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PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA, PSICANALISTA, PSICHIATRA CHE DIFFERENZA C'È? LO PSICOLOGO Lo psicologo è il laureato in psicologia che ha sostenuto e superato l'Esame di Stato che permette l'iscrizione all'Ordine degli psicologi. Per poter sostenere tale esame egli deve obbligatoriamente svolgere un tirocinio formativo della durata di un anno, nel quale fa esperienza nel campo della psicologia. Gli psicologi non sono tutti uguali, in quanto esistono all'interno delle università indirizzi formativi diversi (per es: psicologia clinica e di comunità, psicologia del lavoro e delle organizzazioni, psicologia dello sviluppo e dell'educazione, psicologia generale e sperimentale), i quali forniscono competenze diverse. Dopo la laurea egli può decidere di frequentare corsi o master che forniscono competenze in ambiti specifici, per esempio nel campo dei disturbi d'ansia. Lo psicologo fornisce ai suoi utenti un aiuto non farmacologico, basato su colloqui di sostegno, strumenti diagnostici, consulenze, tecniche di rilassamento ecc. Sono molte le cose che egli può fare, purché non si configurino come terapia, poiché essa richiede il titolo di psicoterapeuta. Inoltre lo psicologo non può prescrivere farmaci, dal momento che per fare questo serve una laurea in medicina. Se possiede una laurea in medicina oltre a quella in psicologia lo può fare. Quindi, riassumendo, per essere tale lo psicologo deve possedere i seguenti requisiti: laurea in psicologia; essere iscritto all'Ordine degli Psicologi di una regione italiana. LO PSICOTERAPEUTA Il percorso per divenire psicoterapeuta è duplice. Può partire dalla laurea in psicologia o da quella in medicina, conseguita la quale va intrapreso un corso di specializzazione riconosciuto dallo Stato Italiano della durata di almeno 4 anni. Dopo la laurea va superato l'Esame di Stato di psicologia esattamente come nel caso dello psicologo (Esame di Stato di Medicina nel caso del laureato in medicina). Dunque lo psicoterapeuta può essere sia medico che psicologo; nel caso che sia psicologo può esercitare tutte le attività dello psicologo e in più la psicoterapia, nel caso che sia medico può esercitare le attività del medico (fra cui la prescrizione di farmaci) e quelle dello psicoterapeuta. Lo psicologo psicoterapeuta non può prescrivere farmaci. L'attività dello psicoterapeuta va quindi più in profondità rispetto a quella dello psicologo, e permette di agire direttamente sui disagi della persona attraverso l'utilizzo di tecniche che variano a seconda della teoria di riferimento del professionista stesso. Le scuole di specializzazione che permettono l'iscrizione all'albo degli psicoterapeuti sono molte e molto diverse fra loro. Ognuna di esse trae origine da un quadro teorico differente, non necessariamente incompatibile con gli altri, tant'è che spesso gli psicoterapeuti fanno uso contemporaneamente di tecniche provenienti da teorie di fondo diverse. Tra le scuole di specializzazione più frequentate abbiamo, per esempio, quella ad indirizzo cognitivo- comportamentista, quella sistemica familiare e quella psicanalitica. Per concludere, lo psicoterapeuta, per essere tale, deve possedere i seguenti requisiti: laurea in psicologia o in medicina e chirurgia; essere iscritto all'Ordine degli Psicologi di una regione italiana; aver frequentato una scuola di specializzazione riconosciuta dallo Stato che permette l'iscrizione all'albo degli psicoterapeuti.

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PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA, PSICANALISTA, PSICHIATRA CHE DIFFERENZA C'È?

LO PSICOLOGO

Lo psicologo è il laureato in psicologia che ha sostenuto e superato l'Esame di Stato che permette l'iscrizione all'Ordine degli psicologi. Per poter sostenere tale esame egli deve obbligatoriamente svolgere un tirocinio formativo della durata di un anno, nel quale fa esperienza nel campo della psicologia. Gli psicologi non sono tutti uguali, in quanto esistono all'interno delle università indirizzi formativi diversi (per es: psicologia clinica e di comunità, psicologia del lavoro e delle organizzazioni, psicologia dello sviluppo e dell'educazione, psicologia generale e sperimentale), i quali forniscono competenze diverse. Dopo la laurea egli può decidere di frequentare corsi o master che forniscono competenze in ambiti specifici, per esempio nel campo dei disturbi d'ansia. Lo psicologo fornisce ai suoi utenti un aiuto non farmacologico, basato su colloqui di sostegno, strumenti diagnostici, consulenze, tecniche di rilassamento ecc. Sono molte le cose che egli può fare, purché non si configurino come terapia, poiché essa richiede il titolo di psicoterapeuta. Inoltre lo psicologo non può prescrivere farmaci, dal momento che per fare questo serve una laurea in medicina. Se possiede una laurea in medicina oltre a quella in psicologia lo può fare. Quindi, riassumendo, per essere tale lo psicologo deve possedere i seguenti requisiti:

• laurea in psicologia; • essere iscritto all'Ordine degli Psicologi di una regione italiana.

