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Purgatorio IV: L´ascesa al primo balzo e Belacqua GIUSEPPE CIAVORELLA Liceo classico di Forlì [email protected] RESUMEN: El canto se estructura en cinco partes. La primera parte (1-18) desarrolla una doble función: de comienzo del canto y de unión con el canto precedente, sobre todo con la dramática narración de Manfredi. La segunda parte (19-51) está de- dicada a la ascensión desde la base del monte hasta la primera prominencia: ascensión que es literalmente, para Dante vivo, una escalada muy fatigosa, pero que tiene también, para Dante pecador, el significado de ascensión espiritual, de fatigosa liberación del pecado. Sigue, en la tercera parte (52-84), una aparente di- vagación astronómica, que tiene en realidad la función de precisar la posición geográfica de la montaña del Purgatorio en las antípodas de Jerusalén, con im- plícitas referencias al sacrificio de Cristo. A una pregunta de Dante sobre la altura de la montaña, en la cuarta parte (85-96), Virgilio responde que él sabrá que está cercano a la cumbre cuando se dé cuenta de que sube sin fatiga. De pronto una voz, irónica en el tono y en las palabras, interrumpe el coloquio entre maestro y discípulo (es el inicio de la quinta y última parte, 97-139). Se trata de Belaqua, amigo muy querido de Dante: perezoso en su vida (aunque hombre de espíritu), parece comportarse como perezoso también en la muerte: sentado, con la espalda apoyada sobre una gran piedra, se ríe del deseo de Dante de alcanzar lo antes po- sible la cima. El encuentro entre los dos amigos parece derivar hacia lo cómico, 119

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Purgatorio IV: L´ascesa al primo balzo e Belacqua

GIUSEPPE CIAVORELLA

Liceo classico di Forlì

[email protected]

RESUMEN:

El canto se estructura en cinco partes. La primera parte (1-18) desarrolla unadoble función: de comienzo del canto y de unión con el canto precedente, sobretodo con la dramática narración de Manfredi. La segunda parte (19-51) está de-dicada a la ascensión desde la base del monte hasta la primera prominencia:ascensión que es literalmente, para Dante vivo, una escalada muy fatigosa, peroque tiene también, para Dante pecador, el significado de ascensión espiritual, defatigosa liberación del pecado. Sigue, en la tercera parte (52-84), una aparente di-vagación astronómica, que tiene en realidad la función de precisar la posicióngeográfica de la montaña del Purgatorio en las antípodas de Jerusalén, con im-plícitas referencias al sacrificio de Cristo. A una pregunta de Dante sobre la alturade la montaña, en la cuarta parte (85-96), Virgilio responde que él sabrá que estácercano a la cumbre cuando se dé cuenta de que sube sin fatiga. De pronto unavoz, irónica en el tono y en las palabras, interrumpe el coloquio entre maestro ydiscípulo (es el inicio de la quinta y última parte, 97-139). Se trata de Belaqua,amigo muy querido de Dante: perezoso en su vida (aunque hombre de espíritu),parece comportarse como perezoso también en la muerte: sentado, con la espaldaapoyada sobre una gran piedra, se ríe del deseo de Dante de alcanzar lo antes po-sible la cima. El encuentro entre los dos amigos parece derivar hacia lo cómico,

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también en el lenguaje, pero Belaqua no es una “caricatura”: es un penitente quequerría subir el monte de la expiación, pero al que la ley del Purgatorio obliga aesperar, filosóficamente, pero sobre todo con cristiana paciencia, a que pase eltiempo prescrito de espera en el Antepurgatorio. A menos que, aclara Belaqua, lasoraciones de los vivos, en estado de gracia, no acorten esa espera.

PALABRAS CLAVE: ascensión, fatiga, prominencia, sol, antípodas, cumbre, prisa,pereza, humorismo, amistad, espera, sufragios.

ABSTRACT:

This “Canto” is structured into five parts. The first part (1-18) plays a dualrole: it introduces the “Canto” itself and links it to the previous one, especiallywith the dramatic narration of Manfredi.The second part (19-51) is dedicated tothe ascent from the base of the mountain to the first “balzo”: ascent which is, forDante alive, a very hard climb, but which has also, to Dante sinner, the signifi-cance of aspiritual ascension, of laborious acquisition of freedom from sin. Itfollows, in the third part (52-84), a seeming astronomical digression, which infact has the function of specifying the geographical position of the mountain ofPurgatory as being opposite Jerusalem, with implicit references to the sacrificeof Christ. In the fourth part (85-96) when Dante asks Virgil about the height ofthe Mountain, Virgil answers that he will know he is close to the top when he rea-lises that he is climbing without effort. Suddenly a voice, ironic in tone andwords, stops the conversation between master and disciple (it is the beginning ofthe fifth and last part; 97-139). Belacqua has spoken, a very dear friend of Dante:lazy in his life (but witty), he seems to behave lazily but is also dead: sitting onthe ground, with his back against a ‘petrone’, he laughs at Dante’s desire to reachthe top as soon as possible. The meeting between the two friends seems to turntowards something comic, also in the language; but Belacqua is not a character:he is a penitent who would like to climb to the Mount of expiation, but the lawof Purgatory makes him wait, philosophically, but especially with Christian pa-tience, his prescribed suspension in the Antipurgatorio. Unless, clarifies Belac-qua, the prayers of those living in a state of grace, can shorten the wait.

KEY WORDS: ascent, rise, sun, antipodes, summit, hurry, humorism, friendshipwait, votes.

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Forse in nessun altro canto come in questo è possibile osservare la distin-zione tra Dante poeta e Dante personaggio, studiata particolarmente daGianfranco Contini (1976: 33-62), ma non sconosciuta agli studiosi pre-cedenti della Commedia, fin dai primi commentatori del Trecento. I primi12 versi di questo canto sono chiaramente di Dante poeta, che si concedeuna pausa di riflessione (psicologica, filosofica e teologica), dopo il lungodiscorso autobiografico fatto da Manfredi nel canto precedente (Purg. III,103-145); i successivi 6 versi (13-18) sono insieme una giustificazionedella pausa riflessiva e una ripresa della narrazione: versi nei quali la rifles-sione del Poeta trapassa gradatamente nella narrazione, e Dante ridiventapersonaggio. Sono versi di non facile lettura, i versi 1-18, come sempre av-viene nella Commedia quando Dante affronta problemi filosofici o scien-tifici. Da un punto di vista retorico, hanno funzione di esordio del canto.A cominciare dal v. 19, l’eco del discorso di Manfredi non si avverte piùe la narrazione riprende, non senza il tramite di una similitudine.

Il canto (come si preciserà meglio più avanti) è strutturato in cinqueparti distinte, ma non contrastanti: una prima parte di contenuto psicolo-gico e filosofico (vv. 1-18), una seconda parte narrativa (19-51), una terzaparte di argomento astronomico (52-84), una quarta parte didascalica (85-96) e una quinta di nuovo narrativa (97-139). Nell’esame del canto, siprocederà gradatamente dai primi agli ultimi versi, ma alla fine di cia-scuna delle cinque parti, si farà seguire un commento particolare.

Quando per dilettanze o ver per doglie,che alcuna virtù nostra comprenda,l’anima bene ad essa si raccoglie,par ch’a nulla potenza più intenda;e questo è contra quello error che credech’un’anima sovr’altra in noi s’accenda. (vv. 1-6)

Non sono versi di facile comprensione, e ne diamo, perciò, la parafrasiin nota1. Le facoltà sensitive, o «virtú», sono i cinque sensi: vista, udito,gusto, odorato, tatto; ciascuna di esse può assorbire totalmente la nostraanima e annullare momentaneamente le altre. All’uso delle facoltà sensi-

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tive presiede l’anima. Nei vv. 5-6 si chiarisce l’intento didascalico nonsolo di queste due terzine, ma anche delle due successive. Il problematoccato dal Poeta può oggi apparire tutt’altro che interessante; ma nel Me-dioevo la questione dell’anima, unica o molteplice, era di importanza fi-losofica e religiosa fondamentale (nel 1311-12, durante il Concilio diVienna, la Chiesa proclamerà solennemente l’unicità dell’anima). Platoneaveva sostenuto che nell’uomo si formano successivamente tre anime,che, nell’individuo pienamente formato, poi coesistono restando distinte:anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. Aristotele sostenneinvece (e i filosofi della Scolastica lo seguirono) che l’anima intellettiva,che si forma per ultima, comprende anche le anime sensitiva e vegetativa,preesistenti. L’anima, dunque, è unica, ed è l’anima intellettiva (o razio-nale) infusa direttamente da Dio (cfr. Purg. XXV, 68-75), ed è errore gravesostenere il contrario. Erano infatti considerati eretici, dai cristiani, i ma-nichei, che sostenevano che nell’uomo esistono due anime (la sensitiva ela razionale), in perenne conflitto fra di loro. Ho detto che i vv. 1-18 hannofunzione di esordio del canto; ma io penso che, insieme a questa funzioneretorica, essi abbiano anche una funzione di giustificazione preventiva. Emi spiego. Nel canto precedente Dante ha incontrato Manfredi, morto instato di scomunica e tuttavia salvo, perché pentito in extremis: «Per lormaladizion sì non si perde, / che non possa tornar, l’etterno amore, / men-tre che la speranza ha fior del verde» (Purg. III, 133-135). L’affermazione,anche se non contrastante col pensiero teologico, era audace, e non potevapiacere agli uomini di Chiesa. È vero che all’affermazione il Poeta avevafatto seguire una dichiarazione indiretta di riconoscimento del diritto dellaChiesa ad emettere scomuniche (i morti in stato di scomunica, se salvi, de-vono trascorrere un congruo periodo di attesa fuori del Purgatorio; vv.136-141), ma il Poeta deve avere anche pensato che era opportuno riba-dire, con altra affermazione indiretta, la propria adesione al pensiero teo-logico ufficiale della Chiesa. Ecco, perciò, Dante introdurre il cantosuccessivo (cioè il nostro) con un esordio in cui si afferma (tra l’altro)che commettono errore grave coloro che sostengono «ch’un’anima so-vr’altra in noi s’accenda». L’adesione del Poeta alla teologia tomistica, su

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un problema fondamentale quale quello dell’unità dell’anima, avrebbedovuto eliminare ogni dubbio sulla sua volontà di riconoscere l’autoritàdella Chiesa.

