QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE · La collana dei “Quaderni del Dipartimento di...

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dignità umana e relazioni giuridiche UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE - SEDE DI PIACENZA DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE DIGNITÀ E DIRITTO: PROSPETTIVE INTERDISCIPLINARI QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE Contributi di: Antonino Barletta - Luciano Eusebi - Saverio Gentile Lauretta Maganzani - Claudia Mazzucato Giuseppe Monaco - Dino Rinoldi L ibellula

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DIGNITÀ E DIRITTO: PROSPETTIVE INTERDISCIPLINARI

QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

Contributi di:Antonino Barletta - Luciano Eusebi - Saverio Gentile Lauretta Maganzani - Claudia Mazzucato Giuseppe Monaco - Dino Rinoldi

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€ 15.00

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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL S. CUORE – SEDE DI PIACENZA QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

DIGNITÀ E DIRITTO:

PROSPETTIVE INTERDISCIPLINARI

Contributi di:

Antonino Barletta - Luciano Eusebi - Saverio Gentile - Lauretta Maganzani - Claudia Mazzucato - Giuseppe Monaco - Dino Rinoldi

Quaderno 2, 2010

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© Libellula Edizioni Borè s.r.l via Roma 73, 73039 Tricase (Le) www.libellulaedizioni.com email: [email protected] isbn: 978 88 9681 8107

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INDICE

Presentazione della ricerca………………………………………. 5

Antonino Barletta, Contributo allo studio dell’accertamento degli status ……………………………………………………….... 7Luciano Eusebi, Il rapporto con l’«altro» alla luce della Costituzione. I riflessi sulle problematiche del «fine vita» e l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico………………………………………...................... 39Saverio Gentile, Il diritto indegno: le leggi contro gli ebrei (1938-1945)……………………………………………………….. 71Lauretta Maganzani, La dignità umana negli scritti dei giuristi romani……………………………………………………. 85Claudia Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice……………… 99Giuseppe Monaco, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative……………………… 167Dino Rinoldi, Dignità nel diritto e diritto alla dignità (Dignità dell’uomo e famiglia umana fra particolarità e universalità dei diritti)…………………………………………… 197 Authors and Abstracts…………………………………………… i

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PRESENTAZIONE DELLA RICERCA

La collana dei “Quaderni del Dipartimento di Scienze giuridiche” della

sede piacentina dell'Università Cattolica del Sacro Cuore nasce con lo scopo primario di costituire il “contenitore naturale” per i lavori di ricerca condotti, su varie tematiche e nell'ambito delle attività del Dipartimento, dagli studiosi afferenti al medesimo.

La collana prende il via con la contemporanea pubblicazione di tre quaderni, mediante i quali si intende dare visibilità esterna a una ricerca di respiro collettivo, promossa dal Dipartimento e finanziata dall'Università Cattolica del Sacro Cuore in quanto reputata di rilevante interesse di ateneo, in tema di “dignità umana e relazioni giuridiche”.

In questo contesto, con un approccio spiccatamente multidisciplinare, ci si è interrogati su quale attuazione la dignità umana - comunemente ritenuta uno dei pilastri fondativi della modernità giuridica occidentale - trovi oggi nelle relazioni giuridiche.

In particolare, ci si è chiesti se tale concetto abbia effettiva attitudine a porsi come sostrato comune ai diritti umani, zoccolo duro del principio di uguaglianza, oppure riesca a trovare affermazione solo in termini generici e con risvolti giuridici oltremodo limitati.

I risultati della ricerca sono stati raccolti, per quanto possibile, per aree tematiche e vengono oggi, come si è detto, pubblicati in tre volumi – “Cibo e religione: diritto e diritti”, “Dignità e diritto: prospettive interdisciplinari”, “Dignità e diritto nei rapporti economico-sociali” – che costituiscono però un tutt’uno e così vanno letti, come le forti connessioni reciproche confermano (alla ricerca dei fili rossi presenti).

Antonella Sciarrone Alibrandi Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche

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ANTONINO BARLETTA

Contributo allo studio dell’accertamento degli status SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Gli status come momento fondamentale della tutela della persona e della dignità umana. I problemi interpretativi: tra l’incertezza della nozione e le lacune della legge. – 3. Necessità dell’approccio processuale per l’enucleazione della nozione di status. – 4. (Segue) Il carattere tipico della tutela degli status e il ruolo dell’interprete. – 5. La giurisdizione del giudice ordinario nella tutela degli status ed i problemi interpretativi conseguenti all’applicazione del procedimento in camera di consiglio. – 6. (Segue) Le “nuove” tutele delle situazioni personali: la partecipazione del p.m. e il rispetto del contraddittorio. Questioni di legittimazione ed interesse ad agire in materia di status. – 7. Riflessioni conclusive.

1. Premessa. Una recente sentenza delle sezioni unite ripropone la questione della

nozione degli status e i problemi legati al loro accertamento nel processo civile1. Con tale pronuncia la S.C. ha ritenuto di adottare una nozione assai ristretta di “stato e capacità delle persone” al fine di precludere qualsiasi

                                                            1 Il riferimento è relativo a Cass., sez. un., 13 novembre 2008, n. 27145, in Foro it., 2009,

I, 983, con nota di R. CAPONI-A. PROTO PISANI, Il caso E.: brevi riflessioni dalla prospettiva del processo civile, con la quale è sancita l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposta dal P.G. presso la Corte d’Appello di Milano contro il provvedimento di autorizzazione all’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale emesso, in sede di rinvio, dalla stessa Corte d’Appello milanese (d., 9 luglio 2008, in Foro it., 2009, I, p. 983), a seguito di Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, in Corr. giur., 2007, 1686, con commento di E. CALÒ, La Cassazione “vara” il testamento biologico.

Per rafforzare le proprie conclusioni, nel senso dell’inammissibilità del ricorso del p.m., la S.C., dopo aver adottato una nozione assai ristretta di status personali, rileva come in ogni caso la legge non riconosca al p.m. il potere d’impugnare le sentenze emesse nelle materie di cui all’art. 70 c.p.c. e, inoltre, come il giudizio in cassazione preveda comunque l’intervento obbligatorio del P.G. presso la Corte di Cassazione. Nonostante queste ulteriori considerazioni, sembra, a chi scrive, che l’individuazione della nozione di status avesse nella specie un carattere decisivo. La qualificazione della causa come attinente allo “stato e capacità delle persone” è rilevante, infatti, non solo ai fini della partecipazione del p.m. nel giudizio avanti la S.C., resa sempre obbligatoria dagli artt. 379 c.p.c. e 76 ord. giud., bensì soprattutto in relazione al successivo giudizio di rinvio, nonché ai fini della proponibilità della revocazione, sancita dall’art. 397, n. 1, c.p.c., quando “la sentenza è stata pronunciata senza che [il p.m.] sia stato sentito”.

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8 Antonino Barletta

prerogativa al p.m. In ispecie, si è affermato che la nozione di cui all’art. 70, comma 1°, n. 3, c.p.c. possa essere riferita solo alla posizione soggettiva dell’individuo come cittadino o nell’ambito della comunità familiare e non a controversie o questioni attinenti a “posizioni soggettive” diverse da quelle appena menzionate. Sul punto le sezioni unite si richiamano ad un proprio precedente, nel quale si è escluso il difetto di giurisdizione del giudice tributario ai sensi dell’art. 39 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 5462, negando appunto la possibilità di riferire la nozione di “stato e capacità delle persone”, di cui alla citata disposizione sul processo tributario, alla qualifica di amministratore di fatto di una società a responsabilità limitata3.

Occorre subito osservare, però, come la ricostruzione della nozione di “stato” delle persone meritava un maggiore approfondimento sul piano sistematico generale. A conforto di tale notazione è possibile rilevare come di ben altro tenore erano state precedenti prese di posizione sul punto della Cassazione, anche a sezioni unite, negli ultimi anni. In particolar modo, si segnalano due sentenze delle sezioni unite della Cassazione:

- sent., 12 luglio 2000, n. 483, con la quale si riconosce la possibilità che la situazione soggettiva dell’invalido civile costituisca uno status, suscettibile di essere posto ad oggetto di accertamento4;

                                                            2 Ai sensi dell’art. 39 d. lgs. n. 546 del 1992 è esclusa, appunto, la giurisdizione del giudice

tributario sulle questioni di “stato e capacità delle persone”. 3 Cass., sez. un., 18 ottobre 2005, n. 20113, in Giust. civ. Mass., 2005. 4 In Giust. civ., 2001, I, p. 2191, con nota di R. LOMBARDI, Azione di mero accertamento

dello status di invalido e azione di condanna alle prestazioni pecuniarie: interesse ad agire e legittimazione passiva. In tale pronuncia la S.C. ha affermato: “la categoria degli status è di costruzione teorica poiché, quando la legge adopera l’espressione “stato” (ad es. nell’art. 9, secondo comma, cod. proc. civ.), si riferisce ad una posizione di appartenenza ad una comunità (status civitatis, status familiae), dalla quale nasce una serie a priori indeterminata di altre situazioni soggettive attive e passive. Però la dottrina più recente pone in luce come, in seguito allo sviluppo della tutela, legislativa e amministrativa, delle categorie di cittadini più deboli, debba accogliersi una più ampia nozione di status, inteso come posizione soggettiva, sintesi di un insieme normativo applicabile ad una determinata persona e rilevante per il diritto in maniera non precaria né discontinua; una situazione che secondo l’apprezzamento comune distingue un soggetto dagli altri. Benché questa posizione soggettiva sia caratterizzata principalmente dalla potenzialità ossia dall’impossibilità di definire a priori il contenuto, si concorda che essa possa essere accertata in sede giudiziaria, e più precisamente possano essere accertati i fatti costitutivi, poiché il convenuto può valutarne, sia pure con approssimazione, gli effetti per lui svantaggiosi e così apprestare la propria difesa”. A favore della possibilità di accertare lo status di invalido nel processo civile vi sono diverse altre pronunce della sezione laburistica sia precedenti (Cass., 6 luglio 1998, n. 6894, in Foro it., 1998, I, p. 2775, con nota di B. TONOLETTI; Cass., 15 luglio 1987, n. 6192, in Foro it., 1988, I, p. 2983), sia successive a Cass., sez. un., n. 483 del 2000 (cfr. Cass., 20 febbraio 2006, n. 3595, in Giust. civ., 2007, I, p. 694; Cass., 22 giugno 2002, n. 9146, in Giust. civ. Mass., 2002; Cass., 5 aprile 2002, n. 4887, in Giust. civ. Mass., 2002). In senso contrario, però, si devono registrare (anche) alcune

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Contributo allo studio dell’accertamento degli status 9

- sent., 17 novembre 2008, n. 27310, con la quale si statuisce che in materia di accertamento della qualifica di rifugiato politico il provvedimento del giudice civile costituisca una “sentenza emessa in materia attinente allo status delle persone”5.

2. Gli status come momento fondamentale della tutela della persona e della dignità umana. I problemi interpretativi: tra l’incertezza della nozione e le lacune della legge.

Con sempre maggiore frequenza, di recente, il concetto di status è

indicato come una nozione giuridica chiave nella definizione della tutela riservata alla persona umana nell’ordinamento, assegnando a quest’ultima – nell’attuale quadro costituzionale – il ruolo che nello stato liberale era rappresentato dal diritto di proprietà6, anche in relazione alla difficoltà di elaborare autonome e diverse categorie giuridiche a presidio della persona7. L’attenzione per questa categoria è alimentata dal primario rilievo che ad essa viene riconosciuta dalla tradizione giuridica dei paesi di common law, là dove la tutela degli status delle persone da parte del giudice civile è centrale per il raggiungimento degli attuali livelli di garanzia delle libertà individuali e di promozione sociale delle persone8.                                                                                                                               pronunce successive al 2000, secondo le quali dovrebbe negarsi accesso alla tutela di accertamento in relazione allo status d’invalido per carenza di interesse ad agire in relazione al nuovo quadro normativo in materia, di seguito all’entrata in vigore del d.lgs. n. 112 del 1998, sul presupposto che l’accertamento del c.d. requisito sanitario per il trattamento economico dell’invalido civile sia attribuito in esclusiva all’INPS (Cass., 17 giugno 2003, n. 9681, in Giust. civ. Mass., 2003; Cass., 24 settembre 2002, n. 13892, in Giust. civ. Mass., 2002).

Pure in altre occasioni la sezione lavoro della Cassazione ha adottato una nozione ampia di status al fine di consentire la tutela di accertamento, ad es. in tema di stato di gravidanza della lavoratrice negato dall’ispettorato del lavoro (Cass., 7 novembre 1998, n. 11250, in Orient. giur. lav., 1998, I, p. 1026). Un’isolata pronuncia riconosce persino alla posizione del lavoratore subordinato la qualifica di situazione “assimilabile ad uno status” ai fini dell’accesso alla tutela di accertamento: cfr. Cass., 17 novembre 1999, n. 12778, in Giust. civ. Mass., 1999.

5 In www.cortedicassazione.it. 6 Cfr. G. ALPA, Status e capacità, Bari, 1993, pp. 3 ss.; G. PROSPERETTI, Dall’art. 3 agli

artt. 35 e seguenti Cost., in www.associazionecostituzionalisti.it. Sulla nozione di status cfr. P. RESCIGNO, Situazioni e status nell’esperienza del diritto, in

Riv. dir. civ., 1973, I, pp. 209 ss.; Id., Status I) Teoria generale, in Enc. giur., XXX, Roma, 1993; A. CORASANITI, Stato delle persone, in Enc, dir., XLIII, Milano, 1990, pp. 948 ss.; L. LENTI, Status, in Dig. IV ed., Disc. priv., Sez. civ., XIX, Torino, 1999, pp. 29 ss.

7 Per un autorevole tentativo in tal senso L. MENGONI, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, pp. 1117 ss., v. spec. pp. 1135 ss.

8 Vastissima è la letteratura anglo-americana in tema di status, per limitare il riferimento alle opere più note cfr. C.K. ALLEN, Status and capacity, in The Law Quarterly Review, 1930, pp. 277 ss.; S. MAINE, Ancient law, London-New York, 1965 rist., pp. 99 ss.; H. GRAVESON,

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10 Antonino Barletta

Nonostante il crescente interesse sulla nozione di status, si deve registrare l’indubbia e persistente incertezza che ancora la circonda. Non siamo poi tanto lontani dallo scenario che Antonio Cicu così descriveva in apertura al saggio dal titolo Il concetto di «status»9: “l’espressione “status” dal diritto romano in poi ritorna continuamente nella terminologia giuridica. Pure il concetto che essa vuol rendere è rimasto sempre tra i più vaghi nella elaborazione scientifica. E nondimeno ciò non ha valso a negarlo od eliminarlo, pur senza intenderlo; e fenomeno strano se ne limita anche il campo di applicazione, pur senza che ci renda ragione del perché della sua limitazione” (c.vi nostri). Del resto, a tale considerazione di recente fa eco la riflessione tranchant, secondo cui a proposito di status “nella nostra dottrina d’oggi non vi è molto di sicuro né di largamente condiviso …: non è ben chiaro di che cosa si tratti, né è ben chiaro a che cosa serva”10.

La definizione della nozione di status è resa particolarmente complessa dal dubbio circa la possibilità di sovrapporla a quella di “stato” nella disciplina dedicata alle persone11: tanto più che il legislatore utilizza tale termine anche in contesti diversi da quello della disciplina delle persone e talora semplicemente con il significato di “situazione”12, oppure in un’accezione assai più lata ed evocativa: in particolare, ai sensi dell’art. 2909 c.c. “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.

Inoltre, è dubbia la possibilità di ricondurre alla nozione di status anche la disciplina della capacità delle persone fisiche e viceversa13. Occorre subito notare come talune disposizioni processuali contemplano l’endiadi riferita alle controversie in materia di “stato e capacità delle persone” (artt. 70, comma 1°, n. 3, c.p.c. e 39 d.lgs. n. 546 del 1992), mentre nel testo dell’art. 806 c.p.c. anteriore alla riforma del 2006, riguardo all’individuazione delle controversie escluse dalla compromettibilità in                                                                                                                               Status in the Common Law, London, 1953; W. FRIEDMANN, Some Reflections on Status and Freedom, in Concepts of Jurisprudence. Essay in Honour of Roscoe Pound, Indianapolis, 1962, pp. 222 ss.; M. REHBINDER, Status, contract and the Welfare-state, in Stanford law Review, 1971, XXIII, n. 5, pp. 941 ss.

9 In Studi V. Simoncelli, Napoli, 1917, p. 61. 10 Così L. LENTI, Status, cit., p. 29. 11 Cfr. P. RESCIGNO, Situazioni e status nell’esperienza del diritto, cit., pp. 213 ss., il quale

ritiene che solo nei rapporti di famiglia il termine “stato” sia utilizzato secondo un disegno coerente. 12 In proposito si segnalano ancora gli studi compiuti da P. RESCIGNO, Situazioni e status

nell’esperienza del diritto, cit., pp. 212 ss. e passim. Sull’incertezza che circonda l’utilizzo del termine “stato” o status cfr., inoltre, G. CRISCUOLI, Variazioni e scelte in tema di status, in Riv. dir. civ., 1984, I, pp. 157 ss.

13 Cfr. P. RESCIGNO, Situazioni e status, cit., pp. 213 ss.; A. FALZEA, Capacità (teoria generale), in Enc. dir., VI, Milano, 1960, pp. 11 ss., spec. 15.

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Contributo allo studio dell’accertamento degli status 11

arbitri, si faceva riferimento alle “questioni di stato”: espressione alla quale poteva annettersi al tempo un significato più ampio rispetto a quello che si può attribuire allo stesso termine nella disciplina dell’intervento obbligatorio del p.m. Per altro verso, a differenza rispetto a quanto avveniva sub Iulio nel vigore dell’art. 17 prel. c.c., attualmente la l. n. 218 del 1995 dedica delle norme ad hoc alla disciplina della capacità (artt. 20 e 23) e non fa menzione degli “stati” delle persone, preferendo all’art. 24 l’espressione “diritti della personalità”.

Ed ancora, in tutto il corpo della Costituzione, anche là dove viene delineata la tutela giuridica spettante alle persone, manca il riferimento stesso alla nozione di “stato”: a tacer d’altro, l’art. 24, comma 1°, Cost. non dà menzione espressa degli status, là dove sancisce che “tutti possono agire per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi”. Allo stesso tempo, non si può certo dubitare che i costituenti abbiano voluto porre la tutela (civile) degli status fuori dal quadro costituzionale vigente. 14.

La questione della tutela civile degli status risulta ancora più complessa in relazione alle più recenti tecniche mediche. Ad es., la tecnica di fecondazione in vitro ha posto il problema della proponibilità dell’azione di disconoscimento della paternità ex art. 235, comma 1°, n. 3, c.c. nei confronti del figlio concepito con inseminazione eterogola e della moglie, pure nel caso in cui si fosse prestato il consenso al trattamento considerato15. Non solo, il problema della tutela degli status personali si pone anche in conseguenza all’evoluzione del diritto civile e amministrativo in materia di persone: ad es., in tema di riconoscimento del figlio da parte della madre che abbia chiesto l’anonimato al momento del parto16.

In queste nuove fattispecie si tratta di scegliere tra la tutela di situazioni giuridiche parimenti riferibili in astratto alla tutela della persona e della dignità umana, aventi il rango costituzionale di “diritti fondamentali” di cui all’art. 2 Cost.: ad es. tra la posizione giuridica sottostante all’azione di disconoscimento della paternità o lo status della madre e quello del figlio, variamente posti a rischio dalla tutela eventualmente riconosciuta al genitore anagrafico, ed aventi tutti i medesimi “caratteri” assoluti (imprescrittibilità, irrinunciabilità ed indisponibilità). La Corte Costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in proposito, hanno riconosciuto, che nei casi considerati la scelta spetti al legislatore (ordinario). In ispecie, il Giudice delle leggi osserva come “l’individuazione                                                             

14 V. infra al paragrafo 4. 15 Il caso citato nel testo ha dato luogo alla pronuncia della Corte Cost., 26 settembre 1998,

n. 347, in Giur. it., 1999, p. 461, con nota di L. BALESTRA, Inseminazione eterologa e status del nato. 16 Corte eur. dir. uomo, 10 gennaio 2008, Kearns c. Francia, in http://cmiskp.ehr.coe.int.

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12 Antonino Barletta

di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primieramente alla valutazione del legislatore”17. Mentre, da ultimo, nel caso Kearns c. Francia la Corte europea dei diritti dell’uomo afferma che nei casi considerati agli Stati compete “a certain margin of appreciation” nel definire un equilibrato bilanciamento (fair balance) nella tutela delle posizioni giuridiche fondamentali che vengano a trovarsi tra loro in conflitto18.

Peraltro, il problema di maggior rilievo cui l’interprete deve dare una risposta nel nostro ordinamento è dato dal fatto che le “nuove fattispecie”, cui si è fatto cenno, non di rado sono sprovviste di una specifica previsione normativa. In proposito, la Corte Costituzionale ha riconosciuto un ruolo primario del giudice civile ai fini dell’attuazione dei valori fondamentali della persona: nella sent. n. 347 del 1998 il Giudice delle leggi, infatti, ha statuito che in presenza di una “situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali”.

Questo è quadro normativo e giuridico in cui è stata pronunciata la sent. Cass., 16 ottobre 2007, n. 2174819 sul delicatissimo tema dell’interruzione dell’alimentazione artificiale di una persona in stato vegetativo permanente, là dove si è inteso formulare un bilanciamento tra la tutela della vita e la libertà di autodeterminazione dell’individuo in materia di trattamenti sanitari sancita dall’art. 32 Cost. Ed è proprio in ragione delle notevoli difficoltà che circondano il tema della tutela degli status personali che – a parere di scrive – non sembra registrarsi una diffusa consapevolezza della reale entità dei problemi giuridici di carattere processuale trattati dalla Cassazione prima nella suddetta pronuncia del 2007 e, successivamente, nella cit. Cass., sez. un. n. 27145 del 200820.

3. Necessità dell’approccio processuale per l’enucleazione della nozione di status.

Le ragioni dell’attuale incertezza, che caratterizza la nozione di status,

sono da ricercare innanzitutto nell’approccio metodologico prevalentemente utilizzato. A partire dagli studi di Cicu sembra, infatti, che si sia riusciti ad aggiornare di poco la nozione romanistica classica di status, quale relazione giuridica personale stabile che riguarda anche i terzi, prendendo in                                                             

17 Così Corte Cost., 26 settembre 1998, n. 347, cit. 18 Cfr. Corte eur. dir. uomo, 10 gennaio 2008, Kearns c. Francia, cit., n. 74. 19 Cit. supra alla nota 1. 20 Cit. supra.

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Contributo allo studio dell’accertamento degli status 13

considerazione un dato soggetto quale appartenente ad una comunità familiare, sociale e nazionale o statale. Cosicché la nozione di status finisce per essere assai poco utile tanto da un punto di vista teorico, quanto da quello applicativo. Non di rado, la regione sottostante all’utilizzo del termine in discorso sembra essere quella di riferirsi sinteticamente al complesso di diritti e di doveri che si producono al verificarsi della medesima fattispecie. Di qui il frequente ricorso alla terminologia romanistica soprattutto in materia di cittadinanza (status civitatis) per significare il complesso dei diritti e dei doveri (soprattutto di natura pubblicistica) che vengono ricollegati soggettivamente dalla legge21. Nondimeno nel diritto moderno e contemporaneo il termine status non è stato oggetto di una particolare elaborazione teorica nell’ambito dello studio dei rapporti con la p.a. 22.

Al contrario, sembra centrale la prospettiva processuale della tutela degli status; non a caso proprio da tale versante provengono i contributi più utili a mettere ordine nella complessa materia oggetto della nostra indagine. In primo luogo, la nozione di status deve consentire d’individuare quando sia possibile procedere alla tutela di una situazione in quanto tale, a prescindere dal complesso di effetti giuridici che ad essa vengono collegati aliunde. A questo proposito, il carattere originario o meno della res dedotta in giudizio è determinante: come in giurisprudenza si è avuto modo di appurare soprattutto – ma non soltanto23 – in relazione alla disciplina dei rapporti di famiglia. In ispecie, solo in relazione a situazioni originarie – ad es. lo status di figlio naturale – si può riconoscere la possibilità di essere oggetto di un accertamento autonomo, con efficacia ex tunc24. Rendendosi così                                                             

21 Sulla valenza pubblicistica della nozione di status nel diritto romano (anche quando essi si riferivano all’appartenenza familiare) cfr. E. BETTI, Diritto romano, I, Padova, 1935, pp. 79 ss.

22 Ad es., si veda come S. CASSESE, L’incompletezza del Welfare State in Italia, in Pol. dir., 1986, p. 256, non faccia mai riferimento alla nozione di status, pur sottolineando la centralità della persona nel modello costituzionale adottato nel nostro ordinamento in relazione alle funzioni della p.a.

23 Cfr., in ispecie, Cass., 22 giugno 2002, n. 9146, cit.; Cass., sez. un., 12 luglio 2000, n. 48, cit. Occorre rilevare, tuttavia, una tendenza della sezione laburistica a enfatizzare eccessivamente il carattere di durata di talune situazioni giuridiche, rispetto a quello della loro originarietà, rischiando così di rendere incerti ed evanescenti i contorni della nozione di status: come avviene in Cass., 17 novembre 1999, n. 12778, cit. Per maggiori riferimenti su tali pronunce v. supra nota 4.

24 Cass., 17 dicembre 2007, n. 26575, in Giust. civ. Mass., 2007; Cass., 3 novembre 2006, n. 23596, in Giust. civ. Mass., 2006; Cass., 11 luglio 2006, n. 15756, in Giust. civ. Mass., 2006; Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328, in Giur. it., 2007, 1138. Inoltre, in particolare, cfr. Cass., sez. un., 16 luglio 1985, n. 4173, in Giur. it., 1986, I, 1, p. 1516, con nota di C. MAGGIO, la quale è intervenuta per dirimere il contrasto di orientamenti riguardo all’interpretazione dell’art. 232 l. 19 maggio 1975, n. 151 in tema di effetti della sentenza di accertamento dello status di figlio

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evidente che le posizioni giuridiche oggetto di una tutela costitutiva non possono considerarsi tecnicamente degli status25, anche se il legislatore –

                                                                                                                              naturale. La questione interpretativa era sorta in relazione al fatto che il legislatore, pur avendo previsto l’applicazione retroattiva della norma in materia di dichiarazione di paternità con riguardo ai figli naturali, non ha stabilito, in via espressa, l’applicazione della disposizione che prevede l’efficacia ex tunc dell’accertamento dello status di figlio naturale in relazione alle possibili successioni aperte anteriormente a tale accertamento, analogamente a quanto è sancito riguardo al riconoscimento dei figli naturali (art. 230 l. n. 151 del 1975). Nello statuire l’applicabilità di tale disposizione anche in materia di dichiarazione giudiziale di paternità le sezioni unite hanno considerato di centrale importanza il fatto che la situazione giuridicamente tutelata – la filiazione naturale – è originaria (“è tale fin dalla nascita”). Analogamente, Cass., 7 aprile 1990, n. 2923, in Giur. it., 1990, I, 1, p. 1718.

25 La natura di mero accertamento (positivo o negativo) dei provvedimenti aventi ad oggetto status è di più immediata percezione quando l’interesse di tutela prevalente coinvolge l’attore: cfr. A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, Padova, 1997, pp. 329 s., Id., Efficacia giuridica degli atti di stato civile, Città di Castello, 1949, p. 49, il quale ammette pacificamente la natura di mero accertamento della domanda di contestazione e di reclamo della legittimità del figlio nei confronti dei genitori. Al contrario, si preferisce spesso qualificare in termini costitutivi l’azione con la quale viene contestata la sussistenza di un status, quando l’interesse di tutela tenuto maggiormente in considerazione dal legislatore non è normalmente quello dell’attore, come nel caso dell’azione di disconoscimento di paternità ai sensi dell’artt. 235 ss. c.c. (A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 330; Id., Efficacia giuridica degli atti di stato civile, cit., 32; C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, Milano, 1995, p. 574, il quale estende la qualificazione in senso costitutivo anche alle altre azioni aventi ad oggetto lo status di figlio legittimo; G. CATTANEO Della filiazione legittima, sub artt. 231-249, in Comm. A. Scialoja- G. Branca, Bologna, 1988, p. 97, A. DE CUPIS, Della filiazione legittima, in Comm. G. Cian- G. Oppo-A. Trabucchi, IV, Padova, 1992, p. 24). L’orientamento è intuitivamente motivato dal fatto che l’efficacia “retroattiva” della sentenza di mero accertamento potrebbe incidere in modo particolarmente sfavorevole nei confronti dei soccombenti (soprattutto del figlio). La diversa opinione, nel senso della natura di mero accertamento della sentenza di disconoscimento (cfr. Cass., 5 novembre 1997, n. 10838, in Giust. civ., 1998; I, 1043; Cass., 3 giugno 1978, n. 2782, in Giust. civ., 1979, I, p. 151, con nota di A. FINOCCHIARO), si può fondare invece sul piano rilievo, secondo cui non vi è una ragione tecnica per escludere tale natura, perché essa è intrinsecamente legata alla tutela degli status, mentre la “irretroattività” riguarderà semmai le conseguenze accessorie del provvedimento in parola, ad es. grazie all’irripetibilità di quanto ricevuto a titolo di alimenti (A. FINOCCHIARO, Il disconoscimento della paternità, in Fam. dir., 1994, p. 325): per ragioni – si ritiene – che non attengono alla disciplina processuale della sentenza di disconoscimento. Il preteso carattere costitutivo della sentenza di disconoscimento di paternità, peraltro, riecheggia il rilievo per cui in materia di «stato» la tutela abbia, appunto, prevalentemente questa natura (E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, pp. 116 ss.). A tale rilievo – però – si può opporre la considerazione che tutte le “questioni di stato” – ad es. anche quella originata dalla contestazione del presunto padre nei confronti del figlio – possono essere oggetto di mero accertamento incidentale ai sensi dell’art. 34 c.p.c. (sul nesso sistematico tra la disciplina degli accertamenti incidentali sugli status e la natura del relativo giudizio cfr. A. ATTARDI, Efficacia giuridica degli atti di stato civile, cit., pp. 49 ss.). Inoltre, la ricostruzione dell’azione di disconoscimento di paternità in termini di azione costitutiva non sembra giustificata, soprattutto se posta in confronto con i risultati

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Contributo allo studio dell’accertamento degli status 15

pur solo in relazione a taluni aspetti – può equiparare tale posizione a quella degli status26. A fortiori si deve escludere la sussistenza di uno status in senso tecnico quando una determinata situazione giuridica sorga in conseguenza all’emanazione di un provvedimento amministrativo.

Più precisamente, lo status può essere rinvenuto nelle situazioni giuridiche caratterizzate da originarietà e durata, oggetto di tutela assoluta – i.e.: nei confronti di chiunque contesti o leda diversamente tale posizione – attraverso l’azione di accertamento e di condanna (inibitoria, risarcitoria o restitutoria). In altre parole, vi è uno status quando la legge ricollega ad una determinata situazione innanzitutto un dovere generale di astensione da atti di turbativa, oltre che ad altri effetti giuridici tipici, che hanno natura di diritti dipendenti rispetto allo status considerato27.                                                                                                                               interpretativi acquisiti dalla giurisprudenza riguardo alle altre azioni in tema di filiazione (v. supra testo e nota 24). Infine, non sembra che l’efficacia costitutiva della sentenza di disconoscimento si giustifichi in relazione al fatto che l’attore debba superare la presunzione legale (iuris tantum) di paternità, a meno di non ricostruire tale presunzione come una figura giuridica sui generis (in questo senso A. ATTARDI, Efficacia giuridica, cit., pp. 28 ss.): cosa dire allora del proprietario che fa valere il proprio diritto nei confronti del possessore di bene mobile? E nemmeno la natura costitutiva dei giudizi sugli status è in realtà determinante per individuare i casi in cui il litisconsorzio è necessario (v. nota 82) o per risolvere le questioni attinenti all’efficacia soggettiva ultra partes delle decisioni (cfr. F. CARPI, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, Milano, 1974, pp. 188 ss.). Sulla peculiare efficacia soggettiva dei giudicati aventi ad oggetto status v. infra, anche per riferimenti, le note seguenti e passim.

26 Ad es. App. Roma, 27 maggio 2002, in Nuovo dir., 2003, p. 21, con nota di V. SANTASIERE, la quale in relazione ai procedimenti di rettificazione degli atti di stato civile equipara – sulla base della disciplina vigente – la posizione del coniuge divorziato alle controversie attinenti a status. Per altro verso, sin da Cass., 8 luglio 1977, n. 3038 (in Giust. civ., 1978, I, 296; successivamente nello stesso senso Cass. 9 giugno 1992, n. 7089, in Giust. civ., 1993, I, 427; Cass., 5 luglio 1984, n. 3943, in Giust. civ. Mass., 1984) la Suprema Corte distingue tra effetti inter partes o erga omnes della sentenza costitutiva di divorzio: i primi vengono ricondotti al passaggio in giudicato della sentenza ai sensi dell’art. 2909 c.c., mentre i secondi vengono ricollegati all’annotazione della stessa nei registri dello stato civile; il che si spiega con la necessità di maggior tutela dei terzi ogni qualvolta una data efficacia giuridica costitutiva sia eccezionalmente resa opponibile dal legislatore nei confronti di tutti i soggetti dell’ordinamento, a somiglianza degli status in senso tecnico.

27 Cfr., specialmente, E. ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1992 rist., pp. 298 ss. V. anche paragrafo successivo spec. nota 40.

La distinzione tra status e diritti, del resto, è stata utile per classificare quelle situazioni giuridiche, cui fosse arduo applicare la nozione di rapporto giuridico e lo schema che collega la fattispecie costitutiva agli effetti giuridici inter partes: giacché talora l’effetto giuridico viene ricollegato dalla legge in via generale e (si direbbe) obiettiva, ossia in modo pedissequo ed uniforme nei confronti della generalità dei consociati (cfr. N. COVIELLO, De’ giudicati di stato, in Arch. giur. n. 47, 1891, pp.149 ss.; nonché, più schiettamente, E. ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., pp. 298 s.). Diversamente, si è ritenuta applicabile agli status la nozione di rapporto giuridico “fondamentale”, caratterizzato dal fatto che quest’ultimo risulti decisivo verso i soggetti estranei a tale rapporto: di modo che il giudicato su di esso non

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La giurisprudenza28 e l’opinione prevalente in dottrina29 sono attestate, poi, nel senso che la disciplina degli effetti verso terzi dei provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto l’accertamento degli status (sia in via autonoma, sia in via incidentale) possa essere accomunata sotto il profilo della necessità di raggiungere un’eccezionale certezza obiettiva, finalizzata sul piano processuale ad evitare ogni possibile conflitto tra decisioni30.

                                                                                                                              sarebbe altro che un modo per documentarne l’esistenza e il modo di essere verso i terzi (cfr. E. REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1960 rist., pp. 80 ss., spec. nota 76). Tale ricostruzione tiene presente principalmente i problemi d’identificazione del legittimato passivo e dei litisconsorti necessari sul lato passivo, ma – come si vedrà funditus nel prosieguo – sembra, in definitiva, una superfetazione; perché è la legge a identificare i legittimati passivi.

28 Cfr. Cass., 3 ottobre 2005, n. 19293, in Giust. civ. Mass., 2005; Cass., 28 gennaio 1988, n. 758, in Giust. civ. Mass., 1988; Cass., 4 marzo 1980, n. 1436, in Dir. fam., 1980, p. 503.

29 N. COVIELLO, De’ giudicati di stato, cit., 218; E. REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, pp. 80 ss., testo e nota 76; E. ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., pp. 303 s.; E.T. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, pp. 444 s., sia pure manifestando una certa preferenza verso l’applicazione delle regole generali in tema di efficacia verso terzi; S. SATTA-C. PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1993, p. 241; L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1985, pp. 230 s.; G.A. MICHELI, Corso di diritto processuale civile, I, Milano, 1959, p. 302, il quale non ritiene nemmeno necessario parlare di un’eccezione all’art. 2909 c.c., stante il rilievo che l’efficacia erga omnes consegua alla peculiarità dell’oggetto dell’accertamento; C. DELITALA, Le questioni e i giudicati di stato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, pp. 1363 ss.; F. CARPI, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, cit., pp. 194 ss.; C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., p. 145, anche se l’A. avverte che nel caso di specie l’eccezione ai limiti soggettivi del giudicato sarebbe più apparente che reale: i terzi, infatti, non sarebbero soggetti al giudicato, bensì “alla res facti della legittima attribuzione dello status a seguito di un accertamento giurisdizionale reso fra i legittimi e diretti contraddittori”. Diversamente A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 495, secondo il quale comunque dovrebbero applicarsi le regole generali del giudicato verso i terzi; analogamente A. PROTO PISANI, L’opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, pp. 168 ss., spec. p. 171, nota 33; S. MENCHINI, Il giudicato civile, Torino, 1988, p. 200.

30 In questo senso, tradizionalmente, la giurisprudenza (v. riferimenti citt. in nota 28), mentre, da tempo, più variegate sono le posizioni in dottrina. In ispecie, se E. ALLORIO . L’efficacia della cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., pp. 303 s., manifesta la sua adesione alla prevalente ricostruzione nel senso dell’efficacia erga omnes dei giudicati sugli status, già in precedenza E. REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, cit., p. 81, nota 76, definisce il tema dell’efficacia ultra partes dei giudicati di stato “questione annosa e più che mai frusta”, ritenendo che fosse centrale lo studio del giudizio sul rapporto c.d. “fondamentale”. Bisogna rilevare, però, come successivamente E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 116, nota 185, abbia aderito alla ricostruzione di E. REDENTI, soprattutto perché più compatibile in thesi con la natura costitutiva dei processi aventi ad oggetto status, esponendosi in questo modo alle obiezioni su cui ci siamo soffermati supra (v. nota 25). In ogni caso, l’opinione maggioritaria in dottrina ammette la soggezione dei terzi all’efficacia di giudicato (G.A. MICHELI, Corso di diritto processuale civile, I, cit., p. 302; C. DELITALA, Le questioni e i giudicati di stato, cit., pp. 1363 ss.; F. CARPI, L’efficacia «ultra

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Contributo allo studio dell’accertamento degli status 17

L’efficacia erga omnes delle pronunce sugli status si raccorda con la loro conformazione sostanziale: in altre parole, è proprio la disciplina sostanziale di queste ultime che fa sorgere sul piano del processo quella specifica esigenza di accertamento31. Difatti, l’originarietà e durata degli status consentono di ipotizzare per il futuro un numero indeterminato di lesioni identiche sotto un profilo giuridico, anche se provenienti da parte di terzi rispetto al processo in cui si è formato l’accertamento; cosicché il limite soggettivo degli accertamenti giurisdizionali, sancito in generale dall’art. 2909 c.c., rischierebbe di dar luogo ad una tutela degli “stati” troppo debole e deficitaria sul piano dell’effettività32.

                                                                                                                              partes» della sentenza civile, cit., pp. 194 ss.; L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., p. 230 s.) o, comunque, che i terzi non possano revocare in dubbio la decisione intervenuta tra i legittimi contraddittori, anche se inter alios, in materia di «stato» (cfr. lo stesso E.REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, cit., pp. 80 ss.; S. SATTA-C. PUNZI, Diritto processuale civile, cit., p. 241; C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., p. 241). Mentre alcuni AA. sono piuttosto dell’idea che si applichino in materia le regole generali in tema di effetti riflessi del giudicato (A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 495; A. PROTO PISANI, L’opposizione di terzo ordinaria, cit., p. 171, nota 33; S. MENCHINI, Il giudicato civile, cit., p. 200).

31 Sulla possibilità di ricavare l’eccezionale valenza erga omnes degli accertamenti sugli status dalla peculiare esigenza di certezza che si può riscontrare in materia cfr. F. CARPI, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, cit., pp. 207 s., il quale riscontra tale esigenza in modo particolare nella disciplina della pubblicità in materia.

32 Alla luce delle considerazioni svolte nel testo, non si può accogliere la ricostruzione degli effetti ultra partes degli accertamenti sugli status in termini di efficacia riflessa del giudicato (v. supra per riferimenti alla nota 30). La generalità dei consociati, infatti, non è portatrice di un’autonoma posizione giuridica nei confronti del titolare di uno status, in qualche modo connessa con quest’ultimo, bensì di un interesse “negativo”, che consiste nel non vedere limitata la propria libertà in relazione al dovere di astensione, conseguente all’accertamento giudiziale di un particolare status. Mentre i soggetti titolari di specifici diritti connessi per pregiudizialità-dipendenza con gli status oggetto di accertamento (ad es. il diritto agli alimenti) sono normalmente investiti da una specifica legittimazione passiva, spesso nell’ambito della previsione di un litisconsorzio necessario (v. paragrafo 6), e quindi risultano per definizione sottratti al fenomeno della riflessione del giudicato. Per questo motivo, i terzi portatori di un interesse meramente «negativo», pur essendo soggetti all’efficacia del giudicato, risultano privi di uno specifico rimedio da far valere in giudizio tanto ai sensi dell’art. 105, comma 2°, c.p.c., tanto a norma dell’art. 404 c.p.c., non essendo possibile equiparare tali terzi agli “aventi causa»”di cui all’art. 404, comma 2°, c.p.c. La salvaguardia della posizione dei terzi è, invece, affidata alle peculiari regole del processo applicabili agli status, che lo conformano in senso “oggettivo” (v. infra nota 40, anche per riferimenti), attenuando – pur senza eliminare – l’applicazione del principio dispositivo: in particolare, attraverso la partecipazione del p.m., la non applicazione del c.d. principio di non contestazione, nonché – sul piano probatorio – riconoscendo particolari poteri ufficiosi al giudice.

A sé è la posizione del terzo a sua volta titolare di uno status incompatibile con quello in precedenza accertato dal giudice (cfr. E. T. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, cit., p. 445; F. CARPI, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, cit., pp. 205 ss.). Rispetto

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La medesima esigenza di certezza, inoltre, si pone alla base della deroga al principio dispositivo nel processo civile, che è rappresentata dalla previsione dell’accertamento incidentale ex lege degli status: anche in mancanza di un’espressa previsione a riguardo33, come quella di cui all’art. 124 c.c. In questo senso, si può rilevare come, nell’accertamento degli status, consti un interesse pubblico (processuale) a che non abbia a sussistere una diversa decisione in un altro giudizio sulla medesima situazione giuridica tra le stesse parti, così come tra parti diverse.

                                                                                                                              a quest’ultimo, infatti, è pacifica la non soggezione al giudicato: anche nell’ambito della ricostruzione secondo cui i terzi sono normalmente interessati al giudicato sugli status in termini di efficacia riflessa ( A. PROTO PISANI, L’opposizione di terzo ordinaria, cit., p. 171, nota 33). Tuttavia, è proprio l’estraneità di tali terzi dall’efficacia del giudicato inter alios che fa emergere – ancora una volta – i limiti della ricostruzione in termini di riflessione dell’accertamento sugli status. Se tutti i terzi sono interessati a tale accertamento secondo la disciplina del processo, in base alla fictio iuris della titolarità di una posizione dipendente, perché il titolare di uno status dovrebbe rimanere estraneo all’applicazione di tale regola? Ebbene: il fatto è che solo la conformazione sostanziale della posizione del terzo – ossia la titolarità di uno status cui si collega un conseguente e incompatibile dovere generale di astensione – consente di differenziare tale posizione rispetto a quella di tutti gli altri consociati e di affermare la sua estraneità alla soggezione al giudicato inter alios. In questo caso (e solo in questa ipotesi) è possibile ammettere – ed anzi si deve ritenere necessaria – la proposizione dell’opposizione di terzo ordinaria ai sensi dell’art. 404, comma 1°, c.p.c. (invece, nel senso del carattere facoltativo dell’opposizione di terzo ordinaria da parte del terzo titolare di status incompatibile cfr. E. T. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, cit., p. 445; C. CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2006, p. 253). Difatti, solo la cancellazione della sentenza pronunciata inter alios riesce a eliminare il pregiudizio nei confronti del terzo che si assume titolare di uno status incompatibile, pur non essendo quest’ultimo soggetto al giudicato: pregiudizio che consiste nella difficoltà o nell’impossibilità di vedere rispettato lo status, di cui è titolare, in conseguenza alla soggezione della generalità dei consociati riguardo al precedente accertamento. Mentre l’ordinaria azione di mero accertamento non solo non consentirebbe di eliminare tale pregiudizio, ma determinerebbe un più grave vulnus all’interno dell’ordinamento, sottoponendo la generalità dei consociati all’accertamento di un nuovo dovere di astensione, senza eliminare quello – incompatibile – oggetto del precedente accertamento. Sui rimedi proponibili dal terzo titolare di uno status incompatibile cfr., inoltre, F. CARPI, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, cit., pp. 205 ss., testo e nota 96, anche per ulteriori riferimenti.

33 Cass., 12 aprile 1980, n. 2220, in Giur. it., 1981, I, 1, 1135; Cass., 4 marzo 1980, n. 1436, cit.; C. DELITALA, Le questioni e i giudicati di stato, cit., 1330; E.T. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I, Milano, 1984, p. 155, nota 10. Diversamente, però, A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 234. Occorre notare, peraltro, che il legislatore pone un divieto di decisione incidenter tantum sulle questioni di “stato” da parte del giudice amministrativo (artt. 28 e 30 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 8 l. 6 dicembre 1971, n. 1034) e da parte del giudice tributario (art 39 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) ed, inoltre, sempre per queste ipotesi residua la previsione della pregiudizialità civile nel processo penale ai sensi del nuovo art. 3 c.p.p. (v. infra nel testo e nella nota successiva).

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Contributo allo studio dell’accertamento degli status 19

Non solo: l’esigenza di certezza sottostante all’accertamento degli status investe anche i rapporti tra il processo civile e quello penale pure dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, benché quest’ultimo sia ispirato, in generale, al principio dell’autonomia dei processi considerati (arg. dall’art. 2 c.p.p.). Difatti, all’art. 3 c.p.p. proprio in materia di “stato” di famiglia e di cittadinanza è prevista la soggezione del giudice penale al giudicato formatosi nel processo civile, nonché la possibilità di sospendere il giudizio penale nell’attesa della decisione del giudice civile: beninteso tanto nell’uno quanto nell’altro caso senza richiedere che consti l’identità di parti rispetto al giudizio penale34.

Per altro verso, l’esigenza di stabilità e certezza in materia di “stato” delle persone può facilmente riscontrasi anche al di fuori della ristretta cerchia delle norme sul processo, facendo parte integrante della stessa conformazione sostanziale delle situazioni giuridiche in discorso35; di modo che, in definitiva, l’indisponibilità, irrinunciabilità, intramissibilità degli status non possono considerarsi tanto un loro connotato, quanto un posterius. Tali considerazioni rendono palese come in subiecta materia risulti spesso tutt’altro che semplice tracciare, con precisione, una linea di confine tra ciò che è (solo) diritto e quello che è processo.

4. (Segue) Il carattere tipico della tutela degli status e il ruolo dell’interprete.

La peculiare esigenza di certezza che caratterizza gli accertamenti degli

status consente di distinguere questi ultimi rispetto a tutti gli altri accertamenti giurisdizionali: anche quelli effettuati in relazione ai diritti reali (e, in particolare, rispetto al diritto di proprietà). Difatti, l’accertamento giurisdizionale della proprietà e degli altri diritti reali – pur essendo tali diritti connotati dall’assolutezza sotto il profilo sostanziale – è caratterizzato

                                                            34 L’espunzione dal nuovo codice di procedura penale di una norma quale quella di cui

all’art. 21 del codice p.p. previgente, quindi, non sembra ispirata dalla volontà di superare la soggezione del giudice penale all’efficacia del giudicato di stato del giudice civile, anche ultra partes. Difatti, l’esigenza di prevedere in modo espresso che i giudicati civili di stato vincolassero sempre il giudice penale era reso necessario, sub Iulio, dal fatto che di regola la sentenza civile vincolava il giudice penale solo se le parti erano le stesse. Il venire meno di tale regola generale in ossequio al principio dell’autonomia dei processi, rende non necessaria la precedente esplicitazione. Per una diversa interpretazione dei nuovi artt. 2 e 3 c.p.p., però, A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 495.

35 Si può arg., ad es., dalle norme sul c.d. “possesso di stato” (artt. 236 2° comma, 237, 238 c.c.), nonché dalla funzione di certificazione spesso attribuita dal legislatore alla p.a. in materia di status delle persone: su cui v. infra al paragrafo 5.

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dalla c.d. relativizzazione sin dal momento della loro deduzione in giudizio, cioè prima ancora e a prescindere dall’applicazione della regola generale che limita l’efficacia del giudicato alle sole parti del processo, nonché agli eredi ed aventi causa (art. 2909 c.c.) 36.

Per converso, i giudizi sugli status hanno in comune rispetto a quelli introdotti con azioni reali, il fatto di essere caratterizzati da una legittimazione ad agire (attiva e passiva) e da un interesse ad agire tipici37; il che è reso evidente dal carattere eccezionale della tutela propria degli status. Id est: essendo presupposta una specifica voluntas legis per delineare la tutela degli status, quest’ultima è necessariamente fissata nei limiti e riguardo ai presupposti previsti dal legislatore. D’altra parte, la nozione di status non può essere limitata rigidamente alle figure qualificate come tali dalla tradizione romanistica classica (status libertatis, status civitatis, status familiae)38, bensì deve riconoscersi semplicemente in ogni situazione rispetto alla quale l’ordinamento sancisca, in deroga all’art. 2909 c.c., un’efficacia di accertamento giurisdizionale verso tutti i consociati all’interno del proprio ordinamento giuridico39.

Il quadro interpretativo è, tuttavia, complicato dal fatto che il legislatore prevede espressamente l’efficacia erga omnes dell’accertamento giurisdizionale solo occasionalmente: in ispecie, in relazione alla disciplina dei giudizi sulla decadenza o sulla nullità dei diritti di privativa industriale (art. 123 d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30). Mentre è assente una specifica disciplina riguardo ai giudizi aventi ad oggetto la materia degli status personali. Ed allora quid iuris?

Qui riemerge la centralità della nozione di status quale situazione giuridica originaria e durevole: di modo che l’applicazione della tutela degli status deve essere affidata interamente alla individuazione di tali connotati da parte dell’interprete riguardo alle situazioni prese in considerazione dal legislatore. La nozione di status così può essere riferita ben oltre la                                                             

36 E. ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., 59; C. CAVALLINI, L’oggetto del processo di rivendica, Napoli, 2002, p. 78.

37 Cfr., sulla tipicità della tutela degli status E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 115 s.; riguardo al giudizio di rivendica e alle altre azioni reali, approfonditamente, C. CAVALLINI, L’oggetto del processo di rivendica, cit., pp. 61 ss., pp. 297 ss. e passim.

38 In questo senso, invece, P. RESCIGNO, Situazione e status, cit., pp. 216 ss.; CORASANITI, Stato delle persone, cit., pp. 970 ss.

39 La nozione di status viene ad assurgere una valenza (potenzialmente) assai più ampia rispetto a quanto può affermarsi riguardo alle situazioni soggettive, potendosi riferire anche a meri fatti, cui viene conferita espressamente dalla legge una particolare efficacia giuridica (ad es. nei giudizi di falso) relativamente ad un numero indeterminato di controversie, pure ultra partes, già pendenti o future (cfr. E. ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., pp. 301 ss.).

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disciplina contenuta nel primo libro del codice civile o nelle leggi speciali in materia di rapporti di famiglia, in quanto può ben ricollegarsi anche alle disposizioni di rango costituzionale attinenti alle c.d. libertà personali, ogni qualvolta esse siano conformate come posizioni giuridiche perfette, di cui si rende possibile l’accertamento in sede giudiziale. Ed infatti tali libertà costituiscono situazioni tutelate dall’ordinamento in quanto originarie e permanenti a norma dell’art. 2 Cost., là dove viene statuito che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”40, ed della previsione strettamente connessa di cui all’art. 3 Cost. (esemplificando: il diritto di asilo sancito all’art. 10, comma 3°, Cost., il diritto a rifiutare il trattamento sanitario ai sensi dell’art. 32, comma 2°, Cost.). Inoltre, il carattere originario e durevole deve essere riconosciuto in relazione alle posizioni disciplinate dalle norme ordinarie che possono porsi in diretto ed

                                                            40 Cfr. A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti, Milano, 2001, p. 137: «i diritti della persona

sono definiti “fondamentali” perché attengono ab origine alla stessa persona, nel configurarsi come tale. Trattandosi di diritti garantiti perché “riconosciuti” come tali». Per altro verso, è oramai consolidato in dottrina il rilievo secondo cui la disciplina della persona contenuta nel primo libro del codice civile si ricolleghi al precetto di cui all’art. 2 Cost.: cfr. A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti, cit., p. 133; inoltre, una parte della dottrina ha tentato di ricongiugere le odierne libertà personali alla nozione romanistica di status libertatis (cfr. G. ALPA, Status e capacità, cit., pp. 23 ss.). Cosicché è proprio l’originarietà dei c.d. diritti della personalità, che spiega il loro carattere assoluto, nonché l’inidoneità ad applicare in materia la nozione di diritto soggettivo (su questo punto cfr., in ispecie, D. MESSINETTI, Personalità (diritti della), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, pp. 355 ss., il quale, in definitiva, si ricollega a F. SANTORO PASSARELLI, Diritti assoluti e relativi, in Enc. giur., XII, Milano, 1964, p. 754; ancora in precedenza sull’inidoneità della nozione di diritto soggettivo per qualificare le situazioni indisponibili – nella prospettiva dell’accertamento giudiziale – E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 90 s., il quale propone di identificare proprio nello “stato” tale possibile oggetto dell’accertamento). Nello studio del processo, per altro verso, si è rilevata la peculiarità dei giudizi c.d. “a contenuto oggettivo” nei quali vengono dedotte situazioni «non soggettivabili» attinenti alla tutela della persona (cfr. F. TOMMASEO, I processi a contenuto oggettivo, I, in Riv. dir. civ., 1988, pp. 495 ss., in cui si è approfondita un’intuizione di E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 116 s., proprio in relazione alla tutela degli status).

Non si può che essere concordi, poi, sull’esito ultimo delle riflessioni compiute da MESSINETTI (Personalità, cit., pp. 361 ss., pp. 373 ss.) e A. DI MAJO (La tutela dei diritti, cit., p. 136), nel senso che il valore della persona riconosciuto dall’art. 2 Cost. si realizzi attraverso lo schema di tutela del dovere di astensione: appunto perché tale schema risponde a quello tipico della tutela degli status (v. supra paragrafo 3). Questo rilievo, però, rischia di essere parziale, ove osservato in quanto tale, dovendosi aggiungere cioè che le situazioni «riconosciute» dall’art. 2 Cost. richiedono un accertamento avente – a sua volta – valore assoluto (in quanto opponibile verso tutti), da un lato, e, dall’altro, che lo schema del diritto soggetto torna ad essere applicabile anche ai diritti della persona, allorché si tratti di rapporti giuridici dipendenti dalla sussistenza dello status (v. ad es. il diritto agli alimenti).

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immediato collegamento con gli artt. 2 e 3 Cost.: come ad es. l’azione civile contro gli atti di discriminazione (artt. 43 e 44 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286).

5. La giurisdizione del giudice ordinario nella tutela degli status ed i problemi interpretativi conseguenti all’applicazione del procedimento in camera di consiglio.

Avendo carattere originario e durevole, lo status – almeno se inteso

nella sua nozione tecnica, meglio precisata in precedenza – è suscettibile di tutela da parte del giudice civile anche in presenza di un’attività della p.a. Ad es. ciò si può affermare, in generale, in materia di cittadinanza, pure là dove è richiesta l’emanazione da parte della p.a. del decreto di concessione della cittadinanza ai sensi della l. 5 febbraio 1992, n. 9141, ovvero in relazione all’emanazione dei provvedimenti prefettizi di espulsione nella disciplina dell’immigrazione ai sensi di cui all’art. 13 d.lgs., 25 luglio 1998, n. 28642, o ancora in relazione al riconoscimento dello status di rifugiato politico o di legittimato all’asilo politico43. In questi casi, ai provvedimenti della p.a. si riconosce natura c.d. vincolata, in quanto caratterizzati da una funzione meramente ricognitiva e probatoria, finalizzata alla certificazione della situazione giuridica di volta in volta interessata: funzione che si deve ricollegare, in definitiva, alle peculiari esigenze di certezza obiettiva di cui è permeata l’intera materia degli status personali. Al contrario, a tali provvedimenti non può mai riconoscersi efficacia costitutiva in senso proprio44.                                                             

41 Cass., sez. un., 27 gennaio 1995, n. 1000, in Giust. civ. Mass., 1995; Cass., sez. un., 7 luglio 1993, n. 7441, in Foro amm., 1995, 304.

42 Cfr., da ultimo, Cass., sez. un., 16 ottobre 2006, n. 22217, in Corr. mer., 2007, 205, con nota di G. TRAVAGLINO, Decreto di espulsione del prefetto e poteri del giudice ordinario; Cass., sez. un., 12 gennaio 2005. n. 384, in Giust. civ. Mass., 2005.

43 Cass., sez. un., 19 maggio 2009, n. 11535, in www.cortedicassazione.it; Cass., sez. un., 17 novembre 2008, n. 27310, in Giust. civ. Mass., 2008, la quale ha disatteso il contrario rilievo del Ministero dell’Interno, che aveva dedotto il difetto di giurisdizione, sul presupposto che in materia di permesso di soggiorno per motivi umanitari lo straniero sarebbe titolare di un mero interesse legittimo, in quanto assoggettato alle valutazioni discrezionali della p.a.

44 L’affermazione del carattere costitutivo dei provvedimenti amministrativi in materia di status (c.d. titoli di stato) è ormai da tempo superata dalla giurisprudenza, vista la qualificazione della tutela in materia di status in termini di accertamento con efficacia ex tunc, a prescindere dalle annotazioni nei registri dello stato civile di cui all’art. 49 d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 (v. note 24 s.): ciò anche grazie all’approfondimento teorico occasionato dalla nota querelle tra Antonio Cicu ed Aldo Attardi. Quest’ultimo ha rilevato nella sua prima opera monografica (Efficacia giuridica degli atti dello stato civile, cit., pp. 20 ss. e passim) – in aperta critica a quanto sostenuto da A. CICU, La filiazione, in Trattato di dir. civ., diretto da F. Vassalli, III, 2, Torino, 1939, pp. 1 ss. e dalla giurisprudenza al tempo prevalente (v.

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Invece, là dove la legge riconosca alla p.a. un potere discrezionale, non si è in presenza di uno status in senso stretto, e in conseguenza, si deve ammettere la giurisdizione del giudice amministrativo45. Così nelle stesse materie si possano individuare veri e propri status, accanto ad ambiti in cui è prevalente la funzione attribuita alla p.a. Ciò può verificarsi, ad es., ancora in materia di cittadinanza e di immigrazione: in proposito la giurisprudenza affida il riparto di giurisdizione proprio al fatto che alla p.a. sia riconosciuto o meno il compito di effettuare valutazioni discrezionali, che esulino cioè da mere verifiche tecniche. In ispecie, sulla base del rilievo che le attività effettuate dalle commissioni territoriali in materia di immigrazione sui c.d. permessi umanitari abbiano il carattere sostanzialmente di mera certificazione e non di valutazione discrezionale, è stata recentemente affermata la giurisdizione del giudice ordinario46, mentre per opposti motivi                                                                                                                               riferimenti ivi citt.) – come gli atti di stato civile abbiano semplicemente funzione probatoria o di certificazione e non appunto di «titolo» (i.e. di fatto costitutivo) per l’acquisto degli status personali: di qui la funzione di accertamento (e non già costitutiva) della tutela richiesta al giudice in materia di stato. Per ulteriori precisazioni delle rispettive posizioni cfr., altresì, A. CICU, In difesa del titolo di stato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, pp. 285 ss.; A. ATTARDI, Atti dello stato civile, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 85, spec. pp. 91 ss.

Movendo dal superamento della teoria del titolo di stato, l’A. ha argomentato l’impossibilità di estendere verso chiunque l’accertamento degli status ( A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 495), tenendo a mente l’opinione secondo la quale gli effetti nei confronti dei terzi di tali pronunce dovesse ricollegarsi alla loro funzione di documentazione del rapporto c.d. fondamentale (in quest’ultimo senso, REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, cit., p. 81, nota 76) o alla natura costitutiva delle pronunce sugli status (v. note 29 s.). E’ per questo motivo che, ad avviso di scrive, è preferibile ammettere che l’efficacia erga omnes degli accertamenti sugli status costituisca una deroga ai limiti soggettivi sanciti dall’art. 2909 c.c.

45 Cfr. ancora Cass., sez. un., 19 maggio 2009, n. 11535, cit.; Cass., sez. un., 17 novembre 2008, n. 27310, cit.; Cass., sez. un., 16 ottobre 2006, n. 22217, cit.; Cass., sez. un., 27 gennaio 1995, n. 1000, cit.; Cass., sez. un., 7 luglio 1993, n. 7441, cit.

46 Cass., sez. un., 19 maggio 2009, n. 11535, cit., con la quale si è affermata la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alle controversie occasionate dal diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6°, d.lgs. n. 286 del 1998 (c.d. permessi umanitari), emessi nel caso in cui non si riconosca la sussistenza dei presupposti dell’asilo politico. In precedenza, in ordine all’emanazione degli stessi permessi umanitari la S.C. aveva affermato la giurisdizione del giudice amministrativo, avanti al quale si riteneva dovesse proporsi l’impugnazione dei provvedimenti di diniego del questore (Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 7933, in Foro amm. CDS., 2008, p. 1042; Cass., sez. un., 27 febbraio 2008, n. 5089, in Foro it., 2008, I, p. 2556), sulla base del rilievo che sussistesse un potere discrezionale del questore medesimo in ordine alla concessione o meno del permesso in discorso. Il successivo revirement, intervenuto con la cit. pronuncia del 2009, si ricollega al fatto che nel frattempo è mutato il quadro legislativo (arg., in ispecie, dall’art. 32 l. n. 189 del 2002, che ha inserito l’art. 1-quater d.l. n. 416 del 1989 conv. nella l. n. 39 del 1990), alla cui stregua è stata attribuita alle commissioni territoriali la competenza a verificare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 5, 6° comma, d.lgs. n. 286 del 1998, le quali – come “organi tecnici” – sono deputate a svolgere una funzione sostanzialmente di certificazione e non più di valutazione

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è attribuita al giudice amministrativo la giurisdizione a decidere sulla legittimità del diniego di concessione della cittadinanza per ragioni di pubblica sicurezza47, nonché del provvedimento di espulsione dell’immigrato per gli stessi motivi48. Tuttavia, anche là dove il provvedimento della p.a. abbia carattere discrezionale, ogni qualvolta si alleghi che un determinato atto costituisca in realtà un comportamento discriminatorio della p.a. non è richiesto l’annullamento avanti il giudice amministrativo, essendo possibile chiedere al giudice civile di rilevare incidenter tantum l’invalidità dell’atto amministrativo, nell’ambito del giudizio ove siano richiesti i provvedimenti di cui all’art. 44 d.lgs. n. 286 del 1998. Del resto, le iniziative giudiziali avanti al giudice civile contro i comportamenti discriminatori sono stabilite dalla legge – come si è visto – a tutela (assoluta) di una posizione soggettiva originaria e perfetta della persona umana (arg. come supra dagli artt. 2 e 3 Cost.).

La produzione di un effetto giuridico per il tramite di un’attività giurisdizionale a carattere non contenzioso (c.d. volontaria giurisdizione) – pur essendo stabilito a tutela della persona – esclude a priori la riconducibilità di tale effetto ad uno status in senso proprio, appunto perché il provvedimento di volontaria giurisdizione partecipa all’esercizio della funzione costitutiva c.d. necessaria, la quale è evidentemente incompatibile con il carattere originario e durevole dello status medesimo49. Per altro verso, nell’ambito di tali procedimenti il giudice svolge una potestà discrezionale – sia pure al solo fine della tutela della persona, astratto in un interesse generale dell’ordinamento – e non decisoria, che si ricollega al carattere revocabile e modificabile dei provvedimenti emessi in questa sede, sulla base delle successive valutazioni (anche di opportunità) compiute dal giudice (art. 742 c.p.c.)50. Il che rende i provvedimenti di volontaria

                                                                                                                              discrezionale, riservando al questore una funzione meramente esecutiva del provvedimento delle commissioni.

47 Cass., sez. un., 27 gennaio 1995, n. 1000, cit.; Cass., sez. un., 7 luglio 1993, n. 7441, cit. 48 Cass., sez. un., 12 gennaio 2005, n. 384, cit. 49 Sull’impossibilità di individuare l’oggetto dei procedimenti di volontaria giurisdizione

nello “schema” degli status, oltre che dei diritti soggettivi, cfr. A. CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e giurisdizione volontaria, in Studi in onore di E. Allorio, I, Milano, 1989, pp. 59 ss., al quale si fa opportuno richiamo, in ordine alla distinzione con la giurisdizione contenziosa, anche per riferimenti bibliografici (op. cit., 12 ss.).

50 Sull’inidoneità dei provvedimenti di volontaria giurisdizione al giudicato, confermata dalla disciplina della loro revocabilità e modificabilità ex art. 742 c.p.c. cfr. CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee, cit., pp. 28 ss., pp. 39 ss. Per una diversa ricostruzione, ma sempre nel senso dell’esclusione del giudicato nella volontaria giurisdizione, cfr. A. CHIZZINI, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, pp. 152 ss.

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giurisdizione strutturalmente inidonei al perseguimento di quella particolare esigenza di certezza obiettiva in materia di status.

Per altro verso, già da alcuni decenni, soprattutto in relazione alla materia del diritto di famiglia e di stato delle persone, si riscontra l’applicazione del procedimento in camera di consiglio per lo svolgimento dell’attività decisoria e di giudizio aventi ad oggetto posizioni giuridiche perfette; il che non esclude l’idoneità del provvedimento, pur pronunciato in camera di consiglio, al giudicato51 – anche con effetti erga omnes, se ha ad oggetto l’accertamento di status –, rendendo, tuttavia, necessaria un’integrazione in via interpretativa per il rispetto delle garanzie fondamentali del processo52. Peraltro, la S.C. ha talora affermato la generale applicazione del procedimento in camera di consiglio in materia di status delle persone, anche per l’espletamento della funzione decisoria. In ispecie, è affermata l’applicabilità delle norme di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. in materia di respingimento del richiedente lo status di rifugiato politico, pur in mancanza di un espresso richiamo a tali disposizioni in materia53; opzione quest’ultima, peraltro, successivamente recepita dall’art. 35 d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25.

La sempre più larga applicazione del procedimento camerale in relazione all’accertamento di situazioni giuridiche attinenti alle persone pone a carico all’interprete l’onere di determinare se l’attività demandata al giudice civile in tale sede abbia o meno carattere contenzioso54. Tale incertezza si riflette innanzitutto allorché si tratti d’individuare le regole applicabili al procedimento e, in ispecie, all’accesso al giudizio avanti la Cassazione. Sul punto non vi è sempre uniformità di orientamenti: com’è dato rilevare di recente, in particolare, in relazione ai procedimenti avanti il giudice civile in materia d’immigrazione, cui si applicano le norme del rito camerale ai sensi dell’artt. 13 e 13-bis d.lgs. n. 268 del 1998.

In materia di provvedimenti relativi a minori immigrati (art. 31, comma 3°, d.lgs. 286 del 1998) solo da ultimo, con la pronuncia a sezioni unite n.

                                                            51 Cfr., in particolar modo, A. PROTO PISANI, Usi e abusi della procedura camerale ex

art. 737 e segg. c.p.c., in Riv. dir. proc., 1990, I, pp. 393 ss., spec. pp. 433 ss. 52 V. DENTI, La giurisdizione volontaria rivisitata, in, Studi in onore di E. Allorio, I,

Milano, 1989, p. 187; E. FAZZALARI, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc., 1988, pp. 917 ss.; A. PROTO PISANI, Usi e abusi della procedura camerale, cit., 404 e pp. 433 ss.

53 Cass., 23 agosto 2006, n. 18353, in Giust. civ. Mass., 2006, che pure qualifica inopinatamente il procedimento – in palese contraddizione al fatto che la S.C. non ha riconosciuto inammissibile il ricorso – di volontaria giurisdizione.

54 A. PROTO PISANI, Usi ed abusi della procedura camerale, cit., pp. 408 ss.

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22216 del 200655, si è risolto un contrasto tra opposti indirizzi sull’ammissibilità del ricorso per cassazione, dovuta proprio ad un’incertezza circa la natura contenziosa o non contenziosa del procedimento camerale. L’affermazione dell’ammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost. si basa essenzialmente sul rilievo che i provvedimenti di cui all’art. 31, comma 3°, d.lgs. 286 del 1998 hanno natura decisoria sul “diritto del minore ad essere assistito da un familiare nel concorso delle condizioni richieste dalla legge e, contemporaneamente, su quello del familiare a far ingresso in Italia e a trattenervisi per prestare la dovuta assistenza”. Alla luce di quanto osservato supra possiamo qui chiarire che si tratta di un giudizio avente, in realtà, per oggetto status, appunto perché si tratta di posizioni originarie (quella del minore immigrato e quella del familiare) ai fini del ricongiungimento: in quanto tali esse risultano “riconosciute” ai sensi dell’art. 2 Cost. e tutelate con procedimenti (contenziosi) di accertamento, là dove contestate e rese incerte dalla p.a., pur nell’ambito delle prerogative di quest’ultima in materia di immigrazione. Osserva, infatti, la Suprema Corte “esso [il provvedimento di cui all’art. 31, comma 3°, d.lgs. n. 286 del 1998] ha … ad oggetto non già un interesse generico del minore, ma un interesse specifico e pressante che va tutelato, se esistente, anche in deroga delle disposizioni in materia di immigrazione” (c.vi nostri)56.

Analogamente in materia di status di rifugiato politico le sezioni unite della Cassazione hanno statuito a favore della giurisdizione del giudice civile, peraltro qualificando espressamente la materia come attinente allo status delle persone e ammettendo con molta chiarezza la natura contenziosa dei giudizi in materia57.

Ed ancora il riconoscimento del carattere contenzioso del procedimento di dichiarazione di fallimento, il quale trova definitivamente conferma nella                                                             

55 Cass., sez. un., 16 ottobre 2006, n. 22216, cit. In precedenza si segnalano particolarmente Cass., 11 gennaio 2006, n. 396, in Giust. civ., 2006, I, 1761, nel senso dell’ammissibilità del ricorso straordinario ex art. 111 Cost. e Cass., 4 marzo 2005, n. 4798, in Giust. civ. Mass., 2005, che è, invece, orientata in senso contrario.

56 Così Cass., sez. un. 16 ottobre 2006, n. 22216, cit. 57 In Cass. n. 22216 del 2000, la S.C. si è soffermata, inoltre, sulle deroghe alle regole

generali del processo civile, soprattutto in tema di formazione del convincimento del giudice. In particolare, si è ritenuto di attenuare in materia il rigore della regola dell’onere della prova (art. 2697 c.c.), nonché del principio dispositivo in materia di prove (art. 115 c.p.c.), in relazione alla peculiare difficoltà in cui si trova l’attore nel giudizio di accertamento dello status di rifugiato politico sotto il profilo della disponibilità della prova. Pertanto, al giudice sono riconosciuti poteri ufficiosi particolarmente ampi in relazione al reperimento delle prove, da un lato, e , dall’altro, l’incompatibilità delle esigenze di accertamento insite in tale giudizio con il sistema delle preclusioni sancito per il processo ordinario di cognizione.

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disposizione di cui agli artt. 5 ss. l.f., viene affiancato dal rilievo secondo cui esso abbia ad oggetto uno status58. Tuttavia, è a credere che tale asserzione non abbia in realtà un preciso significato tecnico, avendo tale provvedimento natura costitutiva59.

Al contrario, non sono stati considerati provvedimenti decisori su status – ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione – quelli attinenti l’adottabilità dei minori60, anche stranieri sulla base delle disposizioni in tema di adozione c.d. internazionale61, i provvedimenti che limitano od escludono la potestà dei genitori naturali o che pronunciano la decadenza della potestà sui figli o la reintegrazione in essa62, nonché i provvedimenti autorizzativi del giudice tutelare in relazione agli atti di disposizione di beni del minore63.

A diverse incertezze dà luogo la qualificazione circa la natura contenziosa o meno dei procedimenti attinenti alla capacità delle persone: ossia quello per l’interdizione e l’inabilitazione, nonché quello attinente all’amministrazione di sostegno di cui all’art. 720-bis c.p.c. In relazione al primo, infatti, sono previste forme che ricorrono tipicamente nei giudizi contenziosi e si concludono con sentenza. Tuttavia, successivamente alla loro conclusione si può rendere necessario un adeguamento delle valutazioni già compiute all’atto dell’emanazione dei provvedimenti d’interdizione o d’inabilitazione, tale da non renderli particolarmente idonei all’immutabilità tipica del giudicato. Riguardo all’amministrazione di sostegno è stabilita l’applicazione di talune disposizioni del procedimento d’interdizione e d’inabilitazione, prevedendosi altresì l’ammissibilità del ricorso per cassazione (art. 720-bis, ult. comma, c.p.c.).

Al di là dell’espressa previsione delle forme dei procedimenti di cognizione – pur con taluni elementi di specialità rispetto al modello ordinario – il carattere contenzioso del procedimento per l’interdizione e l’inabilitazione sembra prevalere, per il fatto che è prevista la realizzazione

                                                            58 P. PAJARDI-A. PALUCHOWSKI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, p. 155. 59 Sul carattere costitutivo della sentenza dichiarativa di fallimento cfr. P. PAJARDI-A.

PALUCHOWSKI, Manuale, cit., p. 155 e riferimenti ivi citati. 60 Cass., 28 novembre 1987, n. 8858, in Giust. civ. Mass., 1987; in senso contrario, però,

Cass., 28 aprile 2000, n. 5417, in Giust. civ. Mass., 2000, secondo la quale i provvedimenti in materia di revoca della dichiarazione di adottabilità avrebbero contenuto decisorio, e sarebbero idonei al giudicato, sia pure rebus sic stantibus, su posizioni soggettive del minore e degli altri interessati, modificando uno status ed incidendo su diritti di primaria importanza.

61 Cass., 25 gennaio 2001, n. 1065, in Fam. dir., 2001, p. 499, con nota di E. RAVOT; Cass., 17 giugno 1996, n. 5567, in Fam dir., 1996, p. 437, con nota di S. GIULIANO.

62 Cass., 8 ottobre 2002, n. 14380, in Giust. civ. Mass., 2003. 63 Cass., 14 febbraio 2001, n. 2099, in Giust. civ. Mass., 2001.

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del contraddittorio e la pronuncia di una sentenza diretta ad incidere sulla capacità ad agire e conseguentemente limitativa dell’esercizio di prerogative riconducibili a status personali64: il che spiega perché alla pronuncia di rigetto della domanda d’interdizione sia riconosciuta efficacia erga omnes65. Viceversa, non sembra possibile affermare che le qualifiche d’interdetto e d’inabilitato costituiscano a loro volta status, poiché esse conseguono all’esercizio di funzioni costitutive necessarie66. Ad ogni modo, i provvedimenti d’interdizione e d’inabilitazione si ritengono idonei al passaggio in giudicato, pur se dotati di una minore stabilità degli ordinari provvedimenti decisori connotati del crisma della definitività, in quanto subordinati alla “clausola” rebus sic stantibus (arg. dall’art. 720 c.p.c.).

Più complessa è l’indagine riguardo al procedimento di cui all’art. 720-bis c.p.c., soprattutto per il fatto che il legislatore non ha operato una netta demarcazione di confine tra il procedimento in discorso e quello dell’interdizione e dell’inabilitazione e che manca una disciplina processuale organica, limitandosi tale disposizione perlopiù a rinviare proprio ad alcune norme in tema d’interdizione e d’inabilitazione “in quanto compatibili”. In particolare, la questione impostasi maggiormente all’attenzione degli interpreti è quella dell’obbligatorietà o meno della difesa tecnica nel procedimento dell’amministrazione di sostegno67. Tale questione ha reso necessario porsi degli interrogativi che trascendono il mero dubbio circa l’applicabilità in materia dell’art. 82 c.p.c., finendo per investire il tema del carattere contenzioso o meno del procedimento in discorso e, più in generale, quello dell’applicazione delle garanzie                                                             

64 Cass., 24 agosto 2005, n. 17256, in Giust. civ. Mass., 2005. In dottrina, sulla natura contenziosa del procedimento per l’interdizione e l’inabilitazione cfr. P. CALAMANDREI, Linee fondamentali del processo civile inquisitorio, in Studi in onore di G. Chiovenda, Padova, 1927, p. 131; E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., pp. 116 s.; TOMMASEO, I processi a contenuto oggettivo, I, cit., pp. 495 ss. Diversamente E. Redenti, Diritto processuale civile, III, Milano, 1957, p. 371; S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, 1, 1968, p. 329; E. FAZZALARI, Giurisdizione volontaria (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, pp. 365 ss.

65 E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 117. 66 L’impossibilità di configurare – in senso tecnico – uno status dell’interdetto o

dell’inabilitato si raccorda, del resto, con il carattere costitutivo della sentenza d’interdizione e d’inabilitazione sancita dall’art. 421 c.c., la cui annotazione nei registri di stato civile (art. 49 lett. e) d.p.r. n. 396 del 2000) ha un mero carattere ricognitivo e probatorio, come normalmente riconosciuto in materia di stato delle persone (vedi supra paragrafo 5, testo e nota 44).

67 Per l’applicabilità dell’onere di patrocinio cfr. F. TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica, in Fam. e dir., 2004, pp. 609 ss.; ID., L’amministrazione di sostegno: i profili processuali, in Studium iuris, 2004, pp. 1065 s.; ID., Dell’amministrazione di sostegno, in Comm. G. Cian-A. Trabucchi, Padova, 2007, pp. 484 s., a cui si fa richiamo anche per la ricostruzione delle diverse opinioni espresse in materia e i relativi riferimenti.

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processuali in relazione all’emanazione dei provvedimenti che possono incidere sugli status personali68.

Su tale problema interpretativo si è infine pronunciata nel 2006 la Suprema Corte, con un’importante statuizione, con la quale si comincia a mettere ordine nella complessa materia, anche se – prevedibilmente – non in modo definitivo69. Con tale sentenza si è affermato che la rappresentanza tecnica deve essere garantita a seconda che il provvedimento, emanato dal giudice tutelare nel procedimento di amministrazione di sostegno, abbia ad oggetto il compimento di singoli atti o attività a supporto di soggetti deboli, ovvero comporti (anche) “una limitazione della capacità di agire del soggetto interessato, e dunque una compressione della sua libertà ed autonomia, tale da incidere nella sfera dei diritti inviolabili dell’uomo”70: in questo caso (soltanto) si riconosce l’obbligatorietà della rappresentanza tecnica, ricollegata direttamente alla garanzia del diritto di difesa71. Più in generale: almeno ove i provvedimenti del giudice tutelare di cui all’art. 720-bis c.p.c. possano (in astratto) determinare una lesione delle prerogative fondamentali spettanti alla persona, si rende necessaria l’applicazione delle garanzie essenziali del processo di cognizione; ragione per cui, quantomeno in queste ipotesi, sembra doversi riconoscere nell’amministrazione di sostegno il carattere contenzioso72.                                                             

68 Su tale questione, in generale, F. TOMMASEO, Dell’amministrazione di sostegno, cit., pp. 481 ss. 69 Cfr. Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, p. 19, con nota di F.

TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della Cassazione. 70 Così Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, cit. 71 Sul punto Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, cit. statuisce nel senso che il “diritto di

difesa, che nemmeno entra in giuoco allorché gli interventi siano non già limitativi, ma di solo sostegno, deve pertanto trovare completa attuazione ove si tratti di provvedimenti incidenti su diritti fondamentali riconducibili alla esplicazione della personalità dell’individuo, che non possono essere adottati, nel rispetto della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, se non a seguito di un contraddittorio pieno, nel quale solo l’assistenza tecnica è in grado di garantire il rispetto della legalità” (c.vi nostri).

Bisogna ammettere, peraltro, che la Cassazione adotta nel caso di specie una posizione sin troppo cauta nell’affermare l’obbligatorietà della rappresentanza tecnica, per il fatto che anche là dove il giudice tutelare adotti un provvedimento finalizzato al compimento di singoli atti a supporto della persona debole, si procede pur sempre, contestualmente, ad una limitazione della capacità d’agire del beneficiario, il che vale pur sempre a delimitare una prerogativa fondamentale della persona.

72 Occorre rilevare come, in apparente contraddizione rispetto al richiamo circa l’applicazione delle garanzie fondamentali del processo contenzioso, secondo Cass., n. 25366/2006 quando il provvedimento del giudice tutelare è suscettibile d’incidere sui diritti fondamentali della persona non troverebbero applicazione gli artt. 99 e 112 c.p.c.: “se pure la natura, la struttura e la funzione del procedimento in esame impediscono in linea di principio l’applicazione della disciplina generale in materia di difesa tecnica, va tuttavia fatta salva l’esigenza di tale difesa e del contraddittorio, quali garanzie fondamentali offerte dal giusto

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L’applicazione delle garanzie dei giudizi contenziosi in relazione all’emissione di provvedimenti suscettibili di incidere sui “diritti fondamentali” della persona è sottesa alla necessità che venga effettuato un accertamento sulla sussistenza e sulla conformazione di tale tutela, secondo le regole proprie di tutti gli accertamenti aventi ad oggetto status73. Per altro verso, da tempo la giurisprudenza è orientata nel senso dell’impossibilità di esplicare la giurisdizione volontaria ogni qualvolta vi sia una contestazione in materia di status personali, dovendosi procedere all’accertamento di questi ultimi nelle forme e con le garanzie proprie dei procedimenti contenziosi: ad es. non è ammessa l’applicazione delle forme del procedimento camerale nei giudizi di rettificazione degli atti dello stato civile74, quando appunto sorga una controversia attinente lo status75.

Recentemente, poi, la Cassazione ha applicato in modo innovativo la disciplina dei provvedimenti camerali di cui all’art. 732 c.p.c., in combinazione con l’istituto della curatela speciale ex art. 78 c.p.c., relativamente all’autorizzazione al compimento dei c.d. atti personalissimi, tale da incidere sull’esercizio e sul godimento dei diritti fondamentali della                                                                                                                               processo, in ogni caso in cui il provvedimento da emettere, sia o non corrispondente alla misura richiesta, incida in maniera diretta sui diritti inviolabili della persona” (c.vi nostri). La posizione della S.C. sembra condivisibile solo argomentando dall’art. 34 c.p.c. che il giudice tutelare può d’ufficio rilevare l’interesse ad un accertamento incidentale avente ad oggetto – come si è più volte osservato – uno status personale, determinando in conseguenza un eccezionale mutamento ufficioso dell’oggetto del procedimento per l’amministrazione di sostegno, instaurato avanti lo stesso giudice.

73 Analogamente V. DENTI, La giurisdizione volontaria rivisitata, cit., pp. 189 ss. 74 Ad oggi l’applicazione delle forme camerali è espressamente prevista dall’art. 96 d.p.r.

n. 396 del 2000, superando la previgente disciplina di cui all’abrogato art. 454 c.c., che prevedeva la forma della sentenza. Allo stesso tempo, la legge esclude espressamente in ordine ai provvedimenti di rettificazione emessi nei procedimenti di volontaria giurisdizione gli effetti tipici degli accertamenti sugli status, stabilendo che i provvedimenti emessi in tale sede non possano essere “opposti” (i.e.: non producono effetto) verso terzi (art. 455 c.c.): il che però – soprattutto dopo le recenti innovazioni legislative – deve essere interpretato estensivamente; nel senso che il provvedimento di rettifica, pronunciato in camera di consiglio, non possa accertare uno status oggetto di contestazione, così da non esplicare in questo caso efficacia di giudicato verso alcuno, e quindi anche rispetto alle parti del procedimento di rettifica.

75 Cfr. App. Roma, 27 maggio 2002, cit. Prima dell’entrata in vigore del d.p.r. n. 396 del 2000, comunque, la giurisprudenza era già consolidata nel senso che il procedimento di rettificazione dello stato civile potesse applicarsi solo al fine di eliminare una difformità tra la situazione di fatto e le risultanze degli atti dello stato civile, essendo inammissibile invece il ricorso a tale procedimento ove a fondamento della domanda di rettificazione fosse posta la contestazione di uno status, dovendosi in tal caso agire nelle forme del giudizio contenzioso (Cass., 27 marzo 1996, n. 2776, in Giust. civ. Mass., 1996; Cass., 26 gennaio 1993, n. 951, in Giur. it., 1995, I, 1, p. 148, con nota di E. OCCHINO, I limiti di rettificazione degli atti dello stato civile). In dottrina cfr. F. CARPI, L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, cit., pp. 177 ss.; V. DENTI, La giurisdizione volontaria rivisitata, cit., pp. 189 s.