LO PSICOTERAPEUTA

Il percorso per divenire psicoterapeuta è duplice. Può partire dalla laurea in psicologia o da quella in medicina, conseguita la quale va intrapreso un corso di specializzazione riconosciuto dallo Stato Italiano della durata di almeno 4 anni. Dopo la laurea va superato l'Esame di Stato di psicologia esattamente come nel caso dello psicologo (Esame di Stato di Medicina nel caso del laureato in medicina). Dunque lo psicoterapeuta può essere sia medico che psicologo; nel caso che sia psicologo può esercitare tutte le attività dello psicologo e in più la psicoterapia, nel caso che sia medico può esercitare le attività del medico (fra cui la prescrizione di farmaci) e quelle dello psicoterapeuta. Lo psicologo psicoterapeuta non può prescrivere farmaci. L'attività dello psicoterapeuta va quindi più in profondità rispetto a quella dello psicologo, e permette di agire direttamente sui disagi della persona attraverso l'utilizzo di tecniche che variano a seconda della teoria di riferimento del professionista stesso. Le scuole di specializzazione che permettono l'iscrizione all'albo degli psicoterapeuti sono molte e molto diverse fra loro. Ognuna di esse trae origine da un quadro teorico differente, non necessariamente incompatibile con gli altri, tant'è che spesso gli psicoterapeuti fanno uso contemporaneamente di tecniche provenienti da teorie di fondo diverse. Tra le scuole di specializzazione più frequentate abbiamo, per esempio, quella ad indirizzo cognitivo-comportamentista, quella sistemica familiare e quella psicanalitica.

Per concludere, lo psicoterapeuta, per essere tale, deve possedere i seguenti requisiti:

• laurea in psicologia o in medicina e chirurgia; • essere iscritto all'Ordine degli Psicologi di una regione italiana; • aver frequentato una scuola di specializzazione riconosciuta dallo Stato che permette

l'iscrizione all'albo degli psicoterapeuti.

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LO PSICANALISTA

Lo psicanalista è uno psicoterapeuta che si ispira alla psicanalisi di Freud e dei suoi successori. Dopo Sigmund Freud infatti, sono nate diverse correnti dal suo pensiero originale, definite post-freudiane; tra queste la scuola Junghiana da Gustav Jung e quella Adleriana da Alfred Adler. Esse prendono origine dalle teorie proposte da Freud, attribuendo però un peso differente alle diverse componenti della teoria dello sviluppo psicosessuale originale, introducendo anche elementi nuovi non considerati da Freud. Lo psicanalista, per diventare tale, deve necessariamente sottoporsi in prima persona ad un'analisi personale che può avere una durata variabile (in genere qualche anno) con il fine di risolvere eventuali conflitti personali irrisolti e di acquisire maggiori competenze professionali.

LO PSICHIATRA

Lo psichiatra è un laureato in medicina che ha intrapreso successivamente la specializzazione in psichiatria. Lo psichiatra non è psicologo, a meno che non abbia conseguito il relativo titolo; egli può tuttavia esercitare la psicoterapia. La differenza sostanziale tra psicologo/psicoterapeuta e psichiatra risiede nel modo di vedere la persona e nell'approccio utilizzato; mentre i primi due guardano la persona nel suo insieme, evitando di concentrarsi solo sul disturbo, lo psichiatra utilizza un metodo che può essere definito di diagnosi/cura. In sostanza egli focalizza la sua attenzione sul problema cercando di risolvere solo quello, esattamente come fa il medico. Egli cura i disturbi psichici e le malattie mentali attraverso l'utilizzo dei metodi propri della psichiatria, che comprendono spesso l'utilizzo di farmaci. Avviene di sovente che sia lo psicologo/psicoterapeuta che lo psichiatra forniscano contemporaneamente il loro supporto ad una stessa persona, ottenendo un risultato migliore di quello che verrebbe raggiunto attraverso l'utilizzo esclusivo di uno dei due approcci.