E però, quando s’ode cosa o vedeche tegna forte a sé l’anima volta, vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede;ch’altra potenza è quella che l’ascolta,e altra è quella c’ha l’anima intera:questa è quasi legata e quella è sciolta. (vv. 7-12)

Anche di queste due terzine si ritiene opportuno dare la parafrasi innota2, soprattutto per la difficoltà di intendere la seconda terzina, dellaquale, infatti, sono date interpretazioni diverse. La facoltà («potenza»)che ci dà la nozione del passare del tempo è la facoltà intellettiva; quellache avvince totalmente l’anima con sensazioni forti, fino a farci perderela nozione del tempo, è la facoltà sensitiva. Ulteriormente chiarificatriceè la spiegazione che dà il Momigliano del v. 12 : «La facoltà legata èquella intenta ai suoni o alle immagini che assorbono tutta l’anima; l’altra,quella che dovrebbe percepire il tempo, è sciolta da esso, lontana da esso,non lo percepisce, è assopita, perché l’anima è tutta raccolta nella facoltàche ascolta e vede».

Di ciò ebb’io esperienza vera,udendo quello spirto e ammirando;ché ben cinquanta gradi salito eralo sole, e io non m’era accorto, quandovenimmo ove quell’anime ad unagridaro a noi: «Qui è vostro dimando». (vv. 13-18)

Si chiarisce in queste due terzine la funzione delle prime quattro; fun-zione che è nello stesso tempo di collegamento con il canto precedente edi commento alla narrazione di Manfredi. Questa appare a Dante assolu-tamente straordinaria, sia per la personalità del personaggio sia per la ma-nifestazione, nella salvezza dello scomunicato principe svevo, dellaimmensa bontà di Dio. Dante aveva ricavato dai filosofi le osservazioni

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psicologiche e filosofiche delle prime quattro terzine; ora ha avuto laprova, per esperienza personale, della verità di quelle osservazioni: haascoltato con tanto interesse e meraviglia («ammirando») il racconto diManfredi che non si è accorto che sono passate 3 ore e 20 minuti dal mo-mento in cui il sole è apparso all’orizzonte orientale (il sole “avanza” nelcielo di 15 gradi ogni ora: sono, perciò, le 9 e 20 del mattino). Quanto al-l’indicazione data dai penitenti, si ricorda che Virgilio aveva chiesto lorodi indicargli il luogo da dove fosse possibile scalare la ripida parete dellamontagna (cfr. Purg. III, 76-77); una prima risposta i penitenti (sempretutt’insieme) l’avevano già data, dicendo che lui e Dante dovevano tornareindietro (cfr. Purg. III, 100-102). Poi era seguito l’incontro con Manfredi.Ricordiamo che, poco prima dell’incontro con Manfredi, un’altra sensa-zione forte aveva avvinto l’anima di Dante: il canto di Casella; ma mentrel’ascolto del canto era stato severamente condannato da Catone, comegrave atto di «negligenza», l’ascolto del racconto di Manfredi suscita inDante solo profonda meraviglia, e Virgilio non ha parole di riprovazione:è, cioè, esperienza positiva.

Col v. 18 termina la prima parte del canto. Una caratteristica linguisticadi questa prima parte è lo svolgimento logico rovesciato del discorso. Ingenere, in un discorso normale che implichi esperienza vissuta e rifles-sione, si parte dalla descrizione dell’esperienza e si passa poi alla rifles-sione sulla medesima: cioè dal concreto all’astratto. Qui il Poeta, invece,comincia il discorso con una considerazione psicologica, cui fa seguireuna meditazione filosofica, e descrive poi l’esperienza, addotta a con-ferma delle affermazioni fatte: dall’astratto al concreto, insomma. Si po-trebbe inferire che è implicitamente affermato il primato della teoria sullapratica, del pensiero sull’azione; e non sarebbe certo un’illazione contrariaal modo di pensare di Dante. Ma noi non stiamo leggendo un’opera filo-sofica, ma un’opera poetica, nella quale il significato è dato non solo dallecose dette, ma anche dal modo in cui sono dette, cioè dallo stile; e lo stiledi queste prime quattro terzine è alto. Il Poeta, cioè, inizia il canto IV intono solenne; e la solennità è come un’eco, deliberatamente prolungata,del canto precedente, in cui, attraverso la narrazione autobiografica di re

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Manfredi, sono stati affrontati importanti problemi politici, teologici emorali, sentiti con una tale intensità dal Poeta che il suo alter ego, Dantepersonaggio, è delegato ad obliarsi nell’ascolto del sovrano svevo, avendosmarrito il senso del passare del tempo. Nelle ultime due terzine, il ritornoalla realtà del viaggio coincide con il ritorno allo stile medio della narra-zione. Le due terzine adempiono ad una quadruplice funzione: di (ritar-dato) collegamento con il canto precedente, di chiarimento di quella chesi presenta come digressione psicologica e filosofica, di uscita dal «gi-rone» degli scomunicati e di ritorno, appunto, allo stile narrativo.

Passiamo, ora, alla seconda parte del canto.

Maggiore aperta molte volte imprunacon una forcatella di sue spinel’uom de la villa quando l’uva imbruna,che non era la calla onde salìnelo duca mio, e io appresso, soli,come da noi la schiera si partìne. (vv. 19-24)

A costo di essere accusato di eccessivo didascalismo, do in nota la pa-rafrasi anche di queste due terzine, non facili da intendere3. La relazionelogica che unisce la prima alla seconda terzina appare piuttosto tenue:una semplice comparazione di grandezza tra l’apertura («aperta») nellasiepe di recinzione della vigna, che il «villano» si premura di chiudereper difendere dai ladri l’uva ormai quasi matura, e l’apertura nella paretedel monte, nella quale si insinua il sentiero («calla») per il quale i duepellegrini possono arrampicarsi fino al primo balzo. Due passi delle Scrit-ture (citati dai commentatori) possono aiutarci, forse, a trovare la rela-zione che sembra mancare. Il primo passo è: «la via del pigro è come unasiepe di spine» (Prov. 15, 19); «pigri» sono stati certamente i morti sco-municati, pentitisi in fin di vita (essi dovranno passare attraversol’«aperta» e la «calla» per salire al primo balzo) e «pigri» fin nell’atteg-giamento esterno saranno i penitenti che Dante incontrerà tra poco arri-vando nel primo balzo. Il secondo passo è: «quanto stretta è la porta eangusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la tro-

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vano!» (Matteo 7, 14); e qui l’ interessato è Dante, peccatore e pellegrino,per il quale l’«aperta» e la «calla», per le quali si appresta a passare, sonometafore del duro viaggio penitenziale (che solo ora davvero comincia intutta la sua fisicità) verso il traguardo della purificazione. Ma è il caso,anche, di rilevare la freschezza realistica del brevissimo schizzo di vita ru-sticana della prima terzina (pur nell’ardua inversione sintattica del pe-riodo): esso ha una tale intensità, e quasi compiutezza, che il semplicegesto del vignaiolo riesce a sottintendere tutta un’umana vicenda di durolavoro, di speranze e di timori. E si noti anche come la posizione fortedell’aggettivo «soli», a fine verso, esalti la solitudine e il silenzio in cuiimprovvisamente si ritrovano i due viandanti, che iniziano la dura scalatadella montagna, senza più il conforto della compagnia dei penitenti.

