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QUADERNI PARMENIDE Rivista di cultura e didattica ANNO IX | 18 | MAGGIO 2014 ISTITUTO SUPERIORE PARMENIDE VALLO DELLA LUCANIA SALERNO

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QUADERNIPARMENIDERivista di cultura e didattica

ANNO IX | 18 | MAGGIO 2014

ISTITUTO SUPERIORE PARMENIDEVALLO DELLA LUCANIA SalERnO

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IstItuto dI IstruzIone superIore

“parmenIde”Vallo della lucanIa

QuaderniParmenide

Rivista di cultura e didattica

Anno IX – Numero 18 – maggio 2014

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QUADERNI PARMENIDE

Rivista semestraledell’Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide”Vallo della LucaniaAnno IX – n° 18 – maggio 2014

DirettoreFrancesco Massanova

RedazioneSanta Aiello, Eugenia Rizzo

CopyrightIstituto di Istruzione Superiore “Parmenide”Via L. Rinaldi, 184078 Vallo della LucaniaTel /fax 0974/4147

www. liceoparmenidevallo. it

Stampa Editrice Gaia Srl - www. editricegaia. it

In copertina: Paul Gauguin, Fatata te miti

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Indice

edItorIale

Francesco Massanova pag. 7

Il VIaggIo dI ungarettI 11Vincenzo Guarracino

sulla scrIttura dI enza sIlVestrInI 19Carlo Di Legge

per la poesIa dI Francesco massanoVa 23Santa Aiello

conVersazIonI dI FIlosoFIa 29Carlo Di Legge

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DIDATTIcA E LAboRAToRI

un breVe VIaggIo dI VIte spezzate 41A cura di Santa Aiello e della classe V A scienze umane

laboratorIo sulla FIgura del mIgrante 51A cura di Teresa Apone e della classe ii A scienze umane

Il VIaggIo della luna In leopardI e altro 59Teresa Apone

VIaggIo nell’antIchItà: elea-VelIa 65Rosanna CaiazzoVelIa: VIaggIo tra antIco e moderno 69Marianna Bruzzese

Il sentImento dI chI resta e aspetta 73Angela D’Angelo

un VIaggIo nella ragnatela del hikikomori da sIngapore a FIrenze 79Arianna D’Angelo

un VIaggIo... appena InIzIato 85Giulia Di Leo

Il VIaggIo della VIta 93Gabriella Di Lorenzo

cammInar sI deVe! 97Nicola Sagaria

analIsI testuale: “dIalogo della terra e della luna”, tratto dalle operette moralI dI gIacomo leopardI 101Eugenia Rizzo

In VIaggIo con la musIca 107Giulia Di Leo

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Francesco massanoVa

EDIToRIALE

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editoriale. 9

Siamo giunti al termine dell’anno scolastico ed è per me inevitabile riper-correrlo a ritroso, soffermandomi sulle varie tappe che lo hanno scandito. Non a caso utilizzo termini riferibili all’attività del viaggiare ed implicanti movimento, direzione e sosta. La nostra stessa esistenza, per il semplice mo-tivo di svolgersi nel tempo, può essere considerata come un lungo viaggio e lo stesso pensiero, implicando un percorso, rimanda ad un movimento e quindi al viaggiare. Quale titolo allora più adeguato – “Viaggi del sentimento” – per questo numero 18 della rivista «Quaderni Parmenide» che giunge alla fine di un anno scolastico caratterizzato da significativi cambiamenti e da esperienze per me sicuramente importanti e formative. considerando il tema proposto, mi piace fare una riflessione: se viaggiare significa andare incontro a luoghi e a persone diverse, affrontare nuove situazioni, ciò accade inevitabilmente anche senza spostarsi materialmente dal posto in cui ci si trova. Ipotetica-mente, per una questione di relatività, è indifferente che Maometto vada alla montagna o che la montagna vada a Maometto, in tal senso, chiunque, pur stando fermo, viaggia ed è meta di viaggio per chi incrocia il suo cammino e per le situazioni nuove che ogni giorno vive. Personalmente allora posso dire che durante quest’anno scolastico, sebbene non mi sia allontanato spesso da Vallo della Lucania e dal suo circondario, ho viaggiato molto!

Ed ancora, dice Mario Soldati: “Il viaggio è un sentimento, non soltanto un fatto”, cosa per me assolutamente vera. Richiamare alla memoria le persone che ho incontrato sul mio percorso e i momenti vissuti durante questo primo anno di dirigenza del Liceo Parmenide, implica rivivere le sensazioni pro-vate, assaporarle, libero da ansie ed in una luce che consenta di inquadrarle nella loro giusta dimensione. Nel rievocare i passaggi principali dell’ultima giornata dedicata alla poesia, riaffiorano piacevoli alla memoria gli interventi del prof. Guarracino, del prof. Di Legge e della professoressa Silvestrini, che,

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10 FraNCeSCo MaSSaNoVa

in vario modo, ci hanno svelato aspetti inediti del mondo poetico e filosofico. Il prof. Guarracino, in modo ineguagliabile, con la dialettica avvincente che

lo contraddistingue, non ha avuto difficoltà a catalizzare l’attenzione della folta platea di alunni e docenti. Attraverso l’analisi di alcune liriche, ha inteso porre in rilievo i tratti essenziali dell’uomo Ungaretti, rafforzandoli con il racconto di aneddoti ed episodi di vita. Il ritratto emerso non è stato quello di un poeta chiuso nel suo impenetrabile ermetismo, ma quello di un uomo con le sue debolezze e i suoi pregi e, alla luce di ciò, le stesse poesie hanno assunto una connotazione del tutto nuova. L’ amico, poeta e filosofo, carlo Di Legge, introducendo le poesie della prof. ssa Enza Silvestrini ha saputo legare, attraverso la sua logica stringente, animata da vivo sentimento, il tema del viaggio ai momenti salienti della vita di ciascuno di noi, momenti gioiosi, ma anche tristi e dolorosi quali quelli che sono stati al centro della tematica delle poesie di Enza Silvestrini. La poetessa ha trattato in maniera essenziale ed autentica il tema della partenza, intesa come momento che precede la morte per chi si trovi a vivere gli ultimi attimi di sofferenza nella malattia. L’argomento ha indotto tutti i presenti ad un’intensa riflessione dalla qua-le siamo emersi sicuramente scossi, ma consapevoli dell’ineluttabilità di un evento che fa parte della vita e che come tale va sentito e vissuto. Ricordo, inoltre con affetto il breve, ma pregnante intervento dell’amico omar Pirrera il quale, declamando una sua lirica, ha gettato uno sprazzo di viva luce sul sentimento più sublime, l’amore.

Infine, come dimenticare gli interventi dei ragazzi del Parmenide, linfa vi-tale del nostro Istituto e vera ragione di essere di tutto ciò che è stato fatto, e i loro insegnanti, anzi direi maestri, le cui virtù, nelle occasioni meno formali, emergono vivide ed incondizionate. Un grazie particolare alle mie docenti collaboratrici Santa Aiello e Eugenia Rizzo che hanno curato la redazione della rivista. Il mio viaggio a ritroso potrebbe continuare ancora, ma è tempo di fermarsi ed invertire la marcia. c’è tanto da fare, ma tutti insieme sapre-mo affrontare il futuro, che come recita il motto del Parmenide ha un cuore antico.

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VIncenzo guarracIno

IL VIAGGIo DI UNGARETTI

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Questo articolo è la trascrizione, ad opera delle alunne chiara Giannella e Marilù Ponzo, dell’intevento di Vincenzo Guarracino in occasione della Seconda Giornata della Poesia.

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il ViaGGio di UNGaretti 13

Mi è piaciuto quello che ha detto il Dirigente Massanova, cioè che solo in cer-ti momenti escono fuori certe parole e certe emozioni. L’emozione si traduce in scrittura, una traccia d’inchiostro e si deposita nelle parole. Sono stato invitato all’università del cairo a parlare di Leopardi. oggi sono qui a Vallo a parlare di Ungaretti, un italiano, nato ad Alessandria d’Egitto, figlio di emigranti di formazione composita. I genitori provenivano dalla Toscana che è molto simile al nostro cilento, soprattutto nelle parti di Lucca e nei dintorni di cui lui parla in una celebre poesia “i fiumi”. Il padre lavorava per la costruzione del canale di Suez e lui nasce nel 1888, i suoi genitori erano lì in un caos di lingue, di emo-zioni e d’ideologie. Nella poesia “il porto sepolto’’ evoca un luogo, dinanzi ad Alessandria d’Egitto, dove avevano scoperto dei resti archeologici che riman-davano all’antico porto di cui si favoleggiava, il porto di Alessandria d’Egitto, e lo legge come una metafora di quello che noi abbiamo dentro, sepolto, qual-cosa che deve essere dissotterrato attraverso la parola.

Il giovanissimo Ungaretti aderisce a un’istituzione fondata da un emigran-te intellettuale italiano, “la baracca rossa” e si capisce che il capannone era inequivocabilmente di colore rosso, una sorta di anarchia costituzionale. È difficile essere persone d’ordine in gioventù, infatti quando va a Parigi il gio-vanissimo Ungaretti vive una situazione di estrema attenzione, di estremo disordine. Parigi era un altro luogo di grandissimo fervore intellettuale e ar-tistico: Picasso, i grandi movimenti del ‘900.

I suoi genitori, come tutti i genitori di questo mondo, vogliono che il figlio abbia il meglio della formazione e studi nei luoghi di cultura. I grandi, gli intelligenti riconoscono le loro esperienze guardandosi a specchio con altri intellettuali del passato.

Negli anni dieci, Parigi vive un momento difficile, di grande disorientamento e di guerra, nascono i grandi movimenti che sconvolgeranno l’arte del nove-

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14 ViNCeNzo GUarraCiNo

cento: Picasso, i cubisti, Amedeo Modigliani, la figura più importante del ‘900 italiano e Ungaretti conosce questi artisti. Sempre a Parigi nasce il movimento che rinnoverà l’arte: il Futurismo. Filippo Tommaso Marinetti è legato ad Ales-sandria d’Egitto, a Parigi fonda il manifesto del Futurismo. Il giovane Ungaret-ti in questo insieme cerca di studiare, ma studia male, va alla Sorbona insieme all’amico Moammed Sceab, che si suicida giovane, figura presente nella raccol-ta “il porto sepolto” legata proprio alla morte di questo amico.

Un testo in cui Ungaretti spiega il suo concetto di poesia è “il commiato”, un saluto, quasi un abbandono, scritto in un luogo che rappresenta un teatro di guerra, perché tutta la poesia di Ungaretti anche quella precedente alla prima Guerra Mondiale e prima de “il porto sepolto”, è legata al tema della guerra.

Ungaretti combatte come volontario nella prima guerra mondiale. oggi guardiamo un volontario in modo strano, ma i volontari venivano anche da paesi come l’America o da Parigi. Ungaretti, giovane infatuato di idee maz-ziniane, ha un atteggiamento aggressivo, ma durante la guerra matura una concezione differente e pacifista. Nella poesia “il commiato”, scritta il 2 otto-bre 1916 in piena guerra, il poeta descrive il luogo del carso, dove combatté e scopre il carattere effimero e fragile dell’uomo. celeberrimo è il testo: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Tutti i commentatori concordano che omero aveva fatto una simile citazione, e anche Dante nell’Inferno parla delle foglie che una a una si staccano, però Ungaretti la rinnova totalmente, anche nella grafia del testo infilando una dietro l’altra queste parole in una maniera che è singolare e straordinaria.

In Italia aveva fatto scalpore un’invenzione tipografica come quella che ope-rava Ungaretti. Non ideata da Ungaretti, portava per la prima volta a una nuova dimensione lirica, operazione che avevano già fatto anche i futuristi. In Francia Guillaume Apollinaire utilizzava i famosi calligrammi, uno dei più importanti è il testo “Piove” dove le parole scorrono dall’alto verso il basso quasi ad animare il movimento della pioggia. Nelle scuole medie i professori più sensibili fanno comporre poesie a forma di fiori, di goccia. Una celeberrima poesia di Pasolini è a forma di rosa. Ma Pasolini non ha niente a che fare con questo poeta, pur evidenziando una certa attinenza con questi esercizi formali.

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie: una frase che a noi sembra di-sporsi modestamente su un unico verso, graficamente è posta su cinque versi, perché fa questo? Ungaretti lo spiega al critico Ettore Serra con l’ausilio della lirica “il commiato”:

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il ViaGGio di UNGaretti 15

Gentile Ettore Serra, poesiaè il mondo l’umanitàla propria vitafioriti dalla parolala limpida meravigliadi un delirante fermento. Quando trovoin questo mio silenziouna parolascavata è nella mia vitacome un abisso.

È una poetica questa qui, una definizione del proprio modo di concepire la poesia, un’indicazione per tutti quelli che vogliono scrivere poesia. comincia da qui la poesia del ‘900.

Molti hanno considerato Ungaretti il caposcuola del movimento poetico che da lì a un decennio, alla fine del 1920, si chiamerà Ermetismo. Ungaretti rifiutava questa definizione, era troppo orgoglioso e vanesio.

Io ho conosciuto Ungaretti e per questo lo so. Molti del mio tempo, che hanno la mia età, ricordano Ungaretti quando leggeva, quando interveniva in tv, quando introduceva delle opere. Tra le tante cose, ha introdotto un famosissimo sceneggiato televisivo “L’Odissea” e sembrava omero, qualcosa d’impressionante.

Ho avuto la sorte di conoscerlo e possiedo anche un suo autografo, impor-tantissimo, l’impronta della sua mano, la sua mano immersa nell’inchiostro e poi poggiata su un foglio bianco con la sua firma. ci pensate, in casa mia ho l’impronta della sua mano incorniciata. Lui si firmava semplicemente: Ungà!

Ungà è diventato fondamentale per tutta la storia poetica del ‘900, soprat-tutto quando nasce il movimento dell’Ermetismo. Ma cosa voleva dire? Una poesia ermetica ha qualche cosa dentro che deve essere decifrata, com’era Ermete Trismegisto, un personaggio dell’antichità, un medico che aveva virtù taumaturgiche. Anche la parola deve essere come un qualcosa di taumaturgi-co, qualcosa che ti rinnova e ti salva.

Molti poeti aderiranno a questo movimento, il primo che mi viene in mente è Salvatore Quasimodo, ma molti altri fiorentini, soprattutto Mario Luzi, po-eti che hanno avuto un ruolo, un peso anche nella nostra storia civile. Mario

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Luzi, morto nel 2005, era stato senatore a vita. Aveva usato perfino sfidare le ire del cavaliere nel Senato. Poeti come Luzi, boccioni, Alfonso Gatto, un nostro poeta del salernitano, ti entrano nel sangue e veramente ti nutrono.

caratterialmente Ungaretti un po’ era orgoglioso e un po’ si faceva indie-tro. Qualche critico importante ha detto che lui stesso era ermetico, possede-va cioè i caratteri del movimento di cui sarebbe stato il fondatore.

La stagione in cui nasceva l’Ermetismo è la stagione degli anni ‘30 ed è in quegli anni che si colloca una raccolta importante di Ungaretti “Sentimento del tempo”. La poesia “L’isola” è il testo emblematico di questa raccolta. Alla stazione di Vallo – castelnuovo, ho notato un grande tabellone pubblicitario con Elea – Velia su cui è citata una frase di Ungaretti, quindi anche alla gente più comune si può offrire una frase di un poeta così curioso della cultura antica e di Velia.

Su Palinuro il nostro amico De Marco, scomparso un anno fa, aveva parla-to proprio del sorriso di Palinuro e anche un testo di Ungaretti è dedicato a questo mito e personaggio virgiliano. Ungaretti aveva viaggiato molto e, per riallacciarmi alla raccolta “il sentimento del tempo”, c’è da dire che aveva sog-giornato con grande interesse a Recanati dove era stato invitato nel 1928 dai conti Leopardi. In un primo momento aveva nutrito un sentimento di diffi-denza nei confronti della modestia, quasi meschinità del natìo borgo selvaggio e del comportamento della famiglia Leopardi nei confronti del ricordo del loro antenato, cosa che può constatare chiunque vada a Recanati. Non sono cambiati molto, li ho conosciuti e frequentati, piccoli, modesti e anche me-schini proprietari terrieri di paese, tranne la contessa Anna Leopardi, morta qualche anno fa, che conservava e aveva il culto della memoria dell’antenato. La stessa impressione aveva avuto anche Ungaretti. Stando lì e respirando l’aria del palazzo Leopardi, impregnandosi dello spirito del poeta recanatese che aveva scritto pagine bellissime, attraverso quel soggiorno, aveva potuto capire molte cose della poesia, non solo di Leopardi, ma italiana in generale. In realtà la sua cultura era stata cosmopolita, una cultura straniera, una cul-tura francese, ma soprattutto una cultura legata a certi movimenti filosofici che non avevano niente in comune con la filosofia italiana dell’800 e del’900.