LE PSICOTERAPIE

La psicoterapia è una parte della psicologia che si occupa della cura dei disturbi della mente. Sono moltissime infatti le persone che soffrono di un disturbo psicologico, ed in particolare di qualche forma di nevrosi. Le nevrosi sono problemi di gravità media e bassa che non presentano corrispondenze organiche, ossia non sono causate né da lesioni cerebrali né da altre cause visibili. Per questa ragione trattarle con i sistemi medici classici non è sempre possibile, ed è qui che entra in gioco l'intervento psicoterapico.

La psicoterapia è un percorso a due che si sviluppa tra terapeuta e paziente. Esistono anche terapie di gruppo, nelle quali le persone con disturbi simili si ritrovano a discutere insieme delle proprie esperienze insieme al terapeuta. In genere chi soffre di un disturbo abbastanza radicato manifesta comportamenti disadattivi (disadattivo: comportamento che compromette il normale adattamento e funzionamento della persona, per esempio un'azione che viene compiuta in modo irresponsabile) ed è afflitto da pensieri spiacevoli. Chi è afflitto da un distrubo d'ansia, per esempio, verrà continuamente attanagliato da idee che destano preoccupazione e paura, e il suo comportamento sarà a volte irrazionale, fuori dal suo controllo.

Il fine della psicoterapia è quello di costruire un percorso che vede coinvolti paziente e terapeuta; un progetto che condurrà, lentamente, alla individuazione di tutti quei processi di pensiero e dei relativi comportamenti disfunzionali che la persona manifesta. Una volta individuati, questi schemi di pensiero e queste idee possono essere modificati. Per farlo servirà la piena collaborazione del paziente, il quale dovrà trovare dentro di sé le risorse per guarirsi;

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il terapeuta infatti non gli darà ordini e non gli svelerà misteri, ma lo aiuterà ad indirizzarsi sulla strada della guarigione e lo sosterrà nei suoi tentativi di cambiamento.

Esistono molti tipi di approcci psicoterapici, tutti efficaci; tuttavia essi differiscono l'uno dall'altro per il quadro teorico sul quale si basano e per la diversa prospettiva dalla quale osservano ed interpretano il problema. Esistono per esempio approcci che focalizzano la propria attenzione sui sintomi immediati del disturbo, agendo su di essi per migliorare la vita presente della persona, altri che vogliono andare a fondo e scoprire la causa del disturbo per eliminarla completamente. La scelta della psicoterapia più adatta dipende da ciò che si vuole nel momento in cui si sceglie di usufruire di un aiuto esterno.

Ciò che è importante ricordare è che i disturbi d'ansia presentano un elevato grado di trattabilità, ovvero possono essere curati con successo nella maggior parte dei casi. Nelle pagine seguenti verranno descritte le psicoterapie che meglio si prestano alla cura dei disturbi d'ansia e che hanno dimostrato nel tempo di possedere una notevole efficacia nel loro trattamento. Tali approcci terapici sono: la psicanalisi, la terapia Junghiana, la terapia Adleriana, l'ipnoterapia, la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia sistemica familiare, il training autogeno, la terapia breve strategica, l'analisi bioenergetica, l'analisi transazionale, la terapia della Gestalt, la logoterapia, la programmazione neurolinguistica, la terapia centrata sul cliente, la terapia di gruppo e altre ancora.

LA PSICANALISI

La psicanalisi è il risultato del lavoro svolto da Sigmund Freud (1856-1939) sui suoi pazienti che non rispondevano in maniera soddisfacente alla tecnica catartica (ipnosi) utilizzata prevalentemente dal suo collega Josef Breuer. I principi basilari della psicanalisi che egli sviluppò si discostavano parecchio dai precedenti metodi di cura; infatti prima dell'arrivo di Freud l'isteria e le nevrosi erano trattate con l'ipnosi o addirittura con l'elettroshock.

Freud introdusse molte novità, fra cui un metodo di cura basato sulla parola, sul discorrere; egli permetteva che i pazienti, dopo essersi distesi e rilassati su un divano, divenuto poi il famoso lettino dell'analista, dessero libero sfogo alle parole e al flusso dei propri pensieri. Attraverso questo metodo Freud tentava di vincere l'azione di censura delle tradizioni, della morale e degli imperativi sociali che impedivano ai pensieri delle persone di essere riportati a parole per quello che veramente erano. Si tratta del metodo delle libere associazioni, il quale prevede che i pensieri scorrano liberamente, senza alcuna logica razionale, trasformando in parole ciò che è presente nel profondo.

