QUADERNO DI PENSIERO E CULTURA LATINOAMERICANA · Colonia, colore, cultura Una radice comune dai...

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QUADERNO DI PENSIERO E CULTURA LATINOAMERICANA N. 1 Anno 2016

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QUADERNO DIPENSIERO E CULTURA

LATINOAMERICANA

N. 1 A

nno 2016

QUADERNO DIPENSIERO E CULTURA

LATINOAMERICANA

N. 1 A

nno 2016

INDICE

© Associazione Latinoamericana di CremonaDisegno gra�co di Sol Capasso

ASSOCIAZIONE LATINOAMERICANA DI CREMONAC.F.: 93016280195Via Gioconda, 3 CR 26100 ItaliaTel/Fax: +39 0372 750 775 | +39 334 388 7145E-mail: [email protected] web: www.alac-cremona.org

Presentazione .................................................. 3

Colonia, colore, cultura ................................. 4 Leonardo Franceschini

Fotogra�a di Hugo Chávez Frias

L’Argentina di oggi ........................................ 16Jorge Luis Elizondo

L’integrazione latinoamericana ................... 20Jorge Luis Elizondo

Fotogra�a di Eduardo Galeano

Todo Cambia ................................................. 26Gennaro Carotenuto

Fotogra�a di Mercedes Sosa

Disociación Psicótica (spagnolo) .................. 36Guido Cappelli

Fotogra�a di Berta Cáceres

La questione indigenistain America Latina ......................................... 44Daniela Negri

PRESENTAZIONE

I Quaderni di Pensiero e Cultura Latinoamericane nascono dall’omonimo Convegno annuale curato dall’ALAC. Raccolgono articoli di giornalisti, ricercatori, intellettuali e artisti provenienti da Europa e America Latina e hanno lo scoppo di invitarci al dialogo e alla ri� essione collettiva per promuovere una società egualitaria e rispettosa delle di� erenze culturali.

L’Associazione Latinoamericana di Cremona è un’organizzazione di volontariato ONLUS nata nel 1991 in risposta all’iniziativa promossa dal Comune, che convocò tutti i cittadini dei paesi extracomunitari ad un primo incontro pubblico per stabilire le basi di un rapporto tra i diversi gruppi e le istituzioni.

Un anno dopo, in occasione dei 500 anni dalla conquista di America, l’Associazione organizza, insieme ad altre attività, una grande mostra sulle culture indigene delle Americhe. Questo evento rappresenta il punto di partenza di uno sviluppo istituzionale che sarà sempre legato alla di� usione della cultura e il pensiero latinoamericani.

Da allora l’attività dell’Associazione si centra sulla di� usione della cultura, la storia e l’attualità latinoamericane, lo sviluppo artistico e la cooperazione internazionale.

All’interno di ALAC funzionano anche il Coro Voz Latina, che interpreta musica latinoamericana che va dal Barocco al Folklore, il Gruppo Arte Yunta, che realizza spettacoli legati alla memoria attiva e ai diritti umani, e l’Ensemble Alma Libera, che lavora per la di� usione della poesia, narrativa e musica latinoamericane e italiane.

Simon Bolivar e San Martin

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Colonia, colore, culturaUna radice comune dai travolgenti effetti politici

>> Leonardo Franceschini

Preambolo

Prima di entrare nel vivo della discussione, un breve preambolo volto a chiarificare la prospettiva attraverso la quale sto cercando di affrontare, smascherare e distruggere – poiché questo è l’obiettivo, intellettuale ma ancor più profondamente umano, verso il quale tendo – ciò che la storia (quella ufficiale, quella scritta dai vincitori) ha definito l’avventura coloniale europea. Vorrei primariamente sottolineare due aspetti che mi premono particolarmente. Anzitutto, ritenere che la pratica coloniale, in quanto dispositivo di esportazione e imposizione

di una cultura – insieme di tradizioni, pratiche religiose, costumi e stili di vita – nasca solo a partire da quel fatidico 1492, significa non vedere tutto quel terreno che anticipa, forgia e prepara la brutalità dell’uomo euro-bianco-cristiano già a partire dalla Grecia d’età classica; inoltre, seppur storicamente il colonialismo diretto, militarizzato, abbia visto il suo tramonto già negli anni settanta del secolo scorso (sebbene le più importanti multinazionali occidentali continuino letteralmente a saccheggiare il continente africano e parte di quello latinoamericano), uno degli elementi costitutivi dello stesso, la colonialità, continua a sopravvivere e a creare delle nuove configurazioni di dominio-potere. Per colonialità s’intende, con le stesse parole di Enrique Dussel, un approccio ego-teo-logico, di matrice Occidentale, attraverso il quale si continua a categorizzare, valutare, relegare l’alterità radicale in nome di una presunta superiorità sapienziale, politica ed economica, la quale continua del resto a fare da sfondo alle pratiche e ai discorsi interni alla politica internazionale. Per spiegare questa serie di relazioni tra sapere e potere, tra presunta sapienza universale e insipienza, mi avvarrò di un’analisi incentrata sulla questione della razza; oltre a questo, cercherò di riportare alla luce alcuni aspetti che mi sembrano decisivi per anatomizzare ciò che, a partire dal 1492 sarà il colonialismo moderno.

Grecia e Roma

Vorrei partire da una breve analisi riguardante l’origine etimologica di due termini che accompagneranno l’intera trattazione: colonialismo e cultura. Entrambi provengono dal verbo latino còlere (letteralmente “coltivare”, “lavorare sul creato”, ma anche, in senso più largo, “avere cura”, “onorare”, “venerare”); in questa accezione la parola cultura si riferisce all’atto stesso del culto, a ciò che, sacralizzato attraverso una pratica

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>> Leonardo Franceschini

Prof. di FilosofiaUniversitat de ManresaGIRCHE (Spagna)

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Libri Sibillini, si stabilì che per vincere una guerra era indispensabile introdurne il culto e costruire un santuario a lei dedicato) , il quale, secondo l’attestazione di Plinio il Vecchio, venne istituito da Romolo; proprio quello stesso Romolo che, secondo la leggenda, uccise il suo gemello Remo, colpevole di aver oltrepassato la cinta muraria o pomerium (il “solco sacro” della città di Roma) – precedentemente tracciata con l’aratro – con la quale Romolo aveva delimitato il proprio spazio privato. E proprio questa antica sacralizzazione di uno spazio, assai spesso strutturata attraverso la dialettica di inclusione-esclusione, di dentro-fuori (piazza-casa, pubblico-privato, manifesto-invisibile), di “verace normalità” ontologico-epistemica (concernente cioè l’Essere e il Sapere) e di “mendace anormalità”, e centrata sullo stretto vincolo occupazione-gestione, costituirà uno degli aspetti fondamentali delle pratiche politiche dell’occidente a noi più vicino.

L’altro vocabolo che completa il titolo del mio intervento è quello di colore, anch’esso derivante da colere (con e lunga e col significato di Far nascondere, causativo di celere). Al fine dell’analisi che sto cercando di compiere, occorre tenere ben presente il fatto che non si tratta qui, esclusivamente, di un principio di invisibilità, di un celare alla vista, e che accanto a questo ve ne è un altro che durante l’antichità rimase a uno stadio per così dire embrionale, ma che a partire dal XVI secolo diventerà uno strumento indispensabile al fine di categorizzare e suddividere le presunte razze umane, strumentale alla colonizzazione di altri continenti da parte dell’uomo bianco. Interessante, allo stesso tempo, notare come già nel greco antico il fonema chróma (colore) collimi con cróos (pelle che ricopre il corpo). Colore, abbiamo detto, come categoria fondamentale all’interno del processo di colonizzazione, come accezione razziale.

Orbene, come nasce, in Europa, l’idea della razza? L’idea, cioè, che l’homo sapiens, unico superstite della famiglia degli ominidi, possa

rituale, assurge a funzione salvifica, propiziatoria. Nello scorrere circolare delle stagioni si assiste a una prassi di natura mitologica che lega l’azione diretta dell’homo faber, del contadino che dissoda, semina e raccoglie, alla benevolenza della divinità. È possibile notare già qui uno stretto legame tra la necessità di esercitare una forma di gestione e di trasformazione della terra a proprio vantaggio (ciò che è, per l’appunto, in-colto), e una preghiera rivolta al dio affinché aiuti e renda possibile tale attività. Implicazione previa e indispensabile diviene l’occupazione stabile di uno spazio. Già nella Teogonia di Esiodo (vv.901-902), uno dei testi più antichi a noi pervenuti, la Giustizia è sorella delle Stagioni, ed è proprio tale parentela ad assicurare la sopravvivenza degli uomini. Anche le Eumenidi di Eschilo prometteranno ad Atene buoni raccolti. Tale era, e continuerà a essere per secoli, il ritmo scandito della vita religiosa del paganesimo greco-romano: a ogni raccolto annuale si riponeva la propria speranza negli dèi; una speranza che per certi aspetti rimarrà viva anche nel cristianesimo.

Credo sia sufficiente porre l’accento sull’importanza che già a partire dal VII secolo a.C. possedevano i culti relativi a Demetra e a Dioniso, rispettivamente dea delle messi e dell’agricoltura e dio dell’entusiastica produzione della vita. A tal proposito non mi sembra altresì superfluo ricordare il collegio sacerdotale romano conosciuto come Fratres Arvales che era preposto al culto dell’arcaica dea Dia, successivamente identificata con Cerere. Durante le processioni, le Ambarvalia, si invocava la protezione degli dei Lari sui campi e sui i raccolti. Il carme che essi cantavano durante le cerimonie – il Carme Fratum Arvalium – scritto in versi saturnii e che costituisce uno dei testi più antichi in lingua latina, era dedicato a Marte, invocato come divinità agricola ancor prima che guerresca: vale a dire, dio della fecondità e della difesa dei confini. Allo stesso tempo, l’introduzione del culto di Demetra a Roma, che aquisì il nome di Cerere, avvenne nel 496 a.C., allorquando, nei

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l’aristocratico ateniese non era un Thomas More e la “città perfetta” da lui delineata nell’opera non era, per l’appunto, un’utopia (vale a dire, un non-luogo); al contrario, Platone immagina di fondare proprio una colonia, all’interno della quale quegli uomini cui la divinità diede la sorte di popolare un nuovo stato (V, 737b), dovranno comandare seguendo l’antico principio tanto caro al mondo greco, quello secondo cui la città ben organizzata è quella nella quale gli uomini liberi, i migliori, i ricchi, gli aristoi, si serviranno del lavoro degli schiavi. Cosa interessante: gli schiavi sarebbero stati trasportati forzatamente dal loro luogo d’origine verso un’altra terra, nello spazio coloniale; sappiamo che milioni di africani, duemila anni dopo, saranno le vittime di questo antico disegno. Platone affermerà, conformandosi a un’idea che rimarrà tristemente inalterata nel corso dei secoli, che l’anima degli schiavi non ha nulla di sano (VI, 776e); inoltre, dal momento che lo schiavo mostra di non voler in nessun modo adattarsi a essere o diventar docile davanti alla necessaria distinzione per la quale noi nei fatti separiamo schiavo e libero padrone (VI, 777b), lo schiavo si deve punire secondo la giustizia (VI, 777e). Ed ecco qui il vero principio della tanto decantata democrazia greca (che fu in realtà, sempre, un’oligarchia aristo-fallocentrica).

Seguendo questa linea, mi sembra interessante notare come la stessa idea di superiorità sapienziale, frammista a una fobia verso l’Oriente alimentata già a partire dalle Guerre Persiane del V secolo a.C., fosse fatta propria dai migliori intellettuali dell’antichità. Il primo grande drammaturgo greco, Eschilo, vedeva nei Persiani una minaccia, ritenendoli inferiori ai greci: nell’omonima tragedia, infatti, più che dar risalto alla vittoria ellenica, l’enfasi è tutta rivolta verso l’orgogliosa consapevolezza di aver sconfitto lo straniero, l’insolito, O ξεμος (da qui il termine xenofobia). Ed è proprio a partire dalle Guerre Persiane che nasce un nuovo paradigma politico

essere suddiviso, a sua volta, all’interno di categorie determinate e determinanti? Voglio però prima ribadire un concetto poiché credo sia importante farlo: né i Greci e né, successivamente, i Romani, consideravano l’altro da sé in termini di inferiorità razziale (tale apparato concettuale apparirà solo con ciò che gli europei definiranno Modernità). Non a caso il termine “razza”, dall’antico francese haraz, “allevamento di cavalli”, non compare prima del XVI secolo, in piena epoca coloniale. Fu solo con il naturalista svedese Carlo Linneo e col suo Sistema Naturae (1735) che si iniziò a parlare di “razze umane”, assumendo come criterio distintivo il colore della pelle. Da qui e per tutto il corso dell’Ottocento e della prima parte del Novecento, sotto la spinta della mentalità positivista, iniziarono a svilupparsi teorie presuntamente e falsamente scientifiche volte a dimostrare la superiorità della presunta “razza bianca” (in autori quali Malpighi, Buffon, Kant – che immaginava l’uomo bianco e biondo essere all’origine della specie umana –, fino a quella triste pseudo-scienza inventata da Gall e nota con il nome di frenologia). Allo stesso tempo Greci e Romani ostentavano senza mezzi termini la propria superiorità a livello di struttura politica, sapere e civilizzazione, riassumible nella famosa locuzione πᾶς μὴἝλλην βάρβαρος, chiunque non sia greco è un barbaro.

Iniziamo con i Greci. Da un punto di vista storiografico già Tucidide vedeva nel governo di Pericle e nelle leggi in esso vigenti un modello che tutti gli altri (greci e non) avrebbero dovuto seguire; da un punto di vista filosofico-giuridico, approssimativamente una quarantina di anni dopo Platone inizierà la redazione di un testo di fondamentale importanza ai fini dell’analisi che sto cercando di condurre: le Leggi. Alcune brevi considerazioni sul testo. Anzitutto, per redigere l’opera, Platone si basò sulla legislazione dell’epoca, rimanendo pressoché fedele all’organizzazione politica del suo tempo; inoltre,

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all’ideale della libertà che comandare e governare altri popoli: qualsiasi straniero era considerato un kakon genos, una spregevole stirpe.

Vediamo ora brevemente come questa eredità acquisirà nuova forza – politica e territoriale – all’interno dell’Impero Romano. Uno degli aspetti della cultura greca – verso la quale i Romani patiranno sempre un complesso d’inferiorità – che l’Impero riprodurrà è quello legato all’etnocentrismo. Una consuetudine comunemente accettata, una legge non scritta – frutto quindi del senso comune dell’epoca – escludeva ad esempio dal trono ogni uomo di origine ellenica, così come, fino al V secolo d.C. (quando l’Impero si sgretolò), lo stesso divieto valse per tutti i popoli germanici. La questione era ancor più netta per ciò che riguardava l’Africa romana: nessun senatore, infatti, poteva essere d’origine propriamente egiziana.

Un altro aspetto fondamentale si ritrova nella figura stessa dell’Imperatore. Fin dagli inizi del Principato, la potenza fattuale del principe di infliggere la morte, la confisca o l’esilio è parte integrante del suo ruolo. Il suo potere pubblico, così come quello dei suoi governatori di provincia, diviene assoluto, completo, inappellabile: egli, pur essendo a titolo personale un semplice cittadino – e perciò sottomesso alle leggi – è allo stesso tempo onnipotente e gode di uno statuto ambiguo, più vicino a quello divino che a quello umano. Credo sia interessante notare come posteriormente i mercanti di schiavi, i conquistadores e il personale europeo impegnato nelle colonie eserciteranno – dentro e fuori dal diritto – tale potere sulla vita e sulla morte (il quale, fin dai testi religiosi più antichi, è un potere che solo Dio può esercitare). E ritroveremo il medesimo principio già nelle prime leggi emanate nella Germania nazista, lì dove non ci sarà nessuna ragione giuridica, sociale e religiosa per non autorizzare l’uccisione di quegli uomini che non sono altro che la spaventosa immagine rovesciata (Gegenbild) dell’autentica

dell’Occidente, all’interno del quale continuiamo a essere intrappolati, dettato dalla contrapposizione tra un “noi” e un “loro”. E’ proprio con le Guerre Persiane, infatti, che nasce qualcosa di unificato che prende il nome di Grecia; fino ad allora tale unità non era mai esistita, essendo appunto la storia di quel periodo segnata da un’infinità di guerre combattute tra le varie città. Ed è curioso notare come ancor oggi si parli di Europa e di Occidente, nonostante le frammentazioni, contraddizioni e parcellizzazioni interne, solo nel momento in cui a questi concetti vengono contrapposti i loro privativi: non-europeo, non-occidentale.

Tale idea verrà ripresa, due secoli dopo, da Aristotele. Nella sua Politica lo Stagirita espone la trattazione e l’analisi di due concetti che peseranno non poco sulla successiva tradizione politico-filosofica dell’Occidente: mi sto riferendo al concetto di barbaro e a quello di schiavitù, i quali saranno utilizzati, quasi duemila anni dopo, come referenti eruditi nella tratta degli schiavi africani e nella pratica dell’evangelizzazione coercitiva esercitata dalla Chiesa Cattolica nei confronti delle popolazioni native del continente americano. Secondo Aristotele il barbaro, letteralmente, lo “straniero”, era predisposto secondo natura a essere schiavo di un greco in quanto privo della capacità razionale di vivere le forme dell’eticità e della moralità della polis. Notiamo già qui la creazione di un’unità etno-linguistica contrapposta a tutti coloro che parlavano altri idiomi: è una visione ellenicocentrica che segna e rimarca una differenza vista come superiorità. Più in generale, la civiltà greca si penserà sempre come la civiltà per eccellenza, l’unico popolo civilizzato; tanto è vero che ellenizzare e civilizzare resteranno, per secoli, sinonimi. In quasi tutti i decreti emanati ad Atene – che trovano la loro origine nel Panegirico di Isocrate – ci si vantava di aver dato all’umanità il germe dell’educazione. Ce lo rivela anche il loro dizionario: “Greci: primo popolo del mondo”. Inoltre, per un greco non ci fu mai cosa più vicina

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Da Paolo a Tommaso: il medioevo cristiano

L’intelligenza politica di Paolo di Tarso risiede nell’aver compreso che il potere si trovava proprio a Roma, sede dell’Impero, e non è un caso che la sua famosa Epistola (la più politica tra tutte le sue lettere) venga indirizzata proprio a quella comunità. Proprio nella Lettera ai Romani (1:14) e nella Prima Lettera ai Corinzi (14:11) riutilizzerà il vocabolo barbaro per indicare l’incolmabile divario con il cristiano: vale a dire, lo scontro tra l’insipienza e la sapienza. Inoltre, l’odiosa pratica della schiavitù, che fin dall’antichità ha accompagnato la vita stessa dell’Occidente, troverà, con il cristianesimo, una sistematizzazione impeccabile, una giustificazione orientata al sentirsi in pace con Dio. Sempre San Paolo, nella Lettera agli Efesini (VI, 5-8), esorterà gli schiavi a obbedire ai padroni terreni “con rispetto e timore”, come “servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, prestando servizio volentieri, come chi serve il Signore e non gli uomini”.

Fin qui, riassumendo, due punti fondamentali: un ego-logo-centrismo, un produrre un discorso dal punto di vista di colui che pone se stesso in una posizione centrale e superiore; l’ammissione e conseguente giustificazione della pratica schiavistica, rivolta contro tutti coloro che non appartengono a determinate categorie, ad arbitrarie creazioni antropologiche.

Le grandi esplorazioni del Basso Medioevo condurranno gli europei a raggiungere pressoché tutto il mondo allora conosciuto (verranno a contatto, ad esempio, con Arabi, Mongoli e Cinesi). Dall’XI al XIII secolo erano state le crociate a mettere gli europei in contatto con le civiltà islamiche, considerate inferiori, idolatre e menzognere. Mentre però, da parte loro, teologi ed eruditi maomettani si erano impegnati già da secoli nella traduzione delle opere greco-latine, ebraiche e cristiane (un movimento intellettuale che ebbe inizio nel secolo VIII durante il califfato Abbaside

umanità. Ed è proprio per questo che Aimé Césaire potrà affermare che in realtà il nazismo non era stato altro se non il risultato naturale e inevitabile del secolare allenamento alla disumanizzazione precedentemente perpetuato all’interno della colonia e a danno delle popolazioni extraeuropee.

Lo stesso diritto romano, come ci ricorda Tito Livio, nasce dalla forza, dalla conquista militare e dall’occupazione stabile di un territorio. L’universalismo romano, basato su tali principi, portava a considerare Roma stessa come l’unico stato al mondo; la sua peculiare forma d’imperialismo bastava a se stessa e non aveva bisogno – a differenza di quello della modernità e contemporaneità occidentale – di nessun pretesto ideologico. I Romani si sentivano semplicemente destinati a comandare su tutti gli uomini.

