottobre Helle Thorning-Schmidt havinto le elezioni, diventando la prima donna

danese ad essere Primo ministro

È possibile giungere ad un livellosoddisfacente di rappresentanzafemminile anche tramite interventilegislativi mirati

mento di donne elette al Parla-mento nazionale – dato quasi tri-plicato nell’arco 1995-2003, dal12% al 35,3%.

LE SANZIONI NON BASTANO. Ilmodello francese, invece, pre-senta alcune ambiguità che evi-denziano tanto i limiti quanto lepotenzialità delle imposizioni le-gislative. La Francia ha impresso

una decisa accelerazione nellepolitiche sull’equa rappresen-tanza dei sessi nel 1999, attra-verso la riforma costituzionaleche ha modificato gli articoli 3 e4, introducendo il principio di“favorire l’uguale accesso delledonne e degli uomini ai mandatielettorali e alle funzioni elettive”e il conseguente impegno dei

partiti politici in tal senso.Quindi, la legge attuativa 493dell’anno successivo ha impostoliste col 50% di candidati donneper le elezioni amministrative (adoppio turno), europee e deimembri del Senato (a turnounico); ad ogni modo, l’aspettodegno di nota è l’alternanza ob-bligatoria, ovvero l’imposizionedi presentare nella lista alterna-tivamente candidati dell’uno edell’altro sesso, neutralizzandocosì uno dei cavilli più in voganel sistema politico italiano, checonsiste nell’aggirare i palettisulle quote rosa collocando ledonne in fondo alle liste eletto-rali, dunque con possibilità piùche remote di conquistare il seg-gio. Invece, per quanto riguardal’elezione dei membri dell’As-semblée Nationale (omologadella nostra Camera dei Depu-

In Francia è stata fatta una decisaaccelerazione attraverso la riformacostituzionale che ha introdotto il“principio di eguale accesso”

Nell’elezione dei membri dell’AssemblèeNationale può esserci uno scarto massimo fra

candidati di sesso opposto pari al 2%

tati), la normativa prevede unoscarto massimo fra candidati disesso opposto pari al 2%, pena ladecurtazione dei finanziamentipubblici fino al 50%. Quest’ul-timo è l’aspetto più “zoppicante”e, considerando l'esito, anche ilpiù eclatante: infatti, se in am-bito amministrativo ed europeogli incrementi risultano lusin-ghieri (con le consigliere aumen-tate del 22% e leeuroparlamentari di oltre il10%), le lacune emergono all’As-semblea Nazionale, dove la cre-scita è stata pressoché inesistente(dal 10,9% al 12,2%): i partitihanno preferito subire la san-zione piuttosto che rispettare la

norma. È opportuno evidenziarequesta stortura, che illustra ap-pieno come gli ostacoli culturalisiano la ragione prevalente neltarpare le ali all’affermazione po-litica femminile, soprattuttonelle realtà dell’Europa mediter-ranea – non ultima l'Italia - dove,spiace dirlo, esclusa l'ottima Spa-gna (che viaggia intorno al 30%),il modello più proficuamenteesportabile pare essere proprioquello belga: lo Stato vigile, in-terventista e, a tratti, illiberale.

La decurtazione del 50% dei finanziamentipubblici ai partiti che non rispettano la normanon è servito ad innescare un trend positvo

Nessuno sleghi la castaDall’homo sapiens all’ultimo prototipo di una società senzavolto, la corsa per la scalata delle gonne al vertice si è fattacostantemente più dura. Ancora oggi, giacca e cravattacontraddistinguono nodi intoccabili che è difficile sciogliere.