Aveva studiato con H. bergson a Parigi, parlava d’intuizionismo bergsonia-no, che non ha niente a che vedere con la filosofia italiana. La prima raccolta, “Allegria die naufragi”, non la cito, perché aveva una prefazione di benito Mussolini e questo fu un disonore per Ungaretti. Il grande Ungaretti era anche un povero uomo, da un certo punto di vista il poeta non è solo chi ha l’aureola in testa e la testa tra le nuvole, ma è uno che deve anche mangiare.

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Era come tanti, ma poi dopo, chiaramente, col tempo, capirà molte altre cose. La conoscenza di Leopardi gli permette di riattraversare la poesia ita-liana: s’infatua di Petrarca e s’innamora di Dante, dello Stilnovo e di sonetti come “Tanto gentile e tanto onesta pare”. Rivaluta la poesia italiana, però era un giovane che si era fatto da sé, aveva letteralmente un grande istinto, ma non approfondiva e quello che scriveva, anche dal punto di vista critico, ri-vela che non c’è una grande struttura intellettuale. Per esempio, su Leopardi ha scritto molte cose, ma nessun leopardista le sottoscriverebbe, insomma, è un Leopardi a uso di Ungaretti. L’interpretazione che lui fa de “L’infinito” è assolutamente lontana dai canoni, della filosofia leopardiana, lo legge come un’esperienza mistica e “il naufragare m’è dolce in questo mare”, è una vera e propria estasi mistica, uno spiritualismo che non ha niente a vedere con Leopardi. Noi, però, lo leggiamo con emozione e ci piace leggerlo perché poi troviamo il riflesso di un altro celebre testo di Ungaretti, forse il più celebre, scritto anche nei cioccolatini, due versi, che addirittura sembrano un poema: Mi illumino d’immenso, una pregnanza lirica sbalorditiva, che nessuno può non conoscere e serve per sintetizzare forse L’infinito di Leopardi.

Ungaretti, alla fine degli anni ’30, è diventato un autore di punta della casa editrice di Arnoldo Mondadori. Il vecchio Arnoldo Mondadori, oggi cava-liere, fondò la famosissima casa editrice nonostante fosse uno stagnino, un uomo che non aveva una cultura molto vasta, piuttosto fragile e superficiale, ma aveva capito che dalla cultura vera non si poteva non ricavare niente. convoca Ungaretti, ormai poeta affermato, e, quando lo vede entrare nello studio, tutto dimesso, con un atteggiamento da contadinotto, anche perché nel ’38 era morto il figlio a cui aveva dedicato una straordinaria raccolta, Arnoldo si alza, allarga le braccia, lo abbraccia, e dice: “Maestro, m’illumino d’immenso”, citando questi versi un po’ stordito e un po’ emozionato.

Ungaretti dirà: “conosceva tutta la mia poesia!”. Tra tutte le raccolte che aveva pubblicato, “Sentimento del tempo” prima e

“il dio del tempo” dopo sono cosa mirabile, perché più simili e più vicine alla grande tradizione soprattutto leopardiana.

Ed è proprio durante il soggiorno a Recanati che recupera dentro di sé la parte migliore del poeta, la parte più preziosa e più sconosciuta. Ricordiamo che a Parigi ha modo di conoscere piccoli frammenti del freudismo, della psicanalisi, l’inconscio che attraverso la parola può venire fuori.

“Porto sepolto” e “Allegria di naufragi” rappresentano la scoperta del senso di essere uomo nella fragilità.

Le poesie legate alla trincea, le parlate e i saluti che i soldati si scambiano

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sotto il bombardamento nemico equivalgono alla scoperta dell’essere vivi, che è fondamentale e assolutamente necessaria; quindi “Allegria di naufragi” è uno stimolo, mentre “Sentimento del tempo” è il sentimento che anima, emoziona e ama.

c’è una leggenda, ma vi cito solo un titolo “Il pensiero dominante”, testo straordinario, assolutamente unico, riferimento ad un altissimo e possente dominatore. Vi consiglio di leggere anche “Sentimento del tempo”: “Oggi sono triste e scrivo cose tristi, oggi sono emozionato e scrivo cose emozionanti”, niente è dato per assoluto ed è anche un cambiamento di prospettiva rispetta a quel testo che vi ho citato prima.

Qui abbiamo idee scavate nella vita come in un abisso, come qualcosa che preesiste nel sentimento anche leopardiano, con la consapevolezza che io vivo e devo vivere i principi di responsabilità, è una grande lezione.

“Sentimento del tempo” ci appare frammentario, essenziale e scheletrico. Ungaretti muore nel 1970 e non vi dico in che circostanze se no sarebbe

scandaloso per l’udito delle nostre ascoltatrice.

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carlo dI legge

SULLA ScRITTURA DI ENzA SILVESTRINI

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SUlla SCrittUra di eNza SilVeStriNi 21

Il successo di Sulla soglia di piccole porte, (Napoli, 2008; II edizione, Napoli 2012) è tale che il libro (nel 2011-12 - ora alla seconda edizione) è divenuto un piccolo caso letterario e risulta esaurito e introvabile (p. 9).

Le parole, scritte a p. 20, “sento come una maledizione biblica”, sono piena-mente giustificate anche nel contesto del libro di poesia Partenze (Lecce 2009).

con questo libro di poesia così essenziale l’autrice ha vinto il premio “San Vito al Tagliamento” nel 2010: un significativo successo, per dire che un’au-trice meridionale vince un premio nel profondo nord – sarà forse un’eccezio-ne che conferma la regola, può darsi: e perché?

L’ ultimo libro tratta la delicata materia dell’omosessualità e s’intitola Di-versi amori (Napoli 2013). È ancora in corso di presentazione.

Rispetto al primo libro (p. 155, ), Aldo Masullo, il noto professore di filoso-fia teoretica e morale della Federico II di Napoli, definisce la modalità della scrittura di Enza Silvestrini come fenomenologica.

credo che sia così, e devo precisare – per tutti – che la fenomenologia non è soltanto luogo di essenze e di oggettività, ma anche, in quanto rivolta al nostro modo di esperire (intenzionare) tali oggettività, luogo di differenze: proprio come quando si fa poesia e letteratura.

Perciò credo che la scrittura di Enza dica, inevitabilmente, qualcosa, in modo molto diretto, pur nella distaccata modalità che lei usa, – non tanto della sua vita, perché ciò è ovvio – e che Partenze si possa leggere sulla stessa linea del precedente Sulla soglia di piccole porte; ma qualcosa della sua ma-niera di vedere la propria vita e quella degli altri: della sua anima, dunque.

Sulla soglia è una cronaca “a tratti secchi” di un’esistenza, con “aderenza stretta (…) al (…) presente” (ivi, 157).

Un io può parlare di sé e far parlare il sé senza concessioni al sentimento o

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22 Carlo di leGGe

al sentimentalismo. E comunque qui non si vedono concessioni alla retorica. L’io che parla è impersonale, per una sorta di “distanziamento dal sé” (155). Ma tale distanziamento viene a rendere in modo efficace, incisivo, la propria

vita: restituisce i tratti inconfondibili e unici della propria esperienza. Di sé. Anzi, come dice Masullo, il segreto della riuscita sembra risiedere nella ten-

sione tra “rigore di stile narrativo” e “inguaribile memoria del dolore” (p. 156). In Partenze, si vedano i versi della separazione dal padre, in al padre (15),

l’eco biblica delle ossa (19), la pietas filiale (23 sgg. ) e quella per un figlio perduto prima della nascita (35 sgg. ).

Nella bellissima prefazione, si spiegano di questa poesia e della poesia in genere due cose: perché la poesia salva la vita e perché nella poesia l’indici-bile prende forma.

La scrittura e la poesia di Enza Silvestrini dicono cose che ci sono; e le di-cono nella maniera di chi parla, che parla in prima persona. Nella scrittura, anche poetica, non dobbiamo attenderci soltanto il piacevole, ma tutto: per-ché la poesia parla di tutto e abita in tutti i luoghi.

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santa aIello

PER LA PoESIA DI FRANcESco MASSANoVA

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Per la PoeSia di FraNCeSCo MaSSaNoVa 25

…ho raggiunto le lontane terre dei mitie le foci dei grandi fiumiirti di ibridi animali…

Sono i versi centrali di Viaggio, una delle tre poesie presenti in questo arti-colo, di Francesco Massanova. Evocano, oltre al tema del viaggio, un uomo Odisseo, la più antica testimonianza del mondo greco, le cui carni smembrate e dilaniate hanno nutrito infiniti poeti alla ricerca della celeste Itaca. Trasmet-tono immediatamente l’effetto dell’emozione della meraviglia per il mondo.

Francesco Massanova è musicista, compositore, direttore d’orchestra e suo-na il clarinetto. Ma, anche un autodidatta, che ha amato e coltiva la poesia e la lettura. Musica e poesia come i grandi della musica: bach musicista poeta, Richard Wagner musicista, poeta ed esteta, Ildebrando Pizzetti compositore, poeta, critico, per citarne solo alcuni.

Francesco Massanova è nato a Stella cilento un borgo di 800 abitanti che sorge ai piedi del Monte Stella, in provincia di Salerno. Sulla cima si trova una piccola chiesa risalente all’anno 1000, dedicata alla Madonna del Mon-te Stella. Nella località castelluccio sono ancora visibili i resti del castello, vecchia residenza dei Guastaldo. Il paese conserva un aspetto arcaico e la flora è caratterizzata da lecci, fichi d’india, carrubi, corbezzoli, mirti, stelline calabresi, ginestre, ontani e castagni.

ViaggioUn refolo di ventoha gonfiato la tenda della mia stanza azzurra, dal pavimento doratoi putti hanno levato l’ancorae sono salpatocon la mia ciurma di silenziose larveper mari dai colori surreali.

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26 SaNta aiello

in un batter di cigliaHo raggiunto le lontane terre dei mitiE le foci dei grandi fiumiirti di ibridi animali. Ho affrontato gli uragani dei ricordiE le tempeste di memorie di alberi sfibrati:sono stato sopraffatto, ho trovato la salvezza aggrappandomiad una fortunosa zattera odorosa di lavandae chiudendo, in extremis, il balcone della mia stanza dorata nel sole del meriggio.

Il 21 agosto 2010 Massanova si trovava a soggiornare a cuciniello, picco-lissimo borgo di Stella, nella casa paterna. La fonte d’ispirazione del com-ponimento è da ricercare sicuramente nel suo paese, di impianto medievale e di cultura arcaica. Il componimento incentrato sul viaggio è caratteriz-zato da una forte aggettivazione. Gli aggettivi: azzurra, dorato, silenziose, lontane, grandi, sfibrati, fortunosa, odorosa, dorata amplificano l’atmosfera calda, dorata e suggestiva della poesia. Parole chiavi sono il viaggio, il mito e il vento. Un refolo di vento, che levandosi improvvisamente e a intermit-tenza, ma sempre nella stessa direzione, dà subito l’idea del desiderio di ritrovare i valori di cui viene privato dallo squallore e dalla meschinità della vita quotidiana e del mondo che lo circonda. Il poeta guidato da angeli-bambini conosce il mondo dei miti1 in compagnia di larve silenziose. Ma quale significato ha attribuito il poeta alle larve? Letterale: spettri maligni tormentatori dei vivi come credevano i Romani, o in senso figurato l’“errar larve maligne” di Tasso, “quel traditore in sì mentite larve” di Petrarca, “se tu avessi cento larve / sovra la faccia” di Dante o, più semplicemente, è una metamorfosi per mettersi al sicuro da gli uragani dei ricordi? Al rigo 13 gli alberi sfibrati fanno ricordare l’albero mutilato di Ungaretti. Gli alberi sfibrati sono paesaggio esteriore, ma anche dimensione interiore. La spos-satezza degli alberi è spossatezza dell’anima causata dal modernismo del vivere quotidiano che diventa sempre più spesso guerra per vita. Il poeta – odisseo torna alla sua Itaca – stanza dorata non solo nel pavimento, ma nella sua interezza, è il sole del meriggio, quel meriggio pallido e assorto di

1 A proposito del concetto di analogia e mitologia in poesia, si veda come tratta l’argomento carlo Di Legge in Ontologia, Marcus Edizioni, pag, 109.

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Per la PoeSia di FraNCeSCo MaSSaNoVa 27

Eugenio Montale. Racconta un viaggio immaginario in un giorno a ridosso del ferragosto

quando la mente è a metà tra il riposo e la ripresa del lavoro.

ispirazioneCorpuscolo estraneoNelle valve di un’ostricapersa nell’inconscio mare. Sottile dolore pulsante, innesco di un fuoco accecante, nucleo spigoloso di una perfetta forma unitariacatalizzatore delle secrezioni dell’animaconcrete in preziose perle di linguaggi diversi, eterei monili al collo di una disorientata umanità. Ancora il viaggio. È il viaggio di un’umanità disorientata.

Il componimento ispirazione è un’analogia tra l’essere di una perla colti-vata, ottenuta mediante l’introduzione di un corpo estraneo nella conchiglia e l’essere dell’uomo soggetto al dolore pulsante della vita. Mentre la perla si perde nel mare inconsapevole del suo dolore, l’uomo per non perdersi nel mare della sofferenza catalizza le reazioni e le inconsapevolezze e le sovrap-pone a piccoli strati nelle cavità dell’anima come a guisa di rocce. Tanto la perla quanto il mare veicolano un concetto di vastità e immensità. Questa vastità concorre, inoltre, all’idea di ambiguità: il pensiero non è direzionato verso un obiettivo preciso, ma naufraga in un immenso mare che ricorda quasi l’infinito di Leopardi. In questo mare vi è poi un’ostrica, che potrebbe simboleggiare ogni ostacolo alla ricerca del Vero. La perla può essere, per-ciò, il simbolo di questa verità, che tutti vogliono e cercano, tanto preziosa quanto rara, come una perla del mare. Questo vero viene, poi, trasfigurato poeticamente nell’immagine di eterei monili.

Un chiasmo chiude la descrizione del componimento: l’umanità, anche se disorientata, rimane sempre una preziosa perla; mentre monili al collo parlano linguaggi diversi. Il termine eterei dell’ultimo rigo evoca Foscolo: “vide/ sotto l’etereo padiglion rotarsi/più mondi.

DubbiNella luce incerta del mattino,

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28 SaNta aiello

quando le parvenze non sono ancora definite, mi gocciano in petto leggerele stille amare dei perché irrisolti, dilavando il sottile velo che involge l’incoscienza, allora vago confuso tra le pieghe dell’anima, fino allo sfolgorare glorioso dell’invitto soleche ogni dubbio oscura, ridandomi la sicurezza dell’illusoria certezza.

Sia lode al dubbio! scriveva bertolt brecht. il dubbio è un prezioso unguento; / benché bruci, / esso guarisce. / io ti dico, invita il dubbio / quando il desiderio t’incalza, / invoca il dubbio / quando la tua ambizione / sorpassa gli altri in pensiero […] scriveva Krishnamurti.

Quest’ultimo è un componimento metafisico, in cui il sole sinonimo di luce eterna è parola chiave.

Dubbi è il viaggio dell’io tra le pieghe dell’anima, l’alter ego del poeta che si stupisce per la bellezza del mondo, per le sue immagini e si emoziona per quello che c’è e per quello che si vede e che non si vede. È suggestiva l’imma-gine dell’io che vaga e rimane quasi imbrigliato tra le pieghe dell’anima, e si contrappone allo sfolgorare dell’invitto sole. Dopo il sorgere del sole, i dubbi si dissolvono: i perché sono meno amari, incoscienza diventa consapevolezza, e la certezza del divino, anche se a volte illusoria, dà sicurezza.

Si conclude qui questa breve presentazione delle poesie di Massanova. Si chiede venia all’autore e ai lettori per la semplicità dello scritto. L’intento era di dare visibilità ad un altro poeta cercato dalla poesia, come scriveva Pablo Neruda: La poesia venne/ a cercarmi. Non so, non so da dove /sia uscita, […] e scrissi la prima riga incerta […] sciocchezza/ pura saggezza/di chi non sa nul-la, e incuriosire i lettori. Marcel Proust scriveva: Ogni lettore, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico, che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.

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carlo dI legge

coNVERSAzIoNI DI FILoSoFIA

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CoNVerSazioNi di FiloSoFia 31

Queste note si considerano introduttive alle conversazioni con gli studenti di filosofia dell’I. I. S. “Parmenide” di Vallo della Lucania, che avranno luogo la mattina di mercoledì 23 aprile 2014.

ontologIa

Ontologia è la scienza dell’essere in quanto essere – nel modo in cui la filo-sofia può essere scienza. cosa vuol dire questo?

Anzitutto, il termine ontologia certamente non nasce con Parmenide; tut-tavia la testimonianza prima è di Parmenide, nel senso che egli è il primo, com’è noto, a pensare e a porre il problema dell’essere.

La filosofia è in generale il campo del pensabile in quanto pensabile, non è scienza come le altre scienze, nel senso che la filosofia non delimita il proprio oggetto nella maniera delle scienze, ma in generale delimita e, nel caso, illi-mita; certamente, se la filosofia s’interessa alla mente, allora viene a contatto con le scienze che si occupano della mente, comunque questa venga intesa, e dialoga con quelle, entrando come potenza analitica e sintetica di pensiero nei loro ambiti, nei presupposti, nei metodi, nelle conclusioni; ma, certo, la filosofia non s’interessa solo alle scienze della mente, bensì, potenzialmente, a tutto il pensabile.