Gli storiografi e i poeti dell’epoca esaltavano senza mezzi termini la bontà dell’imperium e la sua missione storica, compresi quelli greci. Già in età ellenistica, ad esempio, lo storico di origine greca Panezio (II secolo a.C.) arriva a scorgere nell’imperialismo romano una missione universale che, conciliando una politica di dominio con una discutibile filantropia, assicura a tutti i popoli sottomessi pace, prosperità, giustizia e ordine: si tratta, in poche parole, di un governo illuminato. Persino otto anni dopo il Sacco di Roma, nel 418, l’ultimo poeta pagano, Rutilio Namaziano, celebrò con versi toccanti l’universalismo della civiltà romana, votata all’eternità. Ma allora, già da un secolo e in seguito all’editto di Milano emesso da Costantino nel 313d.C., l’impero era ormai diventato cristiano, come ben si rese conto Eusebio, agiografo dello stesso imperatore.

Vorrei ora continuare a seguire questa linea mostrando come il nuovo credo universale si svilupperà all’interno dell’impero universale, conservandolo e trascendendolo lungo il corso del Medioevo.

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secolo XII) traccia il profilo ideale di una nuova cavalleria fatta di monaci-guerrieri, del tutto dimentica del mondo e integralmente votata alla causa della guerra agli infedeli e alla difesa amorosa dei cristiani. Modello di tutto ciò? Le arma lucis di una celebre lettera di San Paolo. Nel secolo XII San Bernardo benedice la nascita di una nuova cavalleria: quella dei monaci-cavalieri degli ordini militari. Come il monaco, il cavaliere è un eroe della pugna spiritualis, della lotta contro il diavolo. L’immaginario cavalleresco che durerà fino a Cristoforo Colombo (letteralmente il portatore di Cristo, del quale per molto tempo si postulerà la beatificazione), conquistador mistico, si nutre di un fondo “mitico folclorico” e dei miraggi dell’Oriente. L’attrazione per le terre lontane e per i loro costumi, che avrà un così decisivo peso nella cultura europea tra XVIII e XX secolo e che darà adito a quell’esotismo che è del resto funzionale alle conquiste coloniali, trova le sue radici proprio nella letteratura cavalleresca medievale che mutua i suoi contenuti dalla letteratura geografica antica e dalla spiritualità crociata. Questo spirito d’avventura crociata e cavalleresca sarà ereditato, nell’era delle grandi scoperte geografiche e dei viaggi transoceanici, da Enrico il Navigatore, da Cristoforo Colombo e dai conquistadores, i quali se ne faranno alibi per violenze e spoliazioni. Vale la pena ricordare che al Doctor Angelicus Tommaso d’Aquino si deve un’operazione intellettuale di fondamentale importanza. Trovandosi a Parigi nel clima assai teso seguito alla polemica sulla “doppia verità” dell’Averroismo, Tommaso arriva ad affermare che la teologia è una scienza (o quasi scienza): ciò significa che essa deve essere insegnata anche a chi non crede alla sacra pagina: si può dunque sperare di convertire con i mezzi della ragione gli infedeli.Il Basso Medioevo è importante anche per un altro aspetto, legato alla prima codificazione, in ordine cronologico, del problema della razza e al rapporto che i cristiani avevano intessuto con

che governò il mondo musulmano fino al 1258), le nozioni possedute dai cristiani sulla religione coranica rasentavano una rozzezza disarmante. Cosa emergeva, conseguentemente, dai loro resoconti di viaggio?. Un senso di superiorità, una scala di valori gerarchizzati, l’aspirazione alla dominazione universale, nonchè un certo orgoglioso compiacimento riguardante la propria eredità culturale che condusse già all’epoca molti a sposare un atteggiamento mirato alla conversione, alla necessità di convincere tutti che l’unica verità risiedesse nel Cristo risorto. Ma da dove veniva, a sua volta, questa certezza nella propria verità assoluta, e come si era sviluppata? Nella teologia paolina l’atto redentore di Gesù s’incarna nel credente. Tutta la vecchia umanità è crocefissa in Gesù, tutta la nuova risorge con lui. Inoltre – ed è un aspetto molto importante - il dramma vissuto da Gesù trascenderà il tempo, appartenendo a ogni età. Allo stesso tempo fin dal II secolo d.C. (mi riferisco qui al monumentale Adversus haereses libri V di Ireneo di Smirne, il primo grande eresiologo) inizia una codificazione capillare delle dottrine che dovevano essere estirpate con forza; tale prassi accompagnerà la speculazione cristiana – e ne rappresenterà per molti aspetti l’anima stessa – fino alla modernità inoltrata.

Credo sia importante altresì porre l’accento sul fatto che poche epoche hanno avuto quanto il Medioevo cristiano occidentale dei secoli XI-XV (secoli importantissimi per la formazione stessa della modernità occidentale) la convinzione dell’esistenza universale ed eterna di un modello umano. Vi troviamo prepotentemente, tra le altre, l’elaborazione di un complesso etico-teologico teso alla sacralizzazione della pratica militare (che la logica propagandistica militare della NATO, con i suoi “bombardamenti umanitari” continua incredibilmente a riprodurre ancora oggi). In un trattato non privo di forza poetica, intitolato Liber ad milites Templi de laude novae militiae, il santo (Bernardo di Clairvaux, prima metà del

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Così la Chiesa, che pure era stata in grado di elaborare una teoria della presenza ebraica che la garantiva e la rendeva stabile (a patto di una totale e completa dichiarazione di sottomissione), ha anche fornito gli strumenti culturali e simbolici per trasformare questa presenza in un’oscura minaccia, contro cui era necessario scendere in guerra.

Tra questi strumenti l’immagine è quella più importante, soprattutto in un’epoca in cui l’educazione e la propaganda ideologica non si realizzavano mediante il testo scritto (ad appannaggio di una irrisoria minoranza), ma per l’appunto attraverso l’atto visivo. Le immagini potettero suscitare gravi sospetti e ostilità in quanto tradizionalmente legate al mondo e alla cultura dei gentili e possibili veicoli di idolatria. Sempre più esse vennero quindi messe al servizio della Chiesa, della sua missione, dei programmi di redenzione e di salvezza, e poterono addirittura venire considerate come un sostituto della lettura per gli illetterati. Di questo si rese conto già Papa Gregorio Magno, che nell’anno 600 scriveva al vescono di Marsiglia: “... infatti cio’ che e’ la scrittura per coloro che sanno leggere e’ la pittura per gli analfabeti che la guardano, perche’ in essa possono leggere coloro che non conoscono le lettere, per cui principalmente la pittura serve da lezioni per le genti”. A partire dal XIV secolo assistiamo ad un cambio radicale, decisivo, che connette l’immagine con la costruzione di una scala di valori edificata sull’aspetto immediatamente fenomenico di un essere umano: l’ebreo inizia infatti ad essere definito non più in base alla credenza religiosa, bensì alla sua struttura fisica e fisiognomica. La pittura e l’iconografia dell’epoca, che svilupperanno questa tematica fino al Rinascimento, forniscono prove importanti di questo mutamento. La pittura antiebraica, che si inserisce con le sue specificità nel grande filone della cosiddetta pittura infamante, raffigura i soggetti in questione come mostri dai nasi

la religione ebraica. Dalla Grande Diaspora del I secolo d.C. la vita degli ebrei era stata scandita da tutta una serie di violenze, espropri, eccidi di massa, stereotipi e calunnie prive di fondamento, fin dai primi conflitti tra Roma e la Giudea sotto Pompeo, che vedono a Roma i primi ebrei schiavi, passando per l’anno 138, quando Gerusalemme diventa Elia Capitolina, città proibita agli ebrei, che vengono esiliati nel Mediterraneo e in Oriente. Nel 1348, anno in cui la peste nera iniziò a diffondersi in Europa decimandone la popolazione, i focolai vanno di pari passo con le persecuzioni antiebraiche. E non è un caso che il primo massacro sia avvenuto proprio nella notte della domenica delle Palme, ossia all’inizio della Settimana Santa, che è, nel mondo cristiano, un periodo tradizionalmente segnato dalla manifestazione – sia pur ritualizzata e codificata – dell’ostilità religiosa contro gli ebrei. In quello stesso anno, del resto, gli ebrei erano già stati espulsi sia dall’Inghilterra che dalla Francia, mentre in Spagna venivano sottoposti a violente campagne – guidate essenzialmente dai domenicani – rivolte a portarli al fonte battesimale, e non senza successi. Intanto in Germania i massacri di Rindfleisch del 1298, seguiti da quelli di Armleder nel 1336, seguivano la stessa linea. Tutto questo simbolismo relativo alla contaminazione e alla malvagità ebraica – che affonda le proprie radici nella Lettera ai Galati di Paolo - fu almeno fino all’eta’ moderna opera della religione cristiana (sebbene sia i testi assai recenti di Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI continuino ad insistere eufemisticamente sulla “reciproca e storica incomprensione” tra cristiani ed ebrei). Il pensiero cristiano dei primi secoli, costruendo un’ immagine dell’ebreo centrata non più solo sulla testarda renitenza a riconoscere la verità (della quale saranno spesso accusate le popolazioni africane e latinoamericane), ma anche sulla carnalità e immoralità (stereotipi molto simili a quelli riguardanti l’universo femminile), e infine sulla natura diabolica e idolatra della sua religione.

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specie umane divennero sempre più raffinate, basandosi su concetti quali razza, colore, origine, tratti caratteriali e presunte configurazioni psichiche. Non è un caso che in tutta l’iconografia medievale cristiana, che prepara il terreno – come abbiamo visto – al colonialismo moderno, la luce bianca e splendente è emanazione diretta di Dio, grazie alla quale, attraverso l’incarnazione in Gesù Cristo, deriva l’unica e veridica conoscenza. Vediamo quindi che il colore, che da un punto di vista fisico non è altro che una percezione visiva, acquisisce una chiara valenza antropologica e morale. Il colore della pelle, peculiarità fenomenica riscontrabile immediatamente sul corpo, inizia a catturare un insieme di significati che oltrepassano il dato meramente visivo. A tal proposito Fanon, in Pelle nera, maschere bianche – frutto delle sue ricerche psicanalitiche nell’Algeria occupata dai francesi, scriverà: “Nell’inconscio collettivo dell’homo occidentalis il negro o, se si preferisce, il colore nero simboleggia il male, il peccato, la miseria, la morte, la guerra, la carestia. Satana è nero, si parla delle tenebre, quando si è sporchi si è neri (sia sporco fisico che sporco morale)”. Sulla riva opposta troviamo il bianco “sguardo chiaro dell’innocenza, la bianca colomba della pace, la luce fiabesca, paradisiaca”. L’uomo bianco, in ultima analisi, sarà l’unico a essere considerato puro. Alla fine del 1400, contemporanei all’espulsione degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna, inizieranno a circolare i primi statuti sulla “Limpieza de sangre” (il primo fu approvato a Toledo nel 1449).

La “Rivoluzione Epistemologica” dei secoli XVI e XVII ebbe, senza dubbio, il suo epicentro in Europa (Descartes, Kepler, Galilei, ecc.); ben presto, però, la sfera disciplinare che da questa prese vita si auto-affermò non solamente in relazione alla sola Europa, bensì a tutti i saperi esistenti nelle società non europee e alle popolazioni che abitavano tali territori. Dalla teologia cristiana si passò alla filosofia e alla scienza secolarizzate

adunchi e dalle dita incredibilmente lunghe, in atto di afferrare bambini, di mangiare l’innocenza. Tali affreschi venivano spesso esposti nelle chiese, luoghi interdetti agli ebrei, facilitando e sviluppando un simbolismo rivolto ad una ”educazione al razzismo” che, storicamente, vide proprio in quei luoghi le sue prime manifestazioni. Nello stesso periodo (e qui vorrei concludere per lasciare spazio al dibattito), in seguito al Concilio Laterano IV sugli Ebrei (1215), si apriva una nuova era di segregazione e di discriminazione. Quella del segno distintivo è forse la più nota e la più significativa. Il segno nasce dalla volontà proclamata di impedire illeciti contatti sessuali tra ebrei e cristiani e assume solo successivamente un valore più generale di discriminazione. A Ferrara, nel XV secolo, le leggi stabilivano che ogni ebreo di sesso maschile di età superiore ai dodici anni doveva portare un segno giallo. Vediamo dunque che il colore inizia ad assumere un congiunto di significati che vanno ben oltre il mero dato visivo; alla questione Fanon dedicherà pagine memorabili in Pelle nera, maschere bianche, parlando della contrapposizione manicheista bianco-nero. Qualunque fosse realmente il significato originario del segno, esso passo’ rapidamente nella percezione ebraica come in quella cristiana a significare inferiorita’ e infamia. In Italia sara’ la predicazione francescana che – nel corso del XIV e del XV secolo – lo imporra’ nei comuni e nelle citta.

Dal 1492 a oggi

Veniamo ora all’anno zero della modernità, il 1492. Fin da subito, allorquando gli europei sbarcarono nel “Nuovo Mondo”, si diffuse un procedimento intellettuale generalizzato attraverso il quale si iniziarono a classificare gli esseri umani utilizzando a tal fine alcune categorie: struttura corporea, qualità morali, intellettuali, spirituali, ecc. Col passare del tempo le classificazioni delle

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di vivere e di pensare. Il concetto di “cultura” fu anche tremendamente utile per bollare tutto il resto come inferiore. Mentre la civilizzazione europea si andava a poco a poco dividendo in culture nazionali – processo che sfocerà nell’esacerbato nazionalismo dei secoli XIX e XX – la popolazione del resto del mondo veniva considerata in-colta, incapace cioè di agire sul creato grazie all’aiuto di un Dio verace. Il risultato di questo approccio politico-epistemico non fu un tentativo di conoscere l’altro, né tantomeno di lasciare che questi manifestasse liberamente i suoi tratti essenziali: ciò che si costruì e che continua a fortificarsi è la rappresentazione dell’altro; in altre parole, la totale ignoranza dello stesso. Per molti aspetti, riprendendo una frase scritta da Lumumba, la storia scritta a Bruxel, a Parigi o a Washington sembra non avere nulla a che fare con la storia, bensì col mito, intendendo con questo termine un “racconto favoloso”, come lo definì Schelling.

Ora, tornando all’idea della razza, tentiamo di indagarla più approfonditamente onde smascherarne i principali assunti. Anzitutto, la classificazione della popolazione mondiale strutturata su tale concetto è una costruzione mentale, una rappresentazione soggettiva (del presunto Uno-Tutto-Eurocentrico), che esprime essenzialmente il ruolo della dominazione coloniale: è il lato pratico, visibile, di tale rappresentazione. Dall’inizio del colonialismo, infatti, tale asserzione permea le dimensioni più importanti del potere mondiale (nelle mani dell’Occidente), includendo la sua razionalità specifica, l’eurocentrismo. Con la Conquista, la codificazione delle differenze tra conquistatori e conquistati si fondò proprio su un’idea razziale. Tale idea venne assunta dai conquistatori come il principale elemento costitutivo, fondante, delle condizioni di dominazione che la conquista imponeva. Su questa base, conseguentemente, venne classificata la popolazione d’America e, più tardi, quella di tutto il conosciuto e conoscibile, per

come modelli universali da seguire e da imporre. L’assegnazione autoreferenziale del compito di giudicare e valutare relegò le sfere disciplinari non occidentali a mere istanze suscettibili di essere modificate, cancellate, riplasmate a propria immagine e somiglianza, ad immagine e somiglianza dell’uomo bianco, Dio tra gli altri uomini. La “Rivoluzione Epistemologica” andrà, del resto, di pari passo con la fondazione storica del razzismo ontologico ed epistemico.

Si pesava tutto mediante un’idea astratta di “normalità umana”: l’uomo, in quanto portatore di conoscenza e moralmente valido, doveva essere bianco, cristiano, occidentale ed eterosessuale. Ma non solo. Anche le lingue nelle quali veniva prodotto il sapere possedevano una gerarchia ben precisa. Quest’idea di totalità, prodotta in Europa, portò a un marcato riduzionismo teorico, assumendo come nucleo centrale una metafisica del macrosoggetto storico, di un soggetto, cioè, artefice e unico protagonista della presunta Storia Universale. Tale presa di posizione, oltre che uccidere e sommergere differenti approcci alla conoscenza, si accompagnò a politiche di sterminio sotto l’egida del sogno puerile della razionalizzazione totale della società.

I popoli colonizzati, oltre ad essere privati con la forza di un sapere accumulato nel corso dei secoli, furono ridotti a un’immagine, ad una rappresentazione di quello che era uno sbiadito riflesso di ciò che l’Europa credeva di conoscere. Quello che più tardi sarà chiamato Terzo Mondo, inizia, già dal XVI secolo, a prendere le forme di un oggetto di studio. L’intreccio di potere e conoscenza crea l’ “indio”, il “negro”, l’”orientale”, ecc: non ci furono però né negri, né indios e né orientali fino a quando il logos dominante europeo non forgiò tali concetti. Siamo di fronte alla missione civilizzatrice, pedagogica, del macrosoggetto occidentale. Assistiamo a un’universalmente ammessa inferiorità del non-Occidentale: egli ha bisogno di essere corretto, migliorato, nel modo

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a mascherare questo razzismo moltiplicando le sfumature,il che le permette di conservare intatta la proclamazione dell’eminente dignità umana”.

In molti paesi europei partiti dichiaratamente xenofobi e razzisti guadagnano sempre maggiori consensi (le ultime elezioni europee hanno tristemente confermato questo dato); all’interno dell’Occidente, ma soprattutto negli Stati Uniti d’America, ogni musulmano è visto come un potenziale terrorista, come una minaccia concreta e reale (accenno agli ultimi fatti di Baltimora). Continue ondate migratorie rafforzano antichi stereotipi riguardanti l’altro, ingigantendo le file dei populisti sostenitori della politica dell’endogruppo (gruppo d’appartenenza), violentemente rivolta verso l’esogruppo (o gruppo esterno). E portano l’Europa ancor oggi a essere, come sosteneva Césaire nel suo Discorso sul colonialismo, l’unico vero continente barbaro: attraverso la chiusura delle frontiere e la difesa del proprio spazio-sacro dal quale vengono militarmente esclusi gli “impuri”; attraverso le sue criminali politiche economiche di sfruttamento di territori, materie prime ed esseri umani; attraverso il colpevole silenzio che ormai da anni contraddistingue le sue politiche istituzionali: una volontà di non vedere che sta conducendo a un vero e proprio olocausto – quello che si consuma ogni anno con la morte di migliaia di persone nel Mediterraneo – o, nel migliore dei casi, all’internamento degli “esseri umani illegali” in quelle prigioni chiamate C.I.E., unici veri lager del mondo contemporaneo. (breve discorso extra-giuridico sull’eredità coloniale).

Personalmente ritengo che le pratiche razziste costituiscano un elemento centrale sul quale l’Occidente moderno ha strutturato la sua stessa vita, le sue creazioni, la sua autocoscienza e le sue relazioni dipotere. L’elemento razziale rappresenta l’anima della modernità europea, ciò che l’ha ispirata, eccitata, demistificata: il razzismo è la storia stessa dell’Occidente moderno. Continuare a non considerare fondamentale tale entità

mano del nuovo padrone planetario. D’altra parte, ed è importante non dimenticarlo, tale processo andava di pari passo con le nuove forme storiche di controllo del lavoro, delle sue risorse (umane, tra le altre) e dei suoi prodotti, ruotanti intorno al nascente capitalismo e al mercato mondiale. Se fino ad allora, queste denominazioni indicavano solamente una provenienza geografico-spaziale, da quel momento iniziano anche ad inglobare, in contrapposizione alle nuove identità sovra menzionate, una chiara e specifica connotazione razziale. La domanda sul “chi sono?” viene sostituita dal “da dove vengo?”. Tali relazioni sociali, essendo relazioni di potere, fornirono alle identità corrispondenti un’automatica configurazione gerarchica: razza e identità, dunque, ebbero la funzione di stabilizzatori economici e strumenti di classificazione sociale della popolazione. Nel corso della bianca espansione mondiale, venne ovunque imposto il medesimo criterio di classificazione, falsamente scientifico. A poco a poco sorsero nuove identità storico-antropologiche, le quali si aggiunsero alle altre: Gialli e Olivastri. La distribuzione razzista di questi nuovi elementi venne abbinata, come già detto, alla distribuzione del lavoro e alle forme di sfruttamento del capitalismo imperiale/coloniale.