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,montasi su in Bismantova e ’n Cacumecon esso i piè; ma qui convien ch’om voli; (vv. 25-27)

È evidente la ripresa, con altri riferimenti geografici, dei versi 49-54 diPurg. III. Le strade più impervie dell’Italia sono richiamate a confrontocon la ripidissima «calla» purgatoriale: per quelle bastano i piedi, per que-sta occorrono le ali. «Sanleo» (oggi San Leo) è una cittadina del Monte-feltro, a ovest di San Marino; sorge sopra un colle alto e scosceso, sullacui vetta si erge un possente castello; al tempo di Dante la cittadina era ac-cessibile faticosamente per un’angusta via che aggirava a spirale il colle.«Noli» è una cittadina della riviera ligure di ponente, tra Savona e Finale,circondata da monti che scendono ripidissimi al mare, così che l’accessoall’abitato, da terra, era molto difficoltoso. «Bismantova» è un alto montedell’Appennino emiliano, a ovest di Reggio Emilia; ha forma tozza e largae cima quasi piatta, ma con pareti quasi verticali; era sormontato da un ca-stello, ora scomparso. «Cacume» è un’altura dei Monti Lepini, a sud-ovest di Frosinone; è facilmente accessibile, ma da lontano (e Dante potévederlo da Anagni, se il suo incontro con Bonifacio VIII avvenne in quellalocalità) può dare l’impressione di un monte erto e scosceso. Non c’è cer-tezza filologica, però, sul termine «Cacume» (o «Caccume», che è il nome

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geografico odierno). Alcuni studiosi leggono «in cacume» (o anche «e incacume»), dando al termine il significato di “vetta”; di conseguenza in-terpretano il v. 26 così: ‘si sale in Bismantova, fin sulla sua vetta’.

dico con l’ale snelle e con le piumedel gran disio, di retro a quel condottoche speranza mi dava e facea lume. (vv. 28-30)

Desiderio e realtà si scontrano in Dante: desiderio di raggiungere prestol’ancora lontana cima del monte, dov’egli finalmente vedrà Beatrice, erealtà di dover arrampicarsi faticosamente su per la «calla», seguendoVirgilio, che incoraggia e istruisce il discepolo. Incomincia la salita.«L’ascesa fisica – scrive Nicolò Mineo – è metafora dell’ascesa spirituale,del cammino interiore verso Dio, fatto di ascesi e contemplazione. Anchequi l’attenzione del critico è soprattutto sollecitata dal piano simbolico, latrama di allusioni e di riferimenti impliciti, di richiami e di rimandi, checreano una ricca articolazione di valori di senso» (Mineo 1989: 63). Unriferimento non tanto implicito, direi, è alle parole che Virgilio, giunto «apiè del monte» di fronte alla «roccia erta», pronuncia quasi scoraggiato:«Or chi sa da qual man la costa cala, […/ sì che possa salir chi va san-z’ala?» (Purg. III, 52-54); in questo canto è metaforizzato ciò che nel cantoprecedente era concretamente riferito alla difficoltà di un uomo vivo (ov-viamente Dante) di superare la ripidissima parete. E forse un riferimento“di ritorno”, a questi versi 28-30, è in Purg. XXII, 67-69, dove il poeta Sta-zio, rivolto a Virgilio, dice: «Facesti come quei che va di notte, / che portail lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte».

Noi salavam per entro ’l sasso rotto,e d’ogne lato ne stringea lo stremo,e piedi e man volea il suol di sotto.Poi che noi fummo in su l’orlo suppremode l’alta ripa, a la scoperta piaggia,«Maestro mio», diss’io, «che via faremo?» (vv. 31-36)

La salita dei due viandanti si può paragonare a quella di due scalatoridi montagna che superano l’ostacolo di una parete verticale arrampican-

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dosi per uno stretto canalone. Per quasi tutto il Purgatorio, Virgilio e Dantesaliranno, da un girone all’altro, percorrendo un erto sentiero scavato nellaroccia, la parete esterna del quale è così alta che ai due viandanti sarà im-pedita la vista laterale, verso l’abisso: potranno vedere solo il cielo. Il si-gnificato morale è evidente: l’ascesa penitenziale è faticosa (ma protettadalla grazia) e non sono ammesse distrazioni: il pensiero deve essere ri-volto solo a Dio. Alla fine della fenditura, che sale ripidissima da est aovest, i due pellegrini escono all’aperto presso il margine basso di unpiano inclinato irregolare («a la scoperta piaggia»), che, a ovest, sale versola montagna, mentre, a est, precipita quasi verticalmente alla base delmonte, dove camminano, lenti, gli scomunicati (cfr. Purg. III, 46-48). La«piaggia» non è segnata da alcun sentiero (la «calla», o «sasso rotto», eraun sentiero obbligato), perciò Dante domanda: «Che via faremo?». Per ilPetrocchi, invece, la domanda è segno «dell’impegno d’asceta del viator,non pago, ad un certo tratto, d’aver raggiunto una prima meta nella salita,ma subito pronto a richiedere per sé la successiva strada» (Petrocchi 1994:263). Ma tale interpretazione mi pare smentita sia dalla risposta di Virgilio(vv. 37-39) sia dalla stanchezza che Dante, subito dopo, apertamente con-fessa (vv. 43-45).

Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia; pur su al monte dietro a me acquista,fin che n’appaia alcuna scorta saggia».Lo sommo er’alto che vincea la vista,e la costa superba più assaiche da mezzo quadrante a centro lista. (vv. 37-42)

Virgilio ragiona: alle spalle c’è il precipizio; se si va a destra o a sini-stra, si allunga certamente il percorso, e si può anche sbagliare direzione;non si sbaglia certamente se si sale diritto verso la montagna, e la pen-denza non è tale da impedire l’ascesa (anche se superiore a 45 gradi: «piùassai / che da mezzo quadrante»; il quadrante è la quarta parte del cerchio,cioè 90 gradi); dunque – decide Virgilio – si andrà su verso il monte, e siincontrerà sicuramente qualche penitente, che conosce il luogo e darà in-

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formazioni più precise; Dante, perciò, segua la sua guida senza perdere unpasso («nessun tuo passo caggia»). Ma le parole di Virgilio sono da leg-gere anche allegoricamente: la penitenza (la montagna del Purgatorio) èun duro percorso in salita; sono ammesse soste (nelle cornici), ma nondiscese (cioè ricadute nel peccato). Simbolicamente, grande altezza e fortependenza significheranno le difficoltà che l’uomo incontra sulla via delpentimento e dell’espiazione. È da precisare che il termine «quadrante»ha un duplice significato: indica sia la quarta parte del cerchio, cioè 90gradi, sia lo strumento ad angolo retto, con arco graduato, con il quale sicalcola l’altezza delle stelle. Il significato letterale dei vv. 41-42 è: ‘e ilpendio («costa») assai più ripido («superba») di una linea («lista») tiratadalla metà di un quadrante al centro del cerchio’.

Io era lasso, quando cominciai:«O dolce padre, volgiti, e rimiracom’io rimango sol, se non restai».«Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,additandomi un balzo poco in sùeche da quel lato il poggio tutto gira. (vv. 43-48)

Virgilio sembra aver dimenticato che il suo compagno è vivo e deveportarsi su il peso del corpo; Dante lo richiama affettuosamente alla realtà,e affettuosamente risponde il maestro. Più che una camminata in salita,quella di Dante e Virgilio è stata un’arrampicata, tanto ripida e stretta erala «calla», certamente ben più dei 45 gradi della «piaggia», o «costa». Il«balzo», comunque, è vicino, poco più su: lì Dante si potrà riposare. Il ter-mine «balzo» è da intendere come ‘ripiano circolare’ (dal lat. balteus,‘cintura, balteo’; «cinghio» sarà detto al v. 51); e poiché questo è il primodell’Antipurgatorio, esso si suole chiamare «primo balzo» (il secondo èriservato ai morti di morte violenta: Dante li incontrerà tra poco; il terzodelimita in alto l’Antipurgatorio e costituisce insieme la base del Purga-torio vero e proprio; cfr. Purg. IX, 49-51, 68). Con senso estensivo, sono«balzi» anche i gironi, o cornici, del Purgatorio (ma erano detti «balzi»anche i cerchi dell’Inferno; cfr. Inf. XXIX, 95).

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Sì mi spronaron le parole sue,ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,tanto che ’l cinghio sotto i piè mi fue4. (vv. 49-51)

Con la scalata della parete, che dallo stradone degli scomunicati si ergequasi verticale fino al primo balzo, termina la seconda parte del canto.Questa seconda parte è tutta narrativa. Lo stile è medio, contraddistintoda un uso sapiente di similitudini e dialogo, che rendono la narrazioneparticolarmente vivace e fluida. È il racconto di una scalata di montagna(il Petrarca l’ebbe forse presente quando, in una delle Lettere familiari, de-scrisse all’amico Dionigi la sua ascensione al monte Ventoux). Si trattaprobabilmente di «esperienza vera» (v. 13), di adattamento poetico di unareale esperienza di vita (Dante, anche per necessità, soprattutto durantel’esilio, fu un grande camminatore): reale appare la montagna, reale lostretto canalone, reale la fatica, reali la «costa superba», il «balzo» rag-giunto «carpando», il paesaggio costiero contemplato dall’alto da Dantestremato, ma finalmente seduto sul «cinghio». E memoria di esperienzavissuta c’è nel dialogo che si svolge tra la guida, che va su leggera e spe-dita con il suo «corpo aereo», e il compagno, che sale faticosamente, ap-pesantito dal corpo vivo di carne ed ossa, e chiede la grazia di una brevesosta, e quando l’ottiene si siede sfinito e contempla compiaciuto il cam-mino percorso. Se non è la prima descrizione in versi di una scalata dimontagna, è una delle prime.

Ma una descrizione alquanto simile a questa si trova già nella Comme-dia, e precisamente nell’ultimo canto dell’Inferno. Siamo sul Cocito ge-lato, al centro della terra, dove Lucifero, mostruoso gigante tricipite consei ali, è confitto, «da mezzo ’l petto» in giù, in un enorme buco della«ghiaccia» dei traditori. Quando i due viatores dell’Inferno giungonosull’orlo del pozzo, sotto le ali battenti del gigante, Virgilio invita Dantead avvinghiarglisi al collo, sul dorso; quindi, così appesantito, appiglian-dosi «di vello in vello», si cala fino all’altezza dell’ombelico di Satana(che è anche l’“ombelico” del mondo, al centro della terra e dell’universocreato); a questo punto esatto, «con fatica e con angoscia», si rigira, in-verte la direzione di avanzamento in verticale e, sempre «aggrappandosi

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al pelo», comincia faticosamente a salire. È un vero e proprio movimentodi conversione, quello di Virgilio, e naturalmente di Dante, compiuto conpena e fatica, sia in senso proprio (la direzione del viaggio è invertita) siain senso figurato (dal male ci si volge al bene, dall’Inferno al Purgatorio).È lo stesso Virgilio che rappresenta col suo “ansare” il primo senso e chia-risce con le parole il secondo.