L’ontologia è quell’ambito o campo filosofico che si occupa dei presupposti dell’essere, ovvero di quei caratteri che l’essere non può fare a meno di ave-re, se debba considerarsi tale, cioè essere; e per essere s’intende, in qualche senso preciso, il presupposto di ciò che è. Di conseguenza l’ontologia, in ge-nerale, contiene delle indicazioni su cosa sia da vedere come necessario alla realtà, e cosa sia da considerare accessorio o non necessario.

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32 Carlo di leGGe

Il senso preciso dell’essere di ciò che è va precisato di volta in volta. La questione sembra più complessa di come viene posta da Parmenide:

1) Parmenide è il primo a porre la tesi dell’essere ma, sulla strada da lui indicata, sembra non si possa dire e pensare altro che l’essere. Si potrebbe dire così: il movimento della filosofia, se vuol dire l’essere del mondo e non l’essere, passa dalla posizione della pura contraddizione di Parmenide (l’es-sere è; il non-essere non è) a quelle della contrarietà e della sub-contrarietà (tra due opposti, possono esservi molte sfumature o posizioni possibili).

2) La corrispondenza pensiero-essere già nel pensiero antico – con Gorgia – viene decisamente posta in discussione. Ed è tutt’altro che un sofisma, nel senso che non si tratta affatto un trucco retorico o dialettico. Si evidenzia così, accanto alla dimensione dell’essere, posta da Parmenide, quella non corrispondente del pensiero – e, nello stesso brano di Gorgia, anche l’altra, quella del linguaggio e della difficoltà della comunicazione di ciò che è.

Ma l’ontologia è, in senso generale, l’affermazione del fondamento e il pen-siero sempre la presuppone. ogni pensiero che si affaccia alla successione storica del pensiero filosofico evidenzia dei presupposti, in base ai quali – sulla base dei quali, è il caso di dire – il pensiero può sostenere ciò che poi intende affermare. Questi presupposti sono i presupposti dell’essere, quindi costituiscono l’ontologia di quel pensiero.

Nella storia del pensiero noi possiamo assistere a tanti tipi di manifestazio-ne del pensiero, che si basano su diversi tipi di presupposto. Ad esempio, l’ontologia di Democrito si fonda su atomi e vuoto e si dirà, con una certa ragione, che si tratta (ma non è proprio così) di un’ontologia materialistica; quella di Platone, che si fonda sulle idee, viene detta idealismo, e le due onto-logie appaiono, almeno se così definite, come contrapposte.

Sulla ragione della contrapposizione e delle differenze tra ontologie diverse e filosofie diverse non è il caso, qui, di insistere.

basti dire, per introdurre il discorso del libro Ontologia. Elenchi della terra e una specie di oceano, che qui si parla di presupposti del nostro mondo, ov-vero dei fondamenti di ciò che è importante per la nostra vita e ne determina la forma: non, quindi, del mondo in generale. Questo libro non afferma – vi si trova scritto – i presupposti generali della realtà, perché di questi si occupano oggi la fisica delle particelle o grandezze subatomiche e l’astrofisica. Anche questo è vero fino a un certo punto, ma verrà forse chiarito nella discussione.

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CoNVerSazioNi di FiloSoFia 33

etIca

Etica è la scienza filosofica della formazione del carattere, dunque il campo del pensabile in quanto pensabile, la filosofia, che si occupa della vita singola rispetto a sé e agli altri (mentre la politica si occupa della vita associata e delle forme dello stato), e, analogamente che per l’ontologia, indica all’uomo ciò che è preferibile fare e ciò che è preferibile evitare. Analogamente: ovvero sulla base di un’ontologia, in genere, perché nel pensiero di un pensatore ciò che viene pensato in generale mostra una certa coerenza, e dunque l’etica do-vrebbe fondarsi sull’ontologia, per quanto è scritto sopra, alla voce ontologia.

Ma il titolo di questa etica delle passioni è eros e paradosso e il sottotitolo va letto un po’ ironicamente, nel senso che per un’etica delle passioni si deve intendere nel senso che l’etica appartiene alle passioni, e non, come si trova nella tradizione classica della filosofia, alla ragione. Il genitivo, in etica delle passioni, va inteso come un genitivo soggettivo.

Si tratta di un sovvertimento del punto di vista, rispetto alla tradizione del pensiero filosofico. L’etica non viene pensata e scritta da un soggetto – l’auto-re – che si qualifica come soggetto prevalentemente pensante e razionale, ma, come tutti gli uomini, come uomo-mente caratterizzato dalla grandi passioni che ne formano la personalità e lo spingono a scrivere, a fare e a dichiarare quel che fa, sente e pensa. Perché questo è l’uomo in generale, e lo si descrive così perché le psicologie del profondo, da oltre un secolo, lo descrivono in questo modo. La filosofia deve dialogare con le scienze, si è detto: di conse-guenza deve anche tener conto di alcune acquisizioni delle psicologie, senza limitarsi a ignorarle nel nome del mito della razionalità pura.

L’uomo è struttura di personalità psico-fisica il cui carattere viene dato dalle grandi passioni che lo costituiscono – ogni uomo porta le sue, e lo si riconosce altrettanto facilmente da quelle che dal volto – e la formazione del carattere non è di natura razionale, se si pensa che la ragione, secondo questi modelli, è solo la punta emersa della personalità psico-fisica. Dunque il pensiero ne viene condizionato, ma questo non è in sé negativo, perché le passioni, di cui il pensiero fa parte, possono spingere l’uomo alle sue più grandi conquiste.

Ne deriva che, se l’etica tradizionale è in prevalenza prescrittiva – ovve-ro descrive l’uomo in generale (antropologia, psicologia) ma soprattutto gli indica una strada del cambiamento, valori e fini del lavoro su di sé – l’etica delle passioni è soprattutto descrittiva – in prevalenza, cioè, offre una visione

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34 Carlo di leGGe

dell’uomo, e ben poco si occupa della sua modifica: le passioni vanno colti-vate, quando sono positive; combattute con ogni mezzo, se sono negative. Il carattere in linea di massima è già dato e vi si può intervenire ben poco.

Ma esiste una serie di gradi intermedi tra le grandi passioni e i comporta-menti, su cui di fatto le psicologie del rimedio e della cura – le psicoterapie – e la psichiatria con le neuroscienze cercano, con qualche successo, di inter-venire.

Questi sono solo alcuni degli argomenti di eros e paradosso, che mostra una struttura piuttosto complessa e ottiene riconoscimenti, anche da parte di au-tori molto qualificati, a causa della innovativa maniera di vedere il rapporto ragione-passioni o emozioni.

Presentazione dei due libri di filosofia

carlo Di Legge, Eros e paradosso. Per un’etica delle passioni, Marcus Edi-zioni, Napoli 2014

carlo Di Legge, Ontologia. Elenchi della terra e una specie di oceano, Mar-cus Edizioni, Napoli 2014

Lettura iniziale:Vengo dai puri, o pura regina degli inferi,

o Euklès ed Eubulèus e voi altri, dèmoni e dèi:mi vanto di appartenere anch’io alla vostra stirpe

(Lamina orfica di Turi, trad. di Vincenzo Guarracino)

1. L’uomo ha qualcosa di divino

A prescindere dalla realtà dell’etero riferimento, ovvero la comunanza qual-cosa/nulla con Dio, v’è qualcosa nell’uomo che possa far parlare del divino in lui? Di segreto, quasi ineffabile, di creativo?

Alludo al cervello-corpo come inconscio, qualcosa come nulla, nulla come qualcosa; ma nulla influente e ne vorrei discutere in analogia con i tentativi esperiti nel corso della storia dello spirito che parla dell’ignoto: in analogia

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con i tentativi teologici (s’intende che, viceversa, tuttala teologia può essere ricondotta a un discorso sull’uomo).

S’intende qui che il problema dell’inconscio nell’uomo è analogo al proble-ma del divino per l’uomo, in questo stesso senso, perché ineffabile/creativo e ignoto

– se l’individuo è supposto avere qualcosa di creativo che viene dal nien-te, in quanto nulla, MA di cui possiamo dire – la mia tesi è che qui s’illumina tutta la scena della praxis e della poiesis umana – come archeologia e ricerca ontologica della genesi della invenzione/scoperta (l’intuizione, d’improvvi-so: si manifesta in immagine” Relatività, la mela di Newton, l’éureka…),

– e di relazionale, collettivo, dunque analogo ad altri che me, non solo nella sfera cosciente, come intuisce Jung; non soltanto la possibilità della comprensione consapevole e della comunicazione presuppone l’analogia ma anche la parte inconscia: per la quale, pur nelle enormi differenze tra individui, siamo come un tutt’uno, anche quando si realizzi in un solo in-dividuo, che risulta solo un prestanome con un nome in apparenza “pro-prio”… (anche i prodotti dell’inconscio sono dotati di comprensibilità e comunicabilità … la poesia come l’invenzione elettronica).

2. Di tali presupposti, assimilati al divino, come si parla?

come della nostra personalità intera, in circolo – in tre concetti e una strut-tura logica o discorsiva (assieme alla logica/dialettica):

– il tema-concetto dell’immagine – cosa intendo per immagine? Non come un’etichetta, anzitutto. Ma: le immagini che si presentano all’espe-rienza – diciamo, in primo luogo, quelle percettive ma non solo: immagi-ni (ipotizzate) profonde o nascoste e influenti, immagini sacre, immagini come circuiti neurali: Damasio perviene a dire che gli stessi sentimenti sono immagini, nella modalità in cui egli, empiricamente, descrive e defi-nisce le immagini. (due per la descrizione, uno per la cosa/sostanza),

– Se la filosofia può e deve fondarsi sulla mente, sarà della sua parte cosciente come del suo fondamento inconscio; dunque deve occuparsi

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dell’emozione, e questa può essere indagata e descritta. Intendo per emo-zione secondo come definisce I. Matte blanco. Si veda come la filosofia contemporanea ancora manchi in questo: proprio S. Natoli, un mio riferi-mento importante, ma anche altri, afferma che l’emozione è irrazionale (p. 74 etica: “le passioni sono irrazionali. Per non essere distruttive è necessa-rio che vengano ordinate”). ciò che è non razionale è irrazionale e dunque non indagabile? Non è questo il punto, secondo me: perché nel trattare le questioni secondo l’ordine di idee razionale/irrazionale si rischia ormai un falso dilemma (Heidegger: “l’odio” Etica p. 65). Ma la passione, le emo-zioni, non il logos, ci muovono ad agire nel mondo.

– E questo aspetto, per me e per noi, è associato alla sfera del significato (Hillman: dove c’è emozione, c’è significato); non si tratta di significa-ti indifferenti, che si esauriscono in un dato tecnico – perché, se questo mondo di cui parlo è mondo-per-me, allora, perché il mondo divenga per me significativo, è necessario che intervengano le motivazioni e quindi le passioni, che ci raccolgono e rendono lucidi ai fini dell’azione nel mondo.

– Dunque: le immagini si presentano sempre dotate di una qualità, ov-vero associate alle emozioni e al significato (l’esempio citato da Damasio a p. 59 Ontologia, quello analogo di Oda a la flor azul di Neruda): perciò le immagini non sono un catalogo di oggetti numericamente distinti: questa è un’immagine di, quella è una foto di …; ma il problema dell’associazione tra immagini, emozioni e significati è anche il problema della qualità dei nostri stati rappresentativi (qualia), che tanto appare importante, per quanto esso resti tuttora inspiegato e quindi sia di imbarazzo per il filosofo come per il neuroscienziato. Resta che “l’intensità dell’emozione è il marcatore somati-co dell’importanza relativa dell’immagine” (Damasio, in Ont. , 64).

Se è così, cosa s’intende propriamente oggi per pensiero? E come la filosofia pensa e come si occupa dell’ontologia e dell’etica, in quali strutture di pensiero/linguaggio?

– In prima approssimazione: si tratta di una ragionevolezza che si fon-da su una logica certa, a partire dall’ individuazione di figure, nel mare della dissimiglianza, o delle eccessive e sfumate somiglianze, di cui alcune, poche figure, riescono universalmente note come simmetrie di fondo al pensiero e al discorso, e non sono, a rigore, né razionali né irrazionali, né

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logiche né illogiche. Ma queste strutture usano immagini. Il procedimento o STRUTTURA di pensiero/linguaggio cHE FoNDA nel discorso l’uso delle immagini è l’analogia. I caratteri generali dell’analogia sono questi: che si serve di immagini e che ha una struttura.

– l’analogia si serve di metafore o parole-immagine, e del procedimento del traslato metaforico – per non dire che genericamente: metaphéro, tra-sferisco con la parola-immagine, significati; ma, di conseguenza, soprat-tutto, genera emozione … con le buone o potenti analogie e azione.

– La struttura dell’analogia è quella della proporzione sia a due o a quat-tro termini, del tipo 2:4 = 4:8 (la vera e propria proporzione matematica);

tuttavia su questa vengono costruite le analogie metaforiche di cui sempre nel quotidiano ci serviamo, p. e. (A:b = c:D “Io sono la vite voi siete i tralci” – Giovanni, XV. 5 – p. 93 ont. ).

Si verifica anche qui la proporzione tra due coppie di termini – La vite (cristo): alla chiesa = i tralci: ai fedeli ovvero Io:voi = la vigna: i tralci – e si potrebbe continuare …); si tratta della forma aristotelico-tomista dell’ana-logia di proporzionalità metaforica, che presuppone le differenze tra i due ambiti piuttosto che la somiglianza – non si tratta qui di presupporre un’ap-partenenza dei termini, come nel filone Agostino-bonaventura del rapporto modello/copia, dunque dell’uomo imago dei); la somiglianza è da trovare tra gli abissalmente distanti.

Ma solo da questo dipende la possibilità di parlare della divinità come essen-te (ente) IN ANALoGIA cHE PER L’UoMo… e il “suo” inconscio. Dun-que l’analogia entis fonda la possibilità di dire l’ignoto nel discorso/pensiero: altrimenti, solo la teologia negativa (che comunque ricorre a similitudini …).

– L’analogia fonda, con la logica e la dialettica, tutta la filosofia, campo del pensabile in quanto tale, da Eraclito e Parmenide in poi e in generale ogni discorso che abbia significato per noi, a meno che la filosofia non si occupi specificamente di logica o di logica formale. Tale è il senso delle invenzioni platoniche. Nel Settecento Vico indaga le figure, fondamento dell’analogia; e la presenza di analogie, ieri come oggi, risulta fondamen-tale in tutte le correnti filosofiche di maggiore impatto. Nel nostro tempo i filosofi hanno trattato del valore conoscitivo dell’analogia: cf. Melandri, nel suo imponente studio del 1968.

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38 Carlo di leGGe

3. Conseguenze per la filosofia

Ed ecco cos’è filosofia: un pensiero

– che implica, insieme, la modalità logico/dialettica e quella analogica, e non il falso dilemma razionale/irrazionale, che supera, al fine di dire anche dell’inconscio/emozioni, in quanto decisiva per l’esistenza;

– per cui dà, ovviamente anche una logica del pensiero analogico come v’è una logica del traslato, di cui quello si serve; ma si veda la bi-logica individuata da I. Matte blanco, della quale riferisco nei testi: si tratta di strutture della mente, caratterizzate da presenze di immagine-emozione-significato; posizioni alquanto eccentriche rispetto alla tradizione di sepa-razione tra pathos/logos; e nulla che non possa giustificarsi anche in base agli studi sul sistema nervoso centrale;

Tra analogia entis e teologia negativa è la nostra storia e il nostro futuro. Una indicazione con Plotino, e Agostino, in questo senso, ma Spinoza, Scho-penhauer e Schelling, bergson …

La contemporanea edizione del divino nell’anima, nel cervello/mente, me-raviglia e mistero. La filosofia è allora definita come lavoro del rendere il nulla ineffabile che è potente, sul piano del dicibile.

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DIDATTIcA E LAboRAToRI

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a cura dI santa aIello e della classe V a scIenze umane

UN bREVE VIAGGIo DI VITE SPEzzATE

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Questo lavoro è dedicato…a tutti i viaggi spezzatie a tutti i familiari che devonoaffrontare un viaggio di dolore…

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Premessa di Santa Aiello

Le alunne della V A del Liceo S. P. P. hanno aderito al “Progetto di solida-rietà e sensibilizzazione al Rispetto della Vita”, e hanno partecipato al con-corso “Adotta un segnale stradale” promosso dalla Fondazione “La casa di Annalaura” onlus di Vallo della Lucania in collaborazione con la Fondazione “Elisabetta e Mariachiara casini” onlus di Firenze. La classe è stata divisa in gruppi, ogni gruppo ha adottato un segnale e ha prodotto un elaborato. Sono stati presentati tre elaborati riportati di seguito ed è stato premiato il primo.