Avviandomi verso la conclusione, uno sguardo rivolto alla stretta attualità. Al giorno d’oggi, perlomeno all’interno della comunità scientifica, chiunque parli ancora di superiorità o inferiorità razziale, non può certamente essere preso sul serio. Sarebbe però un grande errore ritenere che il razzismo sia scomparso dalle nostre società. La discriminazione razziale permea gli aspetti quotidiani della nostra vita, dall’inserimento nella scuola al mondo del lavoro, dal cinema alla pubblicità, dall’amministrazione della giustizia alle libere associazioni. Come già osservava Fanon nel 1962:

“La borghesia occidentale, benché fondamentalmente razzista, riesce il più delle volte

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costituente, allorquando si analizzano e studiano teorie e orientamenti politici, teologici, storici ed economici, rappresenta, ai miei occhi, una cieca e perniciosa volontà di tacere, dalla quale sento l’esigenza di prendere le distanze. In altre parole, se riteniamo che per un’analisi della gestazione e formazione dell’Occidente a noi culturalmente più vicino sia necessario indagare concetti quali Dio, diritto, stato, capitale, ecc., tale indagine non può prescindere dalla prospettiva razzista dalla e attraverso la quale gli stessi si sono sviluppati. Ebbene, a tutt’oggi la politica e il “mondo della cultura” occidentale devono ancora fornire una risposta adeguata a tutto questo, una risposta che vada al di là di una patetica e poco convinta ammissione di colpe, del resto funzionale al mantenimento inalterato dello status quo.

Credo nella possibilità di creare delle nuove relazioni interumane che oltrepassino, superandole, le ipostatizzazioni monocordi dalle quali ci sentiamo legati. Si tratta di un percorso difficile che implica, in qualche modo, un disapprendere i tratti essenziali della cultura umanistica all’interno della quale ci siamo formati. Si tratta di una delocalizzazione epistemica, di una capacità prospettica, dell’essere pronti, usando un’espressione nietzschana, a “essere di buon umore e sereni in mezzo a nient’altro che a dure verità”. Perché qui il problema passa attraverso due stadi complementari che ci dovrebbero portare

a spogliarci, ad abbandonare i nostri vecchi abiti che puzzano d’ipocrisia e di falsa comprensione. Da un lato, una sistematica e attenta analisi di tutti quei caratteri essenziali della nostra epistemologia, delle nostre pratiche politiche, della nostra idea di “umanità”, che ci hanno condotto a evidenziare e a praticare un razzismo del quale siamo ancora complici. Dall’altro lato, forse più decisivo, dobbiamo esser pronti ad ascoltare l’alterità per come essa si manifesta, e non in base alle nostre categorie di pensiero. E, ben oltre le politiche istituzionali – che continuano ad andare nel senso opposto – credo fermamente che un cammino percorribile sia quello auspicato da Fanon; con una sua citazione, in tal senso, desidero chiudere il mio intervento:

“Ma è chiaro che noi non spingiamo l’ingenuità fino a credere che ciò (la decolonizzazione) avverrà con la cooperazione e la buona volontà dei governi europei. Questo lavoro colossale che è quello di reintrodurre l’uomo nel mondo, l’uomo totale, si farà con l’aiuto decisivo delle masse europee, che, devono riconoscerlo, si sono spesso allineate per quanto riguarda i problemi coloniali sulle posizioni dei nostri comuni padroni. Per questo, bisognerebbe anzitutto che le masse europee decidessero di svegliarsi, si scuotessero il cervello e smettessero di giocare al gioco irresponsabile della bella addormentata nel bosco”.

Hugo Chávez Frías (1954-2013)

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L’Argentina di oggi

Situazione politica ed economica dell’Argentina

>> Jorge Luis Elizondo

A partire dall’anno 2003, si avvia in Argentina un progetto nazionale e popolare, in grado di disarticolare il dogma neo-liberale e di porre le basi dello sviluppo economico e sociale del Paese.

Le forze politiche e economiche che confluiscono nell’opposizione formano un blocco unito che tende a ricostruire il progetto neo-liberale in dipendenza dal capitale finanziario internazionale.

“L’Argentina deve tornare ai mercati”, “Deve reinserirsi nel mondo”, dicono i portavoce dei gruppi economici locali e transnazionali. In altre parole: deve tornare a indebitarsi, rassegnarsi a essere un paese

agro-esportatore e ad abbandonare il progetto di sviluppo autonomo. Si prospetta la necessità di una forte svalutazione che implicherebbe una redistribuzione regressiva del salario a partire dai lavoratori fino ai settori che controllano il capitale. L’obiettivo è la diminuzione dei salari, considerati troppo alti in rapporto ad altri paesi dell’America Latina, come Brasile e Messico. Così lo ha affermato ripetutamente l’ A D del gruppo siderurgico Techint, Paolo Rocca.

A partire dal 2003, in virtù degli aumenti annuali fissati attraverso accordi tra sindacati e datori di lavoro, i lavoratori argentini hanno potuto recuperare le perdite sofferte come conseguenza dell’uscita dalla convertibilità e della forte svalutazione del 2002.

Gli aumenti salariali annuali e la spesa pubblica sono stati indicati dai portavoce delle classi dominanti come le cause dell’inflazione. Ma sono le imprese fortemente concentrate quelle che fissano i prezzi e non i lavoratori.

Nonostante l’influenza negativa della crisi del capitalismo iniziata nel 2007 negli Stati Uniti, la politica economica adottata dai governi di Nestor Kirchner e Cristina Fernandez de Kirchner ha conseguito una crescita economica media del 5,7% tra il 2003 e il 2014.

L’Argentina è uno dei principali paesi vittime del debito estero, accresciuto durante la dittatura civile e militare dal 1976 al 1983, negli anni ‘90 durante il governo di Carlos Menem, fino al crollo del Dicembre del 2001.

Il debito aumenta dai 7.800 milioni del 1976 ai 45.100 milioni del 1983; da allora al 1989 aumenta fino alla cifra di 65.300 milioni; dal 1989 fino al 1999 sale alla somma di 121.877 milioni; a partire da quella data fino alla crisi del 2001 aumenta di nuovo fino a raggiungere i 144.453 milioni e con la post-convertibilità arriva ai 178.820 milioni. Quando Nestor Kirchner arriva al Governo il debito ammontava a 191.300 milioni di dollari. In

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>> Jorge Luis Elizondo

Prof. di diritto del lavoro e sicurezza socialeUniversità Nazionale di Rosario (Argentina)

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28 anni, il debito estero era cresciuto del 2450%.

Kirchner dà inizio ad una politica di uscita dal debito attraverso una negoziazione diretta con i creditori – senza intervento del FMI -, ottenendo una ristrutturazione consistente in una diminuzione del 65% del capitale e in una estensione dei termini di pagamento. Allo stesso tempo cancella il debito con il FMI per l’ammontare di 9.510 milioni di dollari nel 2006, allo scopo di evitare le revisioni dei conti e l’ulteriore condizionamento che il FMI impone ai paesi indebitati, situazione in cui l’Argentina si è trovata vittima in innumerevoli casi. Nel 2008 Cristina Fernandez de Kirchner apre nuovamente lo scambio (swap) dei bond in default e la rinegoziazione raggiunge il 92,4% dei creditori.

Un settore minoritario dominato dagli “holds out” o “fondi avvoltoi”, che non ottennero la rinegoziazione del debito, intrapresero azioni legali contro l’Argentina nello Stato di New York. Il Giudice Thomas Griesa accoglie la pretesa dei “fondi avvoltoi” e condanna il nostro paese a pagare il 100% del valore dei bond aumentati dei loro interessi; arriva alla decisione estrema di bloccare il pagamento del debito al 92,4% dei creditori, trasformando gli stessi in ostaggi dei “fondi avvoltoi”. L’Argentina si è opposta tenacemente a questa sentenza e ha ottenuto presso l’ONU la disposizione di regole internazionali alle quali devono attenersi i creditori e gli Stati nei processi di negoziazione e di pagamento dei propri debiti.

La politica di uscita dal debito dei Governi Kirchneristi fu uno strumento fondamentale per lo sviluppo economico e sociale senza la quale non sarebbe stato possibile intraprendere il progetto di reindustrializzazione con tassi di crescita molto alti che si traduce in un aumento del 90% (quasi il doppio) del PIL tra il 2003 e il 2015. Il debito estero in moneta straniera equivale a un 8,4% del PIL, cessando di essere un elemento condizionante l’economia argentina.

Si è sviluppata una politica di redistribuzione della ricchezza. La povertà è stata ridotta di un 70% e la povertà estrema dell’ 80% nell’arco di tempo compreso tra il 2003 e il 2013. Il divario tra il 10% più ricco e il 10% più povero della popolazione si è ridotto della metà tra il 2003 e il 2014.

Il sistema di protezione di protezione e inclusione sociale in Argentina raggiunge più di 16 milioni di persone, con programmi che coprono la gravidanza, l’infanzia e la promozione dell’educazione. Il sistema pensionistico è arrivato a coprire la quasi totalità delle persone con diritto alla pensione.

In Argentina è in atto un processo di profonde trasformazioni economiche, sociali, politiche e culturali che si sviluppa nel quadro di una democrazia rappresentativa, con le proprie istituzioni in pieno funzionamento e all’interno di una società che ha sofferto il più grave processo di distruzione economica e di degrado sociale di tutti i tempi, dopo aver sopportato il genocidio scatenato dalla dittatura civile e militare degli anni 1976-1983.

Non è casuale che la fase iniziata da Nestor Kirchner nel 2003 si sia realizzata sotto le bandiere del Peronismo, anche quando in un primo momento si prospettò la necessità della “trasversalità” come tratto fondamentale del nuovo blocco storico politico-sociale caratterizzato come progetto nazionale, popolare e democratico.

Perché il Peronismo?

1. Perché la classe lavoratrice e i settori popolari non hanno superato dialetticamente, attraverso la propria esperienza, i limiti ideologici di tale movimento.

2. Perché non è il capitalismo come formazione economica-sociale quello che si trova messo in discussione dai lavoratori e dai settori popolari, ma il capitalismo finanziario internazionale e i

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spiegato e illustrato con cura agli argentini da parte della stessa Presidente, del suo Capo di Gabinetto, del Ministro dell’Economia o del Ministro degli Esteri, sfidando la politica di disinformazione e di manipolazione delle informazioni messa in campo dai mezzi di comunicazione scritta e audiovisiva dominanti.

9. Tra le misure positive si possono segnalare: a) la nazionalizzazione del sistema pensionistico nel 2006; b) la nazionalizzazione della compagnia aerea argentina, di YPF e della rete ferroviaria; c) la riforma dello Statuto del Banco Central, per porlo al servizio dello sviluppo economico; d) il piano di abitazioni denominato Procrear.

10. Questo processo di trasformazioni si oppone all’imperialismo nordamericano ed europeo, quando questi pretendono di imporre il loro dominio a partire dalla loro particolare idea di democrazia.

Anche Angela Merkel ha affermato che “la democrazia ha la forma del mercato”. A queste condizioni sono le persone socialmente vulnerabili quelle che soffrono e perdono i diritti sociali e culturali. Il potere politico è delegato ai poteri economici e finanziari. Le decisioni non sono prese dai rappresentanti eletti dai cittadini, ma dal potere economico. I politici non fanno altro che accettarle. Questo è ciò che la Destra e i Social - liberali dell’Argentina chiamano un “paese normale”.

Il Governo di Cristina Fernandez ha dichiarato in forum internazionali che la democrazia non ha motivo di assoggettarsi ai “mercati” (vale a dire al potere economico e finanziario mondiale), e che mai accetterà il fatto che il Governo sia una rappresentanza dei poteri economici. Mentre l’UE, diretta dalla troika BCE – Commissione Europea – FMI, ordina la riduzione dei diritti conquistati dai lavoratori e dalle loro organizzazioni politiche e sindacali dopo la vittoria sul nazifascismo,

suoi alleati locali, che portarono a termine la distruzione della base economica e delle forme politiche, giuridiche e culturali della nostra società.

3. Perché le principali organizzazioni rivoluzionarie sono scomparse o si sono trasformate in gruppi sotto l’influenza della socialdemocrazia internazionale; e i gruppi di estrema sinistra e i partiti di matrice trotzkista hanno dimostrato la loro sterilità politica e sociale, non superata neppure quando sono cresciuti sul piano elettorale.

4. Perché il Kirchnerismo ha ricuperato lo Stato come strumento di trasformazione a favore dei settori popolari, quando fino ad allora era soltanto uno strumento utilizzato dalle classi dominanti.

5. Perché si è recuperato il valore della politica come azione trasformatrice della società dopo un prolungato periodo di decadenza e disistima della stessa, come esito del degrado sociale, morale e culturale generato dal neoliberismo.

6. Perché il Kirchnerismo, riscattando il meglio del Peronismo, ne rappresenta il superamento dialettico; questa nuova fase non finirà con le elezioni dell’ottobre del 2015 qualunque sia il risultato delle stesse.

7. C’è una crescente partecipazione dei giovani nell’impegno politico e sociale in modo differente rispetto alle decadi del ‘60 e del ‘70, ma con una condivisione profonda di esperienze, emozioni, sensibilità e obiettivi.

8. La Presidente della Nazione, Cristina Fernandez de Kirchner, ha ottenuto il riavvicinamento alla politica di una gran parte della popolazione, grazie ai numerosi interventi nei quali i più complessi problemi economici, politici e diplomatici vengono spiegati in un linguaggio semplice, comprensibile per le masse, e questo costituisce un efficace lavoro pedagogico a vantaggio dei settori popolari. Ogni passo avanti, come la nazionalizzazione di YPF, la statalizzazione delle ferrovie, la resistenza contro i “fondi avvoltoi”, è

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Argentina, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Brasile e Uruguay si impegnano nel riconquistare e nell’estendere i diritti, promuovono politiche di inclusione sociale, di re- industrializzazione, di sovranità nazionale, di integrazione regionale e di costituzione di nuovi blocchi sovrani.

Queste politiche devono fare i conti con le provocazioni e l’aggressione del potere economico internazionale e locale, con l’appoggio dei mass-media egemonici e della Destra, che organizzano campagne di destabilizzazione.

Una delle più pericolose di queste campagne fu quella che ebbe come protagonista il Pubblico Ministero Alberto Nisman, il quale nel Gennaio del 2015 denunciò la Presidente, il cancelliere Timmerman e alcuni militanti di organizzazioni politiche per aver suppostamente coperto gli iraniani che sarebbero i presunti autori dell’attentato terrorista contro la sede dell’Assicurazione ebraica AMIA, verificatosi a Buenos Aires nel 1994.

La denuncia di Nisman si riferisce a fatti che non possono configurare un reato in nessun paese: l’approvazione di un trattato internazionale proposto dal Potere Esecutivo con lo scopo di indagare sui presunti autori dell’attentato del proprio paese, ossia la legge votata in entrambe le Camere del Congresso della Nazione (“Memorandum dell’Intesa con l’Iran”), concepita per uscire dall’impasse in cui si era arenata la causa per vent’anni.

Come è stato provato attraverso messaggi decodificati da Wikileaks, il Pubblico Ministero Nisman rispondeva alle direttive dell’Ambasciata degli USA in Argentina, della CIA e del Mossad. Egli presenta la sua “denuncia” quasi un mese dopo lo smantellamento della cupola del Servizio di Intelligence, fatto che provoca che i settori rimossi cerchino di erodere la figura presidenziale. Il Pubblico Ministero interrompe un viaggio familiare in Europa per presentare la denuncia e annuncia che sarà anche sottoposta all’esame del Congresso della Nazione, pretendendo avviare

un processo di destituzione simile a quello che ha posto fine al mandato del Presidente Lugo in Paraguay, il quale fu destituito illegalmente da un Parlamento dominato dall’opposizione oligarchica e conservatrice.

Si verificano però fatti che fanno fallire questo obiettivo: i legislatori kirchneristi annunciano che daranno battaglia nel Congresso, il direttore dell’Interpol informa da Bruxelles che non era vero che l’Argentina avesse sollecitato il ritiro dello stato di allerta e che al contrario aveva richiesto il mantenimento delle stesse misure sui presunti responsabili iraniani dell’attentato.

Due sentenze del Tribunale respingono l’esistenza del reato in riferimento al “Memorandum dell’Intesa con l’Iran”; il Pubblico Ministero De Luca sostiene che non si può procedere con alcuna accusa contro la Presidente e il suo Ministro degli Esteri perché il reato non sussiste.

Poi si verifica la morte del Pubblico Ministero Nisman sulla quale ancora si sta investigando. Non sapiamo se si sia trattato di suicidio o di assassinio per mano degli stessi organizzatori del piano criminale golpista di cui Nisman accettò di essere protagonista.

Con l’obiettivo di pregiudicare la possibilità di essere eletto per il candidato kirchnerista alle elezioni presidenziali, impedendo in questo modo la continuità nelle politiche sociali e nel processo di rafforzamento della sovranità nazionale, i mezzi di comunicazione egemonici, il settore più conservatore dell’amministrazione giudiziaria e l’opposizione di destra accusano il Governo di essere l’autore del crimine e organizzano la marcia del 18 Febbraio.

Importa poco a loro la verità di quanto accaduto; senza che esista una sola prova che sostenga la loro accusa, loro hanno già “investigato”, “giudicato” e “condannato” prima che sia stata formulata una sentenza del Tribunale.

Hanno trasformato il “caso Nisman” in un teatro

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del Sur sono nuove istituzioni che potenziano l’integrazione economica e politica degli Stati a sud del Rio Bravo in condizioni totalmente differenti da quelle che condizionarono la costituzione della Organizzazione degli Stati Americani e del Mercosur.

Si è istituito un parlamento latinoamericano, il PARLASUR che comincerà a funzionare nel 2017.

Questo processo di integrazione non ha fatto progressi quanto desideravano i suoi principali promotori (Lula da Silva, Hugo Chavez, Nestor Kirchner), ma, nonostante ciò, possiamo rilevare importanti differenze rispetto alla costruzione europea:

1. Sono gli Stati e non le grandi imprese multinazionali che promuovono questa unione.

2. Anche se Argentina e Brasile mantengono spicati vantaggi economici rispetto agli altri paesi, non esiste una loro chiara egemonia come è avvenuto nel processo di costruzione dell’Unione Europea con l’asse franco-tedesco.

3. L’anticomunismo, il Piano Marshall, le basi nordamericane, la decisione di ridurre oltre il 50% del debito estero tedesco in funzione del contrasto ai paesi del blocco socialista guidato dall’URSS, furono le premesse politiche, ideologiche e economiche della costruzione dell’Unione Europea.

Nella nostra America, al contrario, la costruzione si fonda sull’opposizione all’imperialismo nordamericano, sulla messa in discussione del neoliberalismo,sull’intervento statale e sulla ricerca di nuove alleanze internazionali con Russia, Cina e altri paesi emergenti, nella prospettiva di un nuovo ordine internazionale multipolare.

Nel Novembre del 2011 si costituisce la CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici) con l’esclusione di Stati Uniti e Canada. I paesi che la compongo rappresentano insieme un

di operazioni mediatiche, al solo scopo di arrecare il maggior danno possibile al Governo Nazionale. Per questo hanno diffuso conclusioni assurde e criminalizzanti e false dichiarazioni con lo scopo di inquinare il processo in modo che qualunque sentenza sia emessa risulti fonte di sospetto o incredulità. Pretendono che il potere giudiziario svolga il ruolo di destabilizzatore del sistema democratico, creando le condizioni per un golpe istituzionale o “golpe morbido”.

La Rete di Intellettuali dell’Umanità, formata da migliaia di intellettuali, artisti, uomini di scienza, attivisti delle lotte sociali di tutto il mondo, ha denunciato questa campagna- degna di Joseph Goebbels - e ha invitato a rimanere vigili di fronte al piano di destabilizzazione dell’Argentina.

Traduzione di Daniela Negri

L’integrazione latinoamericana

>> Jorge Luis Elizondo

La complessa costruzione dell’unità e dell’integrazione latinoamericana

I blocchi sovrani creati in America Latina si trovano di fronte, ora e per i prossimi anni, ad una grande sfida: la costruzione dell’unità economica e politica tra gli Stati dell’area latinoamericana.

Il Mercosur, blocco economico costituito da Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay, al quale si è unito da pochi anni il Venezuela, nasce in un contesto contrassegnato dalla globalizzazione e dal “Consenso di Washington”, dalla fase di successo delle economie capitaliste di mercato e dal presunto fallimento delle economie programmate dagli Stati.

La sigla UNASUR, la CELAC e il Banco

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loro politica di aggressione contro il Governo del Venezuela e il Presidente Obama giunge ad emettere un ordine esecutivo nel quale qualifica questo Governo come una minaccia per la sicurezza degli USA; tale giudizio risulta ridicolo se prendiamo in considerazione il fatto che le spese militari del Venezuela ammontano a 3.000 milioni di dollari all’anno, mentre quelle degli USA arrivano ai 600.000 milioni di dollari. Il rifiuto dell’ ”ordine esecutivo” nel recente vertice di Panama (33 voti contrari) dimostra la solidarietà con il Venezuela.

Se una parte dell’America Latina si è parzialmente liberata delle conseguenze della crisi mondiale, questo è accaduto a partire dalla rottura con il “Consenso di Washington” e per l’inizio di un percorso differente, sovrano, di integrazione regionale e per l’indipendenza dalla tutela degli organismi di credito internazionale come il FMI e la Banca Mondiale.

Obiettivi dei Governi rivoluzionari e progressisti dell’area latinoamericana. Ostacoli alla loro realizzazione.