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persona76. Il carattere innovativo di tali dicta si appunta sul fatto che qui l’istituto della curatela speciale non è diretto, in realtà, a sopperire l’eventuale conflitto d’interesse tra il tutore e l’incapace. Difatti, il curatore non è destinato tanto a tener luogo o ad affiancarsi alla posizione processuale del tutore in potenziale conflitto d’interessi, quanto a realizzare il contraddittorio funzionale all’emanazione del provvedimento di autorizzazione. In secondo luogo, i provvedimenti ex art. 732 c.p.c. finiscono nel caso di specie per assumere una funzione sostanzialmente identica all’amministrazione di sostegno, benché siano diverse le forme rispettivamente applicabili: quelle comuni del procedimento in camera di consiglio per i provvedimenti a favore dell’interdetto e quelle sancite dall’art. 720-bis c.p.c. per l’amministrazione di sostegno, rendendosi, in particolare, non obbligatoria la partecipazione del p.m. nei procedimenti riguardanti posizioni fondamentali dell’incapace77. Inoltre, in relazione all’emanazione dei provvedimenti ai sensi dell’art. 732 c.p.c. la Cassazione sembra non tenere nel dovuto conto la necessità di applicare le garanzie dei giudizi contenziosi ai fini dell’emanazione di provvedimenti destinati ad incidere sui diritti della persona, allo stesso modo di come è avvenuto riguardo al procedimento dell’amministrazione di sostegno.

6. (Segue) Le “nuove” tutele delle situazioni personali: la partecipazione del p.m. e il rispetto del contraddittorio. Questioni di legittimazione ed interesse ad agire in materia di status.

Diciamo subito come non convinca l’applicazione del combinato

disposto degli artt. 732 e 78 c.p.c. per raggiungere le stesse finalità di tutela dell’amministrazione di sostegno. Innanzitutto, la partecipazione obbligatoria del p.m. a quest’ultimo procedimento, a nostro parere, realizza                                                             

76 Cfr. Cass., ord., 20 aprile 2005, n. 8291, in Foro it., 2005, I, p. 2359, ove si è sancita l’inammissibilità del ricorso proposto dal tutore in relazione al provvedimento con il quale era stata negata l’autorizzazione ex art. 732 c.p.c. alla cessazione del trattamento sanitario sull’interdetto per la mancanza del necessario contraddittore, identificato nel curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c.; seguíto da Cass., 16 settebre 2007, n. 21748, cit., che ha considerato ammissibile il ricorso per cassazione previa verifica dell’instaurazione del contraddittorio nei confronti del curatore speciale. Per altro verso, il carattere contenzioso del giudizio e l’astratta idoneità del provvedimento ex artt. 732 e 78 c.p.c. al passaggio in giudicato – salvo le considerazioni svolte nel paragrafo 6 – non possono essere revocati in dubbio, vista, a tacer d’altro, proprio l’ammissibilità del ricorso in cassazione (cfr. sul punto CAPONI-PROTO PISANI, Il caso E.: brevi riflessioni dalla prospettiva del processo civile, cit., p. 985).

77 L’art. 732 c.p.c., infatti, non prevede l’intervento obbligatorio del p.m., mentre ai sensi del combinato disposto degli artt. 720-bis e 713, 1° comma, c.p.c. il presidente ordina la comunicazione del ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno al p.m.

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quanto sancito dall’art. 70, 1° comma, n. 3, c.p.c. in relazione ai procedimenti civili in materia di “stato e capacità delle persone”, da intendersi riferite a tutte le situazioni giuridicamente tutelate, in quanto originarie e durevoli, relativamente alla persona, nelle quali chi scrive ritiene di riconoscere gli status personali.

Per altro verso, l’intervento obbligatorio del p.m. in materia di status, così come negli altri casi di cui all’art. 70 c.p.c., si ricollega ad un fine pubblicistico, che coincide con l’interesse generale in ordine all’applicazione della legge, il quale, tuttavia, non è confinato solo alla corretta interpretazione e applicazione delle norme di diritto, bensì attiene ad un interesse di giustizia in relazione al caso concreto78. Difatti, l’art. 72, 2° comma, c.p.c. riconosce al p.m. poteri tipicamente delle parti in ordine alla formazione del convincimento da parte del giudice (produzione di documenti e deduzione di prove), pur nei limiti delle conclusioni delle parti, ben oltre l’attenuazione del principio dispositivo in materia probatoria e il divieto di scienza privata. Il che rende evidente come il ruolo svolto dal p.m. non è connaturato tanto all’interesse in astratto tutelato dalle norme di legge, che il giudice si trova ad applicare: posto che tra l’altro, tale ricostruzione finirebbe per duplicare in capo a quest’ultimo il ruolo riconosciuto al giudice nell’esplicazione della propria potestà decisoria (arg. dagli artt. 101 Cost. e 113 c.p.c.). Al contrario, bisogna mettere in relazione, più plausibilmente, la funzione svolta dal p.m. con la peculiare disciplina processuale applicabile alle controversie in materia di status, ed in ispecie, con l’efficacia erga omnes della decisione su tali controversie79.

La previsione della partecipazione obbligatoria del p.m., oltre alle peculiari caratteristiche di rapidità e semplificazione, fa sì che il procedimento dell’amministrazione di sostegno – al di là delle incertezze cui si è accennato in precedenza – risulti funzionale alla tutela dei soggetti deboli, pure in relazione all’emanazione di provvedimenti suscettibili                                                             

78 S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, pp.239 ss. 79 Vedi supra nota 32. La correlazione tra la previsione dell’obbligatorietà dell’intervento

del p.m. e la previsione dell’efficacia erga omnes delle decisioni sugli status personali e alle situazioni giuridiche ad essi equiparate corrisponde, comunque, ad una scelta discrezionale del legislatore. E’ possibile, quindi, che la legge escluda l’obbligatorietà di tale intervento, pur mantenendo l’efficacia ultra partes dell’accertamento: com’è avvenuto, di recente, in relazione alle controversie sulla decadenza e la nullità delle privative industriali (art. 122, comma 1°, d.lgs. n. 30 del 2005). Pertanto, la giustificazione di tale opzione legislativa – a parere di chi scrive – non sembra essere tanto quella di attenuare la “connotazione pubblicistica” dei processi in materia industriale (in tal senso, invece, M. SCUFFI, Diritto processuale della proprietà industriale ed intellettuale, Milano, 2009, p. 279), quanto di una maggior fiducia sulla giustizia della decisione destinata a promanare effetto verso tutti, in base alla ordinaria applicazione delle regole del processo ai sensi degli artt. 112 e 115 c.p.c.

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d’incidere su prerogative fondamentali della persona, anche ove tale istituto si trovi ad essere applicato in relazione a soggetti interdetti o inabilitati80.

Nondimeno: com’è stato riconosciuto dalla Suprema Corte nel 2006, per procedere all’emanazione di tali provvedimenti nell’ambito dell’amministrazione di sostegno si rende necessaria l’applicazione delle garanzie essenziali dei procedimenti cognitivi, al fine di consentire l’accertamento tanto della situazione soggettiva, su cui le misure in discorso vengono ad incidere, quanto dei presupposti per procedere in tal senso, ai fini della tutela del soggetto debole. In particolare, la più importante regola che deve trovare applicazione in relazione a tale accertamento è quella del contraddittorio. Tale richiamo deve essere riferito, innanzitutto, all’applicazione delle forme e delle modalità di esplicazione dei poteri decisori del giudice tipiche dei procedimenti contenziosi e riconducibili direttamente e in modo essenziale all’attuazione del principio di cui all’art. 101 c.p.c.: quale ad es. il dovere d’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio di cui agli artt. 101, comma 2°, e 183, comma 4°, c.p.c.

Allo stesso tempo, il richiamo all’applicazione del principio del contraddittorio negli accertamenti in materia di status rende necessaria una peculiare attenzione ai temi della legittimazione. Com’è noto, la dottrina non è concorde nel ricollegare la verifica della legittimazione ad agire in relazione al principio sancito dall’art. 101 c.p.c.81 e tanto meno è a dirsi                                                             

80 Del resto, è noto che l’amministrazione di sostegno è stata introdotta dal legislatore con la l. 9 gennaio 2004, n. 6 proprio per colmare una lacuna di tutela a protezione dei soggetti deboli, rispetto a quanto si poteva affermare in relazione ai procedimenti dell’interdizione e dell’inabilitazione, finalizzati alla tutela dell’incapace in relazione ai rapporti patrimoniali e del tutto inidonei a realizzare la tutela dei c.d. diritti della personalità.

81 Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza i rilievi (anche) ufficiosi, che il giudice può compiere in ogni stato e grado, in ordine alla sussistenza della legittimazione ad agire, attiva e passiva, sono giustificati dalla necessità di verificare la regolarità del contraddittorio: da ultimo in tal senso Cass., 6 marzo 2008, n. 6132, in Giust. civ. Mass., 2008; Cass., 22 maggio 2007, n. 11837, in Giust. civ. Mass., 2007; Cass., 6 aprile 2006, n. 8040, in Giust. civ. Mass., 2006; Cass., 22 giugno 2005, n. 13403, in Giust. civ. Mass., 2005. In dottrina E. REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, cit., p. 81 e passim; S. SATTA, Comm. c.p.c., I, cit., p. 360 s.; gli AA. affermano la stretta relazione tra la verifica del contraddittorio e quella della sussistenza della legittimazione ad agire, attiva e passiva. In senso contrario, invece, A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., pp. 289 ss., il quale, tuttavia, ammette tale relazione riguardo alla disciplina del litisconsorzio necessario per “ragioni sostanziali” (op. cit., p. 290 e p. 336). L’opinione maggioritaria in dottrina, comunque, rifiuta di collegare l’osservanza del principio del contraddittorio all’individuazione del legittimato passivo: il che si riconnette al rigetto della nozione c.d. concreta dell’azione (cfr., in proposito, L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., pp. 98 ss., anche per riferimenti). In sostanza, la principale critica all’affermazione di un nesso sistematico tra l’art. 101 c.p.c. e l’identificazione del legittimato passivo è che, in ogni caso, l’accertamento della pronuncia nei confronti del non legittimato passivamente è idoneo a produrre gli effetti di cui all’art. 2909

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riguardo all’interesse ad agire. Occorre, però, tenere presente le peculiarità degli accertamenti sugli status, le quali richiedono in questa materia una disamina ad hoc dei rapporti tra verifica della legittimazione e regolarità del contraddittorio. Invero, da un lato, l’esigenza di certezza in materia di status non consente di riconoscere l’efficacia di giudicato nei confronti delle sole parti presenti in giudizio: per il fatto che gli accertamenti sulle situazioni giuridiche in discorso non si prestano ad una “relativizzazione”: né al momento della deduzione in giudizio, né in applicazione dell’art. 2909 c.c. Dall’altro, non sembra possibile opporre tale giudicato al “vero” legittimato passivo, in quanto formatosi in un processo in cui non era parte e non ha avuto la possibilità di difendersi. Diversamente, si consentirebbe all’attore una facile elusione del principio del contraddittorio, attraverso l’instaurazione di un giudizio con un convenuto “di comodo”. Cosicché la sussistenza della legittimazione attiva e passiva, in materia di status non è richiesta solo ai fini della decisione sul processo, ma è il presupposto su cui si basa la produzione dell’efficacia (erga omnes) dell’accertamento.

Trattandosi di una tutela tipica, poi, il giudice richiesto dell’accertamento di uno status è chiamato in via pregiudiziale in rito – ossia al momento in cui si verificano le condizioni processuali di accesso alla tutela nel merito – ad accertare se la lesione, affermata dall’attore o da lui stesso rilevata, possa inquadrarsi o meno in quella prevista dalla legge, nonché se le parti del giudizio corrispondano rispettivamente al soggetto cui la legge stessa riconosca la tutela invocata ed a quello che abbia determinato la lesione lamentata dall’attore o rilevata ufficiosamente. In altre parole, il giudice deve verificare, oltre alla legittimazione ad agire dell’attore, anche il fatto che la richiesta di tutela da quest’ultimo compiuta venga proposta proprio nei confronti del soggetto che pregiudica (o comunque pone in pericolo) la posizione soggettiva vantata (legittimazione passiva). Analogamente, il rilievo ufficioso da parte del giudice della sussistenza di un interesse all’accertamento incidentale ex lege sulla sussistenza o meno dello status ai sensi dell’art. 34 c.p.c. rende necessaria ulteriormente l’identificazione del relativo legittimato passivo e, se del caso, la vocatio in ius di quest’ultimo.

                                                                                                                              c.c. (L. MONTESANO, op. cit., p. 100), restando salva sempre la necessità d’instaurare un nuovo processo al fine di ottenere un accertamento opponibile al «vero» legittimato passivo. Tuttavia, tale argomento non tiene conto della particolare efficacia ultra partes degli accertamenti sugli status, giacché in tale peculiare materia si può ipotizzare la formazione del giudicato c.d. sostanziale in assenza del legittimato passivo, solo a condizione di ammettere la soggezione di questi a tale giudicato anche in sua assenza: il che, tuttavia, non sembra possibile proprio ai sensi dell’art. 101 c.p.c. (v. amplius nel testo).

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La necessità di accertare uno status si può tradurre anche nell’obbligo di verificare la presenza in giudizio di tutte le parti necessarie ai sensi dell’art. 102 c.p.c., ogni qualvolta la situazione giuridica di cui venga chiesto l’accertamento (anche negativo) riguardi (o sia strettamente connessa a quella di) più di due soggetti, ovvero nel caso in cui il pregiudizio, che renda lo status abbisognevole di accertamento, sia riferibile a due o più soggetti, in concorso o meno tra loro. Si veda ad es. l’art. 247 c.c., rubricato “legittimazione passiva”, che prevede il litisconsorzio necessario del presunto padre, della madre e del figlio, in relazione al fatto che la contestazione dello status di figlio, conseguente alla proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità di cui all’artt. 235 ss. c.c., coinvolge e determina incertezza riguardo alla situazione di entrambi i genitori risultanti dagli atti dello stato civile; analogamente si deve affermare anche riguardo alla previsione di cui all’art. 276 c.c., sempre rubricato “legittimazione passiva”, in ordine alla previsione del litisconsorzio necessario dei presunti genitori in relazione alla proposizione dell’azione di dichiarazione di paternità o maternità82.

In altre parole, si ritiene che la mancanza di alcuni legittimati passivi necessari o dell’unico legittimato passivo abbia la medesima conseguenza sulla decisione eventualmente resa in materia di status: l’inidoneità a svolgere alcuna efficacia di accertamento in quanto non utile83.                                                             

82 Si ritiene, pertanto, che in questi casi il litisconsorzio sia dovuto alla peculiarità degli status, quale oggetto di accertamento (analogamente E. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1992, p. 315; A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 329 s. almeno per l’azione di contestazione della legittimità di cui all’art. 248 c.c., mentre riguardo all’azione di disconoscimento di cui all’art. 235 c.c. l’A. mette in relazione la necessità del litisconsorzio con il presunto carattere costitutivo della medesima azione, là dove, invece, si tratta di azioni di mero accertamento destinate a produrre effetti ex tunc e non ex nunc almeno con riguardo alla pronuncia sullo status; così come non si può riconoscere efficacia costitutiva all’annotazione della sentenza di dichiarazione o disconoscimento di cui all’art. 49, comma 1°, lett. o), d.p.r. n. 396 del 2000. Nel senso che il litisconsorzio necessario di cui all’art. 247 c.c. sia dovuto a mere ragioni di opportunità processuali, invece, S. SATTA, Comm. c.p.c., I, cit., p. 365.

83 Cfr. Cass., 21 gennaio 1985, n. 194, cit., la quale indica con chiarezza come il presupposto della produzione degli effetti erga omnes delle pronunce di accertamento in materia di status consista proprio nel rispetto del contraddittorio e, conseguentemente, nella presenza di tutti i litisconsorzi necessari eventualmente previsti dalla legge, come nel caso deciso dalla S.C., trattandosi di una pronuncia sull’azione di disconoscimento della paternità. In tema di litisconsorzio necessario è pressoché pacifico il fatto che la sentenza emessa in assenza di alcuna delle parti necessarie sia inutiliter data (cfr. REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, cit., pp. 255 ss.; V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1957, pp. 287 ss.; A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, cit., p. 336). La mancanza di una parte necessaria o l’assenza del legittimato passivo possono essere fatti valere con l’opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404, 1° comma, c.p.c.; in questo caso, però, l’opposizione assume un carattere facoltativo, non essendo possibile opporre al legittimato

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Conseguentemente sull’attore che richieda l’accertamento di uno status grava il rischio che il processo si svolga in assenza del “vero” legittimato passivo o di tutti i legittimati passivi.

Il compito di verificare la legittimazione passiva – almeno negli accertamenti sugli status personali – è, però, semplificato proprio dalla sua tipicità e, più in particolare, dal fatto che frequentemente questa spetti alla p.a. L’esigenza di certezza obiettiva, che permea la materia degli status, fa sì che la legge frequentemente affidi alla stessa p.a. la funzione di certificare tali situazioni giuridiche. In questi casi, la contestazione degli status personali si ricollega al diniego della certificazione della loro sussistenza da parte dell’autorità pubblica preposta a tal fine.

Nondimeno, in talune ipotesi la tutela assoluta nei confronti della p.a. è resa necessaria in relazione all’erogazione di un servizio pubblico ed in assenza di alcuna attività di certificazione: come avviene, ad es., riguardo alla possibilità di rifiutare il trattamento sanitario obbligatorio ai sensi dell’art. 32 Cost. Anche qui – come abbiamo visto – i caratteri dell’accertamento degli status non possono essere negati, essendo in presenza di tutti gli elementi che rendono necessario un accertamento opponibile verso tutti coloro che possano frapporsi al godimento delle prerogative “garantite” dall’ordinamento ai sensi dell’art. 2 Cost. In questo caso, il legittimato passivo dell’azione di accertamento deve essere identificato in capo all’ente che con i propri atti o con il proprio comportamento contesta e rende incerto o addirittura esclude il godimento delle prerogative attinenti allo status. Qui a meno di diversa ed espressa disposizione di legge, ai fini considerati, si deve prescindere dalle norme che stabiliscono la competenza a erogare i servizi pubblici che rendono incerto il godimento dello status. Anzi, in base alle regole applicabili in materia è possibile opporre il giudicato formatosi in capo al legittimato passivo nei confronti del diverso ente eventualmente competente secondo le norme interne alla p.a., così come all’intera p.a. e ad ogni altro soggetto dell’ordinamento.

Conclusivamente, riguardo ai provvedimenti del giudice tutelare nei procedimenti di amministrazione di sostegno che possano incidere sui diritti fondamentali della persona, il richiamo al rispetto delle garanzie essenziali del processo di cognizione – anche di recente compiuto dalla Cassazione – deve essere esplicato nel senso che occorra verificare innanzitutto la sussistenza della legittimazione delle parti, avanti alle quali è stato                                                                                                                               passivo pretemesso il precedente giudicato inter alios, salvo sempre che si riesca a provare la propria legittimazione passiva nel giudizio di accertamento dello status al momento della sua instaurazione.

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Contributo allo studio dell’accertamento degli status 37

instaurato il giudizio e, in particolare, del legittimato passivo. Difatti, la necessità di effettuare l’accertamento di uno status – conseguente tanto alla proposizione di una domanda, pure incidentale, quanto al rilievo ufficioso dell’interesse all’accertamento ai sensi dell’art. 34 c.p.c. – potrebbe rendere necessario estendere il contraddittorio a uno o più soggetti, sino a quel momento estranei al giudizio, al fine di scongiurare che il provvedimento giurisdizionale sia da considerarsi inutiliter datum.

7. Riflessioni conclusive.

Gli status possono identificarsi nelle situazioni giuridiche aventi

carattere originario e durevole, normalmente attinenti alla protezione della persona, le quali danno luogo ad una peculiare tutela, caratterizzata sul piano processuale da un’assolutezza perfetta, connessa alla specifica e prevalente esigenza di certezza in materia. In ispecie, l’eccezionale carattere assoluto che connota la tutela degli status si traduce nell’impossibilità di tracciare l’usuale linea di confine del giudicato sotto il profilo soggettivo ai sensi dell’art. 2909 c.c., dovendosi, al contrario, riconoscere efficacia di accertamento erga omnes. Dal punto vista tecnico, pertanto, non si è in presenza di status quando l’attività svolta dal giudice ordinario abbia carattere costitutivo, in particolare, allorché il giudice emani un provvedimento costitutivo necessario, anche ove il legislatore eccezionalmente attribuisca ad esso effetti analoghi alle pronunce sugli status in senso stretto, quale quello dell’opponibilità verso tutti i consociati, come ad es. si può rilevare a proposito della situazione del coniuge divorziato. Tantomeno si è in presenza di uno status quanto la legge ricolleghi il sorgere di una situazione giuridica all’emanazione di un provvedimento della p.a.; per converso, in materia di status può essere conferita alla p.a. unicamente una funzione di certificazione, la quale non esclude l’accesso alla tutela di accertamento da parte del giudice ordinario.

La funzione di accertamento in materia di status eventualmente effettuata anche nell’ambito di procedimenti in camera di consiglio deve essere qualificata come attività contenziosa assoggetta alle garanzie ed alle forme essenziali a tale tipologia di processo. In primo luogo, ciò comporta l’osservanza del contraddittorio, anche sotto il profilo dell’accertamento della legittimazione ad agire in capo all’istante, nonché la verifica circa la presenza in giudizio di tutti i legittimati passivi e l’intervento obbligatorio del p.m.

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LUCIANO EUSEBI

Il rapporto con l’«altro» alla luce della Costituzione.

I riflessi sulle problematiche del «fine vita» e l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico∗

SOMMARIO: 1. L’indipendenza dei diritti inviolabili da qualsiasi giudizio sulle condizioni esistenziali. – 2. Il superamento di una visione dei rapporti intersoggettivi intesa come “reciprocità” delle condotte. – 3. Il rispetto della vita quale presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali. – 4.1. La proporzionalità degli interventi a salvaguardia della vita e la non configurabilità di una relazione sanitaria orientata alla morte. – 4.2. Dignità umana ed eutanasia omissiva. – 4.3. L’atteggiamento nei confronti dei soggetti in stato vegetativo permanente. – 5. Le conseguenze circa i modelli di prevenzione dei reati e il sistema sanzionatorio penale. – 6. La tenuta etica delle affermazioni costituzionali inerenti alla dignità umana: sul pericoloso ossimoro di una flessibilità dei diritti inviolabili.

1. L’indipendenza dei diritti inviolabili da qualsiasi giudizio sulle condizioni esistenziali.

L’insieme rappresentato dagli art. 2 e 3 della Costituzione, con i quali

vengono riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo e viene espresso, nel contempo, il principio di uguaglianza, non si limita a formalizzare singole esigenze di tutela che sono andate progressivamente consolidandosi e di cui si precisa la validità erga omnes, ma configura una vera e propria opzione di fondo quanto al modo d’intendere le relazioni giuridicamente significative nei sistemi democratici moderni: opzione che costituisce una sfida, per

                                                            ∗Il testo, per alcune parti, rielabora considerazioni svolte anche nei contributi Dignità

umana e indisponibilità della vita, in E. FURLAN (a cura di), Bioetica e dignità umana. Interpretazioni a confronto a partire dalla Convenzione di Oviedo, Milano, 2009, p. 203 ss., nonché in Medicina e morale, 2009, 3, p. 389 ss.; Diritti inviolabili e tutela dei più deboli. L’etica della cura in medicina, in V. COLMEGNA, M. G. GUIDA, A. FERRARI, C. SAMPIETRO (a cura di), Etica della cura. Riflessioni e testimonianze su nuove prospettive di relazione, Il Saggiatore, Milano, 2010, p. 135 ss.; Dinnanzi all’«altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, in Archivio giuridico Filippo Serafini, 2009, 4, p. 433 ss.

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molti aspetti, tuttora aperta e che, anzi, non appare esente da rischi involutivi. Porla in evidenza significa, dunque, contribuire a salvaguardarla.

Essa può riassumersi in questi termini: i diritti inviolabili non dipendono da un giudizio sulle qualità o sulle capacità che la vita di un individuo umano manifesti, né sull’epoca di avanzamento della medesima, bensì esclusivamente dall’esistenza in vita di ciascun individuo.

In ciò è reperibile il contenuto sostanziale del principio di uguaglianza quale fondamento della democrazia. Siamo uguali perché la titolarità dei diritti inviolabili ha come unico presupposto il darsi di un individuo umano, così che ogni individuo senza eccezione, in tutto l’arco della sua vita e in qualsiasi circostanza, non ne può essere privato.

Il valore peculiare della vita umana, di conseguenza, non discende da considerazioni attinenti a una sacralità meramente religiosa. Piuttosto, il rispetto della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali.

Tutto questo comporta, altresì, che i diritti inviolabili non sono attribuiti, ma riconosciuti, in quanto inerenti alla vita stessa di ciascun essere umano. La loro identificazione normativa, dunque, è configurata dalla Costituzione quale esito di una decisione che sfugge a meri criteri potestativi (che, pertanto, non rimanda al prevalere di dati interessi o a valutazioni di semplice opportunità), assumendo, invece, le caratteristiche di un pur impegnativo discernimento. 2. Il superamento di una visione dei rapporti intersoggettivi intesa come “reciprocità” delle condotte.

Simile nucleo fondativo dell’impianto costituzionale implica

l’abbandono dell’idea molto radicata secondo cui la condotta da tenersi verso altri individui non potrebbe che avere carattere di reciprocità, in rapporto al giudizio, positivo o negativo, che si esprima nei loro confronti1.

Per legittimare tale dinamica si è fatto riferimento, da sempre, al sussistere di una qualche colpa nel destinatario di un giudizio sfavorevole: sebbene non si comprenda come possa dirsi giusto, e quindi eticamente accettabile, agire in modo analogo al contenuto di una condotta negativa (posto che l’etica nasce proprio dalla sfida insita nell’opzione per il bene dinnanzi allo scandalo del male).

                                                            1 Da altro punto di vista, sul medesimo tema, cfr. di chi scrive Per uscire dal vicolo cieco:

oltre la reciprocità del «male per male», in Parola Spirito e Vita. Quaderni di lettura biblica, n. 59 (Dio trasforma in bene), Edizioni Dehoniane, Bologna, 2009, 1, p. 273 ss.

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 41

Assai di frequente, tuttavia, il rimando a una colpa funge da vero e proprio alibi. È infatti molto facile, una volta intesa la giustizia come reciprocità, scorgere sempre nell’altro che s’intenda sottoporre a giudizio – oppure ascrivergli – qualcosa di negativo, così da sentirsi autorizzati ad agire negativamente nei suoi confronti. Il giudizio verso l’altro, in questo modo, finisce per essere riferito agli effetti, valutati favorevoli o svantaggiosi, che l’esserci stesso del medesimo – a prescindere da ogni sua colpa – comporti per chi lo giudica.

In una simile ottica ciò che di un altro individuo si avverte come un ostacolo all’espandersi del proprio essere viene affrontato attraverso decisioni a danno di tale individuo, con le quali lo si allontana o lo si rende un estraneo, fino, talora, a sopprimerlo: ritenendo di poter contrastare ed eventualmente (costi quel che costi) di eliminare, su questa via, l’incidenza del negativo nella propria vita (del negativo che spesso, in realtà, proiettiamo sull’altro, rimuovendo ogni nostra compartecipazione al male).

Le norme fondamentali della Costituzione, invece, fanno emergere l’idea del tutto antitetica di rapporti umani non già costruiti sul modo di manifestarsi dell’altrui esistenza, quale oggetto di un giudizio, bensì sul riconoscimento dell’altro come soggetto (come un “tu”), cioè come portatore di una humanitas condivisa: in altre parole, di esigenze relazionali proprie della communitas humana. Così che, ove il comportamento verso un essere umano manchi di corrispondere a tali esigenze, non ne deriva solo una deprivazione per quest’ultimo, ma anche una non realizzazione in termini di umanità per chi avrebbe potuto agire secondo quelle esigenze e non l’ha fatto.

Ciò significa che il rispetto della dignità umana, prima ancora di rendere ciascun individuo astrattamente titolare di diritti, lo qualifica a un tempo come portatore e destinatario di doveri nella relazione con gli altri esseri umani, esigendo che nessuno, tra questi ultimi, possa venire trattato, al pari delle cose, in modo puramente strumentale o, comunque, abbandonato, nell’indifferenza per le sue condizioni esistenziali e per il suo destino.

Ma significa altresì riconoscere che l’atteggiamento più rispondente alla nostra condizione esistenziale è dato dall’accoglienza, cioè dall’impegno volto a realizzare noi stessi attraverso – e non contro – la realizzazione dell’altro: operando, dunque, affinché egli pure realizzi al meglio le potenzialità della sua vita2. Come pure implica optare, dinnanzi al negativo                                                             

2 Si veda C. VIGNA, Sulla dignità della vita umana in prospettiva bioetica, in P. CATTORINI - E. D’ORAZIO - V. POCAR (a cura di), Bioetiche in dialogo. La dignità della vita umana, l’autonomia degli individui, Zadig, Milano, 1999, p. 21: «Si può intervenire per l’esistenza umana (la mia o quella di altri), cioè in suo favore. Ne segue che la vita umana nella

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(incolpevole o anche colpevole) che accostiamo nell’impatto talora doloroso con la vita di altri individui, per progetti i quali sappiano dire, in tali situazioni, ciò che è diverso dal negativo o, se si vuole, dal male. In tal modo rinunciando a risposte reciproche esse pure di carattere negativo, attraverso le quali eludere il confronto con le realtà che ci fanno problema e, pertanto, lo sforzo di una gestione delle medesime secondo il bene.

Ne deriva che non potrà non essere ritenuto partecipe di tali obiettivi conformi al bene lo stesso individuo che abbia commesso il male: esigenza, questa, tutt’altro che indifferente rispetto alle modalità con cui si affronti la commissione dei fatti illeciti e, in particolare, rispetto ai contenuti degli stessi oneri sanzionatori imposti all’offensore.

La prospettiva delineata appare in grado di offrire ai diritti inviolabili dell’uomo basi ben più sicure di quelle desumibili da un mero contratto sociale di reciproca non belligeranza, con cui ciascuno rinuncerebbe ai propri desideri di dominio per non correre il rischio d’essere a sua volta dominato, o per beneficiare dei vantaggi materiali derivanti dalla cooperazione con altri soggetti. Un tale ipotetico accordo, d’altra parte, ha dato ampie prove d’essere disatteso ove vengano in considerazione interlocutori deboli e nell’assenza di un interesse tangibile a mantenere verso di essi relazioni eque.

3. Il rispetto della vita quale presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali.

Quanto s’è detto implica che i diritti inviolabili competono,

semplicemente, al sussistere di ciascun essere umano, e non a un qualche livello, tale da presupporre un giudizio, delle capacità o delle qualità (fisiologiche, psichiche o anche morali) che l’esistenza in un dato momento manifesti. Ne dipende l’uguaglianza degli esseri umani3 e, con essa, la configurabilità di rapporti sociali effettivamente ispirati alla nozione di democrazia: la quale, più di ogni ulteriore caratteristica, richiede che ognuno nella società – anche chi è debole, e anche chi è colpevole – conti.

                                                                                                                              sua totalità non può essere oggetto di decisione, se non come progetto di ‘riempimento’ delle sue potenzialità» (corsivo dell’Autore).

3 Cfr. E. SCHOCKENHOF, Etica della vita. Un compendio teologico, trad. it. Queriniana, Brescia, 1997, p. 172. V., altresì, E. SGRECCIA - M. CASINI, Diritti umani e bioetica, in Medicina e morale, 1999, 1, p. 42: «Non è razionalmente possibile introdurre una distinzione di valore tra vite umane o all’interno dell’unica vita umana senza al contempo negare in radice il principio cardine dei diritti umani: l’uguale dignità di ogni essere umano, l’uguaglianza, la non discriminazione».

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 43

Risulta dunque sufficiente che esista una vita umana perché vi sia dignità umana. In particolare, deve considerarsi che le caratteristiche distintive dell’esistenza umana rispetto alle altre forme di vita risultano connesse in modo inscindibile all’essere in atto una vita biologicamente umana. La corporeità non è accidentale alla nostra vita: ciò che è tipico di quest’ultima, anche nelle dimensioni superiori, si esprime pur sempre attraverso il corpo, secondo un’unità che non consente di separare il darsi della vita biologica da quello dell’umano nel suo insieme. Oggi, infatti, nessuno più sosterrebbe che le dimensioni psichiche o intellettive siano calate nel corpo dall’esterno4.

Da quando e fino a quando va svolgendosi una vita appartenente alla specie umana è in gioco, pertanto, la presenza dell’umano e della sua dignità. Si tratta di una vita segnata dalla caducità e dalla vulnerabilità, in cui sovente si manifestano la malattia, l’handicap, ma anche la fragilità morale. Le stesse capacità tipiche dell’esistenza umana vanno attualizzandosi e in molti aspetti affievolendosi, per ciascuno in modo diseguale, lungo l’arco della sua durata. Dinnanzi alla vita si percepirà, talora, lo stupore per quello che rappresenta comunque il vertice di ciò che esiste, mentre, talora, prevarrà la sofferenza per le ferite che l’accompagnano. Tale è la condizione umana: non uno stato di perfezione, immutabile e statico5.

Ciò che lega lo svolgersi dell’esistere, nelle sue contraddizioni come nella sua aspirazione alla pienezza, ciò che rende unitaria la vita individuale oltre le carenze che ne segnano il percorso e i modi che assume nei singoli istanti temporali6 (oltre la discontinuità della coscienza7, il defluire della

                                                            4 Si veda M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, trad. it.

Cinisello Balsamo, 1996, p. 518 s.: «Il singolo contenuto della propria corporeità sembra, in un certo senso, ‘trascorrere’ senza rapporto con [l’]esistenza dotata di durata. Tra la datità dell’io e quella del corpo-proprio sussiste invece a livello fenomenico una relazione fondamentale esattamente opposta che si manifesta in stati d’animo contrari a quello precedentemente descritto e caratterizzati dal fatto che noi, per così dire, ‘viviamo nel nostro corpo-proprio’» (corsivi dell’Autore).

5 Restano istruttive, in proposito, le considerazioni di R. LEVI-MONTALCINI, Elogio dell’imperfezione, 5a ed. (rist.), Garzanti, Milano, 2002, in part. pp. 9 ss. e 279 ss., che identifica per l’appunto nell’imperfezione «una nota dominante del comportamento dell’Homo sapiens sapiens» (p. 280).

6 Cfr. E. RUNGGALDIER, Presupposti metodologici e ontologici del dibattito sulle neuroscienze, in L. EUSEBI (a cura di), Dinamiche della volizione e libertà, Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 42 ss.

7 Cfr. E. SCHOCKENHOF, op. cit., p. 87 ss.

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realtà psichica8 o le vicende dei processi di socializzazione9) è proprio l’elemento, per ognuno identico, della sua umanità.

Non è un caso, allora, che, percepito il senso della dignità umana alla luce del carattere di indigenza che contraddistingue la vita, la funzione primaria del diritto sia stata rinvenuta nel «tematizzare la difesa dei soggetti deboli» o forse, meglio, di ogni essere umano nella sua debolezza. Per cui possiamo «individuare come diritto fondamentale di ogni persona quello che si può denominare un diritto al sostegno»10, in parallelo all’immagine di un essere umano che manifesta tra i suoi bisogni quello «di prendersi cura degli altri entrando in relazione con loro»11.

Significativamente, a tal proposito, l’art. 3, secondo comma, della Costituzione impegna la Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza di fatto dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Se dunque il corpo non è inessenziale rispetto all’umanità dell’essere, allora la tutela di ciò che è umano esprimendone la dignità implica, prioritariamente, il rispetto della vita umana, in quanto si manifesta attraverso il corpo.

Ora, la vita di ciascun individuo consiste in un processo che, dal momento in cui ha inizio al suo termine, si svolge in modo continuo e autonomo: vale a dire, nel risultare già e tuttora in atto un processo esistenziale coordinato e guidato dal suo interno, secondo le caratteristiche della specie di appartenenza.

                                                            8 Valga ancora il rinvio a M. SCHELER, ibidem: «Il corpo-proprio non si manifesta né come

il ‘nostro-proprio’, né come ‘sottomesso al nostro potere’, né come ‘semplicemente momentaneo’; esso è, o sembra essere, il nostro stesso io e contemporaneamente un qualcosa che compenetra il tempo oggettivo in modo stabile, duraturo, continuo, e rispetto a cui la realtà psichica trascorre come qualcosa di ‘passeggero’» (corsivi dell’Autore).

9 Si veda J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, trad. it. Einaudi, Torino, 2002, p. 60 s.: «La persona potrà concepirsi autore di azioni responsabili, nonché fonte di pretese autentiche, solo presupponendo la continuità di un Sé che permane identico attraverso la storia-di-vita. (…) Nelle vicissitudini della storia di vita noi possiamo ribadire il nostro ‘essere noi stessi’ solo quando possiamo stabilire una differenza tra ciò che noi siamo e ciò che a noi accade. Questa differenza noi la fissiamo a un’esistenza corporea in cui si prolunga un ‘destino di natura’ che affonda le sue radici al di là di un ‘destino di socializzazione’» (corsivi dell’Autore).

10 Così F. D’AGOSTINO, Il diritto di fronte alla disabilità mentale, in AA.VV., Dignità e diritti delle persone con handicap mentale, Città del Vaticano, 2007, p. 202 ss. (in riferimento a M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e libertà umana, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2002, p. 120). D. MIETH, Che cosa vogliamo potere? Etica nell’epoca dela biotecnica, trad. it. queriniana, Brescia, 2003, p. 556, parla di «una opzione in favore della preminenza delle persone vulnerabili (‘vulnerable persons’)».

11 Così M. NUSSBAUM, op. cit., p. 40 s. (il passo è ripreso in F. D’AGOSTINO, ibidem).

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 45

Ciascuno si ritrova in vita: in una vita che procede per forza propria. In nessun momento un individuo dà impulso alla sua vita, o a quella altrui. Può farsi carico delle condizioni esterne necessarie (dall’alimentazione al contrasto degli eventi patologici) affinché il suo iter esistenziale, o quello di un altro soggetto, non s’interrompa anzitempo. È in grado di agire per porre termine alla sua stessa vita, ma non di avere parte attiva rispetto al sussistere della medesima.

Gli esseri umani, ovviamente, condividono con gli altri viventi la gradualità dello sviluppo nella prima parte dell’esistenza: ma anche quest’ultimo aspetto non può legittimare differenze qualitative – riferite allo stato d’avanzamento dell’evoluzione psicofisica – tra vite umane egualmente in atto.

Da un lato, infatti, non avrebbe alcun fondamento razionale concepire lo strutturarsi delle capacità che caratterizzano l’umano – soprattutto quelle intellettive – come distinto dal processo esistenziale nella sua unitarietà, quasi che il primo possa avere un inizio autonomo dal secondo ed essere per così dire abbinato dall’esterno, come già si osservava, allo sviluppo meramente biologico del corpo: le capacità tipiche dell’esistenza umana si rendono attuali nell’ambito di un percorso indivisibile, il cui inizio è uno solo e non esiste, pertanto, una fase della vita umana in cui non sia (ancora) in gioco il costruirsi delle funzioni che sono proprie dell’essere umano12.

Dall’altro lato, proprio il realizzarsi ab intrinseco della progressività che caratterizza la formazione delle attitudini inerenti alla vita umana indica come già sussista lungo l’intero corso di tale formazione ciò che regge nel tempo il dispiegarsi della medesima, rendendolo espressione di una realtà esistenziale unitaria.

Non a caso, rappresenta una delle acquisizioni più radicate della civiltà moderna il convincimento che i fanciulli non sono da ritenersi inferiori in dignità umana e in diritti rispetto agli adulti perché non ne possiedono, attualmente, tutte le capacità: e infatti il preambolo della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, citando il preambolo della Dichiarazione approvata dall’ONU sui diritti del fanciullo, afferma che quest’ultimo, “a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale

                                                            12 Cfr., per esempio, M. REICHLIN, Aborto, Carocci, Roma, 2007, p. 175: «La persona è

presente dal momento in cui è presente l’individuo biologico che in seguito svilupperà tali capacità»; fermo «che, nell’ambito di una comune natura personale, diversi individui possono presentare differenti livelli di attuazione della capacità razionale e della capacità di libera decisione» e, inoltre, «che vi sono fasi della loro esistenza nelle quali queste capacità non sono ancora presenti, così come in altre fasi del loro ciclo biologico esse possono cessare momentaneamente o definitivamente, in parte o in tutto».

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necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita”13.

Ben difficilmente, del resto, un adulto sarebbe sincero nel dichiararsi indifferente rispetto all’eventualità che il suo embrione fosse stato distrutto nel passato. Se lo dichiara è perché sa che, ormai, quanto afferma di accettare non può verificarsi. Ma se questo è vero, affermare disinteresse per il destino di embrioni diversi dal proprio viola il principio di uguaglianza.

Da quando è in atto una sequenza di sviluppo esistenziale coordinata e unitaria avente carattere umano – cioè dalla fecondazione o dal momento in cui, secondo qualsiasi altra modalità, tale sequenza abbia avuto inizio – si tratta, pertanto, di agire verso di essa in modo conforme alla sua dignità umana, rinunciando a qualsiasi prospettiva lato sensu eugenetica14.

Ciò fino a quando il coordinamento unitario dell’organismo – e pertanto il processo nel quale si sostanzia la vita di ciascun individuo – sia venuto meno, vale a dire fino alla morte. Il che implica come simile criterio identificativo dell’avvenuta morte di un essere umano (ravvisata, su questa via, nella morte completa del cervello) abbia natura sostanziale e non, come talora si asserisce, meramente convenzionale.

4.1. La proporzionalità degli interventi a salvaguardia della vita e la non configurabilità di una relazione sanitaria orientata alla morte.

Il ruolo fondamentale che assume la dignità di ogni essere umano

nell’ordinamento costituzionale implica, per quanto concerne la cura del

                                                            13 Nel medesimo senso si veda già, peraltro, l’art. 25, 2° comma, della stessa

Dichiarazione Universale. Si considerino anche l’art. 24, 1° comma, del Patto internazionale sui diritti civili e politici e il quarto alinea della parte introduttiva alla stessa Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 novembre 1989), di cui inoltre si valuti l’art. 23, sui diritti del fanciullo fisicamente o mentalmente disabile. Significativamente, all’affermazione richiamata nel testo fa esplicito riferimento la sentenza n. 35/1997 della Corte costituzionale italiana, relatore Giuliano Vassalli, laddove dichiara il diritto alla vita dei nascituri «consacrato» dall’art. 2 Cost.

14 In altre parole, a qualsiasi condotta lesiva che derivi da un giudizio negativo su una data esistenza umana. Sotto questo profilo emerge la centralità culturale che dovrebbe assumere la rinuncia a utilizzare le conoscenze genetiche in senso selettivo tra vite già iniziate, come pure la rinuncia a generare mediante fecondazione in vitro vite umane sub condicione, vale a dire in vista di uno screening successivo fondato su tecniche di diagnosi preimpianto. Circa l’esigenza di tornare a condividere un serio impegno di prevenzione dell’aborto, è utile il rimando all’ampia convergenza fra diverse ispirazioni culturali realizzatasi in sede di redazione del documento approvato dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel dicembre 2005 su Aiuto alla donna in gravidanza e depressione post-partum.

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malato, che questi resti destinatario dell’impegno medico anche quando la sua malattia non possa più essere contrastata, in modo che sia comunque garantita al meglio quella che si suole definire la qualità della sua vita.

Andrà pertanto assicurato il c.d. diritto del malato di non soffrire, rendendo effettivamente disponibile in tutte le situazioni che ne abbiano necessità la terapia del dolore, entro il contesto più vasto degli interventi propri della c.d. medicina palliativa. Simile assunto, sul quale oggi si registra una convergenza etica di grande importanza, delinea un obbligo irrinunciabile per l’attuazione sostanziale del principio democratico, per il quale – come già si osservava – ciascun soggetto conta e, dunque, non dev’essere mai abbandonato.

Fermo, in quest’ottica, che la dignitas umana sussiste in tutto l’arco della vita e che il riconoscimento di ogni individuo – anche del proprio stesso esistere – come portatore di tale carattere passa, anzitutto, attraverso l’intangibilità della vita, ma anche attraverso la cura per le condizioni necessarie al suo procedere (di cui è profilo essenziale la salvaguardia della salute), non ne deriva, tuttavia, il dovere di agire a qualunque costo, mediante gli strumenti tecnici oggi disponibili, al fine di conseguire ogni possibile margine di procrastinazione del decesso. L’esistenza umana, infatti, è mortale, e simile connotato, in certo modo, può dirsi parte della sua stessa dignità, se è vero che, paradossalmente, immette il vivere nella prospettiva dell’assoluto, in quanto fa sì che le scelte operate per motivi etici nella sfera del contingente (talora fino ad accettare il rischio di morire) possano assumere profili di totale incondizionatezza e gratuità. Dunque, appare coerente con la dignità umana accettare la natura mortale della vita, in un’ottica del tutto diversa da quella che neghi il valore dell’essere in vita di un dato individuo (o anche del proprio essere in vita) in base a un giudizio circa le condizioni che lo caratterizzino.

Non è pertanto dovuto, di norma, un intervento medico il quale comporterebbe, in termini di sofferenze e menomazioni aggiuntive rispetto allo stato in cui si trova il malato, effetti tali da compromettere, in particolare, la possibilità dello stesso di continuare a esprimere finché ne sia in grado dimensioni importanti, anche dal punto di vista morale, della sua esistenza15: effetti, in altre parole, non compensati dai benefici prevedibili.

Avere come unico obiettivo il perseguire ogni spazio di ulteriore prolungamento della vita, a prescindere da considerazioni inerenti alla                                                             

15 A tale problematica si aggiunge quella delicatissima e facilmente strumentalizzabile relativa ai profili di una corretta allocazione distributiva delle risorse disponibili. Sul tema cfr. C. BRESCIANI, Proporzionalità della cura e utilizzo razionale delle risorse, in L. EUSEBI (a cura di), Etica, risorse economiche e sanità, Giuffrè, Milano, 1998, p. 143 ss.

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proporzionatezza dell’intervento terapeutico, finirebbe in altre parole per non considerare che, pur essendo la tutela della vita inerente alla dignità umana, non ogni modalità di tale tutela è imposta in modo automatico dalla salvaguardia della suddetta dignità.

Posto che certamente l’affermazione della dignità umana va intesa come tutela della persona, e non come garanzia della ricerca, sempre e comunque, di ogni possibile prolungamento temporale dell’esistenza, molti oggi ne deducono, tuttavia, che i criteri comportamentali concernenti l’utilizzo di terapie salvavita siano riconducibili alla sola volontà del paziente e che quest’ultima risulti insindacabile.

Si tratta di un assunto che riflette una visione radicalmente contrattualistica delle relazioni intersoggettive: se i rapporti con gli altri – escluso ogni riferimento a principi riconosciuti come validi in sé – possono fondarsi solo sull’incontro di volontà non ulteriormente argomentabili, allora l’atteggiamento verso il proprio stesso essere, che prima facie non implica alcuna incidenza sulla sfera della libertà altrui, sarà da intendersi necessariamente (purché un medico sia disposto a cooperare) come l’ambito della più totale potestatività.

Simile approccio si espone a obiezioni fondamentali. In primo luogo, risulta contraddittorio sostenere l’incontestabilità morale della scelta di non tutelare la propria vita, o di darsi direttamente la morte, come espressione della propria autonomia. Con la morte, infatti, viene meno il sussistere stesso dell’individuo quale soggetto morale capace di incidere nella realtà naturale e nei rapporti interpersonali attraverso scelte fondate sulla sua responsabilità. Per sé, dunque, scegliere la morte non afferma, ma distrugge l’autonomia.

Inoltre, appare ben difficile disgiungere la percezione dei doveri connessi al riconoscimento della dignità altrui dall’ammissione che doveri sussistono, analogamente, anche in rapporto alla dignità propria: il rendere disponibile a se stessi la propria vita non lascia intatta la riconducibilità del rispetto di ogni vita alla dignità umana in quanto tale e, del resto, il lasciarsi morire rende impossibile l’assunzione di qualsiasi ruolo significativo nel rapporto con la dignità di ogni altro essere umano.

Tutto ciò evidenzia come resti attuale la configurazione di un dovere morale all’autotutela, non in forza di improponibili obblighi nei confronti dello Stato o di non meglio precisate esigenze collettive, come pure si è sostenuto in determinate epoche, bensì in rapporto all’apertura solidaristica che contraddistingue la nozione stessa di dignità umana.

Come per ogni altro settore dell’agire, pertanto, anche l’atteggiamento nei confronti delle terapie in grado di tutelare la vita propria è valutabile dal

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punto di vista morale, così che una scelta astensionistica esige il riferimento a criteri eticamente generalizzabili, riguardanti la proporzionatezza delle medesime (senza peraltro escludere che la rinuncia irragionevole alla tutela di se stessi possa avere anche riflessi di natura giuridica in rapporto alla legittima aspettativa, da parte di altri soggetti, circa l’adempimento di determinati doveri).

Problema diverso è quello che attiene al comportamento da tenersi nei confronti di un soggetto il quale rifiuti l’attivazione di terapie che pure appaiano del tutto proporzionate, vale a dire in contrasto con l’indisponibilità della propria stessa vita. In proposito è necessario chiarificare, preliminarmente, che non è dato un “diritto di morire”: espressione sintetica, quest’ultima, indicante la possibilità di stabilire una relazione intersoggettiva, in particolare col medico, finalizzata al prodursi della morte.

Simile possibilità, fino a oggi, è stata sempre esclusa dal diritto (anche attraverso specifiche norme penali), perché in contrasto con l’atteggiamento dovuto verso la dignità umana. Il che trova conferma nel codice di deontologia medica, per il quale costituiscono oggetto esclusivo dell’attività sanitaria “la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo dalla sofferenza” (art. 3), come pure nel giuramento professionale del medico, che menziona il dovere “di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza” e altresì il dovere “di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona”.

Ferme queste premesse, è invece ampiamente riconosciuto che esiste un limite circa l’intervento sull’intimità della sfera corporea di un individuo cosciente e competente dal punto di vista psichico, limite costituito dalla non coercibilità dell’intervento medesimo. Si evidenzia, infatti, che nel momento in cui la soggettività morale di un individuo è in grado di esprimersi, il rapporto con lui (con il suo esistere nel corpo) deve stabilirsi attraverso di essa, vale a dire attraverso il suo consenso.

Ciò non implica, peraltro, che dinnanzi al rifiuto di terapie proporzionate il medico potrà limitarsi alla presa d’atto del medesimo, quasi che non esista più la sua posizione di garanzia, giuridicamente rilevante, nei confronti della salute del malato: piuttosto, ne deriva che il medico dovrà pur sempre agire per la tutela della salute attraverso mezzi non coercitivi, e dunque attraverso l’informazione, il dialogo, l’incoraggiamento, il sostegno morale e psicologico; come pure che dovrà predisporre (talora con rilevante anticipo), quando sia possibile, modalità d’intervento alternative a quelle cui il malato si opponga.

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Tutto questo anche alla luce della ben nota constatazione psicologica secondo cui il malato che dichiara di rinunciare a terapie non sproporzionate esprime ordinariamente un appello profondo al non abbandono, sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista del diritto di non soffrire, cioè di usufruire del ricorso agli strumenti propri della medicina palliativa. È noto, del resto, che la prima risposta a una notizia sfavorevole concernente la salute si colloca spesso sul piano della rimozione, con effetti di rifiuto iniziale delle terapie inquadrabili in un processo di accettazione progressiva della nuova realtà esistenziale.

Se, dunque, l’appropriatezza di un trattamento sanitario non lo rende per sé instaurabile in modo coattivo nei confronti di un malato capace di comprendere il suo stato di salute e le connesse opzioni terapeutiche, la relazione medica, a sua volta, non può essere orientata alla morte.

Dal primo di tali assunti non è desumibile, pertanto, la legittimità della richiesta al medico di attivarsi per interrompere l’operatività di un presidio il quale assicuri una condizione di tutela della salute secondo modalità del tutto proporzionate. Come non è desumibile, del pari, la legittimità della previsione, attraverso dichiarazioni anticipate, del vincolo per il medico che si trovasse ad assistere il dichiarante in un’intervenuta condizione non momentanea d’incoscienza a escludere (senza qualsivoglia dialogo attuale) l’utilizzazione di presidi pur del tutto proporzionati: cioè a stabilire una relazione sanitaria non avente come suo fine la tutela della salute, ma il prodursi della morte16.

Emerge, in questo senso, il rimando non eludibile, anche dal punto di vista giuridico, a criteri che descrivano in senso sostanziale l’ambito in cui il trattamento terapeutico debba ritenersi conforme alla tutela della salute: criteri per lo più sintetizzati attraverso la nozione di proporzionatezza.

Chiarito che l’atto medico non può avere finalità diverse rispetto alla tutela della salute (e al contrasto delle sofferenze), ove si configuri sproporzionato secondo un giudizio correttamente svolto esso fuoriesce dall’ambito di un’effettiva salvaguardia della medesima: anche se non va esclusa la configurabilità di ragioni valide in forza delle quali il malato o chi lo rappresenti possa chiedere il ricorso, se praticabile, a mezzi in sé sproporzionati (si pensi al fine di permettere un incontro estremo che veda il paziente ancora in vita).

                                                            16 Cfr. amplius sull’intera problematica in esame L. EUSEBI, Criteriologie dell’intervento

medico e consenso, in Rivista italiana di medicina legale, 2008, p. 1227 ss. (anche con riguardo, in tema di attualità dell’eventuale rifiuto, a Cass., sez. III civ., 15-9-2008, n. 23676, come pure con riguardo all’ampia gamma di contenuti, diversi da quelli menzionati, che le dichiarazioni anticipate, senza dubbio, possono legittimamente assumere).

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Mentre la richiesta di una prestazione medica che non costituisca un atto di tutela della salute o di lenimento della sofferenza risulta sia eticamente che giuridicamente inammissibile (esulando da questo contributo la problematica del rapporto tra tutela della salute e interventi di natura estetica).

S’è detto, in contrario, che il rimando alla proporzione assumerebbe contorni eccessivamente oggettivistici, escludendo qualsiasi ruolo per fattori inerenti al vissuto personale. Ciò tuttavia, è impreciso. La stessa riflessione morale della Chiesa cattolica, ovviamente molto attenta alla tutela in sé di ogni vita umana, non esclude in radice che, per alcuni profili, quei fattori possano assumere rilievo17: semmai, appare decisivo che tali profili siano valutati secondo modalità suscettibili di essere condivise, e non nell’ottica di una mera soggettivizzazione del giudizio.

Che d’altra parte le valutazioni di proporzionalità non siano sempre semplici nel caso concreto è vero: ma proprio per questo è bene che se ne discutano e affinino le criteriologie, nei diversi settori, alla luce del sole, tanto più in quanto, anche ove si volesse proceduralizzare ogni scelta terapeutica, mai sarebbe possibile evitare contesti nei quali risulti necessario decidere senza disporre di un’espressione del volere dell’interessato o di un suo rappresentante.

Il medico, in ogni caso, non può essere sanzionato ove agisca per evitare il pericolo attuale e non altrimenti evitabile di un danno grave alla persona (secondo la formula dello stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen.).

4.2. Dignità umana ed eutanasia omissiva.

I principi espressi in materia da alcune sentenze recenti relative a casi

molto noti muovono in un senso ben diverso, prospettando innovazioni radicali dell’approccio giuridico che non trovano supporto in alcun mutamento finora intervenuto nel quadro normativo.

Tali sentenze, di fatto, pervengono a ritenere che attraverso un’espressione della volontà riferibile al malato (anche pregressa e ricostruita in termini del tutto presuntivi) possa legittimamente chiedersi al medico qualsiasi intervento volto a interrompere l’operatività o la somministrazione di presidi necessari alla sopravvivenza (anche di presidi non intesi al contrasto di una patologia o del dolore e, pertanto, di carattere non terapeutico, come l’idratazione e l’alimentazione), ovvero – con

                                                            17 Si considerino i nn. 14-16 della Dichiarazione sull’eutanasia approvata nel 1980 dalla

Congregazione per la Dottrina della fede.

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riguardo all’eventuale instaurarsi futuro di un rapporto sanitario – la non attivazione di qualsivoglia presidio salvavita: e ciò a prescindere da ogni considerazione sulle caratteristiche che assuma, stanti le condizioni attuali del malato, il presidio del quale si discuta. Impostazione, questa, la quale trova uno sviluppo ulteriore nell’indirizzo secondo cui medesimi poteri sarebbero da attribuirsi, quando non risultasse disponibile un’espressione di volontà del malato, a terzi i quali lo rappresentino ex lege o per sua delega.

Su questa via, in pratica, verrebbe tout court legittimata l’eutanasia volontaria (o dichiarata tale) che si realizzi per omissionem e in particolare mediante condotte interruttive di prestazioni proporzionate salvavita (almeno quando ciò avvenga nell’ambito di una relazione medica). Il principio secondo cui non sono legittime relazioni interpersonali, sia attive che omissive, orientate alla morte risulterebbe superato. Il che appare tanto più preoccupante se si considera come finalità eutanasiche in situazioni di precarietà esistenziale possano essere realizzate quasi sempre senza ricorrere a interventi che producano direttamente la morte; ma anche se si considera la facilità con cui risultino burocratizzabili le asserite dichiarazioni di volontà.

Si tratta di un orientamento che ha potuto affermarsi, nonostante ben note norme del codice civile e penale che sanciscono l’indisponibilità del bene vita, attraverso un percorso giuridico alquanto discutibile. Esso si fonda, in primo luogo, su una lettura forzata e inedita delle norme costituzionali, riferita soprattutto all’art. 32, secondo comma, della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” (sovente trascurando come il primo comma del medesimo articolo dichiari che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”).

Simile norma, anche alla luce della sua elaborazione in Assemblea Costituente, tutela l’individuo rispetto alla pretesa proveniente da qualsiasi potere – lo Stato, il datore di lavoro, lo sperimentatore, una società assicurativa, un team sportivo, etc. – di porre in essere interventi che incidano sulla gestione della sua salute, posto che tale gestione deve rimanere di competenza esclusiva del rapporto terapeutico tra quel soggetto e il suo medico.

Su questa via, il secondo comma dell’articolo richiamato non ha inteso in alcun modo mutare – nulla, nel testo, indica un intento di questo tipo – i principi che regolano il rapporto terapeutico, né legittimare, in particolar modo, un rapporto col medico che non sia orientato alla salvaguardia della salute o al lenimento della sofferenza. Purtuttavia, se ne è voluto dedurre

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non soltanto il carattere non coercibile, nei confronti di un soggetto cosciente e capace, dell’attivazione di un trattamento sanitario, bensì, come già osservavamo, l’idoneità di un’espressione del volere a giustificare qualsiasi condotta astensiva o interruttiva nella pratica medica (perfino di condotte necessarie alla salvaguardia della vita, ma non aventi natura terapeutica). In pratica, si è delineato un diritto di c.d. autodeterminazione terapeutica, che diverrebbe diritto (incondizionato) di morire e di stabilire una relazione col medico conforme a un simile intento, con l’unico limite, assai fragile, dell’inammissibilità della somministrazione, da parte del medico, di sostanze che producano in modo diretto la morte.

Tutto questo sulla base, inoltre, del non accettabile punto di vista ai sensi del quale la giurisprudenza potrebbe applicare direttamente le norme costituzionali, anche quando non abbiano un contenuto precettivo esplicito o non comportino un’interpretazione univoca: intervenendo, dunque, senza attendere che specifiche problematiche siano affrontate, entro l’ambito dei principi costituzionali, dal legislatore (salvo il giudizio della Corte costituzionale sul rispetto di quei principi in sede legislativa) e ignorando le norme di diritto positivo in contrasto con la lettura che si sia data della Costituzione: problematica, questa, tra le più delicate circa i rapporti tra i poteri dello Stato.

Ciò considerato, si tratta di chiedersi se l’indirizzo in esame – che esclude ogni rilievo di criteriologie condivise circa i limiti dell’intervento medico, riportando qualsiasi decisione in materia all’espressione del volere, fino a legittimare relazioni sanitarie non più inquadrabili in un ambito di tutela della salute – rappresenti davvero, nonostante il richiamo alla valorizzazione dell’autonomia individuale, un ampliamento complessivo delle chance di realizzazione sostanziale dei diritti fondamentali e della dignità umana.

In altre parole, si tratta di chiedersi se vi siano ragioni, come accade in altri settori del diritto, per ritenere che gestire l’attività medica su un piano meramente contrattuale (o addirittura attraverso dichiarazioni vincolanti unilaterali, assai poco compatibili con il concetto di alleanza terapeutica) comporti effetti opposti a quelli che il rimando alla promozione di una maggiore libertà potrebbe far ritenere.

Simili controeffetti, a ben vedere, risultano assai rilevanti e vanno al di là dello stesso dato di fondo, evidenziato nella prima parte di questo contributo, secondo cui ammettere relazioni sanitarie che implichino la morte, senza alcun riguardo per le caratteristiche dell’atto medico in tal modo escluso, significa inficiare l’obbligo del mutuo riconoscimento tra gli

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esseri umani nella loro esistenza, sul quale si fonda il principio di uguaglianza.

L’indirizzo suddetto, in primo luogo, orienta a un atteggiamento di difesa del malato nei confronti della professione medica, presentata come potenzialmente nemica (in palese antinomia, anche in questo caso, con la prospettiva dell’alleanza terapeutica) e tale da poter essere contrastata, nella sua presunta vocazione ad agire oltre misura, facendo valere il c.d. diritto di morire. Laddove, invece, l’effettiva esigenza dei pazienti, una volta chiarito che vanno escluse terapie sproporzionate, si sostanzia nel soddisfacimento dell’opposto diritto a non essere abbandonati dalla medicina. La sofferenza, infatti, è di norma legata al mancato contrasto dei decorsi patologici e, ove tale contrasto non sia più possibile, alla mancata attivazione dei necessari interventi palliativi: vale a dire, in sintesi, alla cessazione dell’impegno medico.

Viene dunque in considerazione un approccio che, enfatizzando il “diritto” di morire e proponendolo come affermazione della propria personalità dinnanzi al “potere” della scienza medica, spinge verso l’utilizzazione del medesimo, favorendo spontanee uscite di scena dei pazienti che rappresenterebbero un costo economico per la collettività.

Ciò che nessuno potrebbe ammettere, vale a dire l’obiettivo di una riduzione delle spese necessarie per l’assistenza sanitaria dei malati non recuperabili a una vita produttiva, può in tal modo essere ottenuto per via indiretta, attraverso un determinato clima culturale.

Tanto più se si considera che, ammesso il “diritto” del malato a morire, l’essere curati in situazioni di precarietà esistenziale non costituirebbe più la normalità, ma diverrebbe l’oggetto di una scelta: con l’inevitabile insinuarsi della sensazione che la società si attenda, in certe condizioni, un passo indietro; e con un trend correlato di colpevolizzazione strisciante verso i pazienti e le rispettive famiglie che continuino a domandare impegno terapeutico. Tra il diritto di morire e una sorta di dovere morale alla sua utilizzazione lo spazio è assai ristretto.

Nel medesimo tempo, spostato il fulcro dell’interesse biogiuridico, in rapporto all’attività terapeutica, dal diritto di essere curati (ex art. 32, primo comma, della Costituzione) al diritto di non essere curati, cioè dall’esigenza che la relazione medica assicuri la salvaguardia (proporzionata) della salute all’ottica di un mero adempimento da parte del medico delle richieste provenienti dal malato, si produce un impulso inevitabile verso la medicina difensiva: cioè verso una situazione nella quale sempre più il medico potrebbe avere forti resistenze a proporre, o a sostenere dinnanzi al malato bisognoso di sostegno psicologico, una terapia sicuramente necessaria per

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 55

tutelarne la vita o la salute, ma non esente da una certa possibilità di indurre eventi avversi18.

Il medico sa, infatti, che non è facile accertare, sul piano giuridico, il nesso causale che riconduca la morte (anticipata) di un paziente in condizioni gravi a un pur indebito astensionismo terapeutico. E, nell’ottica della medicina meramente contrattualistica, è facile che avverta assai più consistente, rispetto al rischio di dover rispondere della “perdita” di un malato, il rischio d’essere chiamato a responsabilità – ove attivi la terapia di cui sopra e, a maggior ragione, ove l’evento avverso davvero si verifichi – per una non esaustiva prestazione del consenso. Rischio, quest’ultimo, favorito dal fatto che un’analiticità assoluta del consenso è impraticabile e altresì controproducente rispetto alle esigenze di comprensione del malato, come pure dal fatto che talora l’accettazione psicologica della malattia da parte del medesimo, fermo il dovere di non mentire, richiede una qualche gradualità informativa.

Ne deriva, tra l’altro, la tendenza ben nota alla formalizzazione dei moduli di consenso informato, intesi sotto questo profilo assai più quali polizze liberatorie per il medico da responsabilità per accadimenti avversi anche estremamente improbabili (con effetti terroristici nella rappresentazione di molti malati), che quali strumenti di un’effettiva alleanza terapeutica.

Ciò, del resto, rimanda ai rischi complessivi derivanti dalla formalizzazione dei rapporti sanitari, non potendosi ignorare l’incidenza della circostanza per cui è ben difficile negli stati acuti di malattia considerare ogni espressione esteriore del volere, anche quando non sia riscontrabile una patologia psichica, come rappresentazione tout court della soggettività del suo autore: non è un caso, come già ricordavamo, che la psicologia clinica raccomandi una lettura non superficiale dei bisogni espressi anche attraverso dichiarazioni di rinuncia alle terapie, assai raramente riscontrabili in un contesto di attenzione al lenimento del dolore e alla vicinanza umana. Né si può dimenticare quanto sia facile operare dichiarazioni rinunciatarie in contesti psicologicamente inattuali rispetto al sussistere di una data patologia. O come ben difficilmente un paziente rifiuterebbe la firma del testamento biologico che gli fosse proposto dalla struttura sanitaria cui abbia affidato le speranze di salvezza della sua vita, sebbene il medesimo possa assumere, di fatto, i contorni di                                                             

18 Cfr. sull’intera problematica G. FORTI, M. CATTINO, F. D’ALESSANDRO, C. MAZZUCATO, G. VARRASO (a cura di), Il problema della medicina difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, Edizioni ETS, Pisa, 2010.

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un’autorizzazione a escludere ulteriori investimenti di risorse nel caso in cui l’esito delle terapie pattuite non risultasse ottimale.

La massima attribuzione formale di libertà, inoltre, rischia di relegare il malato in una solitudine angosciante: il malato e i suoi congiunti domandano il più delle volte di essere aiutati a decidere, cioè di potersi riferire a una riflessione morale condivisa, e non di assumere il carico di opzioni rilevanti per la vita e per la morte senza alcuna compartecipazione della comunità.

Stanti simili problemi, ne trae conferma il convincimento che il non abbandono del principio di indisponibilità della vita in ambito medico, tale da non ammettere un rapporto sanitario orientato alla morte, mantenga tutto il suo spessore di presidio, e non di limite, rispetto alla salvaguardia della dignità umana19.

4.3. L’atteggiamento nei confronti dei soggetti in stato vegetativo permanente.

Quanto si è detto offre criteriologie adeguate, crediamo, per affrontare

anche i problemi inerenti al comportamento da adottarsi nel caso in cui un individuo si trovi in un c.d. stato vegetativo permanente.

L’interrogativo più dibattuto a tal proposito, come ben si sa, è se nel protrarsi di tale stato possano essere interrotte l’idratazione e l’alimentazione, quasi sempre attuate mediante un intervento medico. Il che esige di considerare la peculiarità, rispetto agli atti terapeutici, del tipo d’intervento in discussione, sebbene, per l’appunto, esso di regola venga posto in essere – ma non necessariamente – attraverso il coinvolgimento di personale sanitario.

I soggetti in stato vegetativo permanente sono esseri umani viventi, ma non sono comunicativi. Tuttavia, sulla loro condizione psichica, assai diversa da quella (antecedente) del coma, e in particolare sulla possibilità di escludere livelli più o meno profondi di consapevolezza a monte dei loro movimenti, della mimica del loro volto, del ritmo sonno-veglia, dei loro sorrisi, non esistono certezze. Il confine con gli stati di «minima coscienza» va approfondito, anche alla luce delle sorprendenti rilevazioni circa la risposta cerebrale agli stimoli, in alcuni pazienti giudicati vegetativi, attraverso la risonanza magnetica funzionale. Le speranze di ripresa dopo anni di stabilità restano minime, ma non possono essere escluse in assoluto. Di certo, c’è ancora molto studio da compiere.

                                                            19 Valga in proposito il rimando alla seconda parte dell’art. 32, 2° co., Cost.

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 57

I soggetti summenzionati, dunque, vivono una condizione di estrema povertà esistenziale (potremmo definirla di handicap particolarmente grave), ma la vivono senza l’ausilio di strumenti intesi a contrastare, stabilizzandolo, il loro stato patologico o a lenire condizioni di sofferenza, vale a dire di strumenti qualificabili come terapeutici. Hanno tuttavia bisogno, per non morire, che siano loro assicurate le condizioni generalmente indispensabili alla vita di ciascun essere umano.

Ciò manifesta la particolare delicatezza del dibattito circa la possibilità di interrompere l’idratazione e l’alimentazione, vale a dire circa la loro disponibilità: posto che ove s’intendesse far sì che abbia termine in breve tempo senza interventi attivi la vicenda esistenziale di un soggetto, per esempio, non più autosufficiente o affetto da una patologia degenerativa in fase avanzata, ma non terminale né sostenuto da terapie salvavita, l’unica via sarebbe data dalla non ulteriore garanzia, nei suoi confronti, dei presidi necessari, in generale, alla sopravvivenza.

L’idratazione e l’alimentazione costituiscono fattori di cui ogni persona, anche sana, necessita per vivere. Non sono condotte in grado di opporsi a uno stato patologico e, conseguentemente, non surrogano una funzione dell’organismo compromessa dalla malattia. Dunque, non sono atti terapeutici. In tal senso, fanno parte delle cure che devono restare assicurate anche al malato in fase terminale, pure nel momento in cui ogni terapia sia stata interrotta. Lo stesso ricovero in hospice di un malato terminale non autorizza certamente l’interruzione dell’alimentazione e, soprattutto, dell’idratazione (fatta salva esclusivamente la loro inidoneità, di cui poco oltre diremo). Né, tantomeno, il carattere terminale delle condizioni di un paziente potrebbe essere legittimamente indotto proprio dall’interruzione di tali prestazioni.

Del resto, i pazienti dei quali discutiamo potrebbero essere idratati e alimentati, quando non risultasse compromesso il riflesso della deglutizione, anche per via ordinaria: il che viene evitato per impedire più facili complicanze connesse alla somministrazione orale, come pure al fine di rendere più agevole la procedura e più facilmente controllabili i dosaggi.

Simili problematiche, peraltro, non risultano approfondite nella sentenza n. 21748/2007 della Cassazione civile (sez. I) sul caso Englaro, che si limita a evidenziare un’ovvietà: “Non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati (…) implicanti procedure tecnologiche”.

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A parte l’ultima affermazione, in sé riferibile a qualsiasi prodotto dell’industria agro-alimentare (e senza dubbio, per esempio, all’allattamento artificiale), il fatto è, tuttavia, che non tutto quanto venga posto in essere da un medico assume per ciò solo carattere diagnostico o terapeutico. E da ciò deriva, secondo il parere approvato in materia a maggioranza, nel 2005, dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che “l’idratazione e la nutrizione di pazienti in stato vegetativo permanente vanno ordinariamente considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base”.

Tutto questo evidenzia come l’interruzione di tali apporti non costituisca la rinuncia ad atti sproporzionati di carattere terapeutico. Di conseguenza, essa non può essere oggetto, nel quadro del diritto vigente che abbiamo cercato di ricostruire, né di un’iniziativa delle persone che abbiano in cura il malato in stato vegetativo permanente, né di una richiesta formulabile per il futuro attraverso dichiarazioni anticipate: la condotta di cui si discute comporterebbe, infatti, il prodursi di una relazionalità per la morte, attraverso la causazione della medesima in forma omissiva.

Le conclusioni sarebbero in ogni caso le medesime anche ove si negasse la natura non terapeutica dell’idratazione e dell’alimentazione così come ordinariamente vengono attuate nei confronti dei pazienti in stato vegetativo. Il mantenimento di simili presidi, infatti, non produce sofferenze né menomazioni, ma solo la conservazione della vita: per cui – lo evidenzia anche la sentenza che abbiamo citato – idratazione e alimentazione non potrebbero definirsi, comunque, atti sproporzionati. Lo diverrebbero, semmai, solo allorquando non fossero più efficaci nel fornire i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali dell’organismo, il che ovviamente esigerebbe l’interruzione.

Perfino ove si asserisse, d’altra parte, che l’idratazione e l’alimentazione attuate con sondino nasogastrico possano essere interrotte in quanto atti medici, non ne deriverebbe, per sé, il venir meno, in capo ai soggetti titolari di una posizione di garanzia, del dovere di assicurare l’idratazione e l’alimentazione con modalità diverse da quelle sanitarie.

Sulla base di questi rilievi, si deve riconoscere che quanto viene in gioco nel momento in cui si richieda o si decida di interrompere l’idratazione e l’alimentazione in rapporto ai contesti in esame non è un giudizio sulla congruità dell’intervento sanitario in atto, ma un giudizio, di terzi o del paziente stesso, immediatamente riferito alla condizione esistenziale dello stato vegetativo permanente.

E che la questione di fondo sia proprio questa è evidenziato dalla stessa pronuncia in sede di rinvio della Corte di Appello di Milano (depositata il 9 luglio 2008) sul medesimo caso di Eluana Englaro, laddove reputa che la

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Cassazione richieda, prima ancora di giudicare se l’interessata avrebbe o meno accettato il trattamento di idratazione e alimentazione con sondino naso-gastrico, “di valutare piuttosto se, in ragione delle sue concezioni di vita e in ispecie di dignità della vita, avrebbe comunque accettato o meno di sopravvivere in una condizione di totale menomazione fisio-psichica e senza più la possibilità di recuperare le sue funzioni percettive e cognitive” (ma perfino in tale ottica resterebbe il fatto che le espressioni dalle quali si è voluta ricostruire, in modo presuntivo, la volontà di Eluana Englaro ben difficilmente potrebbero venir riferite alla specifica eventualità di essere lasciata morire di sete e di fame).

In breve, ammettere secondo le sentenze citate che una ritenuta espressione antecedente del volere relativa all’ipotesi del sopravvenire di pur gravi menomazioni sia in grado di legittimare, quando possa essere provata, atti volti a rimuovere condizioni in sé necessarie anche alla sopravvivenza di un individuo sano significa consentire l’instaurazione di un rapporto giuridico funzionale al prodursi della morte e, di fatto, la cooperazione a un intento soggettivo (tra l’altro inattuale) di rinuncia alla vita, dati certi presupposti.

Esito, quest’ultimo, il quale appare una forzatura dell’assetto giuridico derivante dalle norme in vigore. Con riflessi tanto più problematici nel caso in cui quanto s’è voluto sostenere in rapporto alla situazione di forte impatto psicologico costituita dallo stato vegetativo permanente venisse fatto valere pure con riguardo a qualsiasi richiesta, se solo non provenga da un soggetto incapace, che sia volta a compromettere uno stato di salvaguardia in atto della salute, sebbene simile salvaguardia risulti realizzata, come tale, attraverso strumenti terapeutici non sproporzionati.

Esito a fortiori improponibile, inoltre, ove l’apertura alla possibilità di privare dei sostentamenti vitali chi si trovi nello stato vegetativo fosse immediatamente ricollegata alle menomazioni psichiche proprie di quello stato. Ciò infatti inciderebbe, come già si segnalava, sul principio cardine della teorica moderna relativa ai diritti umani, secondo cui deve rimanere irrilevante, ai fini della loro titolarità, qualsiasi giudizio circa le capacità o le qualità manifestate da un essere umano nel corso della sua esistenza. Col rischio di conseguenze dello stesso tipo in rapporto a cerebrolesi o malati psichici gravi, nonché in genere rispetto a tutte le realtà esistenziali di cui si volesse asserire un livello inaccettabile d’imperfezione.

Da ultimo, va considerato come taluni punti di vista circa le problematiche concernenti i pazienti in stato vegetativo possano esser stati condizionati dall’impressione che l’impegno profuso nei loro confronti sia da ritenersi vano.

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Ribadito che fino a quando un individuo risulti in vita simile impegno si fonda sulla sua stessa dignità, va peraltro posto in evidenza, a tal proposito, come proprio la disponibilità a piegarsi, senza attesa di risultati dal punto di vista utilitaristico, sulle realtà umane più deprivate rappresenta, laicamente, il segnale più credibile del carattere solidaristico di una società, che ne costituisce la forza.

Lo stato vegetativo permanente impone in ogni caso di riflettere con particolare cura, al di là delle questioni fin qui considerate, sulla proporzionatezza dell’intervento sanitario quando un individuo si trovi in quella condizione.

Le attività terapeutiche riferite a tale individuo, infatti, dovranno comunque rispondere, per essere dovute, a criteri di proporzionalità, in forza dei quali, si afferma, forme d’intervento particolarmente impegnative e tuttavia proporzionate in altri contesti potrebbero essere ritenute incongrue, cioè suscettibili di ingenerare un accanimento terapeutico, nella situazione di cui discutiamo.

Anche a tal proposito, tuttavia, non risulta dirimente la mera considerazione dello stato di menomazione e del tipo di malattia del soggetto in stato vegetativo, come se implicassero in quanto tali un minor diritto alla tutela: si tratterà, piuttosto, di valutare pur sempre il beneficio che potrebbe esistenzialmente derivare al malato, nella sua condizione, da un certo atto terapeutico, in rapporto all’onere oggettivo dell’intervento sulla sua persona.

Ciò conferma il ruolo cardine che oggi assume – per un ordinamento il quale, evitando la configurabilità di relazioni finalizzate alla morte di un dato individuo, intenda preservare la natura solidaristica dei rapporti sociali – l’impegno inteso a riconoscere nel carattere di proporzionatezza un criterio condivisibile, com’è proprio dei contesti democratici, di configurazione corretta dell’attività medica. In modo da non eludere i problemi attraverso mere formalizzazioni, dense di controeffetti sfavorevoli, delle prassi comportamentali.

5. Le conseguenze circa i modelli di prevenzione dei reati e il sistema sanzionatorio penale.

L’insopprimibile rilevanza della realtà esistenziale (e dunque del

destino) di ogni individuo nella communitas humana, desumibile dal riconoscimento incondizionato dei diritti inviolabili dell’uomo, trova un riflesso di particolare rilievo nell’art. 27, 3° comma, della Costituzione, secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al

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senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: norma inconsueta nelle carte fondamentali, posto che attraverso di essa la Costituzione italiana non si limita a dettare, per la materia penale, principi garantistici inerenti all’esercizio della potestà punitiva quale che sia il modello della risposta ai reati, ma – esplicitando il fine rieducativo – entra nel merito del contenuto che debba assegnarsi alle pene e, in tal modo, prende posizione circa la strategia di prevenzione dei reati conforme al rispetto della dignità umana.

Il criterio fissato da quel comma, infatti, non si sostanzia nel mero limite costituito dalla preclusione – tuttora nient’affatto scontata nel panorama internazionale – di “trattamenti contrari al senso di umanità” (per esempio, la tortura), bensì impone che le pene, dovendo “tendere alla rieducazione del condannato”, siano costruite in modo idoneo a perseguire la reintegrazione sociale di quest’ultimo (ben al di là, dunque, del loro configurarsi non a priori incompatibili con simile obiettivo).

Avevano visto giusto, pertanto, i penalisti Giuseppe Bettiol e Giovanni Leone quando durante i lavori dell’Assemblea Costituente percepirono come la formula appena richiamata, proposta in sede di (sotto)commissione preparatoria da Aldo Moro, rappresentasse un vero e proprio indirizzo politico-criminale. Ma la loro intuizione era connessa al timore – tale da condurli a proporre una formula alternativa respinta per un soffio in Assemblea (e votata anche da Moro) – derivante dalla supposta eventualità di un recepimento indiretto, attraverso il testo che fu poi approvato, del pensiero positivistico20: nei cui confronti, oggettivamente, il contenuto di quel testo resta del tutto indipendente.

Esso, invece, rappresenta un’opzione molto chiara tra due visioni ben diverse della strategia politico-criminale: quella che attende risultati preventivi da dinamiche di intimidazione e neutralizzazione, nell’ambito di un modello del rapporto tra Stato e individuo riconducibile al condizionamento psicologico o fisico; e quella che fa dipendere la prevenzione dalla capacità del sistema giuridico in genere, e degli stessi strumenti sanzionatori, di motivare i consociati – compresi gli individui che subiscano una pena – verso scelte libere di adesione (per convincimento) ai precetti normativi. In tal modo considerando ciascun individuo non come una cosa, un mero corpo o un mezzo, bensì secondo la sua dignità di

                                                            20 Cfr. G. VASSALLI, Le funzioni della pena nel pensiero di Aldo Moro, in AA.VV., Aldo

Moro e il problema della pena, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 57 s. L’emendamento Leone-Bettiol recitava: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino il processo di rieducazione morale del condannato».

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soggetto morale, e pertanto come un interlocutore capace di assumere decisioni autonome.

La Costituzione muove in quest’ultimo senso, richiedendo che le norme penali rappresentino pur sempre, attraverso il contenuto delle sanzioni (o delle altre modalità di definizione del processo), un appello a scelte libere di rispetto del diritto e, in particolare, di abbandono, quando un reato sia stato commesso, dello stile comportamentale antigiuridico: così da rendere nuovamente possibile una normale partecipazione di chi abbia trasgredito la legge alla vita civile.

D’altra parte, lo stesso primo comma dell’art. 27 Cost., affermando che «la responsabilità penale è personale», non si limita a istituire il principio di colpevolezza21 (in quanto la responsabilità propria degli esseri umani, cioè delle persone, esige, al di là della condotta offensiva, il sussistere di un rimprovero soggettivo), ma colloca l’intero sistema della responsabilità penale, anche con riguardo alle strategie sanzionatorie, nell’ambito di modalità relazionali tipiche dei rapporti tra persone, modalità come tali incompatibili con meri obiettivi di coazione psichica o di neutralizzazione.

La legge fondamentale, dunque, identifica il consenso (e non la forza) come cardine della prevenzione.

Ne costituisce presupposto la consapevolezza del fatto che una strategia preventiva fondata sul timore si rende inefficace non appena risulti possibile eludere i controlli e finisce per colpire con pene esemplari i soggetti più deboli; ma altresì la consapevolezza del fatto che politiche di espulsione sociale (o incapacitazione) dei singoli trasgressori, attraverso un largo utilizzo della detenzione di lunga durata, non impediscono il passaggio del testimone nello sfruttamento delle opportunità criminali a nuovi individui, così che, di regola, non sarà riscontrabile un’incidenza di tali politiche sui tassi di criminalità: laddove, invece, il recupero di una scelta per la legalità ad opera del condannato, con una presa di distanze dall’agire criminoso che trovi riscontro in gesti consequenziali (per esempio di carattere riparativo), appare idoneo, più di ogni altro accadimento, a rinsaldare l’autorevolezza della legge trasgredita, favorendo la disponibilità sociale a confermarne il rispetto per il futuro22.

Una dinamica, quest’ultima, la quale assume particolare rilievo nel contesto di provenienza dei trasgressori, poiché mette in discussione, al suo interno, non infrequenti atteggiamenti di accettazione o approvazione delle condotte illecite. Il che risulta tanto più significativo alla luce del riscontro                                                             

21 Si veda, in proposito, la ben nota sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale. 22 Cfr. p. es., di chi scrive, Ripensare le modalità della risposta ai reati, in Cassazione

penale, 2009, 12, p. 4938 ss.

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emergente nella ricerca criminologica secondo cui si tende ad adottare il comportamento stimato nel gruppo (vale a dire nella cerchia dei rapporti sociali, culturali, economici, ecc.) in cui ci si riconosce o si cerca riconoscimento23.

La finalità rieducativa fatta propria dalla Costituzione implica, inoltre, che non si tratti soltanto di orientare al recupero sociale le pene detentive (in tal modo posticipando alla fase esecutiva l’impegno affinché tale fine possa essere raggiunto), bensì prioritariamente di introdurre sanzioni non detentive, le quali abbiano in se stesse un contenuto di integrazione sociale, di responsabilizzazione e di riconciliazione. Il che orienta al superamento della centralità finora assunta dal ricorso alla detenzione e alla valorizzazione, in particolare, degli strumenti riparativi, di messa alla prova, di mediazione o di riabilitazione: così che la risposta al reato possa costituire sempre più, nel momento stesso in cui viene determinata, non un quantum di pena che il condannato debba subire perché ne risulti espressa la gravità del reato, ma un percorso significativo per l’autore di quest’ultimo (entro limiti garantistici della strategia preventiva, riferiti al fatto commesso), anche con riguardo al rapporto con la vittima e con la società.

L’indicazione proveniente dall’art. 27, terzo comma, Cost. va oltre, peraltro, il mero aspetto sanzionatorio. Evitando di far proprio il modello secondo cui la politica criminale si risolverebbe nel prevedere conseguenze a danno dell’autore di un reato (come tali indifferenti al suo futuro e conformi, piuttosto, alla logica di un suo allontanamento dalla compagine sociale), la Costituzione, infatti, orienta altresì al riconoscimento dei livelli innegabili di corresponsabilità diffusa circa i fattori che favoriscono le scelte criminose e, dunque, all’assunzione degli oneri necessari per affrontarli nell’ambito della prevenzione primaria: sia con riguardo alla dimensione educativo-culturale e politico-sociale, sia con riguardo, soprattutto, alle legislazioni di carattere non penalistico (relative, per esempio, ai servizi sociali, alla trasparenza bancaria e tributaria, all’efficienza delle pubbliche istituzioni), sovente eluse facendo riferimento proprio al sussistere dell’intervento penale e ineludibili, tuttavia, per una prevenzione efficace.