Il settore che fa più discutere è quello dellaprevidenza sociale, dove la riforma europea ha

trovato scogli anche nelle donne stesse

di Marta Gasparroni

Il diritto di pari oppor-tunità stabilito dall’arti-colo 2 del Trattatosull’Unione europea e dal-l’articolo 20 della Carta so-ciale europea (entrata invigore nel 1965) ricalcanouna questione di genere chericonduce ad un concetto diuguaglianza formale, pernonecessario di ogni politicaantidiscriminatoria. Nono-stante l’Europa abbia com-piuto notevoli progressi,molte donne continuano anon avere pieno accesso allacondivisione del potere edella capacità decisionale. Ilprocesso è ancora lungo el’uguaglianza non è totale.Uno dei settori che più fadiscutere è quello della pre-videnza sociale. Gli ultimianni hanno visto tutti glistati dell’Ue procedere alnecessario adeguamentonormativo per riconoscere ipari diritti dei lavoratori edelle lavoratrici definiti. Lariforma che ha investito laprevidenza sociale e la defi-nitiva approvazione dellequote rosa hanno aperto undilemma che le donne stessesembrano osteggiare. L’im-posizione di una percen-

tuale fissa di presenze rosain politica vuole apparire unfelice traguardo concesso al“sesso più debole”, ma difatto è una disposizione chemina il merito. Si pensa adun patto egualitario, ma lecifre non fanno sorridere.Nuovo nome in codice dellaproblematica attuale è “di-scriminazione verticale”:nonostante un accesso al la-voro più paritario e unacondizione di pseudo age-volazione, i vertici conti-nuano a essere colorati dicravatte. Se in Europa l’ac-cesso della donna al mondodel lavoro è maggiormentefacilitato rispetto al passato,solo 1 donna su 10 occupauna posizione dirigenziale.Infatti, le donne rappresen-tano oggi il 10% dei Cdadelle più grandi società quo-tate in borsa nell’Unioneeuropea e solo il 3% ne sonopresidenti. In base alla stra-tegia del pensiero di genere,la cosiddetta gender main-streaming, le donne cessanodi essere considerate comeuna categoria da assistere eproteggere, con il rischio,tuttavia, di riprodurre le di-sparità tanto combattute.

L’ambizione della strate-gia europea nel campodell’occupazione è quella diraggiungere pari opportu-nità di accesso al mercatodel lavoro per il mondofemminile. Nel 2010 il tassodi occupazione medio all’in-terno dell’Ue è stato del70% per gli uomini e del58% per le donne, una per-centuale in forte discesa incaso di figli, con il corrispet-tivo aumento della partemaschile. Un dato che ri-flette l’ineguale ripartizionedelle responsabilità paren-

tali e l’insufficienza dellestrutture per la custodia deibambini, senza considerarel’eterna questione dellaconciliazione di pubblico eprivato. Inoltre, le donneprofessionalmente attivedevono comunque superareun percorso lavorativo co-stellato di ostacoli: quasi unterzo delle donne europeeoccupate ha un lavoro atempo parziale, mentre pergli uomini questo si verificasolo nell’8% dei casi. Infine,i dati della CommissioneEuropea evidenziano il di-vario di retribuzione mediatra i due sessi, che oscilla trail 15% e il 17% a svantaggiodelle donne. Le donnepaiono penalizzate mag-giormente se si consideraanche l’incidenza delle po-litiche a favore della fami-glia rispetto al PIL e, inmaniera più ampia, le re-sponsabilità verso altri fa-miliari, spesso addossate alle

donne stesse. Le cifre rive-lano come l’Italia occupiuna posizione di inferioritàrispetto agli altri Paesidell’Ue, registrando unadelle percentuali d’occupa-zione femminile più basse:solo il 43% delle aziendepresenta delle donne neiCda. Con un misero 3, 9%l’Italia si ferma al sestultimoposto nella classifica d’occu-pazione femminile europea,segnando un’inferiorità ri-spetto alla metà della mediaUe (13, 7%) che precede ilPortogallo (3, 45%) ma re-gistra una distanza abissalecon i paesi del Nord.In vetta di classifica la

Norvegia che, grazie all’in-troduzione delle quote rosaper legge già dal 2003, si av-vicina a quel 40% previstodall’Ue entro il 2020 e chedovrebbe fare la differenza.Seguono Regno Unito(14%), Francia (12%) e Gre-cia (10.2%): in Italia solo 15membri Cda su 282 sonorosa. Le disparità tra sessi ri-flettono quel modello pa-triarcale che tanto fatica acedere, nucleo fondantedella maggior parte deipaesi interessati. Resta inte-