UN SEGNALE SI RAccoNTA

Un pallone che rotola… freni che stridono… fari abbaglianti… rumore assordante… pozza di sangue… sirene… sangue, sangue, sangue… immagini che insidiano di continuo la mia mente… «Ero stato installato da poco su quel tratto di strada molto pericoloso, poiché strada urbana, come “limite di velocità 50”. Ero orgoglioso di essere stato posizionato proprio in quel tratto perché il mio ruolo è quello di ricordare ai conducenti di essere prudenti, di rispettare se stessi e soprattutto gli altri. Ma quel giorno l’uomo alla guida della sua Fiat bianca non sembrò accorgersi di me e nemmeno di quello che stava accadendo: pochi secondi dopo avrebbe stroncato la spensieratezza e

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l’innocenza di un bambino. Una tragedia che colpì un intero paese! Tanti ne ho visti dopo, ma gli occhi sorridenti e inconsapevoli di quel bambino non mi lasceranno mai in pace. » “Grida… pianti… incredulità… strazio… vuoto, vuoto, vuoto…” «Io non so come coloro che hanno spezzato tanti cuori possano vivere la loro vita con i loro sensi di colpa, con le loro paure, la loro quotidianità, pensando alle tante famiglie distrutte. Nella vita come sulla strada bisogna porsi dei “limiti” per rispetto di noi stessi ma soprattutto per coloro che ci circondano. oggigiorno tutti sentiamo l’esigenza di andare “più veloce” degli altri e andare oltre i “limiti”. La fretta di andare veloce ci rende vuoti, quasi degli automi, tanto che i “segnali” che ci obbligano a rallentare ci appaiono invisibili e permettiamo alla fretta di nascondere i piccoli e rari attimi di felicità e bellezza. Allora, voglio invitarvi a rallentare, se necessario fermarvi, per permettere a voi stessi di fare tesoro di quelle poche belle emo-zioni che la vita regala!»

Il gruppo Cuori battentiFrancesca AccarinoAlessandra Di SevoSara NiglioSimona ogliaruso

IL SENSo DI coLPA

c’era una volta un segnale generico accompagnato dal relativo pannello integrativo indicante che quel tratto di strada era soggetto a sbandamento a causa di ghiaccio, ma era come se non esistesse. Un giorno, si accorse che le persone non erano interessate a ciò che voleva realmente indicare, quindi si sentì in profonda solitudine. Non si riusciva a spiegare perché a tutti gli altri segnali veniva data importanza e a lui, quelle innumerevoli auto non gli rivol-gevano neppure un umile sguardo. Era sconfitto. Pensava di avere un ruolo

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fondamentale, infatti, stava ad indicare il pericolo a cui le auto andavano incontro. Era diventato agli occhi degli altri qualcosa di banale, un semplice cartello senza alcun significato. Era sempre lì sempre lui, più solo che mai. Allora si chiese: “perché esisto?, che ruolo ho?”. Tante potrebbero essere le risposte ma nessuna è realmente apprezzata; basti pensare allo stretto rap-porto con la vita, perché posso metterla in pericolo. La gente, infatti, ignora che i pericolo possono trovarsi dietro ad ogni angolo, ed essere inaspettati, proprio come accadde quella famosa notte del primo gennaio. La strada era deserta e ghiacciata più che mai, il silenzio regnava, ma ad un tratto una mu-sica assordante si udì e una luce lo abbagliò intensamente. capì che qualcosa stava per accadere, perché oltre alla sensazione strana che lo assaliva notò che la velocità dell’auto aumentava sempre di più man mano che si avvicinava. Erano quattro ragazzi sui vent’anni, appena ritornati dalla discoteca per fe-steggiare il capodanno. L’auto slittò sul ghiaccio, schiantandosi su un solido muretto al lato destro della carreggiata, dopo che l’auto si era girata ripetu-tamente su se stessa. In quel momento quell’ indifeso segnale avrebbe voluto a tutti i costi che la cosa non fosse successa. Si sentiva in colpa, responsabile, era come se non avesse adempito al suo compito. L’unica cosa che poteva fare era starsene lì, immobile ad assistere a quell’orribile scena che lo rese unico “testimone”. Fu da lì che iniziarono i tumultuosi e assordanti rumori fatti da grida, sirene di ogni genere, alternate al pianto generale. Il senso di colpa sempre più grande, pensava e ripensava al suo crudele ruolo da spettatore impotente confinato sempre in quell’orribile e pericoloso posto. Da una parte si sentiva pienamente responsabile, ma dall’altra si rassicurava pensando al compito che comunque doveva continuare a svolgere, ovvero, essere d’aiuto ad altre auto che transitavano su quel deprimente tratto di strada. Avrei voluto sapere quale fosse stato il destino di quei poveri ragazzi, ma dopo quel tumulto di urla, il silenzio calò di colpo. Passarono giorni, set-timane, un mese. Ma quel fatidico primo febbraio, vide avanzare verso di lui una donna, bassa, esile con un’immensa tristezza trapelante dal viso stanco e sciupato. In mano aveva dei fiori; non volevo pensare al peggio, ma quando i suoi occhi iniziarono a lacrimare, un forte sgomento mi travolse. bisbigliava parole senza senso e una frase mi colpì: “non è giusto”. All’ improvviso i no-stri sguardi si incrociarono, la donna si inginocchiò ai miei piedi, ma io non potevo in alcun modo consolarla. con tremoli parole iniziò a raccontare sin-ghiozzando la sua triste storia: “il destino ha voluto che quella sera mio figlio Marco dovesse morire, non volevo lasciarlo andare, ma più che fargli le solite raccomandazioni, non potevo fare altro, visto che come tutti gli altri ragazza

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aveva il diritto di vivere la sua giovinezza e divertirsi, soprattutto la notte di capodanno, però per lui questo inizio anno 2013, durò solo poche ore, per-ché alle 3. 00 di notte se ne andò”. Non potevo continuare a guardare, mi faceva troppo male. Dopo una pausa, riprese a raccontare: “perché proprio a lui, perché non ti ha rivolto lo sguardo, perché non ha fatto caso alla tua presenza, quell’unico figlio mio, un ragazzo umile, educato, con una grande voglia di vivere. come tutti, anche lui aveva un sogno nel cassetto, diventare un giorno un bravo medico volontario, ed aiutare quei poveri bambini africa-ni per dargli un giorno un futuro migliore. Era questo il suo sogno, pensare a quei bambini lo faceva soffrire. Aveva frequentato il liceo scientifico, amava lo studio più che mai, ma trovava sempre il tempo di aiutare i suoi compagni che erano in difficoltà e realizzare il suo hobby, giocava a calcio. Aveva una ragazza semplice, per me era come aver trovato una seconda figlia, quella che non avevo mai potuto avere, aveva amici fantastici con i quali condivideva tutto, gioie e dolori, amava divertirsi. Io avrei voluto fermarlo, perché in cuor mio, avevo un vuoto, una strana sensazione, che mi aveva tenuto sveglia tutta la notte, fino al suono di quel maledetto telefono. Pensai subito al peggio, mi precipitai in salone, con timore risposi: “signora, suo figlio ha avuto un in-cidente, si rechi subito in ospedale”. Attaccai senza rispondere, attaccai, ma la mia mente era attraversata da mille pensieri. L’unica speranza era quella di pensare che era stato un errore, non poteva essere il mio Marco. corsi in camera, indossai la prima cosa che trovai nell’armadio. Non riuscii neanche ad avvisare mio marito che lavorava fuori e mi precipitai in ospedale. Era proprio lui, il mio bambino. Svenni, mi risvegliai dopo qualche ora, pensan-do che era stato un incubo. Urlai: “dov’è mio figlio”? Un medico si avvicinò e mi disse: “mi dispiace, suo figlio non ce l’ha fatta”. Dopo qualche ora arrivò anche mio marito, ci abbracciammo senza dire niente. Le lacrime rigavano il mio viso stanco, incredulo e pieno di dolore. Il segnale avrebbe voluto avere la voce per dire basta a tutto ciò, ma non poteva fare altro che ascoltarla inerme. La donna a quel punto si alzò, si recò verso il luogo dov’era avvenuto tutto ciò, poggiando con sgomento i fiori che portava in mano, continuava a piangere…all’improvviso corse in auto e andò via. Simile alla Madonna ai piedi della croce di Gesù, mi sembrò quella donna, che inginocchiata da-vanti a me piangeva per il suo povero figlio. Dopo quella notte, tutte le auto hanno cominciato ad andare piano. Perché deve succedere sempre qualcosa di grave per far capire la presenza di un pericolo, non potevano, anche quei poveri ragazzi far caso a me quella tragica sera? c’è sempre bisogno di vede-re la morte per capire il senso della vita? Spero che dopo questo incidente, i

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ragazzi capiscano che divertirsi è importante, ma sempre con moderazione, facendo attenzione ad ogni pericolo possibile.

Il gruppo Staffetta di solidarietàAmetrano barbaraGiannella chiaraMiglino AnnaPonzo Marilù

L’ANGELo

Furono loro che mi lasciarono. Un sabato piovoso, mentre me ne stavo im-mobile e vigile come sempre, respiravo l’odore della vernice. Dei ragazzacci mi avevano imbrattato e cosi rimasi cieco e sordo nel buio della notte. Poi ho pensato all’indomani mattina, alla mia assenza, quando i bambini avreb-bero attraversato la strada per andare a scuola. chi avrebbe indicato loro di attraversare sulle strisce pedonali? Quanto li ho amati e quanto li amo quei bambini. Per tanti anni ho segnalato agli automobilisti di rallentare. come segnale ero sicuro di rappresentare la sicurezza, ma adesso non servo più a niente. Non posso più stare qui, ho deciso, andrò lontano in alta montagna. Le nuove generazioni erano inconsapevoli, la tranquillità protagonista per tutti questi anni, ora era venuta meno. I giovani iniziavano sempre più a gui-dare in stato di ebrezza, sotto l’effetto di stupefacenti. cominciarono ad assu-mere comportamenti da bulli, scrivevano sui segnali o li distruggevano. cosi, un giorno, decisi di andarmene, ero stanco delle ingiustizie che scorrevano davanti ai miei occhi. Fu una decisione molto ardua che dovetti prendere per dare una lezione a tutti gli abitanti. Fu una salita ripida e il viaggio mi stancò molto; impiegai molti giorni per scegliere il posto migliore da dove avrei po-tuto osservare ogni angolo del paese. Nei primi giorni mi sembrava di aver fatto la scelta migliore, però poi con il passare del tempo iniziai a sentirmi

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solo, al freddo dell’inverno, e cosi pian piano iniziai a sentirmi in colpa per la decisione presa. con il trascorrere dei giorni la vita in paese degenerava e lì dall’alto mi sentivo impotente. «oh poveri voi! Perché, perché, perché, vi comportate cosi? Perché non vi siete accontentati della tranquillità di questi anni? Perché volete distruggervi la vita? Ragazzi ricordate che la vita è l’unico regalo che non vi verrà fatto DUE volte !!!». Mi sentivo completamente inu-tile, volevo fare qualcosa ma non potevo, stavo male, malissimo, volevo solo aiutarli, o meglio, avrei voluto solo tornare indietro nel tempo. L’unica cosa che potevo fare dall’alto della montagna era osservare i miei bambini. Pre-gavo ogni giorno per loro e per la loro vita. È primavera il sole picchia, pic-chia forte. Gli abitanti euforici, stavano tutti insieme in allegria, l’indomani ci sarebbe stata una Manifestazione, il Ministro delle Infrastrutture si accin-geva al taglio del nastro. Tutti erano impegnati nei preparativi. Tutto doveva essere perfetto. Il Ministro era stato invitato per inaugurare una fondazione per “le vittime del sabato sera”. Un giorno di festa si trasformò in un giorno di dolore. Erano le otto del mattino, i bambini si recavano a scuola. Alcuni erano felici di trascorrere una giornata insieme ai propri compagni di classe, altri nonostante fossero trascorsi diversi mesi dall’inizio dell’anno scolastico, ancora piangevano perché non volevano lasciare la propria mamma. Un Suv, enorme, rumoroso, di colore grigio, alla cui guida vi era un diciottenne, uno dei tanti che appena patentato gli viene regalato “questo macchinone” che nonostante il divieto da parte della legge lo guidano. Il cielo all’improvviso si oscurò. Per me il mondo finiva in quel preciso istante. Un bambino insieme alla mamma stava attraversando la strada. Vidi quella “maledetta” scena da-vanti ai miei occhi, pur essendo lontano e capii di non poterla mai dimentica-re: il loro angelo custode non poteva salvarli. centotrenta chilometri orari su una strada che ne prevedeva quaranta. Mi coprì gli occhi e sentii solo un ru-more fortissimo che mi gelò il cuore. L’impatto fu brutale. Tutte le immagini, che fino ad un attimo prima la mia mente aveva proiettato, erano diventate realtà. È successo qualcosa, qualcosa di terribile, tutti urlano, abbracciano, guardano, increduli, perché tutti sanno in quell’istante, quel dolce bambino è diventato un angelo e tutti potranno guardarlo in volo verso il cielo. Dopo questa tragedia i sensi di colpa mi distruggevano, mi sentivo, una nullità, non riuscivo a guardarmi allo specchio. Questa lezione purtroppo doveva esserci, non si poteva evitare. così i ragazzi iniziarono a comprendere il significato della vita. Un piccolo angioletto innocente aveva pagato per loro. I ragazzi si riunirono e decisero di venire da me per convincermi a tornare in paese. Arrivarono in tanti e con loro portarono anche degli utensili per pulirmi, dal-

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la loro violenza, dal colore. La madre dell’angelo volato in cielo, ne portava un altro in grembo. Schiacciata da un dolore indescrivibile prese una brutta decisione: quella di abortire. La visita ginecologica era fissata, nessuno sape-va e nessuno poteva fermarla. La vita per lei era cambiata, questo bambino che aveva sempre desiderato non aveva più valore per lei, non si sentiva più in grado e all’altezza di accudirlo, vista la precedente tragedia accaduta. Nel giorno fissato si reca in ospedale. Ansiosa aspettava il suo turno decisa di non cambiare idea. chiusa nel suo dolore, distrattamente sfoglia una rivista, legge articoli, e poi, improvvisamente i suoi occhi vengono calamitati da un segnale di pericolo incorniciate in un triangolo rosso. Istintivamente accarezza con la mano le due figure leggere che attraversano sulle strisce pedonali. Riguarda le bianche strisce pedonali, rivede il Suv, l’aritmia le gonfia il cuore. “Sono una donna, una madre - dice a se stessa – devo donare la vita e non sottrarla. Allora, la giovane mamma pensa al valore della vita, alle tante piccole vite indifese. Alle tante mamme che non possono procreare e che non hanno rice-vuto questo stupendo dono, ai tanti che in un attimo spezzano vite innocenti. Quella porta diventa un divieto, frena, torna indietro e se ne va portando con sé la vita. Quel maledetto giorno l’assenza del segnale le portò via il suo piccolo angelo, oggi lo stesso segnale era li per farsi perdonare e ricordarle che nessuno può decidere sulla vita degli altri, soprattutto per piccoli angeli indifesi. Quel giorno la madre scappò dallo studio medico, e in lacrime si recò alla tomba del suo piccolo angelo e pregò per i tanti errori che l’uomo inconsapevolmente commette. Da allora si impegnò per la tutela dei bambini e promosse convegni informativi contro l’aborto.

Il gruppo Le tre più treMaria AgostinoAntonietta RosielloSacco Mariafilomena

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a cura dI teresa apone e della classe II a scIenze umane

LAboRAToRIo SULLA FIGURA DEL MIGRANTE

il viaggio come sofferenza nella condizione del migrante e del malato

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Questo lavoro è dedicato…Ai migranti del centro di accoglienza di Ponte Galeria che quest’inverno si

sono cuciti la bocca per protestare contro le cattive condizioni e i tempi di per-manenza nei centri di accoglienza e che, poi sono stati rimpatriati…

…E a tutti coloro che soffrono lontano dalla propria terra o affrontano un viaggio di dolore.

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Premessa di Teresa Apone

Le alunne della II A hanno lavorato al tema dell’ emigrazione e alla con-dizione del migrante sia in geostoria che in italiano, producendo saggi brevi e articoli legati anche ai tragici sbarchi di Lampedusa. Hanno anche letto e commentato in classe articoli di giornale relativi alla nostra condizione di emigranti sia in America che in Australia tratti da un prezioso libro di Gian Antonio Stella. Hanno riallacciato il tema delle migrazioni alla storia stu-diata quest’anno, alle invasioni barbariche, a quella dello scorso anno, alle migrazioni degli uomini della preistoria. Hanno anticipato, con il mio aiuto, le scoperte geografiche come passaggio fondamentale della storia moderna che tanto ha da dirci sull ‘attuale assetto geopolitico del mondo. Hanno, inoltre, letto un libro sulla biografia di Malala Yousafzai, la ragazza pakistana costretta a scappare dal suo paese per la persecuzione dei talebani, da marzo in poi leggeranno la storia di un’altra migrazione, quella di un adolescente del sud Italia costretto ad emigrare al Nord dove frequenterà il liceo in un contesto completamente diverso da quello del suo piccolo paese di origine (”Una barca nel bosco” di Paola Mastracola). Esperienze di vita particolari, uniche legate al tema della fuga o del viaggio. Nel testo della Mastracola il viaggio è punto di partenza : l’emigrazione al Nord, stravolge completamente la dimensione esistenziale del protagonista e lo porta a misurarsi con il pro-prio passato, con la nuova realtà e soprattutto con la propria solitudine.