Può quindi affermarsi, in sintesi, che secondo le norme costituzionali l’inflizione di una pena – anche di quella detentiva (il cui ruolo dovrebbe comunque rispondere, ex art. 13 Cost., al criterio dell’extrema ratio) – non giustifica la considerazione del condannato come un soggetto dal quale ci si                                                             

23 Il riferimento è, in particolare, alla teoria delle c.d. associazioni differenziali, elaborata in origine da Edwin Sutherland: per un’ampia presentazione della medesima cfr. G. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Cortina, Milano, 2000, p. 510 ss.

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debba solo difendere, fino a poter agire per il suo male: in altre parole, non giustifica la sua considerazione come un nemico.

Se ne deduce, tra l’altro, che i criteri in base ai quali sono da definirsi i contenuti della pena risultano del tutto diversi da quelli tradizionalmente utilizzati per descrivere le modalità della legittima difesa, avendo riguardo quest’ultima, diversamente dalla pena, al contrasto diretto delle condotte offensive (cioè finalizzato a impedirne la realizzazione nel momento stesso in cui siano attivate).

In un simile quadro, pertanto, non c’è spazio per teorizzazioni del tipo di quelle che, nel panorama internazionale, hanno condotto alcuni penalisti a teorizzare, all’inizio del nuovo millennio, un c.d. diritto penale del nemico24. Sfuggono, del resto, gli argomenti razionali che dovrebbero smentire, dinnanzi all’autore ormai assicurato alla giustizia di un crimine pur grave, i principi desumibili dalla Costituzione in materia politico-criminale: quei principi di civiltà che, del resto, proprio le organizzazioni criminali eversive vorrebbero dimostrare come solo formali, al fine di delegittimare gli ordinamenti democratici.

La stessa ipotesi (concernente l’ambito processuale) della tortura finalizzata a ottenere notizie idonee a scongiurare ulteriori atti lesivi efferati annulla il principio cardine per il riconoscimento dei diritti umani secondo cui i fini perseguiti non possono mai giustificare mezzi incompatibili con il rispetto di quei diritti.

La negoziabilità di una lesione attuale dei diritti fondamentali con altre esigenze pur degne di considerazione rappresenta, in effetti, la fine del riconoscimento degli stessi come cardine della società democratica.

In una democrazia liberale non tutti i mezzi sono disponibili: ma questa è anche la forza della democrazia. Come si esprime Aharon Barak in una delle famose sentenze di orientamento garantistico da lui redatte quale presidente della Corte suprema israeliana, «non c’è sicurezza senza legge: lo Stato di diritto è un elemento della sicurezza nazionale»25.

                                                            24 Cfr. in proposito, anche per considerazioni critiche d’insieme, C. DE MAGLIE - S.

SEMINARA, Terrorismo internazionale e diritto penale, Cedam, Padova, 2007; M. DONINI - M. PAPA (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Giuffrè, Milano, 2007; A.GAMBERINI - R.ORLANDI (a cura di), Delitto politico e «diritto penale del nemico», Monduzzi, Bologna, 2007.

25 Cfr. A. BARAK, Diritti umani in tempi di terrorismo. Il punto di vista del giudice, in S. MOCCIA (a cura di), I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, ESI, Napoli, 2009, in part. p. 59. Si veda anche, sul tema, G. VASSALLI, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in S. MOCCIA, op. cit., p. 13 ss. (testo, questo, che rappresenta l’ultimo contributo scientifico del compianto Autore).

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 65

Mantenere interesse da parte dell’ordinamento giuridico per la revisione delle precedenti scelte criminose pure da parte di chi abbia commesso reati particolarmente gravi nell’ambito terroristico o in quello della criminalità organizzata, consentendogli di realizzare ancora finalità positive nella sua vita, non esclude, d’altra parte, sia la valutazione dell’eventuale persistere di un’elevata pericolosità del condannato quale presupposto per addivenire a un’eventuale diversificazione progressiva delle pene detentive di maggiore durata, sia forme di controllo intenso quando non risulti più in atto una restrizione completa della libertà.

Il fatto è, tuttavia, che quasi sempre la teorizzazione di un diritto penale del nemico con riguardo a fatti estremi nelle vicende internazionali si è tradotto in una prosaica erezione a nemici, nella prassi penalistica ordinaria, di individui svantaggiati socialmente che commettono, recidivando, reati comuni (spesso di limitata gravità, ma in grado di arrecare un disturbo immediatamente percepibile alla vita civile) o la cui etichettatura criminale viene a dipendere da rivisitazioni, per molti versi sorprendenti, del concetto di colpa d’autore26, identificativo di una responsabilità desunta più da caratteristiche personali, che dalla tenuta di condotte offensive27.

Si tratta di soggetti assai improbabili quali portatori di un attacco alla società suscettibile di destabilizzarne le strutture portanti di carattere istituzionale, economico o anche morale: eppure resi destinatari di provvedimenti normativi (per esempio in tema di recidiva, prescrizione del reato, misure alternative) che sempre più li escludono dall’orizzonte di un diritto penale volto al recupero sociale, sebbene ne appaiano i candidati più naturali.

L’apertura a compromessi nella considerazione della dignità umana si riflette, anche da questo punto di vista, a danno dei soggetti più facilmente discriminabili.

                                                            26 Cfr. ora, in proposito, la sentenza n. 249/2010 della Corte costituzionale, che ha

dichiarato incostituzionale l’aggravante di cui all’art. 61, comma 11-bis, c.p., introdotto dall’art. 1, primo comma, lett. f, 23 maggio 2008, n. 32, come convertito ex l. 24 luglio 2008, n. 125: aggravante riferita all’«aver il colpevole commesso il fatto mentre si trovava illegalmente nel territorio nazionale».

27 Su questi e altri riflessi nel diritto italiano v. p. es. M. DONINI, Lo «status» di terrorista: tra il nemico e il criminale. I diritti fondamentali e la giurisdizione penale come garanzia contro, o come giustificazione per, l’uso del diritto come arma, in S. MOCCIA, op. cit., in part. p. 98 ss.

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6. La tenuta «etica» delle affermazioni costituzionali inerenti alla dignità umana: sul pericoloso ossimoro di una «flessibilità» dei diritti inviolabili.

Il riconoscimento operato in sede costituzionale dei diritti inviolabili e

del principio di uguaglianza costituisce un’affermazione etica, vale a dire un’affermazione di principio non ulteriormente argomentata.

L’impianto costituzionale, dunque, presuppone la capacità della società pluralistica di darsi regole non riducibili a scelte determinate da interessi materiali, posto che agire conformemente a quelle regole può ben risultare, in specifici casi concreti, nient’affatto vantaggioso. In altre parole, implica ammettere che vi sia qualcosa (non già da decidere, bensì) da comprendere, cioè da riconoscere, non soltanto con riguardo alla scoperta delle regole che governano le realtà fisico-naturalistiche28, ma pure sul piano antropologico e, di conseguenza, su quello etico.

Ne deriva che l’apertura a contenuti etici è intesa, nell’ottica in esame, come esperienza umana originaria, tale da poter costituire terreno di condivisione e d’incontro: al contrario dell’opinione oggi diffusa secondo cui simili contenuti sarebbero descrivibili esclusivamente come esiti di scelte soggettive pregresse (filosofiche, politiche, religiose…) ovvero come mero riflesso delle diverse appartenenze culturali: così da risultare argomentabili solo all’interno dei contesti in tal modo definiti.

Emerge in questo senso, fin dall’epoca dell’Illuminismo in cui andò strutturandosi la nozione moderna di democrazia, il convincimento che possano darsi, onde disciplinare i rapporti intersoggettivi, punti di vista autonomi dall’interesse di parte, aventi riguardo esclusivo all’umanità propria di ciascun individuo e suscettibili di essere percepiti, nel loro imporsi, da qualsiasi soggetto.

Punti di vista, in altre parole, orientati a cogliere, pur con fatica, esigenze relazionali conformi in se stesse a giustizia (o, se si vuole, di natura oggettiva), il cui riconoscimento giuridico, in democrazia, resta nondimeno affidato, piuttosto che a poteri precostituiti, alla comunità sociale nel suo insieme, con ciò rendendosi manifesta la corresponsabilità di ogni suo membro in quanto soggetto morale.

Una prospettiva che ha dato luogo, come ben si sa, alla scommessa rappresentata dalle Carte dei diritti umani e dalla parallela enunciazione

                                                            28 Sotto questo profilo può in effetti sorprendere come nonostante la natura prettamente

cognitiva delle scienze, costituenti l’ambito dell’attività umana forse più valorizzato quale espressione del moderno, sussistano in questa fase storica così grandi difficoltà ad ammettere che qualcosa possa esservi da leggere pure con riguardo a ciò che realizza l’umano sul piano relazionale.

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 67

degli stessi (così che ogni altra norma giuridica dovrebbe costituirne un percorso realizzativo) nelle Costituzioni.

Non si tratta tuttavia, quanto a tali diritti29, di una presa d’atto acquisita una volta per tutte, purché anche un solo individuo – al modo delle scoperte scientifiche – ne abbia fornito argomentazioni convincenti. Il riconoscimento effettivo di quei diritti (o, in sintesi, della dignità umana), come pure il suo tradursi nelle singole leggi e nelle condotte quotidiane dipendono infatti dal sentire e dalla capacità di iniziativa di ciascun individuo30, nel succedersi delle generazioni.

Oggi emerge, peraltro, un rilevante mutamento di approccio ai diritti inalienabili e, in particolare, al rispetto della vita in quanto presupposto della loro espressione nonché dell’uguaglianza tra gli esseri umani.

Ritenuta, per vari decenni, l’insuperabilità di tale rispetto una sorta di nocciolo duro dell’ethos condiviso nella società pluralista (nocciolo sottratto a qualsiasi mediazione salvi i due limiti estremi della legittima difesa e dello stato di necessità, nei quali si configura un conflitto attuale e inevitabile tra i beni in gioco esigendosi pur sempre la proporzionatezza tra quanto viene tutelato e quanto viene compromesso), s’è fatta strada l’idea che quei diritti possano divenire oggetto di bilanciamento con altre esigenze, secondo una flessibilità suscettibile di essere gestita dal legislatore, ma sempre più affidata di fatto all’iniziativa giudiziaria.

Un mutamento, dunque, nel modo d’intendere la tutela della dignità umana – come Ernst-Wolfgang Böckenförde ha autorevolmente evidenziato con riguardo al sistema costituzionale tedesco – “da fondamento portante dell’ordinamento statuale [postbellico], che ne esprime l’identità, a una regola costituzionale che si pone sullo stesso piano di altre regole e che dev’essere interpretata nel mero orizzonte del diritto costituzionale, vale a dire, semplicemente, dal punto di vista del diritto positivo”31.

Proprio nel momento in cui maggiormente indiscussa risulta l’affermazione di principio dei diritti umani, essi sempre meno, in effetti, sembrano riconosciuti come inalienabili.

                                                            29 Essi rappresentano, tuttavia, il lato speculare dei doveri impliciti all’ammissione della

dignità umana. 30 Cfr. R. GUARDINI, Etica, trad. it. Morcelliana, Brescia, 2001, p. 20: «L’essere umano

porta in sé autentiche dimensioni essenziali ed è inserito in ordinamenti che derivano a loro volta da determinazioni essenziali, che però vivono nella sfera della libertà».

31 Così E.-W. BÖCKENFÖRDE, Die Würde des Menschen war untastbar. Zur Neukommentierung der Menschenwürdegarantie des Grundgesetzes, in ID., Recht, Staat, Freiheit, Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte, erweiterte Ausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 2006, p. 386 (l’Autore è stato giudice della Corte costituzionale tedesca dal 1983 al 1996).

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Su questa via, emerge in particolare la tendenza a costruire, dal punto di vista interpretativo, un modello soggettivamente orientato della dignità umana, quale diritto di ciascuno a far valere una visione personale del realizzarsi della propria dignità o, comunque, della propria esistenza, visione che si ritiene di poter inserire legittimamente in un giudizio di bilanciamento coi diritti di altri individui.

Dell’indirizzo in esame sono espressione le tesi, già considerate, disponibili a sospendere l’applicabilità degli stessi principi fondamentali inerenti al trattamento penale (sia nella fase del processo, sia con riguardo alla pena) in base a certe caratteristiche del reato commesso o del loro autore; ma anche talune legislazioni penali o amministrative degli ultimi anni che, in rapporto alla percezione soggettiva di insicurezza riscontrabile nel contesto sociale (le cui radici sono ampiamente autonome dai tassi oggettivi di criminalità), vanno progressivamente legittimando atteggiamenti di deresponsabilizzazione verso il destino di molti disturbanti deboli.

In un senso non diverso muovono del resto gli approcci teorici che hanno giustificato le sofferenze concretamente inflitte con atti di guerra c.d. preventiva32 attraverso il riferimento a incerti pericoli incombenti o a bisogni di rassicurazione della società dinnanzi alle manifestazioni più gravi del terrorismo.

Da questo punto di vista non può non osservarsi che l’elevazione a paradigma giuridico (quale polo di una ponderazione, spesso ad esito scontato, con diritti altrui) dell’autopercezione del proprio benessere o, comunque, del supposto benessere di un dato contesto sociale, appare per sé suscettibile di condurre, eliminando ogni argine giuridico sostanziale, a esiti dai quali pensavamo che la storia ci avesse immunizzato.

Un terreno paradigmatico circa il mutamento di approccio cui si assiste negli ultimi anni ai diritti fondamentali è peraltro costituito (già in parte lo si è constatato) dalla biogiuridica, quale disciplina che coinvolge direttamente la vita umana in quanto bene la cui salvaguardia costituisce il cardine, come osservavamo, del principio democratico di uguaglianza.

In tale ambito, e in particolare con riguardo al periodo antecedente la nascita dell’iter esistenziale, sono infatti reperibili le espressioni giuridiche più esplicite di una flessibilizzazione dell’approccio alla dignità di ciascuna vita umana33. Lo si può chiaramente riscontrare nella stessa sentenza

                                                            32 Cfr. C. BRESCIANI - L. EUSEBI (a cura di), Ha ancora senso parlare di guerra giusta? Le

recenti elaborazione della teologia morale, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2010, e ivi, di chi scrive, Visioni della giustizia e giustificazioni della guerra, p. 109 ss.

33 Cfr. sul punto E.-W. BÖCKENFÖRDE, op. cit., p. 384 ss.; v. altresì del medesimo Autore Menschenwürde als normatives Prinzip. Die Grundrechte in der bioethischen Debatte, in ID.,

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Il rapporto con l’ «altro» alla luce della Costituzione 69

n. 151/2009 della Corte costituzionale sulla legge n. 40/2004: prospettare, addirittura, l’utilizzabilità rispetto alla vita umana, con riguardo alla fase embrionale, della categoria di ascendenza amministrativa rappresentata dai diritti affievoliti34 risulta invero sorprendente e foriero di deduzioni (ben oltre l’ambito della vita prenatale) non valutate in modo adeguato.

In una prospettiva simile, sebbene nel quadro di un diverso “bilanciamento”, si era mossa del resto la sentenza della medesima Corte n. 27/1975 laddove – per superare il limite della proporzione tra danno e pericolo nello stato di necessità onde estendere l’ammissibilità legale dell’aborto – aveva sostenuto che non esisterebbe “equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”: con la prevedibile estensione successiva del concetto di salute, da parte della legge n. 194/1978, al profilo psichico, estensione la quale di fatto ha condotto a un uso di quel concetto in senso soggettivizzante (nonostante i dati sulle frequenti conseguenze psicologiche assai negative dell’aborto e sebbene il pericolo per la salute non possa affatto ritenersi escluso dall’ambito dell’accertamento medico)35.

Tutto ciò secondo affermazioni, in sede di “bilanciamento” tra i diritti, che vengono esse stesse a proporsi come assoluti non ulteriormente dimostrabili (quale sarebbe, sotto questo profilo, la ragione scientifico-razionale del discrimine secondo cui il feto dovrebbe ancora diventare persona?).

Non dissimili sul piano argomentativo appaiono le tendenze, già esaminate, volte a legittimare sulla base di un’espressione formale del

                                                                                                                              Recht, Staat, Freiheit, cit., p. 399, circa la piena sussistenza della dignità umana nell’embrione fin dall’atto fecondativo (quest’ultimo scritto, nella versione originaria del 2003, è stato recentemente tradotto in italiano: crf. E.-W. BÖCKENFÖRDE, Dignità umana e bioetica, Morcelliana, Brescia, 2010, p. 37 ss.).

34 Così che secondo tale sentenza la tutela dell’embrione non sarebbe «comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione»: sulla base dell’evidente sovrapporsi, nei motivi della pronuncia, tra l’ovvio rilievo secondo cui qualsiasi modalità procreativa implica il rischio della perdita di embrioni e la preclusione intenzionale a priori della possibilità di ulteriore sviluppo con riguardo a una parte (o alla maggioranza) degli embrioni generati in vitro. Com’è ben noto, infatti, la sentenza estende i limiti relativi al numero degli embrioni generabili, limiti che il testo originario della legge n. 40/2004 aveva istituito proprio per garantire che a nessuno fra questi ultimi, ove venuti ad esistenza e non inidonei all’ulteriore sviluppo, fosse di fatto negata la suddetta possibilità (oltre che per salvaguardare la salute della donna in rapporto all’entità della stimolazione ormonale necessaria al fine di indurre la maturazione di più ovociti).

35 Cfr. M. ZANCHETTI, in A. CRESPI - G. FORTI - G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 5a ed., Cedam, Padova, 2008, sub art. 5 l. 194/1978, I, p. 1572 ss.

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70 Luciano Eusebi

volere forme di altrui cooperazione attiva od omissiva alla propria morte (ferma la non ricomprensibilità in questa problematica dell’interruzione di terapie che davvero abbiano assunto carattere sproporzionato). Col passaggio ulteriore mediante il quale s’è prospettata una possibile ricostruzione puramente presuntiva della volontà cui s’intende far riferimento.

Le preoccupazioni riconducibili alla flessibilizzazione dei diritti inviolabili sono state talora eluse dislocandole sul piano degli esiti incerti ipotizzabili secondo la prospettiva del pendio scivoloso. Deve constatarsi, tuttavia, che negli stessi esiti già noti tale flessibilizzazione comporta, come s’è visto, ambiti assai estesi in cui si determina il sacrificio di beni fondamentali: ambiti la cui accettabilità giuridica è tutt’altro che autoevidente, ma finisce per derivare da valutazioni del tutto discrezionali.

Il fatto è che una volta resa flessibile la salvaguardia della dignità umana, che presuppone la salvaguardia della vita, tutte le motivazioni per cui si tuteli o non si tuteli un certo bene divengono ragioni deboli, e lo stesso principio di uguaglianza diventa un principio debole. Il che va sempre a danno di soggetti, a loro volta, deboli.

La caratteristica del diritto liberale moderno era stata quella di enucleare una serie di esigenze connesse alla dignità umana di ogni singolo individuo vivente (prima fra tutte la tutela della sua stessa esistenza) come non negoziabili rispetto ad altre esigenze, fondando sulle prime l’interpretazione dell’intero sistema normativo. Ritenere che le risposte alla particolare complessità di molte questioni odierne debba (tanto più) essere ricercata senza l’escamotage costituito da un ridimensionamento di principio del rango attribuito in sede costituzionale ai diritti inviolabili non rappresenta un pensiero retrodatato.

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SAVERIO GENTILE

Il diritto indegno: le leggi contro gli ebrei (1938-1945)*.

SOMMARIO. 1. Le leggi di Asoka. 2. L’Italia di Mussolini contro gli ebrei. 3. La definizione giuridica di ebreo e le interdizioni. 4. La R.S.I.: a mò di epilogo. 1. Le leggi di Asoka.

Se avessimo dovuto declinare il binomio “diritto e dignità” nella

prospettiva storico giuridica ci saremmo probabilmente soffermati, prima ancora che sulle grandi Dichiarazioni dei diritti1, sui non troppo noti “editti di Asòka2”, dal nome del terzo sovrano della dinastia Maurya, che regnò su buona parte dell’India nel III secolo avanti Cristo. I suoi editti, incisi su colonna e su roccia nei luoghi più vari del suo Regno sono, peraltro, tra le prime testimonianze di scrittura che l’India ci abbia trasmesso. Era accaduto che il sovrano, nell’ottavo anno del suo dominio, avesse condotto una guerra di conquista nel Kalinga, regione del golfo del Bengala3. Al re arrise la vittoria ma poi provò un forte rimorso e volle esprimere quello stato d’animo in parole incise nella roccia, perché tutti le leggessero e resistessero alle ingiurie del tempo. In un suo editto, il tredicesimo, Asòka scrive che a causa della guerra nel Kalinga:

“furono deportate centocinquantamila mila persone, centomila furono uccise e molte centinaia di migliaia perirono. Ora che il paese dei Kalinga è assoggettato, il re attende con fervore alla pratica della Pietà, all’insegnamento della Pietà. Tale è la penitenza del re caro agli Dei per aver sottomesso un intero popolo perché la conquista di un paese indipendente è sempre strage, morte, cattività di uomini; e ciò è fonte di pena e deplorazione per Asòka. Ma ancor più penoso per il re caro agli Dei è il pensare che quel paese è abitato da bramini e asceti e da seguaci di altre

                                                            * Le presenti pagine costituiscono le prime note di una molto più ampia ricerca in corso

sulle leggi razziali. 1 Cfr. ad esempio M. FIORAVANTI, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà

fondamentali, Torino, 1995. 2 G. PUGLIESE CARATELLI (a cura di), Gli editti di Asoka, Milano, 2003. 3 Quella del Kalinga era “una regione costiera sul golfo del Bengala, a sud del Magadha,

tra la foce della Mahanadi e quella della Godavari”, ivi, p. 68.

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72 Saverio Gentile

religioni e da laici, i quali praticano riverenza agli anziani, alla madre e al padre, obbedienza ai maestri, gentilezza, affetto e rispetto verso gli amici, i parenti, i compagni, i familiari, gli schiavi e i domestici; ed essi hanno tutti subito offesa, o uccisione o separazione dai loro cari; e quelli che non hanno perduto i loro affetti e i beni soffrono per la sventura, il danno, l’offesa che ha colpito amici, parenti, familiari. Che ciò ricada su tutti gli uomini è un pensiero tormentoso per il re caro agli Dei: non vi è luogo in cui non vi siano cultori di una religione o di un’altra. Ora, qualunque sia stato, e anche cento o mille volte minore, il numero degli abitanti del paese dei Kalinga uccisi o periti o deportati, persiste l’angoscia nel re caro agli dei; e se è stata fatta un’offesa, il re pensa che egli debba sopportarne il peso quanto è possibile4”.

Siffatto documento costituisce un unicum assoluto: nell’infinito e fastoso corteo dei potenti, occidentali e orientali, che scandiscono la storia, nessuno è stato capace di parole simili, confermate in altri editti5.

Questo nostro breve contributo, invece, lo svolgiamo “a contrario” cioè parlando, e questo lo rimarchiamo sin da subito, di quella che senza dubbio alcuno può, e deve, essere considerata la pagina di gran lunga più buia, vergognosa, infame6, si dica pure come si preferisce, non solo dell’intera storia giuridica del fascismo ma di tutta la storia giuridica italiana: le leggi razziali. Un momento importante non solo di storia giuridica, ma “tout court” di storia, su cui solo in tempi relativamente recenti si è accesa, da parte degli studiosi, la fiaccola dell’attenzione7.

2. L’Italia di Mussolini contro gli ebrei.

A far data dal settembre 1938, l’allora Regno d’Italia andò dotandosi di

un organico corpus di provvedimenti normativi: i provvedimenti antisemiti,                                                             

4 Ivi, pp. 66-67. 5 Tra quelli incisi su roccia e quelli su colonna, disseminati per l’India, gli editti sono oltre

trenta: nel quindicesimo leggiamo: “tutti gli uomini sono miei figli, e come per i miei figli desidero che a loro tocchi benessere e felicità in questo mondo e nell’altro, così desidero per tutti gli uomini. Ma voi non immaginate quale impegno esiga questo proposito; e se qualcuno se ne rende conto, la sua comprensione non è totale, ivi, p. 75.

6 Cfr. L. GARLATI e T. VETTOR, Il diritto di fronte all’infamia del diritto. A 70 anni dalle leggi razziali, Milano, 2009: si tratta della raccolta degli atti di un interessante convegno di studi tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca il 27 novembre 2008.

7 Pionieristica, ma ancora importante, l’opera di R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, 1961. Il 1988, in occasione dei cinquant’anni dalle leggi razziali, è stato l’anno che ha segnato una svolta negli studi e un rinnovato interesse. Oggi si è definitivamente accantonata la fase in cui “il 1938 era una sorta di metafisico vuoto”, così A. CAVAGLION, L’Italia della razza s’è desta, in Belfagor, anno LVII, n. 1, 31 gennaio 2002, p. 40.

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appunto, del biennio 1938-1939, più un’ultima legge del 1942. Queste norme costituiscono davvero la summa di una infinita sequela di censure, violazioni, cangiamenti e deroghe che il regime fascista operò sul già provato apparato normativo e statutario dello stato liberale quale si presentava a seguito dell’unificazione del 1861. Furono, quelle leggi, l’apice e l’acmè dell’eversione giuridica fascista, il punto di non ritorno e probabilmente, anche, il momento storico e giuridico in cui nella sua ventennale parabola il fascismo fu maggiormente vicino a realizzare, quantunque senza riuscirci, o senza riuscirci appieno8, uno stato totalitario, più che autoritario. Infatti, in quello che si è, acutamente, definito il tentativo di edificazione dello stato totalitario9, agognato epperò mai del tutto realizzato, il fascismo, con la svolta razziale, segnò un passaggio fondamentale.

Per quali ragioni Benito Mussolini, di gran lunga l’artefice e il massimo responsabile della svolta antisemita e della relativa normativa10, si risolse in tal senso?

Il dibattito storiografico è ancora aperto tanto da aver assunto i contorni della vexata quaestio. Appare certo, comunque, che il progressivo avvicinamento diplomatico e politico ad Hitler ed al nazismo fu un formidabile strumento di pressione sul dittatore italiano perché si adoperasse al fine di eliminare, o comunque limitare al massimo, quella che si presentava come una enorme discrasia ideologica: il nazismo appariva per così dire ontologicamente antisemita (ed è sufficiente leggere, anche distrattamente, il Mein Kampf11 per avvedersene) mentre l’avversione contro gli ebrei non era ascrivibile al proprium del fascismo12 (anzi, si pensi che un numero non proprio irrilevante di ebrei era fascista, che alcuni

                                                            8 Così, tra gli altri, L. PALADIN, il quale definisce la legislazione razziale come “ultimo

anello di una lunga catena di provvedimenti illiberali, che va dai decreti sulla stampa all’istituzione del tribunale speciale per la difesa dello Stato, dalla legge sulle associazioni alla revoca dei funzionari statali che violino l’obbligo di fedeltà, dal testo unico di pubblico sicurezza ai codci penale e di procedura penale”, L. PALADIN, Fascismo, in Enciclopedia del diritto, vol. XVI, Milano, 1967, p. 892 ora anche in Id., Saggi di storia costituzionale, Bologna, 2008, p. 44.

9 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965. 10 I preziosi studi di Michele Sarfatti hanno ben messo in luce il ruolo di assoluto

protagonista di Benito Mussolini nell’intera vicenda del razzismo fascista, cfr. almeno M. SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca della elaborazione delle leggi del 1938, Torino, 1994.

11 La mia battaglia, di A. HITLER, vera e propria “bibbia” della Germania nazista, come noto, ha proprio nel più feroce e mostruoso antisemitismo uno dei suoi più importanti “fili rossi”.

12 Qualche studio recente ha però retrodatato il razzismo mussoliniano di molti anni, almeno al 1932, se non prima, cfr. G. FABRE, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Milano, 2005.

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avevano partecipato alla marcia su Roma, che addirittura la più famosa amante di Mussolini, nonché autrice della prima biografia autorizzata, Dux, Margherita Sarfatti, era ebrea13). Così inteso e considerato, l’antisemitismo di Mussolini ci appare addirittura peggiore di quello di Hitler, che almeno alle sue farneticazioni e ai suoi deliri ci credeva sul serio. Per pagare un pegno all’alleato nazista e dunque per opportunismo politico venne schierata l’Italia nella battaglia antisemita14, non prima però di essere stata adeguatamente preparata.

Gli ebrei in Italia risultavano, come si evinse dall’apposito censimento dell’agosto 1938, poco meno di 45.000 persone: circa l’1 per mille dell’intera popolazione15. Erano perfettamente integrati col resto della popolazione, tanto da risultare difficile una loro individuazione: avevano partecipato attivamente alle guerre risorgimentali e si sentivano, ed erano considerati, a tutti gli effetti italiani. Nel nostro paese, a differenza di quanto avveniva in Germania, in Russia e nell’est Europa, non v’era una forte tradizione di antisemitismo16. Tracce di tale sentimento erano presenti presso gli ambienti più retrivi e conservatori della chiesa cattolica che negli ebrei, come noto, individuava il popolo deicida. Ma, se la presenza appariva statisticamente, e quantitativamente, esigua, in taluni settori diveniva numericamente importante. Ad esempio, nell’insegnamento universitario, in virtù di una tradizione di elevata scolarizzazione, la presenza ebraica raggiungeva quote del 7-8 per cento (molto significativa se comparata con l’1 per mille complessivo cui si accennava); e affermati, gli ebrei, erano anche nelle professioni liberali (avvocatura e medicina, e commercio). Questo cagionava un antisemitismo serpeggiante tra gli strati più umili della                                                             

13 Sulla situazione degli ebrei durante il ventennio mussoliniano cfr. M. SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, 2007..

14 In verità non mancavano varie altre ragioni: oltre l’alleanza coi nazisti, “ideologia della nuova civiltà con l’appendice delle vicende etiopiche e nuova politica decisamente filo-araba in funzione antinglese. Sono questi, secondo me, i motivi di fondo, che oltretutto mostrano l’estremo cinismo con cui tutta l’operazione venne condotta; si tratta forse di una spiegazione oltremodo semplice ed elementare, più valida però di tante altre più sofisticate ed elucubrate”, così R. DE FELICE, La legislazione razziale del fascismo, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Roma, 1990, p. 14.

15 Cfr. M. SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei, cit., pp. 131-182. 16 Intelligente e acconcia all’Italia fascista la seguente definizione di antisemitismo: “nei

paesi totalitari, dove la società civile non esiste, può svilupparsi solo un antisemitismo di Stato. L’antisemitismo di Stato è la prova che lo Stato si serve di idioti, reazionari e falliti, che sfrutta l’ignoranza dei superstiziosi e il rancore di chi ha fame. Al suo primo stadio un tale antisemitismo è discriminatorio: lo Stato permette agli ebrei di vivere solo in determinati luoghi e di svolgere determinate professioni, vieta loro di occupare posizioni di rilievo, di frequentare le università, di ottenere titoli accademici e via dicendo. Dopo di che passa allo sterminio”, V. GROSSMAN, Vita e destino, Milano, 2009, p. 462.

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popolazione che nell’ebreo identificavano per definizione il perfido e ricco profittatore. Inoltre, la normativa antiebraica fu odiosa, tra l’altro, perché tosto trasmutò in normativa per sicofanti: in leggi cioè che si prestavano sin troppo facilmente alle delazioni che piovvero, anonime, nei confronti ad esempio dei colleghi. Accadeva così che l’avvocato “ariano” si rivolgesse all’autorità anonimamente per denunciare il collega ebreo: intendiamo dire che queste leggi si risolsero in un formidabile strumento di promozione sociale per molti italiani. Quando si resero vacanti i posti, ad esempio, per l’insegnamento universitario ci fu una vera e propria corsa all’oro e nessuno, a parte un caso, si rifiutò di accaparrarsi le cattedre (e, sia detto per inciso, nelle cause intentate nel dopoguerra dai docenti ebrei per riottenere le cattedre di cui furono spogliati, i giudici diedero loro spesso torto riconoscendo la legittimità dei concorsi seguenti alla loro cacciata17). In questo è agevole leggere un antisemitismo di taglio borghese o piccolo borghese, che pure fu presente e che chiese, specie all’inizio della persecuzione, il numerus clausus nelle professioni, cioè una presenza proporzionata al reale peso demografico.

Tra il febbraio e l’agosto del 1938 si susseguirono una serie di “prese di posizione” di Mussolini18 e di importanti documenti ufficiali del regime e contestualmente si avviava una massiccia e vergognosa campagna stampa contro gli ebrei, col concorso dei principali quotidiani del tempo. Tra i documenti del razzismo fascista, preparatori delle leggi, non possiamo tacere il “manifesto degli scienziati razzisti”, del 14 luglio 1938, data tristissimamente nota: un delirante decalogo, scritto da Mussolini stesso, dal quale gli italiani appresero che: “1) le razze umane esistono; 2) esistono grandi razze e piccole razze; 3) il concetto di razza è concetto puramente biologico; 4) la popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana; 5) è una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici; 6) esiste ormai una pura razza italiana; 7) è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti; 8) è necessario fare una netta distinzione tra europei ed africani; 9) gli ebrei non appartengono alla razza italiana; 10) i caratteri fisici e psicologici degli italiani non devono essere alterati in nessun modo19”. Tra questi punti il più importante era in realtà il nono, quello inerente gli ebrei.

L’altro documento che segnaliamo è la Dichiarazione sulla razza (nota anche come Carta della razza, la terza carta del regime dopo quella della                                                             

17 L’atteggiamento della giurisprudenza nei confronti degli ebrei è stato di recente oggetto di studio. Cfr. G. SPECIALE, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino, 2007.

18 Cfr. M. SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei, cit., pp. 16-80. 19 Lo si legga in R. DE FELICE, op. cit., pp. 555-556.

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scuola e del lavoro) del 6 ottobre 193820 che citiamo per non meno di 3 ragioni: 1) testualmente disponeva che alle sue direttive “devono ispirarsi le leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli ministri”; 2) adottava un formidabile espediente retorico, identificando negli ebrei gli antifascisti, i disfattisti e in genere gli oppositori (e certo si ricorderanno le invettive contro quelle che erano definite “demoplutocraziegiudaicomassoniche”); 3) si coglieva un nesso tra Impero ed ebrei, abbracciante la dimensione coloniale e quella interna, ebrea appunto (si diceva che “il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale”). Proprio tale ultimo aspetto ci permette una utile precisazione: il razzismo giuridico in Italia nel 1938 era già presente nelle colonie, a partire dal r. d. l. 19 aprile 1937, n. 880 modificato con legge 29 giugno 1938 n. 1004, che puniva le relazioni di indole coniugale fra un cittadino italiano e un suddito coloniale con la reclusione da 1 a 5 anni (così detto madamato, da madama, indicante l’indigena che conviveva more uxorio con un italiano21). Era prassi che i militari e i funzionari italiani giunti in colonia convivessero con indigene22: ciò era così diffuso che si intervenne al duplice fine di evitare la piaga dei meticci, figli bastardi, non riconosciuti dagli italiani, che ingrossavano le fila dei banditi e per garantire all’Italia quel decoro e prestigio che il nuovo status di potenza imperiale imponeva: i dominatori bianchi non potevano mischiarsi con quelli che venivano definiti “bruti e negri”. Occorre poi aggiungere che tra le pagine del grande libro della storia giuridica non aveva mai cessato di spirare, nei confronti degli ebrei, il vento della discriminazione, frutto perverso di un “odio antico”23. La storia delle leggi restrittive a carico degli ebrei era principiata all’indomani dell’editto di Milano del 313, in precedenza punendo gli imperatores romani soltanto il proselitismo degli ebrei, per il resto indifferenti verso il giudaismo, reputata “religio licita24”. Se diciamo ciò è per porre in luce che i provvedimenti legislativi del fascismo contro gli ebrei non furono se non la riproposizione più o meno (in)consapevole di interdizioni25 ben note alla storia giuridica. E

                                                            20 Ivi, pp. 567-575. 21Sui contenuti razzisti della legislazione fascista coloniale cfr. A. DEL BOCA, Gli italiani

in Africa Orientale. La conquista dell’Impero, Bari-Roma, 1979. 22 Ne fornisce una bella testimonianza letteraria Ennio Flaiano nel suo unico, e noto,

romanzo Tempo di uccidere, pubblicato nel 1947. 23 C. MANNUCCI, L’odio antico: l’antisemitismo cristiano e le sue radici, Milano, 1996. 24 V. COLORNI, Gli ebrei nel sistema del diritto comune fino alla prima emancipazione,

Milano, 1956, p. 2. 25 Aveva riscosso fortuna un saggio di C. CATTANEO, Interdizioni israelitiche, scritto tra il

1835 e il 1836, con cui analizzavanosi gli effetti sociali ed economici negativi della interdizione della possidenza fondiaria agli ebrei.

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così, ad esempio, nel codice giustinianeo è possibile rinvenire il divieto di matrimonio misto previsto dal R. D. L. 1938 n. 1728; ma si pensi anche, in epoca di tardo diritto comune, anzi in una di quelle che Adriano Cavanna amava definire “ultime vittorie del diritto comune26”, alle costituzioni modenesi (1771) che proibivano agli ebrei di “tenere scuole per insegnare ai cristiani scienze o facoltà né tampoco di leggere, far conti, suonare e ballare o cose simili27”. Saranno solo le baionette dell’ Empereur, Napoleone I, a portare in Italia la breve primavera dell’emancipazione (1796-1814); caduta l’aquila imperiale fu però repentino il ritorno allo status quo ante 28. La definitiva equiparazione giuridica si ebbe, come ricorda il Fubini, nel 1860 e durò sino al 1938, allor quando, come bene si è detto, “il regime fascista percorse a ritroso in meno di 20 anni il cammino che i regimi liberali avevano compiuto nell’ottantennio precedente29”.

Le abbiamo a più riprese evocate queste famigerate leggi, tutte poste in essere con l’avallo di Vittorio Emanuele III che, in questa vicenda, ci ricorda molto un personaggio di La vita è sogno del quale Calderon de la Barca dice che di tutto dimentico, “di nulla si impicciava30”, ed è ora il caso di dirne qualcosa. Il campo fu preparato dai decreti del settembre 1938: il primo (n. 1381 del 1938) stabiliva l’espulsione degli ebrei stranieri dal regno entro 6 mesi31; due decreti, il n. 1531 e 153932, si facevano carico di disciplinare i profili organizzativi ed attuativi della politica antiebraica, costituendo una Direzione Generale per la demografia e la razza (più nota come la famigerata demorazza) con a capo un prefetto ed alle dirette dipendenze del ministero dell’Interno, dunque di Mussolini stesso. Proprio la demorazza era la centrale operativa ed il cervello dell’intera campagna                                                             

26 A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, 1982, pp. 253-295. 27 G. FUBINI, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, Torino, 1998, p. 71. 28 “La parentesi di piena libertà goduta sotto il governo francese è peraltro assai breve. Con

la caduta di Napoleone e la restaurazione degli antichi governi si ha ovunque, per gli ebrei, un ritorno alle interdizioni tradizionali”, V. COLORNI, Israeliti, in Novissimo Digesto Italiano, vol. IX, Torino, 1957, p. 210.

29 G. FUBINI, op. cit., p. 63. 30 P. C. DE LA BARCA, La vita è sogno, Milano, 2003, p. 223 (atto III, scena XIII): “que yo,

apartado este dia/en tan grande confusion/ haga el papel de Neròn/ que de nada se dolìa” (corsivo nostro).

31 Cfr. La Rassegna mensile di Israel, n. 1-2 gennaio-agosto 1988, p. 65 (il decreto recava le norme inerenti i Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri). Questo numero venne interamente dedicato alle leggi del 1938 ed è prezioso, tra l’altro, perché assai opportunamente riporta integralmente il testo dei provvedimenti normativi, diversamente di non agevolissimo reperimento. Ad esso faremo costante riferimento per le nostre brevi note.

32 Ivi, p. 68 e p. 69. Il primo intitolato Trasformazione dell’Ufficio centrale demografico in Direzione generale per la demografia e la razza e il secondo Istituzione presso il Ministero dell’Interno del Consiglio superiore per la demografia e la razza.

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antiebraica. Erano i solerti funzionari che la costituivano a elaborare le norme, approntare le circolari, risolvere i quesiti e sciogliere i dubbi che si presentavano. Gli ultimi 2 decreti erano il n. 1390 e il 1630, inerenti la scuola, poi confluiti nel r. d. l. n. 177933. Enorme fu l’importanza che da parte fascista si diede alla scuola: da un lato perché l’approssimarsi dell’anno scolastico, e accademico, imponeva una celere definizione del problema, dall’altro perché l’educazione e la cultura in genere erano considerati settori strategici. L’intervento fu durissimo: un vero e proprio repulisti. Venivano spazzati via d’un colpo tutti gli ebrei da qualsiasi impiego nelle scuole mentre a quanti stavano al di qua dei banchi, i discenti, fu vietato di frequentare scuole ove vi fossero studenti italiani (si riconobbe alle comunità israelitiche la possibilità di creare apposite scuole per bambini ebrei, ma solo scuole elementari e medie). Non ci si poteva iscrivere alle università ma si riconobbe a chi era già immatricolato di portare a compimento gli studi (apposite circolari stabilivano che gli studenti universitari ebrei sostenessero gli esami per ultimi e non indossassero la camicia nera, sì da essere facilmente individuati, mentre i diplomi di laurea riportavano la menzione della razza ebraica. Il comparto scuola era poi sistemato con una totale bonifica libraria per cui tutti i testi di autori ebrei vennero ritirati dal commercio, non solo, si prescrisse il divieto di citare autori, scienziati e personaggi storici ebrei.

3. La definizione giuridica di ebreo e le interdizioni.

La “magna charta” del razzismo giuridico fascista era però il citato r.d.l.

n.1728 del 17 novembre 193834, recante Provvedimenti per la difesa della razza italiana, sul quale è bene soffermarsi.

Innanzi tutto compariva una puntuale definizione di “appartenenza alla razza ebraica”: l’art. 8 rappresentava una norma straordinariamente rilevante in riferimento all’intero ordito giuridico razziale: in tanto la normativa antiebraica trovava applicazione, in quanto la situazione in cui versava un soggetto era sussumibile alla definizione legale prevista. La norma statuiva che “agli effetti di legge a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; b) è considerato di razza ebraica colui che è nato

                                                            33 Ivi, pp. 66-67, 70 e 77-79. R.D.L. 5 settembre 1938 n. 1390, Provvedimenti per la difesa

della razza nella scuola fascista, R.D.L. 23 settembre 1938 n. 1630, Istituzioni di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica, R.D.L. 15 novembre 1938 n. 1779, Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola fascista.

34 Ivi, p. 71-76. R.D.L. 17 novembre 1938 n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana.

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da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, o abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazione di ebraismo35”.

Questa è la più completa definizione giuridica che il fascismo sia stato in grado di formulare: la legge tenta di rispondere alla domanda “chi appartiene alla razza ebraica” e non “chi è di razza ariana” e infatti una pur sommaria definizione di “razza ariana” o “razza non ariana” non ci sarà mai, anche in considerazione delle più che evidente difficoltà implicate. Il legislatore preferiva indicare i criteri formali donde far dipendere “l’appartenenza alla razza ebraica” e compiva tale operazione combinando l’elemento biologico razziale (punto a), con quello religioso e con quello della nazionalità: ne emergeva un quadro a dir poco complesso. Gli articoli 1-6 sancivano la nullità per i matrimoni del cittadino italiano con persona appartenente ad altra razza e subordinavano il matrimonio del cittadino italiano con persona di nazionalità straniera al preventivo consenso del ministro dell’Interno. Un’altra norma di capitale importanza era quella dell’art. 14 disciplinante l’istituto della discriminazione: il legislatore non poteva dimenticare gli ebrei potenti ai suoi occhi vantare dei meriti, e così la norma in parola mitigava la discriminazione e limitava i divieti per gli ebrei, e i familiari, che fossero mutilati, feriti, invalidi, volontari di guerra o decorati al valore nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola e per i familiari dei caduti per la causa fascista; per gli iscritti al partito nazionale fascista dal 1919 al 1922, per i legionari fiumani e, più in generale, per quanti avessero eccezionali benemerenze verso il regime: era un modo dunque per salvare gli ebrei fascisti. Per quanto atteneva le interdizioni, gli ebrei non potevano: prestare servizio militare; esercitare l’ufficio di tutore o di curatore verso non ebrei; essere proprietari o gestori di immobili o terreni eccedenti una certa quota; essere iscritti al partito nazionale fascista; lavorare per pubbliche amministrazioni; lavorare per banche o assicurazioni. Da menzionare pure l’art. 26 il quale disponeva che “le questioni relative all’applicazione del presente decreto saranno risolte, caso per caso, dal Ministro per l’Interno, sentiti i Ministri eventualmente interessati, e previo parere di una Commissione da lui nominata36”.                                                             

35 Ivi, p. 72. 36 Ivi, p. 76. Il successivo e ultimo comma aggiungeva: “il provvedimento non è soggetto

ad alcun gravame, sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale”.

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Veniva pertanto stabilita la competenza esclusiva del Ministero dell’Interno, e dunque di Mussolini stesso, per tutto quanto ineriva le questioni relative all’applicazione del provvedimento.

Con r.d n. 129 del 1939 si costituiva apposito ente, l’Egeli (ente di gestione e liquidazione immobiliare), incaricato, con una minuziosissima disciplina, di incamerare i beni eccedenti le quote consentite37. La legge n. 1055 del 1939 imponeva agli ebrei che avessero mutato il loro cognome in altro non rivelante l’origine ebraica di riacquistare il cognome originario e permetteva invece ai non ebrei di cambiare il loro cognome se era diffuso tra gli appartenenti alla razza ebraica38. La legge n. 1054 del 1939 disciplinava le professioni: quelle di medico chirurgo, giornalista, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, commercialista, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, commercialista, notaio, geometra, perito agrario, perito industriale potevano svolgersi dai non discriminati soltanto verso altri ebrei, e dovevano figurare in appositi elenchi39. L’ultima legge, la n. 517 del 1942 eliminava la presenza ebraica da qualsiasi attività nel campo dello spettacolo40. Ma quella che appariva come una vera e propria mostruosità e nefandezza giuridica era in realtà la legge 13 luglio 1939 n. 1024: tale provvedimento, infatti, riconosceva al Ministero dell’Interno “la facoltà di dichiarare la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità degli atti dello stato civile41”.

In sostanza, un’apposita commissione, poi nota come “tribunale della razza”, guidata da un magistrato che sarebbe in seguito divenuto niente di meno che Ministro di Grazia e Giustizia nonché Presidente della Corte Costituzionale42, aveva il potere di dichiarare non ebreo…l’ebreo…con la così detta arianizzazione: se tutta la legislazione razziale era immorale e antigiuridica, questa legge lo fu certamente più di ogni altra perché si fondava sull’arbitrio più assoluto. E così questa statuizione riuscì nel                                                             

37 Ivi, pp. 85-103. R.D.L. 9 febbraio 1939 n. 126, Norme di attuazione ed integrazione delle disposizioni di cui all’art. 10 del R. D. L. 17 novembre 1938 n. 1728, relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica.

38 Ivi, pp. 126-127. Legge 13 luglio 1939 n. 1055, Disposizioni in materia testamentaria nonché sulla disciplina dei cognomi nei confronti degli appartenenti alla razza ebraica.

39 Ivi, pp. 118-125. Legge 29 giugno 1939 n. 1054, Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica.

40 Ivi, p. 135-136. Legge 19 aprile 1942 n. 517. Esclusione degli elementi ebrei dal campo dello spettacolo.

41 Ivi, p. 117. Legge 13 luglio 1939 n. 1024. Norme integrative del R. D. L. 17 novembre 1938 n. 1728 sulla difesa della razza italiana.

42 Gaetano Azzariti fu ministro nel Governo Badoglio fino al febbraio 1944 e, nel 1957, presidente della Corte costituzionale, cfr. N. TRANFAGLIA, Dallo Stato liberale al regime fascista. Problemi e ricerche, Milano, 1973, p. 211.

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capolavoro di essere il più orrendo frutto del grande albero dell’abiezione e della vergogna declinata in senso giuridico e fascista.

Lo stesso codice civile, il cui primo libro era entrato in vigore nel luglio del 1939, non ometteva significativi riferimenti alla razza, il più rilevante dei quali era rinvenibile proprio nell’ultimo capoverso, il terzo, della norma di apertura, l’art. 1, secondo cui “le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali”, dove quelle leggi speciali altro non erano se non la normativa persecutoria che abbiamo testè, anche se solo molto velocemente, analizzato43. 4. La R.S.I.: a mò di epilogo.

Fin qui le leggi. Ma il discorso sarebbe monco se non accennassimo

almeno a quello che possiamo ben definire l’aspetto dinamico della persecuzione, che, per quanto sia forse il più interessante aspetto è quello in assoluto meno studiato di una problematica, quella appunto delle leggi razziali, già di suo non troppo approfondita. Infatti, accanto alle leggi, limitanti fortemente le libertà e i diritti degli ebrei, si andarono con progressione sempre maggiore affiancando disposizioni di tipo amministrativo che accentuarono moltissimo la persecuzione: costituirono quelle che Jemolo definì “punture di spillo44” sul provato e martoriato corpo dell’ebreo: una sconcia e ininterrotta teoria di divieti, e di soprusi, di ogni genere. Fu così con divieti di natura amministrativa che venne vietato agli ebrei la fabbricazione, la detenzione e il porto di armi, il brevetto di pilota civile, le licenze di autoveicoli e quelle di affittacamere e pensioni, la possibilità di fare i portieri negli stabili, le guide turistiche, gli interpreti, i

                                                            43 Le altre disposizioni codicistiche presentanti venature razzistiche erano le seguenti: art.

91 (“I matrimoni tra persone appartenenti a razze diverse sono soggetti alle limitazioni poste dalle leggi speciali. Le leggi speciali determinano anche le condizioni che devono osservarsi per i matrimoni dei cittadini italiani con persone di nazionalità straniera”), art. 155, comma II (“Se uno dei coniugi è di razza non ariana, il tribunale dispone, salvo gravi motivi, che i figli considerati di razza ariana siano affidati al coniuge di razza ariana”), art. 292 (“L’adozione non è permessa tra cittadini di razza ariana e persone di razza diversa”), art. 342 (“Il genitore di razza non ariana, che abbia figli considerati di razza ariana, se passa a nuove nozze con persona di razza pure non ariana, perde la patria potestà sui figli stessi, e la tutela dei medesimi è affidata di preferenza ad uno degli avi di razza ariana”), art. 404 (“ L’affiliazione non può essere domandata da persona di razza non ariana, salvo che il minore appartenga pure a razza non ariana”); altre norme di rimando erano quelle degli articoli 355, 393, 424. Queste norme vennero spazzate via dall’art. 1 R.D.L. 20 gennaio 1944 n. 25 e dall’art. 3 D. Lgs. Lgt. 14 settembre 1944 n. 287.

44 A.C. JEMOLO, Anni di prova, Vicenza, 1969, p. 141.

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custodi, i traduttori, gli artisti, i piloti, e financo di possedere radio e allevare colombi viaggiatori45. Perfino di giocare a tennis con ariani gli venne vietato. Ci permettiamo a tal proposito di citare un documento, inedito, che abbiamo rinvenuto nel corso delle nostre ricerche: è utile perché fa capire come venivano elaborati tali divieti. Il 4 agosto 1941 il prefetto di Ferrara scrive al ministro dell’Interno: “una ricca famiglia ebraica di Ferrara è proprietaria di un campo da tennis che da qualche tempo viene giornalmente frequentato oltre che dagli israeliti da diversi ariani loro conoscenti. Si prega codesto ministero di esaminare l’opportunità di non consentire agli ebrei di possedere campi e palestre private o, almeno, di impedire che questi vengano utilizzati da persone che non siano congiunti del proprietario46”.

La risposta non tardava: 3 giorni dopo, da Roma, si faceva sapere che “si ravvisa opportuno che siano avvertiti i proprietari di campi di tennis ebrei di non ammettere a giocare sugli stessi persone ariane47”.

Col che avevano termine quelle partite e quelle occasioni di vita così straordinariamente descritte da Giorgio Bassani nel suo Giardino dei Finzi Contini48.

La persecuzione giuridica, come si vede, finì col togliere agli ebrei la possibilità stessa di vivere, vietando loro praticamente ogni attività. Agli ebrei italiani degli anni 1940-1941-1942 e 1943 non restava ormai che il solo diritto alla vita.

Negli anni straordinariamente tragici e cruenti della Repubblica Sociale Italiana, la Carta di Verona, del novembre 1943, manifesto del fascismo repubblichino collaborazionista col nazismo, nel suo settimo punto statuiva che “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica49”.

                                                            45 Cfr. Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le

attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, Rapporto Generale, Roma, 2001, pp. 74-77.

46 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza (1861-1981), Massime, b. 183, f. 4 Campi da tennis ebrei.

47 Ibidem. 48 É interessante notare la spiegazione del provvedimento fornita dall’enigmatica e

affascinante protagonista femminile del romanzo, Micol: “la colpa per me è di Barbicinti (..) Nessuno potrà mai cavarmi dalla testa che sia corso lui a lamentarsi in viale Cavour. Del resto bisogna capirlo, poveretto. Quando si è gelosi, si può diventare capaci di tutto”, G. BASSANI, Il giardino dei Finzi Contini, Milano, 1999, p. 190.

49 Il manifesto si può ad esempio leggere in V. GALIMI, A. MINERBI, L. PICCIOTTO, M. SARFATTI, Dalle leggi antiebraiche alla shoah. Sette anni di storia italiana 1938-1945, Milano, 2004, p. 191.

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Il fascismo repubblichino equiparava così gli ebrei ai nemici, consentendone l’arresto: i nazisti, occupata militarmente l’Italia centro-settentrionale, si sarebbero fatti carico di scatenare l’offensiva contro le vite stesse degli ebrei: e sarebbero stati, allora, massacri e violenze di ogni genere, deportazioni di massa, campi di sterminio, con il loro fumo grigio e denso50.

                                                            50 Cfr. L. PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia,

Milano, 2002.

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LAURETTA MAGANZANI

La dignità umana negli scritti dei giuristi romani

SOMMARIO. 1. Dichiarazioni di principio. 2. Lo schiavo è uomo. 3. La “dignitas” dello schiavo. 1. Dichiarazioni di principio.

Riflettere sull’esistenza del concetto di dignità umana nel mondo

romano, in particolare nella letteratura giurisprudenziale, può apparire a prima vista ingenuo. Infatti, nonostante le affermazioni di principio sull’unità del genere umano diffuse fin dalla riflessione filosofica più antica, la possibilità che all’uomo in quanto tale vengano riservati di diritto una posizione e un trattamento privilegiati, diversi da quelli tributati agli altri esseri viventi1, risulta ab origine esclusa dall’esistenza della schiavitù, istituto in virtù del quale l’essere umano viene giuridicamente declassato alla categoria di res2.

È vero che la tematizzazione della superiorità intrinseca dell’uomo, essere ragionevole, sull’animale dotato di forza bruta è stata sempre un tópos della riflessione filosofica greca (in particolare dello Stoicismo)3 e che tale tendenza si è acuita in ambiente romano a causa della concentrazione sugli aspetti etici della dottrina stoica a scapito di quelli propriamente logici4. In questa luce si comprendono, ad esempio, le affermazioni

                                                            1 Con dignità umana si indica in generale «una particolare posizione dell’essere umano nei

confronti degli altri esseri della natura e, conseguentemente, una particolare considerazione e trattamento che ad esso dovrebbero essere riservati»: F. VIOLA, s.v. Dignità umana, in Enciclopedia Filosofica III, Milano, 2006, p. 2863. Sulla genesi storica del concetto di dignità umana, da ultimo, U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, Bari, 2009.

2 Sulla difficoltà di identificare una nozione di dignità umana presso le società antiche, che non l’hanno formulata espressamente, J. GAUDEMET, Le Monde antique et les droits de l’Homme. Quelques observations, in Le monde antique et les droits de l’homme. Actes de la 50e session de la Société internationale Fernand de Visscher, Bruxelles, 16-19 septembre 1996, Bruxelles, 1998, pp. 175-183.

3 Sul tema, ampiamente, P.P. ONIDA. Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino, 2002, pp. 21-158.

4 Sul tema, ampiamente, H.C. BALDRY, L’unità del genere umano nel pensiero greco, Bologna, 1983, passim.

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senecane sulla libertà spirituale di tutti gli esseri umani nonostante l’asservimento fisico talora imposto dalla schiavitù5, nonché le lapidarie asserzioni dei giuristi romani sull’esistenza di una naturalis cognatio fra gli uomini nonostante le norme civilistiche sulla schiavitù, ineluttabile ma funesta conseguenza della civilizzazione6.

Ma bisogna sempre ricordare che tali dichiarazioni di principio non ebbero mai una reale incidenza nella prassi7. Gli stessi atti di clemenza nei confronti degli schiavi, consigliati dagli esponenti dello Stoicismo (Cicerone, Seneca) o prescritti da norme imperiali (es. il divieto di maltrattamenti etc.8), hanno spesso il sapore paternalistico di regole ispirate

                                                            5 Sen. De ben. 3.20.1: … errat qui existimat servitutem in totum hominem descendere;

pars melior eius excepta est; corpora obnoxia sunt et adscripta dominis, mens autem sui iuris, quae adeo libera et vaga est. Trad. Sbaglia chi pensa che la condizione servile penetri tutto l’essere umano; la parte migliore ne è esentata; i corpi sono dipendenti e sottoposti ai padroni, ma la mente è sui iuris, tanto è libera e errabonda.

6 I.1.2.2: Ius autem gentium omni humano generi commune est. Nam usu exigente et humanis necessitatibus gentes humanae quaedam sibi constituerunt: bella etenim orta sunt et captivitates secutae et servitutes, quae sunt iuri naturali contrariae (iure enim naturali ab initio omnes homines liberi nascebantur). Trad. Al contrario il diritto delle genti è comune a tutto il genere umano. Infatti, per esigenze pratiche ed umane necessità, i popoli si sono creati degli istituti comuni: così sono nate le guerre e, di conseguenza, la prigionia e la schiavitù, che sono contrarie al diritto naturale. Infatti all’inizio, per diritto naturale, tutti gli uomini nascevano liberi; I.1.3.2: Servitus autem est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur. Trad. La schiavitù, invece, è un istituto di ius gentium in forza del quale, contro natura, una persona viene sottoposta al dominio di un’altra; D.50.17.32 Ulp. 43 ad Sab.: Quod attinet ad ius civile, servi pro nullis habentur: non tamen et iure naturali, quia, quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt. Trad. Per ciò che attiene al diritto civile, gli schiavi sono considerati pari a zero; ma non così per il diritto naturale, perché, per ciò che attiene al diritto naturale, tutti gli uomini sono uguali. Sull’influenza dello Stoicismo sulla giurisprudenza romana, PH. MITSIS, Natural Law and Natural Right in Post-Aristotelian Philosophy. The Stoics and their Critics, in ANRW II.36.7, Berlin-New York, 1994, pp. 4812-4850; P.A. VANDER WAERDT, Philosophical Influence on Roman Jurisprudence? The Case of Stoicism and Natural Law, in ANRW II.36.7, Berlin-New York, 1994, pp. 4851-4900. In particolare sulla sensibilità di Gaio verso gli schiavi paragonata, da questo punto di vista, a quella manifestata da Seneca, da ultimo, R. QUADRATO, Gaio cristiano?, in Studi per Giovanni Nicosia VI, Milano, 2007, pp. 325-361.

7 Sulla pratica dell’organizzazione schiavistica quale appare dalle fonti antiche, G. RIZZELLI, Lo schiavo romano: immaginario sociale e diritto, in BIDR 40-41 (1998-99), pp. 227-251.

8 Fra i molti esempi, cfr. D.1.12.1.8 Ulp. Lib.sing. de off. praef. urb.; D.37.14.7pr. Mod. De manumiss. lib. sing.; Gai 1.53; I.1.8.2; Coll. 3.3.1-6. Sulla legislazione del primo principato in tema di schiavitù e sull’influenza dei principi stoici, C.E. MANNING, Stoicism and Slavery in the Roman Empire, ANRW II.36.3, Berlin New York, 1989, pp. 1518-1543.Sull’humanitas e il favor libertatis, principi ispiratori di molti provvedimenti imperiali, da ultimi, N. DE PASCALI, «Ratione humanitatis». Significati e implicazioni di un concetto nella legislazione di Marco Aurelio, in Ostraka. Rivista di Antichità 17 (2008), pp. 35-68; H. ANKUM, Der Ausdruck favor libertatis in den Konstitutionen der römischen Kaiser, in Sklaverei und Freilassung im

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a buoni sentimenti ma di fatto incapaci di allentare le differenze sociali. È del resto noto che, anche in piena età cristiana, la schiavitù rimase sempre un istituto così connaturato alla mentalità comune, da essere addirittura citato dai padri della chiesa e dallo stesso San Paolo come status di dipendenza giuridica pienamente legittimo, cui si derogava solo sul piano religioso come conseguenza della libertà spirituale di ogni fedele nei confronti dell’unico Dio, solo vero Dominus di tutti i viventi (es. Paul., Cor. 1.7.22; 1.12.13; Gal. 3.28). Ciò spiega la raccomandazione paolina rivolta agli schiavi, di una docile sottomissione verso i rispettivi domini carnales (es. Paul., Col. 3.22; Tit. 2.9) e la radicale condanna, come ribelle o bestemmiatore, del servus disconoscente il potere del padrone (es. Paul., Tim. I, 6, 1-4)9.

Ma, nonostante tali premesse, la legittimità di una riflessione sul tema non mi pare da escludere a priori: essa può anzi risultare fruttuosa nella misura in cui non si limiti alle dichiarazioni di principio, ma tenda a verificare, sul piano della prassi e della vita quotidiana, la concreta incidenza degli ideali di eguaglianza e libertà naturali affermati in teoria da filosofi e giuristi. E, ai fini di tale verifica, non dubito che i testi giurisprudenziali possano costituire un osservatorio privilegiato: infatti, forse meglio di ogni altra fonte, i casi ivi discussi possono consentire di valutare se ed in quale misura gli ideali di unità del genere umano lentamente maturatisi nella riflessione filosofica abbiano avuto una minima ripercussione nella realtà concreta.

Illuminanti a questo fine possono essere, in primo luogo, alcuni testi del Digesto in cui il giurista fonda la sua argomentazione sul dato dell’eguaglianza naturale, fisica e psicologica, degli esseri umani, e da ciò fa dipendere la soluzione del caso: questo, infatti, è già un primo passo verso l’affermazione di una dignità comune a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla loro condizione giuridica e sociale (II A). Vi sono poi testi in cui elemento fondante la decisione è l’«umanità» dello schiavo che, come ogni altro uomo, merita rispetto o compassione quando la disgrazia, il dolore o la malattia toccano lui o i suoi affetti (II B). Vi sono, infine, testi in cui il giurista parla espressamente di “dignitas servi” e su

                                                                                                                              römischen Recht, Symposium für Hans Josef Wieling zum 70. Geburstag, Berlin Heidelberg, 2006, pp. 1-18; ID., L’expression favor libertatis dans les travaux des juristes classiques romains, in Liber amicorum Juan Miquel, Barcelona, 2006, pp. 45-78, ora in H. ANKUM, Extravagantes. Scritti sparsi sul diritto romano, Napoli, 2007, pp. 457-490.

9 Altre fonti in B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, II. La giustizia – Le persone, Milano, 1952, pp. 373 ss.

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questo fonda la decisione, il che evidentemente impone una riflessione sulla portata del termine dignitas in questo contesto (III).

Alcuni di questi esempi verranno presentati nelle pagine che seguono come prima attestazione del concetto di dignitas hominis nella letteratura giurisprudenziale romana.

2. Lo schiavo è uomo.

A. Non mancano, nella compilazione giustinianea, passi nei quali gli

schiavi sono assimilati agli animali come meri strumenti di lavoro o come semplici corpora animati, utilizzabili dal dominus a proprio arbitrio in totale spregio della loro comune “umanità”10: è, ad esempio, il corpo dello schiavo che viene dato a nossa alla persona dell’offeso quando abbia commesso un delitto (es. D.9.4.1 pr.) ed è questo stesso corpus che l’emptor può trattenere presso di sé prima della redhibitio per vizi, quando il venditor non gli rimborsi le spese sostenute per lui fino a quel momento. È una prospettiva per altri versi riscontrabile già in Platone ed Aristotele, laddove lo schiavo viene descritto come uno strumento animato, subordinato al dominus per natura a causa della sua intrinseca condizione di inferiorità11.

Tuttavia, come sin dalla riflessione filosofica più antica è diffusa la tendenza a considerare gli esseri umani nei loro aspetti comuni, fisici e psicologici, nonostante le loro gerarchie di ordine giuridico e sociale, così, nella letteratura giurisprudenziale, non è raro che la soluzione giuridica del caso sia fatta dipendere dall’osservazione concreta dell’unitarietà del genere umano, indipendentemente dalla condizione giuridica dei suoi membri12.

                                                            10 Ad es. D.6.1.1.1 Ulp. 16 ad ed.; 7.9.5.3 Ulp. 79 ad ed.; 21.1.38.7 Ulp. 2 ad ed aed. cur.;

21.1.48.6 Pomp. 23 ad Sab.; 33.7.12.2 Ulp. 20 ad Sab. Lo schiavo è definito come mero corpus, ad es., in D.1.8.1.1 Gai II inst.; D.16.3.1.5 Ulp. 30 ad ed.; 21.1.1.7 Ulp. 1 ad ed aed. cur.; 21.1.32 Gai 2 ad ed aed. cur.

11 J. GALLEGO, Doûlos katà nómon y idea de hombre en la Grecia clásica, in Fear for Slaves – Fear of Enslavement in the Ancient Mediterranean. Peur de l’Esclave – Peur de l’esclavage en Mediterranee Ancienne (Discours, représentations, pratiques), XXIX colloque du Girea, Rethymnon, 4-7 novembre 2004, ed. A. Serghidou, Franche-Comté, 2007, pp. 75-88; H.C. BALDRY, L’unità del genere umano cit., pp. 112-115, pp. 125-131.

12 Non bisogna dimenticare che già in età arcaica vi era una comunanza fra liberi e schiavi dal lato religioso: ad es., anche gli schiavi partecipavano ad atti di culto pubblico e privato e una norma pontificale stabiliva che fosse religiosus il locus di sepoltura di servi di cives romani: sul tema C. CASTELLO, Lo schiavo tra persone e cose nell’arcaico diritto romano, in Studi in onore di A. Biscardi, I, Milano, 1981, pp. 93-116 ora in Scritti scelti di diritto romano. Servi filii nuptiae, Genova, 2002, pp. 3-26.

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È il caso di un famoso testo dei digesta di Alfeno Varo, ove si afferma che, per alcuni gravi delitti come l’omicidio o il furto, lo schiavo che abbia agito per ordine del dominus, non è per questo dispensato dalla giusta punizione. Ciò infatti rimanda alla capacità di discernimento fra bene e male tipica dell’uomo, indipendentemente dal suo status giuridico:

D.44.7.20 Alf. 2 dig.: Servus non in omnibus rebus sine poena domino

dicto audiens esse solet, sicuti si dominus hominem uccidere aut furtum alicui facere servum iussisset. Trad. Non sempre lo schiavo che abbia eseguito un ordine del dominus resta (per questo) impunito, per esempio se il dominus abbia ordinato allo schiavo di uccidere un uomo o di commettere un furto.

Egualmente significativo è un passo della tarda giurisprudenza ove

Marciano, richiamando una disputa risalente al II secolo d.C. sull’interpretazione di un legato di schiave ricamatrici, accoglie la tesi di chi include fra queste anche le semplici apprendiste «visto che tutte possono ancora imparare e ogni tecnica è suscettibile di miglioramento». La soluzione è per il giurista «più congrua all’umana natura» perché la capacità di apprendere e di affinare senza posa le proprie capacità è una caratteristica ed un pregio comune a tutti gli esseri umani:

D.32.65.3 Marcian. 7 inst.: Ornatricibus legatis Celsus scripsit eas, quae

duos tantum menses apud magistrum fuerunt, legato non cedere, alii et has cedere, ne necesse sit nullam cedere, cum omnes adhuc discere possint et omne artificium incrementum recipit: quod magis optinere debet, quia humanae naturae congruum est. Trad. Essendo state legate delle ricamatrici, Celso ha scritto che non rientrano nel legato quelle che sono state presso il maestro per soli due mesi; altri, invece, che anche quelle rientrano, e questo per evitare che nessuna di loro sia dovuta visto che tutte possono ancora imparare e ogni tecnica è suscettibile di miglioramento: il che è più corretto in quanto congruo all’umana natura.

Ma anche molti difetti e manchevolezze sono comuni all’intero genere

umano, come la corruttibilità dell’animo o la tendenza naturale all’imitazione dei cattivi costumi. Se ciò accade, non solo il pretore predispone un’apposita azione contro chi abbia attentato alla moralità del servus (D.11.2 de servo corrupto), ma gli edili curuli dispongono che il prezzo da restituire al comparatore per lo schiavo viziato e restituito, sia da ridurre in proporzione alla perdita di valore conseguente al suo scadimento

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morale. Si pensi ad uno schiavo divenuto giocatore, ubriacone o bighellone per imitazione dei compagni di schiavitù o divenuto fugitivus a seguito delle continue sevizie subite dal padrone13:

D.21.1.25.6 Ulp. I ad ed. aed. cur.: Hoc autem, quod deterior factus est

servus, non solum ad corpus, sed etiam ad animi vitia referendum est, ut puta si imitatione conservorum apud emptorem talis factus est, aleator forte vel vinarius vel erro evasit. Trad. Il fatto di aver reso lo schiavo peggiore, si deve riferire non solo al corpo ma anche ai vizi dell’animo, come ad esempio se, quando si trovava presso il compratore, è divenuto peggiore per imitazione dei compagni di schiavitù, diventando giocatore, ubriacone o bighellone14.

D.21.1.23pr. Ulp. I ad ed. aed. cur.: Cum autem redhibitio fit, si deterius

mancipium sive animo sive corpore ab emptore factum est, praestabit emptor venditori, ut puta si stupratum sit aut saevitia emptoris fugitivum esse coeperit. Trad. Ma quando viene fatta la restituzione, se lo schiavo è stato reso peggiore nell’animo o nel corpo dal compratore, il compratore dovrà risponderne al venditore, ad esempio se sia stato stuprato o, per la crudeltà del compratore, sia divenuto fugitivus …

Fra i difetti comuni dell’animo umano vi è anche l’attaccamento

inveterato alle proprie abitudini che rende il servus refrattario ai cambiamenti e inadatto ai nuovi servizi. Ciò spiega perché lo schiavo novello, nonostante la scarsa esperienza, abbia un prezzo di mercato ben superiore al veterano15:

D.21.1.37 Ulp. I ad ed. aed. cur.: Praecipiunt aediles, ne veterator pro

novicio veneat. Et hoc edictum fallaciis venditorum occurrit: … ut ecce plerique solent mancipia, quae novicia non sunt, quasi novicia distrahere ad hoc, ut pluris vendant : praesumptum est enim ea mancipia, quae rudia sunt, simpliciora esse et ad ministeria aptiora et dociliora et ad omne ministerium habilia: trita vero mancipia et veterana difficile est reformare et ad suos                                                             

13 Sul concetto di servus fugitivus D.21.1.17 Ulp. I ad ed. aed. cur. 14 Fra i vizi dell’anima tipici degli schiavi, oltre all’irrefrenabile propensione alla fuga del

servus fugitivus, vi è la passione insana per i ludi e le tabulae pictae e la mendacità: D.21.2.65pr. Venul. V action.: Animi potius quam corporis vitium est, veluti si ludos adsidue velit spectare aut tabulas pictas studiose intueatur, sive etiam mendax aut similibus vitiis teneatur. Trad. È vizio dell’animo più che del corpo quello di chi voglia continuamente vedere giochi o con passione osservi dei quadri o sia bugiardo o affetto da simili vizi.

15 Sulla differenza fra servi novelli e veteratores vedi anche D.21.1.65.2 Venul. V action.

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mores formare. Trad. Gli edili vietano di vendere uno schiavo veterano per novizio. E questo editto difende (i compratori) dalle furbizie dei venditori … infatti molti sono abituati a vendere schiavi non novizi per novizi al fine di venderli a prezzo maggiore: si presume infatti che gli schiavi novelli siano più semplici, più adatti ai servizi, più docili e abili ad ogni lavoro: invece gli schiavi abituati e veterani è difficile rieducarli e formarli secondo le proprie abitudini.

Della comunanza naturale fra liberi e schiavi anche il pretore tiene

conto, attribuendo una diversa rilevanza giuridica all’attaccamento del dominus verso lo schiavo e verso qualsiasi altra cosa inanimata: per questo, all’erede tenuto per damnationem a dare al legatario un servus a cui è particolarmente affezionato, il pretore concede di liberarsi prestando l’equivalente in denaro, ma il beneficio non è esteso al legato di cosa inanimata: infatti « una è la condizione degli uomini, un’altra quella delle altre cose»16:

D.30.71.4 Ulp. 51 ad ed.: Cum alicui poculum legatum esset velletque

heres aestimationem prestare, quia iniquum esse aiebat id separari a se, non impetravit id a pretore: alia enim condicio est hominum, alia ceterarum rerum: in hominibus enim benigna ratione receptum est, quod supra probavimus. Trad. A uno era stata legata una coppa e l’erede voleva prestargli l’equivalente in denaro perché diceva che era ingiusto doversene separare. Ma non l’ottenne dal pretore: una infatti è la condizione degli uomini, un’altra quella di tutte le altre cose: per gli uomini, infatti, questa soluzione è stata benignamente accolta.

B Se, nei testi appena esaminati, l’umanità dello schiavo è elevata dai

giuristi a criterio di decisione del caso in una prospettiva meramente utilitaristica, cioè al solo fine di consentire al dominus di trarre dal suo bene il massimo profitto, fra gli scritti giurisprudenziali non mancano casi la cui soluzione si fonda su un’idea più elevata di solidarietà naturale fra gli uomini, indipendentemente dal loro status giuridico e sociale. Anche qui, tuttavia, la prospettiva adottata dai giuristi nella soluzione dei casi non è quella ideale propria della morale stoica17 che postula l’idea di un’unità dei

                                                            16 Per un altro esempio di rilevanza giuridica dei legami di affetto con uno schiavo, cfr.

D.20.1.6 Ulp. 73 ad ed. 17 L’unità del genere umano affermata dagli Stoici si fondava sull’idea della superiorità dei

saggi, alla cui cerchia poteva partecipare anche lo schiavo nella misura in cui riuscisse ad elevarsi spiritualmente sopra lo standard dell’uomo comune.

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saggi aperta a tutti gli esseri umani qualunque ne sia la posizione socio-giuridica, ma quella concreta della naturale e spontanea partecipazione dell’uomo ai sentimenti dei propri simili quando siano colpiti dal dolore, dalla disgrazia o dalla malattia.

Così, per Ulpiano, è per spirito di umana compassione che gli schiavi malati devono talvolta essere restituiti al venditore in compagnia dei loro cari, perché non rimangano soli proprio nel momento della prova:

D.21.1.35 Ulp. I ad ed. aed. cur.: Plerumque propter morbosa mancipia

etiam non morbosa redhibentur, si separari non possint sine magno incommodo vel ad pietatis rationem offensam. Quid enim, si filio retento parentes redhibere maluerint vel contra? Quod et in fratribus et in personas contubernio sibi coniunctas observari oportet. Trad. Spesso a causa di schiavi malati vengono restituiti anche schiavi non malati, come nel caso che essi non possano essere separati senza grave disagio o senza offesa ad un sentimento di pietà. Infatti come potremmo trattenere il figlio e restituire i genitori e viceversa? E lo stesso si deve osservare anche per i fratelli e per le persone unite in contubernio.

D’altra parte allo schiavo che si sia ferito volontariamente, non s’impone

di rimborsare il dominus col proprio peculio per il deprezzamento subíto. Infatti, benché il diritto civile qualifichi come malus il servus che abbia attentato alla propria vita (D.21.1.23.3 Ulp. I ad ed. aed. cur.), l’autodeterminazione dell’uomo sul proprio corpo è un principio inderogabile di diritto naturale:

D.15.1.9.7 Ulp. 29 ad ed.: Si ipse servus sese vulneravit, non debet hoc

damnum deducere, non magis quam si se occiderit vel praecipitaverit: licet enim etiam servis naturaliter in suum corpus saevire. Trad. Se lo schiavo si è ferito da solo, (il dominus) non deve dedurre (dal peculio l’ammontare di) questo danno, non più di quando lo schiavo si sia ucciso o si sia fatto precipitare: infatti per natura anche agli schiavi è lecito infierire sul proprio corpo.

Ed è sempre in ragione di tale principio superiore di solidarietà umana,

accolto talvolta dal pretore e dai giuristi come criterio di decisione dei casi, che l’iniuria grave viene punita anche se inferta ad uno schiavo (D.47.10.15.35 Ulp. 77 ad ed .)18, che l’omicidio viene colpito qualunque sia

                                                            18 Allo stesso modo sarà data l’actio iniuriarum per la schiava stuprata: D.47.10.25 Ulp. 15 ad ed.

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la condizione giuridica della vittima (D.48.8.1.2 Marcian. 14 Inst.), che il figlio della schiava data in usufrutto, a differenza del parto dell’animale, non spetta all’usufruttuario ma al nudo proprietario «perché è sembrato assurdo considerare frutto un essere umano visto che è proprio a vantaggio degli uomini che la natura assicura i suoi frutti» (I.2.1.37)19:

D.47.10.15.35 Ulp. 77 ad ed.: Si quis sic fecit iniuriam servo, ut domino

faceret, video dominum iniuriarum agere posse suo nomine: si vero non ad suggillationem domini id fecit, ipsi servo facta iniuria inulta a pretore delinqui non debuit, maxime si verberibus vel quaestione fieret: hanc enim et servum sentire palam est. Trad. Se qualcuno ha commesso iniuria a danno di uno schiavo al fine di recare offesa al suo dominus, vedo che il dominus può agire a proprio nome per l’ingiuria subita: ma se non l’ha fatto per insultare il dominus, non bisognava (comunque) che il pretore lasciasse impunita l’offesa recata allo schiavo, soprattutto se picchiato o accusato di un crimine: è infatti evidente che questo lo soffre anche lo schiavo.

D.48.8.1.2 Marcian. 14 Inst.: Et qui hominem occiderit, punitur non

habita differentia, cuius condicionis hominem interemit. Trad. E chi uccide un uomo è punito (con la lex Cornelia de sicariis et veneficis) senza tener conto della differenza di condizione dell’uomo che ha ucciso.

I.2.1.37: In pecudum fructu etiam pecus est, sicuti lac et pilus et lana:

itaque agni et haedi et vitali et equuli statim naturali iure dominii sunt fructuarii. Partus vero ancillare in fructu non est, itaque ad dominum proprietatis pertinet: absurdum enim videbatur hominem in fructu esse, cum omnes fructus rerum natura hominum gratia comparavit. Trad. Al pari del latte, del pelo e della lana, è considerato frutto dei pecudes anche la loro prole: dunque agnelli, capretti, vitelli e puledri sono immediatamente acquisiti in proprietà dall’usufruttuario per diritto naturale. Diversamente il parto della schiava non è considerato frutto e quindi appartiene al proprietario: infatti è sembrato assurdo considerare frutto un essere umano

                                                            19 Per altri casi cfr. T. HONORE, Ulpian: Pioneer of Human Rights, Oxford – New York,

2002, passim; ID., Les droits de l’homme chez Ulpien, in Le monde antique et les droits de l’homme. Actes de la 50e session de la Société internationale Fernand de Visscher, Bruxelles, 16-19 septembre 1996, Bruxelles, 1998, pp. 235-243; R. GAUDEMET, La douleur comme source de droits de l’homme à Rome?, in Le monde antique et les droits de l’homme cit., pp. 395-412; ID., L’interêt d’affection en droit romain classique (suite), in BIDR 39 (1997), pp. 193-204.

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visto che è proprio a vantaggio degli uomini che la natura assicura i suoi frutti20.

3. La “dignitas” dello schiavo.

Pochi termini della lingua latina sono così pregnanti e ricchi di

significato come dignitas, espressione che normalmente riassume in sé le prerogative e gli ideali di vita del civis romanus di rango elevato, indicando di volta in volta la posizione sociale, le cariche politiche, le funzioni pubbliche, la disponibilità economica, ma anche la moralità ed il contegno, pubblico e privato, richiesti ed attesi dal detentore di tale status21.

Ma nei testi del Digesto il termine dignitas è talvolta riferito alla persona dello schiavo, il che suscita qualche interrogativo sulla sua portata in tale contesto, e cioè se esso possa suggerire l’esistenza di una riflessione dei giuristi in ordine alla dignità dell’uomo in quanto tale secondo gli ideali di unità del genere umano propugnati dagli Stoici.

Così, ad esempio, in un passo di Ulpiano, il dovere dell’usufruttuario di nutrire e vestire gli schiavi in usufrutto viene graduato in base al loro rango e alla loro dignità e si considera abusare del proprio diritto l’usufruttuario che adibisca questi schiavi a mansioni inferiori alla loro condicio:

D.7.1.15.1-2 Ulp. 18 ad Sab.: Mancipiorum quoque usus fructus legato

non debet abuti, sed secundum condicionem eorum uti: nam si librarius rus mittat et qualum et calcem portare cogat, histrionem balniatorem faciat, vel de symphonia atriensem, vel de palestra stercorandis latrinis praeponat, abuti videbitur proprietate. Sufficienter autem alere et vestire debet secundum ordinem et dignitatem mancipiorum. Trad. Non si deve abusare nemmeno del legato di usufrutto di schiavi, ma (bisogna) servirsene secondo la loro condizione. Infatti se (l’usufruttuario) manda un copista in campagna e lo obbliga a portare canestri e calce, se fa di un attore un addetto ai bagni e di un suonatore un maggiordomo o prepone alla pulizia delle latrine uno schiavo addetto alla palestra, sarà considerato abusare del proprio diritto. Inoltre (l’usufruttario) deve nutrire e vestire adeguatamente gli schiavi secondo il loro rango e la loro dignità.

                                                            20 Cfr. D.30.84.10; D.7.1.68pr.; D.22.1.28.1. 21 Da ultimi sul tema M. DE FILIPPI, Dignitas tra repubblica e principato, Bari, 2009 e U.

VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., spec. pp. 12-18 con la cit. bibl. Importante il contributo di V. PÖSCHL, Der Begriff der Würde im antiken Rom und später, Heidelberg, 1989.

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Analogamente, per un testo delle Istituzioni giustinianee, la pena irrogata all’autore di un’iniuria varia in ragione della dignitas ed onestà della vittima, anche se si tratta di un soggetto di condizione servile:

I.4.4.7: Nam secundum gradum dignitatis vitaeque honestatem crescit

aut minuitur aestimatio iniuriae: qui gradus condemnationis et in servili persona non imperito servatur, ut aliud in servo actore, aliud in medii actus nomine, aliud in vilissimo vel compedito constituatur. Trad. La stima dell’iniuria cresce o cala a seconda del grado di dignitas e di onestà della vittima: e tale graduazione della condanna viene non senza ragione mantenuta anche nel caso di persone di condizione servile, in modo che il danno sia stimato in misura differente a seconda che si tratti di uno schiavo amministratore, di uno schiavo con mansioni ordinarie o di uno schiavo del tutto spregevole o in ceppi.

Ma dignitas è prima di tutto un concetto di relazione, che indica la

superiorità, in termini di riconoscimento sociale, di alcuni componenti di un gruppo sugli altri ed è in questo senso che il termine viene usato nei passi appena citati: non è dunque a scopo generale che i giuristi parlano qui di dignitas servi, ma al fine specifico di sottolineare con un’espressione pregnante che, anche all’interno dei gruppi socialmente inferiori, non mancano differenze di status fra i componenti in ragione, ad esempio, delle mansioni affidate dal dominus a qualcuno di essi e/o delle particolari capacità tecniche da questi acquisite. Lo stesso vale per i liberti, il cui rango varia a seconda della condizione sociale, delle possibilità economiche, del modus vivendi, delle personali abilità, parametri che forniscono anche il criterio per la determinazione delle operae dovute da ciascun liberto al rispettivo patronus:

D.38.1.50pr. Nerat. I resp. : Operarum editionem pendere ex

existimatione edentis: nam dignitati facultatibus consuetudini artificio eius convenientes edendus. Trad. La promessa delle opere dipende dalla valutazione del promittente: infatti devono essere promesse opere conghe alla dignità, alle possibilità economiche, alle abitudini, alle capacità tecniche del promittente.

É dunque evidente che gli esempi sin qui presentati non consentono di

postulare la formulazione di un principio generale di dignità umana da parte dei giuristi.

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Vi è tuttavia un famoso testo di Paolo che sembra a prima vista contraddire questo assunto. Si tratta di D.21.1.44pr., tratto dal II libro del commento ad edictum aedilium curulium, ove, in un caso di emptio-venditio di un gruppo di beni fra cui rientra anche uno schiavo (es. un carro con il suo guidatore, un gregge con il suo pastore, una taberna con il suo cuoco) si esclude che lo schiavo possa essere considerato con un mero accessorio dell’oggetto principale della compravendita (es. il carro, il gregge, la taverna) perché l’uomo –diceva Pedio – ha una dignitas comunque superiore a tutte le altre cose:

D.21.1.44pr. Paul. 2 ad ed. aed. cur.: Iustissime aediles noluerunt

hominem ei rei quae minoris esset accedere, ne qua fraus aut edicto aut iure civili fieret: ut ait Pedius, propter dignitatem hominum: alioquin eandem rationem fuisse et in ceteris rebus: ridiculum namque esse tunicae fundum accedere. Trad. Molto giustamente gli edili non hanno voluto che un uomo accedesse a una cosa di minor valore, per evitare frodi all’editto o al diritto civile: e questo – dice Pedio – per la dignità degli uomini: altrimenti lo stesso ragionamento varrebbe anche per le altre cose: infatti sarebbe (ad esempio) ridicolo che un fondo accedesse a una veste.