In vetta alla classifica c’è la Norvegia che, grazie all’introduzionedelle quote rosa già nel 2003, stacca Regno Unito, Francia eGrecia. Nei Cda italiani solo 15 membri su 282 sono donne

Solo il 43% delleaziende italiane hadelle donne neipropri Cda, mentre illavoro rosa è il 3,9%

ressante notare come di-verse combinazioni di poli-tiche sociali in diversi paesipromuovano diverse condi-zioni d’occupazione per ilgenere rosa. Danimarca,Svezia e Paesi Bassi raggiun-gono un soddisfacente equi-librio tra sessi nellacondivisione dei compiti fa-miliari, mentre l’età pensio-nabile è leggermente piùbassa per le donne, con unridotto margine per i mec-canismi compensatori a fa-vore delle donne. I servizidi accoglienza per l’infanziasono notevolmente svilup-pati e vengono rispettati icongedi legati alla cura eall’educazione dei figli, conil felice risultato di tassi dioccupazione tra i più altid’Europa. Le efficaci politi-che di conciliazione tra vitapubblica e vita privata rie-scono a ridurre il conven-zionale gap che ha semprecomportato la scelta tra di-mensione professionale efamiliare. Il tempo dedicatoche le donne dedicano al la-voro domestico supera gliuomini del 50%, una diffe-renza che nel Bel Paese vaoltre il 200%. Anche Belgio,Francia e Germania non re-gistrano discrepanze evi-denti nell’ambito dellaprevidenza, con differenti

misure compensative a pro-tezione delle carriere lavo-rative più accidentate. NelReno Unito, infine, il tassodi occupazione femminile èsuperiore al 60% e si pre-vede entro il 2020 il rag-giungimento dellaparificazione dell’età pen-sionabile. Nonostante i di-screti risultati ottenuti e irelativi vantaggi gentil-mente concessi al popolofemminile, resta ancora unasostanziale disparità trasessi, evidente nel tratta-mento sul mercato del la-voro. La persistenza didiscriminazioni, segrega-zioni nel mercato del la-voro, stereotipinell’educazione, disparità diretribuzioni, lavoro part-time involontario e il fortesquilibrio nella suddivisionedei compiti familiari pregiu-dicano le scelte di vita el’indipendenza economicadi molte donne. Stando aidati, l’equilibrio tra compo-nenti maschili e femminiliai vertici aziendali incidepositivamente sulle presta-zioni delle imprese, sui pro-fitti e sulla competitività.Tuttavia, le donne non rie-scono ancora a detronizzarela Casta in cravatta e le ri-spettive remunerazioni evi-denziano una drastica

sproporzione. In testa laGermania, con un margineimbarazzante del 21,6% asfavore delle donne. In Ita-lia le donne guadagnanomeno di quanto lavorino. Leequazioni sembra debbanorestare invertite ancora alungo.

Auguri e figli maschiPiù lavoro femminile, ma l’Italia congela,ancora per un po’, le differenze di genere

Anche se negli ultimi anni è aumentata lapartecipazione delle donne al mercato del

lavoro, il nostro Paese si distinguenegativamente in ambito europeo per le più altedifferenze di genere a svantaggio dellapopolazione femminile. In genere le analisi sisoffermano sull’alta percentuale di donnemeridionali inattive e dei cosiddetti Neet (Not ineducation employment or training): le donne sonoil 25 % del totale in questa categoria. Datidecisamente scoraggianti, alla luce di questi risultaveritiero e benaugurante l’adagio “auguri e figlimaschi”. Per una quota importante dellapopolazione italiana, la differenza di genere è unostacolo insormontabile. L’unico ammortizzatoresociale presente in questo contesto pare essere, oggicome nel diciannovesimo secolo, soltanto ilmatrimonio. Il contesto dell’analisi infatti siinquadra alla luce di pochi ma esplicativi indicatori.Dal 1980 al 2008, l’età media del primo matrimonioè salita dai 26 ai 30 anni. L’Italia ha inoltre unaquota di nati al di fuori del matrimonio del 17% afronte del 33% della media europea. Questi dueindicatori lasciano ad intendere la fortissimadifficoltà delle donne ad inserirsi nel mondo dellavoro attivo prima dei 30 anni senza una sorta ditutela derivante dal vincolo matrimoniale, equindi in buona sostanza l’inconciliabilità pertroppe italiane a coronare il binomio famiglia –