«Attienti ben, ché per cotali scale»,disse ’l maestro, ansando com’uom lasso, «conviensi dipartir da tanto male». (Inf. XXXIV, 82-84)

Quando Virgilio, poco prima del fondo del pozzo su cui Lucifero pog-gia i piedi, giunge, col suo carico sulle spalle, davanti «al foro d’un sasso»(inizio del «cammino ascoso» che sale al Purgatorio), depone sull’orlodel varco l’impaurito compagno, poi con un saltello lo raggiunge. Dante,seduto sull’orlo, leva gli occhi in alto e, sconcertatissimo, vede Lucifero«le gambe in su tenere». Il maestro non dà requie allo stupefatto discepoloe subito i due cominciano a salire, uno dietro l’altro, per lo stretto e buiocunicolo, finché, dopo un lunghissimo cammino in salita, tornano «a ri-veder le stelle» ai piedi del Purgatorio. Tiriamo ora le conclusioni. Ovvia-mente tra la discesa/scalata del passo infernale e l’arrampicata dalla basedel Sacro monte al primo «balzo» c’è solo una non evidentissima analo-gia, più per contrasto che per somiglianza. Nell’Inferno l’affaticato nonè Dante, ma Virgilio, addirittura ansante per lo sforzo di portare sullespalle il corpo vivo di Dante5. Nell’Inferno i due “si dipartono” da «tantomale», nel Purgatorio salgono verso il Paradiso terrestre. Nell’InfernoDante, seduto sull’orlo del «foro», guarda in alto e vede le gambe del-l’orrido mostro, qui, nel Purgatorio, seduto sull’orlo del balzo, contemplacompiaciuto l’oriente luminoso ed il cammino percorso.

Ecco i versi del nostro canto:

A seder ci ponemmo ivi ambeduivolti a levante ond’eravam saliti, che suole a riguardar giovare altrui. (vv. 52-54)

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Credo che valga la pena di soffermarsi sul «che» iniziale del v. 54. Sidiscute ancora, infatti, sul significato grammaticale e sintattico da attri-buirgli. La soluzione più semplice (sostenuta dal Barbi) sembrerebbequella di dare al «che» valore di pronome relativo soggetto, riferito al ter-mine «levante», quindi: ‘il levante, che suole essere di giovamento a chilo riguarda’, con riferimento alla consuetudine di pregare rivolti a oriente,da dove sorge il sole, simbolo di Dio; sennonché, osserva Umberto Bosco(1966: 123), «qui Dante non prega ma semplicemente si riposa». Più con-vincente, perché più realistica e aderente al testo, mi pare un’altra spie-gazione, e cioè che il viandante, che ha compiuto una salita faticosa, provipiacere a contemplare dall’alto il cammino percorso; è il caso di Dante,che si siede stanco sul «balzo» rivolto a levante e contempla il camminocompiuto (incluso il percorso dalla riva del mare ai piedi del monte,anch’esso visibile dall’alto; cfr. v. 55). Questa spiegazione richiede che siattribuisca al «che» valore di pronome relativo neutro: ‘la qual cosa’ (ri-ferito a senso all’intero verso 53: «volti a levante, ond’eravam saliti»);soluzione grammaticale, questa, tutt’altro che rara nella Commedia. Èstata proposta anche la lettura di «ché» causale (‘perché’), invece di «che»relativo: ‘perché suole far piacere riguardare (il cammino percorso)’; sesi accetta tale lettura, si può accettare anche l’interpretazione. A conclu-sione di questa interpretazione letterale della terzina, aggiungo una mia“impressione”: a me pare che la terzina ne ricordi un’altra più famosa:«E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, /si volge a l’acqua perigliosa e guata…» (Inf. I, 22-24); e che ricordi ancheil successivo v. 28: « Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso...». Nel cantoproemiale dell’Inferno, Dante è appena uscito dalla «selva oscura», èstanco, ma la «paura» provata durante la notte si «queta» un poco; quiDante ha appena finito di scalare, faticosamente, la parete inferiore delPurgatorio (ma è uscito dall’Inferno solo da poche ore), ed ora si riposa,seduto accanto a Virgilio, guardando il cammino percorso, fin dal suo ar-rivo nel Purgatorio. Certo, le differenze ci sono, e più che evidenti, maanche le somiglianze, per quanto piccole, contano in un poema pieno dirimandi come la Commedia, soprattutto se sul medesimo argomento (o

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quasi) sono già state notate analogie importanti (pensiamo alle analogierilevate dal Singleton tra «la scena iniziale del Purgatorio» e «la scena ini-ziale del poema»; Singleton 1978: 497) .

Li occhi prima drizzai ai bassi liti;poscia li alzai al sole, e ammiravache da sinistra n’eravam feriti. (vv. 55-57)

Commenta il Sapegno, con riferimento anche alla terzina precedente:«Dante non guarda all’oriente in quanto tale, bensì alla parte da cui è sa-lito, e solo dopo aver indugiato a guardare la marina ormai lontana, alzagli occhi al sole». È quasi mezzogiorno: il sole è sul meridiano del Pur-gatorio e brilla a nord (è sopra l’equatore), alla sinistra di Dante, che è se-duto rivolto a est. Dante si stupisce («ammirava») nel vedere il sole anord: non si è ancora abituato all’idea di essere nell’emisfero meridionale.Chi vive nell’emisfero settentrionale, a nord del Tropico del Cancro, vedeil sole splendere a sud in ogni stagione (almeno nelle ore centrali delgiorno); chi vive, invece nell’emisfero meridionale, a sud del Tropico delCapricorno, vede splendere il sole a nord. Il Purgatorio, che è agli antipodidi Gerusalemme, è a sud del Tropico del Capricorno

Ben s’avvide il poeta ch’io stavastupido tutto al carro de la luce,ove tra noi e Aquilone intrava. (vv. 58-60)

Dante, al mattino, aveva visto il sole sorgere da oriente, ma solo ora cheil sole è alto e torna a guardarlo attentamente si accorge che esso si è le-vato, avanzando nel cielo, alla sua sinistra, a nord e non a sud. È stupito,e Virgilio si accorge del suo stupore, e subito dà la spiegazione dello“strano” fenomeno celeste. Il Poeta indica il sole con una immagine mi-tologica classica: un carro di fuoco, tirato da quattro cavalli e guidato daApollo, dio del sole; e indica il nord con il nome del vento che spira dasettentrione: Aquilone. Poi lascia la parola a Virgilio.

Ond’elli a me: «Se Castore e Polucefossero in compagnia di quello specchio

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che sù e giù del suo lume conduce,tu vedresti il Zodiaco rubecchioancora a l’Orse più stretto rotare,se non uscisse fuor del cammin vecchio. (vv . 61-66)

Virgilio non aspetta che Dante gli chieda spiegazioni, ma, assumendola sua funzione di maestro, impartisce una lezione di astronomia al disce-polo. Secondo gli astronomi del medioevo, il sole («quello specchio»),ruotando intorno alla terra, si muove a spirale, con moto alterno («sù egiù»), tra il Tropico del Cancro (solstizio d’estate, 21 giugno) e il Tropicodel Capricorno (solstizio d’inverno, 21 dicembre), passando due voltel’anno sopra l’equatore (equinozio d’autunno e equinozio di primavera,23 settembre e 21 marzo). Nell’equinozio di primavera, il sole si trovanella costellazione dell’Ariete (21 marzo – 21 aprile); nel solstizio d’estateè invece nella costellazione dei Gemelli (21 giugno-21 luglio). Virgilio faperciò un’ipotesi irrealistica («Se Castore e Poluce…»), perché il viaggiooltremondano di Dante si svolge nei giorni vicini all’equinozio di prima-vera (7 aprile – 14 aprile); e all’ipotesi irrealistica fa seguire un’ipotesi as-surda («se non uscisse…»), perché il sole non può uscire «fuor delcammin vecchio»; lo scopo delle due ipotesi è didascalico: far compren-dere meglio a Dante (al lettore, in verità) il concetto astronomico, peraltronon difficile, cui si è accennato nella spiegazione dei versi 55-57: per co-loro che abitano nell’emisfero australe, a sud del Tropico del Capricorno,il sole (almeno nelle ore centrali del giorno) brilla sempre a nord. Nellamitologia greca, Castore e Polluce erano due fratelli gemelli (conosciutianche come Diòscuri), nati da Giove e Leda; con il loro nome, gli astro-nomi indicarono la costellazione dei Gemelli, che nello Zodiaco brilla piùa nord dell’Ariete, dove ora si trova il sole (mi permetto di precisare: loZodiaco è la fascia della sfera celeste entro cui si trovano le dodici costel-lazioni toccate dal sole nel suo apparente viaggio annuale intorno allaterra)6.

Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,dentro raccolto, imagina Siòncon questo monte in su la terra stare

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sì, ch’amendue hanno un solo orizzòne diversi emisperi; onde la stradache mal non seppe carreggiar Fetòn,vedrai come a costui convien che vadada l’un, quando a colui da l’altro fianco,se lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada». (vv. 67-75)

Questa volta ipotesi e immaginazione sono reali, perché Gerusalemme(Siòn è il nome del monte su cui sorge Gerusalemme) e la montagna delPurgatorio hanno effettivamente lo stesso orizzonte astronomico, essendosituate entrambe sul medesimo meridiano celeste, sebbene l’una agli an-tipodi dell’altra, l’una nell’emisfero settentrionale e l’altra in quello me-ridionale (per tutte le implicazioni cosmologiche e religiose che lacollocazione antipode di Gerusalemme e del monte Purgatorio comporta,cfr. Purg. II, 1-9). Ovviamente la spiegazione di Virgilio presuppone cheDante sappia che Gerusalemme sorge a nord del Tropico del Cancro (32°circa a nord dell’equatore, quindi il Purgatorio a 32° a sud dell’equatore;si ricorda che i due tropici sono a 23 gradi e mezzo dall’equatore). Il di-scorso di Virgilio si chiude con un’altra ipotesi, che è un invito a Dante(e indirettamente al lettore) a riflettere attentamente su tutta la questioneastronomica affrontata. Secondo il mito (narrato da Ovidio, Metam. II, 1-339), Fetonte, figlio di Apollo, ottenne dal padre di poter guidare il carrodel sole, ma, inesperto e imprudente, non seppe mantenere i cavalli sullanormale via celeste (nel cammin vecchio) e precipitò sulla terra morendo(cfr. Purg. XXIX, 118-120; Par. XVII,1-6; XXXI, 124-125). Con l’espressione«da l’un fianco» è indicato il nord (la sinistra di Dante, il quale, dal Pur-gatorio, guarda il sole giunto al suo punto più alto, a mezzogiorno), con«da l’altro fianco» è indicato il sud (la destra degli abitanti dell’emisferosettentrionale, allorché guardano il sole al mattino, quando questo avanzanel cielo da oriente).

«Certo, maestro mio», diss’io, «unquanconon vid’io chiaro sì com’io discernolà dove mio ingegno parea manco,che ’l mezzo cerchio del moto superno,

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che si chiama Equatore in alcun’arte,e che sempre riman tra ’l sole e ’l verno,per la ragion che di’, quinci si parteverso settentrion, quanto li Ebreivedevan lui verso la calda parte. (vv. 76-84)

Il maestro ha concluso la sua lezione di astronomia, e il discepolo nonsi limita a dichiararsi convinto e soddisfatto, ma, dimostrando che «lo’ntelletto suo ben chiaro bada», amplia il discorso astronomico con rife-rimenti al Primo Mobile («moto superno»), all’equatore e alla posizionecentrale di questo rispetto ai due tropici, tra i quali si muove il sole, de-terminando caldo e freddo, estate e inverno sulla terra; aggiunge inoltrela precisazione che Gerusalemme e il Purgatorio si trovano ad uguale di-stanza dall’equatore. Commenta Aldo Vallone: «Nelle scienze esatte l’al-lievo ha fatto passi da gigante: può contendere con il maestro, che non èmaestro di fede. Virgilio si assume l’incarico dell’avvio, e così sarà inaltri luoghi del secondo regno, necessariamente quello della completezzadel sapere: l’integrazione può passare ad altri, in questo caso a Dantestesso» (Vallone 1981:91). Il Primo Mobile è la sfera celeste (o cielo) piùalta rispetto alla terra e la più vicina all’immobile Empireo, dal quale ri-ceve il moto di rotazione, che essa trasmette alle sfere inferiori; nel PrimoMobile, come pure nelle altre sfere rotanti e nell’immobile terra (posta alcentro dell’universo), si suole distinguere un equatore astronomico, ugual-mente distante dai due poli. Quando il sole è sul Tropico del Cancro, anord dell’Equatore, nell’emisfero nord è estate e nell’emisfero sud è in-verno; viceversa, quando il sole è sul Tropico del Capricorno, a sud del-l’equatore, nell’emisfero nord è inverno e nell’emisfero sud è estate;l’equatore, sia in inverno sia in estate, è in mezzo, fra i due tropici («sem-pre riman tra ’l sole e ’l verno»). Si noti, al v. 84, come il Poeta scriva«vedevan» e non “vedono”: il riferimento è agli Ebrei del Vecchio Testa-mento, prima della diaspora del primo secolo d. C.; nel momento in cuiil Poeta scrive, la Palestina era abitata soprattutto da Arabi. «In alcun’arte»significa ‘in una certa disciplina scientifica’, oggetto di studio nelle scuole

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(dove si insegnavano le arti del Trivio e del Quadrivio); qui si allude al-l’Astronomia (la quarta arte del Quadrivio).

Termina col v. 84 la terza parte del canto. Letta freddamente, questaterza parte è scienza astronomica in versi, adornata di mitologia. Ma nonè pura digressione, come non è pura digressione la prima parte; sarebbedigressione se il poema fosse opera esclusivamente narrativa. Ma la Com-media, come si è spesso ripetuto, è opera complessa: non solo riassumein sé tutte le forme letterarie e tutte le poetiche precedenti, ma si proponecome opera nuova. Non semplice digressione sono, dunque, la lezioneastronomica di Virgilio e la risposta di Dante, ma modo diverso e nuovodi dare al lettore informazioni necessarie alla comprensione dell’opera,che ambisce, come già il Convivio, ma a un livello più alto, all’enciclo-pedismo; ambizione motivata non già da vanagloria, ma da impulsod’animo generoso, che vuole avvicinare gli uomini alla scienza, «ultimaperfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade»(Convivio, I, I, 1). Scienza che, in Dante, e in particolare nella Commedia,non è mai disgiunta dalla fede, come è dimostrato anche in questa partedel canto, dove la citazione astronomica serve a far rilevare l’opposta sim-metria delle posizioni del Purgatorio e del monte su cui morì Cristo, e lacitazione mitologica (Fetonte) serve a condannare coloro che sfidano leleggi di natura; in definitiva, le due citazioni hanno anche lo scopo di farrisaltare la mirabile perfezione dell’universo creato. Il tono del discorsoscientifico è sostenuto: sofisticati periodi ipotetici e dotte citazioni trattedalla mitologia e dalla storia sacra mantengono alto il livello stilistico.

Il trapasso dalla terza alla quarta parte avviene senza interruzione deldialogo.

Ma se a te piace, volontier sapreiquanto avemo ad andar; ché ’l poggio salepiù che salir non posson li occhi miei». (vv. 85-87)

Nella richiesta c’è vera curiosità, più che preoccupazione per la fati-cosa salita: Dante ha capito che la montagna è molto alta, ma non sa esat-tamente quanto, e vorrebbe saperlo, per potersi preparare

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psicologicamente (cfr. Par. XVII, 25-27). In realtà non lo sa neanche Vir-gilio, che sostanzialmente elude la risposta; solo Stazio dirà che la mon-tagna del Purgatorio sale oltre la sfera dell’aria (cfr. Purg. XXI, 43-54;ma cfr. anche Inf. XXVI, 133-135), cioè è alta oltre ogni immaginazione.La seconda parte della terzina è una variazione del v. 40. Qualche com-mentatore vede nella domanda di Dante a Virgilio «ansia di ascesa»; a mesembra, però, che sia la risposta che Virgilio dà (terzina successiva) siala confessione di stanchezza a cui Dante è stato costretto (vv. 43-45) in-validino questa interpretazione.

Ed elli a me:«Questa montagna è tale,che sempre al cominciar di sotto è grave;e quant’om più va sù, e men fa male.Però, quand’ella ti parrà soave tanto, che sù andar ti fia leggerocom’a seconda giù andar per nave,allor sarai al fin d’esto sentiero;quivi di riposar l’affanno aspetta.Più non rispondo, e questo so per vero». (vv. 88-96)

È la ragione (cioè il ragionamento dedotto da tutti gli indizi forniti dallafinora breve esperienza nel Purgatorio) che suggerisce a Virgilio la rispo-sta, che è perciò razionalmente «vera» (v. 96): i penitenti, nel Purgatorio,si purificano dei loro peccati mediante l’espiazione: salendo di girone ingirone si “alleggeriscono” progressivamente delle loro colpe, che pesano,perciò, sempre meno. Su Dante vivo, la salita del Purgatorio produce dueeffetti: uno fisico e uno spirituale. Fisicamente, Dante farà sempre menofatica a salire da una cornice all’altra, come se il suo corpo pesasse sempremeno; spiritualmente, egli, contemplando le pene delle anime espianti,acquisterà sempre maggiore coscienza delle proprie colpe, si libererà gra-dualmente delle proprie tendenze peccaminose e quando sarà giunto incima al monte avrà l’«arbitrio libero, dritto e sano» (Purg. XXVII, 140).Quanto al v. 96, a me pare che Virgilio non aggiunga altro a ciò che hadetto, perché la sua conoscenza, tutta fondata sulla ragione, si ferma allesoglie del Paradiso terrestre (cfr. Purg. XXVII, 127-129, 139-141; XXIX,

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55-57); e poiché, come maestro, gli è penoso ammettere questi suoi limiti,la sua conclusione suona piuttosto brusca (una conclusione – scrive S.Romagnoli (1958: 94) – «che induce a ricollegare questo brusco far puntoal ben più drammatico “qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase tur-bato”» [Purg. III, 44-45]). E tuttavia il maestro riesce a rassicurare il di-scepolo e a spronarlo a salire: l’ascesa del Purgatorio non sarà semprecosì dura; anzi, contrariamente a quanto normalmente si sperimenta sca-lando una montagna, qui, nel monte della penitenza, la fatica e la stan-chezza diminuiscono man mano che si sale.