Questa parte profonda, denominata da Freud inconscio, forse il suo più importante contributo al pensiero moderno, rappresenta la parte più difficilmente accessibile della nostra mente, quella che nasce e continua a costituirsi nel corso della vita attraverso l'azione della rimozione. Tale meccanismo di difesa agisce sui pensieri dolorosi e inaccettabili, talmente insopportabili che la psiche li bandisce, relegandoli all'inconscio. In questo modo la persona perde la consapevolezza di tali pensieri e la sua mente non viene più perturbata da essi,

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almeno temporaneamente. Tuttavia può accadere che i traumi rimossi, pur non direttamente disponibili alla coscienza ma comunque presenti nell'inconscio, generino ansia e sentimenti negativi, i quali esercitano un'azione patologica sul comportamento umano.

Inoltre Freud introdusse il concetto di transfert, ovvero quel vincolo emotivo che si stabilisce tra paziente e analista, con il quale il paziente sposta sentimenti e pensieri relativi ad una relazione significativa della sua vita sull'analista. Nella concezione di Freud il transfert era indispensabile alla guarigione del paziente, in quanto lo rendeva parte attiva del processo terapeutico, aiutandolo a scoprire da sé il modo migliore per risolvere il suo trauma. Questo era un concetto nuovo e stupefacente per il tempo, in quanto fino a quel momento il paziente veniva considerato come parte passiva del processo terapeutico.

Il modello della mente umana sviluppato da Freud è costituito da tre parti fondamentali, dette istanze:

• Io. Rappresenta il substrato cosciente, ovvero ciò di cui si ha consapevolezza. L'Io ha la funzione di intermediario tra Es, Super-Io e la realtà esterna;

• Es. è la parte inconscia, la quale raccoglie e mantiene un enorme numero di informazioni che vengono rimosse dalla prima infanzia sino alla morte. L'Es è anche il serbatoio delle pulsioni sia sessuali che aggressive;

• Super-Io. è il "censore" della mente umana. È razionale e contiene tutte le norme morali; si oppone aspramente ai contenuti dell'Es che sono al contrario irrazionali e istintuali.

In una situazione di normalità i ricordi rimossi che stazionano nell'Es vengono bloccati dal Super-Io e non sono in grado di raggiungere l'Io, quando invece un qualsiasi elemento cosciente riesce a risvegliare un oggetto rimosso si sviluppa un conflitto tra il ritorno del rimosso e le resistenze del Super-Io. Freud chiama tale situazione nevrosi, oppure psicosi nel caso in cui l'alterazione sia così pesante da compromettere il contatto con la realtà e portare ad un disturbo di personalità.

Il metodo psicanalitico classico si basa sull'idea che le nevrosi scaturiscano dall'incapacità dell'Io di impadronirsi delle idee rimosse; in altri termini, per Freud la conoscenza della causa delle proprie sofferenze rappresenta di per sé un elemento di guarigione. Ovviamente gli oggetti rimossi non sono noti e non è possibile riportarli a galla se non utilizzando il metodo delle libere associazioni, attraverso il quale il paziente si sente in grado di parlare di qualsiasi argomento gli venga in mente, svincolato da qualsiasi regola, norma o giudizio.

La psicanalisi non va comunque intesa come una scuola di pensiero rigida e istituzionalizzata, infatti dopo le innovazioni di Freud parecchi altri autori hanno portato avanti le sue idee, sviluppando modelli anche molto diversi da quello originale, tutti basati però sui concetti fondamentali della psicanalisi sopra esposti. Carl Gustav Jung (1875 - 1961), allievo di Freud, sviluppò dopo la morte del maestro la psicologia analitica, che amplia ulteriormente il concetto di inconscio introducendovi l'inconscio collettivo, ossia un inconscio condiviso dall'intero genere umano, nel quale risiedono gli archetipi (per esempio la figura dell'eroe, del vecchio saggio, della madre buona ecc.). Anche Jung ricorse, come Freud, al concetto della libido, ma mentre per Freud la libido era un concetto collettivo delle tendenze sessuali dell'uomo, per Jung il termine libido era sinonimo di energia psichica, e a seconda che la libido fosse diretta preminentemente verso l'interno o verso l'esterno, Jung distinse tra introversione ed estroversione. Inoltre secondo Jung il fine ultimo dello sviluppo era rappresentato dall'autorealizzazione. Per raggiungere tale scopo è necessario che le diverse istanze della personalità si differenzino ed evolvano completamente. Una personalità sana ed integra si otterrà solo consentendo a ogni istanza di raggiungere il più alto grado di differenziazione e di sviluppo.