La citazione pediana è stata da taluni intesa come espressione della

morale stoica sulla condizione privilegiata del genere umano22, da altri come semplice riconoscimento del maggior valore economico dello schiavo rispetto alle altre res23. Ma, a mio parere, l’espressione evidenzia piuttosto il riconoscimento giurisprudenziale dell’oggettiva superiorità del servus sugli altri beni in proprietà del dominus (animali o cose inanimate) non tanto per il suo valore economico, quanto per le qualità innate, comuni a liberi e schiavi, che lo contraddistinguono in quanto uomo - razionalità, intelligenza, discernimento, volitività, progettualità, tensione verso il profitto etc. – e che lo elevano al di sopra di tutti gli altri esseri della natura. Anche in questo contesto, dunque, dignitas è un concetto di relazione, che

                                                            22 Ad es. A. WACKE, Die Menschenwürde von Sklaven im Spiegel des

Umgehungsgeschäfts nach Sextus Pedius. Si alii rei homo accedat und D. 21,1,44 pr., in Iurisprudentia universalis. Festschrift für Theo Mayer-Maly, herausg. von M.J. Schermaier, J.M. Rainer, L.C. Winkel, Köln-Weimar, 2002, pp. 811-836; C. GIACHI, Studi si Sesto Pedio. La tradizione, l’editto, Milano, 2005, pp. 101-105; R. ORTU, “Propter dignitatem hominum”. Nuove riflessioni su D. 21,1,44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.), in Tra Storia e diritto. Studi in onore di Luigi Berlinguer, II, Soveria Mannelli, 2008,469-475 (già pubblicato in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 3, 2004 http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Ortu-Propter-dignitatem-hominum.htm, con altra lett.

23 Ad. es. M. DE FILIPPI, Dignitas, cit., pp. 113-115 con altra lett.

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evidenzia l’oggettiva condizione di privilegio dell’uomo sugli altri beni in proprietà del dominus.

Ho voluto qui proporre, a mero titolo esemplificativo, un florilegio di testi, allo scopo preminente di smitizzare le riflessioni generali sulla dignità del genere umano - spesso sopravvalutate dalla dottrina - presenti in alcuni frammenti giustinianei. In realtà la mentalità dei giuristi rifugge dalle generalizzazioni per concentrarsi sui particolari del caso concreto, nei quali peraltro emerge non di rado una concezione dell’uomo come essere superiore degno di particolare considerazione, nonostante l’asservimento a cui, per i casi della vita, egli possa trovarsi momentaneamente sottoposto.

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CLAUDIA MAZZUCATO

Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale

a partire dalla restorative justice SOMMARIO. Premessa. 1. Giustizia riparativa e mediazione reo-vittima: un’immersione nella realtà del crimine. 1.1. Verità personali e dettagli struggenti: l’‘eccedenza’ del crimine. 1.2. “Il perdono si fa con le mani”: le vie misteriose della riparazione. 2. Dalla realtà del crimine alla politica criminale: domande di giustizia, democrazia ed etica pubblica. 3. (Segue). Per una politica criminale “decente”, anzi dignitosa. 4. Insegnamenti penalistici a partire dall’esperienza della restorative justice: verso una riconfigurazione delle teorie e degli scopi del diritto penale? 4.1. I precetti penali e il sentimento sociale della fiducia. 4.2. Il reato non è (solo) la violazione di una norma: il rilievo dell’offesa e l’afferrabilità dei beni protetti nelle pratiche di giustizia riparativa. 4.3. Rimprovero e offesa colpevole: la responsabilità personale nel dialogo reo-vittima. 4.4. L’impegno riparativo: una “rieducazione” che passa (anche) per l’art. 4 Cost. 5. Esperienze di ingiustizia, esperienze di giustizia.

Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti, sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lungi… Si devono avere ricordi di molte notti d’amore,… di grida di partorienti… Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e con i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la pazienza che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando diventano in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.

Rainer Maria Rilke I quaderni di Malte Laurids Brigge

Premessa.

Intendo qui dare voce alla mia esperienza – di ormai oltre un decennio –

con la mediazione reo-vittima e la giustizia riparativa in ambito penale. Lo studio e la pratica della restorative justice, la prossimità alle vittime, ai

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colpevoli e ai loro familiari, come pure – per altri versi – il confronto costante con i colleghi mediatori, le preziose discussioni con accademici, magistrati, avvocati e operatori sociali sono state occasioni uniche e arricchenti, seppure a tratti difficili o persino sofferte. Grazie a simili occasioni ho beneficiato di un apprendimento particolare, affascinante e intenso: un apprendimento reso vivido dagli incontri con volti, sguardi e gesti di tante diverse persone e temprato dall’impatto con la realtà che ha dischiuso storie talvolta crudeli e piene di miserie, talaltra ricche di meraviglia e compassione.

Le pagine che seguono vogliono essere il tentativo di condividere timidamente quelle ‘lezioni di vita’ le quali, lungi dall’essere state ‘solo’ umanamente significative, hanno finito per interrogare profondamente – e scuotere – ogni mia certezza sul diritto penale e sulla politica criminale, lasciandomi intravedere significati del tutto nuovi, prospettive inedite, compiti arditi. Si tratta di insegnamenti penalistici che mi hanno man mano svelato, come nient’altro prima di allora (neanche la frequentazione delle aule giudiziarie), quel misterioso oggetto – “immane” e “concreto”1, eppure insieme così sfuggente e rarefatto – che chiamiamo reato. Gli insegnamenti della mediazione hanno potuto farsi strada nel mio personale itinerario culturale grazie a una predisposizione per certi temi e prospettive, predisposizione di cui sono grandemente debitrice nei confronti di chi – fin dagli studi universitari – ha saputo nutrire, da una parte, una visione critica rigorosa e democraticamente esigente del diritto penale, non disgiunta dalla consapevolezza di quanto sia necessario e indifferibile un approccio multi-disciplinare ai problemi della giustizia2 e, dall’altra, l’impegno a vivere le professioni giuridiche prima di tutto come “vocazioni”3.

                                                            1 Prendo in prestito l’efficace titolo dell’opera criminologica di G. FORTI, L’immane

concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, Raffaello Cortina, 2000. 2 Il lettore troverà man mano, nelle note bibliografiche a questo scritto, i fondamentali

riferimenti scientifici che hanno disegnato lo sfondo culturale in cui sono maturate le presenti riflessioni. Non posso poi non riferire dei sapienti e infaticabili interrogativi del prof. Federico Stella, interrogativi che il lettore può ripercorrere negli scritti del maestro scomparso. Ricordo in particolare le opere più pertinenti ai temi di questo lavoro: F. STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, Giuffrè, 2003³; ID., La giustizia e le ingiustizie, Bologna, Il Mulino, 2006.

3 L’idea che anche le professioni giuridiche vadano intraprese e svolte come “vocazioni” è di L. LOMBARDI VALLAURI e viene sviluppata nelle pagine del Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 1981 (passim e pp. 196-198), per poi diventare oggetto di un importante Convegno fiorentino proprio dal titolo Le professioni giuridiche come vocazioni (Atti in Iustitia, 1990 e ivi in particolare L. LOMBARDI VALLAURI, Introduzione generale, p. 10 ss.). Secondo il filosofo del diritto, quella del giurista è una “vocazione umana integrale” nella quale sviluppare “il proprio essere personale” e operare “con tutto se stesso […] all’interno di

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1. Giustizia riparativa e mediazione reo-vittima: un’immersione nella realtà del crimine.

Non è un caso che, nelle società occidentali, la mediazione reo-vittima e

i programmi di restorative justice si siano sviluppati a cominciare dai Paesi anglosassoni (Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna). Per implementare una ‘filosofia’ riparativa in ambito penale occorre, invero, una consapevolezza empirica di cui non pare siano dotati in abbondanza i giuristi europei continentali – e italiani, in particolare – a differenza dei loro colleghi inglesi e americani i quali, per primi, hanno saputo raccogliere le istanze sociali che, dal basso, hanno lamentato l’eccessiva distanza tra le persone e i sistemi giudiziari tradizionali che dovrebbero proteggerle e hanno poi sollecitato l’avvento di nuovi interventi capaci di non trascurare che il reato coinvolge e riguarda esseri umani ‘veri’ e non gli uomini “disseccati” nei fascicoli di cui sembrano per lo più occuparsi i processi4.

Proprio uno dei più acuti critici del sistema penale italiano, Federico Stella, notava come nell’Europa continentale, più che nei paesi di common law, i giudici corrano quel “pericolo maggiore” per una democrazia che consiste nel non sentire il “peso dei dolori umani” e nel non avere “riguardo per la persona”, anche a motivo dell’eccessiva “distanza fisica e psichica” che li separa, complice il diritto stesso, dai destinatari (e dalle conseguenze) delle loro decisioni: “questa non può essere la giustizia di una democrazia”, era la conclusione del grande penalista5.

Sorta quindi da un bisogno molto concreto, ancorché all’inizio non facilmente messo a fuoco, la giustizia riparativa ha man mano provveduto, a sua volta e non senza difficoltà e polemiche – a ‘educare’ gli ordinamenti giuridici al penetrante contatto con il fenomeno del crimine nella sua dimensione complessa e relazionale6: la mediazione – scrive Carlo Enrico                                                                                                                               un dato ordinamento positivo e comunque nel mondo del conflitto di interessi, del fallimento dei rapporti inter-personali, dell’incontro e della cooperazione sulla base di ruoli” (pp. 198-1999).

4 Occuparsi dell’“uomo vivo” e non di un “uomo disseccato” “in mezzo a molti fogli protocollati”: questo è il compito delle istituzioni di una democrazia, magistratura in testa, come ricorda F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 92 (riattualizzando un pensiero di P. CALAMANDREI, Processo e democrazia, Padova 1954, p. 63 ss.).

5 F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 93 ss. 6 Gli obiettivi che la giustizia riparativa persegue evidenziano un approccio articolato

all’illecito penale: alla luce del ricco confronto internazionale che ha condotto all’elaborazione di raccomandazioni e linee guida (su cui infra), tali obiettivi sono sintetizzabili in una “tassonomia” che include il “riconoscimento della vittima”, la “riparazione dell’offesa nella sua dimensione globale”, l’“autoresponsabilizzazione del reo”, il “coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione”, il “rafforzamento degli standard morali”, il

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Paliero nell’introduzione a una delle prime (e ancora poche) opere penalistiche italiane in materia7 – nata storicamente “dalle strutture (sociali)

                                                                                                                              “contenimento dell’allarme sociale”: cfr. A. CERETTI – F. DI CIÒ – G. MANNOZZI, Giustizia riparativa e mediazione penale: esperienze pratiche a confronto, in F. SCAPARRO (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Milano, Guerini, 2001, pp. 311-312; cfr., più ampiamente, anche G. MANNOZZI, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, Giuffrè, 2003, in particolare p. 97 ss.

7 G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, cit. I temi della mediazione reo-vittima, delle condotte riparatorie e, in generale, della giustizia riparativa cominciano a coagulare l’interesse di vari studiosi di diritto penale, come dimostra per esempio la presenza di numerosi riferimenti al riguardo in una delle più recenti raccolte penalistiche: Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. Dolcini e C.E. Paliero, Milano, Giuffrè, 2006 (ivi in particolare, nell’ordine di pubblicazione nei tre volumi degli Studi, i saggi di F. GIUNTA, Oltre la logica della punizione: linee evolutive e ruolo del diritto penale, p. 343 ss.; A. MANNA, La vittima del reato: “à la recherche” di un difficile modello dialogico nel sistema penale, p. 957 ss.; L. EUSEBI, Profili della finalità conciliativa nel diritto penale, p. 1109 ss.; G. MANNOZZI, Pena e riparazione: un binomio non irriducibile, p. 1129 ss.); nello stesso volume collettaneo, sono di estremo interesse per le riflessioni di questo scritto anche il saggio di G. FORTI, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, p. 283 (dove fra l’altro, a p. 340, si definisce “promettente” la “frontiera” della restorative justice), come pure il ‘colloquio’ immaginato da M. DONINI, “Fatto” e “autore” nel diritto penale contemporaneo. Dialogo immaginario tra Giacomo Delitala e Franz von Liszt redivivi, p. 1525 ss.; nonché il lavoro di C. PIERGALLINI, Fondamento, funzioni e limiti delle moderne forme di impunità retroattiva, p. 1653 ss. Hanno contribuito a diffondere un’attenzione penalistica ai temi della restorative justice, i lavori di L. EUSEBI, di cui qui ricordo in particolare, Dibattiti sulle teorie della pena e “mediazione”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 813 ss. e le opere curate da L. PICOTTI, La mediazione nel sistema penale minorile, Padova, 1998 (dove a p. 61 ss. si trova il saggio di Eusebi appena richiamato); L. PICOTTI – G. SPANGHER (a cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”: il volto delineato dalla legge sulla competenza penale del giudice di pace, Milano, Giuffrè, 2002; ID., Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene non detentive, Milano, Giuffrè, 2003; ID., Contenuti e limiti della discrezionalità del giudice di pace in materia penale, Milano, Giuffrè, 2005. Richiamando le “speranze del tempo presente” cui volgere lo sguardo, definisce la restorative justice (accomunata ad altri sistemi, quali quello penale minorile e del giudice di pace) un “modello nuovo”, e precisamente “un modello dialogico”: M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 252-256 (corsivi dell’A.). Più di recente, un’ulteriore sensibilizzazione del mondo penalistico alle potenzialità della giustizia riparativa si è avuta con G. FIANDACA – C. VISCONTI (a cura di), Punire mediare riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione dei conflitti individuali, Torino, Giappichelli, 2009 e con il Progetto di riforma in tema di responsabilità penale del medico (contenente un’ipotesi completa di disciplina dei programmi di restorative justice), elaborato dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale, sotto la guida di Gabrio Forti, su cui cfr. G. FORTI – M. CATINO – F. D’ALESSANDRO – C. MAZZUCATO – G. VARRASO, Il problema della medicina difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, Pisa, ETS, 2010. Rammento, poi, alcuni altri lavori penalistici e processual-penalistici in tema di giustizia riparativa e argomenti affini: M. CAPUTO, Il diritto penale e il problema del

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semplici”, “giuridicamente vive […] oggi nella e per la complessità”, “spezza[ndo] il ‘ciclo autopoietico’ … del sistema penale costituito, per dare sfogo e respiro, attraverso nuovi modelli di rielaborazione, alle ‘acque profonde’ del dinamismo sociale” “non più riducibili attraverso la formalizzazione semplificante del paradigma punitivo-penale”8.

La giustizia riparativa ha contribuito a far luce – in un certo senso a far proprio incontrare – il crimine nella sua sconcertante ‘globalità’ (la quale include rei, vittime e collettività) e nella sua disarmante verità (intrisa di umana esistenza e di particolari quotidiani, banali se non fossero cruciali per i protagonisti della vicenda). Giustizia riparativa e mediazione reo-vittima hanno condotto la realtà del crimine al cuore della politica criminale, direttamente al cospetto delle domande sociali che interpellano l’ordinamento giuridico di uno Stato democratico.

Ciò è avvenuto – ecco un profilo di estremo interesse – secondo prospettive che nessuna scienza criminale era stata finora in grado di avere.

La restorative justice non ha, infatti, contribuito al ‘discorso’ sulla giustizia penale con l’ennesima teoria, con il ‘nuovo’ paradigma di turno o l’ultimo dato statistico per provare che cosa (non) ‘funziona’ (gli studi, numerosi e pregevoli, hanno semmai fatto sèguito all’avvio delle esperienze e sono stati da queste nutriti): essa ha piuttosto introdotto precisamente ciò che – di indispensabile – pareva perduto nella riflessione scientifica e                                                                                                                               patteggiamento, Napoli, Jovene, 2009; J. DI MENTO – G. FORTI, Green Managers don’t Cry: Criminal Environmental Law and Corporate Strategy, in H.N PONTELL. – D.SHICHOR (Eds.), Contemporary Issues in Crime and Criminal Justice: Essays in Honor of Gilbert Geis, Saddle River, Prentice Hall, 2000, p. 253 ss.; D. FONDAROLI, Illecito penale e riparazione del danno, Milano, Giuffrè, 1999; G. MANNOZZI (a cura di), Mediazione e diritto penale. Dalla punizione del reo alla composizione con la vittima, Milano, Giuffrè, 2004; ID., L’oggetto della mediazione: conflitto, fatto o reato?, in Dignitas, n. 7/2005; G. MANNOZZI – F. RUGGERI (a cura di), Pena, riparazione e riconciliazione. Diritto penale e giustizia riparativa nello scenario del terzo Millennio, Como, Insubria University Press, 2007 (e ivi, fra gli altri, cfr. G. FORTI, Tempo del processo e tempo della persona: scorci prospettici dalla giustizia riparativa, p. 95 ss.); E. VENAFRO – C. PIEMONTESE, Ruolo e tutela della vittima in diritto penale, Torino, Giappichelli, 2004; G. DI CHIARA, Scenari processuali per l’intervento di mediazione: una panoramica sulle fonti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 500 ss.; R. ORLANDI, La mediazione penale tra finalità riconciliative ed esigenze di giustizia,, in Riv. Diritto processuale, 4/2006, p. 1171 ss.; G. UBERTIS, Argomenti di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2006, vol. II (con particolare riferimento al cap. IV della Parte Prima, significativamente intitolato Riconciliazione, processo e mediazione in ambito penale, p. 83 ss., anche in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 1321 ss.). Nella manualistica, cfr. S. CANESTRARI – L. CORNACCHIA – G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, Il Mulino, 2007 dove viene dedicato un apposito e autonomo spazio alla mediazione nell’ambito della trattazione sulla pena (p. 76 ss.).

8 C.E. PALIERO, Presentazione, in G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, cit., citazioni rispettivamente da pp. X, VIII, X (corsivi nel testo).

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politica, vale a dire la sensibilità che deriva dalla condivisione dell’esperienza ‘in presa diretta’ di che cosa è un reato per chi lo compie, chi lo subisce, chi lo avvicina per essere membro della famiglia o della comunità del colpevole o dell’offeso, chi lo incontra per essere abitante dei luoghi che ne hanno offerto un inconsapevole scenario. Ripulita dai tecnicismi giuridici, dai formalismi teorici, dalle disquisizioni sociologiche, dalle ‘riduzioni’ processuali o dalle semplificazioni demagogiche della politica e dei mezzi di comunicazione di massa, l’eloquente “nuda vita”9 che assume i drammatici contorni del reato ha preso, timidamente, a interrogare le coscienze degli studiosi, dei pratici, dei consociati in genere.

Simile risultato non è stato, dunque, ottenuto attraverso un previo studio empirico-sociale, né attraverso un apporto parziale, grazie, per esempio, a indagini vuoi sul reo vuoi sulla vittima (a questo hanno ampiamente provveduto, da che esistono, la criminologia e la vittimologia), bensì dando voce simultaneamente e senza troppe barriere agli uomini e alle donne che hanno agito e subito il reato; consentendo l’accesso, in altre parole, direttamente – simultaneamente, appunto – a quelle esperienze pluri-soggettive che ‘fanno’ il crimine nella sua tragica e concreta consistenza umana.

Una dirompente realtà – che il diritto penale tende per lo più a sviare (se non persino a sovvertire) e che invece la restorative justice raccoglie in pieno – riguarda proprio la dimensione “molecolare” del crimine: si deve a Gabrio Forti il merito di aver approfondito, attraverso l’inequivocabile ricorso al concetto di “molecola”, la natura articolata e inter-soggettiva – la “mobile sostanza umana” – dell’illecito penale10. Il reato è, invero, un fatto umano “personale” in quanto imputabile con colpevolezza al suo autore (o a ciascuno degli autori se vi è concorso)11. Ma l’illecito penale è altresì un fatto personale in quanto accade ‘tra persone’. Il crimine è poi sempre un fatto ‘sociale’ che coinvolge, accanto a colpevoli e offesi, la collettività intera e le agenzie del controllo, fino al legislatore. Il crimine è dunque simultaneamente un accadimento individuale, inter-personale, sociale e normativo, che, in ogni caso, interessa prima di tutto gli esseri umani e non i

                                                            9 Mutuo l’espressione da G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita,

Torino, Einaudi, 2005, riferendola però a un concetto in parte differente da quello indicato dall’A., volendo io qui sottolineare – della negativa spoliazione di dignità recata da un reato – proprio il valore della sottostante umanità, simile a ‘brace ardente’. É questa vita ‘nuda’ da sovrastrutture, ma ardente di umanità, che finisce assai spesso per essere ‘spenta’ dalle astrazioni giuridiche, invece che essere dal diritto pienamente riconosciuta all’interno di quello statuto che dovrebbe venire garantito a ogni essere vivente appartenente al genere umano, dall’inizio alla fine del suo esistere.

10 G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 287 ss. 11 Il tema della colpevolezza verrà ripreso brevemente più avanti: supra par. 4.3.

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sistemi giuridici come tali, la cui unica ragione di esistere è semmai quella di proteggere, regolandola, la vita dei primi: ciò che “il sistema penale deve risolvere o almeno elaborare con l’ausilio dei suoi strumenti sorge tra esseri umani”, è la limpida constatazione di Hassemer12.

La possibilità offerta, con la giustizia riparativa, a perpetratori e offesi di incontrarsi e “partecipare attivamente insieme, in modo libero” ad un confronto impegnativo e volontario sugli effetti del crimine13 ha dischiuso una complementarietà del tutto inedita, posto che finora l’ordinamento penale ci ha abituati, invece, alla separazione, sotto ogni profilo, del reo dalle vittime e dalla collettività. La “frattura”14 viene replicata in ogni piega dell’iter tradizionale: dal posto ‘fisico’ assegnato agli uni e agli altri nell’aula processuale, alla natura della sentenza stessa che rigidamente de-cide15 di condanne o assoluzioni (dividendo con nettezza colpevoli e                                                             

12 W. HASSEMER, Einfűhrung in die Grundlagen des Strasfrechts, Műnchen, 1990, p. 19. 13 Questo è il nocciolo significativo dei programmi di restorative justice per gli organismi

internazionali. Cfr. UNITED NATIONS, ECONOMIC AND SOCIAL COUNCIL, Basic Principles on the Use of Restorative Justice Programmes in Criminal Matters, Risoluzione n. 12/2002: “Restorative process means any process in which the victim and the offender and, where appropriate, any other individuals or community members affected by a crime, participate together actively in the resolution of matters arising from the crime, generally with the help of a facilitator. Restorative justice may include mediation, conciliation, conferencing and sentencing circles”. Molto simile è la definizione contenuta nella Raccomandazione 99(19) del settembre 1999, adottata dal Comitato dei Ministri del CONSIGLIO D’EUROPA e concernente la Mediation in penal matters, secondo la quale con mediazione reo-vittima si intende: “any process whereby the victim and the offender are enabled, if they freely consent, to participate actively in the resolution of matters arising from the crime through the help of an impartial third party (mediator)”.

14 La confutazione di una giustizia penale intesa come ritorsione del male e dunque come riproposizione, mediante la pena, della “frattura” sociale generata dall’illecito, è centrale nell’opera di L. EUSEBI di cui qui, per brevità, richiamo solo, oltre al fondamentale La pena “in crisi”. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, Morcelliana, 1990, tra i più recenti: Profili della finalità conciliativa nel diritto penale, cit.; ID., Quale prevenzione dei reati? Abbandonare il paradigma della ritorsione e la centralità della pena detentiva, in M.L. DE NATALE (a cura di), Pedagogisti per la giustizia, Milano, Vita&Pensiero, 2004, p. 65 ss.; ID., Riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa? Sul rapporto tra riforma penale e rifondazione della politica criminale, in L. PICOTTI – G. SPANGHER, cit., p. 17 ss.; ID., Politica criminale e riforma del diritto penale, in S. ANASTASIA – M. PALMA (a cura di), La bilancia e la misura, Milano, Franco Angeli, 2001; ID., Dibattiti sulle teorie della pena e “mediazione”, cit., p. 61 ss. Richiamo infine la notissima raccolta AA.VV., La funzione della pena. Il commiato da Kant e da Hegel, a cura di L. Eusebi, Milano, Giuffrè, 1989.

15 Riflette sulla natura ‘tagliente’ di ogni atto di criminalizzazione, G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 53 ss. Nell’ambito di una riflessione più interna alla giustizia riparativa e dell’alternative conflict resolution, il tema della rigidità dualistica della ‘spada’ imbracciata dalla giustizia è da tempo ampiamente approfondito: cfr., fra i contributi che per primi hanno affrontato l’argomento, venendo ripresi successivamente, J. GALTUNG, Institutionalized Conflict Resoluion, in Journal of Peace Research, 1965, p. 349 ss., nonché gli scritti raccolti in

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innocenti, senza lasciare spazio, quindi, a realistiche sfumature), giù fino alla pena configurata (e applicata) come segregazione cui verrebbe assegnato il compito di tutelare la vittima e i consociati, proprio grazie alla separazione materiale, morale e giuridica del colpevole dal resto del consesso umano. La separazione, come appena detto, si è perpetuata nelle (pur preziosissime) indagini criminologiche nel corso delle quali si sono, per la maggior parte, intervistati o esaminati distintamente i protagonisti del crimine, arrivando al massimo gli studiosi a incrociare loro i risultati ottenuti, nel tentativo di ricomporre i due lati del fenomeno all’interno di un quadro unitario16. E infatti, proprio gli osservatori più sensibili non hanno mancato di notare il bisogno di “conquista[re]” una “visione integrata” che abbracci “unitariamente e dinamicamente” le varie “polarità” della molecola (“crimine, reo, vittima, agenzie del controllo, società”) e i complessi legami che le uniscono17.

Se il processo penale rende esplicita la “dimensione fisica dell’alterità”18, la restorative justice vuole ad ogni passo mostrare la dimensione, anche fisica, della comunanza.

                                                                                                                              Alternative Rechtsformen u. Alternativen zum Recht, Jahrbuch fűr Rechtssoziologie u. Rechtstheorie, 1980, 6, fra cui in particolare R. ABEL, Theories of Litigation in Society (p. 165 ss.), W. FELSTINER – L.A. WILLIAMS, Mediation as an Alternative to Criminal Prosecution: Ideology and Limitations (p. 195 ss.), M. GALANTER, Legality and its Discontent: A preliminary Assessment of Current Theories of Legalisation and Delegalisation (p. 11 ss.); W. FELSTINER, Influences of Social Organization on Dispute Processing, Law & Society Review, 1974, p. 70 ss. Per una sintesi: C. MAZZUCATO, L’universale necessario della pacificazione. Le alternative al diritto e al processo, in AA.VV., Logos dell’essere, Logos della norma. Studi per una ricerca coordinata da Luigi Lombardi Vallauri, Bari, Adriatica Editrice, 1999, p. 1245 ss.

16 Fra l’altro, simile quadro unitario svela una singolare e diffusa somiglianza – culturale e socio-economica – tra offender e vittima: commenta questo risultato, in apparenza sorprendente, G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 262 ss. il quale mette in guardia altresì da uno “dei maggiori inconvenienti dell’ ‘uso indiscriminato’ del concetto [di vittima] nelle scienze sociali”, cosa che ha prodotto “l’effetto di perpetuare il persistente “stereotipo popolare” che vede il reo e la vittima diversi come “il cielo e la notte”“ (p. 262), mentre “un cospicuo ventaglio di ricerche empiriche” ha semmai confermato “il dato che segnala una certa comunanza di caratteristiche tra la popolazione dei criminali e quella delle vittime” (p. 264).

17 Di nuovo G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 287. Simile integrazione deve poi abbracciare tutte le discipline che si occupano del reato e del crimine, all’interno di una visione unitaria, cioè all’interno di una “scienza penale integrata” come auspicato da Franz V. LISZT, trad. it., La teoria dello scopo nel diritto penale, Milano, Giuffrè, 1962.

18 G. DI CHIARA, Diritto processuale penale, in G. FIANDACA – G. DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, Jovene, 2003, Parte II, p. 210 (l’espressione, in verità, è riferita dall’A. all’estraneità del giudice, ma la prendo in prestito facendola assurgere a cifra del tipo di giustizia celebrato nel procedimento giurisdizionale).

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La simultaneità di presenza in un contesto protetto, libero e volontario, nel quale potersi confrontare su quel che conta (anche soggettivamente e sul piano esistenziale) fuori da schemi imposti dall’esterno, consente di intravedere i risvolti altrimenti meno conoscibili – per le parti stesse – della vicenda criminale, il che conduce mediatori e parti ad andare molto vicino a ciò che potremmo persino chiamare la ‘verità’ di quell’episodio. Si tratta di una verità che si (ri)scrive necessariamente in modo corale in quanto in sé composita e plurima poiché fatta di azioni e reazioni, storie, vissuti e sentimenti di più persone. Nelle pagine che seguono cercherò di descrivere la consistenza di questa verità inavvicinabile da parte della giustizia penale ordinaria19, ripercorrendo come – agli occhi di un penalista mediatore – il crimine emerga non solo attraverso le norme trasgredite o le reazioni sociali prodotte, ma per il tramite, dapprima, delle narrazioni individuali delle parti e poi della narrazione complementare che scaturisce dal confronto e ricompone i contenuti parziali in una visione più ampia e relazionale, non per forza univoca, che abbraccia le verità personali20. La ‘densità’ del crimine, invisibile al giudice, passa poi dall’esperienza di ciascuno lungo una diacronia che non comincia e non finisce con il reato, ma attraversa la vita intera21. Al cospetto di quest’ultima, e spesso grazie ai ‘dettagli’ struggenti che la intridono, diviene possibile per rei e vittime un chiamarsi vicendevolmente a rispondere intorno a valori significativi che gettano nuova luce sulle norme giuridiche le quali, a loro volta, escono vivificate dal confronto giungendo, in molti casi, fino a motivare negli interessati sinceri comportamenti conformi. E’ un opera virtuosa – eppur drammatica e dura – in cui si sostanzia, a mio parere, qualche cosa di decisivo per il diritto penale di una democrazia.

                                                            19 G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in ID., Sisifo e Penelope. Il nuovo codice

di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema, Torino, Giappichelli, 1993.

20 Il tema della verità è cruciale all’interno dei programmi di restorative justice nella cui visione teorica di fondo essa rappresenta, fra l’altro, un inscindibile componente dell’idea stessa di giustizia. Sul punto, cfr. A. CERETTI – A. NOSENZO, The Truth and Reconciliation Commissions: a Justice Looking also to Future Generations, relazione presentata al XIV International Congress on Social Defence – Social Defence and Criminal Law for the Protection of Coming Generations, in View of the New Risks, Lisbona 17-19 maggio 2002 (in particolare i parr. 2-3, pp. 5-14 del dattiloscritto, in cui gli AA. distinguono tra i concetti di verità individuale, collettiva, giudiziale e storica); A. CERETTI, Quale perdono è possibile donare? Riflessioni intorno alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione sudafricana, e L. LENZI, Mediazione e verità: oltre-passare le emozioni, entrambi in Dignitas – percorsi di carcere e di giustizia, rispettivamente n. 6/2004, p. 32 ss. e n.4/2004, p. 56 ss.

21 Per l’attenzione a simili aspetti nella riflessione dottrinale e nella prassi della giurisprudenza civile in tema di risarcimento del danno non materiale, cfr. infra par. 4.4.

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Fra le novità di approccio recate dalle pratiche riparative vi è il capovolgimento di sguardo con cui si osserva il fenomeno criminale22, accostato non dal lato formale-afflittivo della reazione penale, bensì dal lato dolorante e umido di lacrime di chi (reo, vittima, padre, madre, figlio, passante, vicino di casa, cittadino, straniero...) vive gettato “dentro il tragico”23 di un’offesa subita/perpetrata e di un processo da celebrare i quali possono mutare il destino dell’esistenza; detto altrimenti, il fenomeno criminale viene colto con lo sguardo dell’essere umano catapultato nel bivio angosciante di un ‘prima’ che – per colpevoli e innocenti – pare irrimediabilmente compromesso e un ‘poi’ i cui contorni restano indefiniti e bui24. Abbandonate le parole scientifiche e giuridiche, tanto rassicuranti quanto spesso troppo vuote di significati, il crimine è avvicinato qui con umiltà, attraverso l’esperienza – e le ferite vere – di chi vi si trova immerso e non può certo permettersi di rimanere imbrigliato nelle forme, nelle astrazioni, nelle procedure e nelle teorie. L’umiltà del mediatore (o del facilitatore) nell’avvicinare il reato è imposta dalla prossimità alla sofferenza e alla tragedia che possono essere descritte, al più, con parole

                                                            22 La strenua e accidentata ricerca della giustizia, guidata dagli effetti disperati delle

ingiustizie è il filo conduttore dell’ultima opera di Federico STELLA, La giustizia e le ingiustizie, cit. e ricorre nel dialogo tra C. M. MARTINI e G. ZAGREBELSKY, La domanda di giustizia, Torino, Einaudi, 2003.

23 Espressione di A. CERETTI, Quale perdono è possibile donare?, cit., p. 40, il quale a sua volta fa riferimento a un appassionato ragionamento sul perdono tra O. ABEL a P. RICOEUR (rispettivamente di O. ABEL, Ce que le pardon vient fare dans l’histoire, in Esprit, 1993, p. 90 ss., e ancor più Le pardon, ou comment revenir au monde ordinaire, e di P. RICOEUR, fra gli altri scritti pertinenti, in trad. it., La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina, 2003). I due si seguono nel costruire il perdono quale “virtù del compromesso” e “saggezza pratica”, non, dunque, come un imperativo etico sovrumano e irraggiungibile – e quindi facilmente liquidabile come impossibile –, bensì come praticabile e accessibile modello di relazione nel dissidio: “la ‘saggezza pratica’, afferma Ricoeur e con lui Abel – non consiste nell’abbandono del tragico, ma in un abbandono nel tragico”, grazie al quale potersi realisticamente riconoscere senza mettere da parte il contesto che divide (corsivi dell’A.).

24 Devo le riflessioni sugli effetti del crimine nella diacronia della vita dei suoi protagonisti agli appassionanti dialoghi con Adolfo CERETTI e alle approfondite considerazioni che egli sviluppa in numerosi scritti, di cui qui cito – per brevità – i fondamentali: Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. III, Criminologia, Milano, Giuffrè, 2000, p. 713 ss.; ID., Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, in F. SCAPARRO (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzione alternative delle controversie, Milano, Guerini, 2001, p. 55 ss.; ID., Mediazione: una ricognizione filosofica, in L. PICOTTI, La mediazione nel sistema penale minorile, Milano, Giuffrè, 1998, p. 19 ss.

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“fragili”, sebbene niente affatto incerte25, piuttosto che con le formule solenni e distanti – ultimamente non di rado, appunto, ‘vuote’ – dei pronunciamenti dei tribunali. Incalzati dalla necessità di accertare la colpevolezza (e punire), questi ultimi contengono nel migliore dei casi buone statuizioni in punto di diritto, ma ben poco colgono delle articolate e diacroniche vicende sottostanti, sulle quali peraltro finiscono per incidere drammaticamente: “che ne sa – ammoniva Hassemer qualche anno fa – il giurista penale del ladro e del violentatore? Che ne sa del derubato e della donna violentata?”26. La “fragilità” delle parole della mediazione – sia chiaro – non dipende affatto da un’indifferenza rispetto ai beni protetti e ai valori di cui sono portatrici le parti e non va intesa come riferita a una provvisorietà da ‘soluzione di compromesso’: tutt’altro. Le parole della mediazione sono parole profonde, chiamate a nominare sentimenti e valori tra i più elevati e importanti, ma simili parole devono essere capaci di ‘sancire’ ciò che è essenziale, senza ricorrere all’imposizione e devono, al contempo, saper includere simultaneamente ciò che conta per una parte e per l’altra27.

Le pratiche di giustizia riparativa educano ad assumere una particolare attitudine nell’approssimare le “polarità” di una storia penalmente rilevante. Si tratta per un verso di un’inclinazione all’accoglienza di tutte le persone (anche di quelle gravemente colpevoli) in uno spazio (non solo fisico) “sicuro e confortevole”28 e, per altro verso, di un atteggiamento ispirato al più profondo e rigoroso rispetto per la loro dignità. Autori e vittime vengono incontrati con uno stile improntato alla mitezza, oserei dire alla ‘compassione’ (uno stile – si badi – per nulla ‘debole’ o giustificazionista). Compassione (sic!), riconoscimento e rispetto, tutela della dignità, della vita

                                                            25 Come spiega A. CERETTI “l’intersezione tra i differenti universi non può che essere

tenuta insieme da parole fragili, poiché esse coniugano discorsi eterogenei” (Quale perdono è possibile donare?, p. 41).

26 W. HASSEMER, Einfűhrung in die Grundlagen des Strasfrechts, p. 19, su cui si vedano le riflessioni sviluppate da G. FORTI anche a partire dalla provocazione del penalista tedesco: L’immane concretezza, cit., p. 37 ss.

27 La “fragilità” non va dunque scambiata per debolezza: è – se vogliamo – piuttosto il corollario linguistico di quella posizione di imparzialità equi-prossima (non di neutralità) che caratterizza l’intervento del mediatore/faciliatore. Rammenta Eligio Resta, in talune pagine sempre ricordate sul punto, che la mediazione “è uno stare tra le parti ed essere in mezzo a loro, non trovare uno spazio neutro e equi-distante, in cui risiede la grande utopia del moderno che è la terzietà”, sicché “mentre il giudice è pensato nei sistemi moderni come nec utrum, né l’uno né l’altro, neutro appunto, il mediatore deve essere questo e quello, deve perdere la sua neutralità e perderla fino in fondo”: E. RESTA, Giudicare, conciliare, mediare, in F. SCAPARRO, Il coraggio di mediare, cit., p. 21 ss., p. 49 (corsivi nel testo).

28 CONSIGLIO D’EUROPA, Raccomandazione 99(19), § 27.

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e della sicurezza sono espressioni che si rinvengono, non a caso, nelle fonti internazionali di soft law relative alla posizione delle persone offese quali criteri orientativi ‘raccomandati’ per l’intervento a sostegno di queste ultime29. Simili disposizioni sottolineano, con linguaggi apparentemente più consoni alla criminologia che al diritto penale, come una vittima sia – prima di tutto – una persona che ha sofferto30, il cui dolore deve trovare “solidarietà” e non solo le (pur importanti, ma praticamente inesistenti in Italia) reti istituzionali o informali di assistenza.

1.1. Le verità personali e i dettagli struggenti: l’‘eccedenza’ del crimine.

Il reato non è (solo) la trasgressione di una norma. Simile constatazione è frutto di un cammino secolare che si è

cristallizzato in principi democratici fondamentali. Rifletteremo sui risvolti giuridici di questa affascinante questione nel seguito del presente lavoro (par. 4.2.). Prima, però, arrestiamoci un momento ancora sulla “concretezza” del crimine per entrare un poco di più nella ‘verità complementare’ di questo triste accadimento per come ci viene rivelata dalla pratiche riparative e che – a mio avviso – tanto utile risulterà essere alla comprensione di che cosa sia davvero un reato alla luce dei principi di garanzia della tradizione liberale.

                                                            29 Basti in questa sede ricordare: ONU, Declaration of Basic Principles of Justice for

Victims of Crime and Abuse of Power, 1985; UNIONE EUROPEA, Decisione Quadro 2001/220/GAI del Consiglio del 15 marzo 2001 relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale; CONSIGLIO D’EUROPA, Raccomandazione (2006)8 sull’assistenza alle vittime. E’ interessante notare come le raccomandazioni ora richiamate contengano tutte un riferimento, più o meno ampio, alla mediazione quale utile risorsa, fra altre, per offrire un idoneo sostegno alle vittime di reato. Ricordo inoltre che, nelle more della revisione di questo lavoro, è stata approvata la Legge comunitaria 2009 (L. 4 giugno 2010, n. 96, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2009), la quale contiene la delega al Governo per l’attuazione della citata Decisione Quadro 2001/220/GAI, seppure limitatamente alle parti relative ai diritti delle vittime e non anche alla mediazione penale (artt. 52-53)

30 Per il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea, la vittima è “a natural person who has suffered harm, including physical or mental injury, emotional suffering or economic loss, caused by acts or omissions that are in violation of the criminal law of a member state. The term victim also includes, where appropriate, the immediate family or dependants of the direct victim”. Praticamente identica è la definizione delle Nazioni Unite: “ ‘Victims’ means persons who, individually or collectively, have suffered harm, including physical or mental injury, emotional suffering, economic loss or substantial impairment of their fundamental rights, through acts or omissions that are in violation of criminal laws operative within Member States, including those laws proscribing criminal abuse of power”.

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Parto da un riferimento ‘tecnico’, per nulla formale. Invito chi legge a esaminare con immaginazione empatica il lungo elenco di punti che compare nel modulo di domanda di riparazione per le vittime dei crimini di competenza della Corte penale internazionale31. E’ una piccola, dolorosa, esperienza: la gravità degli eventi che dobbiamo presupporre nascosti dietro ogni parola indicata, specialmente nella “Parte F” del documento, è paradossalmente utile per valicare la corazza di insensibilità di cui spesso ci rivestiamo. Il fatto che gli illeciti da cui sorge, in questo caso, la pretesa riparativa avvengano per la maggior parte in luoghi dove ancora si vive di pastorizia e agricoltura, con mezzi di sussistenza alquanto rudimentali, rende ancora più immediato e primordiale questo incontro ‘a distanza’ con il dolore, per il tramite di un’efficace questionario, burocratico solo in apparenza. La reparation form contempla le conseguenze di un crimine sulle vittime: sono suddivise in injury, loss e harm, lesioni fisiche, perdite e danni. Non manca il riferimento, tra le losses e i danni ‘materiali’, alla perdita della casa e della terra. Tra le injuries sono riportate le ferite fisiche (“physical injuries”), psicologiche e mentali (“mental pain and anguish”), fra le cui voci sono annoverate situazioni eloquenti quali senso di colpa e di vergogna, apatia, disturbi del sonno, incubi, immagini e pensieri intrusivi, problemi di concentrazione, sudorazione eccessiva, aumento del battito cardiaco, problemi respiratori, e altro ancora. Un condensato di vittimologia: astraendo dal caso particolare delle atrocità collettive, che non fa che amplificare gli effetti del reato sui soggetti offesi, ecco infatti ciò con cui, in misura maggiore o minore, una vittima si trova a convivere dopo un reato oggettivamente e giuridicamente grave o gravissimo (o dopo un illecito ritenuto soggettivamente tale, per diverse ragioni contingenti – debolezza del soggetto passivo, modalità dell’aggressione, ecc.).

Per prolungare un poco questo nostro minuscolo ‘esercizio riparativo’ e tentare di avvicinare anche noi la realtà del crimine, capendo meglio dove ci portano questi pensieri, devo avvalermi di qualche storia e di alcune immagini prese in prestito da fonti insospettabili, le quali in aggiunta mi consentono di non violare in alcun modo la confidenzialità che, come mediatore, ho assicurato alle persone incontrate direttamente in diversi programmi. Chiedo fin d’ora al lettore di fare lo sforzo di trascendere le contingenze per tentare di cogliere, invece, i tratti ‘universali’ degli episodi che seguono (in massima parte realmente verificatisi, anche se ripresi dalla                                                             

31 Il documento è scaricabile dal sito ufficiale della Corte (www.icc-cpi.int), nella parte dedicata a Victims and witnesses. Si rammenti che il riconoscimento di un diritto di intervento e alla riparazione, in sede internazionale, per le vittime di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra è recente acquisizione dello statuto della Corte penale permanente (1998).

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letteratura o dalla cinematografia). Ho selezionato i racconti per il potere evocativo di ciascuno in rapporto a situazioni reali cui mi è capitato di assistere come mediatore. Il contesto, dunque, è di volta in volta ‘imprestato’, i contenuti ‘universali’ sottostanti appartengono invece anche alla mia personale esperienza.

Nel bel film di Tim Robbins, Dead Man Walking32, vi è una sequenza di scene memorabili: la religiosa che assiste il condannato a morte incontra i familiari dei due ragazzi trucidati e poi si reca in visita alla madre e ai fratelli (ancora bambini) dell’omicida. Nel primo incontro, il padre del giovane assassinato mostra alla suora le fotografie dell’infanzia del figlio e indica il pavimento sul quale costui – bambino – ha imparato a camminare. Quel pavimento verso cui l’uomo continuamente si protende quasi con dedizione nel suo fare ‘memoria’ della figura da cui è stato separato per sempre, è lucido e freddo, benché di legno: è vuoto dei passi del figlio ucciso che dovrebbero invece ancora risuonarvi, come una volta; quel pavimento su cui non si posano più i piedi di chi ha trovato, nel fiore degli anni, una fine violenta rappresenta la misura inesprimibile di un legame indissolubile e di una perdita irreparabile. Nel secondo incontro, la madre della fanciulla – morta dopo essere stata barbaramente violentata – racconta dell’ultimo, ignaro, abbraccio alla figlia: sulla porta di casa, la mamma si avvede che l’orlo della gonnellina della ragazza è scucito e sollecitamente si affretta a porvi rimedio, appuntando una spilla da balia. Si odono le parole della madre, ma il regista mostra sapientemente allo spettatore una gonna insanguinata e sgualcita sui cui è ben visibile la spilla da balia, dentro una busta di plastica trasparente con la scritta “evidence”. Quella gonna con la spilla da balia – che passa nelle mani di sconosciuti operatori e diventa ‘prova’ processuale, oggetto di perizie e interrogatori – condensa in verità tutto l’indicibile amore di una madre; quel gesto finisce per essere l’inconsapevole, finale, atto di materna premura verso una figlia che non rivedrà più. Questo piccolo oggetto e il gesto (altrimenti) insignificante che l’accompagna sono i contenitori di qualche cosa di enormemente profondo e incomunicabile che trascende finanche la spaventosa crudezza dei fatti. Ma l’itinerario non si conclude e ci viene presentata anche la famiglia del reo: blindata in casa, schiva, impaurita, vittima anch’essa – se così si può dire – di maldicenze, discriminazioni ed esclusione sociale per esprimere le quali si ricorre di nuovo ad aneddoti che assorbono la tragica dolorosità della vicenda. Nessuno evoca il reato attraverso i fatti che interessano al giudice, sono appunto i dettagli a farci capire tutto.

                                                            32 Dead Man Walking – Condannato a morte, di T. ROBBINS, produzione USA, 1995.

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Ma ecco ancora altri racconti in cui la comprensione degli effetti di un illecito passa per la via di dettagli eloquenti e indimenticabili: “Con gli occhi ancora pieni di sonno Avram Dorion urtò contro i mobili, andando in cerca del bagno. Lavandosi il viso con l’acqua fredda, si guardò allo specchio. Aveva un bel volto, dai tratti fermi e decisi, un naso prominente e occhi la cui malinconia evocava le tragedie che avevano segnato la sua esistenza. Quel volto era la carta migliore della sua carriera: voleva diventare un attore”. Di lì a poco, Avram sarebbe diventato una delle innumerevoli vittime del conflitto israelo-palestinese che si trascina, press’a poco con analoghe modalità, fino a oggi33. Avram voleva fare l’attore, ma la persona che i soccorritori incontrano dopo l’attentato è un “uomo mezzo nudo […]. Il suo viso era inondato di sangue e lembi di pelle pendevano dalle sue guance […]. Quel mascherone sanguinoso […] era tutto ciò che rimaneva del bel volto” di chi sognava di recitare davanti a una cinepresa. Qualche giorno prima, l’arabo Hameh Majaj festeggiava il suo anniversario di matrimonio: “quell’anno Hemeh aveva tenuto in serbo una sorpresa per sua moglie. Aveva comperato […] un regalo stravagante per le sue modeste risorse, ma che dava la misura del suo amore: un anello antico a tre cerchi d’oro. Si era ripromesso di offrirglielo alla sera […], ma il mattino, vedendo il tenero sorriso di sua moglie al risveglio, non aveva resistito. Si alzò e corse a prendere il gioiello. Timidamente lo infilò al dito di sua moglie stupita, che lo ammirò, scintillante nel sole, con piacere e fierezza”. Nella stessa terra, dove si sarebbe infranta la vocazione di Avram, stava per consumarsi un’altra tragedia: un’esplosione avrebbe investito per strada i due coniugi palestinesi, rivelandosi letale per la giovane donna: Hameh “entrò nella sala operatoria per dire addio a sua moglie. Attraverso le lacrime che gli inondavano il viso, contemplò il corpo della donna che gli aveva recato tanta felicità. Scosso dai singhiozzi […], si chinò per sfilare dal suo dito la reliquia che avrebbe conservato per il resto della vita: un anello con tre cerchi d’oro”34.

Il libro autobiografico di Mario Calabresi35, figlio del commissario ucciso nel 1972 a Milano in un’azione terroristica, trasuda di particolari, circostanze, sfumature che ci restituiscono una vivida fotografia (quale quella – bellissima – scelta per la copertina del volume) di ciò è il crimine più grave, visto attraverso gli occhi di un bambino cresciuto all’ombra

                                                            33 L’episodio è tratto dal notissimo D. LAPIERRE – L. COLLINS, trad. it., Gerusalemme,

Gerusalemme!, Milano, Mondadori, 1972, pp. 175-178. 34 Ivi, pp. 120-123. 35 M. CALABRESI, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime

del terrorismo, Milano, Feltrinelli, 2007.

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dolorosa del “rimpianto per un mondo perduto a cui è stato negato il futuro”36. E invero l’autore ci sollecita a pensare come siano, appunto, “i particolari a tener viva la memoria, i ricordi pieni, vissuti e non la prosopopea”37. Della miriade di spunti straordinari offerti da questo scritto edificante – che parla del male senza disperazione, lasciando nel lettore una traccia serena di speranza e di forza – ne scelgo uno (apparentemente) minore che mi ha particolarmente colpito: “mi ricordo i pomeriggi passati al cimitero, a Musocco”, ci riferisce Calabresi, “il rito era preciso: si compravano i fiori […], si andava a prendere l’acqua alla fontana con l’innaffiatoio, si saliva a turno su una scala con le ruote e otto scalini, si puliva la foto in cui ‘papà Gigi’ sorrideva il giorno del matrimonio. Gli davamo un bacio, poi lasciavamo mamma da sola e andavamo a giocare. […] All’uscita restavamo a lungo in silenzio […] Ogni volta poi c’era il nostro amico, morto bambino. Sulla sua tomba i genitori avevano messo delle automobiline. Noi le prendevamo per giocare e a un certo punto cominciammo a fare gli scambi, ne portavamo una da casa e in cambio ne prendevamo una sua. Un giorno ne prendemmo due, ma sul cancello Luigi disse: ‘non possiamo farlo, poverino’. Mia madre non capì nulla, ma tornammo indietro di corsa a restituirgliela”38. Le automobiline e l’amicizia che si stringe tra i figli vivi di un papà ucciso e un ignoto bimbo, scomparso per chissà quale causa, sono insieme un “appuntamento con il dolore”39 e la piccola cifra straziante del “mondo perduto a cui è stato negato il futuro”.

Poco importa, ai nostri fini, che si tratti nella specie di vicende trascorse, talune anche risalenti a vari decenni fa; del resto, senza mancare di rispetto alle persone direttamente coinvolte, poco importa qui persino che le vittime siano ebrei e palestinesi40, o persone offese dai crimes in the streets statunitensi o dagli anni di piombo che hanno insanguinato l’Italia: perché aspirazioni infrante o metaforici anellini d’oro, spille da balia o automobiline su una tomba, appartengono, invero, alla disperata esperienza di ogni persona gravemente offesa.

Al contempo, e senza cadere in banali distinguo, affetti inariditi (o mai sorti) e vocazioni o percorsi umani non seguiti possono abitare la vita dei

                                                            36 Ivi, p. 91. 37 Ivi, p. 87. 38 Ivi, pp. 57-58. 39 Ivi, p. 29. 40 Vittime unite, fra l’altro, da una tragica somiglianza e da una disperata sorte, come

dolorosamente ci insegna il Parents’ Circle – Families Forum (Bereaved Families Supporting Peace, Reconciliation & Tolerance), l’associazione di familiari di vittime israeliane e palestinesi che ho più volte avvicinato a Gerusalemme (www.theparentscircle.org).

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colpevoli, senz’altro almeno di coloro che vanno incontro all’esecuzione di una pena (cosa sempre triste anche se legittima).

L’esperienza della restorative justice ci fa prendere coscienza di quest’area personale e di valore che, almeno apparentemente, eccede il crimine come fatto materiale e, a maggior ragione, sembra eccedere il reato come fatto materiale e normativo. Dare voce alla verità personale significa “oltre-passare” il fatto di reato (quello, in breve, che il procedimento giudiziario mira ad accertare) per dare importanza e “accogliere […] dimensioni emotive ed esistenziali”, senza che ciò comporti l’“abbandon[o del]la ricerca della verità tout court”41 e, anzi, al contrario lasciando emergere quest’ultima nelle sue molteplici componenti (oggettive, soggettive e inter-soggettive, diacroniche) grazie (come più volte ripetuto) alla complementarietà di sguardi e vissuti dei vari protagonisti42. I programmi di giustizia riparativa, infatti, non consistono in percorsi arbitrari e irrazionali – cioè ‘emotivi’ in senso deteriore – bensì in momenti seri di confronto guidato, alla presenza di esperti indipendenti e imparziali. Simile precisazione dovrebbe rassicurare chi teme derive privatistiche o perniciosi personalismi, invero quanto mai distanti dalla prassi e dalle finalità della mediazione reo-vittima e di altri analoghi strumenti. Né, d’altro canto, l’ospitare sfumature biografiche, esistenziali, comporta la rilevanza di istanze soggettive di vendetta, di cui sono invece infarciti il diritto penale espressivo e simbolico e le politiche repressive.

Nelle pratiche di restorative justice si dà spazio per definizione a un dialogo costruttivo che abbraccia le storie di vita con i loro particolari (così importanti per i protagonisti della vicenda) i quali consentono alle parti di iscrivere l’illecito penale entro una cornice ampia che è insieme più vera e significativa (rispetto a quella disegnata dal diritto penale e dalla decisione del giudice). L’‘eccedenza’43 è strumento per trasmettere agli altri ciò che

                                                            41 L. LENZI, Mediazione e verità, cit., p. 58. 42 Come ciò si declini con un rigoroso rispetto del principio costituzionale di colpevolezza,

è tema discusso infra par. 4.3. 43 Sul tema dell’‘eccedenza’ come in–contenibilità formale del vissuto umano, si rinvia per

una interessante riflessione a D.J. FORD, trad. it., Dare forma alla vita, Magnano, Qiqajon Edizioni, 2003; l’evocativo termine è usato in varie occasioni dal Card. C.M. MARTINI, fra cui da ultimo, in Il Discorso della Montagna. Meditazioni, Milano, Mondadori, 2006. Avevo usato il termine ‘eccedenza’ in un precedente lavoro (Consenso alle norme e prevenzione dei reati), in riferimento ai compiti ‘difficili’ del diritto minorile che si trova a regolare bisogni ed esperienze umane primordiali e decisive (la nascita, lo sviluppo fisico, psichico e umano di un bambino, gli affetti, ecc.) che ‘eccedono’ sempre i confini astratti e generali posti dalle norme, le quali però, nel caso di specie, devono tentare di governare in modo propositivo e promozionale tali delicate situazioni.

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non può essere raccontato in modo lineare ed è poi veicolo straordinario, intuitivo e im-mediato, di condivisione.

I mediatori/facilitatori sanno come per le vittime (almeno le vittime di reati gravi), i dettagli – quasi sempre struggenti e commoventi – siano il mezzo per rendere comunicabile ciò che resta spesso, altrimenti, indicibile, vale a dire l’esperienza dell’offesa, nella sua diacronìa e nelle sue radici che succhiano linfa dalla vita (rectius: da quella vita). E’ potendo raccontare i desideri infranti, i legami affettivi violati o l’accumulo di ingiustizie subite (quando, per esempio, il reato cade in cima a precedenti esperienze disperate, quali la morte di una persona cara, una malattia, la povertà, la disoccupazione, ecc.) o la terribile sensazione di essere “superflui”, invisibili e fungibili e di contare meno delle cose (come nei reati contro il patrimonio), che l’offeso descrive al reo ciò che, in fin dei conti, quest’ultimo ha realmente fatto. E’ per il tramite di simili narrazioni delle verità personali che l’autore del reato può condividere i vissuti della vittima, riconoscendoli in modo non formale44.

Al contempo, nella compresenza simultanea del reo con la vittima, un programma di giustizia riparativa ospita anche i particolari esistenzialmente rilevanti portati dall’agente, i quali a loro volta rendono, non certo giustificabili, ma almeno un poco comprensibili i percorsi che hanno condotto costui a compiere (persino, nel caso del dolo, a volere) l’offesa colpevole di qualcun altro45.

Più un illecito è grave, e crudeli sono le sue conseguenze, più le parti – e ciò vale in special modo per le vittime – corrono il rischio di non essere credute quando cercano di raccontare cosa è successo e magari anche perché è successo. E’ forse per questo, dunque, che le esperienze indicibili di cui stiamo parlando paiono aver bisogno di essere comunicate a chi più di tutti può capire fino in fondo, perché c’era: la controparte. Il reo, la vittima e i loro familiari, e persino la collettività se il reato ha un impatto collettivo importante, sentono la necessità di comunicare la propria esperienza attraverso una condivisione. Se, come afferma Ceretti46, “non tutte le

                                                            44 Vedremo più avanti quanto il riconoscimento della verità e della propria responsabilità

da parte del colpevole sia importante per le vittime: cfr. infra, par. 4.1. 45 Invito a leggere l’interessantissima corrispondenza tra Sergio Lenci, scampato miracolosamente all’omicidio da parte di un gruppo di Prima Linea, e la donna del commando che lo ha aggredito: uno scambio epistolare che testimonia la durezza e gli ostacoli di ogni incontro tra colpevole e vittima, insieme a un reciproco rispetto del tutto singolare e a all'importanza, per vittime e reo, di innumerevoli particolari che restano insignificanti per il diritto penale, S. LENCI, Un colpo alla nuca. Memorie di una vittima del terrorismo, Bologna, Il Mulino, 2009.

46 A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia, cit., p. 715.

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sofferenze possono tradursi in una denuncia” perché “alcuni dolori” sono resi indicibili dall’“orizzonte dell’agire sociale … privo di appigli”, “la possibilità di denunciare pubblicamente una sofferenza è strettamente dipendente da una politica che prometta di porvi rimedio”: questo è il compito che si è trovata ad assumere la restorative justice.

1.2. “Il perdono si fa con le mani”47: le vie misteriose della riparazione.

La pena si sconta in una mortifera passività, la riparazione delle

conseguenze del reato, invece, si fa: invero essa abbisogna di volontarietà e commitment, come sottolineano a più riprese le fonti internazionali in materia48.

L’‘immaginario’ riparativo rende efficacemente l’idea del lavoro svolto in un programma di restorative justice: un’analisi di ciò che si è guastato – in altre parole un incontro con l’offesa perpetrata e i suoi effetti – e un successivo intervento per ‘aggiustare’, ‘ricucire’, sistemare.

Persino la vicenda più grave che produce eventi irreparabili offre pieghe misteriose in cui andare a scavare per trovare una maniera di testimoniare, fattivamente “in modo libero”49 – mediante un facere concreto, un fare con “le mani” – la comprensione non formale del disvalore dell’atto compiuto e dell’evento provocato.

Il proposito di riparare presuppone un ‘misurare’ la frattura e le distanze da riempire – proprio come i protagonisti de Il figlio dei fratelli Dardenne in una scena topica del film. Quando simile frattura appare incolmabile, perché irreparabile è la conseguenza del crimine, i cammini di riparazione scendono nei rivoli più intimi dove trovano i “ricordi vissuti” e le verità personali calamitate nelle sfumature. Anche l’atto riparativo, dunque, consiste a sua volta se vogliamo in un dettaglio che condensa su di sé e poi                                                             

47 L’espressione è di Norman GOBETTI (L'Indice, n. 1/2003, p. 27) e dà il titolo al testo di critica di un altro film estremamente significativo per i discorsi che qui stiamo conducendo: si tratta de Il figlio dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne (titolo originale, Le fils, produzione: Belgio, 2002). Per un bel commento a questa opera cinematografica, cfr. anche G. BERTAGNA, Il film si chiama ‘Il figlio’. Avrebbe potuto chiamarsi ‘Il padre’, in Dignitas – percorsi di carcere e di giustizia, n. 7/2005, p. 57 ss.

48 Volontarietà, ragionevolezza e proporzione caratterizzano la condotta riparatoria: tali sono i rigorosi criteri di garanzia posti dal CONSIGLIO D’EUROPA (Raccomandazione 99(19), § 31: “Agreements should be arrived at voluntarily by the parties. They should contain only reasonable and proportionate obligations”) e dall’ONU (Basic principles, § 13, lett. (c): “Neither the victim nor the offender should be coerced, or induced by unfair means, to participate in restorative process or to accept restorative outcomes”) a presidio della genuinità della restorative justice contro le distorsioni repressive sempre in agguato (v. infra nota 50). (Corsivi nostri).

49 Cfr. ancora CONSIGLIO D’EUROPA, Raccomandazione 99(19); ONU, Basic principles.

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veicola messaggi intraducibili, in apparenza insignificanti per chi non c’era, esattamente come insignificanti sono i gesti e gli sguardi dei protagonisti di un film o di un romanzo per lo spettatore dell’ultimo minuto o il lettore della sola ultima pagina.

Al crescere della gravità del crimine, cresce la natura simbolica (non materiale) della riparazione la quale si sposta significativamente verso un gesto che vorrebbe ripristinare non un prima irreversibilmente calato in un fatto ormai accaduto e quindi incancellabile, bensì una (pur gracile) fiducia inter-personale, decisiva per godere ancora di una qualche sicurezza.

La riparazione delle conseguenze del reato si fa – dicevo – e non si sconta. E la si fa per qualcuno: il gesto riparativo è il segno di un’avvenuta condivisione; è un’offerta che chiede di essere accolta, prima ancora che accettata. L’impegno riparativo presuppone un ‘volto’ cui essere ri-volto, all’interno di un singolare ‘scambio’ che assomiglia più al ‘dono’ che all’accordo negoziale e nulla ha, invece, del compromesso. La riparazione, sotto il profilo meta-giuridico che qui per ora ci interessa50, si iscrive in una logica che, in linea con la filosofia della restorative justice, genera una comunanza in grado di restituire dignità a chi dà e a chi riceve.

2. Dalla realtà del crimine alla politica criminale: domande di giustizia, democrazia ed etica pubblica.

La giustizia riparativa si ispira alla cultura della democrazia e dei diritti

umani: nel trattare le faccende penali, lo stile peculiare che la caratterizza sollecita a rinvigorire una sensibilità non ‘burocratica’ che mai si lascia abituare al male e alla sofferenza. Ecco forse perché i programmi di restorative justice hanno saputo, per ora, conservare un afflato ideale che ha permesso di non cadere nelle trappole tese dalle istanze neo-repressive51 (in                                                             

50 Rifletteremo sulle implicazioni giuridiche e politico-criminali della riparazione infra par. 4.4. 51 Tra le derive insidiose delle politiche repressive tanto di moda vi è anche quella

dell’intensificazione di misure penali nate originariamente come alternative all’afflizione retributiva: si pensi alla probation anglosassone che diviene intensive probation caratterizzandosi per contenuti e prescrizioni ben poco miti e più “ferree”, nonché per l’infittirsi dei controlli. Il meccanismo è descritto lucidamente da David GARLAND, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 2006, passim e, in particolare, p. 289 ss., laddove per esempio si spiega come si sia verificato “uno spostamento dall’orientamento assistenziale a quello punitivo” con conseguente esaltazione delle finalità “retributive, neutralizzative e deterrenti”, sicché “la probation non rappresenta più un’alternativa socialmente utile alla detenzione, ma è a tutti gli effetti una pena da scontare con il coinvolgimento della comunità” [corsivi nostri]. Per un’analisi dell’analoga evoluzione dell’istituto della probation in Gran Bretagna, alla luce di quella “punitive tendency” che pare caratterizzare il clima politico-criminale inglese degli ultimi decenni, cfr. in

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cui sono precipitate in pieno, al contrario, le teorie del controllo sociale) o negli eccessi e fughe in avanti delle pur importanti prospettive abolizioniste.

L’apertura alla realtà complessa del crimine, nella complementarietà e simultaneità di sguardo e racconto dei suoi protagonisti, non ha spinto a reclamare ‘più pena’, bensì ad attenersi a un modello dialogico, cioè a dire ‘democratico’. Del resto i concetti contenuti nelle definizioni internazionali di soft law e veicolati da termini quali “partecipare attivamente”, “insieme”, “consentire liberamente” “corrispondere a bisogni individuali e collettivi” sono propri della democrazia, mentre non altrettanto può dirsi per le associazioni mentali che propone il diritto penale tradizionale, con le sue pene ‘sofferte’ (come si dice nell’eloquente gergo penitenziario) e il loro carico di violenza e dolore.

Ciò è tanto più sorprendente, nell’epoca dei pacchetti-sicurezza e della tolleranza zero, se si considera il diffuso gradimento dei programmi di mediazione / giustizia riparativa da parte degli interessati e della collettività. Vari e ampi studi empirici condotti in diversi Stati degli USA – Paese ancora oggi saldamente ancorato alla sterile simbologia retributiva della pena di morte – segnalano con chiarezza che la collettività preferisce

                                                                                                                              sintesi A. GOODMAN, Probation into the Millenium: the Punishing Service?, in R. MATTHEWS – J. YOUNG (Eds.), The New Politics of Crime and Punishment, Cullompton – Portland, 2003, Willan Publishing, p. 199 ss. Le pratiche di mediazione reo-vittina non riescono ad essere immuni dai pericoli dell’intensificazione, come ci rammentano, fra gli altri, gli autori dei saggi raccolti da H. ZEHR – B. TOWES (Eds.), Critical Issues in Restorative Justice, Monsey N.Y., Criminal Justice Press, 2004 e, brevemente, M.S. UMBREIT – B. VOS – R.B. COATES – E. LIGHTFOOT, Restorative Justice in the Twenty-First Century: A Social Movement Full of Opportunities and Pitfalls, Marquette Law Rev., 2005, vol. 89, p. 251 ss. Il rischio non è ignoto neppure al nostro Paese e lambisce, indirettamente, anche la ‘nostra’ giustizia riparativa. Ne abbiamo già i primi segni, intercettati persino dalla Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. I, n. 400/2002; Cass. Pen., Sez. II, n. 1970/2003): mi riferisco, in particolare, a talune poco nobili prassi giurisprudenziali in ordine alla riparazione delle conseguenze del reato mediante forme imposte di volontariato e attività socialmente utili nell’ambito delle misure alternative, della sospensione condizionale della pena e persino della messa alla prova minorile. Sul punto, cfr. F. DELLA CASA, Affidamento al servizio sociale o (pura e semplice) “pay–back sanction”? Equivoci sul significato dell’art. 47 co. 7 O.p., in La legislazione penale, 2004, VI, p. 380 ss.; A. MARGARA, Al riparo dalla giustizia riparativa, in P. TRECCI – M. CAFIERO, Riparazione e giustizia riparativa. Il servizio sociale nel sistema penale e penitenziario, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 185 ss.; G. SCARDACCIONE, Le insidie della mediazione penale, in MEDIARES, n.1/2003, soprattutto p. 86 ss. Cfr., inoltre, le indicazioni correttive elaborate dalla Commissione di studio “Mediazione e giustizia riparativa” (Ministero della Giustizia/Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria), contenute nel documento Mediazione e Giustizia riparativa. Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti, Roma, 2005 (a firma di M.P. GIUFFRIDA; reperibile in www.giustizia.it). Sia consentito il rinvio a C. MAZZUCATO, Consenso alle norme e prevenzione dei reati. Studi sul sistema sanzionatorio penale, Roma, Aracne, 2005, p. 167 ss.

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l’incontro con il reo e/o una prestazione riparativa alla pena52. I consociati, insomma, riconoscono che l’anima al fondo della restorative justice ha molto più a che fare con le reali aspettative intorno alla giustizia che non gli interminabili processi penali con le loro risposte afflittive, sempre troppo gravi per chi le subisce, sempre incapaci di veicolare il messaggio circa il disvalore e la gravità del crimine per le persone offese.

Nella mia personale esperienza, posso testimoniare che, negli incontri di sensibilizzazione del cd. ‘territorio’ alle pratiche di mediazione dei conflitti svolti nel corso degli anni, ho sempre constatato quanto le persone restino ‘toccate’ da questo tema e siano capaci di accoglierlo favorevolmente – seppur esercitando una sana capacità critica –, a partire da una reazione tra quel tema e le esperienze di vita che hanno fatto. Mi sono più volte avveduta di quanto la proposta di ragionare sulla praticabilità di un percorso libero e volontario, dialogico e consensuale, riparativo e non punitivo, innescasse subito pensieri profondi e niente affatto scontati in cui raramente le istanze vendicative più superficiali e immediate potevano reggere il confronto con cammini di riflessione dalle radici esistenziali forti e condivise.

Una delle ragioni di simile interesse non formale per la restorative justice, nutrito dalla gran parte delle persone che mi è capitato di incontrare (dall’intellettuale al manager, dall’adolescente alla madre di famiglia, dal vigile urbano al sacerdote), risiede, a mio avviso, ancora una volta nel nesso tra pratiche di giustizia riparativa e verità. L’apertura alla realtà molteplice del crimine e il discernimento intorno alla verità sono decisivi anche per i                                                             

52 Tra gli studi più accreditati, ricordo qui, in particolare: M.S. UMBREIT, The Handbook of Victim Offender Mediation. An Essential Guide to Practice and Research, San Francisco, Jossey-Bass,2001, “Introduction”, xxxiv; K. PRANIS – M.S. UMBREIT, Public opinion research challenges perception of widespread public demand for harsher punishment, Citizens Council, Minneapolis 1992 e I. BAE, A survey on public acceptance of restitution as an alternative to incarceration for property offenders in Hennepin County, Minnesota, in H. MESSMER – H.U. OTTO (eds.), Restorative Justice on Trial: Pitfalls and Potentials of Victim-Offender Mediation. International Research Perspectives, Dordrecht, Kluwer, 1992, p. 291 ss. Nella stessa direzione anche L.W. SHERMAN, American Policing, in M. TONRY (Ed.), The Handbook of Crime and Punishment, Oxford – New York, Oxford University Press, 1998, p. 454: “ciò che appare chiaro è che le vittime trovano le conferences [un modello di giustizia riparativa, N.d.A.] molto più appaganti, e gli autori di reato le trovano proceduralmente molto più giuste” (trad. e corsivo nostri). Discute dell’effettività e dei risultati dei programmi di mediazione reo-vittima anche G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, cit., soprattutto p. 168 ss. (con riguardo all’esperienza anglosassone, con particolare riferimento – di nuovo – agli studi di Mark UMBREIT, Impact of Victim-Offender Mediation in Canada, England and the United States, in The Crime Victims Report, 1998 e ID., Minnesota Mediation Center Gets Positive Risults, in Corrections Today Journal, 1991, p. 194 ss.), p. 209 ss. (rispetto all’esperienza tedesca) e p. 224 ss. (per l’esperienza austriaca).

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cittadini non direttamente coinvolti nella singola vicenda criminosa. La collettività – sconcertata, colpita e offesa dal comportamento gravemente deviante o criminale – ricerca, infatti, la verità perché ha sete di spiegazioni non banali le quali possono, quanto meno, svolgere un’efficace azione riparativa dell’inquietudine prodotta dall’incontro con il male. Ciò che la gente comune trova, però, sono in definitiva le semplificazioni e le teorie spicciole dei mezzi di comunicazione di massa che hanno invece l’effetto opposto e, spesso, il malcelato obiettivo di solleticare le paure e stuzzicare la fascinazione del male per incollare alla notizia e fidelizzare lo spettatore. Si entra in una spirale nefasta e senza limiti che instilla e istiga bisogni emotivi di vendetta, i quali si traducono in richieste sociali sempre più punitive cui di certo la demagogia politica e il diffuso populismo non restano insensibili53. Si osservi che la banalizzazione retorica54 propugnata dai mass media è l’esatto contrario del lavoro approfondito, serio – finanche severo – e al contempo ‘compassionevole’, condotto in un incontro di giustizia riparativa tra reo, offeso e – volendo – comunità allargata. L’ingranaggio mediatico – ci ricorda Gabrio Forti nell’introdurre un ampio lavoro a più voci su crimine e televisione – tende a rimuovere “il pensiero e il discorso”, rendendo l’informazione e i suoi effetti sul pubblico “dis-umane”, se con umano intendiamo, insieme a Hannah Arendt (e di nuovo con Forti), un mondo che “diviene oggetto di discussione”55. La restorative justice promuove un’opera corale, eppure ‘intima’ e rispettosa, di discesa nelle profondità (nella verità) del reato come vicenda storica e individuale,

                                                            53 Riflette fra l’altro sulle implicazioni politico-criminali dei mezzi di comunicazione,

anche in rapporto alla loro funzione ‘selettiva’, di “filtro” e “custodia”, delle notizie, M. BERTOLINO, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato, in G. FORTI – M. BERTOLINO (a cura di), La televisione del crimine, Milano, Vita & Pensiero, 2005, p. 191 ss. Si è occupato del tema anche C.E. PALIERO, La maschera e il volto (Percezione sociale del crimine ed “effetti penali” dei media), in Scritti per Federico Stella, a cura di M. Bertolino e G. Forti, Napoli, Jovene, 2007, p. 289 ss. (particolarmente rilevanti per le nostre riflessioni, le parti relative agli “attori” – autori, vittime, agenzie del controllo: p. 327 ss. – e al diritto penale come “sistema di comunicazione” e di “definizione assiologicamente orientata della realtà”: p. 311 ss., passim).

54 “La conoscenza e l’opinione pubblica intorno alla giustizia penale si fondano su rappresentazioni collettive più che su un’informazione accurata”: D. GARLAND, La cultura del controllo, cit., p. 268.

55 G. FORTI, Introduzione, in G. FORTI – M. BERTOLINO, La televisione del crimine, cit., p. XVI (e ivi cit. H. ARENDT, trad.it., L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, pubblicato in trad. it. in ID., Antologia. Pensiero, azione e critica nell'epoca dei totalitarismi, a cura di P. Costa, Milano, Feltrinelli, 2006, nonché, con il titolo L’umanità in tempi bui, Milano, Raffaello Cortina, 2006).

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con i suoi essenziali “interstizi interpersonali”56 per trasformarla proprio in “oggetto di discussione” partecipata (da estendere, al limite, ad un gruppo anche ampio): l’approfondimento di questa verità, però, non fa notizia, per usare un’espressione di Ceretti. La cronaca invece offre un “flusso continuo di parole che tornano ossessivamente identiche” e finiscono per diventare “ovvie”, trasformando l’ovvietà “distorta” (a fini talvolta precostituiti) in verità, anzi in una “rivelazione oracolare”57, sottratta dunque, per principio, a ogni discussione.

Vi è di più, se – come scrive Ceretti con Garapon – “la pretesa [dei mezzi di comunicazione di massa] è addirittura quella di contendere alla giustizia la capacità di incarnare il luogo di visibilità della democrazia”58. E, infatti, le persone comuni tendono oggi ad abbeverarsi alla fonte dei mass media anche perché non cercano nell’operato delle istituzioni una guida per i propri interrogativi sulla giustizia. Né si attendono di regola che il diritto e i processi – sovente fuori dalla portata del cittadino qualunque – completino un cammino sentito realmente come giusto. Insoddisfazione e diffidenza, noncuranza e disfattismo paiono caratterizzare gli atteggiamenti diffusi nei confronti del sistema penale, la cui reputazione non è buona agli occhi delle vittime, dei colpevoli e della collettività.

Dell’enorme e farraginoso apparato messo in campo per rispondere al crimine, il nesso con la giustizia pare ridotto, in fin dei conti, solo al nome. Ma anche questo nome ha perso ogni significato simbolico, ogni efficacia motivazionale e così è andato perduto anche l’ultimo stimolo a ragionare insieme pubblicamente – come Stato e come collettività di uomini e donne – sul male, sulla sofferenza, sulla responsabilità e sul ‘che cosa’ occorre fare in reazione al crimine, senza perdere la bussola di una risposta democraticamente ispirata. Tra indifferenza, fastidio e repulsione verso l’ordinamento e verso l’istituzione chiamata ‘giustizia’, si fanno strada in modo prepotente le emozioni primitive – prima fra tutte la paura – e gli istinti più immediati e reattivi – primo fra tutti la vendetta.

Si reclamano sicurezza, ordine e severità. Ma nessuno spera più di trovare la giustizia.

                                                            56 A. CERETTI, Il caso di Novi Ligure nella rappresentazione mediatica, in G. FORTI – M.

BERTOLINO, La televisione del crimine, cit., p. 447. 57 Cfr., di nuovo, A. CERETTI, Il caso di Novi Ligure, cit., pp. 446-447, 449 (e ivi cit. G.

MORABITO, L’oracolo della giustizia. Il giudice dietro lo schermo, Milano, Franco Angeli, 2001).

58 Ivi, p. 448 (corsivo nel testo): l’A. riprende il pensiero di A. GARAPON, trad. it., I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia, Milano, Feltrinelli, 1997 (particolarmente p. 75 ss.).

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Ecco allora un altro scarto sorprendente realizzato dalla restorative justice: è stata presa istituzionalmente sul serio la domanda di giustizia59, accolta infine in modo ‘frontale’ e diretto, senza cioè essere diluita fino a scomparire in percorsi sfilacciati e distanti, che sono poi – per paradosso – interminabili scorciatoie fatte apposta per non incontrarla mai.

I programmi di restorative justice hanno avvicinato l’esperienza diretta dell’iniquità – mostrandola – e hanno dato ascolto diretto al grido, carico di profili esistenziali tanto alti quanto umanissimi e concreti, di chi agisce e subisce il male che diventa reato. Da qui sono partite nuove vie istituzionali di ricerca della giustizia, il cui primo merito è già quello di aver fatto parlare, nella sfera dell’etica pubblica, della virtù civica e relazionale per eccellenza “luogo di visibilità della democrazia” (la giustizia, appunto), senza tradirla con inutile aggressività punitiva.

E’ emblematico, al riguardo, il caso straordinario della Truth and Reconciliation Commission (TRC) del Sud Africa che, fra i molti pregi, ha quello di aver fatto parlare di giustizia addirittura il mondo intero. Non di un concetto astratto, tecnico o formale di giustizia, ma di quella misteriosa “aspirazione”60 che può mobilitare la vita fino in fondo, di quella “speranza”61 di cui strenuamente l’uomo ha fame e sete e che non sa più dove trovare. La TRC ha preso forma all’interno di un progetto politico e giuridico: è stata istituita con una legge penale e processuale che ha trasformato, per ciò solo, i linguaggi dell’ordinamento, ospitando parole decisive, come “verità”, “riconciliazione”, “perdono”, “memoria”, parole che le bocche dei giuristi raramente si trovano a pronunciare. Tra i concetti incorporati – anzi: costituzionalizzati – dal sistema sudafricano, vi è quello, intraducibile e insieme universale, di “ubuntu”, letteralmente ‘umanità’, ma a condizione di intenderla – spiega Lollini – in senso relazionale: ubuntu sottintende, invero, l’idea di comunità, di unità e quindi di riconciliazione e perdono, perché sottolinea quanto ciascuno è tale (anche) attraverso gli altri, da cui – per quanto scomodi, diversi e difficili siano – non può essere diviso, se non al prezzo di perdere anche la propria umanità. La TRC ha messo in atto un esempio unico e interessante di “politica pubblica”62 della sofferenza, per costruire la quale era indispensabile saper (ri)conoscere i

                                                            59 Immancabile il riferimento al dialogo fra Carlo Maria MARTINI e Gustavo

ZAGREBELSKY pubblicato per l’appunto con il titolo La domanda di giustizia, cit. 60 G. ZAGREBELSKY, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, in C.M. MARTINI –

G. ZAGREBELSKY, La domanda di giustizia, cit., p. 16, passim. 61 Ibidem. 62 Il riferimento è di nuovo ad A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia, p. 714 ss. (e agli

Autori ivi cit.).

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bisogni dei sofferenti e le lacerazioni esistenziali di un unico popolo diviso dal crimine di apartheid 63.

Sono personalmente convinta che, tra i vantaggi a lungo termine dell’esperienza sudafricana, vi sia il contributo all’innalzamento della cultura civica di quel Paese e della comunità internazionale in generale. Il Sud Africa si è fermato a ricercare, pur con fatiche e contraddizioni, un modello per superare un’esplosione collettiva di male, senza replicarla; in aggiunta ha evitato che quel modello venisse imbrigliato nella superficialità dei profili ‘gestionali’ (più forze dell’ordine, più pene, nuove carceri, linea dura, ecc.) per andare dritto al cuore di ciò che per gli esseri umani conta: la verità, il rispetto nel dolore, il bisogno di riconciliazione,… l’ubuntu.

La restorative justice, con la paradigmatica vicenda sudafricana, ha posto di fronte a una scienza giuridico-penale che si è lasciata permeare da ciò che è davvero importante per i destinatari delle norme. L’interesse per le pratiche di giustizia riparativa che si accende nel pubblico di un convegno, come pure nell’uditorio non esperto di una serata informativa a scuola, nella sala comunale o in oratorio, attiene precisamente all’accorgersi che, magari maldestramente e persino con qualche errore, si sta cercando sinceramente una forma di giustizia che tenda a mettere d’accordo, aspiri a non retrocedere rispetto ai punti fermi di una democrazia matura e, soprattutto, provi davvero a porsi al servizio di chi è coinvolto, senza lasciarlo solo con le proprie ferite e con ingestibili responsabilità.

Simile ricerca, a ben vedere, si rivela utile anche per le figure professionali che intervengono, a vario titolo, nel sistema penale. Costoro si trovano quotidianamente a contatto con la domanda di giustizia, con il dolore e i forti vissuti connessi all’esperienza della colpa e della vittimizzazione senza essere, di fatto, abituati a trattare gli onnipresenti risvolti filosofico-antropologici di tali situazioni e dovendo, anzi, usare nel gestirli gli angusti e astratti margini delle categorie giuridiche (intese per lo più in modo formalistico). Nel lavoro investigativo, processuale e sociale,

                                                            63 A. LOLLINI (Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della

Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Bologna, Il Mulino, 2005) discute del significato addirittura fondativo e “costituente” della Commissione Verità e Riconciliazione sudafricana e dei concetti che essa ha veicolato nella transizione (sostanzialmente) pacifica fuori dal regime dell’apartheid. Di particolare interesse, ai nostri fini, è la seconda parte (p. 161 ss.) del citato lavoro, nella quale l’A. conduce un’analisi ricca di spunti proprio intorno al rapporto diritto-linguaggio e al ruolo di orientamento culturale verso la tenuta dell’unità del popolo sudafricano svolti dalla costituzionalizzazione dell’idea di ubuntu (che reca pure quella di ‘patto’) e dall’avvio delle inedite pratiche di verità e riconciliazione della TRC. Degno di nota, per esempio, è il fatto che la Corte costituzionale del Sud Africa si sia avvalsa del concetto di ubuntu per dichiarare l’illegittimità della pena capitale (p. 247 ss.).

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l’esistenza con le sue ‘eccedenze’ pare precipitare dentro i binari di un diritto penale antiquato, distante dalla realtà e per di più invischiato nei formalismi, nelle procedure di routine e nell’inveterato problema del ‘carico’ giudiziario.

Ho sentito spesso, tra i giuristi e gli operatori sociali e delle forze dell’ordine, il desiderio di ritrovare un mondo che “diviene oggetto di discussione”, il desiderio di confrontarsi – prima di tutto come esseri umani con gli strumenti del pensiero – sui tormentati interrogativi dischiusi dalle vicende su cui essi devono indagare, giudicare e intervenire, senza rischiare ora l’assuefazione indifferente, ora un giustizialismo preoccupante, ora un legame umano comprensibile eppure (processualmente) improprio con le vittime, talvolta persino con le disgrazie dei colpevoli.

E’ indimenticabile al riguardo un momento del processo ad Adolf Eichmann, saggiamente selezionato dal bravo regista israeliano Eyal Sivan che, a partire dai materiali audio-visivi originali delle udienze, ha preparato il documentario dal titolo Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno64. Dopo il lungo e penoso alternarsi delle testimonianze in dibattimento, il presidente del collegio – figura interessantissima di giudice – redarguisce il pubblico ministero per aver dato indistintamente un grande spazio alle vittime sopravvissute i cui racconti in prima persona, intrisi di ‘memoria’ e ricordi toccanti, hanno portato nel processo il “linguaggio della poesia” – cioè il linguaggio della commozione e dell’umanità – ma hanno sviato il processo dai suoi fini precipui che non consistono nel riconoscimento delle persone offese e nell’ascolto delle loro terribili storie, bensì nell’accertamento delle imputazioni in ragione di una responsabilità personale dell’accusato (in specie) nella tragedia collettiva di milioni di persone. Nel processo di Gerusalemme – in sé estremamente problematico e controverso – in cui l’imputato deve rispondere di genocidio e crimini contro l’umanità per avere organizzato e contribuito a realizzare lo sterminio di milioni di ebrei d’Europa, lo spettatore esterno ha modo di vedere i limiti del sistema penale tradizionale alle prese con i “crimini che

                                                            64 Uno Specialista. Ritratto di un criminale moderno (1999), film di Eyal SIVAN,

produzione: Francia, Germania, Belgio, Israele, Austria, 1999. Scrive Roberto ESCOBAR recensendo il film su Il Sole 24Ore del 12.12.1999: “Sivan – documentarista nato a Haifa nel 1964 - e il cosceneggiatore Rony Braumann - nato a Gerusalemme nel 1950 e cofondatore di Médecins sans frontières – lo hanno realizzato con quel che resta delle registrazioni televisive del processo di Gerusalemme. Scegliendo e montando il materiale, 350 ore realizzate con 4 telecamere in 114 giorni di dibattimento, i due hanno seguito con intelligenza e efficacia l’interpretazione che del processo contro Eichmann diede appunto la Arendt, prima sulle pagine del New Yorker e poi nel suo Eichmann in Jerusalem”.