Termina qui la quarta parte del canto. È una parte didascalica, alla qualeil Poeta affida anche la funzione di introdurre il ritorno alla narrazione eal discorso di stile medio. Il luogo in cui si svolge tutta l’azione narrativa,cioè la montagna, che aveva dominato la scena della seconda parte e cheera rimasta sullo sfondo nella terza, torna in primo piano. Dante, che hasperimentato l’asprezza del monte, sembra temerne anche l’altezza, echiede spiegazioni al maestro; Virgilio non conosce l’altezza della mon-tagna, ma cerca ugualmente di rassicurare il discepolo: egli sa, perchél’ha intuito per ragionamento, che più si sale la montagna e meno si fa fa-tica; quando perciò a Dante sembrerà di salire senza sforzo, ecco, quellosarà il segno che la vetta è ormai vicina.

La quinta e ultima parte del canto è tutta narrativa ed è dominata dauno dei personaggi più tipici di tutta la Divina Commedia.

E com’elli ebbe sua parola detta,una voce di presso sonò: «Forseche di sedere in pria avrai distretta!». (vv. 97-99)

Il dialogo tra Virgilio e Dante è stato di alto livello culturale e, verosi-milmente, è stato condotto con tono molto sostenuto; la voce che si inse-risce improvvisamente nel dialogo fra maestro e discepolo suona, invece,subito popolaresca e ironica. La frase canzonatoria sembra indirizzatasolo a Dante («avrai distretta… sederti»), ma coinvolge in realtà ancheVirgilio, che ha dichiarato che alla fine della salita, e solo allora, Dantepotrà riposare. Lo spirito che ha parlato (e che ha ascoltato attentamente

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il dialogo tra i due poeti) ha capito che Virgilio non conosce bene la mon-tagna: non sa che è altissima, più di quanto egli immagini, non sa che èimpossibile scalarla in una sola giornata e non sa nemmeno che di notte,nel Purgatorio, non si può fare un solo passo in salita (cfr. Purg. VII, 43-44, 49-54). Dante, dunque, e con lui Virgilio, dovrà per forza fermarsiprima di raggiungere la vetta. Il Poeta, insomma, fa sì dell’autoironia, mal’ironia tocca anche Virgilio. Il registro alto e il tono un po’ sussiegoso delcolloquio fra maestro e discepolo sono bruscamente, e beffardamente, in-terrotti. Qualche commentatore ritiene che la frase canzonatoria sia indi-rizzata a Virgilio, non a Dante. Scrive, per esempio, il Mattalia: «Labattuta riesce, naturalmente, più saporita se la si intenda rivolta all’ener-gico e impietoso Virgilio». Ma a me sembra che l’ancora ignoto motteg-giatore intenda continuare, correggendolo però ironicamente, il discorsodi Virgilio, che è rivolto a Dante; è questi, perciò, il principale destinatariodel motteggio.

Al suon di lei ciascun di noi si torse,e vedemmo a mancina un gran petrone,del qual né io né ei prima s’accorse.Là ci traemmo; e ivi eran personeche si stavano a l’ombra dietro al sassocome l’uom per negghienza a star si pone. (vv. 100-05)

I due poeti, che sono seduti sul «balzo» volti a levante (cfr. vv. 47 e53), hanno rivolto lo sguardo in basso, alla spiaggia dell’isola, e quindi alsole; poi la discussione astronomica li ha talmente assorbiti che non hannoavuto il tempo di guardarsi intorno. Ricordo ancora che «a mancina» èverso nord, da dove splende il sole; il «gran petrone», illuminato da norddal sole (che verosimilmente abbaglia un po’ Dante e Virgilio che lo guar-dano), produce a sud una breve zona d’ombra. Il termine «negghienza» èforma toscana popolare per ‘negligenza’, ma qui è da intendere come ‘pi-grizia’, perché decisamente pigri appaiono questi penitenti, che se nestanno seduti per terra, all’ombra, con le spalle appoggiate a un «gran pe-trone». Evidentemente furono pigri in vita, e la morte sembra non averli

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per nulla cambiati. Quando, nel momento del trapasso, essi chiesero per-dono dei loro peccati, Dio ebbe pietà di loro; anzi, si sarebbe tentati didire, fece di più: permise loro di continuare a comportarsi da pigri nel-l’Antipurgatorio! Ma sarebbe un’impressione errata, questa: in realtà l’at-teggiamento di pigrizia, che, rendendoli ridicoli e costringendoliall’immobilità, li umilia per tanto tempo quanto è durata la loro vita, èl’inesorabile pena del contrappasso.

E un di lor, che mi sembiava lasso,sedeva e abbracciava le ginocchia,tenendo ’l viso giù tra esse basso.«O dolce segnor mio», diss’io, «adocchiacolui che mostra sé più negligenteche se pigrizia fosse sua serocchia». (vv. 106-11)

Che sia lo stesso che poco prima ha parlato, sembra evidente (cfr. vv.119-120): nel suo atteggiamento, come nelle parole che sono state pronun-ciate prima, è riassunta la pigrizia di tutto il gruppo di anime seduto dietroil masso. Al superattivo Dante l’atteggiamento di quell’anima appare al-quanto ridicolo (chiosa Sergio Romagnoli (1958: 95): «Gli è che Dantenon sembra intendere ancora il rapporto che c’è tra l’attesa di questeanime e il loro stare immobili dietro al pietrone»); ma non c’è disprezzonelle sue parole: quell’anima è salva, destinata a vedere Dio. Si noti comeDante adegui il proprio linguaggio a quello del «pigro»: dallo stile altoallo stile “comico” (serocchia è dal lat. soròrcula, diminutivo di soror,“sorella”).

Allor si volse a noi e puose mente,movendo ’l viso su per la coscia,e disse:«Or va tu su, che se’ valente!».Conobbi allor chi era, e quella angosciache m’avacciava un poco ancor la lena,non m’impedì l’andare a lui; e posciach’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,dicendo: «Hai ben veduto come ’l soleda l’omero sinistro il carro mena?». (vv. 112-20)

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Il penitente dimostra di essere pigro non solo nell’atteggiamento abi-tuale e nel volgere lento e studiato della testa e dello sguardo, ma anchenel modo di parlare per monosillabi, secondo la legge del minimo sforzo:«Or va tu sú, che se’…». Il tono è ironico, come ironica era stata la fraseche aveva interrotto il dialogo fra maestro e discepolo (vv. 97-99); e que-sta volta l’ironia ha come unico bersaglio Dante, che sembra convintoche l’atteggiamento del penitente sia determinato soltanto da pigrizia. Siadall’atteggiamento sia dall’ironia delle parole, Dante riconosce l’amicoBelacqua e, ubbidendo ad uno slancio d’affetto e col respiro ancora affan-noso per la fatica della scalata, va verso di lui. Belacqua, da parte sua, hagià riconosciuto Dante, quando lo ha guardato attentamente («puosemente»), e forse si è anche accorto che Dante è vivo.

Belacqua (= Bevilacqua?) sembra essere il soprannome del liutaio fio-rentino Duccio di Bonavia. A Firenze era noto non solo per la sua abilitàdi artigiano, ma anche, e soprattutto, per la sua pigrizia. Secondo l’Ano-nimo Fiorentino, Dante, amante della musica, frequentava la sua bottega,e non tralasciava di rimproverare il liutaio per la sua indolenza. Un giornoBelacqua, dopo uno dei soliti rimproveri dell’amico, rispose citando Ari-stotele: «Sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens» (“Sedendo e ri-posando l’anima diventa savia”); e Dante di rimando: «Certo, se è veroche stando seduti si diventa savi, nessuno mai fu più savio di te».

Non uno, ma parecchi motivi fanno riconoscere Belacqua a Dante: Be-lacqua si è voltato verso di lui; Belacqua si comporta da pigro (e prover-bialmente pigro doveva essere stato in vita); Belacqua parla anche dapigro, a monosillabi; Dante conosce già la voce di Belacqua; Dante sache a Belacqua piace motteggiare. Belacqua si era voltato quasi con faticaverso Dante e Virgilio; quando Dante gli è vicino, alza «a pena» la testa:il pigro non solo non si smentisce, ma sembra esibire la sua pigrizia. Econtinua a canzonare Dante (del quale conosce sia l’attivismo sia l’ardoredi conoscenza); ma ancora una volta lo stesso Virgilio non sfugge all’iro-nia: l’«accenno al carro del sole è una ripresa lievemente parodistica dellacitazione mitologica di Fetonte affiorata durante la dotta seduta [vv. 71-72]; come “dall’omero sinistro” ha l’aria di imitazione ironica dello stile

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colto di quella» (Jenni 1971: 149). Belacqua, insomma, ironizza sul di-scorso di alta astronomia tenuto da Virgilio e Dante: a lui penitente (e per-ciò consapevole del valore dell’umiltà), ma non ancora libero dal peccatodi pigrizia (e perciò ancora piuttosto scettico sul valore della cultura, chesi acquista sì «sedendo et quiescendo», ma anche con notevole fatica in-tellettuale), quel discorso è sembrato vano sfoggio di un’inutile dottrina,in un luogo in cui, ciò che veramente conta, è la purificazione dal peccatoe l’ascesa a Dio.