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Alfred Adler (1870 - 1937), il teorico della psicologia individuale, spostò la psicanalisi entro un orizzonte diverso, quello sociale; mentre per Freud tutto avveniva entro i confini dell'organismo, attraverso l'interazione di meccanismi biologici prevalentemente innati, per Adler l'interazione sociale aveva un ruolo centrale nello sviluppo della persona e, di conseguenza, dei disturbi. Adler sosteneva che ogni individuo, fin dalle prime fasi della sua esistenza, tende a compensare le sue insufficienze e incapacità strutturando a suo sostegno una complessa serie di opinioni e di modalità comportamentali. Questo concetto è alla base del complesso di inferiorità, il quale può essere superato dalla persona con la forza di volontà.

La terapia psicanalitica consiste dunque in un processo di scavo nel profondo, simile a quello dell'archeologo, che porta nel tempo alla scoperta delle cause dei conflitti e alla loro conseguente rielaborazione in termini non patologici. Il punto di forza della terapia è quello di cercare e spesso di trovare le cause della sofferenza psicologica, intervenendo su di esse e risolvendole in modo definitivo. La terapia ha una durata variabile in base al tipo di disturbo ed alle caratteristiche di personalità del paziente, ed in genere si protrae per qualche anno. Esistono tuttavia forme di terapia psicanalitica più brevi.

IPNOTERAPIA

La pratica della ipnosi ha una storia molto lunga. Esistono alcune testimonianze scritte riguardanti tale pratica che risalgono alla civiltà sumera; successivamente essa è stata adoperata per secoli in diverse pratiche orientali fra cui lo Yoga. Tuttavia fino al 1770 l’ipnosi non è mai stata utilizzata per scopi terapeutici. Il primo a farne questo uso è stato Franz Mesmer, il quale magnetizzava i suoi pazienti passando lievemente le mani aperte, dall’alto verso il basso, sul loro corpo. In seguito Milton Erickson eseguì degli studi che lo portarono ad elaborare un paradigma di intervento per la comprensione delle dinamiche ipnotiche.

Un altro fondamentale contributo alla tecnica ipnotica lo si deve a Jean Martin Charcot, che operò a Parigi nella seconda metà del diciannovesimo secolo e con il quale collaborò anche S. Freud. L’ipnosi è una tecnica terapeutica che si basa sulla provocazione di uno stato di trance nella persona; ottenuto ciò l’ipnoterapeuta procede con l’aiuto alla persona attraverso induzioni, ristrutturazioni, analogie, utilizzo di immagini mentali, ed altre tecniche finalizzate al raggiungimento degli obiettivi concordati con il paziente.

Esistono molte leggende, miti e luoghi comuni sull’ipnosi che vanno sfatati. Tali false informazioni traggono origine da fenomeni di disinformazione prodotti in gran parte dagli show televisivi e non solo, i quali spaventano molte delle persone che potrebbero ricavare beneficio da questo genere di terapia. Sono tanti infatti coloro che ritengono, senza possedere basi concrete per farlo, che l’ipnosi eserciti un controllo sulla persona che la vive e possa essere utilizzata per circuirla.

Sebbene siano possibili fenomeni come l’induzione di un’amnesia, o la perdita di coscienza durante una seduta ipnotica, non accade quasi mai che questi processi siano indotti nella pratica clinica e, cosa ancora più importante, va specificato che attraverso l’ipnosi non è possibile manipolare le persone in misura maggiore di quanto possa avvenire guardando uno spot commerciale o ascoltando un bravo oratore.

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Il lavoro dell’ipnoterapeuta consiste nell’analizzare il problema lamentato dal paziente e valutare quanto l’ipnosi possa aiutare la persona; svolta questa operazione preliminare, terapeuta e paziente decidono di comune accordo quale tecnica sia più adatta al caso, nel totale rispetto persona, delle sue esigenze e dei suoi valori.

L’ipnosi non rappresenta un rimedio a tutti i mali, tuttavia si presta in maniera particolarmente efficace a tutta una serie di sofferenze psichiche, fra cui i disturbi d’ansia. Il suo effetto positivo sulla riduzione degli stati d’ansia è stato comprovato da diversi studi.