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non si possono né punire né perdonare”65. Nel commentare il film-documentario Roberto Escobar segnala che “non c’è accanimento pregiudiziale” contro questo imputato scomodo e indifendibile; come deve essere in ogni processo penale che si rispetti, “c’è anzi un sorprendente distacco critico, che ha come modello non il tono concitato dell’accusa ma, al contrario, la (eroica) terzietà dei giudici”: terzietà rispetto all’orrore grazie alla “sospen[sione del]le proprie emozioni” e all’offerta all’imputato di “quel diritto di parola che lui e i suoi capi non hanno dato alle loro vittime”66. Questa terzietà neutrale ha un costo umano altissimo per i giudici della Corte di Gerusalemme che le cineprese presenti nell’aula giudiziaria ci mostrano spesso con la testa tra le mani e con un bisogno di respirare a pieni polmoni, quasi per scrollarsi di dosso il peso insopportabile di quella neutralità.

L’esperienza della mediazione reo-vittima apre la porta al linguaggio della vita (non tanto della poesia), senza scalfire garanzie e diritti e muovendo in direzione contraria rispetto alle soluzioni repressive così in voga.

Il contesto dialogico-consensuale che caratterizza tali programmi, l’idea stessa di “partecipare attivamente insieme” ad un lavoro costruttivo sugli effetti distruttivi del reato in vista di un gesto di riparazione da offrire e ricevere in una reciprocità non retributiva iscrivono la mediazione reo-vittima e gli altri percorsi riparativi nella più rigorosa e matura realizzazione degli ideali democratici, senza perdere (e anzi guadagnando) in efficienza del sistema.

Si ricorre alla restorative justice, come si è visto, persino per far fronte agli intricatissimi problemi posti dai crimini internazionali, sui quali il (pur rilevante) sistema processuale e repressivo offerto dai tribunali ad hoc e dalla Corte penale internazionale si è scoperto piuttosto inefficace: ebbene, i validi interventi di restorative justice sui crimini più atroci e massivi hanno                                                             

65 L’efficace espressione si deve a Hannah Arendt ed è diventata il titolo di un bel libro di Antoine GARAPON (Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, Bologna, Il Mulino, 2004): “tutto ciò che sappiamo è di non poter né punire né perdonare tali crimini, che quindi trascendono il dominio delle cose”. Nel carteggio con Karl Jaspers, la Arendt afferma inoltre che “simili delitti non sono più concepibili dal punto di vista giuridico, e proprio in ciò sta la loro mostruosità. Per delitti di tal fatta non c’è più alcuna punizione adeguata… Insomma, questa colpa, diversamente da ogni altro crimine, sopravanza e infrange qualsiasi ordinamento giuridico…”: A. DAL LAGO (a cura di), Hannah Arendt– Karl Jaspers Carteggio 1926-1969: filosofia e politica, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 67. 66 R. ESCOBAR, Il Sole 24Ore, cit. Particolarmente dense e significative sono le pagine di DI CHIARA in sui si spiega che, nell’economia delle garanzie processuali, “non basta che il giudice sia distino dalle parti; occorre altresì che sia distante e, anzi, equidistante da esse. […] l’equidistanza è lontananza (sine spe nec metu) dalle parti e dagli specifici interessi coinvolti nel processo” (corsivo nostro), G. DI CHIARA, Diritto processuale penale, cit.

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dimostrato come l’obiettivo della sicurezza non sia affatto antitetico rispetto ad una fedeltà politico-giuridica alle indicazioni democratiche.

Sono confortanti altresì i risultati delle prime ricerche sulla recidiva67 (nel caso dei reati comuni), a riprova proprio del fatto che la sicurezza non viene messa in pericolo dall’umanità di un modello mite capace di proporre dialogo laddove hanno parlato e agito la forza o l’indifferenza, né è messa in crisi da una “politica pubblica” concretamente sensibile alla sofferenza e attenta a rifondare i legami di fiducia spezzati dalla ‘irregolarità’ (o ‘sregolatezza’) del crimine che, stando alle ‘regole’, non avrebbe dovuto aver luogo68.

L’ennesima novità dispensata dalla restorative justice è, dunque, di natura politico-criminale. Le pratiche di mediazione e giustizia riparativa, gradite – come si è detto – persino all’opinione pubblica solitamente protesa verso il ‘pugno di ferro’ e la ‘linea-dura’, insegnano e sollecitano una straordinaria coerenza tra i principi costitutivi di una democrazia e le politiche anti-crimine.

3. (Segue). Per una politica criminale “decente”, anzi dignitosa.

Tra gli innumerevoli spunti ‘democratici’ offerti da mediazione reo-

vittima e pratiche analoghe, vi è la sollecitazione a immaginare senza retorica che (anche) la politica criminale diventi strumento di premura per la dignità delle persone69; vi è il pungolo a ragionare su una relazione possibile tra il diritto e il ‘prendersi cura’ delle vittime70 e dei colpevoli,                                                             

67 Cfr., per es., W.M. NUGENT - J. PADDOCK, The Effect of Victim-Offender Mediation on Severity of Reoffense, in Mediation Quarterly, 1995, 12, p. 353 ss.; W.M. NUGENT - M.S. UMBREIT - L. WIINAMAKI - J. PADDOCK, Participation in Victim-Offender Mediation and Severity of Subsequent Delinquent Behavior: Successful Replications?, in Journal of Research in Social Work Practice, 2001, 11(1), p. 5 ss.; W.M. NUGENT - R.M. WILLIAMS - M. S. UMBREIT, Participation in Victim-Offender Mediation and the Prevalence and Severity of Subsequent Delinquent Behavior: A Meta-Analysis, in Utah Law Review, 2003(1), p. 137 ss.

68 Il tema è ripreso infra par. 4.1. 69 Devo questa mia riflessione sul rapporto tra diritto, cura e premura ai frutti di un dialogo

con vari studiosi ed esperti (Adolfo Ceretti, Viginio Colmegna, Leonardo Lenzi, Livia Pomodoro, Giovanni Tarzia), nell’ambito del laboratorio di progettazione dei Corsi dell’Accademia della Carità (Casa della Carità, Fond. A. Abriani di Milano) tutti dedicati, nell’anno 2007, proprio al tema del “prendersi cura”.

70 Significativo, al riguardo, il titolo del Ninth International Symposium of the World Society of Victimology (Amsterdam, 1997) e dei relativi proceedings: Caring for Crime Victims, J.J.M. VAN DIJK – R.G.H. VAN KAAM – J.A.M. WEMMERS (Eds.), Monsey New York, Criminal Justice Press, 1999 (da notare la presenza di una sessione dedicata a Victims’ Bill of Rights and Mediation, p. 83 ss.). Per un’analisi dei necessari intrecci tra la protezione del minore -vittima, in quanto soggetto “debole”, e il sistema dei suoi “diritti fondamenatali”, si

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secondo i diversi bisogni e contesti (e senza, ovviamente, surrogare le figure informali-affettive tanto preziose per il pieno sviluppo della personalità di ciascuno).

Se compito di uno Stato costituzionale è quello di “porre la dignità della persona, la persona dunque, al centro di qualsiasi discorso pubblico”71, è difficile negare che il diritto non abbia precisamente funzioni ‘premurose’ (mai pervasive o straripanti – lo ripeto). In estrema sintesi e in generale, l’ordinamento giuridico offre premura attraverso il riconoscimento, la garanzia e la tutela dei diritti inviolabili, così come mediante la predisposizione di un sistema solidaristico di protezione rafforzata degli individui (a vario titolo) deboli. L’ordinamento è poi senz’altro chiamato a prendersi cura dei legami sociali grazie a norme ‘programmatiche’, delineate dalla Costituzione, che indicano una direttrice politico-culturale alla società intera in vista dei compiti promozionali e protettivi che le competono.

Il sistema giuridico di uno Stato democratico-costituzionale si prende cura, infine, della sussistenza stessa del vivere civico, veicolando per primo un’elevata cultura civica e proponendosi come forma tangibile di un vero e proprio legame o ‘patto’ di fiducia inter-soggettiva, nel quale riconoscersi in una comunanza basilare e irrinunciabile, al di là della ricchezza, in un mondo plurale, di differenti idee, convinzioni, culture, etnie, appartenenze ecc.

La capacità di prendersi cura finisce per essere il biglietto da visita di un ordinamento democratico-costituzionale. Insomma: lungi dall’essere un insieme di imperativi cui ubbidire, muniti di sanzioni negative per i casi di inosservanza, il diritto è ancorato su doveri di cura, giocati in forma propositivo-promozionale. Laddove ciò non avviene c’è da dubitare del carattere realmente democratico delle istituzioni e c’è da sospettare di trovarsi in una società ben poco “decente”, per usare un’efficace espressione di Avishai Margalit72.

Una società è “decente”, secondo Margalit, quando riesce a non umiliare le persone. L’umiliazione è l’opposto del prendersi cura: una indecent society è il contrario di una caring society, di una società giuridicamente dignitosa e premurosa. Si osservi che il sociologo israeliano sceglie                                                                                                                               veda M. BERTOLINO, Il minore vittima di reato, Torino, Giappichelli, 2010³; ID., Il reo e la persona offesa. Il diritto penale minorile, in Trattato di diritto penale (parte generale) diretto da C.F. GROSSO – T. PADOVANI – A. PAGLIARO, vol. III, t. I, 2009.

71 G. FORTI, Tutela ambientale e legalità: prospettive giuridiche e socio-culturali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 1362.

72 A. MARGALIT, trad. it., La società decente, a cura di A. Villani, Milano, 1998 (su cui cfr. i commenti in tema di mediazione dei conflitti di A. CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, in SCAPARRO, Il coraggio di mediare, p. 65 ss.).

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acutamente proprio il sistema penale quale “cartina di tornasole” del grado di decenza, di non umiliazione, di una certa società: afferma infatti che “una società decente si prende cura della dignità dei suoi colpevoli”73. In verità, la distanza che separa oggi il diritto e la politica criminali dalla nozione di premura appare enorme, tanto che quasi scandaloso è accostare fra loro questi termini.

Si noti che le società indisponibili alla solidarietà e a interventi istituzionali di ‘premura’ sono solitamente inclini a domandare risposte emarginanti e aggressive nei confronti dei loro membri problematici e scomodi, nei cui ranghi campeggiano gli autori dei crimini, specialmente comuni e di strada. Le dinamiche di esclusione sociale, di cui sono (parzialmente) responsabili le stesse istituzioni, non ultima la ‘giustizia’, si saldano alla “cultura del controllo”, allontanandoci in modo sinistro da una società (almeno) “decente”.

La restorative justice e, in generale, tutti i modelli consensuali di giustizia che mirano alla gestione dialogica e non distruttiva dei conflitti possono persino (provvisoriamente e in attesa di qualche cosa di meglio) essere presi ad esempio di un sistema ‘dignitoso’ e vicino, capace di ascoltare i bisogni reali delle persone, invocando forme diverse (non afflittive) di responsabilità.

Le pratiche che qui stiamo analizzando aspirano a mantenere, anche dopo il reato, un atteggiamento di premura verso la vittima – destinataria di supporto fattivo e concreto aiuto al reinserimento sociale –, ma anche verso il reo dal quale attendersi un proposito di rispetto delle norme (e delle persone) nel futuro, grazie all’offerta di sperimentare un percorso riparativo dignitoso (e, ancora una volta, in nulla giustificazionista).

Che alle vittime sia dovuta premura è questione ampiamente condivisa (almeno sulla carta) e la si annovera tra gli scopi nobili del diritto penale74. Lo è meno, invece, che la premura riguardi i criminali, perché costoro non la ‘meriterebbero’. Non si tratta, invece, di un afflato umanitario buonistico, fastidioso per tutti, retorico e, in fin dei conti, discriminatorio verso le persone offese: la premura e la dignità che un sistema “decente” deve garantire ai suoi colpevoli è motivata dalla coerenza, senza essere disgiunta                                                             

73 A. MARGALIT, La società decente, cit., pp. 269, 275. 74 “Il nostro ordinamento (ordinamento di uno ‘Stato sociale di diritto’) è informato al

principio di solidarietà, che entra in bilanciamento con gli altri ed in particolare con quello di sussidiarietà, imponendo di non affidare la salvaguardia dei beni ritenuti meritevoli di tutela penale alla sola iniziativa dei loro titolari, abbandonando questi ultimi, per dir così al loro destino (e ciò anche laddove siano senz’altro in grado di difenderli”): A. DI MARTINO, Voce della vittima, sguardo della vittima (e lenti del diritto penale), in E. VENAFRO – C. PIEMONTESE, Ruolo e tutela della vittima, cit., p. 193 (corsivo nostro).

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dall’‘orientamento alle conseguenze’ caratteristico di un modello che ha preso definitivo commiato da istanze vendicative ‘assolute’ o da derive punitive che strumentalizzano il singolo a presunto vantaggio della difesa della collettività. Queste ultime, cioè a dire le politiche repressive “indecenti” – retribuzione, neo-retribuzione, deterrenza, neutralizzazione, funzione ‘pedagogica’ della pena –, riproducono e ‘doppiano’ sul reo il male che gli si vuole contestare, finendo per trascurare le vittime stesse, posta la rilevanza centrale – in un sistema di tal fatta – di chi deve essere punito (non di chi deve essere protetto), e finendo altresì per impedire un vero re-indirizzarsi del reo verso la conformità.

E’ come se, invece, la restorative justice inducesse il colpevole a una presa di distanza dal gesto criminale, avendo dato – per prima – il buon esempio, grazie alla messa in atto di un percorso che dilata al massimo, con il suo messaggio e le sue modalità concrete, la differenza con il reato medesimo, abbandonando la forza e la costrizione e cominciando invece a far saggiare la vera consistenza della democrazia.

In ultima analisi, la restorative justice vuole consentire un’esperienza di giustizia che a sua volta sia in grado di far crescere un suo piccolo e quotidiano prolungamento nelle esistenze dei diretti interessati. 4. Insegnamenti penalistici a partire dall’esperienza della mediazione reo-vittima e della restorative justice: verso una riconfigurazione delle teorie e degli scopi del diritto penale?

Nelle pagine precedenti, l’impatto con la realtà criminale quale emerge

dalle pratiche di restorative justice, ci ha fatto “accorge[re] di dover ragionare con categorie di pensiero completamente nuove, che possono addirittura portare a disegnare una nuova geometria della giustizia”75.

Adattando ai nostri fini, con le dovute proporzioni, la vibrante riflessione della Arendt su “banalità del male” e “profondità del bene”76, quel che la restorative justice promuove (e attende) è, in certo senso, un

                                                            75 G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, cit., p. 11. 76 Nella famosa lettera del 1963 in risposta a Gershom Sholem, Hannah Arendt scrive: “ho

cambiato parere e non parlo più di ‘male radicale’. Oggi il mio parere è che il male non sia mai ‘radicale’, che sia solo estremo, e che non possieda né profondità né dimensione demoniaca. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero precisamente perché si propaga come un fungo. Esso ‘sfida il pensiero’ perché il pensiero cerca di attingere alle profondità, di pervenire alle radici, e dal momento in cui si occupa del male, viene frustrato perché non trova niente”: H. ARENDT – G. SCHOLEM, trad. it., Due lettere sulla banalità del male, Roma, Nottetempo, 2007, p. 36. Per un supplemento di riflessione al riguardo, in ordine al tema che ci interessa, cfr. F. STELLA, La giustizia e le ingiustizie, cit., p. 201 ss.

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diritto penale che metta, con rigore, le radici nella profondità del pensiero, onorando sapientemente i propri limiti77 ed evitando quindi ogni aspirazione assoluta (aspirazione che sarebbe peraltro una disumana fuga proprio dal pensiero). Sicura di non essere fraintesa, mi spingo a dire che il diritto penale tutto condensato attorno alla pena – cioè al male – ha peccato di banalità. E dire che la visione liberal-democratica, dapprima, e poi costituzionale del sistema era – ed è – tutt’altra: profonda e ricca di pensiero.

Anticipando le conclusioni, scopriremo nelle pagine che seguono che le novità dischiuse dall’esperienza della mediazione reo-vittima e dagli altri programmi riparativi si pongono sorprendentemente in linea con i princìpi più alti della migliore tradizione giuridica e, anzi, li estendono reclamando un rinnovamento che fa tesoro degli ideali disegnati dalla Carta e dalla giurisprudenza costituzionali, nonché dei nobili conseguimenti di certa dottrina.

Se sul fronte dei princìpi fondamentali, della teoria generale e della struttura del reato, le pratiche che qui discutiamo finiscono per vivificare e nutrire i risultati liberal-democratici e costituzionali già raggiunti, illuminandoli semmai di una consapevolezza arricchente, lo stimolo a un cambiamento di rotta riguarda soprattutto il sistema sanzionatorio e, più ampiamente, il nesso tradizionale tra il diritto penale e l’idea del punire (legata per lo più, ancora, allo strumento terribile della privazione della libertà).

Con l’armamentario delle sue pene, via via inasprite dalle politiche repressive (eppure sempre incapaci di saziare la richiesta di sicurezza), il sistema sanzionatorio che usa intimidazione, gabbie, muri, ferri, blindi, braccialetti elettronici e manette ha ben poca somiglianza con i beni giuridici che i precetti penali vorrebbero proteggere o con le disperate vicende umane che li incarnano, mentre assume fattezze prossime ai reati che mira ad impedire. Emblematico il caso della pena di morte e, in generale, tutta la retorica retribuzionista nelle sue nuove o antiche versioni. Neppure la tradizione giuridica dell’illuminismo è riuscita a sciogliere il nodo che stringe questo ramo – così importante e irrinunciabile – dell’ordinamento alla natura “atroce”78 delle pene che da sempre lo accompagnano; semmai quella tradizione di garanzie e di aperture alla dignità umana ha condotto (e non è poco) a contenere (idealmente)

                                                            77 Riprendo il titolo da P. RICARDO, trad. it., Onora il tuo limite. Fondamenti filosofici

della terapia dell’imperfezione, Assisi, Cittadella, 2004. 78 “La pena – la più dura e distruttiva sanzione utilizzabile dal legislatore – è ciò che

caratterizza il diritto penale rispetto agli altri settori dell’ordinamento”: G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I, Milano, Giuffrè, 2001³, p. 5 (corsivo nostro).

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l’inflizione deliberata di una sofferenza al colpevole entro i limiti dettati dall’extrema ratio, dall’“amara necessità”79.

Alla luce del nuovo paradigma, si consuma invece la (ulteriore) presa di distanza dalla “visione del reato come fatto necessariamente punibile […], sul quale incombeva la minaccia plumbea ma ‘giusta’ della sanzione retributiva, e che rendeva inconcepibile una definizione di reato separata dalla punibilità”80. Il modello cui facciamo riferimento valorizza un portato del dibattito penalistico e cioè che la punibilità “non ufficializza”, “non consacra”81 il reato. Insomma: un reato ‘c’è tutto’ anche senza la pena (come sanno, purtroppo, le vittime!), cosa che ci fa intravedere che il compito del diritto penale sta ‘tutto’, o sta per la maggior parte, dentro la previsione dei comportamenti offensivi82, cui si accompagna – nell’ipotesi in cui vengano posti in essere – una risposta significativa (e non afflittiva), lungo una coerenza con i (anziché una smentita dei) beni protetti83. Il reato si divincola dalla pena: in tal modo, sul piano politico-criminale, lo stesso diritto penale si divarica da quest’ultima, cessando di essere caratterizzato dall’arsenale sanzionatorio che lo rende odioso e distante.

Nell’economia della restorative justice, emerge in modo nitido la sottolineatura del precetto penale, in cui abita l’indicazione della condotta offensiva da evitare, piuttosto che della pena di cui, nel quadro riparativo, si può – al limite anche del tutto – fare a meno.

                                                            79 L’espressione è di D. PULITANÒ, Politica criminale, in G. MARINUCCI – E. DOLCINI,

Diritto penale in trasformazione, Milano, Giuffrè, 1985, p. 51 (successivamente anche, con modifiche, in Enciclopedia del diritto, Vol. XXXIV, Milano, 1985, p. 96 ss.).

80 Così M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, Cedam, 1996, p. 410. 81 M. ROMANO, Teoria del reato, punibilità, soglie espresse di offensività (e cause di

esclusione del tipo), in Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit., p. 1725. 82 “Il momento non solo cronologicamente, ma anche logicamente e funzionalmente

primario del diritto penale in quanto diritto è quello della previsione dei reati, della comunicazione, della diffida, quello insomma della prevenzione”: M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I (Art. 1-84), Milano, Giuffrè, 2004³, sub “Pre-art. 1”, p. 11.

83 Sul rapporto di coerenza che dovrebbe sussistere tra le norme penali e i beni protetti e sul conseguente interesse a enucleare distintamente ‘principi’, ‘precetti’, ‘sanzioni’ (positive) e ‘pene’ (o sanzioni negative) in diritto penale, in ragione del loro diverso atteggiarsi – dialogico o aggressivo – verso il cittadino, sia consentito, per l’ulteriore approfondimento e i riferimenti bibliografici, il rinvio a C. MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti. Il lungo cammino del diritto penale incontro alla democrazia, in I. MARCHETTI – C. MAZZUCATO, La pena ‘in castigo’. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano, Vita&Pensiero, 2006, p. 3 ss.; C. MAZZUCATO, Consenso alle norme e prevenzione dei reati, cit.

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Per un mediatore-giurista, quale è chi scrive, la lezione fondamentale sta tutta qui: nella visione di un diritto dei crimini (rectius: di un diritto dei precetti per prevenire i crimini), prima che di un diritto delle pene84.

La dimensione giuridico-precettiva è saliente in un incontro reo-vittima (reo-vittima-collettività): la giustizia riparativa si pone, infatti, come subito vedremo, “all’insegna della legge”85 con la possibilità di sperimentare un momento ‘unico’ di prevenzione generale e speciale “mediante consenso”86, cioè senza la (centralità della) pena. Invero, il tema del consenso è l’ulteriore insegnamento che il diritto penale può trarre dai programmi di giustizia riparativa i quali, lo abbiamo ribadito di continuo, si svolgono su base libera, volontaria e consensuale.

I due profili – i precetti comportamentali e il modello del consenso – sono in realtà un’unica trama democratica (ispirata alla Costituzione), tessuta nell’ordito del sistema penale.

In tal modo la restorative justice riesce a riconfigurare le tradizionali teorie, assegnando al diritto penale scopi più raffinati. Reagendo alle novità, l’antica distinzione tra teorie ‘assolute’ e ‘relative’ cede il passo a una nuova tassonomia in cui è centrale, intanto, una ‘scienza penale integrata’ di lisztiana memoria (e non solo il diritto ‘del punire’) e in cui, per altro verso e messa da parte la centralità della pena, gli scopi si ri-coagulano attorno

                                                            84 I limiti del presente lavoro non ci consentono di entrare nel merito di una questione

delicatissima, oggi assai drammatica: il contenuto dei precetti e la loro giustizia. Talune infelici scelte di criminalizzazione in astratto, per esempio in materia migratoria, ci hanno restituito precetti penali poco o nulla costituzionalmente orientati. Non è qui possibile, insomma, affrontare il principio di legalità dal versante dei criteri di legittimazione democratica che dovrebbero presiedere alla normazione penale: si rinvia alle recenti riflessioni svolte da G. FIANDACA, Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 36/2007, II, p. 1247 ss.

85 L’espressione è di A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia, cit., p. 761 (corsivo nostro).

86 La significativa dialettica forza/consenso è discussa, in seno alla dottrina penalistica e in prospettiva politico–criminale, soprattutto da L. EUSEBI di cui si vedano, fra gli altri, La pena “in crisi”, cit., p. 47 ss.; ID., La riforma del sistema sanzionatorio penale, cit., p. 11 ss. (e particolarmente pp. 47–50); v. anche supra nota 14. Sul rapporto tra diritto penale e consenso, anche sotto il profilo del grado di consenso-gradimento verso il sistema vigente e non solo riguardo al tema dell’osservanza per consenso delle norme penale, cfr. altresì C.E. PALIERO, Diritto penale e consenso sociale e E. MUSCO, Consenso e legislazione sociale, entrambi in Verso un nuovo codice penale. Itinerari – problemi – prospettive, Milano, Giuffrè, 1993, rispettivamente pp. 151 ss., 167 ss.; M. ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, in Jus, 1985, p. 413 ss.. Per alcuni profili critici e per diverse proposte di “convivenza” tra diritto penale e giustizia riparativa alla luce delle logiche ripartivo-consensuali introdotte da quest’ultima, cfr. F. GIUNTA, Oltre la logica della punizione, cit., p. 353 ss.

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alla variabile del consenso nel rapporto consociato-norma (dunque alla variabile di una maggiore o minore gradazione ‘democratica’).

Emergono così sistemi e politiche classificati in base alla matrice ‘repressiva’ o all’impronta ‘dialogico-consensuale’.

All’interno dei modelli repressivi sarà possibile rinvenire, accomunati fra loro, la retribuzione, la neo-retribuzione, la deterrenza e la neutralizzazione, cioè le ‘vecchie’ teorie assolute e le componenti ‘negative’ della prevenzione generale e speciale. Preciso che associo a tali componenti ‘repressive’ anche l’idea – nota come prevenzione generale ‘positiva’ – che vuole affidare alla pena un’“azione pedagogica” sulla società87. Sgombrando subito il campo da equivoci – favoriti da possibili assonanze linguistiche e dall’impossibilità, qui, di dare compiutamente conto del mio pensiero –, preciso fin d’ora che simile concezione del diritto penale non mi trova d’accordo. In verità, il modello politico-criminale cui si rivolge la giustizia riparativa è opposto a questo e non ne condivide la dimensione punitiva e il tenore eticizzante88.

L’uso della forza, il ‘mezzo’ intimidativo e/o punitivo, la centralità (ancora) della pena nelle sue modalità afflittive tradizionali sono il minimo comune denominatore di questo fosco scenario (cioè del modello che abbiamo chiamato ‘repressivo’).

Agli antipodi, e cioè al cuore del modello dialogico-consensuale, troveremo il ‘mezzo’ del consenso, i princìpi di garanzia e i precetti comportamentali racchiusi nel diritto penale, i quali sono in grado di innescare dinamiche motivazionali a sostegno di libere scelte conformi (dinamiche quanto mai lontane – si badi – dal moralistico rinforzo alla coscienza che deriverebbe dall’applicazione della pena, nell’ottica sopra

                                                            87 Per una recente sintesi di simile posizione, con gli opportuni riferimenti ai vari studiosi

che l’hanno elaborata e sostenuta (in primis G. Jakobs e, per certi versi, anche C. Roxin), cfr. S. CANESTRARI – L. CORNACCHIA – G. DE SIMONE, Diritto penale, cit., p. 58 ss.; cfr. inoltre, per es., G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli, 20077, p. 662 ss.; D. PULITANÒ, Diritto penale, Torino, Giappichelli, 2005, p. 24 ss.; M. ROMANO, Commentario, cit., sub “Pre-art. 1”, p. 14; con un taglio ‘empirico’, G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 137 ss. Si vedano inoltre DE VERO, L’incerto percorso e le prospettive di approdo dell’idea di prevenzione generale positiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 439 ss. (in particolare, ai nostri fini, cfr. soprattutto pp. 450-451) e, per più profili, C.E. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 849 ss.

88 Intendo fin d’ora chiarire, quindi, che nel seguito del presente lavoro farò riferimento sempre e solo alla parte precettiva e mite delle norme penali in funzione, questa sì, di orientamento culturale propositivo dei consociati, secondo l’impostazione fornita da EUSEBI, dapprima ne La pena “in crisi” e, da ultimo, in Profili della finalità conciliativa, p. 1109 ss., cit.

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criticata)89. Per la parte special-preventiva, il modello consensuale ospita, accanto alla risocializzazione ex art. 27 Cost., le nuove sfide prettamente dialogiche, rappresentate dalla riparazione e dagli altri programmi di restorative justice. 4.1. I precetti penali e il sentimento sociale della fiducia.

Il rovesciamento di sguardo propiziato dalla restorative justice mette al

centro del diritto penale la parte della norma che indica il comportamento atteso e al centro delle funzioni del sistema il compito di regolare consensualmente i rapporti tra le persone, prevenendo le offese più gravi grazie alla volontaria adesione, ex ante e ex post, ai precetti.

La pena, patita senza alcun coinvolgimento attivo da parte del colpevole, sta fuori dall’orizzonte o, almeno, non è più saliente.

Con la giustizia riparativa, dunque, ci si sposta dagli scopi e dalla teoria della pena (che per secoli hanno tormentato la coscienza dei penalisti), agli scopi e alla teoria del diritto penale (rectius: criminale) che non si caratterizza più, qui, per la sua atrocità, bensì per la rilevanza di ciò che intende proteggere e per il fine che persegue: additare i beni giuridici e segnalarne le modalità di offesa (per prevenirle e, semmai, ripararle).

Le mediazioni cui ho assistito mi hanno dispensato uno spunto istruttivo di riflessione intorno al significato stesso e ai compiti delle norme penali.

Gli incontri reo-vittima evidenziano una singolare coincidenza tra il rimprovero di colpevolezza mosso dall’ordinamento giuridico nei confronti dell’autore del fatto e la chiamata a rispondere che – più il reato è grave o

                                                            89 Una sapiente e graduale integrazione di profili consensuali-persuasivi e profili coercitivi

si rinviene nella teoria della responsive regulation di John Braithwaite e nella sua efficace resa grafica attraverso la “regulatory pyramid”, un modello “dinamico” che contiene il tentativo – riferisce l’Autore – di trovare il giusto equilibrio tra persuasione e sanzione (negativa): I. AYERS – J. BRAITHWAITE, Responsive Regulation: Transcending the Deregulation Debate, Oxford-New York, Oxford University Press, 1992; ancora più rilevante, ai fini di questo scritto, e vera ‘miniera’ di riflessioni pienamente consonanti con le idee proposte in questo scritto, è J. BRAITHWAITE, Restorative Justice and Responsive Regulation, Oxford-New York, Oxford University Press, 2002 (specialmente p. 30 ss.). In appendice, il lettore troverà un’altra ‘piramide’, contigua a quella di Braithwaite e Ayres, che intende mostrare le possibili corrispondenze politico-criminali tra modelli e teorie di diritto penale e dinamiche di osservanza o non (di compliance o non) ai precetti. La tavola di sintesi è seguita da un secondo schema grafico che aspira a mostrare, in un sol colpo d’occhio, il diverso atteggiarsi della norma penale (di principio, precettiva o sanzionatoria) nei confronti del destinatario della medesima.

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vissuto come tale – le vittime rivolgono, occhi negli occhi90, al reo nel corso di un incontro di mediazione. Torneremo a breve sull’argomento. Per ora, si osservi che quel rimprovero riguarda proprio lo scarto tra la ‘giustizia’91 – attesa fin dall’inizio e, a regola, scontata – e l’accadimento criminoso che tradisce l’aspettativa; cioè lo scarto tra la condotta ‘giusta’ (i.e. conforme a una regola frutto di un discernimento democratico “ultramaggioritario”92 sul bene – o sul “meglio”93 – comune, lungo le direttici di tutela della Costituzione) e l’evento che la smentisce.

Le esperienze di restorative justice, descritte in apertura di questo scritto, svelano quanto il reato abbia a che fare con il “tradimento”94 e come una parte del dolore provato dalle persone offese abbia la consistenza di un pungente e amaro stupore che induce ripulsa e muove all’indignazione. “Questo non avrebbe dovuto accadere”: ricorro ancora una volta ad Hannah Arendt95, con una citazione relativa in specie ai crimini più terribili, riguardo ai quali il mio ragionamento può apparire, per assurdo, più facile. Le vittime di reati gravi o gravissimi, per non parlare appunto delle vittime delle atrocità collettive e dello sterminio, attraversano “qualcosa con cui è impossibile scendere a patti”96, qualcosa che “nessun essere umano avrebbe mai dovuto vedere e conoscere”97. In un sistema democratico, in cui la lesione dei beni giuridici diventa offesa giuridicamente rilevante, quel ‘non avrebbe dovuto succedere’ non si fonda ‘solo’ 98 (e non è poco!) sull’amara                                                             

90 Rinvio, per cammini di riflessione che prendono il largo, al volume di R. ESCOBAR, La libertà negli occhi, Bologna, 2006. Il tema dello sguardo richiama quello del ‘volto’, altrettanto decisivo nell’ambito della giustizia riparativa, e da qui essenziale diviene il riferimento al pensiero filosofico di Emmanuel LÉVINAS, pensiero che tanto, per vie culturali non dirette, ha contribuito al consolidamento teoretico del nuovo ‘fare giustizia’ di cui stiamo discorrendo.

91 Uso questo termine in senso, insieme, provocatorio ed evocativo, riferendomi allo stesso concetto ‘problematico’ di giustizia di cui parla STELLA, La giustizia e le ingiustizie (al termine di numerosi capitoli del volume, chiusi con un paragrafo dal titolo Il problema della giustizia): la giustizia sta, prima di tutto, nel non fare ciò che può offendere e ledere gli altri. Non voglio invece segnalare una inaccettabile coincidenza tra giustizia e mera legalità.

92 Cfr. ancora G. FIANDACA, Legalità penale e democrazia, cit., p. 1253. 93 G. ZAGREBELKSY, Il “Crucifige!” e la democrazia, Torino, Einaudi, 1995, p. 110 ss. 94 Decisivi gli spunti offerti da A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia, cit., p. 793 ss.;

nonché ID., Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 57 ss. 95 H. ARENDT, trad. it., Archivio Arendt 1930-1954, a cura di S. Forti, Milano, Feltrinelli,

2001, vol. I, p. 49. 96 Ibidem. 97 I. ZERTAL, trad. it., Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Torino,

Einaudi, 2000, p. 53 e più ampiamente le riflessioni svolte dall’Autrice in tutto il cap. II, intitolato Memoria senza rammentatori (p. 50 ss.) e dedicato all’impensabilità e all’indicibilità del male subito dalle vittime della Shoah.

98 Rifletteremo nel par. 4.2. intorno al risvolto della medaglia: per ora interessa osservare la norma nella sua componente mite e precettiva, poi – proprio come le parti di una mediazione

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constatazione del danno o sulla condivisione di un’umana esperienza (al limite persino su un sentire comune e naturale intorno a ciò che è giusto), si fonda altresì sulle norme chiamate a sancire mediante i precetti che quel qualcosa, appunto, non ha da accadere. Il reato fa ‘irruzione’ come un fattore che non avrebbe dovuto esserci, se solo si fossero tenuti i comportamenti caldeggiati dall’ordinamento e, di conseguenza, attesi dai consociati.

E’ già chiaro al lettore che qui viene in considerazione l’illecito non sotto il profilo della violazione formale della norma, intesa come comando cui piegarsi, bensì sotto il profilo democraticamente ben più pregnante dell’appello rivolto all’agente a seguire condotte non offensive, garantendo così che ciò che ‘non deve succedere’, non accada effettivamente.

I precetti giuridico-comportamentali sono, in fin dei conti, un poderoso generatore di fiducia perché rendono prevedibili i comportamenti altrui sulla base delle ‘regolarità’, cioè delle attese, socialmente condivise99.

Il diritto di una democrazia, strumento di premura, è anche strumento di fiducia, sentimento vitale che, insieme alla solidarietà, tesse i legami tra                                                                                                                               reo/vittima – ‘rovesceremo’ la regola per guardarvi dentro e scoprirvi la componente ‘tangibile’ e concreta, vale a dire l’offesa e il bene giuridico da proteggere. Non è qui possibile sviluppare le riflessioni suscitate dalla (interessante, ancorché non priva di qualche oscurità) prospettiva “comunicativo-simbolica” del “diritto penale del cittadino” – anche reo –, con il quale instaurare un “dialogo simbolico” in cui l’affermazione contraria alla norma “viene presa sul serio”: S. CANESTRARI – L. CORNACCHIA – G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, cit., p. 222-223; sull’opposto concetto di “diritto penale del nemico”, cfr. i lavori di M. DONINI, fra cui: Il diritto penale di fronte al ‘nemico’, in Scritti per Federico Stella, Vol. I, p. 79 ss. Per uno sguardo al confronto internazionale, cfr. i saggi raccolti da M. DONINI – M. PAPA (a cura di), Il diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, Giuffrè, 2007.

99 La letteratura sociologica riguardo al legame ‘norma-aspettativa’ e ai suoi effetti di ‘stabilità’ sociale è estremamente vasta e non del tutto assimilabile, nelle tesi sostenute, a quanto qui sto delineando; non può mancare il richiamo alle opere di Luhmann, il quale peraltro ha offerto, con le sue posizioni, un appiglio proprio alla prevenzione generale ‘positiva’ (mediante pena, non mediante consenso al precetto, come qui intendo sostenere in un ottica più ‘comunicativa’). Cfr. dunque N. LUHMANN, in trad. it., La fiducia, Bologna, Il Mulino, 2002; ID., Sociologia del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1977; ID., La differenziazione del diritto. Contributi alla sociologia e alla teoria del diritto, Bologna, Il Mulino, 1995; ID., Come è possibile l’ordine sociale, Bari, Laterza, 1985 (sulle tesi di Luhman, cfr. altresì C.E. PALIERO, Consenso sociale, cit., p. 853 ss.); e J. HABERMAS, trad. it., Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino, 1997; ID., trad. it., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini, 1996. Per una riflessione calata nel contesto della giustizia riparativa, cfr. A. MANNA, La vittima del reato, cit., p. 966 ss. Di grande interesse, anche per lo sviluppo successivo delle nostre considerazioni intorno ai precetti, sono altresì G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992 (soprattutto per la distinzione tra principi e regole) e la sterminata, recente, opera di L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Bari, Laterza, 2007 (soprattutto, nel vol. I, p. 217 ss., la parte intitolata I precetti, le prescrizioni, le regole).

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persona e persona. Il diritto consente di instaurare simile vincolo, cui non possiamo che consegnarci per vivere insieme, senza bisogno che gli altri ci siano noti, ci piacciano o siano a noi uniti dagli affetti.

Ciò vale massimamente, oserei dire, per il diritto penale precettivo il quale mira proprio a raccogliere, a beneficio di tutti, gli sgradevoli frutti di pregresse esperienze di ingiustizia altrui, riconoscendo in modo pubblico e autorevole che esse non hanno da ripetersi. Per fare ciò non servono le pene, le quali piuttosto ‘fanno accadere’ al reo all’incirca ciò che ‘non avrebbe dovuto accadere’ alla vittima. Né le pene rafforzano il precetto, giacché, rendendo di fatto male per male (nonostante gli scopi preventivi e le modalità applicative che oggi le accompagnano), di quest’ultimo esse smentiscono, incoerentemente, proprio la dimensione di tutela: così il reo esperisce la lama della ben nota “arma a doppio taglio” anziché il messaggio comportamentale che l’ordinamento gli rivolge. Appaiono pure controproducenti i pretesi effetti satisfattori associati da taluni alla pena: le risposte punitive sembrano infatti ‘stabilizzare’ – peraltro solo provvisoriamente – assai più le insidiose e poco nobili domande emotive di penalità, anziché la coscienza dei cittadini.

A ben osservare (e a saper ben ascoltare), la domanda della vittima non si appunta sulla punizione del colpevole, bensì su una legittima richiesta di ‘sicurezza’ intimamente dipendente dall’affermazione, come si è visto, che l’atto offensivo perpetrato non sarebbe mai dovuto accadere e non dovrà mai più accadere. “La reclusione dei condannati non ci ha mai restituito nulla, non è mai stata di consolazione” – scrive, infatti, Mario Calabresi – “contano di più le sentenze, l’impegno dello Stato a cercare la verità”100. Analogo bisogno è presente nella collettività allargata.

Come dopo ogni esperienza di tradimento, la ricucitura dei legami di fiducia ha bisogno di verità: al crescere della gravità (oggettiva o soggettiva101) del reato, le persone offese desiderano esponenzialmente che la verità venga non (tanto) scoperta, bensì riconosciuta. Ceretti fa notare come spesso tutti sappiano la verità: “perché allora questo bisogno di rendere esplicita la conoscenza? […] la risposta sta nella differenza tra il concetto di conoscenza e quello di riconoscimento. Si ha riconoscimento

                                                            100 M. CALABRESI, Spingendo la notte più in là, cit., p. 106. 101 I limiti di questo scritto non mi consentono di approfondire il tema della percezione

della gravità e del disvalore del fatto da parte dell’offeso, pertanto rinvio alle riflessioni svolte in C. MAZZUCATO, Consenso alle norme e prevenzione dei reati, cit., p. 187 ss.

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quando la conoscenza viene ufficialmente sanzionata ed entra, sotto forma di discorso, nella sfera pubblica, del dibattito pubblico”102.

Ma il processo penale, finalizzato all’applicazione di una pena, ottiene l’effetto opposto: verità e responsabilità entrano in un insanabile conflitto con la libertà, perché il sistema non ha trovato altro collante per edificare la giustizia, che la repressione. Il riconoscimento della verità (di cui tanto le vittime hanno bisogno) e la responsabilizzazione (di cui tanto – sul piano civico – avrebbe bisogno il colpevole, anche talvolta per mitigare il peso della colpevolezza) vengono ‘retribuiti’ con la perdita di uno dei “nostri beni più preziosi”103, in altre parole con una sofferenza da subire separati dal resto della comunità.

Si consuma così la più radicale distanza tra gli obiettivi (nobili) di un democratico sistema anti-crimine e i suoi risultati effettivi, in un vortice di violenza che replica se stessa, lasciando dietro il suo passaggio una società più repressa, mai una società migliore. Una volta compiuta la metamorfosi di una virtù (la giustizia) in un infernale congegno che fa del male – tanto che ce ne si può pure difendere (ed è un diritto costituzionale!) – e dal quale si tenterà di sfuggire, si è chiuso un cerchio vizioso che ora la restorative justice sta, però, cercando di riaprire virtuosamente.

Sono ancora i precetti penali ad essere di ausilio. Con questi ultimi – a differenza che con le pene, assai poco “comunicative”104 – si può lavorare consensualmente sull’offesa ai beni giuridici, sui beni giuridici stessi e sul rilevante impegno in direzione riparatoria che attende l’autore della condotta lesiva: ecco, in sintesi, l’opera interessante (soprattutto agli occhi del giurista) cui sono chiamate le parti di un programma di restorative justice. La riflessione sulla condotta antigiuridica colpevole è un passaggio chiave ineludibile di ogni percorso di mediazione reo/vittima, il ripristino della scelta di rispetto della norma violata ne è un esito fondamentale: l’“in-contro”105 con il precetto è dunque essenziale. Durante una mediazione le parti si confrontano spesso sulla doverosità, legittimità, correttezza dei comportamenti: certamente di quello criminoso posto in essere dall’agente, ma pure, poniamo (grazie alla libertà di scambio offerta dal programma), della reazione della vittima o del modo di comportarsi dell’uno e dell’altra successivamente al fatto. I percorsi di giustizia riparativa ospitano spesso

                                                            102 Così A. CERETTI, Quale perdono è possibile donare?, cit., pp. 35-36 (a Autori ivi cit.;

corsivi nel testo). 103 F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 8. 104 Sviluppare un’“idea comunicativa” del diritto penale: questo, fra gli altri, il monito di

K. LÜDERSSEN, trad. it., Il declino del diritto penale, Milano, Giuffrè, 2005, p. 24 105 A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia, cit.

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universali giuridici, per esempio il tema ‘è giusto’/‘non è giusto’; ‘è lecito’/‘non è lecito’, ‘è dovuto’/‘non è dovuto’. Le norme di cui si lamenta la trasgressione e di cui si pretende rispetto diventano in tal modo oggetto di discussione e di ‘scontro’: così facendo, però, le parti ‘lavorano’ sulle trame giuridiche dell’esperienza umana, prendendo posizione rispetto ad esse. Nella discussione, il diritto si fa vieppiù vicino e familiare. Siamo di fronte già a un risultato non trascurabile: la normatività (e la conformità) non rimangono su un piano formale, disgiunto dalla vita quotidiana, ma entrano poco a poco a farvi parte pienamente.

La norma viene dunque svelata nei suoi contenuti e compiti più importanti: all’interno di una mediazione, le parti non incontrano l’odiosità di un ‘comando’ sorretto da una ‘punizione’. Esse scoprono, mutuando un passo di Romano, che “il diritto penale ha per compito la tutela della persona umana nella società” non tanto con “la minaccia delle sanzioni e la relativa intimidazione, ma anche – e soprattutto – con le rappresentazioni dei confini della libertà dell’agire che diffonde e l’adeguamento spontaneo che suggerisce”106.

4.2. Il reato non è (solo) la violazione di una norma: il rilievo dell’offesa e l’afferrabilità dei beni protetti nelle pratiche di giustizia riparativa.

I programmi di giustizia riparativa non si fermano al pur rilevante – e

piuttosto inedito – dar cittadinanza a una concezione del diritto in cui sfuma la dimensione imperativo-repressiva a favore di un più democratico profilo precettivo-orientativo. Fanno qualcosa in più.

Nel lavorìo che le parti svolgono sulla vicenda criminosa, l’offesa contenuta nel reato non è ricondotta alla mera trasgressione formale della legge, anche perché per la vittima (e la collettività) – come dice Judith Shklar – è sempre “in gioco qualcosa di più di una regola infranta”107. Sono cruciali, piuttosto, la sostanza – pericolosa e lesiva – dell’agire anti-giuridico e la sostanza – utile e civile – dell’agire conforme. La cosa non è nuova e anzi rappresenta un prolungamento – o una concretizzazione – della tradizione giuridico-liberale che ha via via configurato un modello di illecito penale centrato sull’offesa ai cd. beni giuridici108.

                                                            106 M. ROMANO, Commentario sistematico, cit., sub “Pre-art. 1”, p. 9. 107 J.N. SHKLAR, trad. it., I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, Milano,

Feltrinelli, 2000, p. 21. 108 La letteratura penalistica in argomento è vastissima. Non potendo qui dar conto di uno

dei temi più rilevanti di tutto il pensiero penalistico moderno, mi limito ad alcune opere istituzionali: G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, cit., pp. 5 ss., 160 ss.; G. MARINUCCI –

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La riflessione prende vie inesplorate, però, quando simile concretezza offensiva, simile sostanza è richiamata – “all’insegna”, appunto, “della legge” – agli occhi stessi del trasgressore con modalità dialogiche, non punitive, al fine di motivare in costui l’adesione spontanea alla norma. Ciò è reso possibile dalla dinamica inter-personale che si instaura in mediazione. La vittima e l’autore dell’offesa sono (entrambi) portatori storici e reali dei beni cristallizzati e protetti in via generale e astratta nei precetti normativi. Le norme penali – come insegna la riflessione giuridica più accorta – non proteggono ‘astratte’ nozioni di beni, bensì entità reali “capaci di essere offese nel singolo caso concreto”109.

Alla luce di quanto descritto nella prima parte, si comprende meglio ora che l’offesa di cui parla la tradizione penalistica è un fatto “tangibile, empirico, sperimentato e sperimentabile”110 e il bene giuridico che il reato offende è incarnato nella vita di qualcuno.

La vittima che, in mediazione, chiama il reo a rispondere attraverso un dialogo, chiede – ecco il punto cruciale – il rispetto, non tanto e non solo della regola, quanto dell’oggetto valoriale della medesima e, soprattutto, del soggetto che ne è titolare (l’essere umano). E si badi: la norma irradia la propria funzione civica includendo nella sfera di protezione offerta dal diritto anche il trasgressore il quale, al pari della vittima, può pretendere e ottenere – verso di sé – analogo rispetto.

Tentare di descrivere questo passaggio, in cui si gioca un appello dialogico alla responsabilità, è arduo, ma è al contempo decisivo per comprendere cosa è un programma di restorative justice e quali ne sono gli agganci profondi con il diritto penale costituzionalmente orientato. Mi faccio allora aiutare da un passo di Escobar, tratto dal suo La libertà negli occhi. Immaginiamoci di assistere a un incontro reo/vittima; le affermazioni che seguono possono valere per l’uno e per l’altra delle parti:

“Proprio nel suo essere un essere umano, c[’è] qualcosa che vale e che reclama un diritto e con cui può immedesimarsi….”; “in nome del qualcosa che avverte in sé come un valore e come diritto, e di cui si prende cura, infatti, non solo nega all’altro il potere di superare il limite su cui il no si è                                                                                                                               E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., pp. 434 ss., 449 ss.; D. PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 131 ss.; M. ROMANO, Commentario, cit., sub “Pre-art. 1”, p. 11 ss.; “Pre-art. 39”, p. 300 ss. Non entro, poi, nel merito del delicato dibattito intorno alla ‘crisi’ della nozione di bene giuridico: pur essendo, come è noto, difficile afferrare l’esatta consistenza e il preciso contenuto della categoria di “bene giuridico”, la sua funzione garantistico-liberale collegata al principio costituzionale di offensività è (per ora) indiscussa. Per un supplemento di riflessione di particolare utilità nell’economia di questo scritto, si rinvia a G. FORTI, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale.., cit., passim.

109 G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Corso, cit., p. 434 ss., p. 545. 110 Così F. STELLA, riferito all’ingiustizia, La giustizia e le ingiustizie, cit., p. 13.

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espresso, ma pretende anche d’andare oltre la mera negatività di una difesa. Perciò, sollevato il viso verso quello dell’altro, reclama la propria dignità, ma insieme gli impone d’essere trattato da eguale. Che cosa gli dà la forza di far fronte e di far valere una reciprocità di sguardi contro l’indifferenza dell’altro, se non il sì con cui prende partito e giudica? Se in lui c’è un valore e se con questo valore s’immedesima per intero…, la sua scelta ora è ‘o tutto o niente’: o il tutto del suo valore in quanto se stesso, che vuole sia riconosciuto, o il niente della sua morte”111.

L’“afferrabilità”112 e la riconoscibilità dei beni tutelati dal diritto penale sono essenziali per motivare scelte conformi. Da parte sua la restorative justice consente un incontro drammatico, ma diretto, precisamente con l’oggetto di tutela del diritto penale e con il soggetto – la persona umana – cui tale tutela è destinata: essa fa, in certo modo, precipitare le parti (insieme ai mediatori) al cuore del precetto, là dove è indicata la condotta lesiva, al cospetto dei beni protetti che riemergono nel tessuto concretissimo delle esistenze. Il tortuoso cammino compiuto dal diritto penale per sancire il principio di offensività trova nei programmi di giustizia riparativa un’eco particolare la quale offre al colpevole e al soggetto passivo un fertile terreno in cui confrontarsi sulla dimensione valoriale e sull’evento lesivo, in vista della sua riparazione. Proprio perché simile incontro e il lavorìo dialogico sulle norme che vi si conduce sono un’esperienza cui è difficile restare indifferenti, la giustizia riparativa finisce per essere uno strumento di prevenzione dei reati.

Motivare l’adesione libera a una norma, grazie all’avvenuto, reciproco, riconoscimento tra due ‘tu’, è cosa difficile, ma possibile. Impossibile è, al contrario, sentirsi motivati al rispetto di un precetto per mezzo di una pena che si patisce e la quale costringe a una passività arida.

E, infatti, gli studi empirici hanno da tempo dimostrato l’efficacia motivazionale della parte precettiva della norma penale, prima che (più che) della parte sanzionatoria delle medesime113: laddove si intravede il contenuto vero della regola, e magari lo si arriva a condividere perché si

                                                            111 R. ESCOBAR, La libertà negli occhi, cit., pp. 111-112. 112 Sul principio di offensività come “sottigliezza empirica” del diritto penale, cioè come

punto in cui la scienza normativa astratta non può fare a meno di incontrare la realtà, cfr. G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 143 ss.

113 Cfr. per tutti G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 131 (e Autori ivi richiamati). Sul tema del rispetto delle norme, in prospettiva psico-sociale, cfr. fra gli altri R. CONTE, L’obbedienza intelligente. Come e perché si rispettano le norme, Roma-Bari, Laterza, 1997; in chiave socio-pedagogica, cfr. il saggio di I. MARCHETTI, Il senso del punire al cospetto della trasgressione: una riflessione sulla ‘debolezza’ della forza e sull’efficacia del consenso, in I. MARCHETTI – C. MAZZUCATO, La pena ‘in castigo’, cit., p. 139 ss.

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sente “qualcosa che vale e che reclama un diritto” con cui “immedesimarsi” non si può, appunto, rimanere indifferenti114.

Questo straordinario laboratorio ‘giuridico’ – che ha come maestri le parti stesse, non i mediatori – ha risvolti pratici in termini di sicurezza, se – come ci rivelano le ricerche criminologiche e sociali – le dinamiche consensuali-volontarie di rispetto delle norme hanno un peso decisamente maggiore nella riduzione dei tassi di criminalità e degli indici di recidiva che non la deterrenza e la neutralizzazione115. La maggior parte delle persone che scelgono di non delinquere non sono trattenute dalla paura o dall’incapacitazione legate alla pena, bensì dalle proprie convinzioni valoriali rispecchiate nelle norme giuridiche democraticamente poste. Su qualsiasi forma di ‘controllo esterno formale’, esercitato dal legislatore (nell’elaborare le norme e in fase di criminalizzazione in astratto116) e, successivamente, dalla magistratura e dalle forze dell’ordine prevalgono le variabili ‘interne’ – corrispondenti al legame tra soggetto e sistema di valori, tra soggetto e norma – e le variabili ‘informali’ – relative al legame tra soggetto e ambiente familiare, amicale, sociale117. La motivazione ad agire rispettando o violando la legge dipenderebbe quindi principalmente dalle convinzioni dell’agente e dal peso non trascurabile della dimensione affettivo-esistenziale: sono i valori, i principi etici e la qualità umana delle relazioni che si stringono tra i consociali e con le istituzioni, che prima di tutti incidono sulla indisponibilità soggettiva a trasgredire la norma.

Il diritto penale, a questo punto, deve fare la sua parte: le disposizioni normative devono pertanto essere dotate della capacità di “delineare con chiarezza e afferrabilità i c.d. beni giuridici [...] con il risultato di rendere presenti e vivi già nel tessuto normativo i profili di danno inerenti a[lle] condotte” penalmente rilevanti, tanto più nel caso in cui queste ultime “stent[i]no a manifestare una conclamata offensività verso entità di valore avvertite concretamente dalla coscienza sociale”118.                                                             

114 Importanti e ampiamente documentate sul piano empirico le conclusioni al riguardo cui perviene J. BRAITHWAITE, Restorative justice and Responsive Regulation, cit., passim e, per es., pp. 90 ss, 103 ss. (sull’inefficacia e anzi la natura controproducente della minaccia e del controllo esterno).

115 Rinvio, per brevità, alla bibliografia riportata in C. MAZZUCATO, Dal buio delle pene.., cit., p. 63 ss.

116 Sui processi di criminalizzazione in astratto e in concreto, cfr. G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 50 ss.

117 In sintesi: L. EUSEBI, La pena “in crisi”, cit., p. 25, p. 47 ss.; G. FORTI, L’immane concretezza, cit., pp. 131-132 (e Autori ivi citati); cfr. altresì C.E. PALIERO, Consenso sociale, cit., pp. 887, 896; M. ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, cit., pp. 421, 429.

118 Così G. FORTI, Tutela ambientale e legalità: prospettive giuridiche e socio-culturali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, p. 1367 (corsivo nostro). Del resto, il contenuto garantistico e

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Lungi dal divenire una dittatura dell’‘eccedenza’ o un pericoloso imporsi del soggettivismo ovvero ancora una non voluta privatizzazione della giustizia penale pubblica, la restorative justice potrà aiutare il diritto penale anche in questo compito: essa potrà via via nutrire lo sguardo del legislatore di pacata e imparziale consapevolezza, grazie agli insegnamenti che promanano dall’immersione nella realtà del crimine. Il progredire delle pratiche di restorative justice e l’arricchirsi del discernimento intorno a esse porteranno, invero – ne sono certa –, notevoli cambiamenti nelle discipline penalistiche anche con riferimento a nuovi linguaggi giuridici: è prevedibile (e auspicabile), per esempio, un’attenzione sempre più marcata a termini e concetti oggi inusuali fuori dai settori minorile, costituzionale e internazionale dei diritti umani. Immagino che progressivamente anche il diritto penale e processuale, incentivato da politiche ‘premurose’ – pur mantenendo fermi i rigorosi e invalicabili confini dei principi di offensività, legalità ed extrema ratio, ecc. – si mostrerà più sensibile nell’approccio ai beni protetti e alle persone, offese e colpevoli. Simile sensibilità si tradurrà in parole nuove, in terminologie più ‘attente’ e raffinate capaci di raccorciare le distanze tra i destinatari e le norme loro rivolte, consentendo – da un lato – di meglio “afferrare” i beni giuridici protetti e – dall’altro – di adeguare davvero i modelli di intervento al quadro costituzionale di riferimento.

Un’ultima riflessione, prima di procedere oltre, va dedicata ai titolari dei beni giuridici. Si dirà a questo punto, infatti, che la giustizia riparativa può avere utilità e significato in prevalenza per le situazioni che coinvolgono le persone fisiche all’interno di un conflitto penalmente rilevante, o per gli illeciti che offendono beni individuali primari. Si aggiungerà poi che non è di queste tipologie criminose che si occupa per la maggior parte il sistema penale, sicché la restorative justice, magari ritenuta utile per qualche caso di nicchia o di élite, non è di certo davvero necessaria nel contesto italiano attuale. Si potrebbero addurre, a fondamento di simili rilievi, da un lato il fatto che il diritto penale ha esteso i suoi confini a tutela di beni non individuali – e persino di ‘funzioni’ –, dando vita ai cd. “reati senza vittima”; dall’altro, il fatto che le aule dei tribunali sono intasate di una

                                                                                                                              democratico del principio di determinatezza e precisione (o tassatività) della legge penale, nonché – per certi versi – dello stesso principio di offensività, è racchiuso precisamente nella citata attitudine delle norme a rendere vivido e afferrabile il loro oggetto di tutela. Sul punto, per tutti, cfr. G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Corso di diritto penale, p. 119 ss., D. PULITANÒ, Diritto penale, p. 169 ss. Sui delicati risvolti ‘empirici’ dei citati principi e sulla necessità che il diritto penale apprenda ad ‘agguantare’ la realtà meritevole di tutela, cfr. G. FORTI, L’immane concretezza, pp. 152-169, nonché pp. 143-149.

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miriade di casi relativi alla violazione di norme poco ‘afferrabili’ (si pensi a certi reati in materia di immigrazione). Per non parlare, per altri versi, della piaga della criminalità organizzata.

Simili considerazioni sono importanti e meritano attenzione. Non vi è dubbio che i reati più ‘adatti’ alla giustizia riparativa119 sono quelli gravi che ledono o pongono in pericolo la vita e l’integrità fisica. Basti notare, non potendo qui entrare nel merito, la peculiare fortuna avuta dai programmi riparativi nella giustizia penale internazionale: dalle varie ‘commissioni verità e riconciliazione’, ai tribunali gacaca rwandesi, al recente riconoscimento in capo alle vittime di un diritto alla riparazione e all’intervento nel processo avanti alla corte penale internazionale. Più ampiamente, ogni ipotesi di reato ‘oggettivamente’ o ‘soggettivamente’ grave, si espone a un’efficace selezione per le pratiche riparative. Le ragioni sono molteplici e brevemente posso qui solo riferire che i vissuti forti e pregnanti (quali il dolore o l’indignazione) sono porte di accesso rapido ai beni offesi sottostanti la condotta antigiuridica: ciò consente alle parti, come sopra ricordato, di ‘toccare’ quelle realtà concretamente ‘offendibili’ che il pensiero giuridico ha posto a misura e fondamento del diritto penale, favorendo le dinamiche motivazionali di rispetto delle norme che rendono la giustizia riparativa così importante.

Per quanto concerne, i reati “senza vittima”, hanno ragione Marinucci e Dolcini a segnalare come, in queste ipotesi, si tratta in verità di “reati caratterizzati da una vittimizzazione di massa, nel senso che, direttamente o indirettamente, offendono cerchie ampie, e non di rado vastissime, di persone”120. Per illeciti di tal fatta, la restorative justice ha predisposto appositi programmi (es. i community circles, i victim-impact statement, ecc.) i quali prevedono il coinvolgimento della collettività, eventualmente per il tramite di un ‘rappresentante’, e danno voce così a sentimenti altrimenti inesprimibili nel procedimento penale e a pretese che quest’ultimo affiderebbe alle istanze e alla facoltà di iniziativa, alquanto impersonali, dello Stato (o altro ente pubblico) o di qualche soggetto esponenziale di interessi diffusi.

Quanto agli outsider sociali, il problema si fa davvero delicato e si capisce la rilevanza ‘premurosa’ dei principi di offensività e colpevolezza. Senza entrare in giudizi circa l’opportunità di talune fattispecie di recente introduzione, provo a ragionare invece sulle incriminazioni comuni correttamente contemplate dal diritto penale, ma poste in essere da persone                                                             

119 Per l’ulteriore approfondimento, cfr. C. MAZZUCATO, Consenso alle norme e prevenzione dei reati, p. 187 ss. e 197 ss.

120 G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Corso, p. 552.

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nei cui volti è facile vedere, non dei criminali, ma delle vittime, fossero solo delle vittime della vita o della cattiva sorte, per non dire delle gravi manchevolezze solidaristiche della nostra società. Quando la selettività della criminalizzazione intercetta simili figure umane, generalmente le punisce, e sono poi gli operatori (magistrati di sorveglianza, educatori penitenziari, assistenti sociali degli Uffici dell’esecuzione penale esterna) a doversela vedere con un conflitto interiore deontologico e con i rimorsi della coscienza di fonte a plateali ingiustizie innescate dai rigorismi (o dall’assurdità) del sistema ovvero dall’irrazionale domanda di sicurezza e penalità puntualmente diretta verso queste persone. Non è rara, tra gli operatori, una sorta di umanissima ‘complicità’ con il reo, scaturente da compassione o da un naturale sentimento di equità. Tale complicità rende però difficile la responsabilizzazione e il trattamento del colpevole, trasformando di fatto la rieducazione in un’assistenza sociale che, agli occhi delle vittime dei crimini ‘veri’, appare una discriminazione a loro danno, un privilegio a favore dei ‘delinquenti’. I programmi di giustizia riparativa sono una risorsa in simili situazioni e si rivelano utili per catalizzare forme di solidarietà sociale (ex artt. 2 e 3 Cost.), nell’ambito di ‘premurose’ politiche non certo solo penali. I percorsi consistenti in incontri tra questi autori particolari e gruppi di vittime o di volontari appartenenti alla collettività interessata finiscono per approdare a momenti di riparazione che sono essi stessi cammini di re-inserimento (e di assistenza), non più percepiti, però, come ingiusti dai cittadini (in particolare dai cittadini vittimizzati). Grazie a questi programmi, d’altro canto, le paure che innescano istanze di sicurezza e penalità vengono, se non altro, alleviate dalla possibilità di conoscere le tristi storie (le odissee migratorie o le sventure del quotidiano) di persone finalmente non guardate come temibili fonti di pericolo.

Un ultimo cenno va dedicato al tema della criminalità organizzata. Su questo punto, a differenza dei crimini internazionali, la restorative justice sta muovendo i primissimi passi, ancora solo progettuali. I problemi da affrontare non sono semplici, anche perché le organizzazioni criminali si pongono spesso come ‘mediatori’ dei conflitti e garanti di una regolazione sociale ‘informale’, ancorché violenta. Alcuni territori ‘difficili’ del nostro Paese hanno visto la recente apertura di Uffici di mediazione reo/vittima, prevalentemente minorili: gli studiosi e i pratici attendono di conoscere i risultati dei primi anni di esperienza che promettono di essere abbastanza positivi. Prima di escludere che la giustizia riparativa abbia qualcosa da dire e da fare riguardo a queste forme estreme e perniciose di criminalità, si rammenti – con Eusebi – che l’attenzione per simili modelli di giustizia

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“corrisponde in modo del tutto peculiare allo spirito della democrazia: solo lo Stato democratico può infatti ambire, diversamente dai regimi totalitari e dalle aggregazioni criminali che perseguano il controllo del territorio, a ottenere un’adesione libera dei singoli individui nei confronti delle sue norme, e pertanto a convincere piuttosto che a costringere; ciò anzi ne rappresenta la forza autentica.[…] Allorquando il diritto agisce secondo modalità di pura coazione il criterio del suo perseguire scopi preventivi dipende dalla contingenza dell’azione repressiva e può avere soltanto, a sua volta, effetti contingenti, non distinguendosi dal criterio operativo, poniamo, di un’organizzazione mafiosa”121. Si dischiude quindi uno spazio, almeno indiretto, di prevenzione di tali forme criminali, attraverso la diffusione di una cultura riparativa che vi si oppone in modo netto con le sue modalità incentivanti l’autonomia nella responsabilizzazione, l’assunzione volontaria di impegni, il dialogo mite, il riconoscimento reciproco.

4.3. Rimprovero e offesa colpevole: la responsabilità personale nel dialogo reo-vittima.

Nell’offerta di un’esperienza di giustizia ai protagonisti di

un’ingiustizia, la proposta della restorative justice salda i beni giuridici (resi quanto mai concreti e afferrabili dalla presenza fisica dei loro titolari) alla colpevolezza che diviene anch’essa quanto mai concreta e afferrabile grazie alla narrazione del sorgere e del realizzarsi della condotta illecita (con le sue motivazioni) e al resoconto dei suoi drammatici effetti sulla vittima e/o sulla collettività.

La colpevolezza, per come è disegnata dalla giurisprudenza costituzionale, è un ulteriore tassello della visione democratica dell’illecito penale mai ridotto a mero fatto punibile in quanto ‘trasgressivo’. Vi è, in verità, molta ‘sostanza’ nel principio della responsabilità colpevole, principio che mira a evitare il ripetersi delle inique vicende da cui dipende il suo sorgere in funzione di garanzia per l’agente (e, dunque, di limite alla pretesa punitiva): prima fra tutte l’ipotesi di venire incolpati ingiustamente, al di fuori di una coincidenza tra ciò che ‘si può’ e ciò che ‘si deve’ fare.

E’ interessante notare come il rimprovero di colpevolezza per il “fatto commesso” (art. 25 co. 2 Cost.), in cui si sostanzia l’idea costituzionale di responsabilità personale (art. 27 co. 1 Cost.), coincide in larga misura con la domanda della persona offesa o persino della comunità122, salvo                                                             

121 L. EUSEBI, La riforma del sistema penale, p. 49 (corsivo dell’A.). (ivi, p. 49). 122 Che nel nostro sistema costituzionale “i criteri […] che fondano e graduano la

colpevolezza dell’agente per il fatto antigiuridico da lui commesso s[ia]no lo ‘specchio

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quell’eventuale (ma decisivo) scarto che rappresenta il limite, la garanzia appunto, del principio qui discusso a tutela del reo. Come si sa, l’agente è chiamato a rispondere non di ogni evento materialmente causato (e di cui comunque soffre gli esiti chi lo subisce), ma solo di quelle conseguenze coperte, almeno, dalla colpa: tu avresti dovuto e potuto agire diversamente!

Simile (eventuale) scarto tra l’appello dell’offeso (il quale potrebbe voler caricare sulla controparte ogni evento lesivo) e i criteri legali di imputazione soggettiva – rilevanti ovviamente anche in una mediazione penale svolta “all’insegna della legge” – rappresenta, se vogliamo, una forma esperibile di premura del diritto verso l’agente con la quale la vittima, in un incontro di giustizia riparativa, ha la possibilità di confrontarsi dialogicamente, dando vita a una sorta di collaterale e preziosa “riflessione critica sul reato” e sul diritto penale, non meno significativa e rilevante di quella richiesta a chi ha agito123. In un programma di restorative justice, i termini costituzionali del rimprovero di colpevolezza possono divenire oggetto di quel lavorìo dialogico di svelamento del tessuto giuridico di una democrazia (cui abbiamo fatto cenno), dando cittadinanza alla domanda dell’offeso e consentendo al reo di situarsi in rapporto alla propria responsabilità.

Il fatto che il reo, come persona titolare di diritti inviolabili, venga rispettato anche nel momento in cui interviene il diritto penale esprime un messaggio forte e significativo, posto lungo un continuum di senso coerente con ciò che l’ordinamento vorrebbe osservato ab initio dai consociati124. Il

                                                                                                                              giuridico’ di criteri di attribuzione della responsabilità praticati nella vita di tutti i giorni”, pur sussistendo da parte dell’ordinamento la necessità di recepirli in modo razionale, equilibrato e “giusto”, è riconosciuto e discusso da G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Corso di diritto penale, pp. 649-50 (con varie citazioni di W. HASSEMER, trad. it., Principio di colpevolezza e struttura del reato, in Archivio penale, 1982, p. 44 ss.). C.E. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, pp. 889-890, rammenta d’altro canto che il “modello della responsabilità soggettiva è più funzionale di tutti gli altri possibili criteri, nella prospettiva dell’‘orientamento ai risultati’, essenzialmente perché è quello in grado di attirare su di sé il massimo consenso da parte dei destinatari delle norme”. E ancora: “il rispetto di tale principio, mentre da un lato ‘tranquillizza’ i destinatari, dall’altro, contemporaneamente ‘legittima’ la fonte della norma incriminatrice (contenuti compresi)” (corsivo dell’A.).

123 Cfr. artt. 27 e 119 Reg. att. O.p. (DPR 230/2000) su cui, brevemente, anche infra par. 4.4. 124 Questo concetto è cruciale e ampiamente sviluppato nei numerosi studi (di grande

interesse per le nostre riflessioni) di Tom TYLER (e collaboratori) e Lawrence SHERMAN relativi alla procedural justice theory, secondo cui – in estrema sintesi – la conformità alle norme dipende (anche) da quanto un sistema di giustizia è capace di trattare in modo rispettoso, leale e fair i destinatari degli interventi (processuali e sanzionatori). Una sintesi con ampi collegamenti alle interrelazioni con la giustizia riparativa è fornita da J. BRAITHWAITE, Restorative Justice and Responsive Regulation, cit., pp. 78 ss. (cui si rinvia anche per i riferimenti bibliografici).

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diritto criminale di una democrazia fa dunque prevenzione dei reati, oltre che con i suoi precetti comportamentali, per il tramite dei propri princìpi garantistici piuttosto che attraverso la minaccia e l’inflizione delle sue pene. I princìpi danno la possibilità al reo di sperimentare quella stessa cosa che l’ordinamento gli chiedeva fin dall’origine (rispetto e premura verso gli altri, riconoscimento della dignità di ognuno, ecc.), mentre le seconde (le pene) finiscono per dare al colpevole, in ultima analisi,… il ‘cattivo esempio’. La veste liberale-democratica che ammanta il diritto criminale di una società civile è una vera copertura – a ben guardare – del sistema nel suo complesso: tolti i princìpi fondamentali e i precetti penali, infatti, un diritto centrato su dinamiche afflittive, quale continua a essere il nostro, finisce per assomigliare troppo a ciò che invero vorrebbe combattere.

La complessità svelata dalla restorative justice ci mostra, riguardo alla colpevolezza, un altro profilo significativo: una specie di punto scoperto tra la realtà ‘eccedente’ del crimine e i criteri di imputazione previsti costituzionalmente dal diritto penale. La questione è delicata e i limiti di questo scritto non mi consentono di approfondirla: ecco allora solo pochi cenni.

Sul piano generale della colpevolezza, è attribuibile al reo solo ciò che, di previsto dalla norma incriminatrice, costui conosce/si rappresenta e vuole (dolo) oppure l’evento che l’agente può prevedere ed evitare, mediante la conformità a una regola cautelare già nota (colpa). Ci interessa qui per ora il dolo per la sua intrinseca componente volitiva125. Il “dato decisivo” – chiarisce Pulitanò – “è che la volontà deve investire l’intero fatto nella sua unità di significato”. Oggetto del dolo è il fatto tipico, fatto tipico commesso con “la coscienza della [sua] antigiuridicità” o con la “possibilità di acquisirla” (ex art. 5 c.p.)126. Più ampiamente, si discute del ruolo che, nel sistema moderno, deve assumere “l’atteggiamento dell’agente nei confronti del diritto”127 e della delicata questione della “coscienza dell’offesa”128. Ai nostri fini è rilevante in particolare quest’ultimo profilo: più che della conoscenza/conoscibilità dell’illiceità penale – problema oggi iscritto nelle linee costituzionali tracciate intorno all’art. 5 c.p. – a noi interessa, infatti, il tema della consapevolezza dell’“offesa”, riguardata “in senso fattuale o sostanziale: cioè a dire come pregiudizio, effettivo o potenziale, ad interessi protetti percepiti nella loro dimensione sociale (e non strettamente

                                                            125 Sul punto, cfr. L. EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1992. 126 M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, sub “Pre-art. 39”, p. 332. 127 Ibidem. 128 G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 325 ss.; ROMANO, Commentario,cit.,

sub “Art. 43”, p. 438 ss.; sub “Art. 5”, p. 103 ss.

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giuridico-penale)”129. E invero attenta dottrina segnala come un modello di reato centrato, già sul piano della tipicità, sulla “lesione del bene giuridico” non può non includere nel dolo, accanto a rappresentazione e volontà del fatto tipico, anche la “coscienza della lesività del fatto” stesso, cioè la “percezione della idoneità del fatto a pregiudicare interessi meritevoli di tutela”130. Lo richiede, se vogliamo, il principio di offensività. Simile prospettiva arricchisce e rende più rigorosa (in senso favorevole all’agente) la categoria dell’imputazione dolosa la quale, ove intesa in senso eccessivamente “neutro”, finirebbe per essere insidiosamente “esangue”131. Certo è, e gli studiosi non mancano di rilevarlo, che al crescere dell’“inafferrabilità” dei beni protetti, come nel caso dei cd. ‘reati di pura creazione legislativa’, risulterà labile l’avvedersi della carica offensiva della propria condotta132, cosa che si può affermare con difficoltà, invece, per gli illeciti che evidenziano una “naturale coincidenza tra tipicità e offesa”133.

Volendo chiedere alla giustizia riparativa di prendere posizione riguardo al tema ‘dolo-offesa’, credo che essa si situerebbe a favore della rilevanza della consapevolezza, in capo all’agente, dell’offensività sostanziale-fattuale, sia perché simile opzione riempie in bonam partem di ulteriori contenuti il normale criterio di imputazione dei delitti, sia perché l’eventuale arretramento di tutela così prodotto sarebbe compensato da ciò che il modello riparativo chiede ex post all’agente (su cui subito riferiremo). Riguardo, poi, a quelli che Romano chiama i “delitti artificiali”, i percorsi di restorative justice, a riprova della loro utilità preventiva, ambiscono, come abbiamo visto, a ‘presentificare’, con il coinvolgimento delle persone offese, sia i beni protetti che gli effetti delle condotte criminose, incrementando – al limite ‘a futura memoria’ – la gracile consapevolezza, in ipotesi, mostrata dal soggetto attivo al momento del fatto.

La questione ‘dolo-offesa’, già spinosa in seno al dibattito penalistico, si pone comunque con profili peculiari all’interno delle pratiche riparative. Se si apre lo sguardo sull’‘eccedenza’ del crimine, emerge come raramente al reo sia dato davvero non dico di volere, ma già solo di sapere – al limite anche solo di immaginare – le reali conseguenze del suo gesto sull’esistenza della vittima. A ciò si aggiunga un dato criminologico

                                                            129 G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 326. 130 Ibidem. 131 Ibidem. 132 Con l’effetto, secondo M. ROMANO (Commentario, cit., sub “Art. 43”, p. 438) che il

soggetto risponde ove “ritenga del tutto innocua la sua condotta” di cui però conosce – o può conoscere – l’antigiuridicità.

133 Di nuovo, M. ROMANO, cit., sub “Art. 43”, p. 438.

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saliente: vale a dire la frequente “neutralizzazione” della vittima, del danno e della responsabilità che opera a monte e a valle della condotta criminosa e porta il reo a giustificarsi, ‘dimenticando’ e oscurando ora l’uno, ora l’altro dei poli appena citati.

Non intendo – sia chiaro – vanificare i profili ineccepibili del rimprovero di colpevolezza, per muovere il quale a titolo di dolo non è certo necessario, ovviamente, che il soggetto sia conscio di tutte le sfumature esistenziali e valoriali riferibili alla vittima, bastando la rappresentazione degli elementi del fatto tipico e la volizione dell’evento lesivo/pericoloso previsto dalla norma, con l’eventuale conoscenza delle (o possibilità di conoscere le) circostanze (aggravanti), senza troppi dettagli personali. Né è ammissibile, d’altro canto, accollare all’agente elementi esistenziali, relativi alle vittime, quanto mai ‘remoti’ rispetto alla condotta del reo: ciò è totalmente estraneo ai fini della restorative justice.

Vorrei al contrario mostrare la subdola non (perfetta) coincidenza tra una nozione astratta e rigorosa di “volontà dell’evento lesivo/pericoloso” ex art. 43 c.p. (volontà, cioè, dell’offesa al bene giuridico) e ciò che poi il giudice concretamente rimprovera al reo, magari avvalendosi della formula inconsistente e insidiosa dell’“accettazione del rischio” per il dolo eventuale: il giudice accerta l’evento hic et nunc verificatosi, con tutta una serie di fattori contingenti e di contesto (al di là delle circostanze aggravanti che devono essere conosciute o conoscibili) che emergono solo nel giudizio e che incidono – se non altro di fatto – sui termini della decisione. Penso, a titolo di mero esempio, a una possibile influenza, quanto alla valutazione della gravità del reato nell’ambito della commisurazione, della presenza di bambini tra le occasionali persone offese di un certo delitto doloso, in ipotesi contro la pubblica incolumità.

L’illecito si innesta su vicende individuali preesistenti o concomitanti – non conoscibili dall’agente e non contemplabili tra le circostanze aggravanti – che almeno per la vittima rappresentano la reale consistenza del crimine-reato con il quale fare quotidianamente (talvolta addirittura per sempre) i conti. La sofferenza generata dall’illecito viene non di rado a calarsi grandemente dentro simili risvolti, apparentemente dei ‘dettagli’ per chi non c’era, per chi non è direttamente interessato e toccato, ed è per lo più a partire da queste pieghe che si leva la domanda di giustizia che il reo deve incontrare (e di cui vogliono farsi carico in termini inutilmente repressivi i policy maker). Così, attingendo di nuovo ai casi poco sopra richiamati, tra le ripercussioni di un reato ignote al reo, vi può essere emblematicamente il volto sfigurato di un giovane aspirante attore che prendo quasi a simbolo dei progetti di vita di tante vittime sfumati a cagione dell’illecito: è quel volto

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che chiede di essere riconosciuto, nel rispetto – è ovvio – dei termini della responsabilità colpevole.

Simili fattori personali contingenti – importanti per le vittime, ma correttamente sottratti al diritto penale, salvo talvolta insinuarsi in maniera surrettizia e inconfessabile nel convincimento del giudice – saltano fuori in sede civile per la quantificazione del danno nelle sue dimensioni più ‘spirituali’134. Il diritto civile sembra avviato a rendersi conto, pur con certe contraddizioni e difficoltà, che un evento traumatico e ‘ingiusto’, un reato per esempio, può diffondere i propri effetti distruttivi lungo tutta l’esistenza di una persona e appuntarsi nelle pieghe più recondite delle sue quotidiane attività. Ceretti fa però osservare come il risarcimento del danno abbia finito per “divenire la nuova e pressoché unica modalità di parlare istituzionalmente non solo di un avvenimento luttuoso, ma anche di un’offesa subita […]. Risarcire un pregiudizio morale e materiale significa pensare a degli equivalenti materiali e simbolici della sofferenza, cioè un modo di darle un valore, un prezzo e una qualità”135. Detto altrimenti, la monetizzazione del dolore mediante il risarcimento del danno ha finito per rappresentare un “anestetico”, una sorta di stratagemma dell’ordinamento giuridico incapace di offrire una soddisfacente “politica pubblica della sofferenza”: si insinua così – prosegue il criminologo – il legittimo sospetto che il “denaro si im-ponga, in questo contesto, quale mimesi della sofferenza”, quale suo “doppio equivoco”, con l’impressione, per giunta, che fino a quando si affermeranno “all’attenzione pubblica le pratiche di mediazione […], la modalità risarcitoria […] corra il rischio di finire semplicisticamente col sovrapporsi alla perdita irreparabile sofferta, all’offesa subita”136.

In modo esplicito e dichiarato, un programma di restorative justice offre invece alle parti di confrontarsi proprio su ‘ciò che conta’ in relazione all’illecito (quei “matters arising from the crime” di cui parlano le                                                             

134 Sulle categorie di danno biologico, esistenziale, morale cfr., fra altri, C. CASTRONOVO, e in particolare Danno biologico. Un itinerario giurisprudenziale, Milano, Giuffrè, 1998; ID., La nuova responsabilità civile, Milano, Giuffrè, 2006³, p. 53 ss.; cfr. anche P. CENDON (a cura di) Persona e danno, Milano, Giuffrè, 2004, soprattutto i voll. I e II (in collab. con E. Pasquinelli); P. CENDON – P. ZIVIC, Il risarcimento del danno esistenziale, Milano, Giuffrè, 2003; P. CENDON – P. ZIVIC (a cura di), Il danno esistenziale: una nuova categoria della responsabilità civile, Milano, Giuffrè, 2000.

135 A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia, cit., p. 718 ss., con rif. a J.F. LAÉ, L’instance de la plainte. Une histoire juridique et politique de la souffrance, Paris, 1996.

136 A. CERETTI, cit., pp. 719-20 (corsivi nel testo). Sul tema del risarcimento del danno in rapporto ai compiti del diritto penale, decisivo resta il rif. a M. ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in Riv. it. dir.proc. pen., 1993, p. 865 ss.; cfr. poi C. ROXIN, Risarcimento del danno e fini della pena, pure in Riv. it. dir.proc.pen., 1987, p. 3 ss.

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definizioni internazionali), in ottica – sia chiaro – riparativa (e non afflittiva o meramente risarcitoria). La verità del crimine – se non proprio la verità del reato – è difficilmente conoscibile dall’agente al di fuori della simultanea complementarietà di un dialogo che ospita i ‘dettagli eccedenti’ di una vita. E si badi che simili profili, una volta riconosciuti, non sono affatto ‘neutralizzabili’ da parte del colpevole. Le transazioni o i pronunciamenti civilistici sul danno i quali – al pari del procedimento penale – non ospitano uno spazio dialogico complementare alle parti, lasciano di regola assai insoddisfatti tutti quanti. Per non dire di quando addirittura il compito di ottemperare all’obbligazione è affidato a un impersonale ente assicurativo.

Se ci spostiamo dall’accertamento della colpevolezza al reinserimento sociale, ciò che ci si attende dall’autore colpevole di un fatto di reato ha molto a che vedere con l’assunzione della responsabilità per l’evento hic et nunc che gli è attribuibile il quale riguarda e colpisce, prima che le norme, le persone vere, ciascuna con la propria storia. Ribadisco che non intendo affatto estendere i limiti della responsabilità colpevole costituzionalmente intesa, ma è innegabile che in sede di risocializzazione (o “trattamento”, per usare il meno convincente termine scelto al riguardo dal legislatore del 1975), educatori e assistenti sociali sono chiamati, ex artt. 27 e 118 DPR 230/2000, a promuovere una “riflessione critica sul reato” (e sulle “conseguenze negative” del medesimo) che include necessariamente anche simili profili137.

La “riflessione critica sul reato”, pregnante per costruire un impegno riparativo, terrà conto (del limite) della colpevolezza soggettiva del singolo agente (colpevolezza già rilevante in sede processuale e di commisurazione), ma comincerà anche a dare spazio pure alla vittimizzazione soggettiva (ben sapendo che essa in svariati casi sfuggirà a qualsiasi effettiva previsione e conoscenza da parte del reo). Le reali conseguenze dell’illecito sul singolo offeso non potranno per lo più (correttamente) essere ‘imputate’ all’autore delle medesime sul piano del diritto, ma questi potrà nondimeno incontrarle ex post nella sua responsabilizzazione costruttiva – cioè riparativa – verso la vittima e la collettività. L’accentuazione di una presa di coscienza, se non altro ex post, dell’offesa prodotta – caldeggiata dai programmi riparativi – non ha nulla a che vedere con l’imputazione afflittiva di conseguenze non conoscibili e                                                             

137 Cfr. artt. 27 e 118 DPR 230/2000. Nel seguito del nostro ragionamento riprenderemo questo concetto, alla luce delle indicazioni fornite dal nuovo Regolamento di attuazione dell’Ordinamento penitenziario, per tessere delle connessioni con la pratiche riparative declinabili all’interno del sistema giuridico esistente: cfr. infra par. 4.4.

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non volute dall’agente, né con la commisurazione di una pena: ciò sarebbe incostituzionale, ingiusto, e comunque estraneo alle finalità miti della giustizia riparativa. Il sottolineare un impegno fattivo anche nella direzione di una consapevolezza dell’offesa e dei suoi effetti sulle vittime è, piuttosto, corollario dello svelarsi della natura reale, non teorica o meramente normativa, dei beni giuridici e del loro riguardare, prima di tutto, qualcuno.