Il nuovo percorso iniziato dai nostri popoli sta incontrando seri ostacoli. A differenza di quello che è accaduto con la Rivoluzione Cubana, gli attuali processi rivoluzionari e progressisti non hanno espropriato né banche né imprese transnazionali; non hanno neppure nazionalizzato il sistema finanziario e il commercio con l’estero. Milioni di dollari fuggono dai nostri paesi verso i paradisi fiscali, milioni che potrebbero migliorare la sorte dei nostri popoli, dei poveri, dei contadini senza terra, dei disoccupati e dei lavoratori precari.

La realizzazione più in profondità di tali processi di liberazione richiede che l’Argentina e gli altri paesi dell’America Latina muovano passi decisi verso il controllo delle risorse naturali: la terra, l’acqua, il petrolio, il gas, le fonti energetiche. Ciò presuppone la nazionalizzazione di queste risorse, perché, in caso contrario, gli strumenti regionali

PIL di 6,3 bilioni di dollari, la principale riserva petrolifera del mondo (338.000 milioni di barili), il terzo produttore di energia elettrica e la principale economia in grado di produrre generi alimentari.

Due fattori furono determinanti nella decisione di costituire la CELAC:

1. Il ruolo fondamentale dei Governi rivoluzionari e progressisti come asse principale dell’unità latinoamericana. Si deve segnalare la storica sconfitta di Bush del 2005, quando nel vertice di Mar del Plata (Argentina), si esprime il rifiuto dell’ALCA ad opera dell’azione congiunta dei Presidenti Nestor Kirchner, Hugo Chavez e Lula da Silva. Una simile rottura del “Consenso di Washington” non costituisce di per se stessa una garanzia di fronte ai tentativi dell’imperialismo di ricuperare il terreno perduto. La sua potenzialità aggressiva nel mondo (Iraq, Afghanistan, Libia, oggi la Siria) sta aumentando e nulla induce a pensare che rinuncerà a farlo in quello che considera il suo <cortile di casa>.

2. Due fatti hanno dimostrato la invariabilità della condotta degli USA di fronte ai paesi dell’area latinoamericana, durante la presidenza Obama: il colpo di stato in Honduras, che ha destituito il governo costituzionale di Manuel Zelaya, con l’appoggio degli Stati Uniti alla destra golpista; il successivo blocco statunitense all’interno dell’ OEA per impedire che questo organismo prendesse una qualsiasi decisione di fronte all’avvenuto colpo di stato. L’OEA fu anche utilizzata dagli Stati Uniti per cambiare i risultati delle elezioni in Haiti. Una “missione di verifica con esperti” promossa dall’organismo commise una frode scandalosa, modificando i risultati senza neppure fare un ricalcolo dei voti e senza prove statistiche. Nel 2004, Stati Uniti e OEA avevano orchestrato un colpo di stato per destituire il Governo democraticamente eletto ad Haiti nel 2000.

Inoltre gli Stati Uniti continuano ad aggravare la

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il fallimento del sistema. Certamente nulla è stato fatto per le vittime della crisi: milioni di statunitensi ed europei furono gettati in strada perché non potevano pagare le loro ipoteche; migliaia di lavoratori furono e vengono licenziati.

Ma il pagamento del debito estero può essere assicurato soltanto in rapporto alla crescita economica.

Come ha detto il Presidente Nestor Kirchner: “I morti non pagano nessun debito”.

I paesi non crescono né cresceranno se si applicano terapie da shock che contribuiscono ad aumentare la disoccupazione a ridurre la capacità di consumo della popolazione.

Le misure imposte dalla troika BCE – Commissione Europea – FMI consistono nell’imporre ai popoli una ricetta ben nota agli argentini, dal momento che fu applicata negli anni ‘90 e determinò l’esplosione delle rivolte del 19 e 20 dicembre 2001: tale ricetta prevede la privatizzazione dei servizi pubblici, l’innalzamento dell’età per accedere alla pensione, la riduzione dei diritti collettivi e individuali dei lavoratori, la libertà di licenziamento, i tagli ai salari, alle pensioni, anche a quelle di reversibilità. Tutto questo presuppone l’eliminazione dello stato di welfare che tanto ha inorgoglito gli europei.

La destra argentina e latinoamericana sostiene gli stessi obiettivi della troika che domina l’Europa.

Il Governo di Syriza in Grecia ha rappresentato il primo ostacolo ai suoi piani, però la pressione perché si realizzino i tagli sociali e le privatizzazioni imposte come condizione imprescindibile per ricevere l’aiuto finanziario necessario per pagare la prossima tranche del debito, porterà forse il governo popolare a cedere di fronte alla pressione dei padroni dell’UE.

Se l’Argentina e gli altri paesi latinoamericani non sono stati portati a questa situazione limite è perché sotto la guida di governi rivoluzionari e

creati risulteranno impotenti a fronteggiare l’offensiva del capitale finanziario alla ricerca di nuove possibilità di espansione.

Lo Stato Argentino ha recuperato il controllo di YPF (Yacimientos Petrolìferos Fiscales), che si trovava nelle mani dell’impresa spagnola Repsol; recentemente ha riportato sotto il controllo dello Stato le ferrovie, iniziando un processo di recupero e modernizzazione delle stesse.

Il Governo argentino ha messo in discussione le gerarchie del sistema mondiale: FMI, Banca Mondiale, ecc., e ha applicato politiche che non si sottomettono alla logica del capitalismo globalizzato. Invece di adattarsi alle tendenze imposte da quest’ultimo, ha subordinato i vincoli con l’estero alle priorità del mercato interno. Gli obiettivi di questa politica sono in diretta relazione con il compimento dei patti internazionali: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici, l’Accordo Internazionale dei Diritti Economici, Sociali e Culturali, che la Costituzione Nazionale riconosce espressamente.

Nella situazione internazionale in cui ci troviamo a vivere attualmente, dominata da potenze imperiali che fomentano la guerra, con le conseguenze già note, è necessario riaffermare con forza il principio dell’autodeterminazione di tutti i popoli del mondo.

Stati Uniti e Unione Europea hanno investito enormi somme di denaro a partire dall’autunno del 2008 per salvare il settore bancario e finanziario. I “mercati finanziari” (ossia i ricchi che dominano il sistema bancario) hanno imposto e continuano ad esigere che gli Stati (in realtà i loro popoli) salvino le banche. Oggi esigono che i debiti contratti dagli Stati con questi creditori – tra i quali si trovano i “fondi avvoltoi”- siano pagati con la fame e il sudore dei loro popoli.

Il capitalismo ha ottenuto la salvezza degli Istituti bancari più importanti, cercando di evitare

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posti di lavoro instabili, con maggiore flessibilità in entrata e in uscita dei lavoratori, trasformati in pezzi scartabili da parte dell’impresa con l’attenuante di un sistema di sicurezza sociale già minacciato dalle misure imposte in accordo alle istruzioni della troika.

È la libertà dell’uomo quella che è in gioco quando in nome della “libertà dei mercati” si eliminano questi diritti sociali.

L’imperialismo, nella sua decadenza, rivela con maggior crudezza la sua aggressività e il suo carattere selvaggio, già dimostrato in Afghanistan, Iraq, Yemen, Libia e oggi in Siria, paese aggredito da una curiosa coalizione tra gruppi estremisti islamici, imperialismo nordamericano e europeo, Governo turco, Emirati reazionari e Stato di Israele. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: una prevedibile catastrofe umanitaria , con più di 1.700 morti nel Mediterraneo durante gli ultimi 4 mesi, 3.600 negli ultimi 3 anni; l’arrivo di migliaia di rifugiati in Europa, che soffrono maltrattamenti, discriminazione e repressione.

Con la permanente tendenza alla guerra di aggressione e, in alcuni casi, all’occupazione di territori e alla distruzioni di Stati sovrani, con o senza il consenso dell’ONU, in costante violazione del Diritto Internazionale, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e i loro alleati sono ritornati alla vecchia politica coloniale del secolo XIX, con la quale aprirono a cannonate le porte della Cina e dell’India e pretesero annettere anche il nostro paese.

Oggi minacciano altri paesi con il medesimo pretesto: combattere il terrorismo islamico e imporre la “democrazia” e ,nello stesso tempo, un cordone di basi militari nucleari disseminate in Australia, Indonesia, Singapore e in altri paesi circonda e minaccia la Cina.

Non è questo il momento perché i popoli si dividano, ma piuttosto l’occasione per rafforzare l’unione in un blocco sociale e politico dei

progressisti si sono affermate alternative a queste ricette. La destra locale pretende che ritorniamo all’indebitamento, alle privatizzazioni, alla disoccupazione ben oltre il 10%, alla riduzione dei salari e alla perdita dei diritti conquistati dai lavoratori.

Noi sosteniamo che ogni popolo debba recuperare il proprio diritto alla libertà e all’autodeterminazione. Quello che desideriamo per l’America Latina, lo sosteniamo per i popoli dell’Europa e di tutto il mondo. Non possono esistere prigioni di popoli dirette dal capitale finanziario, che sacrifica l’economia reale sull’altare del pareggio del bilancio, del potere delle banche e della riscossione dei debiti.

In realtà il destino di tutti i popoli è legato a quello delle sue classi lavoratrici. Non è la stessa cosa se in una società i lavoratori hanno stabilità nel loro lavoro o se la maggioranza svolge lavori precari di diverso tipo, con contratti di collaborazione o “contratti spazzatura” o a “zero ore”, in forme di lavoro non registrato o “in nero” o di praticandato, ecc.

Non è la stessa cosa avere un tasso di disoccupazione del 7% come l’Argentina o di un 25% come si verifica oggi in Spagna.

Non è la stessa cosa lavorare 14 ore giornaliere o farlo per 6 ore al giorno o per 35 ore settimanali.

La riduzione del tempo di lavoro non è solo una garanzia per la salute fisica e psichica dei lavoratori ma comporta anche la possibilità di creare nuovi posti di lavoro.

Garantire la stabilità o la proprietà del posto di lavoro sulla base della Convenzione 158 dell’OIL non è la stessa cosa che introdurre un sistema basato sull’instabilità del posto li lavoro e con completa facilità di licenziamento.

È per questo che non crediamo nella “flexisecurity” che alcuni settori politici dell’UE social -liberali sostengono in Europa come una presunta soluzione alla disoccupazione, creando

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lavoratori, dei contadini poveri e dei settori sociali non compromessi con gli interessi del capitale finanziario internazionale, per aprire il camino all’autodeterminazione dei popoli e per costruire le basi di una vera società democratica: questa sarà possibile una volta che siano superate le barriere di razza, di credo e nazionalità che separano i popoli e a condizione che la libertà e l’uguaglianza siano il cemento di un nuovo mondo possibile, senza fame, senza sfruttamento né oppressione.

Traduzione di Daniela Negri

Eduardo Galeano (1940-2015)

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Todo cambiaUn cambio di paradigma dall’impero dell’impunità alla centralità dei diritti umani nell’America latina contemporanea

>> Gennaro Carotenuto

Ho intitolato il mio ultimo saggio sulla giustizia di transizione per le violazioni di diritti umani in particolare nel Cono sud dell’America latina: “Todo cambia1”. La scelta non è stata banale né facile. Anzi, è stata frutto di intense conversazioni con gli editor e con vari colleghi, in particolare con il Prof. Fulvio Cammarano, direttore della collana di Le Monnier-Mondadori che ha pubblicato il libro. Voleva essere un titolo che rappresentasse un cambiamento positivo avvenuto nel Continente in questo inizio di XXI secolo.

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IVoleva essere un titolo ottimista su di un tema, quello delle violazioni di diritti umani, e per una regione, l’America latina, verso la quale un certo pensiero che possiamo definire “mainstream progressista” tende a vedere tutto nero e non riesce a cogliere i segnali che tanto la storiografia scandita con periodizzazioni tradizionali che la cosiddetta “Storia del tempo presente” si sforzano di dare senza per questo essere colti, perpetuando rappresentazioni stereotipate di terre disgraziate e ingiuste che, evidentemente, confliggono con le evidenze che la storiografia stessa si incarica di studiare. Ho intitolato dunque il mio libro con il titolo di una vecchia canzone che viene dal Cile, musicata dal fondatore dei Quilapayún, Julio Numhauser2, quando già era in esilio in Svezia, ma che in moltissimi conoscono perché Mercedes Sosa ne fece un successo mondiale. La scelta di “Todo cambia” è dovuta al fatto che da molti anni vedo un deficit rispetto a come viene studiata, narrata, raccontata l’America latina in particolare nel continente europeo e in Italia, e per evidenziare come anche rispetto a consolidati stereotipi negativi, il Continente dell’impunità, le cose possano modificarsi a patto che l’opinione pubblica sia messa in condizione di saper leggere la realtà.

L’impunità in realtà è solo una delle molteplici conseguenze delle dittature, come lo è l’imposizione del modello economico neoliberale, o la rottura di un tessuto sociale combattivo che aveva caratterizzato a lungo le società latinoamericane, o la depoliticizzazione –per amore o per forza- di parti importanti della popolazione, un fenomeno particolarmente visibile in Cile. Focalizzandomi sul tema dell’impunità nei casi di Cile, Argentina e Uruguay, è sembrato indispensabile studiare una delle molteplici conseguenze delle dittature, il rivolo dei percorsi della lotta all’impunità, che

1 G. Carotenuto, Todo cambia. Figli di desaparecidos e fine dell’impunità in Argentina, Cile e Uruguay, Le Monnier-Mondadori, Milano, 2015.2 J. Numhauser, Todo cambia, 1982; M. Sosa, ¿Será posible el sur?, 1984.

>> Gennaro Carotenuto

Prof. e ricercatore in Storia Contemporanea Università di Macerata (Italia)

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violazioni dei diritti umani in paesi terzi o che avevano aggredito altri popoli o nazioni, che avevano condotto delle guerre di aggressione o con classi dirigenti che avevano portato avanti delle guerre civili con caratteristiche genocidiare, fino a creare il contesto perché si creassero forme di giustizia endogena4.

Ebbene, nel mondo post guerra fredda, in un contesto di predominio degli Stati Uniti e profondamente dominato dall’idea occidentalista per la quale questi ultimi dovevano farsi carico di imporre democrazia e giustizia al pianeta, si è portata avanti l’idea che il principio di non ingerenza che aveva retto durante la guerra fredda, non fosse più accettabile né sostenibile. Non credo che si debbano avere rimpianti per il principio di non ingerenza, ma non per questo l’ingerenza diviene qualcosa di automaticamente desiderabile. Per esempio, gli Stati Uniti si sono chiamati fuori dalla possibilità che loro violazioni dei diritti umani potessero essere giudicate e anche quelle di grandi potenze come la Cina non erano di fatto giudicabili. Oltre a questi venivano a essere fuori portata una serie di amici degli USA stessi tra i quali i governi autoritari latinoamericani per i quali non sembrava possibile né opportuno riaprire i conti con la storia; “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato”, dice una vecchia canzone napoletana. Al contrario fu messa una straordinaria enfasi sulla necessità di imporre, soprattutto in alcuni paesi del Sud del mondo, processi endogeni di giustizia, che potessero giudicare e punire le violazioni dei diritti umani che anteriormente erano invece ritenute se non accettabili almeno rese possibile dallo stesso sistema internazionale. Improvvisamente, in

a lungo termine si è rivelata essere un’occasione estremamente importante di riflessione per tutte le società latinoamericane rispetto a tale tema chiave. Quello delle violazioni dei diritti umani, e della persistenza di queste con il fenomeno della desaparición di persone è un tema tanto più cruciale nel discorso pubblico della nostra epoca sull’America latina perché non concerne solo le dittature impiantate durante la guerra fredda e prodromiche all’instaurazione del modello neoliberale, ma anche alcuni governi formalmente democratici. Basta pensare al massacro di Tlatelolco, il 2 ottobre 1968 in Messico, quando un governo formalmente eletto, formalmente democratico, quale quello presieduto da Gustavo Díaz Ordaz, e che affondava le sue radici nella rivoluzione del 1910, commise un’enorme strage di studenti. Basta pensare, con un salto di 20 anni, al Caracazo in Venezuela, quando un altro governo formalmente democratico, addirittura presieduto dal vicepresidente dell’Internazionale socialista, Carlos Andrés Pérez, fece assassinare migliaia di persone in ottemperanza alle richieste del Fondo Monetario Internazionale. Non voglio in questa sede fare la storia né delle dittature né della lunga storia di violazione dei diritti umani nella regione, anche perché il mio libro si occupa di quello che succede dopo queste e parte da un contesto che è quello addirittura del post guerra fredda.

È la fase invalsa nel mondo come quella della cosiddetta giustizia endogena e dell’appropriazione da parte della società globale, nell’ambito dei contesti che sono quelli delle transizioni democratiche3 della fine dei governi autoritari e o di governi accusati di aver commesso importanti

3 J. Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, il Mulino, Bologna, 2008.4 CELS, Hacer justicia: nuevos debates sobre el juzgamiento de crímenes de lesa humanidad en la Argentina, Siglo Veintiuno, Buenos Aires, Bruxelles, 2011; S. Cueto Rúa, HIJOS de víctimas del terrorismo de Estado. Justicia, identidad y memoria en el movimiento de derechos humanos en Argentina, 1995-2008, in «Historia Crítica» 40 (2010), pp. 122-145; I. Filibi – J. Belisle, a cura di, Constitucionalismo transnacional: derecho, democracia y economía política en la globalización, EDUCC, Córdoba, 2010; A. Garapon, Chiudere i conti con la storia: colonizzazione, schiavitù, Shoah, Cortina, Milano, 2009; Idem, Crimini che non si possono né punire né perdonare: l’emergere di una giustizia internazionale, il Mulino, Bologna, 2004; B. Garzón, Justicia penal internacional. Fin de la impunidad, Impunidad y derechos humanos en América Latina: perspectivas teóricas, Al Margen, La Plata, 2003; A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione: il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, il Mulino, Bologna, 2005.

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Árbenz nei primi anni Cinquanta in Guatemala. Era un governo prudentemente riformista, che voleva portare avanti delle riforme sociali invero timide e titubanti, ma che non impedirono che fosse rovesciato dal più classico dei colpi di stato nel 1954. Il caso guatemalteco è fondamentale ed è fondativo della storia latinoamericana della guerra fredda e precede anche il golpe del 1955 in Argentina che rovescia Juan Domingo Perón. In totale controtendenza va la Rivoluzione cubana del 1959 ma l’altro caso paradigmatico che qui ci interessa è quello del golpe in Cile del 1973, quando un governo non solo formalmente ma realmente liberal-democratico quale quello di Salvador Allende, fu rovesciato sulla base non solo di interessi economici che quel governo tendeva a contrastare, ma soprattutto sulla base dell’appartenenza del Cile a un campo occidentale che quel governo metteva in discussione.

Quello che a noi interessa qui è come il caso cileno sia perfettamente comprensibile agli occhi di un europeo occidentale. Vi è un sistema di partiti della coalizione che sostiene il presidente Allende, l’Unidad Popular, socialisti, comunisti, laici, perfettamente paragonabili alla sinistra europea e questo muove attenzione e solidarietà nel campo democratico e nelle società occidentali. Il rovesciamento di Salvador Allende non è minimamente paragonabile al silenzio e alla mancanza di solidarietà che anche il campo democratico e progressista usa rispetto a quello che succede in Argentina negli anni immediatamente successivi. In buona parte ciò è dovuto allo stigma con il quale è considerato in Europa il movimento peronista: un’ideologia populista, considerata avere dei punti di aggancio con il fascismo, ma che non smise mai di rappresentare le classi popolari del paese. La storia argentina ci serve dunque da cartina tornasole rispetto a tante altre cose: rispetto alle incomprensioni culturali tra Europa e America latina, rispetto ai movimenti politici e culturali, rispetto alla questione della

modo diverso ma dalle conseguenze simili tra la presidenza di Bill Clinton e quella di George Bush figlio, sembrava non più accettabile per esempio il genocidio ruandese, o i crimini commessi nell’ambito delle guerre jugoslave. Per questi casi, e in particolare per il Ruanda e per la ex Jugoslavia, si arrivò così a istituire dei tribunali penali internazionali che giunsero a comminare delle sanzioni. Pur con moltissimi dubbi, è stato un passo avanti quello che molti violatori di diritti umani smettessero di considerarsi completamente al sicuro. Tanto la presidenza Clinton, con il cosiddetto “interventismo umanitario”, come l’epoca segnata dalla figura dell’ex presidente statunitense George Bush figlio, con una retorica molto forte sul concetto di “esportazione della democrazia”, senza in questa sede scavare in retropensieri, interessi e processi di dominazione, pretendevano di rendere impossibile il farla franca ai violatori di diritti umani. A ciò si aggiungeva la supposizione escatologica che il concetto di democrazia occidentale non potesse non essere estesa a tutto il resto del mondo. Era il punto di partenza della nostra contemporaneità, successiva al postulato di Francis Fukuyama sulla fine della Storia e sull’estensione di valori occidentali a tutto il mondo.