La tecnica si basa sull’induzione di uno stato di rilassamento fisico e mentale nel paziente, il quale genera uno stato più ricettivo verso gli stimoli provenienti dal subconscio. Tale stato può essere ottenuto per esempio invitando la persona a concentrare i propri pensieri su un oggetto specifico. Attraverso l’ipnosi si creano i presupposti per poter accedere con maggiore facilità alle risorse interne della persona, risorse in grado di produrre effetti benefici, o anche solo permettere alla persona di vedere i problemi in maniera diversa e più costruttiva.

Il terapeuta, dunque, non ordina dall’esterno al soggetto ciò che deve fare o credere, bensì lo aiuta nella ricerca delle sue risorse interne che possono servirgli per stare meglio. Lo stato ipnotico non è un sonno profondo o uno stato di incoscienza completa: si tratta piuttosto di una sorta di dormiveglia in cui le difese razionali agiscono con meno efficacia. Nei metodi moderni si invita il paziente ad accomodarsi ad occhi chiusi su un lettino rilassante, o anche a rimanere in posizione eretta.

Un vantaggio della psicoterapia basata sull’ipnosi è quello di fornire risultati immediatamente visibili e percepibili, infatti essi sono evidenti già dopo le prime sedute

APPENDICE - Milton Erickson

A Milton Erickson è riconosciuta in campo internazionale la fama di massimo esponente dell’ipnosi medica. Erickson ha scritto più di cento articoli professionistici sull’ipnosi, che ha studiato e praticato sin dal 1920. In questo campo è riuscito più di ogni altro a esplorare e a dimostrare le enormi potenzialità che l’ipnosi può offrire all’umanità. All’opera di Erickson come ipnotista è stata prestata molta attenzione, sia nel descriverla che nel formalizzarla, mentre alla sua opera come terapeuta un’attenzione di questo tipo è quasi del tutto assente. Erickson è conosciuto da tempo sia per i suoi peculiari approcci terapeutici, sia per i suoi notevoli successi nell’aiutare gli altri a vivere una vita felice, piena e produttiva. Dal lavoro di Erickson nasce la terapia breve: “… Ecco, questa è la terapia breve. È terapia senza insight; senza questo andare a scavare nel passato e rimuginarlo di continuo, senza fine… Nel passato, non c’è nulla che si possa cambiare. Si vive domani, la settimana prossima, il mese venturo, speriamo l’anno venturo e si va avanti così, chiedendosi cosa c’è dietro il prossimo angolo, e godendosi la vita, mentre si va avanti”.

Non è facile spiegare la capacità di Erickson di escogitare rapide soluzioni per problemi complicati e cronici. “è necessario portare i pazienti a fare qualcosa”, soleva ripetere Erickson, “ed è questa la cosa importante della terapia… trovare le possibilità alla portata dei vostri pazienti e spingerli a metterle in atto” affinchè i pazienti possano vivere una esperienza emozionale correttiva “… e una volta che li avete riorientati, che gli avete messo il muso sulla strada, vanno”. così, i resoconti del lavoro di Erickson con i propri clienti, traboccano di esempi di persone alle quali vengono fornite esperienze che sembrano avere poco o nessun rapporto con la loro richiesta di aiuto originale, ma che alla fine si dimostrano del tutto efficaci nell’ottenere i cambiamenti ricercati.

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Erickson si assume molto la responsabilità di ciò che avviene nel corso della terapia. Decide di cosa ha bisogno il cliente in termini di nuove esperienze, in che modo debba effettuare queste nuove acquisizioni, e poi le dirige a farlo. Malgrado il suo attivo, direttivo orientamento nei confronti dei rapporti in terapia, Erickson è anche convinto che se è possibile assegnare la responsabilità del cambiamento al cliente, questa responsabilità, e il merito, vanno al cliente stesso. Il ruolo del terapeuta è quello di fornire al cliente le condizioni favorevoli per imparare, ma è dentro il cliente che il cambiamento avviene realmente, e qualsiasi cambiamento avvenga effettivamente, avviene a seguito degli sforzi del cliente. È una distinzione importante da fare, perchè fa passare il cliente da passivo ricettore di aiuto ad attivo agente del proprio avanzamento in direzione del cambiamento. Una conseguenza di questo modo di vedere è che in terapia gli sforzi di Erickson sono di solito diretti a far sì che il cliente faccia quelle cose nel mondo esterno che sono intese a fornirgli le esperienze di cui ha bisogno “Per fare sì che accettino la terapia, dovete colpire i pazienti nel modo giusto. Loro vogliono qualche cambiamento… non sanno che genere di cambiamento. Non sanno come fare questo cambiamento. Voi non fate altro che creare una situazione propizia e dire “Hop! Hop!” e mantenergli il muso sulla strada.”