Li atti suoi pigri e le corte parolemosser le labbra mie un poco a riso;poi cominciai: «Belacqua, a me non doledi te omai; ma dimmi: perché assisoquiritto se’? attendi tu iscorta,o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?». (vv. 121-26)

Quando indica Belacqua a Virgilio (vv.109-111), Dante non ha ancorariconosciuto l’amico: quel negligente, che sembra avere la «pigrizia» per«serocchia», non gode certo della simpatia di Dante, ma non è oggettodel suo disprezzo: è un’anima destinata al Paradiso. Ora che Dante rico-nosce in quel negligente l’amico Belacqua, quell’atteggiamento diestrema pigrizia desta in lui solo un sorriso indulgente e benevolo: l’amicovivo si compiace della salvezza dell’amico morto, per la cui sorte avevatemuto. E subito il tono del dialogo cambia: l’ironia lascia il posto al sen-timento di pura amicizia. Ma c’è qualcosa che sfugge ancora alla com-prensione di Dante: come può un penitente comportarsi nel Purgatorio, eproprio in questo luogo («quiritto»), come si comportava nella vita ter-rena, cioè da peccatore?

Ed elli: «O frate, andar in su che porta? ché non mi lascerebbe ire a’ martiril’angel di Dio che siede in su la porta. (vv. 127-29)

Belacqua, come tutti gli altri penitenti dell’Antipurgatorio, vorrebbepoter salire al Purgatorio vero e proprio per purificarsi espiando, ma gli èimpedito dalla legge che governa la montagna della penitenza; legge della

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quale sono custodi, oltre a Catone, l’Angelo guardiano della porta delPurgatorio (cfr. Purg. IX, 73-84) e gli Angeli guardiani dei sette gironi incui il Purgatorio è diviso. Non sembra, però, che Belacqua (nonostante iltono accorato delle sue parole) abbia effettivamente chiarito il dubbio diDante: l’atteggiamento di Belacqua è il tipico atteggiamento del pigro («èulteriore conferma dell’indolenza del pigro il fatto che non dimostri nes-suna curiosità della condizione di Dante e non faccia alcuna domanda»,scrive Nicolò Mineo, 1989: 89), e questo non dovrebbe essere giustificatonel luogo che è proprio della penitenza. Ma Dio misericordioso, eviden-temente, lo consente: forse perché questi pigri non commisero altri peccatigravi, oltre a quello della pigrizia. E sappiamo già che «la bontà infinitaha sì gran braccia…» (Purg. III, 122). Ma forse è possibile un’altra spie-gazione. Ne parleremo fra poco.

Prima convien che tanto il ciel m’aggiridi fuor da essa, quanto fece in vita,per ch’io ’ndugiai al fine i buon sospiri,se orazione in prima non m’aitache surga su di cuor che in grazia viva; l’altra che val, che ’n ciel non è udita?». (vv. 130-35)

Colui che si pente alla fine della propria vita, cioè, deve attenderenell’Antipurgatorio tanti anni quanto durò la sua vita terrena, prima di es-sere ammesso nel Purgatorio (per indicare l’anno solare, il Poeta ricorreall’immagine astronomica del Cielo del sole che gira intorno alla terra: inun anno, appunto); questo periodo, però, può essere abbreviato dalle pre-ghiere di coloro che vivono sulla terra in grazia di Dio; le preghiere dicoloro che sono in peccato mortale, invece, non trovano ascolto nel cielo.Il chiarimento di Belacqua è in linea con il pensiero teologico della Chiesa(cfr. Purg. III, 136-145; VI, 34-39), a parte la durata dell’esclusione dalPurgatorio, che è invenzione dantesca. Belacqua non chiede esplicita-mente a Dante di pregare per lui, ma si può ritenere che lo faccia impli-citamente; e si può anche ritenere che nel chiarimento: «… l’altra che val,che ’n ciel non è udita?» sia implicita un’esortazione, rivolta a Dante, apurificarsi e a vivere nella grazia, quando sarà tornato sulla terra, così che

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le sue preghiere siano accette a Dio. Il chiarimento di Belacqua è ancheun completamento delle ultime parole pronunciate da Manfredi (III, 140-141, 145).

Ma è giunto il momento di approfondire il discorso su Belacqua. Que-sto è un personaggio apparentemente semplice da capire e da descrivere;proprio per questa apparente semplicità, su di lui sono stati dati giudizi di-versi, qualcuno viziato di facile impressionismo, come quello di «mac-chietta». Un giudizio corretto non può prescindere da un’analisi attentadel contesto (ambiente in cui il personaggio è collocato, situazione nar-rativa in cui il personaggio è inserito, rapporto umano che unisce l’autoreal personaggio) e del tessuto linguistico (lessico, sintassi, registro stili-stico). E a questa norma è bene sempre attenersi.

Belacqua è un pigro; è anzi, almeno nell’atteggiamento esteriore, ilpigro tipico: Dante lo indica a Virgilio come «colui che mostra sé più ne-gligente / che se pigrizia fosse sua serocchia». E non poteva che esserecosì: avendo Dante poeta deciso di incontrare il pigro Belacqua nel primobalzo dell’Antipurgatorio, non poteva non fare di lui il ritratto della pigri-zia. Tutti, o quasi, i personaggi che Dante incontra nell’oltretomba sonorappresentativi del peccato punito o della virtù esaltata nel luogo in cui av-viene l’incontro (cerchio, girone, cornice, cielo); se non sono già «animedi fama note» (come Farinata, Brunetto, Ulisse, Sordello, Guinizzelli, sanTommaso, san Benedetto, san Pietro), questi personaggi diventano rappre-sentativi e, ovviamente, famosi per il solo fatto di essere «incontrati» daDante (Francesca da Rimini rappresenta la lussuria, Ciacco la gola, Fi-lippo Argenti l’ira, e così di seguito). Belacqua rappresenta, appunto, lapigrizia; o, per essere più precisi, è rappresentato come l’immagine dellapigrizia, e il lettore lo ricorda soprattutto nell’atteggiamento in cui Dantepersonaggio lo vede e Dante autore lo ritrae. Ma Belacqua, come si è giàdetto, non è un personaggio semplice: si presenta come pigro, ma nell’in-timo non è più pigro: si è pentito, è stato perdonato ed ora è penitente; rap-presenta la parte del pigro perché così vuole Dio, che gli infligge questa«maschera» di pigrizia come contrappasso, per essere stato pigro in vita,e che Belacqua sente come pena meritata per essersi pentito solo in punto

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di morte; ma se potesse seguire il suo desiderio, invece che la volontà diDio, si alzerebbe e salirebbe il monte fino alla porta del Purgatorio, e sipresenterebbe all’Angelo portiere chiedendo di essere ammesso all’espia-zione. Invece dovrà aspettare, accovacciato presso il «petrone», tantotempo quanto visse. Scrive Giorgio Petrocchi: «C’è in Belacqua, ed è sen-timento serio e profondo, il senso dell’attesa paziente della purificazione.[…] Quella che era pigrizia in vita, è qui rimasta solo come atteggiamentoesterno, e il vero atteggiamento dello spirito di Belacqua è la pazienza»Petrocchi 1994: 275-6). Ma Belacqua non fu solo pigro, in vita: se fossestato solo pigro, Dante non l’avrebbe degnato della sua amicizia. Belac-qua fu un liutaio, cioè un uomo di musica, come fu Casella: fu la musicaad unire Dante, Casella e Belacqua; ed è molto probabile che Belacqua siastato amico non solo di Dante, ma anche di Casella: tutti e tre vivevano aFirenze negli stessi anni. Mi piace immaginare che Casella, dopo esserefuggito verso il monte, rimproverato da Catone, abbia risalito, comeDante, la ripida e stretta «calla» e, come Dante, sia giunto al primo«balzo» presso il «gran petrone» e abbia visto e riconosciuto l’amico Be-lacqua e, come Dante, si sia compiaciuto della sua salvezza, e abbia poiproseguito il cammino verso la porta del Purgatorio, lieto e dimenticoormai del rimprovero di Catone. Tre amici, uniti dall’arte, e un unico de-stino di salvezza. Due incontri, quelli con Casella e Belacqua, che contri-buiscono se non a cancellare, almeno a sbiadire nella mente di Dantepellegrino l’orrore del viaggio infernale; nella mente del lettore, invece,dopo la lettura dell’episodio, si fa più chiara l’immagine del «secondoregno»: il Purgatorio come regno dell’amicizia, dopo l’Inferno comeregno dell’odio. Ma c’è dell’altro. Belacqua non fu solo amante della mu-sica, ma dovette avere una non disprezzabile cultura, se è vero che giu-stificava la propria pigrizia citando Aristotele; non pretendeva certo dipassare per filosofo, ma intendeva sicuramente affermare che il suo atteg-giamento di pigro non era solo una scusa per non far niente, ma anche unmodo di riflettere sul significato della vita. E infine, Belacqua fu ancheuomo di spirito; una virtù, questa, che Dante apprezzava molto. Un vividoricordo delle conversazioni dei due amici, condite di facezie, frizzi e mot-

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teggi reciproci, è nella prima parte dell’incontro, là dove Belacqua siprende gioco di Dante (ma anche di Virgilio) per i «suoi astratti furori diingenuo zelo» (Sanguineti 1992: 166) e Dante definisce Belacqua «piùnegligente / che se pigrizia fosse sua serocchia». Quel ricordo è anchenello stile «comico» del dialogo, che, dopo lo stile alto della discussioneastronomica, sembra irridere a quel discorso di squisita alta cultura: nelluogo dedicato alla penitenza, fondata sull’umiltà, quel discorso ha, perl’ex liutaio Belacqua, suono stonato (e fuori tono lo fa apparire Dantepoeta, in un sottile gioco di autoironia).