Tutto ciò, nello scacchiere latinoamericano, era in sé contraddittorio. Durante la guerra fredda il prezzo del mantenimento dell’America latina intera, con l’eccezione di Cuba, all’interno dello scacchiere occidentale, era stato quello dell’abiura del principio democratico, l’accettazione di regimi autoritari e dittature militari che potessero mantenere l’America latina pienamente all’interno del campo occidentale stesso, del modello capitalista, del mantenimento di un sistema economico che aveva creato maggioranze immense di diseredati e minoranze di immensamente privilegiati. Nel ricapitolare questa storia vi è un esempio primordiale che è importante citare: è quello del governo di Jacobo

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le cose, già che in pochi, l’eccezione è Baltazar Garzón e un manipolo di giudici in vari paesi europei, pensano che quella storia di violazioni di diritti umani del tutto interna al campo occidentale trionfatore nella guerra fredda, come abbiamo già ricordato prima, possa essere oggetto di giustizia esogena.

L’Argentina è l’unico paese nel quale la fine della dittatura passa per una rottura e non per una transizione politica. È opinabile che senza sconfitta militare nella guerra delle Malvinas/Falklands vi sarebbe stato un vero cambio di egemonia socio-culturale oltre che il ripristino pattato del modello democratico. Al di là di ciò, la caduta della dittatura permette a un personaggio politico che in quel momento ha forza e credibilità e che è il primo presidente dopo la restaurazione del sistema democratico, membro autorevole del partito radicale, Raúl Alfonsín, di poter fare alcuni passi importanti che nelle transizioni pattate di Cile e Uruguay neanche si pongono: si arriva al processo nei confronti della cupola della dittatura. I massimi dirigenti del regime vengono condannati in processi di enorme impatto. Poi però Alfonsin deve rallentare e deve mettere dei paletti al momento di affondare il colpo e colpire i quadri medi e i sottoposti della giunta. È costretto a ritrarsi perché la cultura militarista dell’obbedire agli ordini, dell’obbedienza dovuta è straordinariamente dominante in società nelle quali l’America latina è davvero parte di un Occidente allargato, come direbbe Marcello Carmagnani. È una cultura fortemente sessista e profondamente militarista per la quale se l’ordine va eseguito anche se viola le leggi, se passa sopra l’umanità e la cittadinanza. In quel momento storico, parliamo della metà degli anni Ottanta5, le condizioni socio-politiche non sono mature, la fragilità del regime democratico è evidente e così Raul Alfonsin accetta di sostenere che il processo alla cupola, il

violenza. È significativo che il caso argentino resti incompreso. A lungo ben poco ci interessiamo delle drammatiche denunce sulla sparizione di persone o comunque lo facciamo in maniera ben più labile di come ci siamo interessati al Cile. In buona parte la spiegazione per la quale la violentissima dittatura argentina di Videla trovi inizialmente perfino il giudizio benevolo del Partito Comunista Italiano che, orientato dall’URSS aveva accettato di considerare questa “progressista”, è che comunque quella dittatura avrebbe salvato l’Argentina dal caos della violenza politica diffusa e di un movimento guerrigliero che per lo più si rifaceva alla “Patria socialista” evocata dalla sinistra peronista. Per il caso cileno la giustificazione del caos e della violenza politica era utile solo per la propaganda di destra. Nel campo democratico tale scusa era inservibile, nonostante Allende fosse molto criticato dalla sinistra extra parlamentare europea se non addirittura demonizzato, e rappresentato come una sorta di traditore della classe operaia, una sorta di nemico interno per il suo presunto moderatismo. Al di là di ciò il contesto cileno è più chiaro per tutti e merita solidarietà. Lo Stadio Nazionale di Santiago del Cile con i suoi torturati e morti causa indignazione. I campi di concentramento e poi i desaparecidos in Argentina ne meritano molto meno, già che se ne sa poco e in maniera ben più confusa. Tutto ciò non significa che col tempo non si possa far chiarezza e le entità dei fenomeni non siano messi nella giusta prospettiva. Se le fonti coeve ai golpe riescono a districarsi con difficoltà o attraverso parametri ideologici, altri parametri e altre difficoltà troveremo nell’approcciare il percorso di giustizia di transizione, endogena nel caso latinoamericano, da quale siamo partiti. Proprio il parlare di giustizia endogena rispetto a violazioni dei diritti umani commessi nel campo occidentale durante la guerra fredda complica

5 M. Novaro, The Politics of Human Rights in Argentina, from Alfonsín to Menem, in Desaparición: Argentina’s human rights trials, Peter Lang, Oxford; New York, 2014.

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giustizia. Nel frattempo, con Carlos Menem, c’è stato un passaggio ulteriore anche in Argentina: la piena restaurazione dell’impunità, con la legge di punto finale che indulta anche quelli che erano già stati condannati. È una situazione di impunità totale che è alla base della fondazione del modello di società neoliberale che pretende di marginalizzare le lotte di quella infima minoranza che durante tutti gli anni Novanta continua a combattere la battaglia per la verità e giustizia sulle violazioni dei diritti umani. Mi riferisco ai familiari delle vittime, ad associazioni come quella delle madri di Plaza de Mayo, con il caso esemplare della ricerca dei bambini sequestrati, bambini ai quali i militari pretendevano di dare un miglior destino perché, essendo figli di sovversivi, bisognava dar loro una famiglia perbene per farli crescere perbene, un qualcosa che era già stato fatto solo nella Spagna di Franco. In epoca più vicina a noi, prenderà rilevanza proprio la militanza dei figli di desaparecidos ormai adulti7. Queste associazioni rappresentano un po’ i monaci amanuensi del Medioevo, in quello che è una sorta di medioevo latino americano, l’epoca neo-liberale post dittatoriale in cui tutto è possibile per le classi dirigenti e niente è possibile per le classi popolari. Queste associazioni continuano a esistere e impugnare e salvare una serie di principi che sono completamente esclusi dai valori fondativi della società che esce dalle dittature e che considera di entrare nella modernità con il neo-liberismo realizzato. L’Argentina, il Cile sono società perfette che incarnano perfettamente il modello uscito

processo ai vertici del regime militare, una sorta di piccola Norimberga argentina, sia il massimo che si possa fare. C’è un termine che definisce bene quello che succede, e che nei primi anni Novanta viene usato dal presidente cileno Patrizio Aylwin, il primo presidente post-Pinochet di una coalizione imperniata sull’alleanza tra socialisti e democristiani in Cile ed è: “fare giustizia nella misura del possibile”. Patricio Aylwin lo afferma in parlamento. È una dichiarazione che può causare indignazione, ma che fotografa perfettamente la situazione, contestualizza quelle che sono le relazioni di potere e le egemonie esistenti all’epoca col dittatore che può evocare rumor di sciabole in varie situazioni. A mo’ di comparazione c’è il caso uruguayano. A Montevideo c’è una sorta di staffetta tra regime democratico e dittatura6. Il governo democratico si trasforma lentamente in dittatura e più tardi questa organizzerà le cose per restituire il paese allo stesso partito dal quale lo aveva ricevuto 12 anni prima, il Partito Colorado, con la sua storia gloriosa e le sue ombre. Così in Uruguay c’è prima una transizione alla dittatura e poi una transizione alla democrazia, entrambe gestite dal Partito Colorado che controlla non solo la dittatura militare e le violazioni dei diritti umani, ma gestisce anche quell’assurdità giuridica che è una legge di amnistia che si chiama “legge di caducità della pretesa punitiva dello stato”, che stabilisce che lo stato rinunci a perseguire le violazioni dei diritti umani commesse durante la dittatura, ovvero alla sua principale caratteristica, quella di monopolizzare la violenza ed esercitare

6 AA.VV., La dictadura cívico militar: Uruguay, 1973-1985, Banda Oriental, Montevideo, 2009; C. Demasi – Á. Rico, La caída de la Democracia. Cronología comparada de la historia reciente del Uruguay, 1967-1973, Fundación de Cultura Universitaria, Montevideo, 1996; G. Fried – F. Lessa, a cura di, Luchas contra la impunidad: Uruguay, 1985-2011, Trilce, Montevideo, 2011; A. Lessa, Estado de guerra. De la gestación del golpe del ’73 a la caída de Bordaberry, Fin de Siglo, Montevideo, 2003.7 Madres de Plaza de Mayo. Línea fundadora, Historia de las madres de Plaza de Mayo, Madres de Plaza de Mayo, Buenos Aires, 2003; E. Maier, Las madres de los desaparecidos: ¿un nuevo mito materno en América Latina?, Universidad Autónoma Metropolitana, México, 2001; M. Garcés, El ‘despertar’ de la sociedad: los movimientos sociales en América Latina y Chile, LOM, Santiago de Chile, 2012; J. Gelman, Ni el flaco perdón de Diós: hijos de desaparecidos, Planeta, Buenos Aires, 1997; B. Calandra, La memoria ostinata: H.I.J.O.S., i figli dei desaparecidos argentini, Carocci, Roma, 2004; J.E. Nosiglia, Botín de guerra, Página12, Buenos Aires, 1998; C. Del Frade, Pibes: la historia en carne viva hijos de desaparecidos y desaparecedores, Trabajo, delito y prostitución infantil, Fútbol y educación, Dignidades y esperanza, Universidad nacional de Rosario, Rosario, 2003.

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8 CONADEP, Nunca más: informe de la Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, EUDEBA, Buenos Aires, 1984; Comisión Chilena de Derechos Humanos, Nunca más en Chile: síntesis corregida y actualizada del informe Rettig, LOM, Santiago de Chile, 1999; Servicio Paz y Justicia, Uruguay Nunca Más. Informe sobre la violación a los derechos humanos (1972-1985), Serpaj, Montevideo, 1989; Oficina de Derechos Humanos del Arzobispado de Guatemala, Guatemala: Nunca más: informe del Proyecto Interdiocesano Recuperación de la Memoria Histórica, ODHAG, Guatemala, 1998, 4 vv.

di donne tra i caduti. Questo dato racconta di una società che cambia e di dittature che cercano da un lato di bloccare la democratizzazione, dall’altro di imporre un cambiamento a loro immagine. In Cile il dato sulle donne desaparecidas è solo del 5%, mentre in Uruguay arriva a un 20% simile a quello argentino. Però in Cile, dove la dittatura dura 17 anni, se si vanno a scomporre i dati su quante sono le donne che finiscono in prigione nel corso del tempo, si scopre che la percentuale di donne incarcerate raddoppia ogni 5 anni. Più passa il tempo, più aumenta il numero delle donne militanti. Questo vuol dire che quel cambiamento che la dittatura voleva impedire si riproduce lo stesso nelle lotte con una generazione di militanti che fanno propria la militanza dei padri, la militanza dei loro partiti, delle loro associazioni e vengono repressi ma vanno avanti. Tutto questo contesto di cambiamento negli anni Novanta appare essere marginalizzato nel mondo associativo citato poc’anzi. È un mondo che in Italia qualcuno forse definirebbe cattocomunista ed è un mondo dove la familiarità è un filo che serve a ricucire la memoria del pensiero critico spezzato da una sconfitta esiziale, apparentemente definitiva del movimento popolare in America latina. Perché è così importante questo contesto di movimenti in difesa dei diritti umani anche negli anni più bui? Perché pure negli anni dell’isolamento più totale queste associazioni mantengono accesa questa fiammella di pensiero critico.

La familiarità e la figura del desaparecido diviene così una delle questioni centrali sulla quale la sinistra latinoamericana ricostruisce la propria sorte e la propria legittimità nel discorso politico, in un contesto nel quale ha completamente perduto la mano in un mondo dominato dalla

dalle dittature. Queste non rappresentano solo una sconfitta politica e militare per il campo popolare ma una sconfitta culturale, dove le classi popolari perdono la memoria del fatto che attraverso il pensiero critico e attraverso la militanza politica possano esercitare delle battaglie per ottenere dei diritti. La depoliticizzazione di una società come quella cilena è totalmente paradigmatica del trionfo del neoliberismo. Nessuno può dire che questo non sia stato assolutamente trionfale nel cambiare le coscienze, nel cambiare i cuori, nello smobilitare, in sincronia con quello che era successo.

Eppure le violazioni dei diritti umani sono una ferita enorme che non smette di sanguinare. I dati che emergono dai vari rapporti8, che sono assolutamente pubblici, confermano che le guerre di guerriglia nei paesi che sto citando erano marginali, in Cile insignificanti. In Argentina i desaparecidos guerriglieri potevano essere circa 1500 su 30.000. E chi sono tutti le altre vittime di quella che, se non fu un genocidio di sicuro fu una carneficina epocale? Ben il 5% dei desaparecidos era insegnante, più di 100 sacerdoti e suore che vengono dalla chiesa di Medellin, del congresso eucaristico del 1968, quello dell’opzione preferenziale per i poveri, oggi riportata in auge da Jorge Bergoglio: i poveri per la prima volta vengono evangelicamente prima dei ricchi. Poi vi sono centinaia di avvocati, di giornalisti e tutta una serie di altre professioni che comportano il possedere pensiero critico, medici, operai, sindacalisti. Sono professioni che portano a essere scomodi, sospetti. In un momento di grande fermento sociale in tutto il mondo non è un caso che in Argentina il 30% dei desaparecidos siano donne. In nessun’altra guerra vi era stato un 30%

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estradizione, indipendentemente dal contenuto, trasformando il paese in una sorta di Cayenna. Tutto cambia con il default economico del dicembre 2001 e con l’avvento alla presidenza di Néstor Kirchner. C’è un aspetto sul quale vorrei soffermarmi in chiusura: è un momento molto caotico quello che va dal dicembre del 2001 alla metà del 2003 per la storia argentina ed è un momento di straordinaria debolezza del sistema politico. Lo slogan principale delle piazze mobilitate è: “che vadano tutti via”. Questo fa sì che quando si arriva alle elezioni politiche presidenziali vi è una scalabilità della Casa Rosada da parte di opzioni politiche molto diverse tra loro. Potrebbe prevalere Carlos Menem, l’uomo dell’impunità, ma prevale l’ex ragazzo della gioventù peronista Néstor Kirchner. Ha una storia personale dignitosa, si presenta come una figura progressista e acciuffa il ballottaggio per pochi voti. Menem, che sa di non poter vincere al ballottaggio contro nessun rivale si ritira: è forse la giocata più sporca che ha fatto Carlos Menem nella sua vita. Voleva innanzitutto che la presidenza che doveva uscire dalle elezioni fosse debole e non avesse legittimità politica. Quindi Kirchner diventa presidente senza una vera legittimazione popolare, che va costruita in paese spaventato e allo sbando, reduce da un anno e mezzo di grande instabilità politica, senza contare il periodo pre-default. Kirchner costruisce la propria legittimità lavorando su tre fattori che contribuiscono a questa costruzione: il ristabilimento del ruolo dello Stato nella società, il contesto latinoamericano, l’integrazione e il dialogo con altri governi progressisti, in particolare col brasiliano Lula e il venezuelano Hugo Chávez, e il ribaltamento totale della politica dei diritti umani dei precedenti governi.

“Siamo i figli delle Madri e delle Nonne di Plaza de Mayo, e per questo motivo insistiamo nell’appoggiare costantemente il rafforzamento del sistema di protezione dei diritti umani, e il processo e la condanna di quelli che li violino”

destrutturazione totale del lavoro salariato. Questo non succede solamente nel Sud della regione. Succede in un paese come il Messico dove rispetto alla violenza diffusa, alla repressione politica e agli abusi delle classi dirigenti sono le associazioni di madri a tenere accesa la fiammella della richiesta di giustizia. Per esempio rispetto ai casi delle donne stuprate e uccise a Ciudad Juárez, nel Chihuahua, alla frontiera col Texas, sono le associazioni di madri a partire dalla rivendicazione dell’onorabilità delle loro figlie, descritte spesso come donne facili, a poter richiedere - in un contesto nel quale l’impunità è assoluta - che i casi rimangano aperti e possono far sì che le loro istanze vengano prese in considerazione fino ad arrivare nel corso del tempo alla condanna del Messico per “indifferenza” presso la Corte Interamericana de Derechos Humanos nel 2012.

Andando a concludere il mio intervento, i movimenti, le associazioni, le madri, finiscono per rappresentare una enorme forza endogena che a un certo punto fa uscire la sinistra in tutta l’America latina da una situazione di sconfitta esiziale e porta a continuare a porre sul tappeto la questione della verità e giustizia per le violazioni dei diritti umani come fondativa di una nuova civiltà giuridica che, all’alba del XXI secolo, ha la massa critica per imporsi. A ben guardare vi sono anche dei fattori esogeni che favoriscono. Durante la seconda metà degli anni Novanta e in particolare nel 1998, vengono istruiti in Europa un gran numero di processi che chiedono estradizioni di violatori di diritti umani che, per la prima volta, vengono condannati a pene detentive, spesso anche all’ergastolo all’estero. Il fatto che ci siano un numero crescente di richieste di estradizione mette in uno stress nuovo i sistemi giudiziari e le società, e fa cambiare alcune cose. Un governo come quello di Fernando de la Rúa, che succede a Menem in Argentina, è completamente supino. Addirittura quel governo dirama direttive per negare sistematicamente qualunque richiesta di

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si riferisce alla natura stessa della generazione degli anni Settanta che ha combattuto e che è stata sconfitta. È il dibattito tra chi si considera vittima e chi si considera combattente e che nel lavorare e nel discutere su questi temi continua a vivere una profonda antinomia. Ex-guerriglieri come l’ex-presidente Pepe Mujíca o Eleuterio Fernández Huidobro rifiutano fermamente di considerarsi vittime. Fernández Huidobro arrivò a dimettersi dal Senato quando anche in Uruguay nel 2009 fu parzialmente abrogata la legge di caducità. Il motivo di tale posizione è oggetto da anni di riflessioni e critiche. Per chi scrive – che non crede all’esistenza di un patto tra guerriglia e militari – esso verte su un (malinteso?) senso dell’onore di chi, ritenendo di non essere una vittima, ma di aver combattuto e perso una guerra per vincere poi la pace, riconosce alla controparte l’onore delle armi. Ma ciò che può valere per i vertici del Movimento di Liberazione Nazionale, ieri ‘terroristi’, oggi ministri, si scontra con ogni altra considerazione sulla giustizia di transizione o umanitaria e, soprattutto, con le aspettative e i diritti della globalità delle vittime orientali di violazioni di diritti umani.

afferma nel discorso alle Nazioni Unite9 tenuto poche settimane dopo il suo insediamento. È una svolta storica; Kirchner si appoggia a movimenti che avevano legittimità internazionale per costruire la propria legittimità interna smantellando il contesto di impunità reso possibile non tanto dalla dittatura militare quanto dai governi neoliberali. L’Argentina ribalta ogni politica, diventa disponibile alle estradizioni e abroga le leggi dell’impunità, la legge di obbedienza dovuta e la legge di punto finale. Apre così non solo una stagione che fino adesso ha portato a istruire più di 2000 processi con più di 650 militari condannati, dai generali ai soldati semplici. Apre anche un dibattito pubblico nel quale c’è un cambio di egemonia culturale, che si è esteso almeno parzialmente al resto del Continente, nel quale l’impunità è completamente sbaragliata anche culturalmente perché solo sulla base del ripristino del rispetto dei diritti umani si può ripristinare uno stato di diritto. Tutto questo ha portato in Argentina alla soluzione più radicale, ma ha portato degli straordinari cambiamenti anche nei paesi vicini; dal Cile all’Uruguay. Il caso uruguayano ci serve per chiudere: si è creato un dibattito molto complicato che ci interessa perché tocca una delle principali questioni che

9N. Kirchner, Discurso de Néstor Kirchner en la 58a Asamblea General de las Naciones Unidas en 2003, 25 settembre 2003.

FRASE EN IDIOMA ORIGINAL

AUTOR

FRASE EN ITALIANO

FECHA Y LUGAR

Mercedes Sosa (1935-2009)

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Esta célebre excusatio del gran intelectual italiano Pier Paolo Pasolini está especialmente vigente en tiempos como los nuestros, cuando el poder mediático es especialmente susceptible y agresivo, y la libertad de palabra es cada vez más un hecho meramente formal –amenazado por los abogados de los poderosos y por leyes demasiadas veces dictadas por el mismo poder que impide la crítica.

Así que, en concreto, tengo que dejar en suspenso (aunque, eso sí, sobrevolando por aquí) la cuestión candente del cambio experimentado en la propiedad de los grandes medios de comunicación españoles, y muy en particular del mayor de ellos, El País, editado por el Grupo Prisa, y en el cual no deja de intervenir algún poderoso fondo de inversión norteamericano2. En general, apuntar que muchos medios en España están cada vez más dependientes de los bancos, y esto no puede no influir en su línea editorial.

El infame editorial. El País, 13 de abril de 2002.