Il punto di vista di Erickson nell’affrontare i problemi è di considerarli sempre come apprendimenti inadeguati e superati, che hanno bisogno di essere rivisti e sostituiti e non dei sintomi che sottintendono qualche cosa d’altro. Erickson preferisce vedere questi comportamenti come modelli di comportamento che una volta servirono a qualche scopo utile, ma che ora perdurano più per forza di abitudine che grazie alla funzione svolta. Il modello di Erickson così rende superfluo conoscere origine e significato del comportamento: è sufficiente alterare semplicemente in qualche modo l’inadeguato comportamento stesso. E così affermava “Ma chi ha bisogno dei sintomi? la sostituzione del sintomo… Oh, una bella superstizione. Se vi rompete la gamba, e la mettete dentro un’ingessatura per farla guarire, avete per caso bisogno di rompervi un braccio? Se aggiustate il braccio, dovete per forza rompervi una costola? Chi ha bisogno dei sintomi? Dovete assecondare il comportamento e far sì che il paziente desideri “Non voglio questo comportamento”. E in questo modo progredirete al massimo. Vedete, il passato non può essere cambiato. Lo potete esaminare in innumerevoli modi, e non arrivare da nessuna parte”

Con le parole di Jay Haley, suo grande allievo, “Milton Erickson è stato il primo terapeuta strategico. Potremmo perfino dire il primo terapeuta, perchè è il primo grande clinico che abbia concentrato l’attenzione su come cambiare le persone. In precedenza i clinici si erano dedicati alla comprensione della mente umana; erano esploratori della natura dell’uomo. Cambiare le persone aveva un interesse secondario. Cambiare le persone è stata invece la principale preoccupazione di Erickson in tutta la sua carriera: ricercare metodi per influenzare le persone”.

Milton Erickson, un uomo originale e creativo la cui grandezza attende ancora di essere del tutto compresa.

Bibliografia: Haley J. Cambiare gli individui Astrolabio 1987 Gordon D., Meyers-Anderson M. La psicoterapia ericksoniana Astrolabio 1984 Loriedo C., Nardone G., Watzlawick P., Zeig J. K. Strategie e stratagemmi della psicoterapia Franco Angeli 2002 Rampin M., Nardone G. Terapie apparentemente magiche McGraw-Hil 2002 Bandler R., Grinder J. La metamorfosi terapeutica Astrolabio 1980 Watzlawick P., Weakland J., Fish R. Change Astrolabio 1974 Watzlawick P. Il linguaggio del cambiamento Feltrinelli 1980 Fish R., Weakland J.H., Segal L. Change. Le tattiche del cambiamento. La psicoterapia in tempi brevi. Astrolabio 1983

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TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

La storia della psicoterapia cognitivo-comportamentale è molto lunga; infatti non è nata come orientamento teorico a sé stante, ma ha fatto propri concetti eterogenei fra loro provenienti da approcci diversi appartenenti a periodi storici differenti. La seconda parte del nome (comportamentale) deriva dal comportamentismo, una prospettiva teorica sviluppata agli inizi del ventesimo secolo grazie agli studi di John B. Watson e I.P. Pavlov. Tale disciplina studiava il comportamento osservabile, ovvero le risposte delle persone a determinati stimoli ambientali, e come tali risposte potevano essere modificate introducendo dei condizionamenti (Condizionamento: processo attraverso il quale si verifica l'associazione di uno stimolo neutro (incondizionato) ad uno artificiale (condizionato). Per esempio: il suono di un campanello (stimolo neutro) che provoca l'aumento della salivazione in un cane poiché esso viene associato alla presenza del cibo (stimolo condizionato). A questo punto il suono del campanello non è più uno stimolo neutro ma diventa a sua volta uno stimolo condizionato (Esperimento di Ivan Pavlov) . Gli studi svolti in questo ambito si sono rivelati particolarmente fruttuosi nel campo delle fobie, introducendo tecniche molto efficaci per desensibilizzare un individuo verso un oggetto o una situazione temuti.