Per questo motivo, in occasione di questo numero della rivista dedicata a questo tema, le ragazze hanno deciso di scrivere delle storie di persone che viaggiano e le hanno raccontate con la semplicità che le contraddistingue. Sono “mini- storie” forse un po’ troppo semplici, ma sicuramente frutto del loro autentico lavoro.

Viaggi antichi e moderni, di persone in difficoltà che non sempre riescono realizzare il loro sogno. Amil, infatti, rimane sola nel centro di accoglienza di

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Lampedusa. Federica non sa che le accadrà e a fatica si stacca dai genitori. Più fortunati sono i viaggi di Tonino, l’emigrante che fa fortuna e non dimentica la sua terra e dell’ uomo malato che ritroverà la fede e la guarigione nel viaggio.

Negli ultimi giorni di febbraio mentre le alunne preparavano i loro piccoli racconti abbiamo letto le parole di Lucia alla fine dell’VIII capitolo de “i promessi sposi” che ci hanno accompagnato nella fine del percorso a testi-monianza che il tema del viaggio anche in letteratura spesso si avvicina alla dimensione del migrante e del dolore:

“…Addio, monti sorgenti dall’acque… Quanto è triste il passo di chi, cresciu-to tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volon-tariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza…”

SToRIA DI ANToNINo DI MAURo, EMIGRATo IN AMERIcAa cura di Chiara Gesuele

“Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”.Indro Montanelli

Era il 1946, l’Italia era uscita sconfitta dalla guerra, aveva ferite molto pro-fonde sia economiche che socialiAnche se c’era la gioia per aver cacciato via i tedeschi dalla penisola e per aver sconfitto definitivamente il fascismo, molti non credevano in una possibile rinascita del paese e tra quelli scoraggiati c’era il siciliano Antonino. Antonino a quell’ epoca era un giovane intrapren-dente con una grande voglia di lavorare, il suo sogno nel cassetto era diven-tare architetto e costruire grandi palazzi. Gli Stati Uniti erano perfetti perla realizzazione di questo sogno. Affrontò lunghi giorni di viaggio e quando raggiunse la sua sognata New York, gli sembrò che da lì tutto fosse possibile e che non ci fossero più ostacoli per lui e per i suoi desideri. Ma non fu così! Si stabilì nelsobborgo “Little Italy”, dove non gli sembrò di aver abbando-nato la sua patria: erano tutti italiani e c’erano anche pochi afroamericani. Dopo i primi difficili tempi, riuscì a trovare lavoro in un ufficio di geometri e architetti al centro di Manhattan, come “ tuttofare” del capo. I primi mesi furono orribili per Antonino che non sapeva parlare inglese: non riusciva a capire niente di quello che gli ordinavano, si perdeva nella “Grande mela” e

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non conosceva le strade da percorrere. Tuttavia i suoi concittadini italiani, già lì da molto tempo, lo aiutarono a imparare la lingua e così le cose diventarono a mano a mano più facili, anche se non sempre, gli americani erano gentili e condiscendenti con gli italiani. Per molti di loro gli italiani erano “cattolici sozzoni”, “straccioni”, “maccheroni” o “fannulloni invadenti”. con disprez-zo, Antonino era trattato anche dal capo che lo prendeva in giro per il colore della sua pelle olivastra. Veniva maltrattato, sfruttato, mal pagato proprio come oggi capita n Italia agli extracomunitari. Lui, però, i stringeva i denti e metteva da parte i soldi per studiare. Passarono gli anni, le cose piano piano cambiarono. Antonino riuscì ad ottenere la cittadinanza americana, a studia-re e a laurearsi. con un bel gruzzolo che aveva messo da parte riuscì ad aprire il suo primo studio. Divenne con gli anni uno dei più famosi architetti di New York. Tutti i sacrifici e le pene subite, finalmente erano servite a qualcosa. Si sentiva fiero di se stesso e felice di aver realizzato il suo grande sogno.

Gli anni passano veloci, Antonino ora è vecchio. Adesso non è più l’italiano sognatore che partì un giorno per l’America, ma è Tony, un americano con una grande carriera alle spalle, che ormai alla fine della sua vita, guarda dalla finestra di casa sua quell’oceano che un tempo lo portò lì. Tutti i ricordi sem-brano sbiaditi. La lingua, i luoghi e la cultura italiana ora sono per lui lontani, ma gli resta nel cuore il profumo e il sapore della sua terra natia che gli hanno dato la forza di andare avanti e lo fanno, oggi, sentire orgoglioso, di essere nel profondo delle sue radici, italiano.

FEDERIcA: SToRIA DI UNA PARTENzAA cura di Caterina Melone e Mariassunta Molinaro

Federica, una ragazza di 20 anni, dopo essersi diplomata e aver passato un anno alla ricerca di un lavoro, si è trovata di fronte ad una scelta: rimanere in Italia senza lavoro o allontanarsi dalla sua famiglia per costruirsi un futuro. Secondo voi, è facile per qualsiasi famiglia o ragazzo vivere o meglio subire un distacco, così forte? Noi conosciamo Federica e sappiamo che non è stato facile. All’aeroporto, alla sua partenza c’eravamo anche noi. Federica è una nostra amica!

Il 2 febbraio 2014 alle ore 8.30 la famiglia e Federica partono per andare all’aeroporto di Napoli. Le lacrime non si fanno attendere e la meta sembra essere sempre più vicina. Dopo 2 ore di viaggio si è arrivati all’aeroporto. Tante

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persone che partono, arrivano, aerei che decollano, che atterrano, ma per i ge-nitori di Federica tutto quello che c’è intorno è inesistente; riescono solo a ve-dere la loro “ piccola bambina” che devono lasciare. Si dirigono a fare il check-in e tutto sembra essere sempre più reale. In attesa delle 13.05, per liberare la mente dal pensiero della partenza, la famiglia decide di girare e scherzare ancora un po’ insieme per i negozi dell’aeroporto. Purtroppo l’ora di salutarsi è giunta. I genitori, fanno le loro raccomandazioni augurando alla ragazza una felice e costruttiva esperienza di vita. Lacrime di gioia e di tristezza: è giunto il momento di partire. L’aereo decolla lasciando indietro il passato e aprendo una porta al domani: da queste lacrime, forse, nascerà il futuro.

AMIL A LAMPEDUSAA cura di benedetta D’ambrosio

Sono passati ormai due anni da quando, qui in…, è scoppiata la guerra. Una guerra che non finisce e che non finirà mai. Sono Amil, ho sedici anni la mia vita è cambiata due anni fa quando mio padre fu ucciso da alcuni soldati. Da quel giorno mia madre si è ammalata e tocca a me portare avanti la mia famiglia. Non posso più andare a scuola, l’edificio è stato distrutto! Per por-tare a casa qualcosa da mangiare devo fare lavori tremendi. Questa mattina di fronte la mia casa, dei soldati picchiavano a sangue dei poveri bambini e solo oggi ho capito fino in fondo quanto la razza umana faccia schifo. Torno a casa di corsa, con poca robaapparecchio la tavola, mangiamo quel poco che ho racimolato. Metto in alcune valige nostri pochi vestiti. Questa sera partiamo, non so di preciso dove finiremo ma è ora di dare una svolta a questa vita.

La sera è arrivata subito e io, mia madre e i miei cinque fratelli ci dirigiamo verso una barca. In questo luogo a me sconosciuto ci sono un centinaio di persone: tutti vogliono scappare da qui. Passano alcune ore, siamo ammuc-chiati l’uno sull’altro, ma riesco ad addormentarmi. All’improvviso vengo svegliata da una voce a me familiare che ripete: “Amil, Amil svegliati siamo in pericolo. “È la voce del mio fratellino. Mi guardo intorno e capisco che la barca sta affondando. Le persone incominciano ad agitarsi. Arrivano dei signori portano me e mio fratello verso una scialuppa di salvataggio. Non posso salire lì sopra e andarmene, non posso lasciare lì mia madre e i miei fratelli. Ma sono costretta farlo. Quella scialuppa ci porta fino a Lampedusa. Sono salva, ma, sola con un fratello da portare avanti.

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I miei genitori sono morti nel naufragio. Non so dove andare, cosa fare. ci portano nel centro di accoglienza, tutti piangono, sono tristi come me, c’è mol-to scompiglio. Non è questa la terra che immaginavo! Non ho più forze, cado…Ricordo di essere caduta a terra e sento la voce di mio fratello che mi chiama, poi il vuoto totale. Mi sveglio:ora mi trovo in una nuova casa, in un grande città con dei signori che accudiscono me e mio fratello. Posso riandare a scuola e posso permettermi le cose dei ragazzi della mia età. Posso uscire per strada senza paura. Ma tutto è solo un sogno!Mi sveglio, più impaurita che mai, sono ancora nel centro di accoglienza di Lampedusa, sola e con tanta paura!

“LoURDES”: IL VIAGGIo DELLA SPERANzAA cura di Stefania Mautone, Chiara Pisciottano, Alessandra Ceraso

Sono un uomo che durante l’arco della sua vita, consumata dall’odio e dal pessimismo, non ha mai creduto nella speranza e nella fede. Però in questi ultimi anni trascorsi nel buio più profondo, ho dovuto lottare contro una gra-ve malattia che mi ha portato a riflettere sull’importanza della fede. Questa malattia è la leucemia. I medici sostengono che le probabilità di guarire sono poche, ma la speranza è l’ultima a morire. Proprio nei momenti più difficili bisogna imparare ad essere più forti e credo che il sorriso non si debba mai perdere. Ho intrapreso, proprio in nome di questa speranza, un viaggio a Lourdes. Una volta giunto a destinazione ho provato dentro di me la sensa-zione che non avrei mai dimenticato questo luogo. c’era una fila immensa, ma io pensavo solo al momento in cui sarei entrato in contatto con la Madon-na, perché per me Lei rappresenta l’unica salvezza. Una guida mi conduce all’interno di una vasca e lì la mia anima è se come se avesse subito un totale cambiamento, una purificazione. Mi sento rinascere, avverto dei i brividi lun-go tutto il corpo: mi sento sollevato dal dolore che mi ha assalito per anni.

Torno in Italia, vado in ospedale, come ogni settimana, a fare le solite cure: vedo arrivare il medico con gli occhi lucidi e non capisco. Mi fisse e guardan-domi dice: “Non so come, ma ce l’hai fatta!”.

Grazie a questo viaggio la mia vita è cambiata. Ho capito che esiste un filo sottile tra l’uomo e Dio, quel filo che mi ha spinto a sperare e a cercare sem-pre uno spiraglio di luce nel buio. Penso che il viaggio sia sempre qualcosa di fantastico, di meraviglioso, qualcosa da scoprire… ma Il viaggio che ho fatto io, è stato per me, il vero viaggio della vita!

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teresa apone

IL VIAGGIo DELLA LUNA IN LEoPARDI E ALTRo

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Già nel Medioevo cristiano la vita umana era concepita come momento di passaggio, come viaggio mondano in attesa della vera vita, quella ultrater-rena. opera emblematica di questa concezione è la “commedia” di Dante che include in sé un altro grande e “periglioso” viaggio, quello di Ulisse che sfida ardimentosamente, in nome della sua curiosità, le colonne d’Ercole. Movente del viaggio, qui, è la “sete di conoscenza” contrapposta al limite divino. Gli eroi omerici viaggiano per difendere l’onore di Menelao con le armi, andando verso Troia per poi tornare alla famiglia, come fa Ulisse. Enea è, invece, un profugo ante-litteram, ma con una grande missione!

I giovani romani si recavano in Grecia per perfezionare la loro educazione e i loro studi, ricordiamo primo fra tutti cicerone. Goethe viaggiava a fine Set-tecento per riscoprire la classicità arrivando in Italia qui vicino fino a Paestum e alla costiera amalfitana. Gli stessi posti che a partire dall’VIII secolo a. c. , giovani Greci decisero di colonizzare, fondando città meravigliose e piene di prosperità come Poseidonia, Elea, Siracusa, Sibari, cuma, Locri, Taranto…

Leopardi viaggia in Italia per riscoprire se stesso e per fuggire i limiti angu-sti del suo piccolo paese.

Foscolo fugge in nome della libertà e dell’amor patrio:

Né mai più toccherò le sacre spondeove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’ondedel greco mar da cui vergine nacqueVenere…1

1 Ugo Foscolo, A Zacinto, in Sonetti, vv. 1-5

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Vittorini, insieme a Pavese ci ha insegnato che il viaggio è un ritorno alle origini, una riscoperta di sé attraverso il ritorno e che la terra d’origine ha il sapore del mito, come anche Quasimodo e tanti altri poeti ricordano.

Il viaggio moderno è un viaggio coatto: nasce dalla disperazione, dalla fame, dalla guerra, dalla persecuzione, il viaggio dei migranti. Emigranti erano an-che i nostri nonni, così apostrofati dalla stampa americana tra fine ottocento e inizi del Novecento:

“…in celle oscure sotto le strade, dove i raggi del sole si rifiutano di entrare, questi figli delle montagne di immondizia siedono e se-lezionano i relitti della vita (…). Lo sporco che li circonda, l’odore di muffa delle loro abitazioni umide, è per loro piacevole e fa la loro felicità, come fossero in un appartamento lussuoso”

(New York Times, USA, 14-10-1906)

“Noi protestiamo contro l’ingresso nel nostro paese di persone i cui costumi e stili di vita abbassano gli standard di vita americani e il cui carattere, che appartiene a un ordine di intelligenza inferio-re, rende impossibile conservare gli ideali più alti della moralità e civiltà americana”

(Reports of the immigration Commission, USA, 1911, La Gumina, p. 158)2

Ma la condizione del migrante e dello straniero appartiene alla notte dei tempi. L’homo sapiens emigrò dall’Africa per poi diffondersi in tutto il globo. Tutta la storia è in fondo un viaggio, fatta di migrazioni, conquiste, coloniz-zazioni, ricerca di sé e dell’altro!

Ma il viaggio è anche altro. Evasione, rifugio: baudelaire e i poeti maledetti “viaggiavano con la mente”

attraverso i “Paradisi artificiali”. Emozione: Kerouac e la beat generation viaggiavano “on the road” per vi-

vere e sentire il palpito della vita. Scelta politica: i partigiani vagavano sulle colline per difendere la libertà. Morte: gli ebrei durante la Shoah viaggiavano, purtroppo, verso l’orrore.

2 Gian Antonio Stella, L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli

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Da qualche parte in RussiaLa bufera mandala neve fin dentro il suo cappotto, piange una campanellaal collo del cavallo che traina la slitta. È questa la mia anima. Da qualche parte in RussiaUn corvo vola sopra i campi bianchi, bianchi, la mia aquila si trascinaa fatica l’ala spezzata. Dietro il suo respiro affannosoLunga distilla sopra i campibianchiUn’orma insanguinata. 3

Addirittura se ci avviciniamo al mondo del cinema e dell’attualità, anche il protagonista de La grande bellezza, Jep Gambardella, può essere considerato un migrante che da giovane arriva a Roma, ambizioso, scaltro e in cerca di successo. Dopo molti anni, deluso dalla fatuità della vita e dalla mondanità, cercherà di ritrovare se stesso attraverso un viaggio di ritorno, ritorno alle radici: “…le radici sono importanti”, come recita un personaggio-chiave del film.

Ma tra i tanti viaggi, letterari e non, uno dei più belli per me è il viaggio nel quale la luna accompagna il pastore in Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi.

Che fai tu, luna in ciel? Dimmi, che fai, Silenziosa luna?Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu pagaDi riandare i sempiterni calli?Ancor, non prendi a schivo, ancor sei vagaDi mirar queste valli?Somiglia alla tua vita la vita del pastore. . . 4

Questo viaggio è emblema della condizione e della vita dell’uomo solo di

3 Gertrud Kolmar, Da qualche parte in Russia, in Metamorfosi e altre liriche4 Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti, vv. 1-10

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fronte al mistero dell’universo e desolato e fragile di fronte alle mille irrisolte domande che affliggono il suo cuore.

Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia;Che sia questo morir, questo supremoscolorar del sembiante, E perir della terra, e venir menoAd ogni usata compagnia…5

Da notare l’uso magistrale della punteggiatura che sin dal primo verso sem-bra accompagnare e dare ritmo e cadenza al passo del pastore insieme a quel-lo della luna.

…e quando miro tra me arder le stelle;Dico tra me pensando:A che tante facelle?Che fa l’aria infinita, e quel profondoinfinito seren? che vuol dire questaSolitudine immensa? Ed io che sono?…6

Voglio concludere con questi versi che non hanno bisogno di alcun com-mento. Essi lasciano impressa la voglia di sentirli riecheggiare all’infinito, come supremo successo di armonia tra contenuto e forma, tra ragione e sen-timento, tra pensiero e linguaggio, tra filosofia e poesia!