Vale la pena comenzar rememorando un hecho por el que el diario de PRISA nunca se disculpó. Fue, nada más y nada menos, apoyar abiertamente el Golpe de Estado contra Hugo Chávez, de abril de 2002. Ello marcó, indudablemente, un antes y un después en la colocación ideológica de la prensa española, en tanto en cuanto dejaba atrás la corrección democrática, aunque fuese formal, supeditándola a los objetivos políticos del momento, aun a costa de ignorar los mecanismos democráticos básicos: “sin complejos”, como se acostumbra decir en España. En el “infame editorial3”, se decía, con lenguaje orwelliano y

Disociación psicóticaLos medios españoles mainstream y los gobiernos progresistas latinoamericanos

>> Guido Cappelli

Preámbulo“Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti

(attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”1.

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1 P.P. Pasolini, “Cos’è questo golpe? Io so”, Corriere della sera, 14.11.1974.2 Es significativo, a mi entender, el cambio en la autodenominación de este diario, que pasó de ser “Diario independiente de la mañana” a “El periódico global en español”.3 http://elpais.com/diario/2002/04/13/opinion/1018648802_850215.htm

>> Guido Cappelli

Prof. di Filologia italianaUniversità di Extremadura (Spagna)

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enajena las conciencias, son múltiples. Sin ánimo de agotarlas todas, he aquí alguna de ellas.

Sesgo. A partir de acontecimientos reales, se dan noticias parciales, que exaltan algunos aspectos y reducen, esconden u ocultan otros. La herramienta para cambiar de signo la realidad es lingüístico. Por ejemplo, las guarimbas organizadas por la oposición en Venezuela, con resultados a menudo letales, pasan a llamarse desórdenes. En Bolivia, se habló de separatismo, en referencia a los territorios que supuestamente querían desligarse del resto de la Nación: todo era voluntad de separarse, como si la parte “mejor” de Bolivia (la capitalista) se sintiera coaccionada y ultrajada por la “peor” (la popular, encabezada por el Presidente Evo Morales). De esta forma, sesgando el debate y orientándolo hacia unos determinados temas, se perdía la noción, por ejemplo, de las enormes mejoras de la economía, sobre todo en cuanto a redistribución de la riqueza y soberanía financiera se refiere; o se obviaban las complejas reformas institucionales y territoriales, que descubrían un sentido nuevo en el mismísimo concepto de soberanía y autodeterminación.

Subespecie: Palabras-clave. Como se ha apuntado, la manipulación suele servirse de unas determinadas palabras que, repetidas obsesivamente y en contextos clave, penetran a fondo en el imaginario colectivo, y por tanto, funcionan como eficaces armas arrojadizas, capaces de neutralizar cualquier reflexión o debate racional: contra una palabra maldita, es imposible razonar serena y sosegadamente. Se trata de la creación, mediante el lenguaje, de un estado de excepción de las ideas. Veamos unos ejemplos.

Caudillo: o sea, ‘dictador’, ‘autócrata’ (dicho casi siempre de Chávez). El político que ganó 14 elecciones seguidas y supo aglutinar innumerables intereses distintos en un proyecto de largo recorrido, se ve reducido a la condición del militar

bajo el titular “Golpe a un caudillo” (nótese la ironía de llamar con el título del dictador español a un Presidente electo en las urnas), que:

“La situación había alcanzado tal grado de deterioro que este caudillo errático ha recibido un empujón. El ejército, espoleado por la calle, ha puesto fin al sueño de una retórica revolución bolivariana […] Chávez ha jugado con fuego dentro y fuera. La sombra de EE UU –que importa de Venezuela un 13% del crudo que consume y que ayer le acusó de buscar su propio final– se puede presentir detrás de lo ocurrido […] [Aznar] Tiene ahora, como presidente del Consejo Europeo, una ocasión para que la UE contribuya a la instauración en Venezuela de un régimen democrático normal y estable. […] Su experiencia [de Chávez] debe servir para que se difunda la lección de que la democracia no son sólo votos, sino también usos”.

Caminos de la mentira: mecanismos de alteración continuativa de la realidad

¿Como luchar contra esta monstruosa concentración de poderes –económico, político y mediático– transnacionales, entrelazados y libres de cualquier control democrático y popular? Los estudiosos están volviendo a considerar formas de desobediencia civil, pacífica pero contundente4. Pero, para un intelectual la mejor manera de resistencia es quizás la denuncia. Denunciar con racionalidad, aplicar a los medios las herramientas de la filología (filología política), analizando el funcionamiento de las tretas y las manipulaciones, sacando a la luz la arquitectura retórica que está detrás de este auténtico secuestro de la información por parte de grupos de intereses y de presión. Clasificar, esquematizar, ordenar. Para ayudar a entender. Por que las maneras de alterar la realidad, hasta llegar a crear un entorno virtual que plasma y

4 Véase el reciente volumen de E. Vitale, Resistere al potere. Per una resistenza costituzionale, Roma-Bari, Laterza, 2012

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“peligro para la seguridad [de EE.UU.]”, todos se hicieron eco, sin apenas acentos negativos, de tamaña declaración de enemistad; pero la campaña de solidaridad que se desató a favor de la integridad y la soberanía de este país, recibió una atención en los medios infinitamente menor, como ocurrió con la declaración del propio Presidente de Colombia, Juan Manuel Santos (un adversario del chavismo), en defensa de Venezuela, declaración “censurada”, en la práctica, por los medios españoles (curiosamente, lo contaba solo un periódico digital de extrema derecha como Libertad Digital)6.

De esta forma, se llega a auténticas distorsiones: poniendo en segundo plano el apoyo de UNASUR (y especialmente de Brasil) a Venezuela, o el papel de la CELAC (sistemáticamente descalificada por los medios mainstream españoles), se acababa ofreciendo una imagen de la diplomacia en la zona, sustancialmente falsa, dirigida a dar la idea de un aislamiento de Venezuela, inexistente en la realidad político-diplomática.

Subespecie I: El punto de vista. Esta noción procedente de la literatura puede servir para comprender el mecanismo de distorsión intencionada de los hechos. Se enfoca la noticia desde un único ángulo visual (el “punto de vista”), sin réplica posible, o alterando (por distorsión o difuminación) la réplica. Los dramáticos meses finales de la enfermedad de Hugo Chávez fueron aprovechados por la oposición para intentar crear un clima de desestabilización en el país. Una tarea a la que los medios españoles se prestaron gustosos. El País, por ejemplo, en un titular del 2 de enero de 2013, escribía: “ Un Ejército dividido deberá marcar el paso de la transición venezolana”. Marcar el paso: se trataba, una vez más, de la legitimación preventiva de una posible intervención castrense; en resumidos términos,

fascista que domina con mano de hierro España durante 40 años: Francisco Franco.

Incertidumbre: palabra-clava para martillear en la cabeza del incauto lector la idea de que el “caudillo” deja detrás de sí el caos; así, cualquier victoria electoral del chavismo nace ya con la mancha de la sospecha y, al revés, la derrota de la oposición siempre estará bajo sombra del pucherazo.

Régimen: más allá del diccionario de la RAE, “régimen” remite a autoritarismo, personalismo y, en definitiva, “sistema no legítimo”. Se aplica a países como Irán o China (siempre de forma impropia), curiosamente mucho menos a Arabia Saudí, Qatar o Bielorrusia: mejor no fijar demasiado la atención en esos aliados de nuestra luminosas democracias. De todos modos, el tufo manipulatorio y racista está ahí.

Petróleo: cuando no saben qué decir, dicen que la política del líder bolivariano se sostuvo en el petróleo. En efecto, ellos prefieren que la riqueza del petróleo se quede en otras manos, más blancas, más limpias, sin esos molestos callos propios de quien se pasa la vida en trabajos humildes.

Finalmente, una muestra de infamia quizás involuntaria: los millones de personas que desfilaron en Caracas para rendir homenaje al Presidente fallecido, no son más que beneficiarios del régimen: o sea, pobretones, miserables, aprovechados 5.

Enfoque. Las noticias seleccionadas son prevalentemente negativas, el tono verbal es despectivo, lo negativo se resalta y enfatiza: es lo que se llama, precisamente, “campañas negativas”. Esto puede darse, también, ocultando cualquier aspecto positivo de una misma noticia: por ejemplo, cuando Obama declaró Venezuela

5 ”http://internacional.elpais.com/internacional/2013/03/06/actualidad/1362602007_326229.html”6 Naturalmente, los medios hacen bien su trabajo. En ocasiones, más que callar, es suficiente poner la noticia en un discreto segundo plano: http://internacional.elpais.com/internacional/2015/03/15/actualidad/1426382700_862529.html El tono sesgado, despectivo y torticero que desprende este texto depende justamente del enfoque totalmente parcial (solo una muestra: el hastag #venezuelanoestásola, justo en la última línea).

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que se trata, ni más ni menos, que de una forma de representación salvaje del enemigo: la exhibición, etimológicamente obscena, de su cuerpo vencido por la enfermedad.

Subespecie II. El “tratamiento obsesivo”. Consiste en poner en el punto de mira, con una atención constante y sin aparente lógica informativa, el objeto a vejar. El País del jueves 26 de febrero de 2015 incluía noticias (negativas) sobre Venezuela dos páginas de Internacional, una de opinión y otra en la sección España, además de la portada del diario; el lunes 9 de febrero, ‘el periódico global’ le dedicaba dos páginas de Internacional, el Editorial y otra página completa de Opinión” 7. El Mundo –contra cualquier lógica objetiva de información– “informó” durante semanas, y con más de una portada, sobre un dinero que supuestamente miembros o ex miembros del Gobierno venezolano bajo Chávez (o sea, hace ya un tiempo) tenían en un banco suizo, extremo, por otra pate, investigado por las propias instituciones venezolanas. Es interesante (amén de gracioso) el comentario del periodista español free lance Pascual Serrano sobre una de esas portadas:

Qué cosas. Quien investiga es Venezuela no el chavismo, y los jerarcas no son de Venezuela, son del chavismo. Podrían haber titulado también “El chavismo investiga la implicación de los jerarcas de Venezuela” 8.

Es evidente, por otra parte, que el peso geopolítico de Venezuela, con ser respetable, no es proporcional a esta presencia obsesiva en los medios.

Anécdota grotesca. Consiste en banalizar y caricaturizar la presentación de la entidad/sujeto a manipular, para que esta aparezca como ridícula, absurda o grotesca. Un caso ejemplar, teñido de racismo, es la famosa anécdota de “los pollos de Evo Morales”. En una alocución ante campesinos indígenas, Morales hizo referencia a

una invitación al golpe.

La Ley de prensa del Presidente Correa en Ecuador (recuérdese, el país que protege al periodista y perseguido político Julian Assange) no tuvo mejor suerte. Los medios españoles se cebaron durante meses. Sistemáticamente presentada como ”ley mordaza”, en realidad la norma establece, simplemente aunque de forma muy explícita y rigurosa, la incompatibilidad entre el sector bancario y la propiedad de los medios de comunicación. Su pertenencia fue aprobada en referéndum en mayo de 2011:

“Las instituciones del sistema financiero privado, así como las empresas privadas de comunicación de carácter nacional, sus directores y principales accionistas, no podrán ser titulares, directa ni indirectamente, de acciones y participaciones, en empresas ajenas a la actividad financiera o comunicacional, según el caso”.

Además, establece un código deontológico que prohíbe el “linchamiento” –difusión de noticias falsas y descalificatorias– organizado y continuado de una persona física o jurídica –una medida que obviamente no podía gustar a los medios españoles, acostumbrados a una cierta impunidad de la calumnia. Todo ello, por consiguiente, nunca se lee en los medios mainstream españoles (que representan la práctica totalidad de la prensa impresa).

Un caso extremo fue la publicación, en la edición digital de algunos medios, de la foto falsa de Hugo Chávez moribundo, una imagen que, aunque hubiese sido real (y, obviamente, estaba lejos de serlo), nunca debería mostrarse públicamente, por su evidente irrelevancia informativa e, sobre todo, por una elemental norma de respeto de la dignidad humana en un momento trágico de la vida de una persona. En este caso, las razones de la publicación, sin averiguación previa de la autenticidad, no obedecen a una lógica de tipo periodístico; sino

7 Pablo Pascual, Público, 3.03.20158 El diario, 2/4/2015 <http://www.eldiario.es/zonacritica/Perlas-informativas-mes-marzo_6_373122705.html>

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‘holocausto climático’, sacados de contexto, producen un efecto hiperbólico y vagamente extraño), el término negativo “incendiar”, la mención de los dos líderes por el apellido y no por el título, la expresión “el boliviano”, entre otras técnicas de denigración indirecta.

Otro táctica se puede ejemplificar observando la atención de los medios españoles por la presencia mediática de Chávez, por ejemplo su conocida transmisión Haló Presidente –un tema que, de por sí, no tendría por qué despertar mucho interés en España. Pues bien, el caso era presentar al Presidente venezolano como un autócrata que somete su pueblo a interminables sermones, en un entorno de vulgaridad popular y pequeño-burguesa. Lo que en realidad –dentro de un estilo comunicacional diferente del europeo– era una forma de comunicación directa, de contacto con la población y, en definitiva, de representación de los “sin voz”, se hizo pasar por una especie de “lavado de cerebro” propio, en definitiva, de una “república bananera”.

Subespecie: La banalización. Consiste en distorsionar, rebajar y menospreciar la acción del contrario, mediante el uso de un tono presuntamente “ligero”, irónico o de distanciamiento superior. Una masiva manifestación electoral chavista durante las elecciones venezolanas de 2012 se veía convertida (El País del 8.10.2012) en un baile de frívolos aprovechados, por un artículo que, disfrazado de crónica, en realidad no era más que una larga y dura pieza de opinión: “Su estrategia publicitaria [la de los chavistas] se mantuvo más cerca de la Coca-Cola que de Carlos Marx. Musiquita, baile, danza de corazones”.

Aquí, como en muchos otros casos, el dispositivo de la distorsión se basa en el prejuicio. El artificio retórico-conceptual inicial consiste en solapar realidades diferentes, es decir, querer asimilar la realidad de los demás, en este caso la latinoamericana, a la nuestra, la europea, dando por supuesta la superioridad de esta última: un

las propiedades nocivas de los pollos hormonados europeos, subrayando sus efectos nocivos por la salud. Queriendo hablar, de forma sencilla, adecuada a su audiencia de gente humilde trabajadora, de la alteración que las hormonas provocarían en el equilibrio hormonal y sexual de una persona, el mandatario utilizó la expresión “desviaciones en su ser como hombre”. Ello bastó para desencadenar en su contra, con la ayuda interesada de los medios, el mundo occidental en su práctica totalidad, incluidas las organizaciones de gays y lesbianas españoles. De nada valieron las aclaraciones, perfectamente razonables, del gobierno boliviano: sacada de contexto, oportunamente manipulada, inmersa en la histeria colectiva inducida por el griterío mediático, el pobre Morales –quien, para colmo de ironía, tanto ha hecho para la igualdad efectiva de derechos en su país– fue tachado de homófobo, ignorante, insolidario.

Por cierto, en esta ocasión (abril de 2010), se celebraba en Cochabamba la Cumbre en defensa de los Derechos de la Madre Tierra, una suerte de “contracumbre” del clima dentro de la cual se propuso la creación de un Tribunal Internacional de Justicia climática. La cobertura mediática de este evento resultó ser más bien escasa, incomparable, desde luego con la que se da normalmente a eventos de este tipo en los países occidentales. Pero lo más grave es el tratamiento que se daba a las escasas noticias sobre el tema: la única mención de El País se rotulaba bajo el titular, evidentemente muy poco referencial, “Chávez y Morales intentan ‘incendiar’ la cumbre del clima y culpan al capitalismo del cambio climático”. La entrada, o copete (resumen de la secuencia) abundaba: “El presidente de Venezuela denuncia que la negociación es el reflejo de ‘una dictadura imperial’. El boliviano reclama ‘un tribunal de justicia climática’ para evitar un “holocausto climático”. Nótese la banalización despectiva de los contenidos políticos de la propuesta, obtenida mediante el entrecomillado (dictadura ‘imperial’,

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El Diario del 6/2/2015) 9, si se lee, sencillamente, la Gaceta Oficial de la República Bolivariana de Venezuela del 27 de enero de 2015 (N° 40589), las normas de actuación son, formal y sustancialmente, completamente asimilables a las de cualquier otra democracia occidental, e incluso más garantistas.

Consecuencias y conclusiones

Una vez creado el entorno negativo, hasta extremos paroxistas y durante un tiempo suficiente, la situación ya está lista para el enfrentamiento violento y la subversión de la legalidad. Nos encontramos, ahora sí, en un entorno de completa “Disociación psicótica”, “distanciamiento de la realidad” y creación mental de una realidad paralela diseñada y alentada por los medios de propaganda a través de campañas ininterrumpidas, sofisticadas, bien planificadas. Pese a que no se trata de una definición universalmente aceptada por el mundo científico, me parece que refleja la disposición psicológica de un número creciente de ciudadanos sometidos a un martilleo mediático-propagandístico nunca antes conocido –aunque también hay que tener en cuenta la predisposición de cada uno, en base a sus creencias previas (en definitiva, “se cree lo que se está dispuesto a creer”).

Vayamos, por última vez, a los dramáticos meses de la enfermedad del Presidente Chávez: como hemos visto, según medios como el español El País, el ejército estaba “dividido”, en el trasfondo de una supuesta “transición venezolana” (definición, a su vez, muy atentamente medida y calculada), en medio de un caos –político, económico y social– creciente, provocado, claro está intencionadamente, por los sectores opositores, apoyados e inspirados, evidentemente, desde fuera. En resumidas cuentas, una profecía autocumplida: una manera de crear una realidad

nosotros, blanco, bueno y democrático, frente a un ellos, de signo contrario. Así, cualquier cosa que no se conforme a los esquemas mentales del lector medio europeo adquiere un aspecto de “subdesarrollo”, retraso; se carga de resonancias negativas y, por tanto, es susceptible de ser manipulada en contra del “enemigo”.

Desinformación directa. La última de las técnicas que hemos detectado es directamente de tipo militar, en el sentido de que utiliza recursos propios, en rigor, de la propaganda bélica. El gran “clásico” del género es magnificar, o lisa y llanamente inventar, la “división” del enemigo: es el tópico, que ya hemos observado, del “ejército dividido”. El objetivo es generar una sensación de caos o peligro inminente.

A ello se añade la presentación del enemigo como violento e ilegal, lo que justificaría una reacción simétricamente violenta, presentada como “defensiva”. El ABC del 30 de enero echaba gasolina al fuego y le proporcionaba una excelente coartada a quienes deseasen una escalada de violencia: “Venezuela autoriza el empleo de armas letales para ‘evitar protestas’”. Entrada: “La norma viola los preceptos de la Constitución venezolana y los tratados internacionales, que prohíben al ejército disparar contra los civiles en tiempos de paz”.

El País también ponía su granito de arena: “Venezuela permite al ejército el uso de armas para reprimir manifestaciones”. Entrada: “La oposición y organizaciones de la sociedad civil tachan la resolución de precipitada y contraria a dos artículos de la Constitución” (30-01.2015).

La Razón, en este caso, parecía algo más referencial: “Venezuela autoriza el uso de la fuerza letal para ‘evitar desórdenes’ públicos” (29.01.2015).

En realidad (come señalaba Pascual Serrano en

9http://www.eldiario.es/zonacritica/presentar-ejercito-venezolano-disparando-manifestaciones_6_352474759.html, donde se detallan los métodos (en ocasiones chapucero) de ocultación y deformación de los hechos por parte de los diarios mencionados aquí arriba.

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“su feroz hipocresía y desprecio a la verdad, su influencia con unos Gobiernos y otros, su inaudita capacidad de manipulación e intriga lo convierten en unos de los personajes más nocivos de medio siglo de historia de España”10.

En un artículo aparecido en el diario Publico (27.04.2015), el filósofo Slavoj Žižek traía a colación a Alain Badiou, para expresar el fin último de esta estrategia de la “disociación psicótica”, que no es otro que la muerte de la esperanza:

El objetivo de la propaganda enemiga no es aniquilar a la fuerza adversaria existente (función que de manera usual le compete a la policía) sino, antes bien, aniquilar una posibilidad aún no realizada, ni siquiera percibida, en la situación actual. Dicho de otra manera, están intentando asesinar la esperanza. El mensaje que este tipo de propaganda intenta propagar es la convicción resignada de acuerdo con la cual si éste no es el mejor de los mundos posibles por lo menos es el menos malo, así que cualquier intento de cambio radical tan sólo haría que las cosas fuesen mucho peores.

Contra todo esto merece la pena luchar. También con las armas de una filología política que ponga al desnudo las trampas del lenguaje, cuando se le somete no a la verdad, sino a los espurios intereses de unos pocos.

y abonar el terreno a la violencia –una violencia supuestamente justificada por los “desmanes” del gobierno (legítimo) a derrocar.

Y, como se sabe, la violencia genera violencia: el gobierno tiene que usar la fuerza (por otra parte legítima) contra los brotes, más o menos planificados y dirigidos, de violencia: esto es denunciado por las fuerzas enemigas como generador de violencia ilegal, justificando al mismo tiempo como “legítima” la reacción, es decir, más brotes de violencia opositora. Y así sucesivamente, hasta llegar –una vez consumada la total descalificación política y moral del gobierno a derrocar– a la guerra civil o al golpe.