Per una quota importante della popolazione italiana ladifferenza di genere è un ostacolo insormontabile e

l’unico ammortizzatore sembra essere il matrimonio

di Luigi Loi

lavoro. Solo un 2% di donne single con unminore a carico vive in Italia, a fronte del quasi4% della media di donne europee nella stessasituazione e del 7% tra quelle inglesi. Ladisparità in Italia è anche un fattore geografico:il 65% delle donne single con minori abita elavora nel centro nord. Si potrebbe ridurrequesta fotografia della situazione femminile aduna banale stigmatizzazione che la societàitaliana fa scontare alle donne sole o piùprecisamente indipendenti. Ma degli impietosidati economici svelano una sottigliezzanascosta in questa apartheid di genere: sonoinfiniti i distinguo e i “se” da utilizzare quandosi parla di donne.

Se negli anni ottanta le donne iniziavano alavorare giovanissime e uscivano dal mercatodel lavoro molto presto per sposarsi e averebambini, in trent’anni si è destrutturato questomodello di partecipazione delle donne: oggi siaccede al lavoro nell’età in cui prima se neusciva, inoltre con un notevole spostamento inavanti negli anni dell’uscita definitiva. Unmostro bicefalo che impedisce alle donnegiovani di poter lavorare ed avere figli, perchéimpossibilitate nel trovare occupazione per unafortissima disparità di trattamento in entrata eper una numerosa presenza di donne piùanziane di loro ancora attivamente occupate. InItalia poco più della metà delle donne èoccupata o cerca lavoro. Sono il 51,1%. Il tassodi occupazione medio europeo per le donnesupera il 58% e in paesi virtuosi come la Sveziae la Danimarca si arriva a punte del 70%. Laforbice tra nord e sud in Italia è ancora unavolta ampissima: in Campania solo una donnasu quattro è occupata, ma se si supera ilquarantunesimo parallelo i numeri si ribaltano.In Emilia Romagna più del 60% delle donne

Apartheid di genere: ilsolo ammortizzatore

sociale per le donne èil matrimonio

Il differenziale retributivo digenere (gender pay gap): ledonne guadagnano il 72%

del salario degli uomini

infatti è occupata. Inoltre in Italia il tasso dioccupazione delle donne straniere è più alto diquello delle italiane perché ancora menotutelate delle pari sesso italiane e perchéoccupate in ambiti lavorativi ritenuti umili omal retribuiti. Se gli uomini sono occupati neisettori tradizionalmente appannaggio maschile(industria e costruzione) otto donne su diecilavorano nel settore dei servizi.

Se il genere sessuale con il possesso di untitolo di studio permette di diminuire ledifferenze tra i tassi di disoccupazione, l’Italia èancora una volta il fanalino di coda poiché ledonne laureate italiane sono le meno occupatein tutti i 27 paesi dell’Unione.

Se in Italia quasi una donna su due non trovaun adeguato sfruttamento occupazionale è veroche trova uno sfruttamento reale quando essa èoccupata: le donne guadagnano il 72% delsalario degli uomini, percentuale che si sollevaper le donne inserite nei quadri dirigenziali.L’unadjusted gender pay gap è ancora più forteper un operaia che guadagna il 68% rispetto alcollega operaio.

La legge nazionale 125 del 1991che dovrebbefavorire l'occupazione femminile e larealizzazione dell'uguaglianza tra uomini edonne nel lavoro, è lettera morta dicono ipragmatici. È invece un correttivo superfluo,dicono gli ingenui, in virtù dell’esistenzadell’articolo 3 della Costituzione che sancisceche tutti i cittadini hanno pari dignità socialesenza distinzione di sesso.

Negli anni Ottanta ledonne iniziavano efinivano di lavorare

presto per sposarsi

Oggi invece si accedealla carriera lavorativanell’età in cui prima se

ne usciva

*Un tema a settimana,un aggiornamento ogni sera.

Settimanale quotidiano*