Dedico un’ultima riflessione, prima di chiudere con il tema della colpevolezza, ai reati colposi, finora trascurati, eppure così importanti nell’esperienza della restorative justice.

Il divario tra il rimprovero di colpevolezza giuridicamente rilevante, da un lato, e volontà e vissuti dell’agente, dall’altro, si fa ancora più grande nel caso dell’imputazione colposa, in cui l’evento, sempre grave o gravissimo, è – per definizione – non voluto.

I reati colposi sono intrisi di alcuni temi che interrogano nel profondo l’animo umano: stanno a cavallo tra il territorio della responsabilità e il territorio del male senza volto e senza spiegazione, tra l’ambito della responsabilità personale e il vasto campo delle “sciagure provocate da molte mani”138. Sono illeciti giudicati dal legislatore come meno gravi delle corrispondenti ipotesi dolose, ma evidenziano talvolta una sorta di sprezzante noncuranza della vita, dell’integrità fisica individuale o dell’incolumità collettiva.

Proprio i reati colposi fanno ‘irruzione’ nella vita di colpevoli e soggetti passivi con la prepotenza di una realtà non voluta e non cercata ed erodono il più importante dei sentimenti sociali. Come poco sopra brevemente rammentato, la fiducia è il dono del diritto il quale ci offre ‘regolarità’ e prevedibilità dei comportamenti altrui. Nella responsabilità per colpa, ad essere violata è (per definizione) una regola precauzionale frutto di giudizi, appunto, di prevedibilità ed evitabilità, con il conseguente prodursi dell’evento lesivo che la regola mirava a prevenire, dell’evento che, sfortunatamente, hic et nunc, quella volta, si realizza. Le vittime degli illeciti colposi sono tristemente accomunate da un amaro spavento da condividere qui, paradossalmente, con gli stessi autori involontari degli eventi lesivi/pericolosi.

I percorsi di giustizia riparativa si snodano naturalmente all’interno di simile ‘geografia’: al cospetto del grido di ingiustizia che si leva dalle persone offese o del testardo non capacitarsi della fatalità che li ha colpiti degli autori, in ogni caso al cospetto della sofferenza, dell’incredulità senza parole e della paura degli uni e degli altri.

                                                            138 J. SHKLAR, I volti dell’ingiustizia, cit., p. 76.

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La reciproca fiducia può essere piano piano ricostruita dandosi nuovamente delle ‘regole’ – a partire dalla riscoperta del precetto penale e delle norme cautelari che sarebbe stato necessario rispettare. E ciò attraverso lo scambio dialogico che, nella mediazione, consente alle parti di spiegarsi, senza trascurare quei ‘particolari’ esistenzialmente significativi che fanno della vicenda un unicum, e di ricomporre delle ragioni. Quel non aver fatto ciò che era possibile e doveroso fare viene messo in comune dentro un atto di riparazione da scambiare, un atto impegnativo a due, che offre all’autore del reato colposo la possibilità di dare significato alla “cattiva sorte” e alla vittima di aver reso meno inutile l’“iniquità”139 che l’ha colpita.

4.4. L’impegno riparativo: una “rieducazione” che passa (anche) per l’art. 4 Cost.

“Agli interventi ex post è totalmente estranea l’idea di giustizia”140. La frase di Stella è piuttosto drastica e contiene indiscutibilmente una

verità: una volta che le ingiustizie ci sono state e il mondo è diventato un luogo “più inospitale”141, la giustizia è stata offesa e sciupata. A ciò si aggiunga che il diritto penale, per tentare invano di ripristinarla, non ha congegnato di meglio che ricorrere ad afflizioni, esclusione dalla collettività e varie altre forme di degradazione umana e sociale. La lapidaria affermazione di Stella finisce allora per non significare più, con benefica provocazione, che il cuore della giustizia sta nell’evitare le ingiustizie, bensì assume contorni disperati e ci dice che se il diritto penale non è capace di compiere “il primo passo”142, facendo sperimentare quello che era atteso dall’inizio e tragicamente non ha avuto luogo, non c’è speranza di disegnare un orizzonte costruttivo.

Proviamo a forzare il circolo vizioso della repressione: che cosa si può fare, ex post, rispetto a un’ingiustizia criminale compiuta?

                                                            139 I due termini, usati volutamente in modo provocatorio e insieme evocativo, sono

presenti nel sottotitolo del volume della J. SHKLAR, I volti dell’ingiustizia, cit., e rappresentano una sorta di filo rosso nella ricca trattazione.

140 F. STELLA, La giustizia e le ingiustizie, cit., p. 225 (la frase si riferisce, nella specie, alla necessità di reperire strumenti di prevenzione in senso stretto, ex ante dunque, dei crimini internazionali).

141 E. HILLESUM, trad. it., Diario 1941-1943, Milano, Adelphi. 142 F. STELLA, La giustizia e le ingiustizie, cit., p. 201 ss.; l’idea di “giustizia del primo

passo” è ripresa dal concetto ebraico e biblico di tsedaqah su cui v. E. WIESNET, trad. it., Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra Cristianesimo e pena, Milano, Giuffrè, 1987, passim.

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Intanto si può fare ciò che più rassomiglia alla giustizia attesa ex ante; ciò che più è capace di generare nuova fiducia e ripristinare il legame originario che tiene insieme la società. Intanto si deve offrire premura a chi soffre.

Che il diritto penale tradizionale non sia all’altezza di questo compito è ormai piuttosto evidente, anche se fa comodo fingere che le cose stiano diversamente: occorrerebbe invece, con Klaus Lűderssen, “aprire gli occhi, una volta per tutte, sul fatto che il punire costituisce semplicemente qualcosa di anacronistico e risulta ormai incompatibile con la nostra società” a meno di non voler vedere ridotto lo scarto tra lo Stato autoritario e lo “Stato che punisce”143.

Il diritto e il processo penali ubriacati dall’istintività facile della vendetta e della ritorsione (sotto forma di retribuzione, neo-retribuzione, just desert, deterrenza, neutralizzazione, ecc.) hanno impedito una sequenza coerente tra la giustizia, come presentata ex ante (valori, diritti, principi, precetti), e le reazioni ex post al crimine (ergastoli, reclusioni, ecc., fra l’altro associati a vari meccanismi di banalizzazione, quali i riti alternativi), mettendo loro stessi, per primi, una barriera alla sperimentazione effettiva, da parte del reo, delle vittime e della cittadinanza, di che cosa sia la giustizia stessa in una democrazia.

Nel suo tentativo di rassomigliare a ciò che vuole sancire e non a ciò che vuole punire, un diritto penale arricchito dall’esperienza della giustizia riparativa si fa plasmare da una filosofia politico-criminale nuova che non concede nulla – nella sua mitezza – alla clemenza o al paternalismo. Per lasciare all’intuizione del lettore gran parte del discorso che qui mi è impossibile dipanare, potrei affidare il concetto a uno slogan cui già altrove ho fatto ricorso: la restorative justice promuove una politica criminale del fare, piuttosto che del subire.

Una volta commesso il reato, è insieme terribile e inutile limitarsi a punirlo. C’è ben altro che chiede di essere preso in considerazione: le esistenze ferite (della vittima e del reo) con le loro storie che non cominciano e non terminano con l’illecito, il bisogno di riconoscimento e verità più impellente dell’istinto alla vendetta, la domanda di fiducia che si leva per via di un mondo reso dal crimine più “inospitale”; volendo, vi è persino da non dimenticare la compartecipazione collettiva al male delle disuguaglianze, dell’egoismo e dell’indifferenza.

                                                            143 K. LÜDERSSEN, Il declino del diritto penale, cit., rispettivamente pp. 105, 108.

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Il “male barbarico di una procedura statuale orientata a punire”144, l’oziosità sterile della detenzione, la replica sul reo di un’esperienza di ingiustizia hanno mostrato di essere “totalmente estranee all’idea di giustizia”.

A fronte del reato, con le sue sfumature grigie che lambiscono autori, offesi e comunità impedendo, con realismo, di dividere farisaicamente i Caino dagli Abele, la giustizia riparativa propone di impegnarsi, insieme, per un gesto di riparazione – un gesto “antagonistico”145 rispetto all’offesa – lungo la direttrice della premura e della fiducia.

Il “risultato”, l’esito, di un percorso di giustizia riparativa – ci spiegano i Principi Base delle Nazioni Unite – è riparatorio e può includere forme (materiali/simboliche) di “riparazione” in senso stretto, le “restituzioni”, il “lavoro di pubblica utilità”; il tutto con lo scopo di “reintegrare la vittima e il reo, corrispondendo ai bisogni individuali e collettivi e alle responsabilità delle parti”146. Alla partecipazione attiva e consensuale, condicio sine qua non dell’avvio del programma, si affianca dunque l’assunzione volontaria di obbligazioni riparatorie “ragionevoli e proporzionate”147. La condotta riparatoria – così la definisce Eusebi – “si sostanzia in un’attività dell’autore di reato a favore del bene leso la quale attesti credibilmente, rispetto alle sue possibilità concrete, il riconoscimento della condotta anti-giuridica tenuta in precedenza come un abuso e la disponibilità per l’avvenire a rispettare quel bene. La riparazione del danno, pertanto, è sempre praticabile, perché è riferita alle condizioni soggettive dell’autore e non coincide con il risarcimento oggettivo del danno, né lo implica in modo necessario”148.                                                             

144 Ivi, p. 108. 145 La “riparazione si identifica con la condotta antagonistica finalizzata a scongiurare la

lesione del bene giuridico o a reintegrarlo dopo l’avvenuta offesa”: così F. GIUNTA, Oltre la logica della punizione, cit., p. 345.

146 ONU, Basic principles, § 1.3.: “Restorative outcome means an agreement reached as a result of a restorative process. Restorative outcome includes responses and programmes such as reparation, restitution, and community service, aimed at meeting the individual and collective needs and responsibilities of the parties and achieving the reintegration of the victim and the offender”.

147 ONU, Basic principles, § 7 cpv. Dello stesso tenore è l’art. 31 della Raccomandazione (99)19 del Consiglio d’Europa.

148 L. EUSEBI, Strumenti di definizione anticipata del processo e sanzioni relativi alla competenza penale del giudice di pace: il ruolo del principio conciliativo, in L. PICOTTI – G. SPANGHER, Competenza penale del giudice di pace, cit., p. 71. D’altro canto, l’eventuale inclusione del risarcimento civilistico del danno da reato all’interno della riparazione conduce – ci ricordava già Bricola – a una “de-patrimonializzazione” del risarcimento cui corrisponde una sua certa “eticizzazione”: F. BRICOLA, La riscoperta delle “pene private” nell’ottica del penalista, in Politica del diritto, 1985, p. 71 ss. E’ ormai evidente, nella riflessione dottrinale e in talune soluzioni normative straniere, che al risarcimento si attribuiscono anche fini tipici

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Insomma, l’idea di un impegno, invece che di una afflittiva chiusura: questo concetto politico-criminale dirompente, che può cambiare le logiche processuali e le strategie difensive degli avvocati in uno slancio interessante di novità sperimentali, appare in sintonia profonda con il principio del finalismo rieducativo enunciato dall’art. 27 co. 3 Cost.149, ma si spinge anche oltre, proprio perché scavalca le separazioni nette tra la “società che punisce”150 e chi dovrebbe venire rieducato. In un certo modo, trovo un fondamento costituzionale all’idea di riparazione, secondo lo spirito della restorative justice, nell’art. 4 Cost., laddove si afferma in capo a ogni cittadino il “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. E’ un dovere in capo al reo che con la commissione dell’illecito si rinnova di contenuto, si rafforza e diviene più urgente, se possibile più necessario. Si osservi, però, che l’attività riparativa richiede di essere accolta all’interno di uno scambio corale e corresponsabilizzante tra colpevole, vittima e collettività: spetta proprio alla “società che punisce”, tanto bisognosa di risocializzazione151, l’onere di accettare la riparazione, a riprova, ancora una volta, che sbagliano le “istituzioni penali” a “caric[are] tutto sulle spalle dell’individuo” da punire.

Con il dischiudersi di possibilità riparatorie si consente al reo di giocare ancora, di fronte alla compagine sociale, la carta nobilitante delle proprie capacità, conoscenze e competenze: gli si consente di – anzi: lo si sollecita a – mettere di nuovo in campo quelle risorse personali che la pena detentiva finisce, invece, per rinchiudere (insieme al corpo del condannato) dentro l’oscurità di una cella e la pena pecuniaria finisce, invece, per confondere con altre – non sempre meritorie – risorse economico-patrimoniali.

In un sistema penale rinnovato, le condotte riparatorie dovrebbero, invero, trovare spazio tra gli istituti estintivi del reato o di significativa attenuazione delle conseguenze sanzionatorie152, giacché tali condotte non rappresentano un odioso privilegio e non privano affatto di tutela i beni

                                                                                                                              della risposta penale (quali per esempio la prevenzione e non solo il mero ‘ristoro’ patrimoniale per la perdita subita o il mancato guadagno).

149 Sulla persistente fecondità del concetto di rieducazione restano attuali le considerazioni di L. EUSEBI, La pena “in crisi”, cit., p. 95 ss.

150 D. PULITANÒ, Politica criminale, p. 31. 151 Ibidem. 152 Questo è l’orientamento seguito dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia

penale e la Politica criminale nell’elaborare forme “preventive” di risposta alla cosiddetta “medicina difensiva”: cfr. G. FORTI – M. CATINO – F. D’ALESSANDRO – C. MAZZUCATO – G. VARRASO, Il problema della medicina difensiva, cit., passim.

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protetti, cosa che sarebbe costituzionalmente inaccettabile153. La riparazione, anzi, è possibile (come ‘empiricamente’ accennato nel par. 1.2.) solo grazie a un previo assumersi la responsabilità dell’offesa, spingendosi fino a raccogliere le conseguenze esistenziali dell’evento lesivo sulle vittime, pur con i limiti e le specificità poco sopra segnalati. Simile soluzione sarebbe – per dirla con Donini – “conforme allo scopo dell’incriminazione” senza giungere affatto “all’indebolimento del precetto”154.

Sul piano strettamente penalistico, si tratta di riconfigurare la nozione di punibilità, o meglio di arricchire di nuovi contenuti politico-criminali e dogmatici la categoria di non punibilità fondata sulla “neutralizzazione dell’offesa” o della “capacità criminale dell’autore” e, dunque, “cofunzionale agli scopi tradizionalmente assegnati alla pena” stessa155.

I modelli di non punibilità del tipo che stiamo discutendo sono peraltro già marginalmente utilizzati dal legislatore: e, infatti, l’idea – tanto apparentemente singolare, quanto costruttiva – di un impegno riparativo volontario che tiene luogo alla più sterile (meno umana e meno democratica) reazione penale centrata su un patimento da subire trova stimolanti consonanze con taluni istituti giuridici e profili politico-criminali caratteristici dei più innovativi sotto-sistemi che hanno fatto breccia nel                                                             

153 Come segnalato dalla stessa Corte nella sent. 369/1988, argomentando proprio sull’uso razionale e corretto delle ipotesi di astensione dalla pena.

154 M. DONINI, Non punibilità e idea negoziale, in In. pen., 2001, p. 1047. 155 M. DONINI, Non punibilità, cit., p. 1047 e C. PIERGALLINI, Fondamento, funzioni e

limiti, cit., p. 1660 (in generale pp. 1659 ss. in cui l’A. redige una ‘tassonomia’ dei modelli di non punibilità, evidenziando con esempi le caratteristiche – per quel che qui maggiormente interessa – delle forme giocate sulla neutralizzazione dell’offesa). Sulla non punibilità, si rinvia inoltre, tra i numerosi scritti in materia, a M. DONINI, Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e non punibilità, in Indice penale, 2003, p. 75 ss.; ID., Teoria del reato, Padova, Cedam, p. 402 ss. (e particolarmente pp. 410-11); A. DI MARTINO, La sequenza infranta. Profili di dissociazione tra reato e pena, Milano, Giuffrè, 1998; M. ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità; ID., “Meritevolezza di pena”, “bisogno di pena” e teoria del reato, entrambi in Riv. it. dir. proc. pen., rispettivamente 1990, p. 55 ss., 1992, p. 46 ss.; M. ROMANO – G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1994, vol. III, sub “Pre-art. 150”, p. 10 ss. Il tema della non punibilità si intreccia a quello di premialità e – più ampiamente, ulteriormente - all’elaborazione di strategie preventive consensuali incentivanti i comportamenti di osservanza delle norme: sul punto, e non potendo qui approfondire a fronte della vastità della letteratura, cfr. fra gli altri L. EUSEBI, Forme e problemi della premialità nel diritto penale, in Studium iuris, n. 3/2001, in particolare p. 284; D. PULITANÒ, Tecniche premiali fra diritto e processo penale, in La legislazione premiale, Atti del Convegno di Studio in ricordo di P. Nuvolone, Courmayeur, 18-20 aprile 1986, Milano, Giuffrè, 1987, p. 75 ss. (nonché in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, p. 1005 ss.); S. ARMELLINI – A. DI GIANDOMENICO (a cura di), Ripensare la premialità. Le prospettive giuridiche, politiche e filosofiche della problematica, Torino, Giappichelli, 2002.

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monolitico ordinamento italiano: segnatamente la giustizia minorile riformata dal D.P.R. 448/88, la competenza penale del giudice di pace introdotta con il D.Lgs. 274/2000 e, per certi versi, la disciplina della responsabilità amministrativa da reato degli enti di cui al D.Lgs. 231/2001. L’esperienza della giustizia riparativa ha dato vita ad un ricco dibattito in seno alla magistratura di sorveglianza e all’Amministrazione penitenziaria156 i cui frutti – che è peraltro fin troppo facile guastare con prassi malaccorte – non possono che essere visti, in controluce, in una inedita attenzione a rimeditare in ottica (anche) riparativa l’antiquata ed equivoca nozione di “trattamento”. Interessante è il combinato disposto degli artt. 1, 27 e 118 Reg. att. O.p. (D.P.R. 230/2000) dai quali emerge, in particolare, il compito istituzionale – impegnativo ma appassionante – di riflettere insieme al condannato sulla condotta antigiuridica, sulle sue conseguenze negative anche per il reo medesimo e sulle possibili azioni riparatorie a favore della vittima e della collettività. Viene poi definita, dall’art. 118, la funzione degli interventi socio–educativi di recupero i quali devono essere caratterizzati dall’“offerta al soggetto di sperimentare un rapporto con l’autorità basato sulla fiducia nella capacità della persona di recuperare il controllo del proprio comportamento senza interventi di carattere repressivo” (art. 118, co. 8 lett. a), “da un aiuto che porti il soggetto ad utilizzare meglio le risorse nella realtà familiare e sociale” (lett. b), “da un controllo sul comportamento del soggetto che costituisca al tempo stesso un aiuto rivolto ad assicurare il rispetto degli obblighi e delle prescrizioni dettate dalla magistratura […]” (lett. c), “da una sollecitazione a una valutazione critica adeguata, da parte della persona, degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento sociale compiuto e duraturo” (lett. d)157. Ecco confermata l’opzione democratica di configurare, fra i compiti precipui del sistema giuridico anche in ambito penale e persino ex post rispetto al reato (che “non avrebbe dovuto accadere”), quello

                                                            156 Si vedano i lavori della Commissione di Studio “Mediazione penale e giustizia

riparativa”, in www.giustizia.it. 157 L’Amministrazione Penitenziaria ha avviato un confronto teorico–pratico tra gli

operatori (educatori, assistenti sociali e polizia penitenziaria) in vista di una maggiore sensibilizzazione e una più specifica preparazione del personale ad accogliere eventuali proposte riparative avanzate dai condannati: testimonia simile confronto, per esempio, la recente circolare del DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA, Direzione Generale Detenuti e Trattamento – Ufficio IV – Osservazione e trattamento intramurario, n. 3593/6043 del 9 ottobre 2003, avente ad oggetto le Aree educative degli Istituti, su cui vedi M.P. GIUFFRIDA, Trattamento, non intrattenimento, in Dignitas – percorsi di carcere e di giustizia, 2004, n. 6, p. 51 ss.

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Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale 161

dell’orientamento dei consociati attraverso i precetti prima che (possibilmente, senza che) si ricorra alle pene.

5. Esperienze di ingiustizia, esperienze di giustizia.

“Bisogna vedere, bisogna esserci stati, per rendersene conto…”: con

queste parole, nel 1949, Calamandrei riassumeva il cuore della sua L’inchiesta sulle carceri e sulla tortura158. Per noi, oggi, si tratta di un invito a incontrare la realtà: non solo la realtà e l’esperienza della pena, e dunque il ‘lato’ del reo, bensì anche la realtà e l’esperienza dell’offesa, e dunque il ‘lato’ della vittima.

Ancora prima, nel 1904, Filippo Turati aveva a sua volta levato un vibrante appello a che la materia penale non venisse lasciata a “eccellenti burocrati, pieni di esperienza legislativa o regolamentare”, ma si cercassero piuttosto “forze vive, degli apostoli veri” dotati di quel “coraggio” necessario per “squarciare i veli e mettere a nudo le vergogne del sistema” e – potrei aggiungere – accostare con sensibilità e premura le vicende delle persone che invocano la giustizia.

La restorative justice e la mediazione reo-vittima hanno consentito di “vedere” da vicino l’esperienza che prende corpo attraverso il crimine: come mediatori possiamo dire, timidamente e senza pretesa di avere capito fino in fondo quella realtà, di “esserci stati” e di avere avuto un’occasione per “renderci conto”.

L’attraversamento di simili territori dolorosi, senza mai sfuggire al “tragico” bensì rimanendoci immersi159, il contributo della mediazione al “vedere” il reato e l’insegnamento che il diritto penale ne può trarre, in armonia con una antica e saggia tradizione giuridica liberal-democratica, mi portano a chiudere questo lavoro con un pensiero che torna là dove avevamo cominciato, e precisamente ai Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke.

I versi, ci dice il poeta, sono esperienze e per scriverli occorre averne fatte molte, diverse, umanamente significative. In più è necessario che tali esperienze siano passate attraverso la pelle, entrando dentro di noi, tutt’uno con noi, diventando sangue, gesto e sguardo.

                                                            158 “Bisogna aver visto”: è il titolo dell’editoriale di apertura del n. 3/1949 della rivista Il

Ponte, (provvidenzialmente fatta di nuovo circolare in copia anastatica insieme al numero speciale dalla Rassegna penitenziaria e criminologia del 2002): P. CALAMANDREI, L’inchiesta sulle carceri e sulla tortura, p. 228 ss. Per un commento a questa lettura, cfr. G. FORTI, Vedere il carcere i lumi che accompagnano la libertà, in Rass. pen. crim., numero speciale 2002, p. 73 ss.

159 A. CERETTI, Quale perdono è possibile donare?, cit., p. 40.

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Oserei dire che, fatte tutte le debite proporzioni, ciò che vale per la poesia vale – in certa misura – anche per il diritto (soprattutto penale) di una vera democrazia. E’ allora non è forse casuale la singolare sintonia tra un poeta, come Rilke, e un giurista, come Capograssi, laddove quest’ultimo ci insegna che il diritto di una democrazia non è “frutto delle invenzioni dei legislatori”, bensì delle “invenzioni insuperabili della vita”160.

I precetti penali sono vivi perché, per lo più, essi nascono, sfortunatamente, proprio dalle esperienze di ingiustizia.

E’ importante che quei precetti chiamati a regolare la nostra convivenza, chiamati dunque a essere rispettati da tutti, restino vivi agli occhi dei destinatari e non “disseccati” dentro lontane teorie o incomprensibili procedure. Occorre che sia saldo e ben visibile il legame con le vicende dolorose che le indicazioni di comportamento cristallizzate nelle norme giuridiche vorrebbero prevenire ed evitare.

La vitalità dei precetti di diritto penale è decisiva, nel contesto democratico, per la loro stessa efficacia preventiva: è difficile conformarsi a “norme mute”161, norme – in altre parole – inidonee a interpellare la coscienza; mentre norme che fanno trasparire, prima e dopo la commissione del reato, parole e percorsi significativi riescono a motivare i consociati, coinvolgendoli in (spontanei) comportamenti conformi.

Le norme penali sono vive quando, da una parte, scaturiscono (anche) da una sensibilità al dolore altrui e da una compassione che diventano ‘politica’ e, dall’altra, quando il sistema mette in campo, in risposta al male criminale, interventi che assomigliano il più possibile – in modo non retorico – alle rotte rispettose e poco afflittive indicate dalla democrazia e dalla Costituzione. Insomma: le norme sono vive – e dunque efficaci – se veicolano esperienze riconoscibili e concrete di giustizia e ciò avviene – come cerca di far capire la restorative justice – quando l’ordinamento si sforza di corrispondere a, o almeno di farsi carico di, quel bisogno                                                             

160 Il passo di Giuseppe CAPOGRASSI (tratto da un commento a sentenza del 1948, dal titolo Il quid ius e il quid iuris in una recente sentenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1948, p. 57 ss.) è riportato e commentato da G. DI CHIARA, Diritto processuale penale, cit., p. 190. Interessante è notare che Capograssi, riflettendo sulla triste vicenda di una giustizia fai-da-te nell’immediato dopo-guerra, si riferisce allo scarto tra un diritto brutale e violento, della “caverna” (quale quella in cui si sono perpetrati i crimini oggetto della pronuncia) e il passo di civiltà rappresentato dal ‘giusto’ processo penale. Il fatto storico citato, la sentenza e il commento critico del grande giurista sono scelti acutamente da Di Chiara per introdurre il “prisma del sistema di garanzie” processuali. E mi pare giusto, dopo aver parlato a lungo, in queste pagine, dei limiti e delle disfunzioni del sistema processuale vigente, rammentarne comunque, con Di Chiara, la “funzione garantistica” (pp. 190-191).

161 R. SACCO, Antropologia giuridica. Contributo a una macro-storia del diritto, Bologna, Il Mulino, 2007.

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Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale 163

misterioso e pungente che è pure una speranza chiamata da sempre giustizia, senza ricorrere alla coercizione.

Negli incontri di mediazione ho visto svelarsi il reato nella sua dimensione di offesa contro qualcuno; ho visto dischiudersi i precetti penali alla loro sostanza di strumenti per una saggia e praticabile fiducia inter-personale; ho visto i principi costituzionali offrire l’occasione per assaggiare un po’ di civiltà. Ho visto anche, tragicamente, i danni di un sistema punitivo che finisce per far sperimentare l’ingiustizia, accomunando in un triste e involontario accordo tanto gli offesi che i colpevoli.

Il contributo della giustizia riparativa al diritto penale consiste nel monito rivolto ai giuristi per “vocazione” di elaborare e applicare norme finalmente intrise di vita che parlano i linguaggi della premura verso vittime e autori e chiedono a tutti di essere rispettate e non ubbidite. Norme capaci di diventare “sangue, sguardo e gesto” e dunque farci sperimentare il modo di donare e ricevere un rispetto, anche “senza nome”, che non è però “più scindibile da noi”.

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164 Claudia Mazzucato

APPENDICE

Tavole di sintesi

I – Adesione alle norme e prevenzione dei reati

Rispetto del precettoper consenso e

adesione al bene tutelato

Rispetto del precettoper ‘covenienza’

Rispetto del precetto

per intimidazione -incapacitazione

Offesa al bene giudirico

Violazionedella norma

Crimine

Area di incidenza delle componenti ‘repressive’

della teoria sulla pena

Area di incidenza delle componenti ‘consensuali’della teoria del diritto penale e

finalità di un programmadi restorative justice

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Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale 165

II – I ‘volti’ di una norma penale in un sistema costituzionale democratico, alla luce dell’esperienza della restorative justice162

• Principi – designano un ideale cui aderire

• Precetti – chiedono di conformarsi a un comportamento atteso (così da non offendere il bene giuridico)

• Misure o sanzioni ‘positive’ – sanciscono in modo propositivo il precetto, chiedendo di rispettarlo nel futuro; motivano a neturalizzare o attenuare l’offesa

• Pene o sanzioni ‘negative’ – vengono inflitte e, per il loro tenore coercitivo, finiscono per smentire il precetto di cui si chiedeva l’osservanza (anziché ‘stabilizzarlo’)

PRINCIPI

PRECETTI

SANZIONI‘positive’

Consociati

Chiedono adesione a un ideale

Chiedono conformità a un comportamento atteso

Chiedono impegno a neutralizzare l’offesa e a rispettare il bene giuridiconel futuro

Sono

des

tinat

ari a

ttivi

di u

n ap

pello

PENESi subiscono passivamente

Rimproverano il comportamento offensivo evitabile

                                                            162 Per le categorie di sanzione ‘positiva’, da un lato, e pena (o sanzione ‘negativa’),

dall’altro, si ricorre qui alla chiara, ed eloquente, catalogazione fornita da N. BOBBIO, voce Sanzione, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, UTET, 1976, p. 531. L’A. definisce “sanzioni” le “misure predisposte dallo stesso ordinamento giuridico per rafforzare l’osservanza delle proprie norme ed eventualmente per porre rimedio agli effetti dell’inosservanza” (p. 530). Si osservi che le sanzioni non sono di per sé, necessariamente, afflittive, rinvenendosi anche le “misure positive” che promuovono, incoraggiandola, l’osservanza della norma, invece che contrastare l’eventuale trasgressione (pp. 532-536). Le stesse “sanzioni successive” vengono da Bobbio distinte in misure propriamente punitive e misure riparative (pp. 534-536).

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GIUSEPPE MONACO La tutela della dignità umana:

sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative

SOMMARIO: 1. Note introduttive. – 2. Il rinnovato interesse per la “dignità dell’uomo” nel mondo del diritto. – 3. La tutela della dignità nell’Unione Europea, tra Carta di Nizza e giurisprudenza della Corte di Giustizia. – 4. La “dignità” nella Carta Costituzionale italiana, tra previsioni esplicite e riferimenti impliciti. – 5. Le molteplici applicazioni del concetto di dignità ad opera della Corte costituzionale e alcuni sviluppi suggeriti dalla Corte di Cassazione. – 6. Alcune considerazioni conclusive: le difficoltà legate alla prospettazione della dignità come valore supercostituzionale, sia essa intesa in senso oggettivo o soggettivo.

1. Note introduttive.

L’espressione “dignità umana” ricorre con una certa frequenza nei dibattiti di carattere politico, sociologico, filosofico o giuridico, quando si affrontano temi di bioetica, come anche quando si discute dello sviluppo di Paesi nei quali manca tutto ciò che occorre per una vita “dignitosa”, o di soggetti “deboli” all’interno di società progredite e in condizioni di diffuso benessere; o ancora quando si parla di crimini contro l’umanità, di tutela della riservatezza, dell’onore, o della condizione di particolari categorie sociali, come i lavoratori, i detenuti o altre ancora. Al centro delle riflessioni vi è dunque l’uomo, in quanto persona, con i suoi bisogni cui occorre dare soddisfazione perché possa vivere realmente come essere umano1. Eppure la sensazione è che il significato di tale espressione sia dato per presupposto, risultando alquanto problematico ogni tentativo di fornire una definizione che sia soddisfacente per tutti i casi, che non appaia cioè troppo riduttiva o, al contrario, così estesa da perdere di utilità concreta. L’ambiguità dell’espressione è testimoniata anche dal fatto che la stessa Corte costituzionale, pur avendo impiegato frequentemente il concetto di dignità umana, si è ben guardata dal tentare una ricostruzione di esso, tentativo che ha invece effettuato con riferimento a diritti inviolabili come la libertà

                                                            1 Cfr. M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Bologna,

Il Mulino, 2002, pp. 27 ss.

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personale, o anche con riferimento a clausole di difficile interpretazione, come il “buon costume”2 di cui all’art. 21 Cost.

Nel presente lavoro si intende, in primo luogo, verificare in quali settori dell’ordinamento comunitario e italiano la giurisprudenza ha fatto più frequente ricorso alla dignità umana e, in secondo luogo, e soprattutto, analizzare le modalità con cui tale concetto viene impiegato, se cioè si può parlare di un diritto soggettivo dell’individuo alla tutela della propria dignità, o ancora se si tratta di un valore costituzionale non bilanciabile con altri valori/interessi parimenti costituzionali. E ancora, se si guarda all’idea di dignità che ha ciascun singolo individuo (in senso, quindi, soggettivo) o piuttosto se il concetto viene ricostruito tenendo conto del comune sentire prevalente in un dato contesto storico-culturale (dignità in senso oggettivo).

2. Il rinnovato interesse per la “dignità dell’uomo” nel mondo del diritto. L’attenzione degli studiosi del diritto verso il concetto di dignità umana è andata crescendo negli anni più recenti3 – in parte per effetto della redazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 – ed è stata rivolta soprattutto all’utilizzo che ne ha fatto la Corte costituzionale, senza però spingersi nel                                                             

2 Cfr. Corte cost. 27 luglio 1992, n. 368, in Giur. Cost., 1992, pp. 2935 ss. 3 Basti pensare ai convegni che sono stati recentemente organizzati sul tema in questione e

alle recenti monografie che si sono occupate dell’argomento. Si veda, ad esempio, M. BELLOCCI – P. PASSAGLIA (a cura di), La dignità dell’uomo quale principio costituzionale. Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, tenutosi a Roma il 30 settembre e il 1° ottobre 2007, in http//www.cortecostituzionale.it; E. CECCHERINI (a cura di), La tutela della dignità dell’uomo. Lezioni Volterrane 2006, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008; A. ARGIROFFI – P. BECCHI – D. ANSELMO, (a cura di), Colloqui sulla dignità umana, Roma, Aracne, 2008; A. PIROZZOLI, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, Roma, Aracne, 2007; M. A. CATTANEO, Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006; P. BECCHI, Il principio dignità umana, Brescia, Morcelliana, 2009; E. W. BOCKENFORDE, Dignità umana e bioetica, Brescia, Morcelliana, 2010; U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, Roma-Bari, Laterza, 2009. A quest’ultimo Autore si rinvia per una ricostruzione storica e filosofica della nozione di dignità, nozione che non è stata sempre egualitaria, come nel pensiero giusfilosofico corrente, ma anche di tipo elitario, come nel mondo greco e romano, ove la dignità era avvertita soprattutto come espressione di virtù. Cfr. anche Q. CAMERLENGO, Contributo ad una teoria del diritto costituzionale cosmopolitico, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 338 ss., il quale suggerisce di individuare nella dignità umana quella “condizione aggregante che rappresenti il minimo comune denominatore dei diritti fondamentali diffusamente riconosciuti”. Dignità, però, da intendersi in un significato minimale, come “umanità”, quel bene, cioè, che ciascuno possiede per il semplice fatto di essere uomo. La dignità umana, dunque, secondo questa impostazione, “nel suo nucleo forte sintetizza gli elementi costitutivi essenziali dell’individuo, quale essere razionale fisiologicamente in grado di sviluppare una propria personalità”.

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La tutela della dignità umana nella giurisprudenza 169

tentativo di una ricostruzione dogmatica del concetto stesso di dignità4. Sotto questo profilo la dottrina sembra comunque per lo più concorde nell’individuare, come punto di partenza, la nota idea kantiana che l’uomo non può essere mai considerato un mezzo, ma deve essere sempre considerato come fine. È comunque solo un punto di partenza, che secondo altri filosofi trascura i soggetti o quelle fasi della vita di ciascuno in cui ci si può trovare in condizioni di estrema dipendenza5. In ogni caso anche l’idea kantiana è un’enunciazione la cui traduzione in termini giuridici, come si vedrà, si presenta alquanto problematica.

Per avere conferma di questo rinnovato interesse verso il concetto di dignità è sufficiente scorrere i nuovi statuti delle regioni ad autonomia ordinaria, che in diverse circostanze, nell’enunciare i principi guida dell’ordinamento regionale, pongono tra questi la dignità dell’uomo. Lo statuto della Regione Lombardia, ad esempio, sancisce all’art. 2, comma 1, che “la Regione riconosce la persona umana come fondamento della comunità regionale e ispira ogni azione al riconoscimento e al rispetto della sua dignità mediante la tutela e la promozione dei diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo”, ma anche in altri statuti si trovano analoghe affermazioni di principio, che evidenziano la centralità della persona e della dignità riferita all’uomo in quanto tale. In questo senso si vedano, ad esempio, lo statuto della Toscana, che all’art. 3, comma 2, individua tra le finalità della Regione, quella di realizzare “il pieno sviluppo della persona e dei principi di libertà, giustizia, uguaglianza, solidarietà, rispetto della dignità personale e dei diritti umani”, o ancora quello della Puglia, il cui art. 1, comma 1, sancisce che la Regione è “fondata sul rispetto della dignità, dei diritti, delle libertà della persona umana”. In altre circostanze la dignità è riferita a particolari categorie di individui, come nello statuto della Regione Lazio, che all’art. 6, dopo avere riconosciuto “il primato della persona e della vita”, afferma che la Regione tutela “il diritto degli anziani ad un’esistenza dignitosa”; mentre nello statuto dell’Umbria, all’art. 13, comma 2, si prevede che “la Regione, nell’attuazione delle politiche sanitarie, ispira la propria azione al principio della centralità e della dignità della persona malata”; o ancora nello statuto dell’Abruzzo, il cui art. 7 prevede, al comma 2, la garanzia di un’esistenza libera e dignitosa per anziani, disabili e per tutti i cittadini a rischio di esclusione sociale e, al

                                                            4 Cfr. da ultimo A. OCCHIPINTI, Tutela della vita e dignità umana, Torino, Utet, 2008, p.

34, secondo cui il concetto di dignità non è fisso, ma si adegua al mutare dei tempi e sintetizza “il livello di sensibilità espressa dalla società ed il senso del rispetto dovuto alla persona, ricostruito in relazione alla fase temporale di riferimento”.

5 Cfr. M. NUSSBAUM, Giustizia sociale, cit., pp. 36 ss.

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comma 5, la tutela della dignità e della sicurezza del lavoro in tutte le sue forme. Analogamente lo statuto dell’Emilia Romagna, il quale dispone che la Regione “opera per tutelare la dignità, la sicurezza e i diritti dei lavoratori” (art. 4, comma 1, lett. a)6 e per “rimuovere gli ostacoli che limitano o impediscono le pari opportunità e il diritto al lavoro e ad una vita dignitosa” (art. 4, comma 1, lett. c). Il medesimo statuto, peraltro, sul modello dell’art. 3 Cost., individua tra gli obiettivi della Regione l’attuazione del principio di uguaglianza e “di pari dignità delle persone” (art. 2, comma 1, lett. a).

3. La tutela della dignità nell’Unione Europea, tra Carta di Nizza e giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Sotto il profilo giuridico, la concezione “economicistica” della

persona, come rilevato dalla dottrina7, è stata abbandonata già negli anni Trenta del secolo scorso ed il binomio “libertà-proprietà” è stato gradualmente sostituito da quello “libertà-dignità umana”. Una prima positivizzazione del concetto di dignità si è avuta con la Costituzione di Weimar, il cui art. 151, comma 1, prevedeva che l’ordinamento della vita economica dovesse conformarsi ai principi di giustizia, al fine di garantire “un’esistenza dignitosa per tutti”8. È solo con il secondo dopoguerra, però, che la dignità dell’uomo si è ritagliata uno spazio sempre più ampio negli ordinamenti nazionali, come anche nei trattati e nelle carte internazionali9. Basti pensare ai preamboli della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, del Patto internazionale sui diritti civili e politici del

                                                            6 Nello stesso senso si veda l’art. 4, comma 1, lett. a) dello statuto della Toscana, in base al

quale la Regione persegue come finalità prioritaria “il diritto al lavoro e ad adeguate forme di tutela della dignità dei lavoratori”.

7 Cfr. A. BALDASSARRE, Libertà. I) Problemi generali, in Enc. Giur., Roma, Istituto Giuridico Treccani, 1990, XIX, p. 20, secondo il quale in quegli anni si perviene “all’idea della personalità come valore spirituale ed etico, che posto al vertice della gerarchia dei valori giuridici positivi, conforma, con la sua forza normativa superiore e secondo le leggi universali della dignità umana, il sistema dei diritti e dei doveri costituzionali”.

8 Non vi erano, ad esempio, riferimenti alla dignità nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che è peraltro una Dichiarazione borghese, incentrata ancora sulla tutela della libertà e della proprietà e sul principio di uguaglianza in senso formale, come uguaglianza davanti alla legge. Cfr. A. FACCHI, Breve storia dei diritti umani, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 52 ss.

9 Per alcuni riferimenti di diritto comparato cfr. G. ROLLA, Profili costituzionali della dignità umana, in E. CECCHERINI (a cura di), La tutela della dignità dell’uomo, cit., pp. 57 ss. Cfr. anche P. HABERLE, Cultura dei diritti e diritti della cultura nello spazio costituzionale europeo. Saggi, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 2 ss.

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1966 o alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, testi che muovono tutti dal riconoscimento della dignità immanente a ciascun membro della famiglia umana.

Su questa scia anche l’Unione Europa, nella predisposizione della Carta dei diritti fondamentali – che oggi ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati, per effetto dell’art. 6, n. 1, del Trattato sull’Unione Europea, come modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 in vigore dall’1 dicembre 2009 – ha rivolto una particolare attenzione alla dignità umana. Già nel Preambolo della Carta, infatti, si afferma che l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà, oltre che sui principi della democrazia e dello Stato di diritto. Inoltre il Titolo I, costituito da cinque articoli, è dedicato proprio alla “Dignità” ed il primo articolo della Carta sancisce l’inviolabilità della dignità umana, che deve essere rispettata e tutelata. Leggendo, poi, le “spiegazioni” predisposte dal Presidium della Convenzione Europea che aveva redatto la Carta, e destinate a costituire uno strumento per l’interpretazione delle disposizioni della Carta medesima, sembra che la dignità costituisca il valore fondante degli stessi diritti dell’individuo. Si afferma, infatti, che “la dignità della persona umana non è soltanto un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali”. Ne deriva, sempre secondo il Presidium, che “nessuno dei diritti sanciti nella presente Carta può essere usato per recare pregiudizio alla dignità altrui e che la dignità umana fa parte della sostanza stessa dei diritti sanciti nella Carta. Non può pertanto subire pregiudizio, neanche in caso di limitazione di un diritto”. Le “spiegazioni” elaborate dal Presidium si spingono oltre rispetto a quanto affermato nel Preambolo della Carta, ove la dignità umana è posta sullo stesso livello di altri valori, quali la libertà, l’uguaglianza e la solidarietà. Secondo il Presidium, invece, essendo la dignità alla base dei diritti fondamentali, non sarebbe ammissibile alcun bilanciamento o comunque alcuna limitazione della dignità in funzione di una maggior tutela di qualsiasi diritto fondamentale individuato nella Carta stessa. Questa interpretazione sarebbe poi rafforzata dal fatto che soltanto la dignità è dichiarata inviolabile e ciò potrebbe stare a significare che la dignità non è soggetta a bilanciamenti. Si delinea già una delle questioni principali che si riproporrà anche con riferimento alla nostra Carta costituzionale, ossia il rapporto tra dignità ed altri diritti fondamentali10.                                                             

10 Con riferimento alla Carta dei diritti fondamentali si vedano le riflessioni di F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale europeo”, in S. PANUNZIO (a cura di), I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Jovene, Napoli, 2005, pp. 596 ss. Cfr. anche M. OLIVETTI, Art. 1. Dignità umana, in R. BIFULCO – M. CARTABIA – A. CELOTTO (a cura di),

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172 Giuseppe Monaco

Quanto, poi, alla consistenza della dignità, in virtù di un’interpretazione sistematica, sembra evincersi che il diritto alla vita (art. 2), il diritto all’integrità fisica e psichica della persona (art. 3), la proibizione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti (art. 4) e la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato (art. 5), proprio perché inclusi nel Titolo I, sono direttamente collegati alla tutela della dignità e ne costituiscono una manifestazione. Peraltro, mentre è generalmente accolta la tesi che vede il contenuto degli articoli 3, 4 e 5 della Carta quale esplicazione della dignità dell’uomo, meno scontato, come si vedrà più avanti, è il nesso tra diritto alla vita e dignità, soprattutto se si dovesse accedere ad una nozione soggettiva di dignità.

Si aggiunga, inoltre, che nel nuovo art. 2 della versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea, vi è un esplicito riferimento ai valori della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze, quali valori fondativi dell’Unione.

La Carta dei diritti ha preso spunto evidentemente dalla Costituzione tedesca, che all’art. 1 sancisce l’intangibilità della dignità dell’uomo ed il dovere di ogni potere statale di rispettarla e proteggerla e che riconosce altresì i diritti umani fondamentali e inviolabili come conseguenza della stessa dignità. La Costituzione tedesca del 1948 si spinge, dunque, ben oltre il primo riconoscimento a livello costituzionale della dignità effettuato dalla Costituzione di Weimar. In Germania la necessità di affermare fin dal primo articolo della Legge Fondamentale l’intangibilità della dignità umana e lo stretto legame tra questa e i diritti dell’uomo nasceva dall’esigenza e dalla volontà di segnare una cesura netta con il precedente regime nazista e con la sistematica violazione della dignità umana che lo aveva caratterizzato.11 Nella Carta dei diritti l’affermazione iniziale e perentoria della dignità si ricollega alla volontà di prendere le distanze dal regime nazi-fascista e da ogni forma di totalitarismo, oltre che all’intenzione, si è detto12, di porre in evidenza il legame con l’umanesimo cristiano e laico caratterizzante la storia culturale dell’Occidente. La dignità dell’uomo è, infatti, concetto conosciuto già nel mondo greco e romano, ripreso da pensatori                                                                                                                               L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 45; R. BIFULCO, Dignità umana e integrità genetica nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in Rass Parl., 2005, pp. 63 ss.

11 Cfr. F. BERARDO, “La dignità umana è intangibile”: il dibattito costituente sull’art. 1 del Grundgesetz, in Quad. Cost., 2006, pp. 387 ss.; cfr. anche D. SCHEFOLD, Il rispetto della dignità umana nella giurisprudenza costituzionale tedesca, in E. CECCHERINI (a cura di), La tutela della dignità dell’uomo, cit., p. 115.

12 Così M. OLIVETTI, Art. 1, cit., p. 39.

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La tutela della dignità umana nella giurisprudenza 173

dell’Umanesimo e del Rinascimento e divenuto centrale nell’opera di filosofi come Kant13. In diverse Costituzioni europee14 si trovano, così, disposizioni che pongono la dignità dell’uomo a fondamento dell’ordinamento politico, sebbene non si riscontri la stessa perentorietà dell’art. 1 della Costituzione tedesca.

Indubbiamente l’approvazione a Nizza della Carta dei diritti ed il successivo esplicito richiamo alla Carta contenuto nel Trattato di Lisbona hanno contribuito a ridestare anche l’attenzione delle istituzioni dell’Unione Europea verso la dignità dell’uomo. È pur vero che, secondo una giurisprudenza ormai costante, i diritti fondamentali sono considerati dalla Corte di Giustizia come parte integrante dei principi generali del diritto, dei quali la Corte medesima garantisce l’osservanza e che “a tal fine, la Corte si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito”15, tra i quali riveste sicuramente un particolare rilievo la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. La tutela dei diritti fondamentali giustifica poi, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, pur se derivanti da una libertà fondamentale garantita dal Trattato, come la libera circolazione delle merci o la libera prestazione dei servizi16. Le conclusioni cui era pervenuta la giurisprudenza erano già state trasfuse nell’art. 6, n. 2 (oggi n. 3) TUE, in base al quale, appunto, l’Unione rispetta i diritti fondamentali come garantiti dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni, in quanto principi generali del diritto comunitario.

È anche vero, però, che finora la giurisprudenza della Corte di Giustizia non è stata chiamata frequentemente ad applicare il principio della dignità umana e, in alcune circostanze, ha dato l’impressione di voler evitare il ricorso ad un criterio così sfuggente. Si pensi, ad esempio, al caso                                                             

13 Per riferimenti filosofici si veda U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., pp. 7 ss. e, più in sintesi, P. BECCHI, Il principio della dignità umana. Breve excursus storico-filosofico, in A. ARGIROFFI – P. BECCHI – D. ANSELMO, (a cura di), Colloqui sulla dignità umana, cit., pp. 23 ss.

14 Si veda la Costituzione del Portogallo, che all’art. 1 stabilisce che “il Portogallo è una Repubblica sovrana fondata sui principi della dignità umana e della volontà del popolo”, oppure l’art. 10, comma 1, della Costituzione spagnola, secondo cui “la dignità della persona, i diritti inviolabili ad essa inerenti, il libero sviluppo della personalità, il rispetto della legge e dei diritti altrui sono il fondamento dell’ordine politico e della pace sociale”.

15 Così le sentenze 18 dicembre 1997, causa C-309/96, Annibaldi; 6 marzo 2001, causa C-274/99, Connolly, e, più di recente, 18 dicembre 2007, causa C-341/05, Laval e 18 dicembre 2008, causa C-347/07, Sopropé. Ma si veda già, in questo senso, la sentenza 12 novembre 1969, causa C-29/69, Stauder.

16 Così la Corte nella sentenza relativa alla causa C-341/05 cit.

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del rifiuto di permesso di soggiorno richiesto da alcune donne polacche e della Repubblica Ceca, che intendevano stabilirsi in Olanda per esercitare l’attività della prostituzione. In quella occasione la Corte17 si è limitata a prendere atto che la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita e dunque un’attività economica. Su tale presupposto, considerato altresì che l’esercizio della prostituzione in Olanda era autorizzato, ha ritenuto che detto Stato non potesse rifiutare l’applicazione di accordi in materia di stabilimento tra la Comunità da un lato e la Polonia e la Repubblica Ceca dall’altro, per motivi di moralità o di ordine pubblico. Nessun riferimento è stato fatto alla dignità dell’uomo,18 sebbene proprio nel caso della prostituzione appaia evidente che l’uomo o la donna sono considerati un mezzo e non certo un fine. A tal proposito si può ricordare che, diversamente, la Corte costituzionale italiana, con riferimento alla legge n. 75/1958, che aveva abolito la regolamentazione della prostituzione e che aveva introdotto altresì il reato di sfruttamento della prostituzione, aveva evidenziato lo stretto legame tra attività della prostituzione ed esigenze di tutela della dignità dell’uomo, indicando come alla base della nuova normativa ci fossero “particolari ragioni di tutela della dignità umana”19.

Un qualche riferimento alla dignità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia si poteva trovare, comunque, già prima della formulazione della Carta dei diritti del 2000, così, ad esempio, nel caso del licenziamento di un transessuale per motivi legati al suo mutamento di sesso20. In quella occasione la Corte di Giustizia, pur ritenendo che la direttiva concernente la parità di accesso al lavoro tra uomini e donne fosse innanzi tutto espressione del principio di uguaglianza, ha evidenziato al contempo come il diritto a non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisse uno dei diritti fondamentali della persona umana e un’eventuale discriminazione del genere avrebbe determinato una violazione della dignità e della libertà cui ogni persona ha diritto.21

                                                            17 Cfr. la sentenza 20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany. 18 Per un commento cfr. M. LUCIANI, Il lavoro autonomo della prostituta, in Quad. Cost.,

2002, pp. 398 ss., il quale sottolinea come la decisione della Corte sia stata dettata dall’assenza di un parametro come quello della dignità della persona – tenuto conto che la Carta dei diritti non costituisce ancora una vera e propria fonte del diritto dell’Unione – che avrebbe costretto la Corte a prendere in considerazione anche questo valore e a non dare esclusiva rilevanza alla prospettiva economicistica.

19 Così la sentenza 4 giugno 1964, n. 44, in Giur. Cost., 1964, pp. 532 ss. 20 Così la Corte di Giustizia con la sentenza del 30 aprile 1996, causa C-13/94. 21 Anche la Corte costituzionale, investita della questione di costituzionalità della L.

14/1982 in tema di rettificazione di sesso, ha riconosciuto, con la sent. 24 maggio 1985, n. 161,

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Il ricorso alla dignità umana è stato centrale in almeno due pronunce, nelle quali il concetto è stato peraltro impiegato con modalità differenti. Con la nota sentenza concernente la direttiva del Consiglio e del Parlamento 6/7/1998, 98/44/CE, sulla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche22, la Corte di Lussemburgo ha ritenuto di dovere vigilare, in sede di verifica della conformità degli atti delle istituzioni ai principi generali del diritto comunitario, “sul rispetto del diritto fondamentale alla dignità umana ed all’integrità della persona”. Nel caso di specie ha considerato garantito dalla direttiva il rispetto dovuto alla dignità umana, in quanto l’art. 5, comma 1, della direttiva medesima vieta che il corpo umano possa costituire un’invenzione brevettabile e, più in generale, in quanto la direttiva consente di brevettare soltanto quelle invenzioni che associno un elemento del corpo umano a un processo tecnico che consenta di isolarlo o di produrlo ai fini di un suo sfruttamento industriale. Precisa la Corte che un’ulteriore protezione della dignità umana è assicurata dall’art. 6 della direttiva, che considera contrari all’ordine pubblico e quindi esclusi dalla brevettabilità i procedimenti di clonazione di esseri umani e le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali.23

In questa circostanza la Corte ha dunque valutato la legittimità di una direttiva comunitaria anche alla luce del rispetto dovuto alla dignità umana, intesa come diritto fondamentale.

In una successiva e altrettanto nota pronuncia,24 in materia di circolazione di servizi, la Corte di Lussemburgo, anziché fare riferimento ad un “diritto alla dignità”, quale figura soggettiva autonoma, ha preferito fare ricorso al rispetto della dignità quale “principio generale del diritto”, che l’ordinamento giuridico comunitario è senza dubbio tenuto ad assicurare. Nel caso di specie era stata proposta (da un giudice tedesco) una domanda di pronuncia pregiudiziale in merito alla compatibilità con la normativa                                                                                                                               in Giur. Cost., 1985, pp. 1173 ss., come la legge in questione si sia mossa nella direzione di soddisfare l’esigenza fondamentale di far coincidere il soma con la psiche, nell’interesse del transessuale ad una vita di relazione il più possibile normale ed ha pertanto individuato la matrice della L. 164/1982 in quella civiltà giuridica “sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”.

22 Cfr. la sentenza 9 ottobre 2001, causa C-377/01. 23 Su questi temi e in particolare per alcune considerazioni sull’art.3, comma 2, della Carta

di Nizza, si vedano R. BIFULCO, Dignità umana e integrità genetica, cit., pp. 99 ss.; G. RESTA, Disponibilità dei diritti fondamentali e commercializzazione: prime note su “sistema” della Carta dei diritti, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO COMPARATO, I diritti fondamentali in Europa, XV Colloquio biennale - Messina-Taormina, 31 maggio – 2 giugno 2001, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 200 ss.

24 Si tratta della sentenza 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega. Per un commento cfr. M.E. GENNUSA, La dignità umana vista dal Lussemburgo, in Quad. Cost., 2005, pp. 174 ss.

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comunitaria di un divieto di attività commerciale consistente nella gestione di un “laserdromo”, all’interno del quale veniva praticato un gioco avente come fine quello di colpire uomini mediante raggi laser o infrarossi e consistente, dunque, nella simulazione di omicidi. La Corte, dopo avere premesso, da un lato, che la libertà di prestazione di servizi può subire restrizioni dettate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, e che l’ordine pubblico può essere invocato soltanto in caso di effettiva e grave minaccia ad uno degli interessi fondamentali della collettività, e, dall’altro lato, che la tutela della dignità, quale principio generale del diritto, consente una limitazione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato, ha ritenuto che, nel caso di specie, vi fosse un’effettiva violazione della dignità umana. Ne è seguita una pronuncia di compatibilità con il diritto comunitario del provvedimento nazionale di divieto dell’attività commerciale in questione.

Questa sentenza viene ancora oggi considerata il punto di riferimento in tema di tutela della dignità nell’Unione Europea. Eppure in questa circostanza il ricorso alla dignità – intesa chiaramente in senso oggettivo, a specificazione e giustificazione di altro concetto indeterminato, come quello di “ordine pubblico” – non sembra essere così convincente. Tanto più che la Corte ha ammesso espressamente che non occorre una condivisione a livello comunitario del contenuto della dignità, come anche dell’ordine pubblico, spettando alle autorità nazionali un certo potere discrezionale, sia pure entro i limiti imposti dal Trattato. In sostanza si riconosce che il rispetto della dignità rientra tra i principi generali del diritto che il diritto comunitario deve garantire, ma al tempo stesso si rinuncia a ricostruire un concetto di dignità che possa andar bene in tutti gli Stati membri, rifacendosi, dunque, al livello di tutela della dignità che il singolo Stato intende assicurare. Peraltro in questa pronuncia la Corte di Giustizia non si esime da una verifica in merito al rispetto del principio di proporzionalità delle misure restrittive della libertà di prestazione di servizi. Nel caso di specie, essendo stata vietata unicamente la variante del gioco consistente nel colpire con il laser bersagli umani, la Corte ha ritenuto rispettati i canoni del principio di proporzionalità, in quanto il provvedimento non era andato oltre lo stretto necessario per assicurare l’obiettivo perseguito dalle autorità competenti. Resta da chiedersi se in futuro l’applicazione del principio di proporzionalità possa condurre a risultati diversi, soprattutto nel caso in cui

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la Corte dovesse utilizzare un maggior rigore nella verifica di ciò che secondo le autorità nazionali comporta una lesione della dignità umana.25

4. La “dignità” nella Carta Costituzionale italiana, tra previsioni esplicite e riferimenti impliciti.

Nella nostra Costituzione non vi è una norma equivalente all’art. 1

della Costituzione tedesca o all’art. 1 della Carta dei diritti dell’Unione Europea, ma vi è comunque un riferimento esplicito alla “dignità” in almeno tre disposizioni26: nell’art. 3, che stabilisce la “pari dignità sociale” di tutti i cittadini; nell’art. 36, in base al quale la retribuzione del lavoratore deve essere sufficiente ad assicurare “un’esistenza dignitosa” al lavoratore stesso e alla sua famiglia; e nell’art. 41, che individua la “dignità umana” come limite all’iniziativa economica privata. In queste ultime due disposizioni, però, il concetto di dignità sembra avere un campo di applicazione limitato, in quanto è riferito o alla categoria, pur intesa in senso ampio, dei lavoratori, oppure figura come limite in grado di conformare una libertà specifica, quella di iniziativa economica.

Sicuramente più esteso appare il riferimento contenuto all’art. 3 Cost., per quanto non sia stato particolarmente approfondito dalla dottrina e non sia stato utilizzato dalla giurisprudenza in modo autonomo rispetto al contestuale principio di uguaglianza. L’affermazione che tutti i cittadini hanno “pari dignità sociale” è stata in una prima fase intesa come un mero divieto di riconoscimento di valore ai titoli nobiliari27, ma questa interpretazione è rimasta isolata, in quanto ritenuta troppo riduttiva. Non si è però raggiunta una lettura condivisa di questa norma, risultando difficile spiegare bene la differente portata della “pari dignità sociale” rispetto al successivo principio di uguaglianza per un verso e, per altro verso, rispetto alla dignità umana. Vi è, infatti, chi ha individuato nella “pari dignità                                                             

25 Per una critica, sotto questo profilo, all’argomentazione della Corte di Giustizia, cfr. F. SACCO, Note sulla dignità umana, cit., pp. 606 ss.

26 Si veda, però, P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, in E. CECCHERINI (a cura di), La tutela della dignità dell’uomo, cit., pp. 97 ss., che tiene conto anche dell’art. 48 Cost., u. c., e del riferimento in esso contenuto ai “casi di indegnità morale indicati dalla legge”, come limitazione del diritto di voto.

27 Così G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, Milano, Giuffrè, 1972, p. 436; cfr. anche A. AMORTH, La Costituzione italiana (commento sistematico), (1948), oggi in ID., Scritti giuridici, III, Milano, Giuffrè, 1999, 1088 pp. ss., il quale, però, pur riconoscendo nella disposizione transitoria che ha abolito il valore dei titoli nobiliari un’applicazione della formula della pari dignità sociale, al contempo definisce quest’ultima come un’estensione del principio di uguaglianza dal piano giuridico al piano sociale, connessa ad un ulteriore principio costituzionale, quello della giustizia sociale.

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sociale” il fondamento della dignità dell’uomo, da intendere poi, essenzialmente, come diritto all’onore28, ma vi sono altre letture che ricercano un significato autonomo della clausola di cui all’art. 3, comma 1, Cost. Secondo autorevole dottrina, infatti, la dignità, il cui concetto si ricaverebbe dall’insieme delle disposizioni costituzionali che hanno ad oggetto la persona umana, costituirebbe il valore che si intende proteggere, mentre la pari dignità sociale rappresenterebbe piuttosto l’obiettivo e, al contempo, lo strumento normativo per perseguirlo. Pari dignità, in quest’ottica, non significherebbe parità di chances – nel qual caso non si distinguerebbe dal principio di uguaglianza – bensì parità di condizioni “all’interno dei rapporti che implicano l’esercizio dei diritti di libertà dei rapporti etico-sociali, economici e di quelli politici”29. In questa prospettiva ciascun cittadino è dunque portatore di un valore pari a quello di tutti gli altri cittadini, e la parità non richiede, come invece l’uguaglianza, un’ulteriore mediazione da parte del legislatore, potendo già operare direttamente per delimitare l’autonomia privata.30

Anche la Corte costituzionale non ha ricostruito in modo autonomo il concetto di “pari dignità sociale”. Nella sentenza 494/2002, con riferimento ai figli nati da persona legata da un vincolo di parentela in linea retta, oppure in linea collaterale nel secondo grado, la Corte ha dichiarato incostituzionale la norma (art. 278, co. 1, c.c.) che esclude la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità naturali e le relative indagini, in quanto in violazione del “diritto a uno status filiationis, riconducibile all’art. 2 Cost. e del principio di uguaglianza, come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali”. La Corte, dunque, da un lato ricomprende il diritto del figlio al riconoscimento formale del proprio status filiationis nel diritto

                                                            28 Cfr., in tal senso, A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale,

Padova, Cedam, 1990, p. 47. 29 Così M. LUCIANI, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Padova,

Cedam, 1983, p. 201, che a sua volta riprende un precedente lavoro di G. FERRARA, La pari dignità sociale. Appunti per una ricostruzione, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, II, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 1089 ss.

30 In tal senso M. LUCIANI, La produzione economica, cit., p. 200; G. FERRARA, La pari dignità sociale, cit., pp. 1097 ss.; cfr. anche P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, cit., p. 102. Secondo quest’ultimo Autore, mentre l’eguaglianza consiste in una relazione di identità tra due o più situazioni e nella conseguente irrilevanza per il diritto delle differenze pur presenti in natura e, in quanto tale, non costituisce un principio dinamico, la parità, invece, “si risolve in una situazione di equivalenza, originaria od indotta”. Così, a titolo esemplificativo, l’art. 51, comma 2, Cost., consente che persone in situazione di non eguaglianza (cittadini da una parte e italiani non appartenenti alla Repubblica dall’altra) possano raggiungere una posizione di parità con riferimento all’ammissibilità ai pubblici uffici.

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all’identità personale, il cui fondamento viene individuato dalla Corte stessa nell’art. 2 Cost., dall’altro lato ha fatto ricorso alla pari dignità sociale come fondamento della pronuncia di illegittimità costituzionale della norma impugnata, intendendolo, però, come un aspetto del principio di uguaglianza.31 Non dissimile è stato il risultato quando la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulle azioni positive in favore dell’imprenditoria femminile. La Consulta ha individuato il fondamento costituzionale delle azioni positive a favore di determinate categorie sociali svantaggiate nella realizzazione della “garanzia effettiva del valore costituzionale primario della pari dignità sociale”32. Al contempo, però, ha riconosciuto che le disposizioni oggetto del giudizio, volte a promuovere l’imprenditoria femminile, sono svolgimento immediato del dovere fondamentale stabilito dall’art. 3, comma 2, Cost. La “pari dignità sociale” è stata letta, quindi, in stretta connessione con il principio di eguaglianza sostanziale, anzi, come si trattasse dello stesso principio.

In realtà, accanto alle previsioni esplicite degli artt. 3, 36 e 41, nella Costituzione si trovano numerosi termini o espressioni che richiamano il concetto di dignità. Basti pensare all’art. 13, comma 4, laddove prevede che è punita ogni violenza fisica o morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà, o all’art. 27, comma 3, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, o ancora all’art. 32, sia nella parte in cui garantisce cure gratuite agli indigenti, sia, in modo più evidente, in tema di trattamenti sanitari obbligatori, laddove stabilisce che la legge non può mai violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Più in generale, poi, un riferimento implicito alla dignità si può riscontrare nell’art. 2, anello di congiunzione tra il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo e l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale e nell’art. 3, in particolare nel principio di eguaglianza sostanziale laddove richiede la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Dietro il rispetto e lo sviluppo della persona umana – la pietra d’angolo, secondo La Pira, su cui edificare l’intera Costituzione33 – vi sarebbe proprio la volontà di assicurare un’effettiva tutela della dignità dell’uomo, che, in questa prospettiva, acquisirebbe una portata di principio fondamentale, o come è

                                                            31 Cfr. la sent. 28 novembre 2002, n. 494, in Giur. Cost., 2002, pp. 4058 ss. 32 Così la sent. 26 marzo 1993, n. 109, ivi, 1993, p. 886. 33 Cfr. U. DE SIERVO, Il pluralismo sociale dalla Costituzione repubblicana ad oggi:

presupposti teorici e soluzioni nella Costituzione italiana, in AA.VV., Il pluralismo sociale nello Stato democratico, Milano, Vita e pensiero, 1980, p. 62.

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stato detto34, di “valore supercostituzionale” nei confronti delle stesse libertà e dei diritti inviolabili dell’uomo. La dignità verrebbe cioè a rappresentare “il con-fine delle libertà costituzionalmente protette”, proprio perché costituirebbe “l’unico vero fine che esse possono e devono perseguire”35. La considerazione che il principio personalista trovi piena attuazione soltanto a condizione che vi sia un effettivo rispetto della dignità umana può dirsi ormai consolidata nell’interpretazione costituzionale. Ancora negli anni più recenti, si è ribadito il nesso indissolubile tra persona e dignità36. Evidentemente il riconoscimento di un simile nesso comporta altresì il riconoscimento che la dignità umana trova un fondamento generale nella Costituzione italiana a prescindere dai singoli richiami contenuti nelle tre disposizioni sopra indicate.

5. Le molteplici applicazioni del concetto di dignità ad opera della Corte costituzionale e alcuni sviluppi suggeriti dalla Corte di Cassazione.

Nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea la dignità

sembra operare come un limite alla libertà altrui e l’affermazione dell’art. 1 dell’inviolabilità della dignità umana, è stato detto37, potrebbe voler significare la prevalenza della dignità rispetto agli altri diritti previsti nella Carta. Nel nostro ordinamento costituzionale non è altrettanto chiara la sussistenza di una scala gerarchica di valori al vertice della quale sarebbe posta la dignità umana, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali, per quanto, come noto, è stata la stessa Corte costituzionale a riconoscere l’esistenza di una qualche forma di gerarchia quando ha fatto riferimento a principi supremi dell’ordinamento costituzionale non suscettibili di revisione costituzionale38. Su questo delicato tema si tornerà

                                                            34 Cfr. A. RUGGERI – A. SPADARO, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale

(prime notazioni), in Pol. Dir., 1991, p. 347. 35 Ibidem. 36 Cfr., tra gli altri, G. SILVESTRI, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità

della persona. Intervento al Convegno trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, tenutosi a Roma il 1° ottobre 2007, in http//www.associazionedeicostituzionalisti.it.; ma si veda già A. AMORTH, La Costituzione italiana, cit., pp. 1085 ss., secondo il quale il principio personalistico implica una preminenza dell’uomo rispetto alla società e allo Stato, “preminenza che si estrinseca nell’appartenenza irrinunciabile all’uomo di una serie di facoltà (diritti), formanti il patrimonio irriducibile della dignità dell’uomo, come essere libero e progressivo”.

37 Cfr. P.F. GROSSI, Dignità umana e libertà nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in M. SICLARI (a cura di), Contributi allo studio della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Torino, Giappichelli, 2003, pp. 43 ss.; R. BIFULCO, Dignità umana e integrità genetica, cit., pp. 87 ss.

38 Cfr. Corte cost. 29 dicembre 1988 n. 1146, in Giur. Cost., 1988, p. 5569.

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più avanti, dovendo prima verificare in quali settori la Consulta ha fatto più frequente ricorso al concetto di dignità. Un recente studio39, che ha preso in esame la giurisprudenza della Corte di un ventennio (1987-2006), ha indicato, tra i settori in cui più frequentemente è stato evocato il concetto di dignità, la tutela dei minori, la tutela della salute, i diritti dei detenuti e dei lavoratori ed anche il settore del condono edilizio, evidenziando, peraltro, nell’ultimo periodo preso in esame (2002-2006), un minore impiego da parte della Corte del concetto di dignità.

- Osservando la giurisprudenza della Corte non sfugge, innanzi tutto,

un’affermazione della Consulta che sembra richiamare l’art. 1 della Costituzione tedesca. Nella sentenza 388/1999 – relativa ad una questione di legittimità dell’art. 696 c.p.c., in tema quindi di accertamento tecnico preventivo, sollevata con riferimento soltanto ai parametri del diritto di azione in giudizio e del diritto ad un giudizio di durata ragionevole – la Corte, in un inciso, dichiara che i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost. sono “sempre più avvertiti dalla coscienza contemporanea come coessenziali alla dignità della persona”40. Il valore attribuito ai diritti inviolabili dell’uomo è dunque inteso, così come nella Carta costituzionale tedesca, come una diretta conseguenza della dignità della persona, che sembra assurgere effettivamente a valore supercostituzionale di riferimento. Occorre, però, aggiungere che una conclusione così rilevante necessita di qualche conferma, trattandosi pur sempre di un’affermazione contenuta in un inciso; tanto più che in altre circostanze41 la Corte aveva individuato nel valore supremo della libertà personale, insieme al diritto ad esso strettamente connesso alla vita ed all’integrità fisica, la matrice prima di ogni altro diritto costituzionalmente protetto della persona.

Una conferma giunge di lì a poco, quando la Corte viene chiamata a valutare la legittimità costituzionale di una norma che sanziona penalmente l’utilizzazione di stampati che descrivano avvenimenti con particolari impressionanti o raccapriccianti, tali da poter turbare il comune sentimento della morale42. In quella circostanza la Corte salva la norma contestata ritenendo che il riferimento al “comune sentimento della morale” vada inteso alla luce del valore della dignità della persona umana che costituisce

                                                            39 Cfr. A. PIROZZOLI, Il valore costituzionale della dignità, cit., pp. 127 ss. 40 Cfr. la sent. 22 ottobre 1999, n. 388, in Giur. Cost., 1999, p. 2994. 41 Così la Corte cost. nella sentenza 9 luglio 1996, n. 238, ivi, 1996, p. 2145. 42 Cfr. la sent. 11 luglio 2000, n. 293, ivi, 2000, pp. 2239 ss., con nota fortemente critica di

A. ODDI, La riesumazione dei boni mores, ivi, pp. 2245 ss. I principi di diritto enunciati in questa decisione hanno poi trovato conferma nell’ord. 5 aprile 2002, n. 92, ivi, 2002, pp. 814 ss.

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il bene giuridico tutelato dalla norma stessa. Il contenuto minimo del “comune sentimento della morale” è costituito proprio dal rispetto della persona umana che è alla base dell’art. 2 Cost., che deve essere tutelato dall’ordinamento di fronte a quelle pubblicazioni con particolari raccapriccianti o impressionanti che sono lesive della dignità umana. In sostanza la Corte ricorre al concetto di dignità per precisare il contenuto non solo del comune sentimento della morale ma anche, indirettamente, di un’altra clausola elastica, quella del “buon costume”, che compare nell’art. 21 Cost., come possibile limite per la libertà di stampa. Il rigetto viene, quindi, argomentato senza ricorrere alla tecnica del bilanciamento tra valori costituzionali contrapposti, quanto, almeno formalmente, mediante un’operazione di interpretazione del limite del buon costume. D’altra parte non può sfuggire che il ricorso alla dignità consente alla Corte di superare non solo le obiezioni concernenti l’asserita lesione dell’art. 21 Cost., ma anche quelle relative alla determinatezza della fattispecie penale. Eppure lo stesso concetto di dignità, che dovrebbe orientare il giudice nell’interpretazione del comune sentimento della morale, è a sua volta sfuggente, tanto più se lo si riferisce alla collettività e non al singolo individuo. Dalla norma impugnata, come anche dalla sentenza della Corte, sembrerebbe, infatti, che la dignità da tutelare non è tanto quella dell’individuo rappresentato nelle immagini pubblicate sul giornale, quanto quella della collettività, come sembra ricavarsi dal quel passaggio della pronuncia in cui la Corte si riferisce alla “soglia di attenzione della comunità civile” che verrebbe “colpita negativamente e offesa dalle pubblicazioni di scritti con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività”. In definitiva con questa sentenza la Corte sembra confermare quella lettura della dignità umana come valore costituzionale che non può essere sottoposto a restrizioni di sorta e quindi bilanciato con ulteriori valori e che consente all’ordinamento di introdurre, al contrario, limitazioni di altre libertà fondamentali come la libertà di stampa.43

                                                            43 Per un collegamento tra buon costume e dignità della persona che ha consentito in altre

circostanze una limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, si veda anche la sent. 19 febbraio 1965, n. 9, in Giur. Cost., 1965, pp. 80-81, in cui la Corte aveva ritenuto violato il buon costume dall’attività di propaganda di pratiche contro la procreazione, in quanto svolta in luogo pubblico o aperto al pubblico. Il buon costume, dunque, derivava da una serie di precetti che imponevano un determinato comportamento nella vita sociale di relazione. L’inosservanza di detti precetti implicava la violazione del pudore sessuale, “della dignità personale che con esso si congiunge” e del sentimento morale dei giovani. Il richiamo alla dignità umana, e tramite essa al buon costume, per giustificare una norma del codice penale che comportava chiaramente una limitazione sostanziale della libera manifestazione del pensiero, secondo

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- In altre circostanze la Corte ha impiegato la dignità umana con

modalità differenti, per rafforzare le conclusioni cui si poteva già pervenire in applicazione di altri diritti costituzionali, come il diritto alla salute. Si pensi, infatti, alla sentenza 252/2001, concernente la fruizione di prestazioni indifferibili e urgenti per lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato italiano, in cui la Corte ha riconosciuto la possibilità di un differimento dell’esecuzione dell’espulsione dello straniero che abbia bisogno di cure indifferibili e urgenti, dovendosi comunque assicurare a tutti quel “nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto”44. Precisare che il nucleo irriducibile della salute trova il suo fondamento nella dignità umana costituisce argomento retorico di sicura efficacia, ma il risultato avrebbe potuto essere il medesimo, anche senza il richiamo alla dignità, considerato che il diritto alla salute è definito “fondamentale” dal testo costituzionale.45                                                                                                                               quanto riconosciuto dalla Corte stessa, appare oggi forzato e inappropriato. L’evoluzione dei costumi esclude che la libertà di cui all’art. 21 cost. possa incontrare un limite nella nozione di buon costume come ricostruita dalla Corte nella sentenza del 1965. Evidentemente anche la nozione di dignità è mutata con il passare del tempo e ciò non può non far riflettere sull’utilizzo di questo concetto così ampio e indeterminato, che richiama inevitabilmente ideali e valori di un certo momento storico, per giustificare restrizioni significative di altre libertà fondamentali.

44 Così la sent. 17 luglio 2001, n. 252, ivi, 2001, p. 2171. 45 Analogo discorso potrebbe farsi con riferimento a quella giurisprudenza della Corte

relativa all’attuazione dell’art. 32 e al problema delle risorse economiche sufficienti per assicurare determinate prestazioni. Si veda, ad esempio, la sent. 16 luglio 1999, n. 309, ivi, 1999, pp. 2500 ss.. In questa pronuncia la Corte ribadisce che le esigenze della finanza pubblica non possono giungere a comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute tutelato dalla Costituzione “come ambito inviolabile della dignità umana”. Nello stesso senso cfr. anche le sentt. 20 novembre 2000, n. 509, ivi, 2000, p. 4009 e 18 marzo 2005, n. 111, ivi, 2005, p. 1014. Si veda, però, la sent. 17 luglio 1998, n. 267, ivi, 1998, pp. 2076 ss., che giunge a dichiarare l’incostituzionalità di una legge del Piemonte, per violazione dell’art. 32 Cost., “nella parte in cui non prevede il concorso nelle spese per l’assistenza indiretta per le prestazioni di comprovata gravità ed urgenza, quando non sia stato possibile ottenere la preventiva autorizzazione e sussistano le altre condizioni necessarie per il rimborso”. La Corte, dunque, in questa circostanza si limita a richiamare il nucleo essenziale del diritto alla salute (insieme all’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza) per giustificare una pronuncia di illegittimità costituzionale, senza ricorrere alla dignità quale fondamento dello stesso nucleo irriducibile del diritto alla salute. E così (nessun richiamo alla dignità), del resto, si era già espressa la Corte anche in una delle prime pronunce sulla possibilità di accedere, dietro rimborso delle spese sostenute, alle prestazioni fornite da strutture sanitarie private, qualora lo richiedesse la piena ed esaustiva tutela del diritto primario e fondamentale alla salute. Cfr. la sent. 27 ottobre 1988, n. 992, ivi, 1988, pp. 4673 ss.

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Analogamente per il diritto alla riservatezza, ritenuto dalla Corte come strettamente attinente al nucleo essenziale dei valori di personalità, in assenza del quale la persona “non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana”.46 La Corte ha peraltro cercato di enfatizzare questo legame tra inviolabilità della segretezza e della libertà delle comunicazioni con la protezione del nucleo essenziale della dignità e dei valori della personalità, sostenendo che tale connessione deve spingere l’interprete ad una lettura per quanto possibile espansiva di quella libertà47. In realtà, anche in questi casi, essendo la questione incentrata sugli artt. 266 e 270 c.p.p. in tema di intercettazioni telefoniche e, dunque, sui limiti cui può andare incontro la libertà e la segretezza delle comunicazioni, sarebbe stato sufficiente applicare direttamente l’art. 15 Cost., senza dover ricercare un ulteriore fondamento di questo diritto costituzionale. L’interpretazione estensiva di una norma può, cioè, giustificarsi già in virtù dell’affermazione di inviolabilità del bene costituzionalmente tutelato dall’art. 15, a prescindere dalla sua connessione con i valori della personalità.

L’utilizzo in questa direzione del concetto di dignità appare dunque non particolarmente rilevante dal punto di vista delle argomentazioni della Corte e del risultato finale, sebbene sia sempre più frequente nella giurisprudenza in tema di diritti48 e in particolare di diritti sociali49. In questo settore, peraltro, il riferimento alla dignità è stato a volte

                                                            46 Cfr. la sent. 23 luglio 1991, n. 366, ivi, 1991, p. 2917. 47 Così la sent. 11 marzo 1993, n. 81, ivi, 1993, pp. 731 ss. 48 Si veda, ad esempio, anche la giurisprudenza della Corte in tema di libertà religiosa. In

particolare la sent. 30 settembre 1996, n. 334, ivi, 1996, p. 2921 - relativa alle modalità in cui si presta il giuramento decisorio ex art. 238 c.p.c. – secondo cui la libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa, garantita come diritto dagli artt. 2, 3 e 19 Cost., “rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2”. Si veda anche, però, la sent. 5 maggio 1995, n. 149, ivi, pp. 1241 ss., relativa all’art. 251 c.p.c. e al giuramento del testimone. In questa circostanza, del tutto analoga a quella precedente, la Corte giunge alla medesima conclusione di incostituzionalità della norma, senza però fare alcun richiamo alla dignità umana. L’argomentazione della Consulta si ferma agli artt. 3 e 19 Cost. e alla dichiarazione della priorità assoluta da riconoscere alla libertà di coscienza, soprattutto se correlata ai propri convincimenti morali e filosofici (art. 21 Cost.), oppure alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 Cost.).

49 Cfr., ad esempio, la sent. 23 maggio 2008, n. 166, ivi, 2008, pp. 1999 ss., in tema di edilizia residenziale pubblica; la sent. 30 luglio 2008, n. 306, ivi, pp. 3324 ss., in tema di indennità di accompagnamento in favore di stranieri extracomunitari; la sent. 29 aprile 1999, n. 167, ivi, 1999, pp. 1607 ss., relativamente all’accesso all’abitazione del soggetto portatore di handicap; la sent. 24 luglio 1996, n. 303, ivi, 1996, pp. 2503 ss., in tema di adozione di minori stranieri; la sent. 23 gennaio 2009, n. 11, in http//www.cortecostituzionale.it, concernente il diritto alla pensione di inabilità per lo straniero invalido civile. Sono tutte pronunce che richiamano esplicitamente la tutela della dignità umana per rafforzare le conclusioni della Corte.

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determinante nella creazione di nuovi diritti, nel senso di diritti non espressamente contemplati dalla Costituzione. Così è stato, ad esempio, per il diritto all’abitazione, ritenuto dalla Corte fondamentale per la realizzazione della forma di Stato sociale voluta dalla nostra Costituzione e strettamente collegato alla dignità umana.50

- In altre situazioni ancora, il concetto di dignità è stato utilizzato per

specificare e precisare il contenuto di altri diritti costituzionali. Così è avvenuto, ad esempio, per la libertà personale, la cui esatta delimitazione, anche rispetto ad altre libertà, come la libertà di circolazione, ha da sempre costituito oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza. Secondo la Corte la misura di prevenzione consistente nell’invio di un soggetto nel comune di residenza con foglio di via obbligatorio, al pari del provvedimento di rimpatrio sempre con foglio di via obbligatorio, non incide sulla sfera della libertà personale, in quanto, affinché “la libertà personale venga effettivamente incisa, deve verificarsi una degradazione giuridica dell’individuo nel senso dell’avverarsi di una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da poter essere equiparata a quell’assoggettamento all’altrui potere in cui si concreta la violazione dell’habeas corpus”51. Il riferimento alla dignità serve, in questo caso, a spiegare il significato di degradazione giuridica dell’individuo e, quindi, a delimitare l’ambito di applicazione dell’art. 13 Cost., sulla scia di quella dottrina che, pur giungendo a conclusioni opposte sulla questione specifica, già negli anni Sessanta asseriva che le misure ad personam, fondate su giudizi di pericolosità sociale del soggetto, fossero lesive della libertà personale proprio perché andavano a incidere sulla “pari dignità sociale” dell’individuo. Venendo meno la “pari dignità sociale” di cui all’art. 3 Cost., non si poteva più ritenere soddisfatta l’esigenza del rispetto del valore della persona umana.52                                                             

50 Cfr. la sent. 25 febbraio 1988, n. 217, in Giur. Cost., 1988, nella quale la Corte così, significativamente, conclude: “In breve, creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale di dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in ogni caso”.

51 Così la sent. 31 maggio 1995, n. 210, in Giur. Cost., 1995, p. 1589. 52 Così A. BARBERA, Pari dignità sociale e valore della persona umana nello studio del

diritto di libertà personale, in Iustitia, 1962, pp. 129 ss. Cfr. anche l’osservazione di P.F. GROSSI alla sentenza del Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 1959, n. 171, in Giur. Cost., 1959, p. 593. La Corte, con sent. 3 luglio 1956, n. 11, ivi, 1956, p. 617, aveva riconosciuto che l’ammonizione, determinando una sorta di degradazione giuridica dell’individuo che la subisce, comporta inevitabilmente una restrizione della libertà personale.

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- Dignità, dunque, come limite, ma anche come elemento rafforzativo

oppure specificativo di altri diritti costituzionali. Più recentemente, però, la dignità sembra assumere la veste di un diritto soggettivo autonomo, in grado di legittimare pretese risarcitorie, il cui fondamento costituzionale viene individuato nell’art. 2 Cost.

Frequente è il riferimento alla sentenza n. 561/1987, con cui la Corte aveva riconosciuto il diritto ad un trattamento pensionistico di guerra come indennizzo per i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione della guerra. In quella circostanza la Corte aveva ritenuto che la violenza carnale comportasse “lesione di fondamentali valori di libertà e di dignità della persona”53, ribadendo il principio già enunciato nella più nota sentenza in tema di risarcimento del danno biologico54, secondo cui, nel caso di lesione di diritti e interessi dichiarati fondamentali dalla Costituzione, non sarebbe ammissibile alcun limite alla loro tutela risarcitoria.

Queste affermazioni sono state ulteriormente sviluppate, soprattutto dalla giurisprudenza di legittimità e sempre con l’avallo della Corte costituzionale. La Cassazione ha cioè riconosciuto l’estensione della nozione di “danno non patrimoniale”, da intendersi non più soltanto come “danno morale soggettivo”, bensì “come danno da lesione di valori inerenti alla persona”55. Laddove vengano in considerazione valori personali di

                                                            53 Così la sent. 18 dicembre 1987, n. 561, ivi, 1987, pp. 3535 ss. 54 Si tratta della sent. 14 luglio 1986, n. 184, ivi, 1986, pp. 1430 ss., con cui la Corte ha

riconosciuto che la risarcibilità del danno biologico in sé considerato, a prescindere cioè da ulteriori conseguenze sotto il profilo patrimoniale o del danno morale, deriva da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2043 c.c. Tale articolo, correlato all’art. 32 Cost., viene esteso fino a comprendere il risarcimento di “tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”.