Como se ve –y como, por otra parte, es sabido– los que podemos definir como “poderes fácticos” invocan una y otra vez la intervención militar y/o la violencia de la calle, mientras la van preparando. El sueño del infame editorial de El País hecho realidad: “El ejército, espoleado por la calle, ha puesto fin al sueño de una retórica revolución bolivariana”.

¿Cómo reaccionar? Porque hay que comenzar a llamar a las cosas por su nombre (lo que en Europa hace tiempo que ya no se hace): estos medios representan a un conjunto de intereses privados que ahora mismo son el enemigo de la democracia, incluso en su versión liberal y burgués. Lo que un columnista nada sospechoso de izquierdismo (más bien todo lo contrario) dijo de Juan Luis Cebrián –administrador delegado de PRISA (editora de El País) y eminencia gris de la política española–, puede hacerse extensivo a todo este complejo y amenazante entramado:

9 Hermann Tertsch, Días de ira, Madrid, Esfera de los libros, 2015.

Berta Cáceres (1972-2016)

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elaborazione politico-sociale delle comunità indigene e dei movimenti indigenisti degli ultimi venticinque anni.

Ci ricorda il sociologo ecuadoriano Rafael Quintero:

“La nuova Costituzione contiene innovazioni di principi, concetti, categorie e paradigmi ordinatori che costituiscono parte di un modello alternativo di sviluppo storico”

(AA.VV., El Buen Vivir. Una vìa para el desarrollo”,

Quito, Abya-Yala, 2009, p.80)

Così possiamo leggere il bellissimo Preambolo, il cui linguaggio ci proietta in una dimensione agli antipodi della prospettiva giuridico-istituzionale e della visione antropocentrica proprie della cultura occidentale. Si veda, ad esempio, la”celebrazione della Pacha Mama” nelle prime affermazioni del Preambolo:

<< NOI TUTTE E NOI TUTTI, il popolo sovrano dell’Ecuador/ RICONOSCENDO le nostre radici millenarie, forgiate da donne e uomini appartenenti a popoli diversi,/CELEBRANDO la natura, la Pacha Mama, della quale siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza,/ INVOCANDO il nome di Dio e riconoscendo le nostre diverse forme di religiosità e spiritualità,/APPELLANDOCI alla saggezza di tutte le culture che ci arricchiscono come società,/COME EREDI delle lotte sociali di liberazione da ogni forma di dominazione e colonialismo,/ e con un impegno profondo verso il presente ed il futuro,/ DECIDIAMO DI COSTRUIRE/ una nuova forma di convivenza civile, nella diversità e in armonia con la natura, per raggiungere il buon vivere, il “SUMAK KAWSAY”;/ una società che rispetta, in ogni dimensione, la dignità delle persone e delle collettività;/ un paese democratico, impegnato nell’integrazione latinoamericana- sogno di Bolìvar e Alfaro-, la pace/ e la solidarietà con tutti i popoli della terra;/ e nell’esercizio della

La questione indigenista in America LatinaTra le istanze del “buen convivir” e gli attuali modelli di sviluppo. Il caso Ecuador.

>> Daniela Negri

Perché dovrebbe risultare interessante per noi qui, oggi , “il caso Ecuador”, uno dei più piccoli Stati dell’America Latina ( una superficie più o meno pari a quella dell’Italia, con all’incirca 14 milioni di abitanti di cui il 40% indigeni- in Bolivia la percentuale è del 49,95%), in relazione alla “questione indigenista”?

Una prima risposta la possiamo trovare nel fatto che l’Ecuador ha redatto nel 2008 una nuova Costituzione, inserendo - primo Stato al mondo- il meglio della riflessione antropologica e della

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>> Daniela Negri

VolontariaProgetto Mondo-Mlal, ONG di cooperazione internazionale (Italia)

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in una una subordinata concessiva implicita - l’espressione ” pur riconoscendo le diversità” ( quasi una concessione...all’evidenza!) , rispetto alle quali si sosteneva il “principio di uguaglianza e parità tra tutte le culture”. E per comprendere a pieno quale lungo e difficile processo storico abbia portato ad un simile livello di consapevolezza la società ecuadoriana, dobbiamo ricordare l’Art. 68 della prima Costituzione repubblicana del 1890, dove , giustificando l’affidamento delle popolazioni indigene a “tutores”, così le si definiva:

<<los indìgenas, clase inocente, abyecta y miserable.>>.

Ma nel ‘98 era stato per altro impossibile ignorare i contenuti programmatici del grande Levantamiento indìgena del 1990, (definito dalla dirigente CONAIE, Nina Pàcari, Ministro degli Esteri nel Governo del Presidente L. Gutierrez, dimissionaria poi nel 2004: ”el sismo ètnico de Ecuador”)e della “Declaraciòn de Quito”, presentata come conclusione del 1°’Incontro Continentale “500 años de Resistencia India” del luglio dello stesso anno. Il dibattito acceso nella società ecuadoriana aveva contrapposto la teoria del “civismo patriottico”, sostenuta dalla reazione conservatrice, come pure la concessione di tipo integrazionista ed “etnodesarrollista”, alla richiesta di “trasformazione integrale dello Stato” avanzata dalle Organizzazioni indigene e finalizzata a garantire il riconoscimento dell’identità delle comunità indie come popoli. Altro passo politico significativo fu la nascita del PACHAKUTIK, (1996) il partito indigeno che partecipò all’Assemblea costituente del ‘98 insieme al Partito socialista e alla Sinistra democratica sostenuta dalla Coordinadora de Movimientos y Organizaciones sociales: dunque , una messa in rete delle lotte sociali degli Anni ‘90 . “De la fuerza sostituyente al poder constituyente” è infatti il titolo significativo” del testo di M. Aparicio Wilhelmi che nel 2012 ricostruisce questi

nostra sovranità, a Ciudad Alfaro, Montecristi, nella Provincia di Manabì, /approviamo quanto segue.>>

Il confronto con il Preambolo della Costituzione boliviana del 2009 può già mostrarci alcune differenze d’impostazione, ma anche l’analogo tema del “buen vivir” in versione aymara, con forte sottolineatura della dimensione comunitaria(si dovrebbe parlare allora di “BUEN CONVIVIR”, come ho indicato appunto nel titolo del mio intervento):

<<Il popolo boliviano di composizione plurale [....] costruisce un nuovo Stato[...] con principi di sovranità, dignità, complementarietà, solidarietà armonia ed equità per ciò che riguarda la distribuzione e redistribuzione del prodotto sociale, in cui predomina la ricerca del “vivere bene”(suma qataña, in lingua aymara), ...in convivenza collettiva>>.

Proseguendo nell’esame del testo costituzionale ecuadoriano, troviamo , fissato in più specifico linguaggio giuridico, il principio di fondo della plurinazionalità dello Stato, riportato nell’Articolo 1 che recita così:

“L’Ecuador è uno Stato costituzionale di diritto e giustizia, sociale e democratico, sovrano, indipendente, unitario, interculturale, plurinazionale e laico[.....]La sovranità ha le sue radici nel popolo[...]Le risorse naturali non rinnovabili del suo territorio[...]appartengono al suo patrimonio inalienabile, irrinunciabile e inviolabile.”

Se confrontiamo il testo citato con la stesura del 1998 vediamo che il riconoscimento della componente indigena confluiva allora nella duplice terminologia di “multiculturalità” e “multietnicità”, termini presenti nella Premessa d’apertura e successivamente ribaditi nell’Art.62, mentre l’Art. 1 proclamava “l’unità dello Stato”, e aggiungeva-

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dalle organizzazioni indigene.

Dall’assunzione della categoria concettuale di “nacionalidades” discende ad es. il riconoscimento (ART. 21) del diritto a costruire e mantenere la propria identità culturale, alla libertà estetica, alla conoscenza della memoria storica della comunità di appartenenza. E nell’Art.25 si afferma:”Le persone hanno diritto a godere dei benefici e delle applicazioni del progresso scientifico e delle conoscenze (los saberes) ancestrali”

Da qui, ancora, il riconoscimento culturale delle lingue QUICHUA e SHUAR come strumenti di “relazioni interculturali” perchè “idiomas oficiales”, come pure l’affermazione di nuovi diritti territoriali nelle Juntas Parroquiales rurales, con autonomie gestionali decentralizzate.

Nel contributo di riflessione inviato nel 2008 da Eduardo GALEANO, purtroppo recentemente scomparso, all’ Asamblea Constituyente operante sotto la Presidenza di ALBERTO ACOSTA, leggiamo:

<<[L’Ecuador] ha sufrido numerosas devastaciones a lo largo de su historia[...]Pero las heridas abiertas.. no son la ùnica fuente de inspiraciòn de esta gran novedad jurìdica[....]la reivendicaciòn de la naturaleza forma parte de un proceso de recuperaciòn de las màs antiguas tradiciones, de Ecuador y de Amèrica toda. Se propone que el Estado reconozca y garantice el derecho a mantener y regenerar los ciclos naturales[...]. Esas tradiciones non son sòlo el patrimonio de su numerosa poblaciòn indigena, que supo perpetuarlas a lo largo de cinco siglos de prohibiciòn y desprecio. Pertenecen a todo el Paìs y al mundo entero, estas voces del pasado que ayudan a adivinar otro futuro posible.>>.

E dalle “voci ancestrali” viene appunto recuperato ed assunto il “paradigma ordenador” della nuova Costituzione, ossia il SUMAK KAWSAY(in lingua Quichua: VIDA BUENA; per i

processi. E tuttavia nella Costituzione del ‘98 si prefiguravano solo formalmente cambiamenti nell’organizzazione istituzionale dello Stato senza l’accoglienza effettiva dei diritti riconosciuti ad indigeni ed afrodiscendenti in assenza di meccanismi adeguati per dare attuazione alle premesse di principio.

Per questo ancora più netti e notevoli proprio sul piano concettuale appaiono oggi i passi in avanti esplicitati nella Costituzione del 2008, che , peraltro, non poteva certo prescindere dalla “DICHIARAZIONE dei DIRITTI dei POPOLI INDIGENI approvata in sede ONU solo un anno prima (2007): all’art.3 della Dichiarazione possiamo leggere:

“I popoli indigeni hanno diritto alla libera determinazione. In virtù di questo diritto determinano liberamente la propria condizione politica e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale” .

La modifica del dettato costituzionale del ‘98 evidenzia un’acquisizione importante: le comunità indigene sono riconosciute a tutti gli effetti NACIONALIDADES , ossia non gruppi etnici, non minoranze, ma popoli a tutti gli effetti. Era appunto questa la rivendicazione primaria delle dichiarazioni che sintetizzavano i 500 anni di resistenza indigena negli eventi regionali e continentali degli anni dal 1990 al 1992: da lì in poi le Organizzazioni indigene dell’Ecuador (ma non diverso è il percorso boliviano) operano un costante avvicinamento ai movimenti sociali e politici più aperti e ne riscuotono solidarietà nella condivisione di lotte popolari a livello nazionale. Non dimentichiamo inoltre che al protagonismo indigeno la società ecuadoriana deve ben tre destituzioni o rinunce di Presidenti in flagranza di corruzione e palese disattesa delle promesse elettorali : Abdalà Bucaram nel’98, Mahuad nel 2000, nel 2005 Lucio Gutierrez, precedentemente portato alla Presidenza proprio

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e irrinunciabile. L’acqua costituisce un patrimonio nazionale strategico di uso pubblico, inalienabile, imprescrittibile, “inembargable” (non sequestrabile; cfr. Art. 282 dove si proibisce la privatizzazione) ed essenziale per la vita.>>.

E l’ ARTICOLO 13 recita: “Le persone e le collettività hanno diritto all’accesso sicuro e permanente ad alimenti sani, sufficienti e nutrienti; preferibilmente prodotti a livello locale e corrispondenti alle loro diverse identità e tradizioni culturali. Lo stato ecuadoriano promuoverà la sovranità alimentare” (cfr. la Sezione sulla sovranità alimentare dall’articolo 281). Nell’ ARTICOLO 14 troviamo poi riconosciuto “ il diritto della popolazione di vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, tale che garantisca la sostenibilità e il BUEN VIVIR, SUMAK KAWSAY.....” Segue nell’Art.15 la proibizione di “tecnologie e agenti biologici sperimentali nocivi e organismi geneticamente modificati, pregiudizievoli per la salute umana”.

Negli Articoli del Capitolo VII, dal 71 al 74 , la NATURA appare come soggetto di diritto, aprendo così ad una visione “BIOCENTRICA” secondo la quale all’uomo, alla comunità, al popolo appartiene il dovere della cura dell’ambiente naturale. Infatti l’ ARTICOLO 71 così recita:

<<La natura o PACHA MAMA, dove si riproduce e si realizza la vita, ha diritto a che si rispetti integralmente la sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali. Ogni persona, comunità popolo o nazionalità potrà pretendere dall’autorità pubblica l’osservanza dei diritti della natura. >>

Un esempio delle potenzialità di questo principio lo possiamo vedere nel 2011 : il fiume Vilcabamba, nel sud dell’Ecuador, nella Provincia di Loja, “ha fatto causa” e si è difeso in tribunale contro lo Stato per un progetto di costruzione che avrebbe comportato la cementificazione dell’area: il fiume,

Kichwa della provincia di Pastaza, si tradurrebbe con VIDA LIMPIA Y ARMONICA), reso nel testo con l’espressione BUEN VIVIR

( Varianti lessicali ma semanticamente identiche, si veda la ripresa poi nella costituzione boliviana del 2009 con l’espressione “VIVIR BIEN” ).

Questo principio andino- ma ugualmente presente in area amazzonica , ad esempio nella formulazione in lingua achuar di “SHIIR WARAS”, già studiato dall’antropologo francese Philippe Descola, come vediamo nel testo “LA SELVA CULTA” (Coed. ABYA-YALA / IFEA Quito, 1988,- pagg. 415-432: ”Los criterios del buen vivir”, con recensione di Claude Lévi -Strauss) esprime la relazione armonica tra gli esseri umani e di questi con la natura e si presenta come elemento fondamentale per pensare una società diversa.

Per la cosmovisiòn indigena la natura non è una cosa, un oggetto; è uno spazio di vita in cui l’elemento naturale e quello soprannaturale sono in simbiosi, ossia l’acqua, la terra, la foresta e non solo gli animali sono esseri viventi, quindi “SOGGETTI” di diritti e, se così, si prospetta un sistema di inclusione, di equità, di rispetto della biodiversità, che a sua volta esige un sistema partecipativo di pianificazione dello sviluppo, una garanzia di sovranità nell’ambito delle conoscenze come in quello alimentare, una prospettiva di scelte economiche sociali e solidaristiche. Infatti, nel-

l’ ARTICOLO 283 leggiamo :

<<El sìstema econòmico es social y solidario, reconoce al ser humano como sujeto y fin, propende a una relaciòn dinàmica y equilibrada entre sociedad , Estado y mercado, en armonìa con la naturaleza.>>

Nella Costituzione troviamo così al Capitolo secondo i “DERECHOS DEL BUEN VIVIR” e leggiamo, per esempio, nell’ ARTICOLO 12:

<<Il diritto umano all’acqua è fondamentale

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Che cosa di fatto non si voleva accettare? La critica alla “modernità” di matrice illuministica e antropocentrica, che, nella logica del progresso tecnico-scientifico, opera distruggendo ecosistemi, mercificando i beni comuni e sotto il nome di “sviluppo” ripropone diseguaglianze create dall’accumulazione di capitale. Le nuove Costituzioni di Ecuador e Bolivia sembravano inaugurare il cosiddetto SOCIALISMO del SECOLO XXI, post-capitalista, anti - coloniale, ecologista.

Nella stessa ASSEMBLEA COSTITUENTE di MONTECRISTI si espressero posizioni in difesa della competitività, della libertà nella formazione dei prezzi, del calcolo costi-benefici in un adeguato sfruttamento delle risorse naturali, senza ovviamente- si sosteneva- arrivare alla distruzione delle stesse.

Per questo Pablo Dàvalos, noto economista della sinistra ecuadoriana, ex Vice Ministro dell’Economia, fa notare come non si fosse capito che il “buen vivir” non può essere una “delle proposte alternative rispetto alla globalizzazione neoliberista”: riportare la natura nella Storia è un completo cambio di “episteme”, implica una rottura, non una presa di distanza rispetto a quella nozione di progresso che continua ad essere l’idea-forza più potente della società contemporanea.

Così sono emersi in questi ultimi anni contraddizioni nelle decisioni governative, avvenimenti, in qualche caso davvero tragici, che possono mostrare come il “caso Ecuador ” possa davvero risultare un laboratorio di interesse internazionale.

Allora alcuni fatti.

Possiamo cominciare dalla rielezione del Presidente Rafael Correa- leader della cosiddetta “Revoluciòn Ciudadana” e del movimento politico “ALIANZA PAIS”-il 17 febbraio 2013 (eletto la prima volta nel 2006 e tre anni più tardi, dopo l’approvazione della nuova Costituzione,

dunque, come persona giuridica, cui i cittadini hanno dato voce.

Nel TITOLO VI- Règimen de desarrollo, troviamo principi generali espressi negli Articoli dal 275 al 278 e leggiamo:

Art. 275 <<Il regime di sviluppo è l’insieme organizzato, sostenibile e dinamico dei sistemi economici, politici, socio-culturali e ambientali che garantiscono la realizzazione del Buen Vivir, del Sumak Kawsay [.....].Il “Buen Vivir”richiederà che le persone, le comunità, i popoli e le nazionalità godano effettivamente dei propri diritti ed esercitino le proprie responsabilità nel marco de la interculturalidad, del respeto a sus diversidades, y de la convivencia armònica con la naturaleza.>>.

Infine, dall’Art. 340 al 415 – El Règimen del BUEN VIVIR- si declinano i diritti del Buen Vivir e i doveri e gli obblighi dello Stato al riguardo.

A questo punto dovremmo riformulare la domanda iniziale -perché dovrebbe risultare per noi interessante affrontare la “questione indigena” a partire dal caso Ecuador?-, aggiungendo: A che punto siamo nell’applicazione di questa straordinaria Carta Costituzionale, alla quale, nel frattempo, come già segnalato, si è affiancata la Costituzione Boliviana del 2009?

La novità del dettato costituzionale aveva già suscitato vivaci dibattiti e aperte contestazioni nello stesso 2008: si era parlato -a destra- di “romanticismo retrogrado”, di evidente “eccesso nell’affermazione del primato della natura”, di ricorso a slogan, più che a principi, propri di una visione collettivistica della società con il conseguente sacrificio della libertà individuale( si veda la tesi dell’economista Paredes), mentre da Partiti di sinistra, quali il Partito Leninista, ad esempio, erano giunte critiche alla scarsa audacia nella messa in discussione della proprietà privata come “essenza strutturale del capitalismo”.

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dei movimenti popolari

- l’apertura ai transgenici

- l’indebitamento con Imprese cinesi ,

- la criminalizzazione della protesta sociale(200 leader popolari sotto processo).

Brevemente, qualche esempio in proposito:

*“INTAG, un territorio en dìsputa” è una delle più recenti pubblicazioni della casa editrice Abya-Yala sulla vicenda di questa zona della provincia di Imbabura (Cordigliera andina occidentale), caratterizzata dalla presenza del “bosque nublado”e da un alto livello di biodiversità, minacciati dal progetto minerario di estrazione del rame (attività estrattiva a cielo aperto su grande scala in zona di alta fragilità ecologica, con investimenti stranieri come quello della Compagnia cilena CODELCO). Sono state mosse critiche da società civile e ONG accusate da Correa di fare il gioco del neoliberismo: le firme di protesta raccolte appartengono, però, a 5 milioni di votanti che lo hanno eletto (cfr. Discorso del Presidente Correa all’Università di Berlino nell’ Aprile del 2014) ed è in prigione il leader Javier Ramirez, accusato da ENAMI(Impresa Nazionale Mineraria dell’Ecuador,promotrice del Progetto LLurimagua) in un processo definito “criminale” da Amnesty International.