5 ivi, vv. 61-686 ivi, vv. 84-89

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rosanna caIazzo

VIAGGIo NELL’ANTIcHITà: ELEA-VELIA

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Nel Parco Nazionale del cilento e Vallo di Diano sono presenti preziose testimonianze dell’eroica civiltà ellenica: le rovine documentano l’esistenza di una città prospera, Elea, caratterizzata da fiorenti commerci. In questa cit-tadella, immersa in una lussureggiante vegetazione mediterranea, sono stati individuati, con numerosi scavi archeologici, l’acropoli e due differenti quar-tieri, collegati tra loro da sentieri campestri.

La città di Elea fu fondata nel 540 a. c. dai coloni Focei espatriati per sfuggire alle incursioni del nemico achemenide ciro il Grande. La prima denominazione del luogo è Yele e ciò denota l’origine italica; la forma Elea, di tradizione greca, deriva da ulh (fontana) e si ritrova in Erodoto e anche in alcuni scritti di Platone. La città fu di grande importanza tra il VI e V secolo a. c. per la nascita della scuola filosofica eleatica guidata dal filosofo Seno-fane di colofone, che trovò in Parmenide e zenone i suoi maggiori seguaci. L’appellativo Velia risale ad epoca romana e si ritrova in Naturalis Historia di Plinio e nelle opere del geografo Strabone. Tali fonti scritte permettono di capire come Elea sia stata prima una colonia di tradizione greca e, in seguito, sottoposta al dominio romano: tuttavia altri reperti storici rivelano che la lingua e le tradizioni greche furono preservate nel tempo.

Gli Eleati raggiunsero la floridezza economica con il commercio e la pesca: sono infatti visibili resti di abitazioni di pescatori presentanti un perimetro ridotto ad unico vano. Particolare è la loro costruzione: alla base mattoni più ampi di arenaria locale e alcuni di diametro inferiore nella parte superiore, a scopo antisismico. La città era costituita da un nucleo più antico, che occu-pava la parte meridionale dell’acropoli, e da due ampi quartieri, di cui quello a sud comprendente edifici pubblici, le terme e il centro abitato; quello situa-to nella parte settentrionale presentava funzione artigianale. Probabilmente esisteva un porto e si sfruttavano le acque del fiume Alento, del Palistro e

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di Santa barbara. Particolarmente emozionanti sono i resti di Porta Rosa, costruita con mattoni che assumono una colorazione rosata quando il sole rivolge loro i raggi.

Di grande interesse è la condizione della donna nella tradizione eleatica e nel resto della Grecia. La fanciulla, paiv, portava sempre i capelli sciolti e lunghi, emblema della giovinezza, e all’età di sette anni veniva iniziata per divenire donna con l’arte domestica della tessitura e della panificazione. Tali compiti venivano svolti in luoghi appositi connessi ai santuari dedicati alla divinità del matrimonio Era. In seguito, la donna era considerata orsa, poi-ché non si mostrava in pubblico: ella era allontanata dal nucleo familiare e condotta in comunità femminili per lo svolgimento di riti di iniziazione alla vita coniugale. A soli quattordici anni, la giovane diventava sposa, gamhth, donando alla regina delle dee il peplo indossato durante l’adolescenza. Tali tappe le ritroviamo nella mitologica figura di Era, sorella di zeus, dapprima fanciulla, poi sua sposa e infine donna vendicativa, keira, tradita dal coniu-ge. Si sosteneva nellantichità che tale ciclo della dea fosse associato al corso delle stagioni e che si ripetesse così ogni anno.

Sorprendenti reperti storici, mirabile arte architettonica e sapere filosofico si fondono nell’antica città di Elea; emblema di gloriose gesta ed eternatrice dei più elevati valori morali, è in grado di far protendere l’animo umano verso un eroico viaggio e di far oltrepassare gli angusti confini della realtà per far rivivere la tradizioni e i principi di una civiltà ancora fortemente attuale: i Greci.

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marIanna bruzzese

VELIA: VIAGGIo FRA ANTIco E MoDERNo

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Passeggiare tra mura di oltre 27 secoli e ritrovarsi catapultati di fronte ad una telecamera, in diretta su Rai 3 e nel giro di poche ore: esperienza insolita di cui alcune ragazze, rappresentando le quattro classi ginnasiali del Liceo classico Parmenide, sono state partecipi sabato 8 marzo 2014.

Indossando vesti e mantelli bianchi, hanno recitato in coro uno degli Inni omerici dedicato alla Dea Pallade Atena, “signora dell’acropoli”. Sotto l’atten-ta regia della prof.ssa Rizzo Maurina e con l’aiuto tecnico della prof.ssa Amaran-te Felicetta, hanno fatto della loro giornata un’esperienza indimenticabile. Alla spalle il meraviglioso sito archeologico di Elea-Velia, accuratamente descritto nel servizio come bellezza e patrimonio inestimabile d’Italia e del mondo.

Il tutto coronato da “lagane e ceci” e dagli “scauratielli”, entrambi piatti tipici del luogo. Ma ciò che ha reso questa atmosfera cosi suggestiva è stata soprattutto la presenza di uomini donne accomunati dallo stesso amore per il mondo classico e per la scoperta ogni giorno nuova di avventure sepolte dal tempo, ma ancora intatte e pronte ad essere riportate alla luce da noi.

Anche personalità illustri del luogo hanno partecipato al servizio manda-to in onda durante il Tg3 campania, come la prof.ssa Giovanna Greco, la dott.ssa Giuseppina bisogno, la biologa Rosetta Di buono, l’architetto carla Maurano, dell’associazione “Identità Mediterranea”, e la dott.ssa De Rober-to Paola, dell’associazione “Achille e la Tartaruga”, tutte intervistate dall’ot-timo giornalista nonché grande improvvisatore Enrico Dori, che con la sua simpatia ha coinvolto anche le piccole “grechette” del Liceo.

Un cast tutto al femminile dunque e un modo originale di festeggiare la donna, questo vero e proprio capolavoro della natura di cui ormai tutti, o quasi, hanno riconosciuto la bellezza, soprattutto interiore, e il grande e im-portante ruolo nella società di tutti i tempi.

Auguri, donne!

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angela d’angelo

IL SENTIMENTo DI cHI RESTA E ASPETTA

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L’opera “Madama butterfly”, una delle più celebri ed apprezzate di Gia-como Puccini nonché del repertorio del teatro lirico, è tratta dal dramma omonimo di David belasco e fu rappresentata per la prima volta nel 1904, su libretto di Giuseppe Giacosa.

Ambientata in Giappone, la “Madama butterfly” narra di una fanciulla in-namorata e infelice (la graziosa e delicata geisha cio- cio- san, detta, appunto, butterfly) destinata a morire per la sua ingenuità ed il suo sentimento nobile e puro.

Vorrei proporre di seguito il testo dell’aria più nota della suddetta opera, “Un bel dì, vedremo”:

Un bel dì, vedremolevarsi un fil di fumodall’estremo confin del mare. E poi la naveappare. Poi la nave biancaentra nel porto, romba ilsuo saluto. Vedi? È venuto!io non gli scendo incontro. io no. Mi metto là sul ciglio delcolle e aspetto, e aspetto gran tempoe non mi pesa, la lunga attesa. E uscito dalla folla cittadinaun uomo, un picciol puntos’avvia per la collina. Chi sarà? chi sarà?E come sarà giuntoche dirà? che dirà? Chiamerà

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Butterfly dalla lontana. io senza dar rispostame ne starò nascosta un po’ per celia. . . e un po’ per non morireal primo incontro, ed egli alquanto in pena chiamerà, chiamerà:piccina mogliettina olezzo di verbena, i nomi che mi davaal suo venire. Tutto questo avverrà, te lo prometto. Tienti la tua paura, io con sicura fede l’aspetto.

con queste parole cio-cio-san esprime la nostalgia per il suo sposo, il te-nente della marina americana benjamin Franklin Pinkerton, che dopo tre anni di lontananza si appresta a ritornare a Nagasaki.

butterfly, in compagnia della fedele amica Suzuki, attende con ansia e tre-pidazione il momento in cui vedrà profilarsi all’orizzonte “un fil di fumo”.

cio-cio-san dice di volersi mostrare calma e quasi indifferente quando la nave di Pinkerton approderà, perché la commozione e la gioia rischieranno di sopraffarla.

Per Madama butterfly il viaggio del marito sembra non aver mai fine: per lei ogni secondo trascorso sulla collina equivale ad un minuto di agonia; ogni attimo è come un lungo periodo di angoscia, ogni parola titubante di Suzuki non ha altro scopo se non l’irritarla e il rafforzare ancor di più la sua fiducia nei confronti dello sposo.

Gli occhi della geisha scrutano “l’estremo confin del mare”, nel punto in cui sembra che l’acqua e il cielo vogliano fondersi in un’armoniosa unità; la danza sinuosa e monotona delle onde, che avanzano e si ritraggono imperter-rite, pare prendersi gioco della sua impazienza e della sua solitudine.

cio-cio-san è una donna sola: a nessuno importa dei suoi sentimenti, pen-sieri e desideri; le persone in cui ripone una fiducia cieca, quasi illimitata, criticano costantemente le sue azioni perché ella si abbandona senza riserve alla sua natura appassionata e “sognatrice”.

Il canto di butterfly, struggente e malinconico, si libra dolce e delicato come

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il volo di una farfalla su quell’immensa distesa d’acqua che è il mare, quasi a voler raggiungere la “nave bianca”; se chiude gli occhi, già le par di sentire la voce tanto sospirata dello sposo, che la chiama “piccina mogliettina, olezzo di verbena”.

La brezza marina sfiora la sua pettinatura austera ed impeccabile; cio-cio-san si stringe le mani sul cuore: “Un bel dì, tutto questo avverrà, te lo pro-metto” – dice a Suzuki – “Tienti la tua paura, io con sicura fede l’aspetto”.

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arIanna d’angelo

UN VIAGGIo NELLA RAGNATELA DEL HikikOMORiDA SINGAPoRE A FIRENzE

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Singapore ore 06. 00

Hiruka si è appena svegliata e mentalmente ha già riformulato il program-ma della sua giornata: scuola, judo e karate, lezioni d’inglese, sport e poi finalmente a casa. Non sarà mai abbastanza per quella società che le chiede il massimo in tutto e per tutto, ma soprattutto non potrà mai avere delle vere amicizie in una società basata sulla competizione. Questi sono i pensieri di Hiruka mentre svolge le sue attività. Lei vorrebbe solo amore e affetto e un po’ più di fiducia in se stessa ma tutto ciò non riesce a trovarli né nella sua famiglia, né nel gruppo dei coetanei e nemmeno in se stessa. odia i soldi della sua famiglia, tutto quello sfarzo per lei è futile, non donano la felicità, per lei ciò che conta davvero in quella casa piena di ricchezza, in cui la figura del padre è quasi nulla e quella della madre quasi oppressiva, è il suo computer e la sua stanza e la vita che vorrebbe vivere, che ha scelto per lei, si esprime in poster e foto appese al muro. In fondo tutti i ragazzi giapponesi sanno quale sarà il loro destino già da piccoli infanti, per loro non esistono serate in discoteca, loro devo vivere per lavorare e per studiare, non esistono colpi di testa, dovranno cercare di essere migliori dei loro padri e dei loro nonni.

È ciò che esige il Giappone dai suoi figli e Hiruka non sa se potrà farcela.

Singapore ore 00. 00

Hiruka si è appena svegliata, ha fame e apre la porticina che ormai da otto mesi è presente sulla porta della sua stanza, la madre non è mancata “all’ap-puntamento del cibo”. come ogni sera ha deposto davanti alla porticina un piatto di cibo, Hiruka lo prende, mangia e poi fa scivolare il piatto fuori dalla porticina dopodiché accende il suo computer e si collega al suo social network preferito con cui da mesi comunica con il mondo esterno. Hiruka, ormai, vive

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nella sua camera e non frequenta più né la scuola né le attività che svolgeva e spesso quando è fra veglia e sonno sente i suoi parenti paragonarla ad un vampiro, poiché dorme mentre il sole batte e veglia di notte. Il suo computer è ormai divenuto il suo migliore amico e le persone con cui comunica: i perso-naggi di fantastiche avventure. Hiruka non è né felice né triste, vive nel mezzo e non sa se è morta oppure sta vivendo una fase di transizione tra la vita e la morte. ogni giorno che passa i suoi sogni si affievoliscono e va via un pezzo di lei, rifiuta il mondo e crede di salvarsi da quella società troppo dura per lei e da quella famiglia inconsistente rifugiandosi nella sua stanza. I suoi genitori sono troppo orgogliosi per farsi vedere entrare in una clinica psichiatrica e per ammettere di aver fallito come genitori, preferiscono rifugiarsi dietro le parole “ è solo una ragazzina presto uscirà da quella stanza” lavandosi in tal modo la coscienza e lasciando medici e maldicenze al loro posto.

Hiruka, intanto, continua, giorno dopo giorno, a divenire una morta vivente.

Firenze ore 11. 00

Hiruka si è appena svegliata. Sono passati quattordici anni da quando Hi-ruka ha visto per l’ultima volta la luce del sole e oggi la rivedrà nuovamente. Dopo un anno di reclusione i genitori si rendono conto che se non avessero fatto qualcosa Hiruka sarebbe morta in quella stanza. Si affidano a una psi-cologa, Sonoko.

Sonoko studia il caso di Hiruka e fa la diagnosi con una sola parola: “Hi-kikomori”. I genitori della ragazza apprendono che la maggior parte dei giovani giapponesi diventa hikikomori spesso per la situazione familiare e sociale. Sonoko prende a cuore il caso e ogni giorno si reca a casa di Mirka, si siede dinanzi la porta della stanza della ragazza e parla, parla. Dopo un mese di mutismo si cominciano ad avere i primi miglioramenti: Hiruka inizia a rac-contare della sua storia, dei suoi sogni e delle sue debolezze e Sonoko ascolta. Dopo cinque anni di colloqui da dietro la porta Hiruka, inaspettatamente, apre la porta e sforzando gli occhi, che erano rimasti al buio troppo al lungo, cera di dare un volto alla voce di Sonoko.

Hiruka aveva sedici anni quando cominciò il suo isolamento e a vent’uno dovette riscoprire il mondo, modellare il suo fisico che era deperito e con esso modellare anche la sua psiche e la sua educazione e su ciò lavorò sei anni, studiando da casa e recandosi a scuola solo per dare gli esami. In tre anni cercò di riformarsi una vita sociale ma erano i suoi coetanei a dover an-

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dare da lei perché ancora non si sentiva di uscire e ora a trent’anni compiuti si trovava a Firenze, in Italia, con Akahito, il suo fidanzato, cui aveva espresso il desiderio di voler viaggiare e lui senza pensarci due volte l’aveva acconten-tata. Era la prima volta che Hiruka chiedeva di uscire da casa, dove si erano conosciuti e innamorati e nemmeno il lavoro, che lo teneva troppo tempo lontano da lei, poteva sottrargli la gioia di vedere la sua Hiruka prendere un aereo e andare lontano. Appena sentì il sole battergli sul viso Hiruka rise e cominciò a ballare sentendosi bambina e quella parte di lei che andava piano piano morendo nei suoi giorni di reclusione ora era viva più che mai. Amava il sole, la gente, Firenze, ma amava soprattutto il David di Donatello in cui si rispecchiava poiché anche lei aveva sconfitto un gigante, il più temibile di tutti, quella reclusione, quella depressione era stata per lei agghiacciante, ma per fortuna ora se ne era liberata ed era libera ora.

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gIulIa dI leo

UN VIAGGIo... APPENA INIzIATo

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Dal quaderno del signor J. E.

“Mai avrei pensato che bastassero due occhi per far infrangere a un uomo debole, come sono io, tutte le regole. Quando divenni finalmente psicologo, mi ripromisi che mai avrei interferito nella vita di un mio paziente e per undici anni ci sono anche riuscito. Oggi, 12 marzo 2013, dopo il solito colloquio con il signor De Francesco (il quale prova ancora a evitare di parlare della sua ex moglie e ha smesso anche di prendere il Prozac), aprono la porta due occhi che definirei inchiostro nero su carta, dei capelli decolorati che le arrivano sulle spalle, coperte da una polo blu molto formale. Appena l’ho vista, l’ho immagi-nata bambina, poi adolescente e sono tornato in quella stanza, dove la carta da parati non era più la stessa, accogliendola con un freddo ‘Venga, si sieda’. L’ul-tima volta che mi sono sentito così rapito da una persona, è stato due mesi fa in una tavola calda, dove conobbi un signore anziano, dallo sguardo abissale che canticchiava ‘mi fiorisce in petto un pianoforte sul quale suonano gli amori de-gli uomini, del mondò. Mentre Alina, così si chiama, non canticchiava niente, ma anzi non faceva rumore nemmeno respirando, quasi avesse paura. E credo di non poter scrivere altro poi, non c’è niente da documentare, perché del resto è stata l’unica seduta di Alina. Non mi è sembrato avesse voglia di parlare con uno psicologo, ma semplicemente con uno sconosciuto. Ora è un caso della mia vita, non riguarda il lavoro, Alina. Che bel nome però! Lo ripeterei all’infinito. Significa ‘nobile’, ma a me sembra il nome di un uccello, di una rondine…”

Mi dirigo al cinema di mio padre e sento la realtà che mi circonda più vicina alla mia anima del mio stesso corpo. Gli adulti nei bar si organizzano già per le vacanze estive, per il primo tuffo dell’anno. I giovani ventenni a quest’ora sono nelle loro case, si risvegliano di notte e al mare sono già andati. Gli ado-lescenti si fissano appuntamento alla Feltrinelli, ma poi non entrano e chissà dove si dirigono con le loro vespe. bologna puoi guardarla con gli occhi di un bambino o con quelli di un quarantenne come me e ti sembrerà sempre la

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stessa. Sono quasi arrivato e intravedo più gente del solito. È un cinema che sembra quasi un ponte anacronistico tra il futuro e il passato. L’ha aperto die-ci anni fa, ma lo scritto cinema sembra risalire agli anni ’50. ci sono soltanto tre sale, in quelle più grandi sono trasmesse le ultime uscite, mentre c’è una sala più piccola dove sono trasmessi film scelti da lui. oggi è il 12 marzo e nel 1977 a bologna fu chiusa Radio Alice, una delle più celebri radio libere e, conoscendo bene le associazioni cinematografiche di mio padre, sono sicuro che trasmetterà Radio freccia. Mi sembra quasi di vederlo papà, parlare con Alina e altri tre ragazzi all’entrata. No, non può essere lui!