55 Cfr. Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827. Si veda anche la sentenza cd. “gemella” (Cass. Civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828), che ha riconosciuto nell’art. 2059 c.c. il fondamento del risarcimento del danno da uccisione di congiunto, essendo il bene protetto – “intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia” e “inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana” nell’ambito della famiglia – un interesse di rilevo costituzionale privo di natura economica. In altra sentenza (Cass. civ., sez. III, 3 luglio 2008, n. 18210) il giudice di legittimità enuncia un principio di diritto in base al quale è da risarcire, ai sensi dell’art. 2059 c.c. – interpretato in modo conforme alla Costituzione – il danno non patrimoniale “derivante da ogni ingiusta lesione di un valore inerente alla persona umana, specie se di rilevanza costituzionale, quale è l’offesa alla reputazione professionale e alla dignità del medico di base”. Si veda pure la sent. del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1096/2005, che in applicazione dei principi enunciati dalla Cassazione e fatti propri dalla Corte costituzionale, riconosce il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dall’omessa attribuzione di supplenza

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rilievo costituzionale, allora non può ritenersi che il risarcimento del danno non patrimoniale possa essere sottoposto al limite della riserva di legge di cui all’art. 2059 c.c., correlata all’art. 185 c.p., perché in tal caso l’indennizzo costituisce la forma minima di tutela, non assoggettabile ad altri limiti, pena l’esclusione della tutela stessa.56 Questo orientamento, suffragato dalla Corte costituzionale – che ha fatto propria l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., così da includere nella previsione della norma anche il risarcimento del danno cd. esistenziale, da lesione di interessi costituzionali inerenti alla persona, diversi dal diritto alla salute e dal danno morale soggettivo57 – è stato ancora ripreso e ulteriormente sistematizzato dalla successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione. Il riferimento è alla recente pronuncia delle Sezioni Unite58, che, nel confermare alcuni principi già enunciati dalle sentenze cd. gemelle del 2003 ed il superamento della categoria del danno esistenziale, precisa come vi siano solo due categorie di danni, quello patrimoniale e quello non patrimoniale. Relativamente a quest’ultimo, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. impone il risarcimento integrale del danno, anche al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, qualora derivi dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, che si tratti del diritto inviolabile alla salute, oppure dei diritti inviolabili della famiglia, o ancora del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, tutti “diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost.”. Precisa poi la Cassazione che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto quale che sia la fonte della responsabilità, extracontrattuale, ma anche contrattuale. Così, ad esempio, nel caso dei contratti cd. di protezione

                                                                                                                              annuale a soggetto in stato di invalidità. Secondo il giudice amministrativo viene in rilievo la lesione del diritto ad esplicare la propria personalità attraverso il lavoro (artt. 2, 4 e 36 Cost.), diritto particolarmente tutelato (artt. 3, 32, 36 e 38 Cost.) in favore di soggetti appartenenti a categorie protette, per i quali “l’accesso al lavoro costituisce essenziale strumento di affermazione della piena dignità della persona e, al tempo, dimostrazione del loro pieno inserimento sociale”.

56 Sull’applicazione diretta della Costituzione, proprio con riferimento ai temi in questione, cfr., di recente, E. LAMARQUE, L’attuazione giudiziaria dei diritti costituzionali, in Quad. Cost., 2008, pp. 269 ss.; A. GUAZZAROTTI, Diritti inviolabili e creatività giurisprudenziale: una risposta ad Elisabetta Lamarque, ivi, 2009, pp. 303 ss.; R. ROMBOLI, L’attività creativa di diritto da parte del giudice, in Quest. Giust., 2008, pp. 195 ss.

57 Cfr. la sent. 11 luglio 2003, n. 233, in Giur. Cost., 2003, pp. 1981 ss. Si veda, peraltro, la sent. 27 ottobre 1994, n. 372, ivi, pp. 3129 ss., che già aveva individuato il fondamento del risarcimento del danno biologico nell’art. 2059 c.c., anziché nell’art. 2043 c.c., superando dunque la precedente interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c.

58 Cfr. Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972.

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(responsabilità del medico e della struttura sanitaria), o dei contratti di lavoro, con obbligo di risarcire, in quest’ultimo caso, il danno non patrimoniale sofferto dal lavoratore, sia nell’ipotesi di lesione dell’integrità psicofisica, sia in quella di lesione della sua dignità personale, come avviene per il pregiudizio alla professionalità da dequalificazione.

La lesione della dignità, dunque, tutelata dagli artt. 2 e 3 Cost., richiede un risarcimento del danno anche non patrimoniale, sia che si tratti di responsabilità extracontrattuale, sia che si tratti di responsabilità contrattuale. È evidente che la qualificazione della dignità riveste un’importanza sempre maggiore, perché la sua lesione, nelle molteplici forme in cui si può configurare, implica, secondo questa giurisprudenza, un obbligo di risarcimento del danno.

6. Alcune considerazioni conclusive: le difficoltà legate alla prospettazione della dignità come valore supercostituzionale, sia esso inteso in senso oggettivo o soggettivo.

Il concetto di dignità è stato quindi impiegato con modalità differenti

ed è stato volta per volta riempito dei contenuti più vari. Si pensi al divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, o al divieto di schiavitù come forme di tutela della dignità dell’uomo espressamente riconosciute dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (artt. 3 e 4)59, oppure alla dignità quale fondamento del nucleo irriducibile del diritto alla salute o di altri diritti sociali.

Proprio l’indeterminatezza della dignità e la molteplicità dei significati attribuiti a tale concetto aiutano a comprendere perché in alcune circostanze si è fatto ricorso alla dignità come elemento rafforzativo e/o specificativo di altri diritti, mentre in altre situazioni la dignità è stata utilizzata in modo autonomo, quale limite di diritti anch’essi costituzionalmente garantiti o perfino come un diritto nuovo, che giustifica pretese risarcitorie in caso di lesione. Più frequente è l’impiego del concetto di dignità in quest’ultima modalità (sia come limite di altri diritti, sia esso stesso come nuovo diritto),                                                             

59 Nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo non vi è un riferimento esplicito alla dignità, ma ugualmente la giurisprudenza della Corte europea ha individuato nella tutela della dignità il fondamento dei divieti di tortura, di trattamenti inumani e degradanti, di schiavitù. Cfr., ad esempio, la sent. 4 dicembre 1995, Ribitsch, in Riv. inter. dir. uomo, 1996, pp. 195 ss., che considera ogni uso della forza fisica non strettamente necessario nei confronti di una persona privata della sua libertà come una lesione della dignità umana ed una violazione dell’art. 3 della CEDU. Più in generale cfr. M. DE SALVIA, Compendium della CEDU. Le linee guida della giurisprudenza relativa alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2000, pp. 33 ss.

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maggiori sono, ovviamente, le difficoltà cui va incontro l’interprete quando è chiamato ad una difficile ponderazione tra diversi valori in gioco oppure a riconoscere o meno la legittimità di una pretesa risarcitoria fondata sull’asserita lesione di un diritto costituzionale al rispetto della dignità umana.

D’altra parte, anche il suo utilizzo per precisare il contenuto di altro diritto non sempre aiuta a fare realmente chiarezza. Si pensi al caso della libertà personale e al prelievo ematico, che da un lato viene comunemente considerato come misura che incide sulla libertà tutelata dall’art. 13 Cost. e, dall’altro, come pratica medica di ordinaria amministrazione, in quanto tale inidonea a compromettere di per sé l’integrità fisica e la salute della persona o la sua dignità60.

Le difficoltà sono particolarmente evidenti quando la dignità viene ricostruita come un valore supercostituzionale. Se la dignità costituisce, infatti, il fondamento degli altri diritti inviolabili, non è agevole giustificare la prevalenza di un diritto rispetto ad un altro in caso di conflitto tra gli stessi, tenuto conto che entrambi garantiscono il rispetto della dignità dell’uomo61. Si pensi, ad esempio, ad un possibile contrasto tra il diritto alla salute di alcuni e il diritto alla riservatezza di altri e alla difficile soluzione individuata dalla Corte in una situazione del genere. Il riferimento è alla nota pronuncia62 che ha riconosciuto un obbligo, in capo a chi svolge

                                                            60 Cfr. la sent. 18 marzo 1986, n. 54, in Giur. Cost., 1986, p. 389 e la sent. 238/1996 cit.,

pp. 2156-2146. Con quest’ultima sentenza la Corte ribalta le conclusioni cui era giunta in precedenza con la sent. 54/1986, ritenendo che il legislatore avrebbe dovuto fissare condizioni, presupposti e limiti per l’adozione del prelievo ematico coattivo. Da ciò l’incostituzionalità dell’art. 224, comma 2, c.p.p. per violazione della riserva di legge di cui all’art. 13 Cost. Per una critica della pronuncia cfr. M. RUOTOLO, Il prelievo ematico tra esigenza probatoria di accertamento del reato e garanzia costituzionale della libertà personale. Note a margine di un mancato bilanciamento tra valori, in Giur. Cost., 1996, pp. 2151 ss., e G.P. DOLSO, Libertà personale e prelievi ematici coattivi, ivi, pp. 3222 ss.

61 Si veda anche, con riferimento alla giurisprudenza tedesca, D. SCHEFOLD, Dignità umana e libertà di espressione artistica nel “caso Esra”, in Quad. Cost., 2008, p. 385, relativamente ad un bilanciamento tra libertà d’arte e tutela dei diritti della personalità, riconducibili, secondo la Corte costituzionale tedesca (sent. 13/6/2007), all’art. 1 della Legge Fondamentale e dunque alla tutela della dignità umana, idonea a giustificare limitazioni nel campo dell’arte. Cfr., più in generale, M. PANEBIANCO, Bundesverfassungsgericht, dignità umana e diritti fondamentali, in Dir. Soc., 2002, pp. 151 ss.; P. HABERLE, Cultura dei diritti e diritti della cultura, cit., pp. 10 ss.; D. SCHEFOLD, Il rispetto della dignità umana, cit., pp. 122 ss.; M. GENNUSA, La dignità umana e le sue anime. Spunti ricostruttivi alla luce di una recente sentenza del Bundesverfassungsgericht, in N. ZANON, Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana. Avvicinamenti, dialoghi, dissonanze, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, pp. 189 ss.

62 Cfr. la sentenza 23 maggio 1994, n. 218, in Giur. Cost., 1994, pp. 1812 ss.

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attività che rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, di sottoporsi agli accertamenti necessari per escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle attività stesse. Quest’additiva di principio ha determinato una situazione di incertezza, che ha poi spinto l’allora Presidente della Corte a precisare, in conferenza stampa, come la pronuncia fosse rivolta al legislatore, cui sarebbe spettata l’attuazione del principio enunciato, e non direttamente ai giudici.

A prescindere, poi, dal caso specifico e dalle solite difficoltà che si presentano ogni qualvolta si debba far ricorso alla tecnica del bilanciamento tra valori, la perplessità di qualificare la dignità come valore supercostituzionale, che fonda gli altri diritti costituzionali e, in quanto tale, non bilanciabile, deriva anche dal fatto che è la stessa Costituzione a prevedere specifiche limitazioni per diritti che pur troverebbero il loro fondamento nell’inviolabilità della dignità umana. La libertà di professione religiosa, ad esempio, pur riconosciuto dalla Corte63 come manifestazione della dignità della persona, incontra, secondo la previsione dell’art. 19 Cost., il limite del “buon costume”. Porre la dignità al vertice di una scala gerarchica di valori costituzionali non rende in realtà più agevole il compito dell’interprete, il quale continua, infatti, ad utilizzare la dignità in operazioni di difficile bilanciamento, che dovrebbero condurre ad un contemperamento in concreto tra i valori in discussione e non all’assoluta prevalenza di uno sugli altri.64

Il ricorso alla dignità, pertanto, da un lato non contribuisce a definire meglio i diritti costituzionali e le restrizioni cui possono andare incontro per effetto di specifiche previsioni costituzionali o di complessi bilanciamenti tra valori. Dall’altro lato si corre il rischio di un abuso e di un conseguente svilimento del concetto di dignità. Non si vede, infatti, perché farne uso anche con riferimento a temi rispetto ai quali non si coglie un’intuitiva ed evidente connessione, come è avvenuto, ad esempio, per il condono edilizio. È questo un settore all’interno del quale, secondo la Corte, vengono in rilievo e devono essere contemperati, da una parte, i valori costituzionali del paesaggio, della cultura e della salute, dell’utilità sociale che conforma l’iniziativa economica e della funzione sociale della proprietà e, dall’altra, quelli “pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell’abitazione e del lavoro”65.

Alle considerazioni svolte si può aggiungere l’ulteriore difficoltà che si incontra quando il termine dignità viene utilizzato in senso soggettivo. Si                                                             

63 Si veda la sent. 334/1996 cit., p. 2921. 64 Cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, pp. 13 ss. 65 Si veda, da ultimo, la sent. 28 giugno 2004, n. 196, in Giur. Cost., 1996, p. 1992.

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può, cioè, cercare di ricostruire il concetto sulla base di un’idea generalmente condivisa di dignità (in senso, quindi, oggettivo), oppure dare risalto alla concezione della vita del singolo individuo della cui dignità si discuta66. In quest’ultimo caso, in cui la dignità si avvicina al diritto di autodeterminazione, può risultare ancora più complesso risalire, soprattutto ex post, all’idea di “esistenza dignitosa” che aveva un determinato soggetto e può verificarsi persino un conflitto tra diritto alla vita e diritto ad un’esistenza dignitosa.

Si pensi alle conclusioni opposte cui sono giunti giudici di merito e di legittimità a riguardo della triste vicenda di Eluana Englaro67.

La Corte d’appello di Milano, con decreto del 16 dicembre 2006, ha respinto la richiesta di un provvedimento d’urgenza, avanzata dal tutore (con l’adesione del curatore speciale) nei confronti di persona interdetta e in stato vegetativo permanente, al fine di ottenere l’interruzione dell’alimentazione forzata e la conseguente morte della paziente. Secondo il tutore, l’alimentazione forzata avrebbe costituito un trattamento invasivo, lesivo dell’integrità psicofisica e della dignità di Eluana, e avrebbe richiesto, pertanto, una precisa manifestazione di assenso del soggetto sottoposto al trattamento, pena la violazione dei diritti costituzionalmente garantiti alla dignità e all’autodeterminazione. Inoltre, non solo il trattamento, ma anche la condizione dello stato vegetativo permanente, sarebbe stata in realtà in contrasto con la dignità dell’uomo, in quanto la mancanza di coscienza avrebbe altresì privato di dignità la vita umana.

                                                            66 Cfr. G. RESTA, Disponibilità dei diritti fondamentali, cit., pp. 232 ss. 67 Si tratta di una vicenda, che, come noto, ha diviso il mondo della politica, dei giuristi e

dei comuni cittadini, che ha rischiato di determinare crisi istituzionali tra Governo e Presidente della Repubblica e che ha spinto il Parlamento a sollevare un conflitto di attribuzioni nei confronti della Corte di Cassazione e della Corte d’appello di Milano, per avere questi organi giurisdizionali proceduto all’auto produzione della disposizione normativa. Il conflitto è stato, come ampiamente previsto, ritenuto inammissibile dalla Corte costituzionale, con ord. 8 ottobre 2008, n. 334, in Giur. Cost., 2008, pp. 3713 ss., con nota favorevole di G. GEMMA, Parlamento contro giudici: un temerario conflitto di attribuzioni sul “caso Eluana”, ivi, pp. 3723 ss. Per un commento positivo dell’ordinanza cfr. anche R. ROMBOLI, Il caso Englaro: la Costituzione come fonte immediatamente applicabile dal giudice, in Quad. Cost., 2009, pp. 91 ss. In generale sulla vicenda, ed in particolare sulle conclusioni della Corte di cassazione, cfr., tra gli altri, C. CASONATO, Consenso e rifiuto delle cure in una recente sentenza della Cassazione, in Quad. Cost., 2008, pp. 545 ss.; C. TRIPODINA, A chi spettano le decisioni politiche fondamentali sulle questioni eticamente controverse? (Riflessioni a margine del “caso Englaro”), in Giur. Cost., 2008, pp. 4069 ss.; F. G. PIZZETTI, Sugli ultimi sviluppi del “caso Englaro”: limiti della legge e “progetto di vita”, in Pol. Dir., 2009, pp. 445 ss.; S. ROSSI, Il Parlamento, la Cassazione e il diritto di Eluana, in http//www.forumcostituzionale.it.; F. GAZZONI, La Cassazione riscrive la norma sull’eutanasia, in http//www.judicium.it.

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La Corte d’appello, rifiutando quest’impostazione, ha asserito piuttosto l’impossibilità di distinguere tra vite degne e non degne di essere vissute, e l’irrilevanza delle percezioni soggettive della qualità della vita. Al contempo, pur riconoscendo che il soggetto capace potrebbe rifiutare le cure indispensabili a tenerlo in vita, in forza del diritto alla salute e all’autodeterminazione in campo sanitario, ha aggiunto che, nel caso di soggetto incapace, il bilanciamento tra diritto alla vita da un lato e quelli all’autodeterminazione e alla dignità dall’altro dovrebbe risolversi a favore del primo, anche alla luce della collocazione sistematica (art. 2 Cost.) privilegiata all’interno della Costituzione del diritto alla vita rispetto agli altri due (artt. 13 e 32 Cost.). A prescindere da quest’ultima considerazione sulla collocazione dei diritti, che non sembra particolarmente efficace e condivisibile – basti pensare che anche la dignità è comunemente ricondotta all’art. 2 Cost., in base al quale, del resto, la Repubblica riconosce e garantisce in generale i diritti inviolabili dell’uomo – preme evidenziare come il giudice di secondo grado si sia cimentato in un arduo bilanciamento tra diritto alla vita e diritto alla dignità e all’autodeterminazione, ammettendo dunque la possibilità di un conflitto in concreto tra i due diritti costituzionali.

Successivamente la Corte di Cassazione68 ha ribaltato le conclusioni della Corte d’appello, facendo leva, da un lato, sul principio del consenso informato, sul diritto all’autodeterminazione terapeutica e sul diritto alla salute e, dall’altro, sull’idea di dignità della persona manifestata dal paziente, prima di cadere in stato di incapacità. Quanto al consenso informato, la Cassazione ha ribadito che ha un sicuro fondamento costituzionale69, e in specie nell’art. 2 (“che tutela e promuove i diritti                                                             

68 Cfr. Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748. 69 Di recente si veda la sent. 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. Cost., 2008, p. 4951, in cui

la Corte costituzionale ha confermato il fondamento costituzionale del consenso informato, quale “vero e proprio diritto della persona” negli artt. 2, 13 e 32 Cost. La Corte richiama anche l’art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 (ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176), l’art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997 (ratificata con L. 28 marzo 2001, n. 145, il cui strumento di ratifica non è stato, però, ancora depositato) e l’art. 3 della Carta di Nizza. Per un commento cfr. R. BALDUZZI – D. PARIS, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, ivi, pp. 4953 ss. Gli Autori adombrano la possibilità che la Corte abbia voluto segnare un distacco dalla propria precedente giurisprudenza (in particolare in tema di vaccinazioni obbligatorie), facendo ricadere il diritto all’autodeterminazione non più solo nell’alveo del diritto alla salute, ma anche in quello della libertà personale. Inoltre sottolineano come la Corte non si limiti a parlare di una “libertà da” trattamenti imposti, e quindi di una libertà negativa, bensì di una vera e propria “libertà di” scelta del trattamento sanitario. Cfr. anche D. MORANA, A proposito del fondamento costituzionale per il “consenso informato” ai trattamenti sanitari: considerazioni a margine della sent. n. 438 del 2008 della Corte costituzionale, ivi, pp. 4970 ss., che critica il riferimento all’art. 13 Cost. come fondamento del diritto al consenso informato ai trattamenti sanitari,

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fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità”), nell’art. 13 (che ammette il potere della persona di disporre del proprio corpo) e nell’art. 32. Il consenso informato implica la possibilità di scegliere il trattamento medico, ma anche di rifiutare o interrompere la terapia e, ha affermato la Corte, “ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa”. Il diritto all’autodeterminazione non potrebbe, quindi, incontrare alcun limite, anche nell’ipotesi in cui la scelta del paziente comportasse il sacrificio del bene della vita. D’altra parte il diritto alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica anche la tutela del suo risvolto negativo, ossia il diritto di non curarsi, “di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire”. Uno Stato fondato sul pluralismo dei valori e che riconosce il fondamentale diritto all’autodeterminazione, non potrebbe non rispettare l’idea di vita dignitosa che può avere ciascun individuo. La Corte di Cassazione, dunque, pur riconoscendo il diritto alla vita come “bene supremo”, ha dato prevalenza alla volontà dell’individuo, sia pure ricostruita a posteriori, sulla base di elementi di prova chiari, concordanti e convincenti e sempre a condizione che il soggetto incapace si trovi in uno stato vegetativo irreversibile secondo standard scientifici riconosciuti a livello internazionale70.

In sostanza, ha ritenuto la Cassazione, la dignità, intesa in senso soggettivo, secondo cioè l’idea propria del soggetto interessato, può prevalere sul diritto alla vita, persino nei casi estremi in cui il paziente si trovi in stato di incapacità di intendere e di volere. Le argomentazioni apportate dalla Cassazione per giustificare tale conclusione sono sicuramente più approfondite rispetto a quella della Corte d’appello, ma alla fine, come avviene spesso in occasione del bilanciamento tra valori

                                                                                                                              diritto che sarebbe riconducibile soltanto all’art. 32 Cost.. L’art. 13 Cost. andrebbe, invece, richiamato per i trattamenti sanitari “coercitivi”, eseguiti, cioè, contro la volontà del soggetto e quindi lesivi della libertà personale.

70 Ai principi di diritto enunciati dalla Cassazione si è poi attenuta la Corte d’appello di Milano, con il decreto 9 luglio 2008. Relativamente alla stessa vicenda si veda anche la successiva sent. del T.A.R. Lombardia, sez. III, 26 gennaio 2009, n. 214, che, in applicazione di questi principi di diritto, ha annullato il provvedimento della Regione Lombardia con il quale si negava preventivamente la possibilità di ricovero di Eluana presso una struttura della Regione, al fine di procedere all’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione forzate.

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costituzionali71, in entrambi i casi la scelta finale sembra più che altro dettata da differenti concezioni filosofiche e culturali della vita e della libertà dell’individuo, più che da sicure ragioni giuridiche che possano realmente condurre ad affermare la prevalenza di un bene supremo (la dignità connessa all’autodeterminazione72) rispetto ad altro bene supremo (la vita)73.

A tal proposito si può ricordare che la Carta di Nizza ha dedicato il Titolo I alla “Dignità” e che all’interno di tale titolo si trovano tanto l’art. 2, in base al quale ogni persona ha diritto alla vita, quanto l’art. 3, che, nell’ambito medico, impone il rispetto del consenso libero e informato della persona interessata. Il diritto alla vita e il consenso informato sono pertanto direttamente connessi alla tutela della dignità dell’uomo ed appare quindi                                                             

71 Sul tema del bilanciamento, tra tutti, cfr. A. PACE, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, in G. AZZARITI (a cura di), Interpretazione costituzionale, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 83 ss.; F. MODUGNO, Interpretazione per valori e interpretazione costituzionale, ivi, pp. 51 ss.; A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, in Pol. Dir., 1991, pp. 639 ss.; A. RUGGERI, Giurisprudenza costituzionale e valori, in Dir. Pubbl., 1998, pp. 1 ss.; A. CERRI, Il “principio” come fattore di orientamento interpretativo e come valore “privilegiato”: spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur. Cost., 1987, pp. 1806 ss.; A. D’ATENA, In tema di principi e valori costituzionali, ivi, 1997, pp. 3065 ss.; P.F. GROSSI, Il diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, Padova, Cedam, 2008, pp. 2 ss.; R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, Giuffrè, 1992; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., pp. 147 ss. Da ultimo cfr. G. PINO, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2010.

72 Sul diritto all’autodeterminazione con riferimento al proprio corpo si veda l’importante sent. 22 ottobre 1990, n. 471, in Giur. Cost., 1990, pp. 2818 ss. e la nota favorevole di A. MUSUMECI, Dal “potere” alla “libertà” di disporre del proprio corpo, ivi, 1991, pp. 626 ss., che evidenzia come la sentenza 471/1990 abbia incentrato la propria motivazione sul valore della persona e della libertà, con conseguente implicito ridimensionamento della portata dell’art. 5 c.c. Cfr. anche G. CAMPANELLI, Linee giurisprudenziali della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione in tema di atti di disposizione del corpo, in A. D’ALOIA (a cura di), Biotecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, Atti del seminario di Parma svoltosi il 19 marzo 2004, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 195 ss.

73 Su questi temi, ampiamente dibattuti in dottrina, cfr. F.D. BUSNELLI, Bioetica e diritto privato. Frammenti di un dizionario, Torino, Giappichelli, 2001, in particolare pp. 225 ss.; G.U. RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2, Cost. al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, in Dir. Pubbl., 2008, pp. 85 ss.; C. TRIPODINA, Eutanasia e valori costituzionali, in A. D’ALOIA (a cura di), Biotecnologie e valori costituzionali, cit., pp. 597 ss.; A. VALLINI, Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, in Dir. Pubbl., 2003, pp. 185 ss.; N. VICECONTE, Il diritto di rifiutare le cure: un diritto costituzionale non tutelato? Riflessioni a margine del giudice civile sul “caso Welby”, in Giur. Cost., 2007, pp. 2359 ss.; F. SACCO, Il consenso del beneficiario dell’amministrazione di sostegno e il conflitto tra dignità e libertà, nota all’ord. 19 gennaio 2007, n. 4 della Corte costituzionale, ivi, 2007, pp. 2277 ss.

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problematico il riferimento alla dignità stessa per risolvere un conflitto tra le due posizioni giuridiche. Si potrebbe, infatti, contestare il ricorso ad una nozione soggettiva di dignità e utilizzare la dignità in senso oggettivo per rafforzare la tutela del diritto alla vita, in contrapposizione al diritto all’autodeterminazione.74

Non è detto, dunque, che l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed il conseguente riconoscimento del valore giuridico della Carta di Nizza75 contribuiscano in concreto ad una maggiore tutela, nell’ordinamento italiano, della dignità e dei diritti fondamentali che troverebbero in essa il loro punto di riferimento. Non si vuole in questa sede sminuire la portata della Carta dei diritti, che sicuramente, come è stato osservato76, ha rafforzato e rafforzerà ancora la posizione della Corte di Giustizia, in virtù di un duplice effetto, legittimante ed ermeneutico; si vuole piuttosto evidenziare, per un verso, che l’inviolabilità della dignità umana di cui all’art. 1 della Carta dei diritti è già ampiamente utilizzata dalla giurisprudenza, costituzionale e non solo, che la riconduce soprattutto agli artt. 2 e 3 della Cost. e, per altro verso, che il vero problema di fondo resta l’indeterminatezza della nozione di dignità, la cui traduzione in termini giuridici sarà sempre rimessa alla discrezionalità dell’interprete; discrezionalità che risulterà probabilmente accentuata dalla moltiplicazione delle fonti cui occorre fare riferimento.                                                             

74 Cfr. G. GEMMA, Dignità umana: un disvalore costituzionale?, in Quad. Cost., 2008, pp. 379 ss., il quale, nell’ipotesi in cui il valore della dignità entri in conflitto con il diritto all’autodeterminazione – con riferimento, però, a soggetto capace di intendere e di volere – ritiene che la dignità si trasformi in un “disvalore” costituzionale, perché finisce col riflettere una concezione paternalistica dello Stato e del diritto, incompatibile con le basi filosofiche del costituzionalismo. Il diritto all’autodeterminazione, in questa prospettiva, prevarrebbe non solo sul diritto alla vita, ma anche sulla dignità dell’uomo. In senso contrario cfr. G. PIEPOLI, Dignità e autonomia privata, in Pol. Dir., 2003, pp. 45 ss.

75 La giurisprudenza, peraltro, ha già fatto riferimento alla Carta di Nizza, sia pure per rafforzare una determinata interpretazione. Si veda, in tempi recenti, Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29191, che ha qualificato il danno morale contestuale alla lesione del diritto alla salute come una voce autonoma di danno, in quanto legata ad un diverso bene protetto, ossia l’integrità morale della persona, tutelata dall’art. 2 Cost. in relazione all’art. 1 Carta di Nizza che sancisce l’inviolabilità della dignità umana, quale massima espressione dell’integrità morale e biologica dell’uomo. Sull’utilizzo della Carta come ausilio interpretativo, quanto meno per rafforzare conclusioni che potevano essere raggiunte su altre basi, si vedano già le considerazioni di A. PACE, A che serve la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea? Appunti preliminari, in Giur. Cost., 2001, pp. 194 ss. Cfr. anche S. GAMBINO, Diritti fondamentali e Unione Europea. Una prospettiva costituzional-comparatistica, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 23 ss.

76 Così M. CARTABIA, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in M. CARTABIA (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 54 ss.

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DINO RINOLDI

Dignità nel diritto e diritto alla dignità (Dignità dell’uomo e famiglia umana

fra particolarità e universalità dei diritti)

I miei spazi sono fragili

il tempo li consumerà George Perec

SOMMARIO. I. Introduzione. Spazi e tempi. 1. “In principio era il Verbo”. 2. «Rari nantes in gurgite vasto». 3. Dignità e libertà. Liberi davvero? II. Forze sociali e Comunità internazionale. 4. Il potere di direzione delle forze sociali prevalenti nella Comunità internazionale. 5. E l'integrazione europea? III. Da una «little family of Nations» a «tutti i membri della famiglia umana»? 6. Dignità e (Dichiarazione universale dei) diritti. 7. Famiglia e famiglie fra diritto internazionale, diritto interno, diritto dell’integrazione europea. 8. Cittadinanza dell'Unione, libertà di circolazione, tutela della famiglia. 9. Ricongiungimento familiare e immigrazione. 10. Persone beneficiarie di protezione internazionale e loro familiari. 11. Aspetti di diritto internazionale privato comunitario incidenti in materia di famiglia. 12. legami familiari, diritti dell’uomo e integrazione europea fra particolarità e universalità, relatività e assolutezza. 12.1. Quando il marito esercita una libertà comunitaria e la moglie ne gode in quanto fattore della produzione economica. 12.2. Dal diritto comunitario visto alla luce della Convenzione di salvaguardia alla Convenzione di salvaguardia vista alla luce del diritto comunitario. 12.3. Diritti dell’uomo e circolazione orizzontale ovvero verticale dei valori giuridici. 12.4. Particolarità e universalità dei valori giuridici. 12.5. Un’ “ideologia” dei diritti dell’uomo? 12.5.1. Quando il fatto di detener colonie salva dal conflitto con la concezione metropolitana dell’ordine pubblico internazionale. 12.5.2. Quando vale un principio di giurisdizione universale per condotte compiute da militari stranieri all’estero e quando, invece, il fatto di detener colonie evita il vaglio sulle condotte ivi svolte dall’esercito metropolitano. 12.5.3. Il divieto di lanciare nani; ovvero salvaguardia dal dileggio ma perdita del lavoro: la dignità comunque compressa? 12.5.4. Il diritto al ripensamento (da parte del marito): contrattualizzazione del matrimonio e tutela del consumatore (maschile) da prodotto (femminile) difettoso (perché proposto come nuovo e invece usato). 12.5.5. Sulla bastonatura: a) quale sanzione all’opposizione femminile al matrimonio forzato e alla scelta di matrimonio intercomunitario o intercasta; ma anche b) quale metodo educativo dei minori. 12.5.6. Quando lo Stato detiene uomini ma ha l’obbligo di assicurarne dignità di trattamento. IV. Spunti conclusivi. Fine dei tempi e spazi d’umanità. 13. Multiculturalità e interculturalità. 14. Disumanità e principio d’umanità.

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198 Dino Rinoldi

I. Introduzione Spazi e tempi

1. «In principio era il Verbo»1

Nel vortice determinato dal divenire della vita di relazione internazionale tra gli ultimi anni del secondo millennio e i primi del terzo, quando siamo appena al 2010 del calendario gregoriano (5770-5771 del calendario ebraico; 1430-1431 di quello musulmano), risalire al di là dell'inizio dei tempi, fino all'eternità, porta all'Essere uscendo dal divenire, divenire che con l'inizio dei tempi costituì gli spazi, i territori geografici e morali: «In principio Dio creò il cielo e la terra»2.

Il Verbo, «Io Sono»3, indicando «la pienezza dell'Essere (…) al di sopra di ogni divenire»4, ci restituisce un riflesso dell'immagine a somiglianza della quale veniamo al mondo, vivendo nel tempo e nello spazio, cosicché si possa affermare «Cogito ergo sum»5.

Gettati nello spazio sperimentiamo la relatività del divenire dell’essere6 rispetto all'eternità dell'Essere.

2. «Rari nantes in gurgite vasto»7

Il vortice richiama, nella propria struttura, l'ordine del caos; il marasma

sollecita categorie conosciute a dare luce («luce da luce»8) a nuove articolazioni o manipolazioni. Nuovi strumenti cercano di risalire dal fondo della caverna oltre le ombre che vi si riflettono.

                                                            1 Giovanni, 1,1. 2 Genesi, 1,1. 3 «In verità, in verità vi dico: prima che Abramo venisse all'esistenza, Io Sono» (Giovanni

8,58). «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14). «Io-Sono mi ha mandato a voi» (ibid., riportando le parole di Mosé agli israeliti). Cfr.: In principio era il Verbo. Catechesi del 26 novembre 1967, in www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01101998_p-11_it.html-10k-

4 Op. ult. cit. 5 R. DESCARTES, Les principes de la philosophie (article 7), 1644. 6 A. EINSTEIN, Come io vedo il mondo, 1922-1934. 7 P. VIRGILIO MARONE, Eneide, libro I, verso 118. 8 V. il Credo Niceno, ma già nel Corpus Hermeticum (Milano, Pimandro, 1991).

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 199

In quella parte del diritto internazionale che si suole definire ius cogens9 è oggi individuabile un principio di dignità dell'uomo che si colloca a presidio del divenire di questi nel tempo, dai quattro milioni di anni or sono scendendo dagli alberi, ai tre milioni di anni fa assumendo la stazione eretta, ai due milioni di anni che ci separano dall'acquisto della parola e infine dall'entrata nel tempo con capacità verbale.

Quale il contenuto concreto del termine dignità, anzitutto dunque nel diritto internazionale? Non quello del relativo (non assoluto, non gerarchicamente superiore) diritto alla vita, assai precario soprattutto al tempo dei conflitti armati. Bensì quello di non «essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizione crudeli, inumani o degradanti»10, diritto che costituisce il nucleo fondante della reciproca considerazione, del reciproco riconoscimento fra uomini, della reciproca somiglianza in quanto uomini, anche in situazioni di conflitto, anche del più radicale fra i conflitti. Alla constatazione scientifica secondo cui homo hominis lupus, constatazione solo temperata dal principio di ragione quando esso esprima una comunanza di interessi fra uomini, fa da sfondo l'osservazione di quelle selve o savane a cui, anche se scomparse, l'uomo ancora appartiene perché consustanziali finora al proprio essere nel tempo (il DNA umano). Da qui la sottolineatura di un diritto dei diritti dell'uomo e di un diritto umanitario intesi a migliorare (non potendosene ancora uscire) la condizione umana, tanto nello ius in pace quanto nello ius in bello, stretti questo e quello dalle difficoltà naturali della costruzione di uno ius contra bellum. Da qui, comunque, l'evidenza del principio di dignità che colora di sé tanto il diritto di pace11 quanto quello di guerra12.                                                             

9 Cfr. l'art. 53 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. 10 Art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (Assemblea generale delle

Nazioni Unite) del 1948. Pressoché identicamente v. anche l'art. 7, prima frase, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (promosso dalle Nazioni Unite) del 1966; l'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (promossa dal Consiglio d'Europa) del 1950; l'art. 5.2, prima frase, della Convenzione americana dei diritti dell'uomo (promossa dall'Organizzazione degli Stati americani) del 1969; l'art. 54, seconda frase, della Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli (promossa dall'Organizzazione per l'unità africana) del 1981. Di «right to live with basic human dignity» parla il par. 3.2 della Carta asiatica dei diritti dell'uomo e dei popoli del 1998, ma qui si danno addirittura per scontati casi di esercizio della tortura (par. 3.3), preoccupandosi piuttosto dell'organizzazione delle modalità repressive di questa (par. 3.5).

11 V. ad esempio Corte di giustizia della Comunità europea, sentenza del 14 ottobre 2004, C-36/02, Omega, specific. par. 40 con riferimento tanto all'ordinamento comunitario (oggi: dell’Unione europea) quanto a quello nazionale.

12 V. ad esempio l'art. 15 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che «in caso di guerra o di altro pericolo pubblico» costituente grave minaccia ammette «misure in deroga alle obbligazioni previste nella Convenzione» purché esse «non siano in contraddizione con le altre

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3. Dignità e libertà. Liberi davvero?

Di più, al principio di dignità si attribuisce una valenza anche maggiore,

tale da renderlo costitutivo di una base comune da cui procedere per la costruzione di un reale universalismo dei diritti di cui il principio di dignità sia anche vettore13. Così, quanto all’operato dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, si sottolinea che «il limite della domestic jurisdiction è venuto definitivamente meno per quanto riguarda i diritti umani» e «la tutela dei diritti umani (…) va ben al di là del rispetto di questo o quel diritto per investire tutti i rapporti in cui venga in qualche modo in rilievo la persona umana e la sua dignità. In nome dei diritti umani è ad esempio caduta, ai fini di una qualsiasi forma di azione di un qualsiasi organo delle Nazioni Unite, ogni distinzione tra guerre internazionali, o guerre tra Stati, e guerre interne o guerre civili. In definitiva qualsiasi situazione all'interno di un determinato Stato che sia lesiva della dignità umana (…) è ormai oggetto dell'attività dell'Organizzazione»14. Comunque, nel conflitto armato non

                                                                                                                              obbligazioni derivanti dal diritto internazionale» e senza autorizzare «alcuna deroga all'articolo (…) 3», oltre ad alcuni altri articoli cui quest'ultimo fornisce peraltro il quadro più generale di disciplina. Analogamente v. l'art. 4 del Patto sui diritti civili e politici per il caso di «pericolo pubblico eccezionale» che consente di adottare misure derogatorie; nonché l'art. 27 della Convenzione americana dei diritti dell'uomo in tema di «sospensione delle garanzie» nell'eventualità «di guerra, di pericolo pubblico o in ogni altra situazione di crisi» particolarmente minacciosa. V. invece L. SERMET, De la carence dans la Charte africaine des droits de l'homme et des peuples de la clause de derogation aux droits de l'homme, in Rev. gén. droit int. public, 2005, p. 389. Sulla Carta asiatica v. supra nota 10. Cfr. comunque l'art. 75.2 let. a) ii del Protocollo (I) del 1977, sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, in tema di divieto, nei confronti delle persone in potere di una parte in conflitto, di «qualsiasi forma di tortura»; nonché l'art. 75.2 let. b) del medesimo sul «divieto in ogni tempo e in ogni luogo» anche degli «oltraggi alla dignità della persona, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti (…)». Cfr. infine l'art. 4.2 lett. a) nonché e) del Protocollo (II) del 1977, sulla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali, secondo il quale «sono e resteranno proibiti in ogni tempo e in ogni luogo», nei confronti delle persone protette (art.4.1), «i trattamenti crudeli» compresa «la tortura», nonché «gli oltraggi alla dignità della persona, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti (…)».

13 Sulla problematica v. di recente S. CASSESE, Universalità del diritto, Napoli, 2005; U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, Roma-Bari, 2009.

14 B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, Napoli, 20057, p. 149 (e 261); il corsivo è aggiunto. V. anche B. CONFORTI-C. FOCARELLI, Le Nazioni Unite, Napoli, 20108, p. 172 s. Sul rapporto fra diritto umanitario e diritti dell'uomo v. E. GREPPI, Diritto internazionale umanitario dei conflitti armati e diritti umani: profili di convergenza, in La Com. internaz., 1996, pp. 473 ss.; G. VENTURINI, Diritto umanitario e diritti dell'uomo: rispettivi ambiti di intervento e punti di confluenza, in AA.VV., Assistenza umanitaria e diritto internazionale umanitario, Napoli, 2001, pp. 57 ss. V. anche infra, nota 50.

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internazionale, pur «nei casi non previsti dal diritto in vigore, la persona umana resta sotto la salvaguardia dei principi di umanità e delle esigenze della pubblica coscienza»15; così come, rispetto ai conflitti armati internazionali, si prevede che «le persone civili e i combattenti restano sotto la protezione e l'imperio dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti, dai principi dell'umanità e dai precetti della pubblica coscienza»16.

Ma così saremmo «liberi davvero»?17 Lo sarebbe ciascuno di noi? Meglio, siamo degni di essere liberi davvero? Ed è questa identità in divenire la nostra vera identità, che riacciuffa alla fine dei tempi la somiglianza dell'inizio? O non è piuttosto che solo perdendosi come umanità quest’ultima ritroverà un proprio principio, uscendo dal tempo o, almeno, dal proprio tempo, quando i mansueti erediteranno la terra?18

II. Forze sociali e Comunità internazionale

4. Il potere di direzione delle forze sociali prevalenti nella Comunità internazionale

Proprio settori come quelli sopra accennati, coinvolti dalle

trasformazioni epocali nel crinale fra due secoli, esplicitano la funzione sociale del diritto oltre il ragionamento astratto: «[a]ccompagnant la société, la façonnant à travers les règles générales qu'il formule, et en fonction de leur application, le droit se résout en bonheurs ou en souffrances. Il ne peut, et il ne doit, être analysé dans l'oubli de cela»19. Braccio efficace del potere politico, il diritto, «à quelque échelon qu'il se situe, s'achève (comme le pouvoir lui-même) en une décision qui concerne les corps»20. Tanto più, quindi, nel caso del diritto internazionale «il s'agit des bonheurs et de souffrances»: quelli «de tous les peuples», di tutti i corpi che li formano21.                                                             

15 Ultimo considerando del Protocollo (II) sulla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali (Ginevra, 1977). V. anche l'art. 3 comune delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 a proposito delle disposizioni che nel caso suddetto debbono «almeno» applicarsi (il corsivo è aggiunto).

16 Art. 1.2 del Protocollo (I) sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (Ginevra, 1977), del quale v. anche l'art. 4.1. V. P. Benvenuti, La Clausola Martens e la tradizione classica del diritto naturale nella codificazione del diritto dei conflitti armati, in Studi G. Barile, Padova, 1995 (il corsivo è aggiunto).

17 Giovanni 8, 36. 18 D. MONGILLO e S. QUINZIO, Quando i miti erediteranno la terra?, Roma (ed. Lavoro), 1995. 19 M. CHEMILLIER-GENDRAU, Humanité et souverainetés, Paris, 1995, p. 8. 20 Ibidem. 21 Ibidem.

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Non è perciò trascurabile, da un canto, il potere d'indirizzo della vita di relazione internazionale di cui alcune forze più di altre dispongono. Né è risolvibile in poche righe, d'altro canto, la questione dell'emergere di nuovi attori (nuove "soggettività", intese non solo e non tanto in senso giuridico) in un ordine di rapporti che da esclusi o marginali ne fa ormai dei co-protagonisti. Al riguardo almeno un cenno va fatto.

Non si può ignorare che alcune materie in particolare costituiscono terreno di scontro politico e, conseguentemente, anche occasione di divergenze giuridiche tra gli Stati. Può valere per tutti l'esempio delle vicende che hanno contrapposto, in materia di estradizione per fatti di terrorismo, Paesi in via di sviluppo a Paesi industrializzati (caso Lockerbie)22 o, all'interno di questi ultimi, Paesi dell'Unione europea come l'Italia al principale Paese dell'Occidente, gli Stati Uniti d'America (caso Achille Lauro)23. Il fatto è che la Comunità internazionale è anche luogo di scontro in termini di «rapporti di egemonia e di supremazia di determinati Stati su altri»24. Lo Stato può dunque bene essere preso in considerazione dal diritto internazionale in termini di «potenza»25, con l'avvertenza di prestare attenzione alla «variabilità della consistenza materiale della potenza»26. Nella prospettiva della constatazione della presenza nella Comunità internazionale di un'autorità sovraordinata ai singoli Stati, pur senza essere «portatrice di un potere "accentrato" e da essa direttamente organizzato»27, siamo perciò di fronte alla necessità di riconoscere nella vita di relazione internazionale l'esistenza di Stati-guida. E' la posizione di questi Paesi a contribuire maggiormente alla formazione dell'autorità del corpo

                                                            22 Cenni e indicazioni bibliografiche riguardo le vicende concernenti l'aereo di linea

esploso nel 1988 nei cieli scozzesi sopra il villaggio di Lockerbie, disastro per il quale sono stati processati agenti libici, sono in G. CATALDI, Il Consiglio di sicurezza nel nuovo scenario internazionale: prospettive di riforme nella struttura e nelle procedure, in La Com. internaz., 1993, pp. 682 ss.

23 V., riguardo all'assalto della nave da crociera italiana da parte di combattenti palestinesi, A. CASSESE, Il caso "Achille Lauro". Terrorismo, politica e diritto nella Comunità internazionale, Roma, 1987; S. LABRIOLA, La gestione costituzionale del caso dell'Achille Lauro, in Riv. dir. int. priv. proc., 1986, pp. 241 ss.

24 P. PICONE, Diritto internazionale dell'economia e costituzione economica dell'ordinamento internazionale, in P. PICONE e G. SACERDOTI, Diritto internazionale dell'economia, Milano, 1982, p. 76.

25 V. G. ARANGIO-RUIZ, Diritto internazionale e personalità giuridica, Bologna, 1972, pp. 45 ss., già pubblicato come voce («Stati e altri enti - Soggettività internazionale») del Nov.mo dig. it., vol. XVIII

26 Ivi, p. 53. 27 P. PICONE, Diritto internazionale ecc., cit., p. 45, richiamando l'impostazione di R.

QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napoli, 19685, pp. 25 ss.

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sociale universale28. Se quel ruolo oggi è ricoperto, magari controvoglia29, dagli Stati Uniti d'America non si può nemmeno negare l'importanza assunta nelle relazioni internazionali, accanto agli Stati, da altri enti30. Delle Organizzazioni intergovernative, ONU in testa, si è parlato in termini di «fenomeno istituzionale e strutturale», dunque ineliminabile, dell'organizzazione dell'intera Comunità internazionale31. Non per questo si può arrivare ad ammettere un'attitudine delle Organizzazioni intergovernative a sostituirsi come Comunità universale, in quanto dotate di tutta una serie di articolazioni specializzate e regionali, all'attuale Comunità internazionale32. Però la soggettività "forte" degli Stati, cui d'altra parte ancora ambiscono i Paesi di recente o nuova indipendenza e alla ricerca un adeguato sviluppo, è attaccata anche dalle Organizzazioni internazionali non governative, dalle grandi organizzazioni private commerciali transnazionali, da nuove aggregazioni economiche regionali che competono sul mercato mondiale a prescindere - e qualche volta a dispetto - dall'organizzazione statuale in cui sono comprese. La parola magica è "globalizzazione"33.

E' persino banale osservare che lo schema del nuovo ordine economico internazionale rivendicato negli anni Settanta dello scorso secolo34 e imperniato sul principio dell'effettiva sovrana eguaglianza degli Stati, contrapposto a quello dell'eguaglianza formale tradottosi invece nella «sovranità forte delle superpotenze»35, più che cedere di fronte al persistere del ruolo di superpotenza è stato reso desueto dalla moltiplicazione dei soggetti in campo, non più riconducibili alla sola misura statale. Vorrei dire che la sovranità si è frazionata o, meglio, la complessità attuale dei processi di direzione politica ha portato ad una svalutazione della sovranità come luogo spazialmente identificabile e delimitabile. Già qualche decennio or

                                                            28 Per l'espressione in corsivo v. P. PICONE, op. loc. cit. 29 S.[ergio] ROMANO (a cura di), L'impero riluttante. Gli Stati Uniti nella società

internazionale dopo il 1989, Bologna, 1992. 30 V. supra, nota 25. 31 P. PAONE, Saggi di diritto e di organizzazione internazionale, Milano, 1977, p. XXIV. 32 Secondo A. MALINTOPPI, Comunità parziali e comunità internazionale universale,

Roma, 1977, p. 127, «una comunità parziale del tipo di quella costituita dai membri delle Nazioni Unite può contenere in nuce la tendenza a porsi essa stessa come comunità universale e quindi a sostituirsi alla comunità universale preesistente».

33 K. OHMAE, La fine dello Stato-nazione. L'emergere delle economie regionali, Milano (Baldini e Castoldi), 1996.

34 Cenni in argomento e indicazioni bibliografiche in D. RINOLDI, Alleanza atlantica, organizzazione internazionale, ordinamento dello Stato, in O. BARIÈ (a cura di), L'Alleanza occidentale, Bologna, 1988, p. 422 s.

35 M. L. SALVADORI, L'alternativa dell'Europa, Roma-Bari, 1985, p. 70.

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sono Rolando Quadri sottolineava che «[l]a nuova civiltà "cosmica" difficilmente potrà accomodarsi al fenomeno tradizionale della "frontiera"» e che «[l']annientamento (…) del fattore "distanza" (…) ha praticamente già distrutto (…) i presupposti della territorialità dei poteri politici»36.

Resta la considerazione delle soluzioni ultime di cui certi Stati possono disporre - pur nel divieto generale (con l'eccezione dei casi di legittima difesa) della minaccia dell'uso della forza nelle relazioni internazionali - a salvaguardia della propria supremazia. Le difficoltà di una riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite stanno così più probabilmente nel fatto che i cinque Paesi titolari del diritto di veto sono anche cinque "potenze" dichiaratamente e formalmente titolari dell'arma nucleare (a fronte delle decine di altri che detengono le tecnologie necessarie a produrla, o che di fatto la possiedono … senza ufficialmente possederla)37. Insomma, se la misura statualistica è ancora quella principalmente atta a sostanziare le relazioni internazionali, comunque essa non è più esclusiva e sempre più emergono, non solo in seno alle Organizzazioni intergovernative, valori e interessi «panumani»38, cioè propri di individui, gruppi sociali, movimenti, popoli. In materia si può appena accennare, esemplificativamente, alla rilevanza assunta dai rapporti tra Organizzazioni governative e Organizzazioni non governative39 o alle Assemblee parlamentari operanti nell'ambito dell'organizzazione istituzionale europea, con particolare riguardo al Parlamento europeo e pur tra le mille difficoltà e contraddizioni al riguardo riscontrabili40. Vi sono cioè elementi di una tendenza al passaggio dalle Organizzazioni intergovernative come «forme di autoorganizzazione delle forze economiche che, per meglio espandersi,

                                                            36 R. QUADRI, Diritto ecc. cit., p. 100. 37 V. F. MOSCONI, Proliferazione nucleare (trattato di non), in Enc. dir., XXXVII (1988),

pp. 1 ss.; A. DI LIETO, Attività nucleari e diritto internazionale, Napoli, 2005. Sulla riforma del C.d.s. delle NU e, più in generale, di queste ultime, v. già le considerazioni pragmatiche di G. PICCO, A che serve l'ONU, in Limes, n. 1/1996, pp. 307 ss.; F. P. FULCI, La riforma del Consiglio di sicurezza: un nostro interesse vitale, ibid., n.2/1996, pp. 281 ss.

38 V. A. PAPISCA, Nuovo ordine economico internazionale (Noei) o nuovo ordine internazionale democratico (Noid)?, in AA.VV., Aspetti e problemi del nuovo ordine economico internazionale, Padova, 1987, pp. 100-102. V. anche la nota successiva.

39 V. già L.M. BENTIVOGLIO, Bipolarità dell'organizzazione internazionale: comunità degli Stati o comunità dei popoli?, in Jus, 1965, pp. 299 ss., partic. p. 308.

40 Per ampie e continue critiche concernenti il Parlamento europeo indico complessivamente gran parte degli scritti di A. CHITI BATELLI, del quale v. almeno I "poteri" del Parlamento europeo, Milano, 1981. Sul P.E. v. anche U. DRAETTA, Elementi di diritto dell'Unione Europea. Parte istituzionale, Milano, 20044.

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richiedono numerose razionalizzazioni a livello internazionale»41, a un ruolo giocato da quegli stessi enti «come forme sempre più rappresentative dell'opinione pubblica internazionale»42. Occorre perciò guardare alla «capacità delle istituzioni del sistema internazionale di soddisfare i bisogni e di garantire i diritti fondamentali delle persone e dei popoli»43. Non si può quindi, oggi, semplicemente spostarsi «dal piano delle esigenze e delle valutazioni arbitrarie dello Stato-sovrano (machina-machinarum, congegno superumano) al piano delle esigenze e dei valori dei popoli e delle persone umane in funzione delle quali lo Stato esiste "in via di principio"»44. Vero è che la stessa "crisi" dello Stato mette in discussione l'apparato istituzionale da esso prodotto, e l'emergere diffuso di quelle esigenze e di quei valori appare sì imperioso ma ancora confuso e contraddittorio, se non sempre disarticolato.

5. E l'integrazione europea?

L'organizzazione del potere sta subendo profonde trasformazioni.

L'Unione europea non può non restare al riguardo un punto di riferimento costante. Infatti «il mondo si è fatto sempre più affollato. Sempre più facilmente percorribile, in ogni senso, reale o virtuale (Internet), ma sempre ugualmente incomprensibile. Impenetrabile. Ostile. Milioni di uomini invisibili, frustrati nella loro pochezza perché non riescono a farsi vedere, né sentire, possono cedere alla tentazione di convertire la loro invisibilità in una clamorosa presenza»45. Tra i compiti dell'Unione c'è anche quello di accrescere il senso di appartenenza, dunque la visibilità, degli stessi cittadini dei propri Stati membri e di favorire gli arricchimenti che alla cittadinanza europea e al mercato interno possano derivare dall'esterno coi “nuovi residenti”, volgendo in forme propositive le sollecitazioni incomprimibili provenienti dagli odierni flussi migratori e nel contempo organizzando

                                                            41 L. FERRARI BRAVO, Organizzazioni internazionali, già in Enc. Feltrinelli Fisher,

Scienze Politiche 2, Milano, 1973, p. 338, e quindi in ID., Lezioni di diritto internazionale, Napoli, 19862, p. 208.

42 P. PAONE, Diritto e organizzazione internazionale: spunti critici e ricostruttivi, in Riv. dir. int., 1975, p. 503.

43 A. PAPISCA, op. cit., p. 100. 44 Ivi, p. 99. 45 Così, profeticamente, B. PLACIDO, Il mondo dove tutti siamo invisibili, in La Repubblica

del 17 settembre 1996, p. 37.

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verso l'esterno un'adeguata azione di sicurezza non semplicemente ridotta all'opzione militare46.

Quanto alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo47, che dell'integrazione europea costituisce struttura portante con riferimento anche all'azione – più in generale - del Consiglio d'Europa48, si può accennare espressamente in questa sede alla giurisprudenza incentrata sul suo art. 149. Il sufficiente legame fra l'autorità di uno Stato contraente e una situazione oggetto del suo controllo, nonché lesiva di diritti o libertà definiti dalla Convenzione50, è stato anche recentemente considerato, in relazione a fattispecie extra-territoriali, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per negarne la sussistenza nel caso del possibile coinvolgimento di Paesi sostenitori dell'intervento militare del 2003 in Iraq quanto al trattamento riservato a Saddam Hussein per effetto della cattura avvenuta alla fine di quell'anno. Sottolineando che egli non ha dimostrato la sottoposizione della propria detenzione e del procedimento giudiziario intentatogli - senza dunque valutarli nel merito - ad uno Stato contraente della Convenzione, la Corte ha attribuito ai soli Stati Uniti d'America (Paese non contraente) le attività oggetto di ricorso, dal momento che «les actions dénoncées ont été exécutées par les Etats-Unis, que la sécurité dans la zone où ces actions ont eu lieu incombait aux Etats-Unis et que le commandement général était confié aux Etats-Unis»51. Da cui si ricava che se lo Stato operante in tali condizioni si fosse trovato nella situazione di Paese aderente alla Convenzione europea, ne sarebbero derivate le premesse per poterne valutare l'effettivo esercizio della giurisdizione ed eventualmente la conseguente responsabilità a titolo della Convenzione stessa, portatrice di quel principio di dignità fondamentale (art. 3) cui s’è fatto sopra riferimento52.

                                                            

46 C. NOVI, La politica di sicurezza esterna dell'Unione europea, Padova, 2005; N. RONZITTI (a cura di), Le forze di pace dell'Unione europea, Roma, 2005.

47 V. da ultimo C. RUSSO e P. QUAINI, La Convenzione europea dei diritti dell'uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, Milano, 20062.

48 V., comprendendo l'attività dell'OSCE e della NATO, D. RINOLDI, Organizzazioni regionali a vocazione politica e di sicurezza, in U. DRAETTA e M. FUMAGALLI (a cura di), Il diritto delle organizzazioni internazionali-Parte speciale, Milano, 2005, pp. 273 ss.

49 «Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo I della presente Convenzione».

50 V. F. LATTANZI, Il confine fra diritto internazionale umanitario e diritti dell’uomo, in Studi Arangio-Ruiz, III, Napoli, 2004, pp. 1985 ss.

51 CEDH, Décision sur la recevabilité concernant l’affaire Saddam Hussein, communiqué de presse n. 140/2006; ricorso 23276/04.

52 V. par. 2.

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III. Da una «little family of Nations» a «tutti i membri della famiglia umana»?

6. Dignità e (Dichiarazione universale dei) diritti

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata

dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, esordisce considerando «che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Da questo stesso documento, sprovvisto di per sé di efficacia vincolante, può essere proseguito il nostro discorso puntualizzandone le applicazioni in un ambito familiare più proprio rispetto alla (auspicata) «famiglia umana» di cui la Dichiarazione parla.

7. Famiglia e famiglie fra diritto internazionale, diritto interno, diritto dell’integrazione europea

Nei tre commi dell'art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti

dell'uomo si sottolinea che «Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento». Si prosegue affermando che «Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi». Infine si enuncia il principio che «La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha il diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato»53.

La discussione sul valore giuridico di dichiarazioni di questo genere è costruita e articolata54 sulla loro mancanza di obbligatorietà pattizia per trarne svariate considerazioni. Anzitutto sulla possibilità che esse rappresentino ricognizione o specificazione di princìpi di diritto internazionale generale cui gli Stati, o gruppi particolari di essi, uniformano o intendono uniformare la propria condotta. O che costituiscano interpretazione, anche nettamente evolutiva, di princìpi e regole contenuti

                                                            53 Nella Carta dei diritti della famiglia, pubblicata dalla Santa Sede il 22.10.1983, si legge

che «La famiglia, società naturale, esiste anteriormente allo Stato e a qualsiasi altra comunità e possiede diritti propri, che sono inalienabili» (Preambolo, D). V. Pontificio Consiglio per la famiglia, Famiglia e procreazione umana, Città del Vaticano, 2006, p. 39.

54 Per una sintesi sia consentito rinviare al mio Atti delle organizzazioni internazionali, in Enc. giur., III, 1988, par. 4.1.

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nella Carta istitutiva delle Nazioni Unite, della quale si apprezza la natura universale giacché obbliga quasi tutti i Paesi del mondo55.

Proprio sul piano universale un ben noto strumento pattizio - dunque vincolante - come il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 dispone nei quattro commi del proprio art. 23 che «La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto alla protezione da parte della società e dello Stato». Poi enuncia «Il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia (…) riconosciuto agli uomini e alle donne che abbiano l'età per contrarre matrimonio». Continua rilevando che «Il matrimonio non può essere celebrato senza il libero e pieno consenso dei futuri coniugi». Conclude disponendo che «Gli Stati parti del presente Patto devono prendere misure idonee a garantire la parità di diritti e di responsabilità dei coniugi riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e al suo scioglimento», nel qual caso «devono essere presi i provvedimenti per assicurare ai figli la protezione necessaria»56.

Già sul piano degli ordinamenti giuridici interni, del resto, si rinvengono espressioni come quella dell'art. 29 della nostra Carta costituzionale, che «riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», il quale «è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare»57. E quando singoli Stati appartenenti a una comune area geografica, regionale-continentale o sub-continentale, contraggono accordi internazionali specificamente tributari di esigenze di disciplina proprie di quella determinata area, ne derivano formulazioni come quella dell'art. 12 della già accennata Convenzione (europea) per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali secondo cui «Uomini e donne in età

                                                            55 Osservando come persino la sunnominata Dichiarazione universale appare trovar origine

nello scontro ideologico fra gruppi contrapposti di Stati, ancor più che in una generale volontà di rispettarne i contenuti, taluno rileva che i suoi dettami «restano spesso, per molti Stati, una enunciazione astratta contraddetta dalla prassi» (F. LATTANZI, Garanzie dei diritti dell'uomo nel diritto internazionale generale, Milano, 1983, p. 14). Di siffatto strumento non si deve peraltro ignorare il valore, magari nell'ambito dell'integrazione di taluni princìpi e regole di diritto internazionale nel campo dei diritti umani, quanto meno proprio con riguardo alla prassi delle Nazioni Unite (il che ad esempio può essere ricavato dal riferimento ai «droits fondamentaux énoncés dans la Déclaration universelle des droits de l'homme» fatto dalla Corte internazionale di giustizia nell'affare del personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti a Teheran; in CIJ Recueil, 1980, p. 42).

56 Su un piano universale v. anche la Convenzione sui diritti del fanciullo, del 1989, ratificata pure dall'Italia, nonché il Trattato menzionato infra, nota 199, in materia di immigrazione.

57 V. inoltre i successivi artt. 30 (sui figli, anche nati fuori dal matrimonio) e 31 (sulle provvidenze a favore della famiglia, della maternità, dell'infanzia e della gioventù).

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adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l'esercizio di tale diritto»58.

Quest'ultimo Accordo fonda una delle due forme e realtà istituzionali continentali d'Europa che confluiscono nel fenomeno cosiddetto di integrazione (giuridica) europea, articolato per un altro verso sul piano politico-economico tramite le Comunità europee, oggi inquadrate nel più ampio contesto dell'Unione europea.

Nell'Unione la famiglia viene in considerazione sotto più punti di vista e con pluralità di disciplina, sia pubblicistica che privatistica.

Si può così considerare l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea59, vincolante già da tempo almeno nel senso che al suo rispetto si sono mutualmente (e solennemente) impegnate istituzioni dell’Unione stessa quali il Parlamento europeo, la Commissione e il Consiglio, ed ora (dal 1° dicembre 2009) dotata di valore giuridico pari a quello dei due Trattati (il Trattato sull’Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea-TFUE) innovati dal Trattato di Lisbona di riforma dell’Unione60. La disposizione in questione si esprime nel senso che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti

                                                            58 V. anche l'art. 8, di cui in seguito si dirà (par. 12 ma pure cenni in par. 11), sul «Diritto

al rispetto della vita privata e familiare». Per altri ambiti geografici si può esemplificativamente rammentare la Convenzione americana sui diritti umani, che all'art. 19 si occupa di «Diritti dell'infanzia» e all'art. 17, in tema di «Diritti della famiglia», stabilisce in cinque commi anzitutto che «La famiglia è l'unità collettiva naturale e fondamentale della società; essa ha diritto alla protezione da parte della società e dello Stato»; riconosce poi «il diritto degli uomini e delle donne in età matrimoniale a sposarsi e a fondare una famiglia, se sussistono i requisiti stabiliti dalle leggi nazionali, purché tali condizioni non contrastino con il principio di non discriminazione (…)»; dispone inoltre che «Nessun matrimonio potrà essere contratto senza il libero e pieno consenso dei nubendi» e che «Gli Stati (…) adotteranno misure adeguate per garantire l'eguaglianza di diritti e un adeguato bilanciamento di responsabilità tra gli sposi nel matrimonio, durante il matrimonio e nell'eventualità del suo scioglimento», nel qual caso «saranno introdotte previsioni finalizzate alla necessaria protezione dei figli, esclusivamente sulla base del loro interesse»; afferma infine che «La legge riconosce eguali diritti ai figli nati fuori o all'interno del matrimonio».

59 In GUCE C 364 del 18 dicembre 2000, pp. 1 ss. 60 Se fosse stato approvato il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, il cui iter

deliberativo è stato interrotto dal risultato negativo, nel 2005, sia del referendum francese sia di quello olandese, la Carta sarebbe stata incorporata nel testo stesso del Trattato costituzionale. La Corte di giustizia delle Comunità europee (sent. in causa C-540/03: v. infra, nota 101) aveva d’altro canto già affermato che: «Se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo “considerando” della direttiva [2003/86/CE], che quest’ultima rispetta i principi riconosciuti non solamente dall’art. 8 CEDU, bensì parimenti dalla Carta» (par. 38).

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secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio»61. Ne scaturisce il duplice risultato di non impegnare l'Unione europea a una propria definizione della materia, nel contempo consentendole l'apprezzamento di quella «pluralità di contesti e variabilità delle forme familiari»62 che vanno apparendo e radicandosi in un numero sempre maggiore di ordinamenti giuridici nazionali europei.

Ma va anche prestata attenzione, sempre nel contesto della tutelabilità del diritto ai rapporti familiari da parte dell'Unione, ad atti vincolanti, obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili per gli ordinamenti interni (art. 249, co. 2, CE secondo numerazione e dizione precedenti la riforma di Lisbona), quali il regolamento (CE) del Consiglio 2201/2003 del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale63.

Più in generale è nell'ambito della libera circolazione delle persone, fra Stati membri dell'Unione europea ma anche da Paesi terzi verso l'Unione, che si pongono questioni variamente incidenti sui rapporti familiari, coinvolgendo sia cittadini dell'Unione europea sia di Stati terzi ovvero apolidi. Ricongiungimenti familiari, allontanamento di persone, presentazione di domande d'asilo, ottenimento di uno status di protezione: tutto ciò costituisce l'oggetto di una disciplina che dalla dimensione meramente nazionale va ricondotta e raccordata al livello istituzionale che opera per una sempre più efficace integrazione europea, costituendo una comunità parziale dai legami significativi nel contesto di quella universale64.

Un tempo i soggetti (statali) di tale cooperazione venivano appropriatamente indicati come, a loro volta, membri di una «little family of Nations» cui attribuire «a very old common fund of ideas and principles»65.                                                             

61 V. anche l'art. 7 sul «Rispetto della vita privata e familiare». 62 G. ROSSI, La famiglia in Europa, in Bulletin européen, n. 673 (giugno 2006), pp. 8 ss.;

ID., La variabilità delle forme familiari nel contesto europeo e italiano, ibid., n. 674-675 (luglio-agosto 2006), pp. 11 ss.

63 In GUUE L 338 del 28 dicembre 2003, pp. 1 ss. Il regolamento (infra, par. 11) ne abroga uno precedente (n. 1347 del Consiglio, del 29 maggio 2000, in GUCE L 160 del 30 giugno 2000, pp. 19 ss.) intervenuto in analoga materia.

64 Sul concetto di Comunità parziale nel diritto delle Organizzazioni intergovernative v. A. MALINTOPPI, Comunità parziali e comunità internazionale universale, Roma, 1977.

65 Così il giudice Winiarski, della Corte internazionale di giustizia, in Case concerning the application of the Convention of 1992 governing the Guardianship of Infants (Netherlands v. Sweden), decisione del 28 novembre 1958, ICJ Reports, 1958, pp. 54 ss., Dissenting Opinion, ibid., partic. p. 133. Ci si riferiva in specie, com’è noto, alla disciplina della protezione dei minori (caso di Maria Böll).

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Eppure, si potrebbe dire, qui la famiglia … si è allargata, e all'interno dell'Unione si contano ora svariati Stati di tradizioni o di storia, anche recente, non propriamente omologabili, con resistenze o propensioni maggiori nei confronti della varietà di forme familiari o comunque di convivenze di cui da più parti si manifesta l'esigenza e che concretamente si affermano, rilevandosi di fatto nella società una diffusa aspirazione a modalità di disciplina che in molti casi in questo o in quell'ordinamento, pur con differenze anche significative, si impongono.

8. Cittadinanza dell'Unione, libertà di circolazione, tutela della famiglia

L'art. 17 del Trattato CE, secondo numerazione e dizione vigenti fino al

30 novembre 2009, istituisce una «cittadinanza dell'Unione», definendo «cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro»; cosicché «La cittadinanza dell'Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest'ultima»66. Sostanzialmente negli stessi termini si mantiene il nuovo art. 20.1 TFUE.

Quanto al diritto dei cittadini dell'Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri ai sensi del suddetto Trattato comunitario (artt. 18.1 e 39 ss., ora 21 ss. TFUE), ne va rimarcata la attuazione e specificazione ad opera della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 200467, intervenuta fra l'altro a modifica del regolamento (CEE)68 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità69. Non può quel diritto essere pienamente realizzato senza tener                                                             

66 Sui diritti e doveri dei cittadini dell'Unione v. ora art. 20.2 TFUE e specific. gli artt. da 21 a 25. V. L. DANIELE, Diritto del mercato unico europeo, Cittadinanza - Libertà di circolazione - Concorrenza, Milano, 2006. In materia di cittadinanza, sia in prospettiva storica sia nell'attuale temperie, v. G. ZINCONE, Familismo legale, Roma-Bari, 2006. Il 17 gennaio 2006 è stata rigettata una proposta di risoluzione del Parlamento europeo sulla cittadinanza dell’Unione volta a sollecitare gli Stati membri a «progredire in direzione di un maggior coordinamento quanto ai criteri generali e alle procedure di acquisizione della cittadinanza», eventualmente anche stabilendo «un legame più forte tra, da un lato, la residenza legale permanente durante un periodo di tempo ragionevole e, dall’altro, l’ottenimento della cittadinanza nazionale», avendo in tal modo presente «l’obiettivo finale del processo dinamico che farà dell’Unione europea un’autentica comunità politica» (v. il testo del 10 gennaio 2006 – 2005/2060 (INI)).

67 In GUUE L 158 del 30 aprile 2004, pp. 77 ss. 68 La dizione «Comunità economica europea» è precedente, come noto, alla modifica in

mera «Comunità europea» voluta dal Trattato sull'Unione europea nei primi anni Novanta del secolo scorso, prima che il Trattato di Lisbona portasse nel 2009 (purtroppo …!) alla sparizione del sostantivo «Comunità» per rimpiazzarlo sempre con quello di «Unione».

69 In GUCE L 257 del 19 ottobre 1968, pp. 2 ss.

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conto delle necessità familiari del cittadino dell'Unione, necessità in riferimento alle quali deve disporsi appropriata disciplina.

La direttiva è un atto che, com'è altrettanto noto rispetto a quanto si diceva in materia di regolamento, vincola lo Stato membro cui si rivolge per quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciando alla competenza degli organi nazionali la scelta di forme e mezzi adeguati alla bisogna70. L'atto in questione definisce «familiare», rispetto al quale si organizza il diritto del cittadino dell'Unione di non separarsi a motivo di ostacoli dovuti al transito delle frontiere politiche statali, anzitutto il «coniuge»71. Va poi ricompreso tra i familiari «il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante»72. Infine, sono familiari sia «i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner (…)»73, sia «gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner (…)»74.

La nozione di «Stato membro ospitante» indica «lo Stato membro [diverso da quello di cittadinanza] nel quale il cittadino dell'Unione si reca al fine di esercitare il diritto di libera circolazione o di soggiorno»75, e dove contemporaneamente intenda farsi accompagnare o raggiungere dai propri familiari.

Prescindendo dal diritto di libera circolazione e soggiorno dell'interessato, che non va pregiudicato, lo Stato membro ospitante agevola (deve agevolare!), conformemente alla propria legislazione, l'ingresso e il soggiorno di ulteriori categorie di persone. Anzitutto di «ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito (…) [precedentemente], se è a carico o convive, nel Paese di provenienza, con il                                                             

70 Nondimeno, la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee (ora ridenominata Corte di giustizia dell’Unione europea) ha elaborato la nozione di efficacia diretta di direttive le cui disposizioni dettagliate o particolareggiate siano in grado di determinare obblighi chiari, assoluti e incondizionati a carico dello Stato e dunque l'azionabilità nei giudizi interni dei corrispettivi diritti discendenti per i privati, persone fisiche o giuridiche, nei confronti delle pubbliche autorità eventualmente inadempienti (sugli ulteriori sviluppi determinati, in tema di effetti di direttive inadempiute dagli Stati, dalla c.d. giurisprudenza Francovich v. L. FUMAGALLI, La responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto comunitario, Milano, 2000).

71 Direttiva cit., art. 2.2, lett. a. 72 Ibidem, art. 2.2, lett. b. Il corsivo è aggiunto. 73 Ibidem, art. 2.2, lett. c. Il corsivo è aggiunto. 74 Ibidem, art. 2.2, lett. d. Il corsivo è aggiunto. 75 Ibidem, art. 2.3.

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cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente»76. L’agevolazione riguarda inoltre il «partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata»77, dunque al di là del caso delle più precise condizioni definite come anzidetto rispetto alle «unioni registrate».

Pur sottoponendole a rigorosi requisiti e garanzie procedurali, il Trattato CE come ora il TFUE, e così la direttiva, consentono restrizioni a circolazione e soggiorno per ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica78, misure di cui occorre «limitare la portata (…) conformemente al principio di proporzionalità»79 e da assumere esclusivamente in ordine a casi personali, individuali. Va comunque considerata in particolar modo la situazione dei minorenni «al fine di tutelare i loro legami con la famiglia»80. Si conferma in generale «il diritto del cittadino dell'Unione e dei suoi familiari, nei confronti dei quali sia stato emanato un provvedimento di interdizione dal territorio di uno Stato membro, di presentare una nuova domanda dopo il decorso di un congruo periodo e, in ogni caso, dopo tre anni a decorrere dall'esecuzione del provvedimento definitivo di interdizione»81.

La materia del ricongiungimento, o riunificazione, familiare in senso proprio è tuttavia propriamente riferibile al settore dell'immigrazione di cittadini di Paesi terzi rispetto all'Unione, ambito per il quale il Capo 2 del Titolo V della Parte III del Trattato sul funzionamento dell’Unione dispone una disciplina sulle «Politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione». Siamo nell'ambito dello «spazio di libertà, sicurezza e giustizia»82 e in particolare nel settore del controllo delle «frontiere esterne»

                                                            76 Ibidem, art. 3.2, lett. a. Il corsivo è aggiunto 77 Ibidem, art. 3.2, lett. b. Il corsivo è aggiunto 78 Sia permesso il rinvio al mio L'ordine pubblico europeo, Napoli, 2005. Le restrizioni in

questione non possono essere invocate per fini economici (art. 27.1. direttiva ult. cit.). 79 Direttiva ult. cit., 23° considerando e art. 27.2, dove si esplicita ulteriormente che i

provvedimenti in questione sono adottati «esclusivamente in relazione al comportamento personale della persona nei riguardi della quale sono applicati», senza un'automatica adozione giustificata dalla sola esistenza di precedenti condanne penali. V. anche, in materia, gli artt. 28 ss.

80 Ibidem, 24° considerando. 81 Ibidem, 27° considerando. 82 Per una trattazione sintetica ma complessiva si consenta il rinvio al mio Lo spazio di

libertà, sicurezza e giustizia, in U. DRAETTA, N. PARISI (a cura di), Elementi di diritto dell'Unione europea - Parte speciale, Milano, 20103, pp. 1 ss.

Quello dell'Unione europea è tuttavia uno "spazio" in una certa misura a "geometria variabile" quanto al suo impatto per gli Stati membri. Tralasciando qui aspetti dell'ordinamento dell'Unione come quelli delle tipologie di cooperazione rafforzata (v. ad es. art. 20 TUE) o

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degli Stati membri dell'Unione, dell'asilo, della salvaguardia dei diritti dei cittadini dei Paesi terzi83, compresi gli sfollati84 e senza ignorare gli apolidi.

9. Ricongiungimento familiare e immigrazione

La direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 200385, articola

una puntuale regolamentazione del diritto al ricongiungimento familiare da parte di persone diverse dai cittadini dell'Unione, dunque diverse dai cittadini degli Stati membri di questa. E' lo stesso Testo Unico (italiano) delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero86 a prevedere del resto (art. 1.1) che «Il presente

                                                                                                                              dell'adozione dell'Euro (art. 119 ss. TFUE) che fanno anche parlare di Europa "à la carte" o "a più velocità", insomma di "integrazione differenziata", va detto che nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia si deve ricomprendere anche il c.d. "spazio Schengen" (l'Accordo, del 14 giugno 1985, relativo alla soppressione graduale dei controlli alle frontiere comuni e la Convenzione, del 19 giugno 1990, di applicazione dell'Accordo, con le misure adottate in base a tali strumenti). Esso è stato integrato nell'ordinamento dell'Unione europea dal 1° maggio 1999, per effetto dei mutamenti apposti dal Trattato di Amsterdam. La cooperazione in materia (che secondo il Protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea è una modalità di cooperazione rafforzata) «si è estesa progressivamente a tutti gli Stati membri», ma anche - tra quelli non membri - a Norvegia e Islanda, disponendosi da ultimo, dopo un positivo referendum popolare, anche l’associazione della Svizzera. Fra i Paesi membri dell'Unione va sottolineato che Danimarca, Irlanda e Regno Unito hanno, come in ordine all'intero Titolo V della Parte III del TFUE (v. infra, nota 135), una posizione particolare (v. www.europa.eu/scadplus/leg/it/lvb/l33020.htm), mentre per i dieci Stati aderenti dal 2004, come per i due aderenti dal 2007, è stata prevista l’entrata nello "spazio Schengen" secondo la loro capacità di adeguarsi alle esigenze da questo richieste. Sullo “spazio Schengen” v. anche CGCE, sent. 31 gennaio 2006, causa C-503/03, Commissione c. Spagna, con nota di R. CALVANO, Tra Schengen e il diritto comunitario prevale quest’ultimo, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/giurisprudenza_comunitaria/schengen_prevale/index.html. Si tratta di una decisione sull’inadempimento della Spagna nel rifiutare l’ingresso nello “spazio Schengen”, ovvero il rilascio del visto, a cittadini di uno Stato terzo (l’Algeria) coniugi di cittadini di uno Stato membro (appunto la Spagna) «per il solo motivo che essi erano segnalati nel sistema d’informazione Schengen ai fini della non ammissione, senza aver preliminarmente verificato se la presenza di tali persone costituisse [ai sensi del diritto comunitario] una minaccia effettiva, attuale e abbastanza grave per un interesse fondamentale della collettività» (dispositivo sent. ult. cit.). Sul respingimento alla frontiera di cittadini di Paesi terzi coniugati con cittadini dell’Unione, e gli elementi in grado di stabilire l’esistenza di un pericolo per l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica o la sanità pubblica; sull’espulsione di queste persone per ingresso illegale; sul rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno, v. anche CGCE, sentenza del 25 luglio 2002, in causa C-459/99, MRAX (Mouvement contre le racisme).

83 Art. 67 TFUE. 84 Art. 78.2, lett. c, TFUE. V. la successiva nota 108. 85 In GUUE L 251 del 3 ottobre 2003, pp. 12 ss. 86 D. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, con successive modificazioni, ivi comprese la l. n. 189 del

2002, «Modifica della normativa in materia di immigrazione e asilo» (c.d. "legge Bossi-Fini");

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testo unico, in attuazione dell'art. 10, secondo comma, della Costituzione, si applica, salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri»87.

Tali persone, propriamente straniere perché prive dell' "attacco" diretto e formale (sostanzialmente: dell' "appartenenza") a un ordinamento nazionale impegnato a pieno titolo nel processo di integrazione europea, si vedono comunque organizzare dall'Unione «misure in materia di ricongiungimento familiare (…) in conformità con l'obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato in numerosi strumenti di diritto internazionale»88.

La menzionata direttiva mira a «garantire un trattamento equo ai cittadini di Paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri», fermo restando che «una politica più energica in materia di integrazione dovrebbe proporsi di offrire loro diritti e doveri comparabili a quelli dei cittadini dell'Unione europea»89. A questo fine «Il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare», contribuendo «a creare una stabilità socioculturale che facilita l'integrazione dei cittadini di Paesi terzi negli Stati membri, permettendo d'altra parte di promuovere la coesione economica e sociale»90.

Beninteso, tutto ciò va collocato in un contesto, da un lato, di «misure finalizzate alla libera circolazione dei cittadini, congiuntamente a misure di accompagnamento relative al controllo delle frontiere esterne, all'asilo e all'immigrazione», e, da un altro lato, di «misure in materia di asilo, immigrazione e tutela dei diritti dei cittadini di Paesi terzi»91.

La riunificazione familiare «può essere rifiutata per motivi debitamente giustificati. In particolare la persona interessata non dovrebbe costituire una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza interna», concetto nel quale «possono rientrare pure casi in cui un cittadino di un Paese terzo fa parte di

                                                                                                                              la l. 125/2008 di conversione del d.l. (c.d. “pacchetto sicurezza”) dell’estate 2008; la l. 15 luglio 2009, n. 94, tra l’altro concernente l’introduzione del reato di immigrazione clandestina.

87 Il corsivo è aggiunto. E’ fra l’altro l’art. 1 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (supra, nota 82) a riferire la nozione di «straniero» a «chi non è cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee», ora dell’Unione europea tout court.

88 V. il 2° considerando della direttiva 2003/86/CE. 89 Direttiva ult. cit., 3° considerando. 90 Ibidem, 4° considerando. 91 Ibidem, 1° considerando

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un'organizzazione che sostiene il terrorismo internazionale, sostiene una siffatta organizzazione o nutre aspirazioni estremistiche»92.

Subordinatamente alle condizioni fissate dalla direttiva, «gli Stati membri autorizzano l'ingresso e il soggiorno dei seguenti familiari»: anzitutto «il coniuge del soggiornante»93; poi «i figli minorenni del soggiornante e del coniuge, compresi i figli adottivi», nonché «i figli minorenni, compresi quelli adottati, del soggiornante o del coniuge»94. Le puntualizzazioni di quest'obbligo dello Stato vanno lette nel primo paragrafo dell'art. 2 della direttiva.

Va inoltre considerato che in virtù della stessa direttiva gli Stati possono autorizzare l'ingresso e il soggiorno di altri familiari. Si tratta degli «ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del suo coniuge, quando sono a carico di questi ultimi e non dispongono di un adeguato sostegno familiare nel Paese d'origine», nonché dei «figli adulti non coniugati del soggiornante o del suo coniuge, qualora obiettivamente non possano sovvenire alle proprie necessità in ragione del loro stato di salute»95.

E' sempre possibile agli Stati membri «autorizzare l'ingresso e il soggiorno (…) del partner non coniugato cittadino di un Paese terzo che abbia una relazione stabile duratura debitamente comprovata con il soggiornante, o del cittadino di un Paese terzo legato al soggiornante da una relazione formalmente registrata (…)[96], nonché dei figli minori non coniugati, anche adottati, di tali persone, come pure i figli adulti non coniugati di tali persone, qualora obiettivamente non possano sovvenire alle proprie necessità in ragione del loro stato di salute»97.

Oltre alla già menzionata possibilità di respingimento della domanda di ingresso e soggiorno dei familiari per motivi di ordine pubblico, di

                                                            92 Ibidem, 14° considerando. Differentemente dal caso riguardante l'applicazione del

concetto ai sensi della direttiva 2004/38/CE, qui si sottolinea che «Nella nozione di ordine pubblico può rientrare una condanna per aver commesso un reato grave».

93 Ibidem, art. 4. É definito soggiornante il «cittadino di un Paese terzo legalmente soggiornante in uno Stato membro che chiede o i cui familiari chiedono il ricongiungimento familiare» (ibidem, art. 2, lett. c). Il corsivo è aggiunto.

94 Ibidem, art. 4.1, lett. b, c, d. Il corsivo è aggiunto. 95 Ibidem, art. 4.2, lett. a e b. 96 V. art. 5, par. 2, della direttiva quanto alla regolamentazione della presentazione e

dell'esame della domanda in caso di partnership: ad esempio «gli Stati membri tengono conto, per stabilire se effettivamente esista un vincolo familiare, di elementi quali un figlio comune, una precedente coabitazione, la registrazione formale della relazione e altri elementi di prova affidabili».

97 Ibidem, art. 4.3. Il corsivo è aggiunto.

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 217

sicurezza pubblica e di sanità pubblica98, viene specificato dalla direttiva che «In caso di matrimonio poligamo, se il soggiornante ha già un coniuge convivente sul territorio di uno Stato membro, lo Stato membro interessato non autorizza [sembra quindi di capire che "non può" autorizzare] il ricongiungimento familiare di un altro coniuge»99. Quanto ai figli minorenni del soggiornante e di tale altro coniuge (dunque avuti in comune) si puntualizza che gli Stati membri «ne possono limitare il ricongiungimento familiare», in deroga a quanto all’opposto si fa obbligo di operare, nel senso del ricongiungimento, in generale per i figli del soggiornante100.

Altra disposizione della direttiva, per «assicurare una migliore integrazione ed evitare i matrimoni forzati», offre agli Stati la possibilità di imporre limiti minimi di età per il soggiornante e il coniuge ai fini del ricongiungimento; nelle ipotesi in cui viceversa il ricongiungimento é imposto dalla direttiva si ammette la facoltà di prevedere un’età massima per le domande concernenti i figli minori, salvo l’interesse superiore di questi e la salvaguardia della vita familiare101. 10. Persone beneficiarie di protezione internazionale e loro familiari

Ci si occupa infine del ricongiungimento familiare del rifugiato102, cioè

«il cittadino di un Paese terzo o l'apolide cui sia riconosciuto lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951, modificata dal Protocollo di New York del 31 gennaio 1967»103.                                                             

98Ibidem, art. 6. 99 Ibidem, art. 4.4, primo capov. Il corsivo è aggiunto. 100 Ibidem, art. 4.4, secondo capov., con riferimento all'art. 4.1, lett. c. 101 Ibidem, artt. 4.5 e 4.6. L’ultima disposizione, sull’età minima di quindici anni, ha

costituito oggetto (assieme all’art. 4.1, ult. co., sul grado di integrazione di taluni minori, e all’art. 8, sul periodo di attesa del soggiornante legale ai fini del ricongiungimento) di un ricorso di annullamento alla Corte di giustizia delle Comunità europee da parte del Parlamento europeo (sentenza del 27 giugno 2006, in causa C-540/03) che se lo é visto respingere. Quanto alla scelta dell’età di quindici anni, oltre la quale poter escludere ex art. 4.6 le domande di ricongiungimento concernenti figli minori, la Corte osserva che ciò riguarda l’applicazione dei requisiti generali previsti dalla direttiva all’art. 4.1, e che al di fuori di questi «lo Stato membro resta tuttavia tenuto ad esaminare la domanda nell’interesse del minore e nell’ottica di favorire la vita familiare» (par. 88 sent. cit.).