Ma nella seconda parte (vv. 123-135) il registro linguistico, e ovvia-mente il tema del dialogo, mutano nettamente: al Belacqua peccatoresegue il Belacqua pentito, dal tono scherzoso si passa al tono serio. Dante,che non ha ancora capito il vero motivo dell’atteggiamento di Belacqua,esprime il timore che l’amico sia stato ripreso dal «modo usato»; Belac-qua spiega allora ch’egli è costretto a stare in quella buffa posizione per-ché la legge del Purgatorio gliel’impone come contrappasso per la pigriziadimostrata in terra: rassegnato e paziente aspetta, così seduto, che passitutto il tempo prescritto da Dio, a meno che non lo accorcino le preghieredi qualche anima buona. C’è una moralità nella risposta di Belacqua, chesi può riassumere nel detto popolare: l’apparenza inganna; e c’è una mo-ralità anche nelle sue frasi precedenti. Per il Sanguineti, Belacqua «fungepure da sottile deterrente etico, per le inesperte accensioni del recente pel-legrino, censurando, breve e arguto, l’incauta confidenza di chi si spera esi sogna più “valente” del vero, di chi si sente, quanto al proprio “inge-gno”, meno “manco” e meno imperfetto di quanto non sia realmente»(Sanguinetti 1992: 166). Il Sapegno, da parte sua, avverte:

Una lettura che voglia tenersi aderente al testo deve guardarsi siadall’accentuarne troppo i motivi comici […] sia dal perderli divista attribuendo al personaggio il valore catartico che è piuttostodell’episodio nel suo complesso: richiamo a una considerazionemeno improvvida e baldanzosa delle difficoltà che attendono an-cora di essere superate, esortazione alla pazienza e al docile ab-bandono in Dio.

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I motivi comici, insomma, esistono, anzi sono evidenti e non possonoessere dimenticati, per non cadere nell’errore opposto a quello dei com-mentatori che riducevano il personaggio di Belacqua a “macchietta”. Mo-tivi comici e motivi seri coesistono, però, senza contrasto; ed è questaequilibratissima coesistenza che fa di Belacqua uno dei personaggi piùvivi e originali della Divina Commedia.

E già il poeta innanzi mi saliva,e dicea: «Vienne omai; vedi ch’è toccomeridian dal sole, e a la rivacuopre la notte già col piè Morrocco». (vv. 136-39)

Virgilio non aspetta il compagno, ma comincia a salire: sembra quasitemere che la pigrizia di Belacqua, e dei suoi compagni di pena, contagiDante (ha già contagiato il suo linguaggio, diventato popolaresco); e poinon ha dimenticato il rimprovero di Catone… Il sole è già sul meridianodel Purgatorio, verso nord: è cioè mezzogiorno. Agli antipodi del Purga-torio, a Gerusalemme, è dunque mezzanotte, mentre sullo stretto di Gibil-terra (a nord del Marocco) sono le sei di sera, cioè il sole tramonta. Lanotte è personificata: è una donna che gira intorno alla terra in direzioneopposta a quella del sole (cfr. Purg. II, 1-6): in questo momento, il suopiede tocca la riva atlantica del Marocco, estremo margine occidentaledelle terre emerse. Nella terzina è evidente il ricordo di Metam. II, 142-143: «Dum loquor, Hesperio positas in litore metas / umida nox tetigit.Non est mora libera nobis» [‘Mentre parlo, la notte umida ha toccato lameta segnata sulle coste di ponente. Non ci è permesso indugiare’]; è in-teressante notare che i due versi appartengono alla narrazione del mito diFetonte, già ricordato ai vv. 71-72.

Termina così la quinta parte del canto, e termina il canto stesso. È cer-tamente quest’ultima la parte narrativamente più viva. Il registro lingui-stico del discorso, già medio-alto, scende improvvisamente al livellocomico. Siamo nel «balzo» dei negligenti, e più precisamente nella suaparte più bassa, occupata dai pigri; e che il registro comico della narra-zione sia determinato da questa collocazione e dalla “qualità” dei penitenti

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non sembra dubitabile. I penitenti appaiono buffi a Dante fin dal loro at-teggiamento: sono il ritratto della pigrizia. Dante non li disprezza, ma nonli capisce, e ne ride. Non possono assolutamente essere avvicinati, questipigri, agli ignavi dell’Antinferno: quelli «mai non fur vivi» perché nonseppero scegliere né il bene né il male, non esercitarono mai il libero ar-bitrio, e perciò Dante li disprezza; questi furono pigri (e apparentementelo sono ancora) per scelta di vita, per quanto erronea, diremmo quasi perscelta filosofica, perché non ritennero che valesse la pena di fare più diquanto è necessario per vivere con un minimo di dignità; e furono cosìconvinti della loro scelta che si beffarono di quelli che si affannavano(come Dante) a rincorrere un ideale. Solo sul finire della vita acquistaronocoscienza che la pigrizia è contraria alla carità, cioè all’insegnamento diCristo, e al vivere sociale, e si pentirono. La negligenza ch’essi mostra-rono in vita, qui nell’Antipurgatorio, per contrappasso, è data loro comepena: aspettarono a pentirsi, ora dovranno aspettare a lungo prima di var-care la porta del Purgatorio. Sono salvi, comunque: se l’atteggiamentoesterno in cui sono ritratti è un residuo, quasi un marchio della loro pigri-zia, portato, sentito e accettato come pena, il loro intimo sentire non puòche essere di gratitudine a Colui che li ha perdonati. Con fiducia, pazienzae desiderio attendono di salire ai «martìri» per espiare, purificarsi e ascen-dere infine a Dio. Lo sappiamo da Belacqua.

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NOTE

1. Vv. 1-6, parafrasi: ‘Quando, per una sensazione di piacere o di dolore, cheuna qualche nostra facoltà sensitiva percepisca intensamente, la nostra anima siconcentra tutta in essa, pare che l’anima non sia più capace di svolgere alcun’altraoperazione; e questo dimostra che è in errore chi crede che in noi si formino unadopo l’altra diverse anime’.

2. Vv. 7-12, parafrasi: ‘E perciò, quando si ode o si vede qualcosa che afferricon forza l’anima tenendola rivolta verso di sé, il tempo passa e l’uomo non sene accorge; perché altra è la facoltà che percepisce il tempo e altra è quella chetiene avvinta l’anima intera: questa facoltà è quasi legata all’anima e quella èsciolta dall’anima’.

3. Vv. 19-24, parafrasi: ‘Quando l’uva comincia a maturare diventando bruna,il villano molte volte, servendosi di una piccola forcata di cespugli spinosi del suocampo, chiude un’apertura nelle siepi più ampia di quanto non fosse il sentieroattraverso cui salì la mia guida, ed io dietro a lui, soli, non appena la schiera degliscomunicati si allontanò da noi’.

4. Interessanti, nella terzina 49-51, due termini tecnici dell’alpinismo. Il verbo«carpando» (unica occorrenza nel poema) è latinismo, da càrpere, ‘procederelentamente, a passo a passo’; nel verbo italiano è aggiunto il significato propriodi ‘carponi’. Per «cinghio», cfr. Inf. XVIII, 7; ma qui, come suggerisce A. Jenni(1971: 134, nota 1), il termine «cinghio» è molto vicino per significato a “cen-gia”, termine dei dialetti alpini: ‘stretto passaggio lungo una parete rocciosa’;entrambi i vocaboli derivano dal lat. cingulum.

5. Si ripete nell’Inferno, a distanza di due canti, l’aporia del «corpo aereo» deimorti, che ora ha la consistenza di un corpo vivo e ora l’inconsistenza diun’«ombra». In Inf. XXXII, 73-108, il Poeta per ben due volte tratta il corpo aereocome corpo solido: prima, camminando per la superficie ghiacciata del Cocito,Dante viator urta col piede, senza volerlo, il viso di un dannato confitto nel ghiac-cio, suscitandone le proteste; dopo, poiché il dannato si rifiuta di dire chi eglisia, lo afferra «per la cuticagna» e lo scuote, strappandogli i capelli, finché un vi-cino dice che costui è Bocca degli Abati. Nel canto XXXIV è il corpo aereo di Vir-gilio ad avere consistenza fisica: Dante lo avvinghia per poter essere portatoprima giù e poi su nel pozzo di Lucifero. In Purg. II, 79-81, il corpo aereo, invece,

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è trattato (come sempre normalmente dovrebbe) come «ombra vana»: Dante tentaper tre volte di abbracciare l’amico Casella e per tre volte “se ne torna con lemani al petto”. Nel canto IX del Purgatorio, infine, si verificherà una scena similea quella di Inf. XXXIV: Santa Lucia, discesa dall’Empireo, prenderà sulle bracciaDante addormentato e lo trasporterà dalla valletta dei principi fin davanti allaporta del Purgatorio. Non si accorge, il Poeta, ci si può chiedere, di queste aporie?Il Poeta in effetti sa benissimo quello che fa: ma in queste contingenze narrativeegli “ha bisogno” di ricorrere a queste apparenti contraddizioni per narrare ciòche vuole con la necessaria efficacia. Il Poeta, come tutti i poeti, si riserva certelibertà. Se gli fosse stato chiesto perché si è contraddetto, forse avrebbe risposto:«Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare».

6. Aggiungo altre tre spiegazioni. Il sole è detto «specchio» in quanto riflettela luce che emana da Dio (o forse, più semplicemente, perché corpo celeste lu-minoso); ed è detto anche «Zodiaco rubecchio» in quanto fa risplendere di lucerossastra la parte dello Zodiaco in cui esso si trova («rubecchio» dal lat. volg. *ru-biculus, dimin. di rubeus, deriv. da ruber, ‘rosso’); «l’Orse» sono le due costel-lazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, le quali, risplendendo sopra ilcircolo polare artico, indicano l’estremo nord.

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