“Ehi”, strilla facendomi l’occhiolino. “Queste ragazze dicono di aspettarti; che ci fanno con un tipo noioso come te?”. Questi ragazzi lo guardano come lo guardavano i miei amici ai tempi del liceo: tiene la scena come Vittorio Gassman nelle sue migliori interpretazioni! beh, non proprio tutti. ce n’è una, un po’ annoiata, che sembra evitare il mio sguardo.

“comunque questi due sono Filipp e Marco!” “Filipp?”. Il ragazzo non risponde, immaginando già il motivo della mia reazione e mi stringe la mano. È proprio il Filipp di cui mi aveva raccontato Alina durante la seduta, mon dieu. Ma non l’ha portato lei, lei ha portato la sua amica, che continua a non guardarmi. Marco esclama “Abbiamo conosciuto il signor Franco oggi in un locale” “Ragazzi, chiamatemi Frank! In ogni caso, ora è meglio entrare!”.

Preciso ad Alina che io non ne sapevo nulla, lei mi dice che immaginava fosse stata soltanto una strana coincidenza e poi mi presenta la sua amica. Si chiama chiara, ora mi guarda e mi guarda anche bene.

ci sediamo e come ogni volta sono sottratto dallo schermo nero pima che il film inizi. Mi trasporta altrove. chiedo a mio padre, a Frank: “Radiofrec-cia stasera, eh?” “Nein. Stasera ho fatto uno strappo alla regola: ieri, Oggi, Domani. Filipp e Marco oggi ammettevano di non aver mai visto un film con Mastroianni. comunque diventi sempre più bravo a indovinare i film, bravo!” “Tu diventi sempre più imprevedibile invece. come li hai conosciuti questi due?”. Mentre la Loren e Mastroianni hanno non so quanti figli, papà mi racconta cos’è successo oggi. ogni martedì, a mezzogiorno e mezza, da vent’anni, pranza nella locanda del suo amico Giovanni. Stesso tavolo, stesso numero di bicchieri di vino. Raramente individui sotto i quarant’anni fre-quentano questo locale e il destino ha voluto che proprio oggi Filipp e Marco avessero voglia di tortellini. Papà non ha potuto fare a meno di sentire i loro discorsi riguardanti il lavoro, l’immigrazione, gli innamoramenti, la crisi, la famiglia. Si è intromesso nella conversazione e li ha invitati al suo tavolo. Sembrava non parlassero con qualcuno più vecchio di loro da non so quanto

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tempo e avevano una voglia incredibile di raccontarsi. Qualche ora dopo quel casuale incontro, io incontravo Alina e la sua storia coincideva perfet-tamente con quella di Filipp, come le loro mani che si stringono nel freddo delle notti bolognesi. La storia di questi quattro ragazzi, in sintesi, è questa: Filipp è russo ed è scappato in Italia quando aveva soltanto diciotto anni, a causa della sua famiglia che sembra quasi imparentata con Putin. ora ha ven-tisei anni e bologna è già la quarta città in cui ha vissuto; frequenta la facoltà di Giurisprudenza, per sopravvivere fa vari lavoretti ed ha un romanzo in un cassetto che ha paura di aprire. Ha conosciuto Alina il giorno in cui le hanno detto che sarebbe dovuta partire per l’America ed è questo il motivo per cui lei è venuta da me ed io non l’ho lasciata andare. Sono nato in America e ho visto in lei lo stesso sguardo che i miei genitori hanno nelle foto sbiadite dal tempo. Alina da quando ha conosciuto Filipp non vorrebbe più partire. Questo dissidio la sta corrodendo e l’ha portata a mettere in dubbio anche le sue origini. Alina ha vissuto a Varsavia fino ai tredici anni, quando con i suoi genitori, di origine moldava, si trasferì inizialmente a Ferrara. Lei ora è una trentenne che è riuscita ad ottenere un lavoro come giornalista a New York, ma allo stesso tempo è stata un’adolescente che ha avuto a che fare con le droghe leggere, i festini, i furti, gli incidenti e tutto ciò che può derivare da una gioventù violenta. Ed io voglio sapere di più di lei, convincerla a partire e nello stesso momento mio padre è intenzionato a indicare un possibile futuro a Filipp e Marco. Marco che è sempre dentro a un bar, che non sa cosa farà, proprio come nella canzone di Dalla. Ha ventiquattro anni ed è il coinquili-no di Filipp da quasi un anno, da quando ha deciso di non abitare più con i suoi genitori, due avvocati, i quali vorrebbero che il loro figlio fosse la loro fotocopia. Ma Marco pur rifiutando le sue origini borghesi, il lavoro dei suoi, la sua casa, i suoi soldi, non è riuscito a lasciare la facoltà di Giurisprudenza perché fondamentalmente non sa cos’altro fare. E poi c’è chiara, che per raccontarla devo ritornare a vivere e smetterla di fare il resoconto di questa strana situazione in cui mi trovo.

Il film è finito e papà ci invita a casa sua. Mia madre sicuramente è di fronte al computer, a scrivere sette parole e a cancellarne cinque. Siamo sei persone e una macchina. Decidiamo di stringerci e mi ritrovo affianco a chiara, vicini come le braccia dei militari lungo i fianchi quando stanno sull’attenti. ora ri-esco a vederla meglio. Ha i capelli neri, il viso che è un quadro di Lucio Fon-tana e il taglio è la sua frangia dritta, come le strisce pedonali sulle sue gambe lunghe e le mie dita vorrebbero essere pedoni che devono raggiungere il suo

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cuore. La conversazione in auto si è spostata dal calcio all’arte, l’unico argo-mento che sembra interessare chiara. Tanto che mio padre, mentre guida, le chiede “Signorina, lei sogna di fare l’artista?”

“on no, sono troppo vecchia per sognare”“Ma se ha soltanto ventisette anni. Non le sembra troppo presto per smet-

tere di sognare?”. “ci sono persone che hanno smesso molto prima di me”. chiara accennava un sorriso provocatorio e mio padre per la prima volta è

restato muto: nessuna donna era mai stata capace di zittirlo!Arriviamo a casa e mia madre è con la sua migliore amica e non a scrivere.

oggi a quanto pare tutta la mia famiglia va contro le proprie consuetudini. Si presenta agli ospiti e non mi vede da così tempo che tratta anche me come un’ospite. con la sua amica preparano pietanze indiane o almeno ci provano.

ci sediamo a tavola e papà guarda chiara e le dice “Solo le cecoslovacche hanno questa luce negli occhi”.

Lei infastidita risponde “Sono di bologna” “Lo so, in realtà era una battuta di…” “…Amarcord”. zittito per la seconda volta. Questa ragazza è tutti i film di Fellini! E quanto mi piace quando alza gli occhi al cielo, come una madon-na punk. A disintegrare il silenzio sono le nostre risate sotto i baffi e poi la dirompente curiosità di Marco. “Frank, mi piacerebbe sapere come vi siete conosciuti tu e tua moglie” “Sophie, glielo racconti tu?” “Va bene”, si accen-de una sigaretta e riprende “Allora, Franco in realtà è di Napoli e come tutti i giovani in quegli anni dovette emigrare. Andò a New York, come te Alina. Lavorava come cameriere in un ristorante italiano. Io ero andata a New York per lavorare come modella, ma, come avrete già intuito dal mio accento, sono francese. E niente, una sera ero andata nel ristorante dove lavorava lui per ubriacarmi. odiavo fare la modella, volevo fare la scrittrice. Lui mi vide triste e così si avvicinò e parlammo per tutta la notte e per tutto il mese seguente, finché poi non potemmo fare a meno di dircelo che c’eravamo abbastanza innamorati. Io tornai a Parigi, stanca di quell’ambiente e lui volle venire con me. Mi convinse a inviare il mio romanzo a un editore ed io lo convinsi ad aprire un suo locale. La nostra fortuna fu il coraggio, da cui derivò l’amore da cui nacque nostro figlio”. Se non avessi sentito questa storia infinite volte, ora piangerei. I ragazzi commentano commossi e Anna, l’amica di mamma, mi sorride. Per fortuna interviene papà. “Sophie sai che Filipp ha scritto un romanzo?” “Davvero?”. Filipp annuisce. “Parlamene un po’, posso darti qualche consiglio”. A questo punto la conversazione si frammenta: mia mam-ma parla con Filipp, tutti gli altri parlano tra loro, tranne chiara ed io.

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“Sei silenziosa sempre o soltanto stasera?”“Stasera più del solito”“Non vorresti essere qui?”“No”“con me ti va di parlare?”“Forse”“Alina mi ha detto che dipingi”“Quando ho tempo, s씓E sono belli i tuoi quadri?”“Perché mi parli come uno psicologo?”“Lo sono”“Non esserlo con me”“ok”“bene”“chiara”“Sì?”“È bello averti incontrata”. Arrossisce e decido che è meglio non dire altro. Quando si sta in silenzio

insieme, si creano i più bei romanzi soltanto con le traiettorie disegnate dalle iridi.

Un mese dopo

Una settimana fa ho accompagnato i miei genitori e Alina all’aeroporto. Filipp piangeva abbracciandoli, baciava le guance calde di Alina e le pro-metteva di raggiungerla il prima possibile; non credevo che i russi ne fossero capaci. Io invece sorridevo. La ragazza che nel suo nome porta la parola ali finalmente ha volato verso i suoi sogni, come una rondine che migra. I miei, invece, sono tornati nella città che li ha visti crescere: mamma alla ricerca dell’ispirazione e papà alla ricerca di se stesso. Ultimamente si sentiva come Lo straniero di camus, distaccato e soltanto New York può farti ritornare dentro te stesso, dentro il mondo. La sua partenza poi ha giovato quei due casi umani di Filipp e Marco. Mio padre ha avuto la brillante idea di lasciare, durante la sua assenza, la gestione del cinema nelle loro mani. È passata sol-tanto una settimana e si sono già appassionati. Marco inizia a desiderare di fare il regista e portare sullo schermo il romanzo di Filipp non sarebbe male.

Invece io mi sono innamorato di chiara, dei suoi baci, delle sue mani, dei

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suoi quadri e non c’è niente che mi rende più felice di trarla in salvo dalla noia, dalla rassegnazione in cui si trovava e renderla finalmente libera, come in una fiaba.

E pensare che tutto ciò iniziò con uno sguardo, con delle coincidenze. I sentimenti viaggiano alla velocità di 299 792 458 m/s. Sono voli pindarici, esplorazioni marine e le ciglia delle persone sono scogli sui quali aggrapparsi durante le tempeste. Gli orologi di molti adulti vanno ventiquattro ore indie-tro e così confondono il passato con il futuro, non riuscendo più a distingue-re il sogno dalla realtà. Però sognano ancora, a differenza di molti giovani, i quali spesso non sanno che strada scegliere oppure lo sanno ma non è dove vogliono andare. o ancora peggio non hanno il coraggio di amare i propri sogni fino al punto di raggiungerli, di andare contro la società che li vuole tristi e spenti.

Ho un’amica, Giulia, che in una notte d’inverno mi ha detto: “Siamo ani-mali notturni, non abituati alla luce, che vorrebbero l’alba ma ne hanno allo stesso tempo paura. ci fa paura ribellarci, ci fanno paura le rivoluzioni e le relazioni, perché è questo che ci ha insegnato questo Paese, ad aver paura. Ma dobbiamo imparare a essere affamati di luce, perché le macerie di un Pa-ese non possono sotterrare i nostri sogni d’anarchia. Io invidio i tuoi genitori che emigrarono in America, le badanti ucraine, i commercianti giapponesi, i serbi che vengono qua per restare e le storie dei nigeriani, perché amano il loro Paese di appartenenza fino al punto di lasciarlo. Perché amano così tanto la vita, che si abbandonano a essa, si fanno trascinare dall’oceano e ricominciano a vivere sulla prima terra che incontrano. Quando guardo negli occhi un uomo scappato dalla guerra e che è sopravvissuto, penso soltanto che una crisi possa anche trasformarsi nel momento più lucido della nostra vita. che sia economica, culturale, politica, sentimentale, una crisi è solo la finestra buia in mezzo a tante finestre illuminate di un palazzo. Luci che mi fanno sorridere ogni volta che le vedo, perché significa che qualcuno sta abi-tando nell’esistenza”.

Mi chiamo Jean Esposito e per fortuna questo è solo l’inizio di una storia.

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gabrIella dI lorenzo

IL VIAGGIo DELLA VITA

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“Sai cosa è bello? Guarda: noi camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sul-la sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai questa grande spiaggia e non ci sarà più nulla, un’orma, un segno qualsiasi, niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. È come se non fossimo mai esistiti. Se c’è un luogo, al mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. È tempo che passa. E basta. ”1

Il mio viaggio ebbe inizio il 21 giugno 1997, iniziai ad intravedere la vita da-gli occhi socchiusi e innocenti che ha un bambino appena nato. Viaggiai tra la dolcezza del seno materno e le mille attenzioni che mi rendevano, giorno dopo giorno, sempre più timida.

Viaggiai tra le mille emozioni che scoprivo man mano che crescevo. Viag-giai tra la vita che vedevo scorrermi alle spalle e la vita che scorgevo davanti ai miei occhi.

Viaggiavo, e più il mio viaggio continuava più mi accorgevo delle fermate che dovevo affrontare prima di proseguire. Dovevo fermarmi per forza!

Di solito in viaggio ti ricordi sempre “quel qualcosa” che hai lasciato a casa e pensi di tornare indietro a prenderla perché per te ha un gran valore, poi ci sono quei casi in cui rimani ore a pensare se tornare indietro o lasciar perdere e alla fine lasci perdere.

A me è successo spesso di tornare indietro, era pur sempre un viaggio an-che quello. Tornavo indietro per sentire cosa si provava a ripercorrere la stessa strada, ma con mente diversa, ogni volta!

Più tornavo indietro e più capivo quanto fosse importante quel viaggio che

1 Alessandro baricco, Oceano Mare, Feltrinelli 2007

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stavo attraversando perché per ogni ricordo che incontravo, se ne creavano di nuovi ed io crescevo insieme all’aumentare dei ricordi.

Viaggiavo per scoprire, per migliorare ciò che già conoscevo, per dar vita a ciò che immaginavo, per confermare ciò che mi veniva raccontato. Viaggiavo perché sapevo che, prima o poi, da quel viaggio, sarebbe uscita una persona diversa. Migliore.

Il mio viaggio non è mica finito. Ho tanto ancora da vedere, magari ora che ho capito come si viaggia, rallento un po’.

Una delle tante cose che ho scoperto è che tutto ciò che affronterai non lo ricorderà mai nessuno se non te stesso, quindi da buon viaggiatore vi dico “affrontate la vita solo per voi stessi, perché farlo per gli altri sarebbe un ge-sto troppo generoso e altruista che non tutti meritano”.

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nIcola sagarIa

cAMMINAR SI DEVE!

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Il viaggio è in stretta relazione con l’uomo. È la metafora della vita! Implica un progetto, un cammino, una meta verso cui tendere, un orizzonte che si apre davanti a te; un orizzonte che -come avviene nella realtà quotidiana- man mano che procedi si allontana… è sempre in prospettiva. Intanto tu hai fatto un percorso, hai viaggiato, visto, conosciuto, appreso… Tuttavia, il desiderio di saper e comprendere non si “queta” in te, anzi si ravviva sempre più. Viaggiare è amore della scoperta, abbandono della quotidianità, della routine. La letteratura, la poesia, la pittura, la musica, la cinematografia, la filosofia, le arti video-ludico-multimediali sono ricche di viaggi più o meno grandi, più o meno epici. Potrebbero bastare due esempi, per tutti: il viaggio di odisseo e quello di Dante, ma a me colpisce -e voglio ricordare- anche quello di Parmenide.