102 Ibidem, artt. 9 ss. 103 Ibidem, art. 2, lett. b. Il corsivo è aggiunto. Secondo l'art. 10, co. 3, della nostra Carta fondamentale «Lo straniero, al quale sia

impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge» (il corsivo è aggiunto), legge che, con riferimento almeno a disposizioni

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Tra le particolarità di tale ricongiungimento si può segnalare il fatto che la definizione di familiare stabilita dalla direttiva si applica ai rifugiati con qualche distinguo, sia nel senso della limitazione della definizione104, sia nel senso del suo ampliamento rispetto a quanto sopra visto105. Inoltre si prende in considerazione la condizione di rifugiato del minore non accompagnato106.

Resta impregiudicata dalla direttiva «qualsiasi norma che accordi lo status di rifugiati ai familiari» del rifugiato medesimo107.

Siamo così passati alle fattispecie che coinvolgono persone beneficiarie di protezione internazionale, per le quali valgono tutt'altre disposizioni (come l'appena menzionata Convenzione di Ginevra) rispetto a quelle che regolano l'immigrazione108.                                                                                                                               organiche in materia, mai è stata adottata, per quanto l'art. 10, co.3, suddetto sia stato ritenuto di applicabilità diretta dalla Corte di cassazione (decisione n. 4674/97, sezz. unn.), spettando così al giudice ordinario la competenza a riconoscerlo. Pare così che il nostro ordinamento, anche per effetto dell'applicazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (infra, par. 12), ai fini della protezione internazionale di stranieri vada oltre sia la disciplina della Convenzione del 1951 e del Protocollo del 1967 sullo status di rifugiato, sia le norme minime (v. in questo lavoro, ad es. note 108 e 113) approntate dalla Comunità europea. Si ricorda tuttavia il caso Öcalan c. Presidenza del Consiglio (sent. Trib. Roma del 1° ottobre 1999), allorché il «diritto soggettivo perfetto» che sorge in capo allo straniero nella condizione anzidetta è stato riconosciuto dopo che la persona era stata sollecitata dalle autorità italiane ad allontanarsi (“volontariamente”) dal nostro territorio nazionale, finendo per essere catturata in Kenia da agenti del proprio Paese, la Turchia, al quale cercava di sottrarsi in quanto esponente di spicco della guerriglia curda (v. in materia anche le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo del 14 dicembre 2000, del 12 marzo 2003 e del 12 maggio 2005, su ricorso 46221/99, nonché del 5 luglio 2005, su ricorso 20648/02).

104 Ibidem, art. 10.1. 105 Ibidem, art. 10.2. 106 Ibidem, art. 10.3. 107 Ibidem, art. 9.3. 108 Così, non riguarda la disciplina dell'immigrazione, ma per brevità non se ne può fare

cenno ulteriore, la questione dell'accoglimento degli sfollati, bisognosi di protezione temporanea da parte di uno Stato diverso da quello di origine, dal quale fuggono. Si può ricordare al riguardo almeno la direttiva 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001 (in GUCE L 212 del 7 agosto 2001, pp. 12 ss.), sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi. Vi si trovano disposizioni che seguono lo schema di quelle della direttiva 2004/83/CE (infra nel testo, all'altezza dell'esponente di nota 115) sulle persone beneficiarie di protezione internazionale. C'è così la definizione di «sfollati» (art. 2, lett. c) e di «protezione temporanea» (art. 2, lett. a), secondo un'articolazione di disciplina che tiene conto e si interseca con quella sui rifugiati senza pregiudicare (art. 3.1) la Convenzione di Ginevra del 1951 e la presentazione della domanda d'asilo (capo IV), su cui v. infra in questo stesso par. Si diffonde sulla nozione di persone «facenti parte di una famiglia» e di «ricongiungimento» (art. 15), oltreché sui diritti dei minori (artt. 3.2, lett. f; 15 e 16), compresi

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 219

L'approccio dell'Unione europea alle richieste di asilo e all'ottenimento dello status di rifugiato, in presenza di fondate aspettative di «persecuzione» per motivi basati sulla razza, la religione, la nazionalità, l'opinione politica o l'appartenenza a un determinato gruppo sociale, ha prodotto una serie di misure non sempre positivamente valutate109.

Per quanto sembra utile ai fini del discorso che qui si sviluppa giova almeno sottolineare che gli Stati membri dell'Unione sono da ritenersi reciprocamente «sicuri» - cioè al riparo dai casi di persecuzione anzidetti - per effetto di un'esplicita affermazione in questo senso contenuta in un Protocollo sull'asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea110. Non sono in sintonia con questa presunzione pressoché assoluta di sicurezza né dichiarazioni come quella a suo tempo effettuata dal Belgio, relativa proprio al Protocollo sull'asilo111, secondo cui tale Stato procederà «all'esame individuale di ogni domanda d'asilo presentata da un cittadino di un altro Stato membro»112, né le critiche di organizzazioni impegnate in attività umanitarie come Amnesty International113. Ma va anche sottolineato                                                                                                                               quelli non accompagnati. Fra l'altro si occupa del rimpatrio e dei provvedimenti successivi alla protezione temporanea (capo V), nonché dell'esclusione dal beneficio della protezione a motivo (art. 28) della commissione di crimini (par. 1, lett. a, i), o di reati gravi di natura non politica (par. 1, lett. a, ii), o di atti contrari ai princìpi delle Nazioni Unite (par. 1, lett. a, iii), ma anche a motivo di pericoli per la sicurezza dello Stato ospitante o della sua comunità (par. 1, lett. b), e sempre in considerazione del comportamento personale dell’interessato e nell’osservanza del principio di proporzionalità.

109 P. BENVENUTI, In attesa di una nuova stagione per la politica europea in materia di asilo, in Riv. dir. pubb. comp. eur., 2004, n. 4, pp. XIII ss. Per una rassegna degli interventi dell'Unione in materia d'asilo v. l'indirizzo Internet www.europa.eu/scadplus/leg/it/s17000.htm#ASILE dedicato all'attività nel settore «Giustizia, libertà e sicurezza», particolarmente in materia di «Libera circolazione delle persone, asilo e immigrazione».

110 V. Protocollo n. 29 allegato al Trattato CE in occasione della firma (1997) del Trattato di Amsterdam, modificativo del Trattato CE stesso e del Trattato sull'Unione europea; ora Protocollo n. 24 allegato ai Trattati sull’Unione europea e sul funzionamento dell’Unione europea. In argomento, anche con riguardo ai Paesi sicuri (sicuri quanto alla provenienza e quanto alla possibilità di rinviarvi la persona) diversi dagli Stati membri dell'Unione, v. M. SPATTI, Richiedenti asilo e "Paesi sicuri", in D. RINOLDI (a cura di), Questioni di diritto delle migrazioni, Milano (I.S.U.-U.C.), 2006. Sul «concetto di Paese terzo sicuro» e di «Paesi terzi europei sicuri» v. rispettivamente gli artt. 27 e 36 della direttiva n. 2005/85/CE (infra, nota 113).

111 Dichiarazione n. 56 allegata all'atto finale di Amsterdam (1997). 112 Ai sensi della lett. d dell'art. unico del Protocollo di New York del 1967 annesso alla

Convenzione di Ginevra del 1951. 113 V. Amnesty International - EU Office, Returning "irregular" migrants: the human

rights perspective, Bruxelles, May 2006, contenente critiche alla direttiva 2005/85/CE del Consiglio (in GUUE L 326 del 13 dicembre 2005, pp. 13 ss.), c.d. "direttiva procedure", recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (termine di recepimento da parte degli Stati: 1° dicembre

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che un certo controllo sulla sicurezza in questione è reso comunque possibile dal sistema di garanzia organizzato dall'art. 7 del Trattato di Unione, che consente di «constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2 [dello stesso TUE]», cioè del «rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze»: si tratta di valori «comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini»114.

Una non troppo sbrigativa trattazione deve almeno ricordare, su questi ultimi temi, la direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004115, contenente norme minime (comuni agli Stati) sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale. Vi si ricomprende fra l'altro la nozione di «familiare» dell'individuo che acceda a protezione, compresa la protezione definita «sussidiaria» quando, pur non essendo soddisfatte le condizioni di riconoscimento dello status di rifugiato di cui sopra116, la persona non possa ritornare nel Paese di origine117 per la fondata aspettativa

                                                                                                                              2007). In materia v. anche il regolamento (CE) 343/2003 del Consiglio (c.d. “Dublino II”: v. infra, nota 135), del 18 febbraio 2003 (in GUUE L 50 del 25 febbraio 2003, pp. 1 ss.), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo, nonché la direttiva 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003 (in GUUE L 31 del 6 febbraio 2003, pp. 18 ss.), recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.

114 Il corsivo è aggiunto. L'art. 7 TUE prevede altresì la possibilità di «constatare l'esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro» dei valori in questione, con conseguente eventuale decisione di sospensione di alcuni diritti derivanti dal Trattato al Paese in oggetto. All’art. 7 TUE fa del resto riferimento anche il Protocollo n. 24 cit., lett. b e c dell’articolo unico, ai termini del quale «la domanda d’asilo presentata da un cittadino di uno Stato membro può essere presa in esame o dichiarata ammissibile all’esame in un altro Stato membro unicamente nei (...) casi» connessi alla procedura di cui all’art. 7, oltreché (lett. a) «se lo Stato membro di cui il richiedente é cittadino procede, (...) avvalendosi dell’art.15 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (...), all’adozione di misure che derogano, nel suo territorio, agli obblighi previsti da detta Convenzione» (il corsivo é aggiunto), e comunque (lett. d) «se uno Stato membro così decide unilateralmente per la domanda di un cittadino di un altro Stato membro», in tale eventualità «partendo dal presupposto che sia manifestamente infondata senza che ciò pregiudichi, in alcun caso, il potere decisionale dello Stato membro».

115 In GUUE L 304 del 30 settembre 2004, pp. 12 ss. 116 E come precisate dall'art. 10 della direttiva in oggetto. 117 Quello di nazionalità o, nel caso di apolide, quello «in cui aveva precedentemente la

dimora abituale» (art. 2, lett. k, della direttiva ult. cit.).

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di subirvi danni gravi e ingiustificati. Tra questi si elenca118 la «condanna a morte»; la «tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante»; la «minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

I familiari del beneficiario di protezione ne sono in linea generale coperti allo stesso modo. Si tratta di «soggetti appartenenti al nucleo familiare, già costituito nel Paese d'origine, del beneficiario dello status (…) di rifugiato o dello status di protezione sussidiaria che si trovano nel medesimo Stato membro in connessione alla domanda di protezione internazionale»119. Questi sono anzitutto «il coniuge del beneficiario dello status (…) o il suo partner non sposato, avente con questi una relazione stabile, se la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato equipara le coppie non sposate a quelle sposate nel quadro della legge sugli stranieri»120. Poi «i figli minori della coppia (…) o del beneficiario dello status, a condizione che siano non sposati ed a suo carico, indipendentemente dal fatto che siano legittimi, naturali o adottivi»121.

La protezione internazionale è riferibile - come già si accennava - anche al «minore non accompagnato», cioè al cittadino di un Paese terzo o all'apolide «d'età inferiore ai diciotto anni che giunga nel territorio dello Stato membro senza essere accompagnato da un adulto che ne sia responsabile in base alla legge o agli usi», ivi compresi «i minori che vengono abbandonati dopo essere entrati nel territorio degli Stati membri»122.

L'esclusione dal riconoscimento dello status di rifugiato dipende, fra le altre possibilità, dalla commissione di un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità, o di un reato grave di diritto comune al di fuori del Paese di accoglienza123, ma anche dall'aver compiuto «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite quali stabiliti nel preambolo e negli artt. 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite»124.

                                                            118 Direttiva ult. cit., art. 15. 119 Ibidem, art. 2, lett. h, co. 1. Il corsivo è aggiunto. 120 Ibidem, art. 2, lett. h, primo trattino. Il corsivo è aggiunto. 121 Ibidem, art. 2, lett. h, secondo trattino. Il corsivo è aggiunto. 122 Ibidem, art. 2, lett. i (il corsivo è aggiunto).V. in materia anche l'art. 30. 123 Ibidem, art. 12.2. Può essere classificato reato grave di diritto comune anche quello che,

pur perpetrato «con un dichiarato obiettivo politico», sia consistito in «atti particolarmente crudeli» (ibidem).

124 Ibidem, art. 12.2, lett c. L'esclusione si estende pure «alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti» sopra menzionati (art. 12.3).

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É facoltà dello Stato revocare la protezione a una persona quando la si possa fondatamente ritenere un pericolo per la sicurezza del Paese membro in cui si trova; o, «essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità», costituisca «un pericolo per la comunità di tale Stato membro»125.

Anche l'esclusione dal riconoscimento di protezione sussidiaria dipende dalle situazioni precedentemente elencate. Rendono possibile l'esclusione, in tal caso, altri reati (uno o più) non già elencati, commessi prima dell'ammissione nello Stato membro, «che sarebbero punibili con la reclusione se fossero stati perpetrati nello Stato membro interessato» e le cui sanzioni hanno rappresentato il solo motivo per il quale la persona richiedente protezione ha lasciato lo Stato di origine126. L'art. 19 della direttiva disciplina i casi di revoca della protezione sussidiaria.

Ai fini in genere della protezione internazionale l'art. 20 del provvedimento obbliga gli Stati a tener conto «delle specifiche situazioni di persone vulnerabili, quali i minori, i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale»127.

La direttiva salvaguarda dal respingimento alla frontiera dichiarando ossequio agli obblighi internazionali degli Stati in materia (principio di «non refoulement»), sottolineando comunque di consentire il respingimento a motivo del fatto che la persona rappresenti un pericolo per il Paese membro in cui si trova ovvero, «essendo stata condannata per un reato di particolare gravità, detta persona costituisca un pericolo per la comunità di tale Stato membro»128.

Poiché gli Stati membri «provvedono a che possa essere preservata l'unità del nucleo familiare», cui la direttiva dedica un apposito articolo129, vi si sottolinea che essi «possono decidere che il presente articolo si applica

                                                            125 Ibidem, art. 14.4. 126 Ibidem, art. 17.3. 127Ibidem, art. 20.3. Il «prevalente interesse del minore è la principale considerazione degli

Stati membri quando attuano le disposizioni che coinvolgono i minori» (ibid., art. 20.5); il corsivo è aggiunto.

128Ibidem, art. 21. Sugli «imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico» v. anche l'art. 24.2. Adde anche la direttiva 2001/40/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi (in GUCE L 149 del 2 giugno 2001, pp. 34 ss.): sui motivi di ordine pubblico e sicurezza v. l’art. 3, che fa salvi i diritti dell’uomo, la Convenzione di Dublino (infra, nota 135) e gli accordi di riammissione conclusi fra Stati membri.

129 Ibidem, art. 23.

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anche agli altri congiunti che vivevano nel nucleo familiare al momento della partenza dal paese d'origine e che in quel momento erano completamente o principalmente a carico del beneficiario dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria»130. 11. Aspetti di diritto internazionale privato comunitario incidenti in materia di famiglia

Si é in precedenza menzionato il regolamento comunitario del 2003

concernente sia la competenza giudiziaria in materia matrimoniale e di responsabilità sui figli, sia la circolazione delle decisioni nazionali di divorzio, separazione personale dei coniugi, annullamento del matrimonio, ovvero relative alla responsabilità genitoriale per i figli131.

Il fatto é che già il Titolo IV della Parte III del Trattato CE – che disponeva in tema di visti, asilo e immigrazione – occupandosi anche di «altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone» aveva attratto nelle competenze comunitarie132 le «misure nel settore della cooperazione giudiziaria (...) civile che present[assero] (…) implicazioni transfrontaliere» (art. 67 CE, nella formulazione antecedente alla riforma di Lisbona). Esse includevano tra l’altro «il riconoscimento e (...) l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale» e «la promozione della compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di competenza giurisdizionale».

Ha così trovato ampio sviluppo il già tracciato cammino di un diritto internazionale privato e processuale comunitario133, precedentemente segnato da convenzioni internazionali - come quelle di Bruxelles del 1968

                                                            130 Ibidem, art. 23.5 (il corsivo è aggiunto). La disposizione è da leggere in connessione

alla norma riprodotta supra nel testo, prima dell'esponente di nota 119. 131 V. supra all'altezza dell'esponente di nota 63. Il regolamento è stato modificato con

regolamento (CE) del Consiglio 2116/2004, del 2 dicembre 2004 (in GUUE L 367 del 14 dicembre 2004, p. 1 s.), che lo adegua alle esigenze determinate dall'ingresso nell'Unione europea di dieci nuovi Stati membri, in particolare di Malta.

132 Il Trattato CE (art. 5, co. 1) disponeva che «La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato», ed ora l’art. 2.6 TFUE sottolinea che «La portata e le modalità di esercizio delle competenze dell’Unione sono determinate dalle disposizioni dei Trattati», così come l’art. 7 dello stesso Trattato stabilisce il «principio di attribuzione delle competenze».

133 In generale v. I. AMBROSI, L.A. SCARANO, Diritto civile comunitario e cooperazione giudiziaria civile, Milano, 2005; P. PICONE (a cura di), Diritto internazionale privato e diritto comunitario, Padova, 2004; S.M. CARBONE, M. FRIGO, L. FUMAGALLI, Diritto processuale civile e commerciale comunitario, Milano, 2004; P. DE CESARI, Diritto internazionale privato e processuale comunitario, Torino, 2003.

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224 Dino Rinoldi

(ora si veda il regolamento 44/2001) sulla competenza e la circolazione delle decisioni giudiziarie, o di Roma del 1980 (ora si veda il regolamento 593/2008) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, elaborate fra Stati membri delle Comunità europee - nonché da una serie di atti di diritto comunitario derivato (quali direttive in materia di libera circolazione dei servizi e di stabilimento)134.

Il citato regolamento, intervenendo nel settore del diritto di famiglia, tocca un ambito specificamente connesso, come già si é visto, alla libera circolazione delle persone135, stabilendo - in estrema sintesi - norme comuni agli Stati membri sulla competenza giudiziaria e il riconoscimento nonché l’esecuzione di decisioni nell’anzidetta materia.

Dalla disciplina del regolamento si escludono le materie dell’asilo136 e dell’immigrazione nonché, fra gli altri, i provvedimenti concernenti filiazione e adozione. Sulla responsabilità genitoriale137 (oggetto anche della

                                                            134 Fra tutti v. E. JAYME, C. KOHLER, L'interaction des règles de conflit contenues dans le

droit dérivé de la Communauté européenne et des conventions de Bruxelles et de Rome, in Revue crit. droit inernat. privé, 1995, pp. 1 ss., ma già U. VILLANI, L'azione comunitaria in materia di diritto internazionale privato, in Riv. dir. eur., 1981, pp. 373 ss., e M.R. SAULLE, Diritto comunitario e diritto internazionale privato, Napoli, 1983.

135 V. supra in fine di par. 7 e all'inizio di par. 8. Secondo il modello di "geometria variabile" indicato supra, nota 82, la Danimarca non è vincolata né soggetta all'applicazione di questo regolamento, come del resto accade per la direttiva 2001/40/CE (supra, nota 128) sull'allontanamento di stranieri, a meno di un'esplicita sua decisione di segno contrario; per la direttiva 2001/55/CE (supra, nota 108) sulla protezione temporanea di sfollati (a cui nemmeno l'Irlanda partecipa); per la direttiva 2003/9/CE (supra, nota 113) sull'accoglienza dei richiedenti asilo (che neanche si applica all'Irlanda); per la direttiva 2003/86/CE (supra, par. 9) sul ricongiungimento familiare di stranieri (a cui non partecipano nemmeno Irlanda e Regno Unito); per il regolamento (CE) 343/2003 (supra, nota 113) sulle competenze in materia di asilo, conseguentemente restando obbligata dalla Convenzione di Dublino del 1990 su identica materia; per la direttiva 2004/83/CE (supra, par. 10) sulla protezione internazionale; per la direttiva 2005/85/CE (supra, nota 113) c.d. "procedure" in materia di rifugio.

Sul regolamento ora in questione v. tra gli altri R. BARATTA, Il regolamento comunitario sul diritto internazionale privato della famiglia, in P. PICONE (a cura di), Diritto …, cit., pp. 163 ss.

136 Ma ad es. contiene norme anche applicabili «ai minori rifugiati o ai minori sfollati a livello internazionale a causa di disordini nei loro Paesi» (art. 13.1).

137 Con questa espressione si intendono «i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita» (art. 2, n. 7, regol. ult. cit.); il primo è inteso come il complesso dei «diritti e doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire nella decisione riguardo al suo luogo di residenza», il secondo è visto come «in particolare il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo» (art. 2, nn. 9 e 10, regol. ult. cit.).

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 225

Convenzione dell’Aja del 1996)138 il principio generale é quello della competenza del giudice del luogo di residenza abituale del minore, del quale ultimo va comunque salvaguardato l’interesse superiore.

L’atto comunitario (mi piace usare ancora quest’aggettivo, espunto dalla riforma di Lisbona) si preoccupa altresì di integrare la Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori139: giudice competente é, nell’ambito dell’Unione europea, quello dello Stato di residenza abituale del minore prima della sottrazione (da parte di un genitore), giudice al quale spetta l’ultima decisione sul ritorno del minore medesimo in relazione ai fatti che ne hanno determinato lo spostamento o il trattenimento illecito oltre frontiera. Tale decisione, come quella che dispone in materia di diritto di visita del minore, ha valore di titolo esecutivo. Quanto alle decisioni nazionali concernenti i beni di questi, il regolamento fornisce norme sull’esercizio delle responsabilità di gestione (amministrazione, conservazione, alienazione).

Le norme comunitarie dispongono altresì la costituzione di un'autorità centrale in ogni Stato membro atta a facilitare la cooperazione reciproca140.

Rispetto alle decisioni considerate dal regolamento e pronunciate in uno Stato membro, se ne dispone il riconoscimento «negli altri Stati membri senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento»141, benché in generale sia azionabile142 da «ogni parte interessata» un procedimento volto a far dichiarare «che la decisione deve essere o non può essere riconosciuta»143.

I motivi di un non riconoscimento delle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio riguardano fra l'altro la loro manifesta contrarietà all'ordine pubblico dello Stato membro

                                                            138 Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e

la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori: promossa dalla Conferenza dell'Aja di diritto internazionale privato, la Convenzione é entrata in vigore il 1° gennaio 2002 (non ancora per l'Italia, benché gli Stati membri dell'Unione europea abbiano firmato simultaneamente il Trattato il 1° aprile 2003 – v. decisione 93/2003/CE, in GUUE L 48 del 21 febbraio 2003 – restando comunque libera la Danimarca di non aderirvi).

139 Promossa anch'essa dalla Conferenza dell'Aja di diritto internazionale privato, e aperta alla firma il 25 ottobre 1980, è entrata in vigore il 1° dicembre 1983 ed è vincolante per l'Italia (dal 1° maggio 1995).

140Art. 53 ss. regol. ult. cit. Per l'Italia si tratta dell'Autorità creata presso il Dipartimento per la giustizia minorile del Ministero della Giustizia.

141 Art. 21.1, regol. ult. cit. 142Fatti salvi gli artt. da 40 a 45, sull'esecuzione di talune decisioni in materia di diritto di

visita e di talune decisioni che prescrivono il ritorno del minore. 143Ibidem, art. 21.3, co. 1.

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richiesto del riconoscimento144. Il che accade anche in relazione alle decisioni relative alla responsabilità genitoriale, ma graduando l'applicazione dell'eccezione di ordine pubblico in misura tale da tenere conto «dell'interesse superiore del minore»145.

Il regolamento comprende anche disposizioni specifiche sulla dichiarazione di esecutività delle decisioni relative all'esercizio della responsabilità genitoriale, compreso il procedimento di opposizione146.

Si sottolinea ancora la prevalenza, nei rapporti concernenti Stati dell'Unione, dell'atto comunitario sulla Convenzione dell'Aja del 1980, sopra ricordata, e su altri trattati internazionali147, stabilendosi l'ambito d'applicazione del regolamento in relazione all'altra Convenzione dell'Aja, del 1996, già citata148. Facendo infine salvi i concordati conclusi con la Santa Sede da Italia, Portogallo e Spagna, il regolamento non rinuncia a stabilire che le decisioni nazionali relative all'invalidità di un matrimonio disciplinata da siffatti Trattati vanno riconosciute negli Stati membri a norma del regolamento stesso149, benché all'Italia e alla Spagna sia consentito150 di «sottoporre il riconoscimento delle decisioni (…) [in questione] alle procedure e ai controlli applicabili alle sentenze dei tribunali ecclesiastici pronunciate in base ai [propri] trattati internazionali con la Santa Sede»151. Con l’adesione all’Unione anche Malta, come Stato concordatario, si aggiunge ai Paesi interessati da siffatta disciplina.

Oltre al legislatore comunitario, anche alla Corte di giustizia dell’Unione europea vien spesso fatto di intervenire in materia di rapporti familiari e di status personale dell'individuo. Ai fini meramente esemplificativi qui richiesti ci si può limitare ad accennare, nell'ambito dell'estesissima giurisprudenza sulla circolazione delle persone152, a pochissime decisioni.

La sentenza resa l’11 luglio 2002 in causa C-60/00, Carpenter, affronta in modo diretto la problematica dell'applicazione dei diritti dell’uomo a un                                                             

144 Ibidem, art. 22, lett. a (v. lett. b-d per gli altri motivi possibili). 145Ibidem, art. 23, lett. a (lett. b-g per gli altri motivi possibili). 146 Ibidem, art. 28 ss. 147 Ibidem, art. 60. 148 Ibidem, art. 61. 149 Ibidem, art. 63. 150 Ibidem, art. 63.4. 151 V. in materia, per quanto riguarda il nostro ordinamento, almeno la sentenza n. 18/1982

della Corte costituzionale e la decisione resa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, il 20 luglio 2001, in causa Pellegrini c. Italia, ricorso n. 30882/96.

152 V. almeno, da ultimo, il volume di L. DANIELE, op. cit., nonché L. TOMASI, Status familiari e libera circolazione dei cittadini dell'Unione, in M.C. BARUFFI (a cura di), La Costituzione europea: quale Europa dopo l'allargamento?, Padova, 2006, pp. 191 ss.

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rapporto matrimoniale, particolarmente in connessione con l’impatto della Convenzione europea di salvaguardia153 nell’ambito dell'Unione europea. Per questo se ne parlerà successivamente154, più in generale traendone considerazioni riguardo al tema della portata nazionale ovvero regionale-continentale europea, piuttosto che universale, dei diritti dell’uomo.

Una seconda sentenza, resa il 2 ottobre 2003, in causa C-148/02, Garcia Avello, va ricordata per la sua incidenza in ambito familiare proprio da una prospettiva internazionalprivatistica, qual è l’oggetto del presente paragrafo. Vi si enuncia, con riferimento al divieto di discriminazione in base alla nazionalità (art. 18 TFUE, già art. 12 CE)155 e in caso di possesso di doppia cittadinanza di Paesi dell'Unione, il «diritto a un trattamento diverso in situazioni diverse»156, specificamente «il diritto alla considerazione degli status personali acquisiti in conformità al diritto dello Stato di ulteriore cittadinanza» (la Spagna, che consente il doppio cognome) in luogo delle prescrizioni del Paese di residenza (e di altra cittadinanza: il Belgio) fondate sulla trasmissione ai figli di un solo cognome.

La questione va da un lato inserita nell’apprezzamento, ai sensi del diritto comunitario, della nozione di «Stato di origine» e di «Stato di destinazione»157, ma qui interessa, da un altro lato, la valutazione della Corte di giustizia attorno a norme e prassi nazionali di diritto internazionale privato collegate all’applicazione del diritto comunitario. Cosicché, «Sebbene, allo stato attuale del diritto comunitario, le norme che disciplinano il cognome di una persona rientrino nella competenza degli Stati membri, questi ultimi, nell'esercizio di tale competenza, devono

                                                            153 V. supra, par. 7. Elaborata dal Consiglio d'Europa e aperta alla firma nel 1950, la

Convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo è internazionalmente in vigore dal 1953, per l'Italia dal 1955. Se ne ritrova menzione, negli strumenti pattizi che fondano l'Unione, nell'art. 6.3 TUE, secondo cui «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Il Trattato sull’Unione europea (art. 6.2) stabilisce l'adesione dell'Unione stessa alla Convenzione in questione. Anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea si menziona la Convenzione (artt. 52 e 53 oltre che nel Preambolo).

154 V. par. 12.1 . 155 V. anche l'art. 14 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e il

Protocollo n. 12 (in vigore, ma non per l'Italia, dal 1° aprile 2005) della stessa. 156 L. TOMASI, op. cit., p. 203, rifacendosi al par. 31 della sentenza in oggetto. 157 Op. ult. cit., passim: va ricondotto al primo concetto il riconoscimento nel Paese di

destinazione della disciplina acquisita nello Stato di provenienza (secondo il principio della conservazione nello spazio della regolazione di situazioni giuridiche); al secondo concetto l'attribuzione della disciplina dello Stato di arrivo, ai sensi del principio d'uguaglianza con gli amministrati nazionali.

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tuttavia rispettare il diritto comunitario»158. Ed esiste un collegamento della situazione concreta col diritto comunitario nel caso di «cittadini di uno Stato membro i quali soggiornino legalmente nel territorio di un altro Stato membro»159. Va dunque contro gli artt. 12 e 17 CE (secondo la numerazione e la dizione vigenti al tempo della sentenza), ed ostacola al contempo l'identità personale e l'integrazione sociale, il fatto che un Paese membro respinga la richiesta volta a far sì che «figli minorenni residenti in questo Stato e in possesso della doppia cittadinanza (…) possano portare il cognome di cui sarebbero titolari in forza del diritto e della tradizione»160 di un altro Stato membro.

Pare utile aggiungere infine il richiamo alle sentenze della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado delle Comunità europee, concernenti casi di «pluralismo dei modelli familiari», ricordando almeno la decisione resa il 31 maggio 2001 dalla Corte, nei procedimenti riuniti C-122/99P e C-125/99P, D. e Regno di Svezia c. Consiglio dell'Unione europea, diretti all'annullamento di una sentenza con cui il Tribunale aveva negato il beneficio dell'assegno di famiglia a un funzionario comunitario svedese legato a un concittadino dello stesso sesso da un'unione stabile registrata ai sensi del proprio ordinamento nazionale.

La Corte respinse il ricorso anzitutto rimarcando che lo Statuto del personale delle Comunità europee (ora modificato anche per tener conto dei nuovi sviluppi normativi in tema di legami familiari in svariati Stati membri) riconosce il diritto agli assegni familiari al «funzionario coniugato», al «funzionario vedovo», nonché a quello che non trovandosi nelle due condizioni precedenti «assuma tuttavia realmente oneri di famiglia»161. Osservando che ai sensi dell'ordinamento svedese «[l']unione stabile registrata ha gli stessi effetti giuridici del matrimonio, salvo le eccezioni previste (…)»162, sottolinea il fatto che «è pacifico che il termine "matrimonio", secondo la definizione comunemente accolta dagli Stati membri, designa una unione tra due persone di sesso diverso»163, pur in presenza in «un numero sempre maggiore di Stati membri» di «un riconoscimento giuridico a forme diverse di unione tra conviventi dello stesso sesso o di sesso diverso»164. E' comunque chiaro che, «a parte la loro                                                             

158 Par. 25 sent. ult. cit. 159 Parr. 26-27 sent. ult. cit. 160 Par. 45 sent. ult. cit. 161 Par. 2 sentenza D. e Regno di Svezia cit. Per le modifiche sopravvenute nella disciplina

del personale dell’Unione cenni nel mio Lo spazio cit., in fine par. 2.4. 162 Par. 3 sent. ult. cit. 163 Par. 34 sent. ult. cit. 164 Par. 35 sent. ult. cit.

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estrema eterogeneità, i suddetti regimi di registrazione di relazioni di coppia (…) sono, negli Stati membri interessati, distinti dal matrimonio»165.

Ne scaturisce un’interpretazione dello Statuto del personale, anche in relazione all’art. 157 TFUE166 sulla parità di retribuzione senza discriminazioni in base al sesso, secondo cui la negata equiparazione della situazione in questione alle relazioni familiari da quello considerate deriva dal fatto che «il giudice comunitario non può prescindere dai concetti prevalenti nell'insieme delle Comunità»167. Si costruisce su questa base una nozione autonoma (comunitaria) di matrimonio invece di tenere conto delle specifiche fattispecie nazionali di volta in volta rilevanti ai fini, o come presupposto, dell'applicazione del diritto comunitario stesso168. Nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, del resto, quanto al diritto di sposarsi e di costituire una famiglia si rinvia proprio alle «leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio»169.

La sentenza conclude, per escluderne nel caso l'applicazione, sulla rilevanza dell'art. 8 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo in materia di ingerenza delle pubbliche autorità nella vita familiare, particolarmente con riguardo a relazioni omosessuali170.

                                                            165 Par. 36 sent. ult. cit. 166 Nella sent. lo si menziona, secondo la numerazione di allora, come art. 119 CE (poi

divenuto art. 141 fino alla riforma di Lisbona). 167 Par. 49 sent. ult. cit. 168 A. ROTTOLA, La valutazione internazional-privatistica dei presupposti giuridici di

norme materiali comunitarie, in Dir. Unione eur., 2004, pp. 329 ss. 169 Supra, par. 7. Per il richiamo alla Carta di Nizza nella giurisprudenza comunitaria v.

Tribunale di primo grado, sentenza del 30 gennaio 2002, in causa T-54/99, max.mobil Telekommunikation, e del 15 gennaio 2003, in cause riunite T-377/00 e altre, Philips Morris International; nella giurisprudenza interna v. R. CALVANO, La Corte d’Appello di Roma applica la Carta dei diritti Ue. Diritto pretorio o ius comune europeo?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/archivio/giurisprudenza/calvano_roma.html.

170 Per l'incidenza della Convenzione in materia e il richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo v. L. TOMASI, op. cit., p. 207 e passim; P. PALLARO, I diritti degli omosessuali nella Convenzione europea per i diritti umani e nel diritto comunitario, in Riv. internaz. dir. uomo, 2000, pp. 104 ss. V. poi, in tema di identità sessuale, la nota di R. CALVANO, Corte di giustizia, Cedu e transessualismo, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/archivio/giurisprudenza/20040107.htm, con la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 7 gennaio 2004, C-117/01, K.B., sull’accesso dei transessuali al matrimonio ai sensi della disciplina britannica (su cui v. anche R. CALVANO, Il giudice comunitario torna sulla parità di trattamento nei confronti dei transessuali nel Regno Unito, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/giurisprudenza_comunitaria/transessuali_uk/index.html).

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12. Legami familiari, diritti dell’uomo e integrazione europea fra particolarità e universalità, relatività e assolutezza

Coppie di concetti contrapposti, quali particolarità ovvero universalità

nonché relatività ovvero assolutezza dei diritti, si fondano così su manifestazioni della prassi assai significative soprattutto in materia familiare ma non in essa esauribili. 12.1.Quando il marito esercita una libertà comunitaria e la moglie ne gode in quanto fattore di produzione economica

Proprio la sentenza resa dalla Corte di giustizia delle Comunità nel caso

Carpenter171 conduce verso considerazioni di chiusura, nel contempo aperte a soluzioni anche contrapposte, riguardo alla portata della dignità e dei diritti umani nel campo qui indagato.

Quel che più rileva nel caso anzidetto è l'interpretazione dell'art. 49, co. 1, CE (ora art. 56 TFUE) alla luce di una disposizione della Convenzione di salvaguardia, l'art. 8.1, concernente il rispetto della vita privata e familiare. Siamo infatti in assenza di norme (di diritto derivato) adottate dal legislatore comunitario per far sì che il cittadino dell'Unione, che eserciti una professione di fornitore di servizi nel «mercato interno»172, abbia il diritto di non vedersi espellere la moglie (cittadina non comunitaria) a motivo del di lei soggiorno illegale nello stesso Stato di cittadinanza, residenza e lavoro del marito. La sentenza integra la norma del Trattato, sul divieto di restrizioni alla libera prestazione dei servizi, con l'applicazione «del diritto fondamentale al rispetto della vita familiare»173. Quest'ultimo viene ricavato appunto dalla Convenzione di salvaguardia174 tramite la previsione di cui all’art. 6.2 TUE (precedente alla riforma di Lisbona), che, sintetizzando consolidata giurisprudenza della stessa Corte, ne garantisce il rispetto da parte dell'Unione175.

Il fatto è, dice la Corte, che «la separazione dei coniugi Carpenter nuocerebbe alla loro vita familiare e, conseguentemente, alle condizioni di                                                             

171 Supra nel testo, all'altezza dell'esponente di nota 153. 172 V. art. 3 CE (ora artt. 3.1, lett. b, e 4.2, lett a, TFUE). 173 Sentenza Carpenter, cit., par. 46 e dispositivo. 174 Oltretutto esaminando, per ritenerle nel caso inapplicabili, le limitazioni al diritto in

questione previste dallo stesso art. 8.2 (fra l'altro in materia di sicurezza nazionale, salute, difesa dell'ordine).

175 «L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (…) e quali risultato dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 231

esercizio di una libertà fondamentale da parte del sig. Carpenter»176, ostacolandole per effetto di una decisione di espulsione che costituisce nel caso una misura sproporzionata giacché «non rispetta il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco, cioè da un lato il diritto del sig. Carpenter al rispetto della sua vita familiare e, dall'altro, la salvaguardia dell'ordine pubblico e della pubblica sicurezza»177.

Se si può criticare la riduzione della signora Carpenter a fattore di produzione economica, o almeno a «"fattore di realizzazione" del diritto (…) del cittadino dell'Unione»178, non si può non accogliere con favore la convergenza realizzata nella fattispecie tra i due principali strumenti pattizi dell'integrazione europea.

12.2. Dal diritto comunitario visto alla luce della Convenzione di salvaguardia alla Convenzione di salvaguardia vista alla luce del diritto comunitario

A riprova della "circolazione" dei valori giuridici fra Corti

internazionali, almeno con riguardo all'ambito dell'integrazione europea, si può su un altro, speculare, versante menzionare la decisione resa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo il 17 gennaio 2006 nel caso Aristomuño Mendizabal179, dove è viceversa l'art. 8 della Convenzione di salvaguardia ad essere stato interpretato alla luce del diritto comunitario180.

                                                            176 Par. 39 sentenza ult. cit. 177 Par. 43. 178 L. TOMASI, op. cit., p. 207. Per l’interpretazione (estensiva) della libertà di circolazione

e soggiorno fra gli Stati membri, in particolare non subordinata – per i cittadini dell’Unione – all’esercizio di un’attività economica, e sulle (ristrette) condizioni limitative che si possono al riguardo imporre v. CGCE, sentenza del 23 marzo 2006, in causa C-408/03, Commissione c. Regno del Belgio, su cui v. A. DI MARTINO, Diritto di cittadinanza dell’Unione europea e interpretazione estensiva del diritto di circolazione e soggiorno, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/giurisprudenza_comunitaria/cittadinanza/index.html.

179 Ricorso n. 51431/99. 180 V. M. DI CIOMMO, La Corte di Strasburgo interpreta l'art. 8 Cedu alla luce del diritto comunitario, in

www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/giurisprudenza_comunitaria/mendizabal/index.html. Nella sentenza CGCE, resa in causa C-503/03 (supra, nota 82), è la Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen a essere letta alla luce del diritto comunitario, che vi impedisce la rilevanza dell’eccezione di ordine pubblico (ivi compresa la sicurezza pubblica o nazionale) secondo i criteri di automaticità (parr. 37-38 sent. ult. cit.) insiti nel principio di leale cooperazione (par. 56) presupposto dallo “spazio Schengen”. Così la libera circolazione delle persone, in specie quando concernente rapporti familiari di cittadini dell’Unione, soffre di eventuali eccezioni per motivi di ordine pubblico secondo la nozione comunitaria di questo, che, invece di agire «indipendentemente da ogni applicazione concreta della minaccia rappresentata dall’interessato» (par. 48), «presuppone, in ogni caso, oltre alla perturbazione

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Una cittadina dell’Unione, basca di nazionalità spagnola, lamentava tra l'altro di essersi vista rifiutare nei quasi quindici anni di residenza abituale in Francia (dapprima come rifugiata politica), il rilascio del titolo di lungo soggiorno, con conseguente ingiustificata grave ingerenza da parte delle pubbliche autorità nella propria vita privata e familiare. Anche in considerazione dell'ingresso della Spagna nell'Unione europea, e della titolarità in capo ai suoi cittadini di un pieno diritto di ingresso e soggiorno – come cittadini europei - in tutti gli altri Paesi membri a partire dal 1° gennaio 1992, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha valutato l'evoluzione della disciplina francese in rapporto a quella comunitaria, sottolineando che «en effet, le point essentiel tient à la qualité de ressortissante communautaire de la requérante»181. La posizione di precarietà e incertezza in cui è stata tenuta la ricorrente, pur in presenza di siffatta qualità e dei diritti relativi, ha costituito senza dubbio un'ingerenza indebita, senza che ricorressero ragioni per limitazioni altrimenti consentite per motivi di ordine pubblico o di sicurezza182, di cui all'art. 8 della Convenzione, disposizione che la Corte stessa «estime donc que (…) doit être interprétée en l'espèce à la lumière du droit communautaire et en particulier des obligations imposées aux Etats membres quant aux droits d'entrée et de séjour des ressortissants communautaires»183.

                                                                                                                              dell’ordine sociale insita in qualsiasi infrazione della legge, l’esistenza di una minaccia effettiva [attuale] ed abbastanza grave per uno degli interessi fondamentali della collettività» (par. 46), proteggendo in fattispecie come quelle oggetto della sentenza il diritto al rispetto della vita familiare ex art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

181 Par. 67 sent. ult. cit. Sul permesso di soggiorno di lunga durata rifiutato dalle autorità britanniche a una minore di cittadinanza irlandese (acquisita perché nata da genitori cinesi su quell’isola) e alla madre, la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza del 19 ottobre 2004, in causa C-200/02, Zhu e Chen) ha affermato (v. il dispositivo) che «In circostanze come quelle della causa principale, l’art. 18 CE [ora 21 TFUE] e la direttiva del Consiglio del 28 giugno 1990, 90/364/CEE, relativa al diritto di soggiorno, conferiscono al cittadino minorenne in tenera età di uno Stato membro, coperto da un’adeguata assicurazione malattia ed a carico di un genitore, egli stesso cittadino di uno Stato terzo, le cui risorse siano sufficienti affinché il primo non divenga un onere per le finanze pubbliche dello Stato membro ospitante, un diritto di soggiorno a durata indeterminata sul territorio di quest’ultimo Stato. In un caso siffatto, le stesse disposizioni consentono al genitore che ha effettivamente la custodia di tale cittadino di soggiornare con quest’ultimo nello Stato membro ospitante».

182 In via equitativa (art. 41 della Convenzione di salvaguardia) la Corte di Strasburgo ha riconosciuto alla ricorrente un indennizzo di 50.000 euro per il comportamento tenuto nei suoi confronti dalle autorità francesi.

183 Par. 69 sent. ult. cit.

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 233

12.3.Diritti dell’uomo e circolazione orizzontale ovvero verticale di valori giuridici

Beninteso, non sempre la giurisprudenza delle due Corti si è risolta in

convergenze o complementarità, senza distonie o episodi di frizione se non addirittura di contrasto184. Ai fini che qui contano vale però la sottolineatura del dato positivo, che risulta quantitativamente assai più importante. La circolazione orizzontale di valori giuridici nel campo dei diritti dell'uomo si traduce anche in una loro trasposizione (per così dire dall' "alto" del sistema dell'integrazione europea al "basso" o all’interno degli Stati che vi partecipano) negli ordinamenti nazionali dei Paesi membri dell'Unione e del Consiglio d'Europa (tutti vincolati dalla Convenzione di salvaguardia). Quest’ultima circolazione verticale può anche determinare problemi nei processi di adattamento, o se si vuole di immissione o ingresso, rispetto al diritto pattizio e derivato (dell'Unione europea o della Convenzione di salvaguardia) ad opera degli ordinamenti interni185.

E' proprio in relazione alla tutela di principi giuridici nazionali ritenuti essenziali che in un diffusissimo e autorevole manuale si sottolinea che in caso di voluto, mancato rispetto da parte dello Stato «Non è del tutto azzardata la tesi secondo cui l'illiceità sia esclusa quando una norma internazionale (…) urti contro principi fondamentali della Costituzione dello Stato»186.                                                             

184 V. tra gli altri A. BULTRINI, La pluralità dei meccanismi di tutela dei diritti dell'uomo in Europa, Torino, 2004.

185 Il corsivo è aggiunto. V. ad esempio l'affermazione della tutela dei principi fondamentali e dei diritti dell'uomo, contenuti nella nostra Carta costituzionale, effettuata nella sentenza n. 170/1984, in causa Granital, della Corte costituzionale a fronte dell'attività e dello sviluppo delle Comunità europee. Ma v. anche D. PICCIONE, L'inemendabilità della legge di autorizzazione alla ratifica della Costituzione europea e il falso mito del "principio di non regressione", in www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/anticipazioni/ inemendabilità/, sull'inserimento (rigettato), nella legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato costituzionale (supra, nota 60), di una clausola volta «a garantire la protezione dei diritti di libertà e dei principi fondamentali dell'ordinamento italiano da ogni interpretazione del Trattato che ne determini una qualche deminutio» (D. PICCIONE, op. cit., par. 1). Sull'adattamento del diritto italiano al diritto internazionale v. di recente F. SALERNO, Il neo-dualismo della Corte costituzionale nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, in Riv. dir. internaz, 2006, pp. 341 ss.; sull’adeguamento in particolare al diritto comunitario, ovvero al diritto dell’Unione europea: R. ADAM, A. TIZZANO, Lineamenti di diritto dell’Unione europea, Torino, 20102, pp. 205 ss.; U. VILLANI, Istituzioni di diritto dell’Unione europea, Bari, 20102, pp. 371 ss.

186 Sempreché, ovviamente, non si tratti di una norma di ius cogens: v. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 20067, p. 331 s.

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234 Dino Rinoldi

12.4. Particolarità e universalità dei valori giuridici Quanto alla circolazione dei valori giuridici sembra ancora utile

menzionare il problema della particolarità o relatività che li caratterizza quando si ponga la questione della loro applicazione in un ordinamento diverso da quello di origine. Si tratta di una relatività verso la quale ci si dispone al riconoscimento ad esempio quando, nella ricerca nel foro della disciplina di rapporti privatistici con elementi di estraneità, l'applicazione della norma straniera non sia suscettibile di essere scartata a motivo del fatto che essa appaia in via teorica contrastante con i (o uno dei) principi etico-morali, politici o sociali dell'ordinamento187. Così, non si può reputare in astratto confliggente con i principi giuridici fondamentali dell'ordinamento di uno Stato europeo il riconoscimento di effetti al matrimonio islamico, che pure prevede la poligamia188. Né quei principi potrebbero ostare in concreto all'efficacia nel foro di un atto di ripudio - previsto come forma di scioglimento del legame coniugale secondo, ad esempio, l'ordinamento marocchino - quando si abbia la prova che in un determinato caso i principi fondamentali in questione nel foro abbiano trovato rispondenza, magari perché la parte convenuta (la moglie da ripudiare) è stata regolarmente citata e ha avuto modo di essere rappresentata, avendo ella potuto comunque esercitare nell’ordinamento di origine diritti che fondano un procedimento equo, equiparabile, equivalente nella sostanza, a quello di divorzio189. Al riguardo si sono avuti approfondimenti di vario genere. Si può tra l’altro ricordare l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha avuto modo di approvare certa evoluzione di giurisprudenza nazionale (francese) volta a stabilire che «même si elle résultait d'une procédure loyale et contradictoire, [une] décision constatant une répudiation unilatérale du mari sans donner d'effet juridique à l'opposition éventuelle de la femme (…) est contraire au principie d'égalité des époux lors de la dissolution du mariage reconnu par l'article 5 du Protocole (…) n. 7 à la Convention (…) que la France s'est

                                                            187 V. N. BOSCHIERO, Appunti sulla riforma del sistema italiano di diritto internazionale

privato, Torino, 1996, p. 236. 188 V. anche supra, in fine par. 9, sulle prescrizioni della direttiva 2003/86/CE in materia di

matrimonio poligamico. 189 I. FADLALLAH, Vers la reconnaissance de la répudiation musulmane par le juge

français?, in Rev. crit. doit. internat. pivé., 1981, pp. 17 ss.; per la giurisprudenza: in Francia Cour d'appel de Paris, 1ère Ch. civ., 20 dicembre 1994, Sefrani c. Sefrani, in Journ. droit. int., 1995, pp. 346 ss. e pp. 343 ss. per altre decisioni in materia; in Italia Corte Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, Prola e Prola c. Salada Nur Ibrahaim, in Riv. dir. internaz. priv. proc., 1999, pp. 613 ss.

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engagée à garantir à toute personne relavant de sa juridiction, et donc à l'ordre public international (…)»190.

Viceversa, la criminalizzazione (sempre ad esempio) secondo il diritto marocchino del concepimento di figlio naturale da parte di persona sposata, e il conseguente mancato accoglimento in quell'ordinamento del riconoscimento di tale rapporto di filiazione, non può non determinare in un ordinamento come il nostro, alla luce dei suoi principi fondamentali, la negazione di effetti a tali prescrizioni e l'affermazione del rapporto stesso191. Ugualmente va rigettata l'applicazione della legge nazionale di un cittadino peruviano residente in Italia quando tale normativa, pur concernendo lo status personae, vieti il riconoscimento ai fini dello stato civile delle modificazioni di sesso: la persona in questione è perciò autorizzata a sottoporsi a trattamento medico-chirugico di adeguamento dei suoi caratteri sessuali primari, con conseguente rettificazione dell'attribuzione del sesso e del nome, in ossequio alla legge (italiana) 14 aprile 1982, n. 164, e ai principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza 24 maggio 1983, n. 161, principi già fatti propri dall’allora esistente Commissione europea dei diritti dell'uomo con decisione del 9 maggio 1978192. In tal modo «lo Stato italiano si è mostrato attento a quei valori di dignità e libertà della personalità umana che devono essere ricercati e tutelati anche in situazioni minoritarie o apparentemente anomale, valori che si ritiene pertanto superino i confini della territorialità e possano e debbano essere affermati anche in presenza di normative di altri Stati eventualmente difformi od omissive»193.

Da esempi come quelli appena fatti si può ricavare un’ultima considerazione, sull’accettazione da parte dell’ordinamento di una relatività dei valori giuridici194 in nome del rispetto delle differenze e della continuità

                                                            190 V. la sentenza resa l'8 novembre 2005 nel caso D.D. c. Francia, ricorso n. 3/02, par. 27.

Il Protocollo citato, annesso alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, si occupa, all'art. 5, di eguaglianza degli sposi.

191 V. Corte Cass., sez. I, sentenza 8 marzo 1999, n. 1951, in Giur. cost., 1999, p. 2005, con la nota di F. PATRUNO, Filiazione naturale ed ordine pubblico internazionale: un'interessante applicazione. V. in generale S. ALDEEB, A. BONOMI (éd.), Le droit musulman de la famille et des successions à l’épreuve des ordres juridiques occidentaux, Zürich, 1999 ; S. ALDEEB, I diritti dell’uomo e la sfida dell’Islam (diagnosi e rimedi), in Riv. internaz. dir. uomo, 1999, pp. 101 ss.

192 V. Trib. Milano, sentenza del 14 luglio 1997, ricorso di G.S.S., in Riv. dir. internaz. priv. proc., 1998, pp. 568 ss. Le competenze della Commissione europea dei diritti dell’uomo sono state assorbite come noto dalla Corte europea omonima a partire dal 1° novembre 1998.

193 Sent. ult. cit., p. 570. Il corsivo è aggiunto. 194 La dizione «valori giuridici» fa ovviamente riferimento alle espressioni normative

elaborate dal diritto attraverso le proprie tecniche: v. supra in questo stesso par. Il termine

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di disciplina nello spazio dei rapporti inquadrati ai sensi dell’ordinamento di origine, piuttosto che sul rigetto della possibilità di darvi effetto nell’ordinamento di destinazione sostituendovi regolazioni fondate su principi che aspirano a un’applicazione universale. Una più approfondita indagine richiederebbe di ragionare, di fronte a diffusa casistica concernente un ampio ventaglio di materie, proprio sulla nozione di (applicazione della disciplina del) Paese d’origine ovvero di destinazione195, approdando in definitiva all’individuazione (dell’ordinamento) del Paese competente a disciplinare un determinato rapporto giuridico196. Ai fini che qui si perseguono può bastare la sottolineatura di un’articolazione, fra piano nazionale, regionale-continentale e universale, sovente portatrice di risultati fecondi nell’applicazione delle norme, talvolta ancora debitrice della necessità di evitare distonie, rimuovere frizioni e risolvere contrasti197.

Dal campo privatistico a quello pubblicistico si constata che la cooperazione, da una parte, fra diritti nazionali (e il relativo loro dispiegarsi tra ambito locale, regionale interno e centrale) e, da un’altra parte, organizzazione regionale-continentale (come quella di integrazione europea) nonché, da un’altra parte ancora, diritto internazionale a indirizzo universale sollecita interpretazioni di tipo costituzionale198. Una prospettiva unitaria può essere colta nel disporsi dei diritti dell’uomo nel contesto dell’articolazione suddetta: dal minimo comun denominatore in via di ampliamento nell’ambito universale199, all’approfondimento negli

                                                                                                                              «valore», per dirlo con C. Schmitt, ha sempre - nelle specificazioni che esso assume - una funzione ideologica: occorre individuare volta a volta la genealogia (la struttura) dei suoi diversi contenuti (M. GUERRI, Orientarsi dopo l'11 settembre: dalla «instabilità semantica» alla genealogia della politica. Alcune note su Carl Schmitt, in www.unimi.it/Spazio_Filosofico/carbone/Schmitt.htm), com'è il caso dei «Valori dell'Unione» di cui all'art. I-2 del Trattato costituzionale e alla prima frase del Preambolo («Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto (…)», ecc.). V. pure infra, nota 201.

195 Cenni supra, nota 157. 196 P. PICONE, Ordinamento competente e diritto internazionale privato, Padova, 1986. 197 Supra nel testo, all'altezza dell’esponente di nota 184. 198 V. G. ZAGREBELSKY, in Cinquanta anni di attività della Corte costituzionale, in

www.cortecostituzionale.it/ita/attivitacorte/relazioniannualideipresidenti/2006/relazione_Zagrebelsky.asp., nonché P. HÄBERLE, Diritto costituzione nazionale, unioni regionali fra Stati e diritto internazionale, come diritto universale dell'umanità: convergenze e divergenze, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/anticipazioni/diritto_universale/index.html (rispettivamente pp. 3 e 15 in particolare per la considerazione della comparazione costituzionale come quinto metodo di interpretazione da aggiungersi ai quattro di Savigny).

199 Com'è il caso della disciplina dei minori (supra, nota 56). Anche la Convenzione sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (entrata in vigore il 1° luglio

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 237

ordinamenti nazionali anche attraverso la partecipazione a specifiche forme di integrazione giuridica internazionale-regionale. Incidendo sia in campo pubblicistico che privatistico200 tali diritti costituiscono guida e orientamento di prassi e dottrina.

12.5. Un’ “ideologia” dei diritti dell’uomo?

Certo non mancano valutazioni critiche201, come quelle sulla “ideologia

dei diritti dell’uomo”202, da qui argomentandosi che possa talora essere discriminatoria, nella disciplina di un determinato rapporto, l’applicazione della concezione nazionale pur enunciata (anzi, proprio perché enunciata) con pretesa di universalità203.

12.5.1. Quando il fatto di detener colonie salva dal conflitto con la concezione metropolitana dell’ordine pubblico internazionale

Siffatto neo-colonialismo giuridico, a dispetto delle apparenze, non

risulterebbe nella sostanza differente da quello per così dire “vetero” o “classico” che da un lato rifiutava egualmente - e più diffusamente di oggi - di dar effetto nel foro a istituti estranei, di civiltà non affine204, ammettendo                                                                                                                               2003) segna l'impulso delle N.U. nel senso anzidetto, benché si tratti di uno strumento che ancora vincola pochi Stati, e non i più coinvolti come soggetti passivi del fenomeno in oggetto (è il caso dell'Italia).

200 V. ad es. già D. SPIELMANN, L'effet potentiel de la Convention européenne des droits de l'homme entre personnes privées, Bruxelles, 1995. Sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea v., al riguardo, G. VETTORI (a cura di), Carta europea e diritti dei privati, Padova, 2002.

201 Sull'anzidetta interpretazione di tipo costituzionale v. le considerazioni di F. PALERMO, La forma di Stato dell'Unione europea. Per una teoria costituzionale dell'integrazione sovranazionale, Padova, 2005, particolarmente l'Introduzione su «I valori e la loro reciproca imposizione nel diritto costituzionale integrato dell'incompletezza».

202 Punte parossistiche, e forse parodistiche, sono toccate in materia da interventi come quello di É. DELCROIX, I diritti dell'uomo in azione. La deriva della legge e dei giudici verso lo psicoreato, in l'Uomo libero (www.uomo-libero.com/articolo.php?id=327). Dello stesso autore v. Le Théâtre de Satan - Decadence du droit, partialité des juges, Paris, 2004, col cap. IV «L'empire mondialiste des "droits de l'homme"».

203 V. ad es. supra (nota 190 e testo cui essa si riferisce) per l'evoluzione della giurisprudenza francese in tema di ripudio.

204 V. certe puntualizzazioni della giurisprudenza italiana nel distinguere fra ordine pubblico interno e internazionale, ritenendosi il primo costituito «dal complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un certo momento storico», il secondo comprensivo dei principi «a carattere universale, comuni a molte nazioni di civiltà affine, intesi alla tutela di alcuni diritti fondamentali dell'uomo, spesso sanciti in dichiarazioni o convenzioni internazionali» (Cass., sezz. unn., 8 gennaio 1981, n. 189).

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dall’altro - come nel caso della Francia205 - di non ricorrere all’eccezione di ordine pubblico in casi disciplinati secondo il diritto di derivazione religiosa islamica dell’isola di Mayotte, nell’arcipelago delle Comore, in quanto possedimento francese206.

12.5.2. Quando vale un principio di giurisdizione universale per condotte compiute da militari stranieri all’estero e quando, invece, il fatto di detener colonie evita il vaglio sulle condotte ivi svolte dall’esercito metropolitano

Richiama invece la concezione universale dei diritti dell’uomo (ma,

ancora, secondo una matrice “ideologica”?) la condanna irrogata poco tempo fa, da una Corte distrettuale olandese, a due ex alti ufficiali afgani che durante la guerra civile nel proprio Paese (1978-1992) avevano ordinato o tollerato crimini contro gli insorti207. All’applicazione in tal caso di un principio tendenzialmente di universalità208 si può accostare una fattispecie di segno contrario quanto al riconoscimento dei diritti umani, benché eguale nella visione di stampo coloniale riconducibile alla critica vertente sull’impostazione “ideologica”. Infatti, fino alla metà degli anni Novanta dello scorso secolo proprio le giurisdizioni penali olandesi hanno al contrario dichiarato non applicabile il “diritto di Ginevra”209 alle azioni compiute dalle forze armate nazionali fra il 1945 e il 1949 in territorio

                                                                                                                              Criticamente sulla proposta distinzione v. P. MENGOZZI, Il diritto internazionale privato italiano, Napoli, 2004, pp. 51 ss.

205 Supra, par. 12.4. 206 L'arcipelago in questione, già sotto dominio francese, è diventato indipendente come

Repubblica federale islamica delle Comore (fino al 2001) e poi come Unione delle Comore. Solo l'isola di Mayotte è restata possedimento d'oltremare del Paese europeo, abolendo appena nel 2003 la poligamia e il ripudio della moglie da parte del marito.

207 V. A. CASSESE, Gli Usa insistono a giudicare da soli i militari colpevoli di violenza, in www.articolo21.info/notizia.php%3Fid%3D3680+l%27analisi+gli+usa+insistono+antonio+cassese&hl=it&ct=clnk&cd=1 (5 giugno 2006). Sulla giurisdizione universale v. di recente C. MEOLI, La "jurisdicción universal" per la tutela dei diritti umani, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti/vicendeinternazionali/meoli.html; ma anche P. LAMBERTI ZANARDI, G. VENTURINI (a cura di), Crimini di guerra e competenza delle giurisdizioni nazionali, Milano, 1998. V. inoltre A. DEL VECCHIO, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Milano, 2003; G. CALVETTI, T. SCOVAZZI, Dal Tribunale per la ex-Jugoslavia alla Corte penale internazionale, Milano, 2004.

208 I due afgani si trovavano comunque in territorio olandese (avendo chiesto rifugio alle autorità di quel Paese).

209 Cioè le quattro Convenzioni del 1949, e i due Protocolli aggiuntivi del 1977, sul diritto umanitario applicabile ai conflitti armati.

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 239

(coloniale) indonesiano, riconducendo tali attività all’interno della domestic jurisdiction (fatti interni, non internazionalmente rilevanti)210.

12.5.3. Il divieto di lanciare nani; ovvero salvaguardia dal dileggio ma perdita del lavoro: la dignità comunque compressa?

Sintetizzando il più possibile il campo di intervento dei diritti umani si

resta ancorati al principio di dignità211, rilevante nel diritto internazionale, in quello nazionale come nell’ambito dell’integrazione regionale europea212. Anche questo estremo, inaggirabile, principio, fra l’altro connesso al divieto di trattamento inumano e degradante213, può essere esposto nella fattispecie concreta a interpretazioni diverse, com’è il caso del cosiddetto “lanciatore di nani” dove, contro l’affermazione del principio di dignità, e del divieto di sottoposizione a situazioni degradanti, può essere evocato il contrapposto diritto di persone già svantaggiate a poter svolgere un lavoro, sia pure di tipo circense, finalizzato nel contempo all’altrui divertimento e al proprio sostentamento214.

12.5.4. Il diritto al ripensamento (da parte del marito): contrattualizzazione del matrimonio e tutela del consumatore (maschile) da prodotto (femminile) difettoso (perché proposto come nuovo e invece usato)

Diversità di soluzioni giudiziarie si è avuta in Francia per la pretesa di

annullamento del matrimonio tra due fedeli islamici basata sul vizio del consenso del nubendo, ingannato sulle qualità essenziali della futura

                                                            210 V. N. PARISI, Problemi attuali del diritto internazionale penale, in Pubblicazioni

Centro Studi per la pace, www.studiperlapace.it, Convegno "Diritto e forze armate. Nuovi impegni", Padova, 30 novembre 2000, par. 6.1.

211 Già supra nel testo, dopo l'esponente di nota 192. V. un ultimo mio lavoro: Un principio d'umanità, Premessa al vol. di L. AZZONI, R. CAPUTO, I. PALUMBO (a cura di), Gestione degli interventi nelle crisi internazionali. Dalla diplomazia umanitaria alla cooperazione internazionale, Roma (Cablit ed.), 2006, pp. III ss.

212 Ad es. v. CGCE, sentenza del 14 ottobre 2004, in causa C-36/02, Omega, par. 32 ss. anche per la menzione di decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo oltre che per il riferimento alla Costituzione tedesca.

213 Fra l'altro v. art. 3 della Convenzione europea di salvaguardia. 214 V. A. MASSARENTI, Il lancio del nano, Parma, 2006, pp. 7 ss. («Il lancio del nano. Uno

sport inumano?»), con riferimento alla pronuncia del Consiglio di Stato francese che ha proibito tale pratica, specificamente riscontrata in locali notturni di divertimento, in quanto lesiva della dignità umana. V. Rev. trim. dr . homme, 2003, pp. 1017 ss. sulla vicenda portata innanzi al Comitato dei diritti dell’uomo delle NU (decisione del 26 luglio 2002) per chiedere l’applicazione del Patto del 1966 sui diritti civili e politici (Wackenheim c. Francia).

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moglie, che inducendolo in errore gli aveva nascosto il fatto di non essere più vergine.

Il Tribunal de Grande Instance di Lille, il 1° aprile 2008, accoglieva il ricorso fondandosi sulla nozione di qualità essenziale, da apprezzarsi in modo relativo (caso per caso) e soggettivo (secondo la persona che, fondatamente, si aspetti di trovare determinate qualità nel coniuge)215.

Su ricorso del Parquet général la decisione veniva annullata, ritenendo la Corte d’appello di Douai (Nord) che «la virginité n’est pas une qualité essentielle, que son absence n’a pas d’incidence sur la vie matrimoniale»216.

Ancora prese di posizione “ideologiche”? L’una o l’altra? Ambedue?

12.5.5. Sulla bastonatura: La violenza fisica dovrebbe aver poco a che fare con prescrizioni morali

o credo religioso. La bastonatura è stata oggetto di considerazione, fra gli altri, da parte della Corte suprema indiana e del Consiglio d’Europa.

a) quale sanzione all’opposizione femminile al matrimonio forzato e

alla scelta di matrimonio intercomunitario o intercasta; ma anche … La Corte suprema dell’India ha deciso l’anno scorso che una donna

maggiorenne di religione indu è libera di scegliere il futuro marito, anche di religione diversa (islamica), e, «se i genitori non approvano un matrimonio intercomunitario o intercasta, il massimo che possono fare è interrompere le relazioni sociali con la ragazza. Ma essi non possono bastonarla, praticare violenza né opprimerla»217.

La decisione sembra superare l’attitudine al divieto dei matrimoni “misti” come espressione, da parte dell’ordinamento statuale, dell’accettazione incondizionata di specificità giuridiche proprie di ogni religione invece di applicare quel principio fondamentale della Costituzione indiana che ha la finalità di «assicurare a tutti i cittadini la giustizia sociale, economica e politica; la libertà di pensiero, espressione, credo, fede e culto;

                                                            215 V. Recueil Dalloz, 22 mai 2008, n. 20, p. 1389. 216 V., tra le altre fonti: Mariage annulé: le couple remarié en appel, in

http://www.rmc.fr/editorial/64597/mariage-annule-le-couple-remarie- en-appel/. 217 V., tra le altre fonti: India, la Corte suprema boccia i matrimoni combinati,

http://www.uaar.it/news/2009/05/25/india-corte-suprema-boccia-matrimoni-combinati/; R. BULTRINI, India, rivoluzione all’altare, in La Repubblica, 25 maggio 2009, p. 28.

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 241

l’uguaglianza di condizione e di opportunità; e promuovere fra tutti fraternità, garantendo la dignità di singoli individui e l’unità nazionale»218.

b) quale metodo educativo dei minori Della bastonatura quale metodo educativo di minori si sono invece

occupati il Consiglio d’Europa e la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, fra l’altro rispetto alle tradizioni di tal fatta consolidate in Inghilterra fino a non molti anni fa.

Per il Consiglio d’Europa «La dignità di ogni singolo individuo è il principio basilare su cui poggia il diritto internazionale dei diritti dell’uomo. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti …” come si legge nell’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (…). Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (la Corte di Strasburgo) hanno progressivamente condannato le punizioni corporali, dapprima nelle strutture penitenziarie e negli istituti scolastici e più recentemente nel contesto della famiglia. Altre decisioni hanno inoltre stipulato chiaramente che l’abolizione di qualsiasi forma di punizione corporale non costituisce un’ingerenza nella vita privata e familiare, né viola i diritti religiosi. La Corte si riferisce sempre più frequentemente alle norme della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia nelle sue sentenze riguardanti casi di bambini»219.

12.5.6. Quando lo Stato detiene uomini ma ha l’obbligo di assicurarne dignità di trattamento

Se specie in Europa le istituzioni scolastiche, probabilmente più che le

famiglie, hanno sostanzialmente e generalmente abbandonato le punizioni cui si è appena accennato, non così può dirsi per i supplementi di pena, lesivi della dignità benché non si sostanzino in punizioni corporali, che certamente in Italia debbono sovente ancora sopportare (illegalmente) le persone ristrette (legalmente) in carcere con specifico riguardo all’affollamento degli istituti penitenziari e alle compromissioni che ne derivano alla persona ex art. 3 della Convenzione europea dei diritti

                                                            218 V. per la citazione (il corsivo è aggiunto) v. K. TAWFIK, L’India vieta i matrimoni misti

e fa un brutto passo indietro, in L’Occidentale – orientamento quotidiano, http://www.loccidentale.it/articolo/la+corte+suprema+vieta+i+matrimoni+misti+e+l%E2%80%99india+fa+un+brutto+passo+indietro.0063016.

219 V. CONSIGLIO D’EUROPA, Abolire le punizioni corporali nei confronti dei bambini, Straburgo, 2008, specific. pp. 10-11 (il corsivo è aggiunto).

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dell’uomo (divieto assoluto di tortura nonché di trattamenti disumani e degradanti)220.

IV. Spunti conclusivi Fine dei tempi e spazi d’umanità

13. Multiculturalità e interculturalità

All’impostazione universale (al “pensiero unico”)221 si contrappone

sovente la concezione “multiversale”, richiamando così la nozione di diversità delle culture e di interculturalità che, come segno di arricchimento assai più che di privazione, ne consegue senza per questo stemperarsi in un cosmopolitismo (multiculturale) senza radici. Ed è indubbio che le culture siano storicamente intrecciate, sebbene in determinati ambiti geografici siano state espresse civiltà, come quella europea222, che, raggruppando più culture sufficientemente omogenee (la «little family of Nations»)223, si sono anche contrapposte a civiltà diverse. Gli “scontri di civiltà”224 si fondano su un dato culturale insopprimibile, il riconoscimento dell’identità propria225, ma esasperandone gli aspetti militanti sia di proiezione verso l’esterno sia, contemporaneamente, di chiusura interna: «la concezione ermetica della cultura disconosce il fatto che le linee di tensione, di frattura e di conflitto non sono permanenti»226. Vero è che «le identità di gruppo vengono costantemente rimodellate e modificate», ma poiché sono promosse «in termini prevalentemente religiosi e politici», non si possono ignorare le ragioni (vogliamo dire: le motivazioni?) di chi nell’adesione alle sollecitazioni degli imprenditori politico-religiosi del movimento militante cerca spesso l’ «antidoto contro il dolore della dignità ferita»227.

                                                             220 Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. II, sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic c.

Italia, req. n. 22635/03. 221 V. fra le altre soprattutto le analisi apparse al riguardo a partire dagli anni Novanta del

secolo scorso in Le Monde diplomatique. 222 P. CITATI, La civiltà letteraria europea, Milano, 2005. 223 Supra nel testo all'altezza dell'esponente di nota 65. 224 Si può ricordare il solo S. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine

mondiale, Milano, 2000 (traduzione del volume statunitense del 1996, sviluppato dall'articolo apparso nel 1993 su Foreign Affairs), con seguito di epigoni e critici.

225 V., in una prospettiva giuridica, l'art. 6.3 del Trattato sull'Unione europea (nella formulazione pre-Lisbona; ora, più articolatamente, v. art. 4.2 TUE), secondo cui «l'Unione rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri».

226 U. BECK, I diritti nell'era del mondo globale, in La Repubblica del 1° novembre 2006, p. 19. 227 Ibid. (il corsivo è aggiunto), con la menzione delle parole dello scrittore turco Orhan

Pamuk, insignito del premio Nobel per la letteratura: «Purtroppo l'Occidente non ha idea del

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Dignità nel diritto e diritto alla dignità 243

Al campo dello scontro fisico, materiale, si accompagna la competizione dei movimenti morali nell’additare la giusta via all’intera umanità228. Non per questo, anzi proprio per questo, si deve rinunciare in questa parte di mondo a insistere nel dialogo con le altre parti sull’individuazione di valori fondamentali comuni: a questo dialogo il nostro «mondo di senso»229 occidentale, nell’evoluzione cui è pervenuto, non può non contribuire con l’approfondimento e la difesa dei principi del pluralismo e della tolleranza nel quadro di quello dello Stato di diritto (Rule of Law), ancorati a una democrazia fondata a propria volta sulla separazione (e sul rispetto reciproco) della religione dalla politica230.

14. Disumanità e principio d’umanità

Delle “giuste vie” additate all’umanità dai diversi movimenti morali, dei

valori fondamentali comuni che questa sia riuscita a recuperare, di tutto ciò non resterà infine che l’uscita dal tempo, tempo che l’homo sapiens cerca di dominare da un periodo assai più breve (duecentomila anni?) di quello assegnato ai suoi antenati e accennato sopra, nel par. 1231: «l’estinzione ci sarà. E’ prevista e immodificabile»232.

L’identità in divenire di cui l’umanità è in cerca dalla sua entrata nel tempo, alla fine sarà raggiunta pervenendo, fuori dal tempo, alla somiglianza programmata all’inizio?

Troverà allora quel principio (fondamento, non inizio) di dignità che solo dis-umanizzandosi davvero la famiglia umana, andando oltre il proprio termine e il proprio tempo, sarà in grado di condividere233?

                                                                                                                              senso di umiliazione che la grande maggioranza della popolazione mondiale deve vivere e superare senza smarrire l'intelletto e senza impegolarsi con i terroristi, i nazionalisti radicali o i fondamentalisti religiosi».

228 Ibidem. Sul fondamentalismo occidentale v. tra gli altri B. SPINELLI, Hanno tradito i valori dell'America, in La Stampa del 5 novembre 2006, p. 10.

229 U. BECK, op. cit. 230 V. la pubblicazione dedicata all'Unione europea. Storia, istituzioni, statistiche

dall'Istituto geografico De Agostini di Novara, 2003, p. 71, ma anche B. SPINELLI, Rivoluzione conservatrice alla prova, in La Stampa del 5 novembre 2006, p. 1, sull'autonomia fra religione e politica in una democrazia dalle istituzioni forti.

231 A. MASSARENTI, Così si estinguerà l’ “homo sapiens”, in Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2010, p. 27.

232 Ibidem. 233 A. SCHIAVONE, Storia e destino, Torino (Einaudi), 2007.

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244 Dino Rinoldi

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AUTHORS AND ABSTRACTS

Antonino Barletta, Contribution in the study of the status assessment The study concerns the application of rules and fundamental guarantees in the proceedings on status, to be identified in inalienable legal positions having the qualities of universality, originality and permanence, usually settled to protect a person. In particular, due to the peculiarity of such situations the author deems impossible to “relativize” declaratory judgements on them. Since the aforesaid declarations cannot be limited only to the parties of the proceedings. On the other hand, the plea of res judicata applies only where the guarantees related to the right to be heard are fulfilled (eg. the judicial verification that the plaintiff is entitled to sue and that the defendant is the right person to be sued and, sometimes, the jointer of necessary parties), and the mandatory intervention of public representative of the general interest (pubblico ministero). Antonino Barletta is associated professor in process law at Università Cattolica del Sacro Cuore, in Piacenza. He is author of various monographs among which La stabilità della vendita forzata, Jovene, Napoli, 2002, pp. I-XIII, 1-318 and La riproposizione della domanda cautelare, Giuffrè, Milano, 2008, pp. I-X, 1-349; besides he is author of different articles related to the cognisance process and to arbitration; among the most recent of them I limiti al rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione, in Rivista di diritto trimestrale di diritto e procedura civile, 2009, pp. 1193-1212; La “disponibilità” dei diritti nel processo civile e nell’arbitrato, in Rivista di diritto processuale, 2008, pp. 979-1007. Luciano Eusebi, The relationship with the "other" in the light of the Constitution. Consequences on core end-of-life issues and the uncostitutionality of any configuration of the "other" as an enemy. It is universally recognized in both constitutions and other international legal instruments, that fundamental human rights do not depend on the acknowledgement of particular qualities or capacities of individuals, but on the very existence (from its very biological beginning till its very biological

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ii Authors and Abstracts

end) of a human being. Human rights are therefore equally recognized to every individual. And human dignity stands inextricably together with human existence. As a consequence, respect of human dignity implies that everyone is both bearer and beneficiary of duties of care, which must not derive form a judgment upon capacities or deeds. On the other hand, it is largely agreed upon that the more vulnerable a person is, the more caring intervention in his/her favor must be: this is the case of the rights of the child, as UN 1989 Convention clearly states.Human dignity, in short, is not a matter of “desert”. Moving from these principles, the Author develops a stringent account of the constitutional idea of human dignity in some thorny fields of contemporary debate: that of core bioethical and bio-juridical issues also with reference to some of Italy’s latest and most controversial cases and jurisprudence precedents (consent to and refusal of medical treatment, “living will”, understanding of proportionality in medical treatments, debate around the supposed “right” or “will” to die, ethical questions arising from persistent vegetative state); that of criminal policy and crime prevention, where more and more an idea of "enemy criminal law" is dangerously developing. These dilemmas are understood and solved through the lens of human dignity which systematically appeals to an unconditioned duty of care, towards all, including criminal offenders, and those who are vulnerable and weak. This is the ultimate essence of medical profession, which can never be “played” in favor of death. This is the ultimate aim of a constitutionally-oriented and consequentialist theory of criminal law and criminal sanction. Human dignity and fundamental human rights thereafter are never to become "flexible" in a dangerous, yet frequent, balance with other subjective interests: be it the quality of life, the fear of crime, or national security. Luciano Eusebi is full professor of Criminal Law in the Università Cattolica del Sacro Cuore. He has written numerous articles and book essays on theory of punishment, criminal policy and crime control, mens rea, recklessness and negligence, juvenile justice, bioethics and law, religions and theories of justice. He is the author of Il dolo come volontà, Morcelliana, Brescia, 1992; La pena in “crisi”. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Morcelliana, Brescia, 1990; and editor of Patologie della volizione e libertà, Vita e Pensiero, Milano, 2010 (together with C. Bresciani); Dinamiche della volizione e libertà, Vita e Pensiero, Milano, 2008; Colpa e pena. La teologia di fronte alla questione criminale, Vita e Pensiero, Milano, 1998 (together with A. Acerbi); La funzione della pena. Il commiato da Kant e da Hegel, Giuffrè, Milano, 1989. He has edited the

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Authors and Abstracts iii

italian editions of: K. LÜDERSSEN, Il declino del diritto penale, Giuffrè, Milano, 2005; E. WIESNET, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra Cristianesimo e pena, Giuffrè, Milano, 1987. Saverio Gentile, The Law against dignity: the anti-Semitic racial legislation (1938-1945) In this essay, the author describes the most shameful and squalid page of the italian legal history (1938-1943): the anti-semitic racial legislation. Since 1938 Mussolini unleashes an offensive strategy against italian jewish: it is the so-called ‘paltry law’. Saverio is teaching assistant in the E-campus University. He published Le leggi razziali: scienza giuridica, norme, circolari, EDUCATT, Università Cattolica, 2010. Lauretta Maganzani, The Human dignity in the writings of the roman legals scholars Graeco-Roman philosophical reflection is rich in general statements on the unity of the human race and the superiority of men on animals. Nevertheless, the existence and diffusion of slavery shows that an idea, even in embryo, of human dignity, was really inexistent in Graeco-Roman world. In front of this contradiction, the research aims at verifying, through the analysis of some cases presented by Roman jurists, the concrete incidence on the praxis of the ideals of equality and liberty, theoretically declared by philosophers. Lauretta Maganzani is a Roman law Professor at Università Cattolica del Sacro Cuore in Piacenza. Her major works are about the technical advise of roman land surveyors in the Roman private trial (Gli agrimensori nel processo privato romano, Lateran University Press, Roma, 1997); trials between publicans and taxpayers (Pubblicani e debitori d’imposta. Ricerche sul titolo edittale De publicanis, Giappichelli Torino, 2002); Corpus Iuris Civilis and its historical tradition (Formazione e vicende di un’opera illustre. Il Corpus Iuris nella cultura del giurista europeo, Giappichelli, Torino, 2002).

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iv Authors and Abstracts

Claudia Mazzucato, Notes on a theory of criminal law that respects human dignity: teachings from restorative justice Facing the idea of dignity of both victims and offender, criminal law – with its traditionally punitive methods – ends up measuring an enormous distance from the noblest ideals of democracy. The emergence of restorative justice – with its mild interventions and its caring programs towards all involved in the criminal offence – is becoming an important occasion for criminal law to learn how to “work” in a different way, and rethink its aims. The essay studies therefore the teachings that criminal law can learn from restorative justice practices, which stand as the most positive and constructive critical issue in the distressing panorama of criminal policy still centered on ancient and aggressive ideas of retribution and punishment. On the one hand, restorative justice, thanks to the simultaneous presence and dialogue of both victims and perpetrators, offers and extraordinary opportunity to understand the empirical reality of crime itself, and the need for care and respect of dignity that is set forth by victims and offenders. On the other hand, fundamental principles of restorative justice (voluntarity and freedom, above all) push criminal law towards a more coherent system in light of democratic ideals, thanks to a new theory of criminal law in which norms of conduct are more important than mere sanctions. Claudia Mazzucato is teaching assistant of criminal law in the Law Faculty, Università Cattolica del Sacro Cuore (Piacenza campus). Among her main publications: Consenso alle norme e prevenzione dei reati, Roma, Aracne, 2005, La pena “in castigo”. Una riflessione a due voci su regole e sanzioni, together with I. Marchetti, Milano, Vita&Pensiero, 2006; she is the author of various essays and articles on restorative justice, victim-offender mediation, juvenile justice, criminal policy and criminal justice reform. Giuseppe Monaco, The Human Dignity protection: Jurisprudence development and enforcement difficulties. “Dignity” is an indeterminate concept, which may assume several meanings. The indeterminacy – and the resulting broad discretion of the interpreter – is also enhanced by the increasingly frequent use of the concept in a subjective sense, ie according to the idea of dignity that each

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Authors and Abstracts v

individual has, rather than in an objective sense, ie according to the common sense prevailing in a given historical and cultural context. The research aims to verify how the concept of “human dignity” is used in legal texts and especially in the case law, and if one can speak of a true subjective right of the individual to protection of his dignity, or of a constitutional value, which needs to be balanced (or not) with other constitutional values. Giuseppe Monaco is researcher of Constitutional Law at the Law Faculty of Università Cattolica del Sacro Cuore in Piacenza, where he holds the course of “Constitutional Justice”. He also holds the course of “Constitutional Law” at the Faculty of Humanities, University of Milan. His major publications includes: Pubblico ministero ed obbligatorietà dell’azione penale, Milano, Giuffrè, 2003, pagg. XIII+411; Il referendum per l’abrogazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita di fronte al limite delle “leggi costituzionalmente necessarie, in Giurisprudenza costituzionale, 2005, pp. 351-360; Decreto-legge, legge di conversione e legge di sanatoria di fronte al sindacato della Corte costituzionale, in Diritto pubblico, 2007, pp. 581-606; La riserva statutaria di legge nelle regioni ad autonomia ordinaria: ratio e limiti, in Le Regioni, 2009, pp. 515-542. Dino Rinoldi, Dignity in the law and the right to dignity. Dignity of man and human family between particularity and universality of rights The meta-juridical value of dignity makes its way in law through many different ways which change over time and space. In the current era of globalisation, the right to dignity is accepted as a fundamental principle, as the lowest common denominator of mankind. Cultural diversity continues to persist and with it the friction between particularity and universality in the context of the internationalization processes. Dino G. Rinoldi is associated professor of European Union Law in the Law Faculty, Università Cattolica del Sacro Cuore (Piacenza). He held courses in Università Cattolica del Sacro Cuore, in Milan, in University of Genova, in University of Imperia, in Carlo Cattaneo University of Castellanza, in Politecnico of Milan (Piacenza), in Pázmány Péter University of Budapest. He is the author of various essays and articles on public international law, private and process international law, European Union Law, international

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vi Authors and Abstracts

criminal law. Among his main publications: Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Edit. Scientifica, Napoli, 2010; Corruzione pubblica e privata, unità del mondo, società liquida, Quaderno n. 32, Assoc. Sviluppo Studi Banca Borsa-U.C.S.C., Milano, 2009; Protezione delle “vedette civiche”: il ruolo del whistleblowing, Milano, Ed. Transparency International, 2009 (together with N. Parisi and G. Fraschini); Profili di diritto europeo dell’informazione e della comunicazione, Napoli, Edit. Scientifica, 2007, II ed. (together with N. Parisi); Questioni di diritto dlele migrazioni fra diritto europeo, diritto internazionale e diritto interno, Milano, I.S.U.-U.C.S.C., 2007; Tempi biblici per la ratifica dei trattati, Padova, Cedam, 1993 (together with F. Mosconi and V. Librando); La sottrazione internazionale di minori da parte di un genitore, Padova, Cedam, 1988 (together with F. Mosconi)

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Libellula

finito di stampare nel mese di settembre 2010per conto di libellula [email protected]

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UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE - SEDE DI PIACENZADIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

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DIGNITÀ E DIRITTO: PROSPETTIVE INTERDISCIPLINARI

QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE

Contributi di:Antonino Barletta - Luciano Eusebi - Saverio Gentile Lauretta Maganzani - Claudia Mazzucato Giuseppe Monaco - Dino Rinoldi

Libellula

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