*Parque Yasunì (cfr. il documentario “Pueblos Yasunì: genocidio en la selva”): Yasunì ITT, ossia ISHPINGO TAMBOCOCHA TIPUTINI nella Provincia di Orellana y Pastaza, con un potenziale estrattivo pari a 846 milioni di barili di greggio: in questo caso, come documentato anche dalla ONG “Terres des Hommes” e dal film-documentario di Maurizio Zaccaro “Adelante Petroleros” (Torino Film Festival 2013), realizzato per conto di “Mani Tese”Italia , siamo di fronte all’espansione della frontiera petrolifera in un’area amazzonica che comprende oltre 4 mila piante, 600 specie diverse di uccelli. E’ una delle riserve mondiali della biosfera stabilite dall’UNESCO fin dal 1989,

nel 2009) : il successo elettorale è dovuto senza dubbio all’aumento degli investimenti in salute e in educazione (pari al 6%del PIL); alle misure adottate per la lotta alla povertà, per il miglioramento dei servizi pubblici e delle condizioni abitative, come pure al sostegno dato ai processi di integrazione latinoamericana, come nel caso di ALBA ( Alternativa Bolivariana per le Americhe) e di CELAC ( Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños); alla chiusura della base militare statunitense di Manta, alla rinegoziazione del debito. Ma la stessa Unità Plurinazionale delle Sinistre( che candidava Alberto Acosta in quelle elezioni) , presenta il Presidente come “un cattivo conducente di autobus, di quelli che mettono la freccia a sinistra mentre svoltano a destra”: si voleva un governo che promuovesse una vera rivoluzione democratica, invece quello di Correa “continua ad essere un Governo dipendente dalle transnazionali e fornitore di risorse naturali per il mercato mondiale”(ACOSTA, “Rebeliòn” 2/2/’13).

Certo, come già sostenuto nel 2009 dal citato Pablo Dàvalos, (cfr. articolo su “America Latina dal basso” - Notiziario della Fondazione Zanchetta ‘09), ”... non si sa come essere critici con le derive dei governi progressisti,” per non fare il gioco della destra oligarchica.

Ma restano molti problemi aperti in palese contrasto con le linee di principio e programmatiche della Costituzione:

- l’ estrattivismo, una delle derive conservatrici del Governo Correa (come pure del peruviano Ollanta, o del boliviano Morales o della dirigenza brasiliana), che ha generato conflitti in varie aree del Paese

- i conflitti per la ridistribuzione delle terre e dell’acqua, per il riconoscimento di sovranità sui territori e loro risorse: controllo reclamato dalle comunità indigene

- la compressione degli spazi di partecipazione

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stati 908 gli oppositori uccisi tra il 2012 e il 2013 – di questi ,760 nella sola America Latina- perché protestavano contro progetti minerari.

In Honduras, durissima, dopo il Golpe del 2009, la repressione di leader indigeni operanti per la difesa dell’acqua e delle terre ancestrali: secondo la dirigente BERTA CACERES, si sono avuti 101 assassinii in 5 anni (2010-’14) di attivisti ambientali e indigeni (cfr. dati del COPINH, Consejo Cìvico de Organizaciones Populares e Indìgenas de Honduras) .

In Brasile sono numerose le denunce della FUNAI (Fondazione per la difesa degli Indios) e del CIMI (Consiglio Missionario Indigenista) contro la lobby dei fazendeiros e degli allevatori e sono 20 i processi per cause riguardanti la demarcazione di terre, avviati anche durante il Governo Lula.

In Perù , nel 2009-2010, si verificano scontri a Bagua – “el Baguazo”- tra indios e Polizia nel Marañon per l’opposizione delle comunità locali all’intervento di PlusPetrol argentina e RESPOL YPF spagnola. A causa della miniera d’oro- da cui si estrae il 78% dell’oro che arriva in Europa- di Madre de Dios, centro a tre ore dal confine con il Brasile, si è registrato nella zona un elevato tasso di inquinamento da mercurio (cfr. gli appelli di ONG operanti a livello mondiale, come Survival International).

L’assassinio nel settembre 2014 di Edwin Chota, attivista indigeno, è da ricollegarsi alle lotte degli indios MAPUCHE del Cile contro l’intervento di Endesa - ENEL per la costruzione di cinque dighe in Patagonia, mentre in Colombia, l’impresa petrolifera canadese VETRA estrae nella regione amazzonica del Putumayo 23.000 barili al giorno.

*Procedimento contro la Texaco, oggi Chevron, per le conseguenze dell’ estrazione di petrolio nell’arco di 28 anni: due popoli indigeni “ voluntariamente aislados”, i Teetetes e gli Yashauaris (selva Lago Agrio) estinti, 30.000

per la quale lo stesso Correa nel 2007 aveva dato garanzie di conservazione. Successivamente, il Presidente dell’Ecuador rivolge un’interpellanza alla comunità internazionale per ricevere in 13 anni dai Paesi industrializzati donazioni equivalenti alla metà delle entrate ottenibili dal petrolio: 3,6 miliardi di dollari a fronte di un risparmio sulle emissioni di CO2. Non ottenuto ciò, nel 2013, accusando i Paesi del nord del mondo di “egoìsmo financiero” (cfr. servizio di TELESUR 15 agosto 2013), decide di avviare l’estrazione del petrolio con l’impresa statale PETROAMAZONAS. Secondo la leader indigena Patricia Gualinga della comunità quichua di Sarayaku : “La vida es incompatible con la extracciòn del petroleo”(in un anno sono stati registrati già 19 derrames, fuoriuscite di petrolio dall’oleodotto) e le manifestazioni di protesta a Quito ribadiscono che non esiste il Buen Vivir se non si rispetta la natura (Selva Viva- KAWSAK SACHA).

*Comunità YANUA dell’etnia Shuar nella provincia di Zamora – Chinchipe: è dello scorso dicembre la denuncia dell’assassinio del leader Shuar Josè Tendentza Antùn, oppositore di ECSA - Ecuacorriente (filiale delle società cinesi TONGLIG e CHINA Railway), trovato morto nel fiume- il Rìo Zamora- con i piedi legati: era scomparso cinque giorni prima (3 dicembre ‘14). Si sarebbe dovuto recare a Lima per partecipare al Controvertice dei Popoli sul Clima e presentare in quella sede la denuncia contro il “ Proyecto Mirador” per l’estrazione del rame. Eppure nell’Art.14 della Costituzione si legge:

<<Si riconosce il diritto della popolazione a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, tale che garantisca sostenibilità e il “buen vivir”.>>.

Ma certamente non solo in Ecuador si registrano simili tragici fatti.

E, per un rapido sguardo sul problema in generale, possiamo ricordare che nel mondo sono

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Come confermato anche da “Despertemos”, il periodico bilingue di ECUARUNARI, l’organizzazione indigena viene “sfrattata” dalla sua sede storica, nell’Avenida 6 de Diciembre y Granados, avuta in commodato dal Governo del Presidente Borja (1991), con un contratto registrato in scadenza nel 2021; lo sfratto è sospeso il 12 Gennaio ‘15 a seguito di una mobilitazione internazionale e alle proteste locali che si possono rivedere attraverso i vari servizi televisivi sulle manifestazioni a Quito in quei giorni. Perché tale provvedimento?

La CONAIE aveva più volte espresso la sua opposizione alla politica estrattivistica avviata dal Governo, come ad esempio, nella Risoluzione stilata dopo la manifestazione di circa 20.000 cittadini, riuniti nell’incontro di S. Domingo 2008, e contenuta nel testo consegnato al Presidente Correa con il titolo <No a la minerìa a mediana y gran escala>, con l’esplicita richiesta di immediato ritiro delle concessioni per l’estrazione mineraria in varie aree del Paese.

Nel 2011 si era poi tenuto nella città di Cuenca, sempre in Ecuador, l’ “Encuentro continental de los pueblos de Abya Yala por el agua y la Pacha Mama” : sulla rivista “Vientos del Sur”del 5 agosto ‘11, la CONAIE sostiene la presenza di un nuovo modello di dominazione in Ecuador, nascosto dietro un volto rivoluzionario di sinistra.

All’annuncio del ”desaloco” fa seguito la Lettera aperta a Correa del sociologo portoghese Boaventura de Souza Santos (12 Dicembre 2014), nella quale in riferimento all’edificio della CONAIE, <guardiano della democrazia>,si formulano alcuni interrogativi che interpellano -dall’interno, vista l’area ideologico-politica di appartenenza del noto intellettuale- la sinistra latinoamericana:

<<Perché disperdere l’opportunità unica di trasformare l’Ecuador in una società più giusta, interculturale e plurinazionale? Come è possibile

ammalati, inquinamento del suolo e delle acque, deforestazione.

É stato denominato “il processo del secolo”: Chevron, grazie alla costante pressione delle organizzazioni indigene, è stata condannata a pagare 9,5 mila milioni di dollari USA e ha presentato ricorso presso la Corte dell’ Aja contro l’Ecuador, nonostante la Condanna della CORTE INTERAMERICANA DEI DIRITTI UMANI, con sede in Costarica, che ha accolto le richieste dei leaders dei popoli Quichua e Huaorani.

*Tra il 2008 e il 2009 si registrano reazioni internazionali di fronte alla decisione di Correa di togliere la “personerìa jurìdica” ad ACCION ECOLOGICA, storica organizzazione ecologista dell’Ecuador. Già nel 2013 aveva chiuso “Fundaciòn Pachamama” provocando le proteste di Amnesty International e Human Rights Watch. Per comprendere lo sconcerto provocato da tale delibera, possiamo leggere il testo della “ Lettera aperta” di E. GALEANO:

<<Querido Rafael, mis amigos me cuentan que la organizaciòn Acciòn Ecològica ha sido clausurada por decisiòn oficial. Me cuesta creerlo. Ojalà no sea cierto. Yo fui y sigo siendo uno de los muchos que celebramos la nueva Constituciòn del Ecuador, que por primera vez en la historia ha consagrado los derechos de la naturaleza. Y yo fui y sigo siendo, uno de los muchos que creemos que la independencia de las organizaciones ecologistas es la mejor garantìa de la defensa de esos derechos. Va el abrazo de siempre>>. (2009)

Correa sospende il provvedimento a seguito del ricorso presentato dall’organizzazione.

*Nel dicembre ‘14 fa notizia il provvedimento di “desaloco” della CONAIE (Confederazione delle nazionalità Indigene dell’Ecuador, nata nel 1986 dal coordinamento delle tre filiali regionali: ECUARUNARI andina, CONFENIAE amazzonica, CONAICE della costa).

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infatti lo scorso 21 Marzo la manifestazione unitaria della CONAIE e del FUT (Frente Unitario Trabajadores), per chiedere una revisione delle leggi in materia di “agua, trabajo, comunicaciòn y educaciòn”.

Il Presidente Correa ha esplicitato le motivazioni delle linee politiche del suo Governo in alcune “uscite” rimaste famose e riportate da varie agenzie di stampa internazionali :

<<Non possiamo essere mendicanti seduti su un sacco d’oro ed essere in condizioni di povertà, arretratezza e immobilismo. Dobbiamo potenziare il potenziale estrattivo.>>.

<<In fondo stiamo facendo meglio le cose attraverso lo stesso modello di accumulazione, non è nostra intenzione nuocere ai ricchi, però sì costruire una società più giusta ed equa....con le risorse con cui Dio ci ha benedetto (stringendo dell’oro nel pugno).>>.

<<Nella Costituzione troppi diritti e garanzie, molti errori infantili.>>.

Accuse di corporativismo alle organizzazioni indigene, viste come strumenti di separativismo, sono state mosse da alcuni giornalisti come l’italiano Fulvio Grimaldi, che sostiene la necessità di “ superare il romanticismo antiscientifico alla Marcos”, e dall’ex - rappresentante dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, l’ecuadoriano Luìs Varese.

Sul fronte dell’opposizione interna, invece, si sottolinea, come fa P. Dàvalos, l’aumento del debito estero ( abbassato a 7.000 milioni di dollari nel 2007, ora giunto a 22.000 milioni ) contratto soprattutto con la Cina (33% del PIL); la dipendenza di 2/3 delle esportazioni dal prezzo del petrolio ora in calo; l’impatto del Governo sull’Economia, passato da ¼ del PIL( PIB), all’attuale metà: per questo , sostiene l’economista,” lo Stato ha bisogno di liquidità e l’estrattivismo consente rendite dirette per il Governo, genera sensazione di

voltare le spalle a una conquista dei popoli come il SUMAK KAWSAY? Los sin techo de la CONAIE daràn que hablar y seguiràn haciendo historia […]. Come è possibile trasformare così facilmente avversari con i quali dovremmo dibattere in nemici che si vuole, abbattere?>>In questo modo, si sostiene nella lettera, si procederebbe proprio alla <distruzione della base sociale che ha permesso questo governo>.

Secondo lo scrittore e attivista uruguayano Raul Zibechi si sarebbe trattato di “un atto ingiusto e politicamente insensato”.

E alla CONAIE sono giunti attestati di solidarietà dall’argentino Adolfo Perez Esquivel, già Premio Nobel per la pace, e da Oscar Olivera , sindacalista boliviano della storica lotta contro la privatizzazione dell’acqua a Cochabamba (Bolivia).

L’intervento governativo ai danni della CONAIE si affianca ad altri atti repressivi nei confronti delle diverse organizzazioni indigene, di cui è nota certamente in Ecuador l’opposizione al nuovo indirizzo del Governo Correa: è stata avanzata, ad esempio,dal Presidente della CONFENIAE, Domingo ANKUASH, la richiesta di inconstituzionalità della Ley de minerìa:

<<La minerìa a gran escala no respeta los derechos del agua, los derechos colectivos, los derechos de la Naturaleza, la soberanìa alimentaria. No creemos a las falsas promesas de los mineros y de sus testaferros.>>.

Sono così 200 i dirigenti indigeni accusati di terrorismo o di golpismo e questo nonostante sia fatto comunemente noto la difesa e il salvataggio ad opera della CONAIE dello stesso Correa, sequestrato nell’Ospedale della Polizia a Quito a seguito del “levantamiento policial” del 2010.

Ecco perché, come sappiamo, il 2015 è stato dichiarato ANNO di RESISTENZA contro le politiche antipopolari del Governo; si è svolta

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si ripropongono così le domande sugli attuali modelli di sviluppo, come indicavo nel titolo dell’intervento, che potrebbero avviare il nostro dibattito. Dopo le grandi prospettive aperte dalla novità del dettato costituzionale in Ecuador- come analogamente in Bolivia-, saremmo di fronte ad una “sinistra marrone” più che “verde”, a regimi post-colonialisti, ma non post-capitalisti? Si sta di fatto costruendo una modernità alternativa o ci si muove verso alternative alla modernità?

Di fronte ad una prospettiva di “rentabilidad” , seppur a breve termine, le popolazioni indigene rilanciano la valorizzazione socio-culturale ed ecologica dei loro territori e ribadiscono il diritto al “consentimiento previo informado”prima di qualsiasi intervento nei loro territori. La diversità di approccio concettuale alla questione appare espressa con chiarezza nelle parole di LUIS MACAS, già storico presidente CONAIE e Dirigente dell’ “Istituto Scientifico di Culture Indigene”:

<<Nosotros pensamos, actuamos bajo el concepto de la dualidad. No es sòlo lo material sino tambièn lo espiritual. El concepto que defendemos no es la ciudadanìa. La ciudadanìa es la relaciòn del Estado con el individuo, pero no considera a las nacionalidades ni a los pueblos, ni a las futuras generaciones. Esta relaciòn viene profundizando el individualismo. Reconstruir la solidaridad entre los distintos, los pobres, los empobrecidos, los negados , para un proyecto polìtico no sòlo para indios.>>.

Per l’opposizione indigena la differenza è “ontologica”. La borghesia ontologicamente si costituì attorno alla nozione di “uomo”, da qui il contratto sociale come fondamento moderno del potere dello Stato secondo lo schema liberal-capitalista: democrazia rappresentativa, regola della maggioranza, esercizio in questi ambiti della cittadinanza. Il movimento indigeno ricorre alla nozione di Stato plurinazionale

stabilità e crescita economica, sussidia il consumo della classe media.”(Intervista a EL TIEMPO, Quito ‘14). E Alberto Acosta, che ha recentemente presieduto insieme a Vandana Shiva la seduta d’insediamento a Quito del “TRIBUNALE ETICO PERMANENTE per i DIRITTI della NATURA e della MADRE TERRA” , così si è espresso in un’intervista del 16 Aprile scorso:

<<Le economie estrattivistiche sviluppano patologie economiche, sociali e politiche quali: dipendenza dalla domanda dei paesi ricchi, logiche clientelari e populistiche, autoritarismo. Dal 1972 l’Ecuador esporta petrolio ed è rimasto povero[...]Si arricchisce chi lo trasforma.>>.

L’opposizione internazionale, rappresentata da movimenti sociali, organizzazioni ed intellettuali promotori dei Forum Sociali Mondiali, con le prese di posizione di ATTAC, Eduardo Galeano, VIA CAMPESINA, Raul Zibechi, Boaventura de Souza Santos, François Houtart, Enrique Dussel- SBILANCIAMOCI e PEACELINK , converge sulla denuncia di un progetto di modernizzazione del Paese attraverso una politica orientata alla “megaminerìa”, come a dire: uscire dall’estrattivismo con più estrattivismo!

In realtà, si mantiene elevata la dipendenza dell’Ecuador da pochi prodotti primi da esportazione, e l’estrazione del crudo non è in mano a imprese statali: quasi il 90% è estratto da imprese cinesi, con ingresso di capitale cinese per circa 8,9 miliardi di $USA per contratti di prevendita e ,del resto, il Governo di Pechino ha <<dirottato in America Latina, tra il 2005 e il 2013, 102,2 miliardi di $ e ora punta alle infrastrutture; compra carne e soia da Argentina e Brasile, petrolio, rame, ecc. da Venezuela, Ecuador, Cile; fa prestiti ripagati con export di materie prime>> (A. Acosta 16 Aprile’15, intervista di Francesco Martone sopra citata).

Dai fatti alle valutazioni politico-culturali e socio-economiche, alle questioni di fondo:

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sostenibile con il controllo dello Stato sulle risorse non rinnovabili: “passare dallo sfruttamento alla simbiosi”. Per fare questo, che è totalmente contrario alla logica del capitalismo, lo studioso sostiene che proprio le filosofie tradizionali come quelle dei popoli indigeni potrebbero essere utili: “espressioni come Pacha Mama, che possono essere molto mitiche, hanno una forza molto grande di critica al capitalismo” (cfr. F. Houtart, Socialismo del siglo XXI, Entrevista, in ”El buen vivir”, op. cit. , p.155).

E siamo dunque ritornati alla cosmovisiòn indigena che costituisce da sempre la forza di resistenza di queste popolazioni in Ecuador e in tutta l’America Latina, che si apre al dialogo con la nostra cultura e ci rilancia l’appello ad una solidarietà transnazionale, dove non è l’appartenenza “etnica” a costituire ostacolo di fronte all’unicità di un unico pianeta:

<<No vamos a poder sobrevivir en el sistema si no nos ayudamos, colectivamente, indìgenas y no indìgenas , a romper con el sistema. Es entonces un pedido desde la misma tierra que nos compone a todos, construir la plurinacionalidad>>

(L. Macas)

E le odierne parole di Luìs Macas sono eco di un sapere mitico che conserva tutta la sua poetica verità e ci sollecita a ripensare comuni prospettive di “resistenza”:

“ Toda la tierra es una sola alma

somos parte de ella.

No podràn morir nuestras almas.

Cambiar, eso si pueden,

pero apagarse no.

Somos una sola alma,

como hay un solo mundo. “

Canciòn del cacique Kouinka (Araucanos)

per ottenere visibilità ontologica dopo i secoli dell’invisibilizzazione dell’”altro”( l’altro non esiste o deve essere incluso, assimilato o addirittura protetto da se stesso), fino al primo accesso alla cittadinanza politica con la costituzione del ‘98 che supera lo statuto violento dello Stato- Nazione moderno (cfr. L .Giraudo,La questione indigena in America Latina,Roma, Carocci, 2009, pagg. 80-103).

Per questo condizione sostanziale del BUEN VIVIR è la PLURINAZIONALITA’ dello Stato, concezione più ampia di INTERCULTURALITA’, che richiede però nella concretezza ”controllo politico ed economico sulle risorse naturali”(Boaventura de Souza Santos, Conferencia a los asambleistas ecuadorianos en Manta, marzo 2008). Il riconoscimento come “nazionalità” implica il diritto a governi propri sui propri territori, quindi il non accesso allo sfruttamento delle risorse naturali da parte dello Stato senza “consenso previo” degli abitanti e un nuovo modello di redistribuzione dei benefici. Proprio nell’introduzione dei concetti di territorio, autonomia autodeterminazione e autogoverno secondo R. Zibechi, che cita a tal proposito il sociologo messicano Dìaz Polanco, i movimenti indigeni starebbero “ realizzando una rivoluzione teorica e politica” (cfr. R. Zibechi, Territori in resistenza, Roma, Nova Delphi 2012, p.50).

Deve allora essere ancora contemplata una nuova generazione di diritti collettivi, perché sia effettiva la “democrazia del nuovo secolo” rispetto alla tradizionale “democrazia formale” e perché si elabori un” nuovo paradigma per lo sviluppo”(cfr. Patricio Carpio Benalcàzar, sociologo e antropologo presso l’ Università di Cuenca e membro dell’Assemblea Costituente: “El buen vivir, màs allà del desarrollo” in AA.VV. “El Buen vivir”, op. cit. 2009, pagg.115-147 ).

Nel processo di elaborazione di tale paradigma si richiederebbe, secondo F. Houtart, il passaggio dallo sfruttamento della natura ad un utilizzo

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