È nella natura umana il desiderio della scoperta, del nuovo, dell’ignoto. ognuno di noi è in sé un piccolo odisseo, assetato di conoscenza. ognuno

di noi ha davanti a sé strade da percorrere, mondi da scoprire, gente da co-noscere: deve imparare a discriminare il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bene dal male; deve crescere, farsi uomo nel vero, nel giusto, nel bene.

camminar si deve

Camminar m’è d’uopo tra sentierid’indizi pieni, ove all’ingegno acuto nulla pare. È. Della Dea la parola saggiami accompagna nel viaggio.

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Altri meco dietro vannoperché amore di sapere hanno. Se dal cuore tondo la verità, una, intera, ferma, chiara intendov’è chi del viver retto è cacciator provettodel Bene fa Virtù eccelsae di Legge ferrea regola e sommo ossequiocosì che vita per lei abbandona. Ricercar si deve d’aletheia l’alto sapereche in su dimorae che a cocchiere con cavalli e biga alatacontemplare è dato. Tale dono è dell’anima immortaleche dell’Ade il cammin percorree il suo destino per scelta cogliepur se Amelete con l’oblio, poi, distoglie. Nulla a questo toglie chi, con gran maestro accorto, si spinge là dov’è per pochi l’alto passo. E con divina guida, infin, s’inebria dello splendor divino. Molti altri al cammino intentiscoprono del mondo e del cuore i meandri…spesso giovani, alla ricerca del senso più profondo. Ricercar è d’uopo, camminar si devetra sentieri d’indizi pieni, a chi in tutti i punti lo sguardo volgee di sapere amore sente.

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eugenIa rIzzo

ANALISI TESTUALE: “DIALoGo DELLA TERRA E DELLA LUNA”, TRATTo DALLE oPERETTE MoRALI DI GIAcoMo LEoPARDI

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composte a partire dal 1824 e pubblicate nel 1827, a Milano, contempora-neamente alla prima edizione de “i Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, le “Operette morali” sono 24 componimenti in prosa, in cui si possono ri-scontrare le caratteristiche di tre generi di scritture, che, in quegli stessi anni, il Leopardi aveva individuato nelle pagine dello zibaldone: prose d’affetto e di immaginazione, trattati filosofici, dialoghi o novelle satiriche.

Quando scrive le operette, il Leopardi non lascia da parte motivi e senti-menti cari, per affrontare un’opera volutamente filosofica, satirica o immagi-nitiva, ma tutti questi elementi confluiscono in un unico magma compositivo, che gli fa scoprire anche nel pensiero la possibilità del canto e del sorriso. Nel disegno iniziale dell’opera, egli si proponeva di richiamarsi ai dialoghi lucia-nei, scrivendo un’opera prevalentemente comico – satirica, dalla quale, come si legge ancora nello “Zibaldone”, sarebbero dovuti emergere i contrasti per i quali soffriva, ma anche i “vizi dei grandi” e “gli assurdi della politica”, temi, questi ultimi, che non compaiono nell’opera definitiva.

La mente del Leopardi, rivolta completamente al problema della condizio-ne umana, non poteva aprirsi per lungo tempo alla passione politica.

Non si può certo individuare in quest’opera l’elaborazione di una vera e pro-pria filosofia, poiché la speculazione del Leopardi si apre e si conclude con un’affermazione, che non è neanche una negazione, ma una domanda circa il valore della nostra vita ed il fine dell’esistenza universale. All’inizio e alla fine della sua speculazione si riscontra un sostanziale pessimismo, che, al pari di ogni pessimismo, non può formularsi in una rigorosa dottrina filosofica.

Alla base di questa concezione pessimistica è il senso di nullità della vita e di nullità dell’uomo, che cerca di perseguire i suoi fini in un universo che è estraneo a tali fini, e che ignora addirittura l’uomo stesso. La scoperta di que-sta duplice disarmonia nel mondo umano e nella vita universale diventano

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l’oggetto della sua indagine, che il Leopardi svolge servendosi delle immagini e delle scene più varie, in cui si inseriscono come interlocutori gli stessi pesci, i pianeti o la natura personificata. Dietro questa scelta espositiva traspare il motivo così caro al Leopardi del “mondo sanza gente”, della vita che si svol-ge nell’universo estranea a noi ed ignara della nostra stessa vita.

Il “Dialogo della terra e della luna” è, appunto, un dialogo che ha come interlocutrici, la terra e la luna: la prima, carica di tutti i pregiudizi e le false credenze degli uomini, evidenziate dal Leopardi nel giovanile “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”, la seconda, ignara ed indifferente, inconscia quasi di sé medesima.

Attraverso lunghi e vani discorsi, che rivelano la consumata perizia stilistica dell’autore, il personaggio della Terra muove una serie di domande al suo satellite, tese ad accertarne le caratteristiche fisiche e abitative.

Fin dalle prime battute, Leopardi riprende il motivo della decadenza pre-sente che aveva ispirato molte operette precedenti.

La Luna, che pure si definisce “amica del silenzio”, rivela subito un atteg-giamento disponibile alla discussione, ma, al tempo stesso enigmatico, nel momento in cui afferma di essere sicura che la Terra, per loquace che sia, non potrà mai arrecarle fastidio.

Prende così avvio una serie di interrogazioni, che la Terra formula, ansiosa di ricevere una risposta che forse attende da secoli e a cui la Luna sistematica-mente risponde, senza perdere la propria impassibilità, anzi evidenziandola nel momento in cui la sua risposta non è un’affermazione né una negazione, oppure un’affermazione che non scioglie un dubbio, ma lo accresce.

La prima domanda che la Terra pone si richiama alla teoria pitagorica, in base alla quale le sfere celesti emettono un certo suono e la luna è “l’ottava corda di questa lira universale”. La Luna non nega che ciò possa essere vero, essa solamente non ne ha coscienza. Allora la Terra le rivolge l’annosa que-stione se essa sia abitata, come sostenuto da orfeo fino al De La Lande. La Luna risponde di sì, ma, richiesta, afferma di non conoscere la razza dei suoi abitatori e tanto meno quella dei cosiddetti uomini.

Non conosce nemmeno il significato delle passioni, degli ideali, degli stru-menti politici e militari, di tutto ciò, insomma, che possiamo individuare come attinente alla sfera dell’umano. Anzi la Luna rimprovera la sua interlocutrice e la chiama “vanerella”, perché ha creduto che la natura avesse creato ogni cosa a sua immagine e somiglianza, mentre una tale convinzione è falsa al pari di quella dei fanciulli che la immaginano con gli occhi, la bocca ed il naso.

L’incipit ricorrente è: “cara luna”. Segue una lunga enumerazione attestan-

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te l’eterno tendere dell’uomo verso il satellite luminoso, dai ridicoli tentativi di raggiungimento ed esplorazione, ai luoghi comuni del tipo: “i cani abba-iano alla luna”, “cercare la luna nel pozzo”, alle ipotesi pseudoscientifiche e fantasiose: “la luna è maschio o femmina”, “gli Arcadi sono più antichi della luna”, “le donne della luna sono ovipare”, “la luna è di cacio fresco”, “la luna è traforata”, “la luna d’oriente risplende sulle cime dei minareti”.

La risposta della Luna è ovviamente ancora più ironica delle precedenti: quella che emerge dalle parole della Terra è la descrizione effettuata in base a schemi esclusivamente umani che, come tali, possono risultare comprensibili solo a coloro che li elaborano. Una cosa è la Luna vista con gli occhi degli uomini e quasi interpretata ex novo, altra è il pianeta in se stesso.

La Terra ricorre allora ad argomentazioni più scientifiche, che dovrebbero prescindere dalle interpretazioni umane, quali l’influsso lunare sulle maree, ma neanche di questo fenomeno la sua interlocutrice si accorge.

Ricade, poi, nuovamente nell’errore di parlare per bocca degli uomini e, questa volta, cita l’Ariosto, nel cui poema si legge che tutto ciò che l’uomo perde, compreso il senno, può ritrovarlo sulla luna. Questa citazione offre al poeta lo spunto per una nuova tirata polemica contro gli uomini del suo tempo che hanno smarrito i valori più importanti: “l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine”.

Ma queste parole suonano vane, prive di significato: la Luna, piuttosto che conservare il senno degli uomini, perderà il proprio, se continuerà a dare ascolto alle chiacchiere della Terra.

Proprio nel momento in cui il dialogo sembra non avere più sbocchi, in quella che possiamo chiamare la sequenza conclusiva, emerge una parola, un concetto-chiave: “i mali”, su cui si intesse il codice – base per l’elaborazione di un linguaggio comune, finalmente bilaterale.

La Luna conosce i mali e, mentre su tutti gli argomenti precedenti si è detta ignorante, di una cosa è sicura: i suoi abitanti, quali che essi siano, sono infe-lici. Non solo, essa sa, per averglielo chiesto, che tale condizione è comune a tutti gli altri pianeti del sistema solare.

Il dialogo si conclude con un ultimo scambio di battute. La Terra è ottimista, spera che la situazione possa mutare in futuro, anche se nell’affermazione: “e oggi massimamente gli uomini mi promettono per l’avvenire molta felicità”, si può cogliere il sarcasmo del Leopardi contro tutti gli ottimisti del suo secolo.

La Luna sa che questa speranza è vana. Intanto la Terra deve interrompere la conversazione perché su di essa è not-

te e gli uomini potrebbero svegliarsi, mentre sulla Luna è giorno: si tratta di

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due mondi alla rovescia, ma accomunati dalla terribile legge della sofferenza. Eppure in quei saluti finali: “addio, dunque; buon giorno”, “addio; buona notte”, pare di cogliere l’eco pacata della rassegnazione.

La prosa leopardiana esprime profondi sentimenti, utilizza lessico ed im-magini proprie della poesia, anche se attua, grazie anche all’utilizzo del dia-logo, come facevano notare già il Momigliano ed il Sapegno, una sorta di sermo familiaris. Si nota la presenza di arcaismi, poetismi e diminutivi: ad es. “vanerella”. Questo brano viene proposto agli alunni come esempio di prosa “filosofica” leopardiana, attestante lo sforzo del poeta di colpire col suo riso l’incapacità evidente dell’uomo di uscire da sé medesimo, di concepire un universo a lui del tutto estraneo. Secoli di antropocentrismo hanno abituato l’uomo a sentirsi al centro dell’universo, a fargli credere che l’intera natura sia stata creata solo per lui, ma l’unica verità che il Leopardi sente di poter espri-mere, alla luce delle sue riflessioni, è l’esistenza di una infelicità universale.

Questo grandioso motivo poetico attraversa l’intera opera e può essere uti-le porre a confronto questo dialogo con altri che lo precedono o lo seguo-no nella struttura compositiva. Un accostamento significativo è quello con “Cantico del gallo silvestre”, ove, nella domanda che il gallo rivolge al sole, il Leopardi affronterà il motivo in tutta la sua ampiezza, senza celare la com-mozione lirica. È interessante anche approfondire il rapporto singolare fra il poeta e la luna, presenza quasi costante nei suoi componimenti, oltre che con altri corpi celesti. In ultimo, non certo per ordine di importanza, cito anche la possibilità di trovare in componimenti poetici immediatamente precedenti alle “Operette morali”, temi e motivi ispiratori. Mi riferisco, in particolare, alla canzone “Alla sua donna”, che attesta l’accordo che si è fatto nell’animo del Leopardi tra pensiero e poesia, tra letteratura e ispirazione personale.

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gIulIa dI leo

IN VIAGGIo coN LA MUSIcA

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Non avremo mai abbastanza dita per contare tutte le volte che osservia-mo il posto in cui viviamo con disprezzo, ripetendo “qui non accade, non cambia mai nulla”. Però abbiamo abbastanza dita, abbastanza passione per impugnare degli strumenti musicali e iniziare a creare. Quindi a volte può accadere che durante una passeggiata, tre colleghi, si ritrovino a cercare un modo per riuscire a colorare anche i lunedì più bui passati in un’aula, in una scuola un po’ caotica. E non avrei mai pensato potesse accadere proprio nella scuola che frequento io, il Liceo Parmenide.

La professoressa Di Vietri, il professore Lingardo e il preside Massanova, mentre calpestavano le prime foglie cadute dell’anno, si resero conto che le loro vite sono legate dalla stessa identica forza.

“cosimo, resta in silenzio per un secondo ed elencami tutti i suoni che rie-sci a percepire” esclamò improvvisamente la professoressa.

“Perché dovrei?”“Fallo e basta”“certo che inizia a farci male passare così tanto tempo con gli alunni, eh?”.

La professoressa non fece caso alle sue parole, chiuse gli occhi e iniziò ad ascoltare. Lui sospirò e la seguì in questa sorta di rituale.

Il preside, che era rimasto un po’ indietro, li raggiunse e basito disse “Ma cosa fate?”.

“Ascoltiamo” risposero all’unisono.“Ah, interessante” rise. Dopo qualche secondo riprese “E posso sapere

cosa sentite?”“L’anziana del palazzo di fronte che ascolta Radio Maria, il vento che ac-

carezza i capelli, i fiori, le buste di plastica, i bambini che giocano a calcio, le voci delle loro madri, i cani che abbaiano…”

“In sintesi?”

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“Riusciamo a sentire la musica”.Perché la musica è dovunque, anche in una scuola. Nacque così l’idea di

organizzare una rassegna di concerti, a cui avrebbero partecipato musicisti professionisti ed alunni.

La musica è l’unico frammento di natura che l’uomo riesca davvero a con-trollare e a mutare. Riesce ad essere tutto ciò che vuoi e che intendi tra-smettere, per questa ragione possiede molteplici volti. Questa rassegna è nata appunto con l’intento di rappresentare la musica nella sua varietà, tracciando una strada che tutti hanno avuto modo di percorrere. Iniziando dall’essenzia-lità di strumenti della prima serata (Music around the world), proseguendo con l’eccezionalità dello spettacolo “da Pergolesi ai beatles” e la solennità della Musica Rinascimentale. Nel bel mezzo di questo cammino è subentrata anche la crossover Music, interpretata da quattro amici che hanno reso accessibile a tutti la musica classica, accompagnata tra l’altro da brani di En-nio Morricone che hanno reso possibile guardare un film ad occhi chiusi. E’ arrivato poi il turno della capacità della Musica Elettronica di sezionare ed esplorare suoni minuziosamente, riuscendo ad assemblarli in modo da creare atmosfere sempre diverse. Le ultime due serate sono state scandite dall’in-credibile inconsapevolezza della Musica classica e corale di realizzare cieli in una stanza.

Questi affermati musicisti locali, però, come avevo accennato, sono stati introdotti da alunni che sono riusciti a stravolgere il tema di ogni concerto, creando grazie al loro ancora giovane amore per la musica venature di note mai scontate.

ora che l’anno scolastico è finito, posso osservare da abbastanza lonta-no il viaggio, durato da dicembre a maggio, intrapreso dai musicisti e dagli spettatori e scrutare i segni indelebili che ha lasciato sulla nostra pelle arida. Innanzitutto ci ha fatto conoscere diversi generi che mai avremmo pensato di apprezzare. Ma soprattutto ci ha fatto capire che insieme, attraverso un incontro intergenerazionale, possiamo anche dar vita a qualcosa che a molti potrà sembrare piccolo e scontato, ma per chi ogni mattina si sveglia pen-sando alla musica può essere importante. Ma in fondo dopo ogni viaggio non siamo più quelli di prima, soprattutto dopo i cosiddetti viaggi del senti-mento. Pensateci, la musica è alla base della nostra educazione sentimentale. Quando eravamo ancora degli embrioni potevamo già percepire le emozioni provate dalle nostri madri provocate dalle canzoni che ascoltavano, mentre si accarezzavano la pancia. Quando poi diventiamo dei bambini iniziamo ad ascoltare i primi dischi che ci capitano tra le mani ed io credo sia meraviglio-

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so che un bimbo riesca a piangere di fronte ad un brano che parla di cose impensabili per quell’età. bastano le note e i silenzi ad insegnarci a capire gli altri e noi stessi prima del tempo. basta respirare a tempo con chi ci canta la ninna nanna. Poi quando cresciamo il mondo inizia ad apparirci crudele e la musica non diventa un modo per rappresentare la realtà, ma per cambiarla. Qualcuno, come me, decide di non rimanere ad ascoltare per tutta la vita ma di farsi traghettare da fogli bianchi, di attraversare le corde di una chitarra come fossero binari, di volare con le corde vocali. Mi piace quando si sceglie qualcuno o qualcosa da amare per tutta la vita. Mi piace restare anche quan-do sembra tutto troppo difficile, quando non si vuole più continuare, quando le mani fanno male. Piace a me come a tutti quelli che si sono innamorati per-dutamente della musica, piace a me come a tutti quelli che sono stati salvati da Lei almeno una volta nella vita. Piace a me come a quei tre colleghi di cui vi ho parlato all’inizio. Quindi, si spera che grazie a quest’iniziativa qualcuno abbia notato per la prima volta la bellezza disarmante della musica e che ora non ne possa fare a meno.

Ma non perdete altro tempo a leggere queste parole, perché Lei non può essere descritta, Lei va vissuta. Quindi, chiudete tutto, uscite fuori di casa e iniziate ad ascoltare. ché vi assicuro che ogni volta che vi sentirete soli, la musica sarà lì ad ascoltare voi.

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