Il cognitivismo, da cui deriva la prima parte del nome, si è invece sviluppato negli anni sessanta, e il suo interesse è rivolto ai processi mentali che permettono di strutturare le proprie esperienze, di dare loro un senso e di metterle in relazione le une con le altre. Secondo tale prospettiva alla base di ogni disturbo psichico vi sono delle distorsioni di pensiero, le quali generano assunti sbagliati e convinzioni irrazionali. Tali distorsioni si trasformano nel tempo in veri e propri schemi di pensiero relativamente stabili, che portano l'individuo ad entrare in un circolo vizioso che si autoalimenta. Per esempio, una persona che creda di dover essere perfetta in tutto ciò che fa, tenderà a provare sentimenti estremamente negativi ogni volta che commette un errore.

Alla base di queste emozioni negative c'è un errore di pensiero, di interpretazione. Albert Ellis, negli anni sessanta, ha sviluppato un tipo di terapia, definita terapia razionale-emotiva, che si occupa proprio di questi pensieri distorti, aiutando il paziente a metterli in discussione e a sostituirli con altre idee, come: <<Anche se sarebbe stupendo non commettere mai errori, ciò non significa che devo essere perfetto>>. In questo modo, la persona che fino a quel momento vedeva le cose da un solo punto di vista, quello disadattivo, impara lentamente a fare uso di ragionamenti diversi che si basano su interpretazioni differenti delle esperienze.

Altro aspetto fondamentale di questo approccio terapico è il lavoro sulle emozioni che viene svolto dal paziente con l'aiuto del terapeuta, attraverso il quale la persona impara a riconoscere e controllare le proprie emozioni. Infatti le emozioni vengono considerate come il prodotto delle cognizioni dell'individuo e della sua interpretazione della realtà. Allo stesso tempo, la terapia cognitivo-comportamentale va ad agire direttamente sul comportamento; ai nuovi pensieri, rielaborati e resi più funzionali, vengono accompagnati comportamenti coerenti. Diviene così possibile per la persona costruire

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nuovi paradigmi di interpretazione e di comportamento che si mantengono nel tempo, poiché con la pratica divengono loro stessi degli schemi di pensiero e di comportamento consolidati. Un'altra terapia efficace è quella di A.T. Beck. Riassumendo, è possibile schematizzare le caratteristiche della terapia cognitivo-comportamentale nei seguenti punti:

• Mirata allo scopo. All'inizio della terapia, previa una approfondita valutazione diagnostica, vengono concordati gli obiettivi da raggiungere, viene stabilito un piano di trattamento che si adatti alle esigenze del singolo, vengono previsti i tempi e le modalità di verifica per il raggiungimento dei cambiamenti auspicati;

• Attiva e collaborativa. Terapeuta e paziente lavorano insieme per riconoscere e modificare le modalità di pensiero a partire dalle quali si originano i problemi emotivi e di comportamento. Il terapeuta propone le strategie cognitive e comportamentali per la soluzione dei problemi, il paziente avrà il compito di mettere in pratica le strategie apprese durante gli incontri nello spazio tra una seduta e l'altra;

• Centrata sul presente. Il lavoro terapeutico, soprattutto quando mirato alla soluzione di sintomi specifici, si basa sull'elaborazione di quello che succede nella vita attuale della persona. L'attenzione al passato e alla storia personale è sicuramente importante in fase diagnostica e in alcune categorie di intervento, ma normalmente la terapia cerca innanzitutto di far uscire il paziente dai paradossi mentali in cui è caduto;

• A breve termine. In genere gli interventi variano, in funzione del tipo di problema, dai tre ai dodici mesi. In ogni caso i cambiamenti vengono monitorati a scadenze prestabilite in partenza, ed è quindi possibile la valutazione dell'efficacia dell'intervento;

• Integrabile e flessibile. Nei casi di particolare gravità si presta a sinergie con il trattamento psicofarmacologico; rappresenta inoltre un riferimento teorico e strategico centrale nei programmi complessi di riabilitazione psicosociale per pazienti psichiatrici;

• Efficace a lungo termine. Come già affermato in precedenza le tecniche cognitivo-comportamentali si prestano facilmente a una misurabilità dei risultati che riescono ad ottenere. Le ricerche effettuate finora, in studi replicabili, dimostrano che, per una vasta gamma di disturbi, fra cui quelli d'ansia, i cambiamenti ottenuti con queste tecniche si mantengono a lungo nel tempo

APPENDICE : La Terapia razionale-emotiva di Albert Ellis

La RET rientra nel gruppo delle psicoterapie ad orientamento umanistico (A. Ellis, 1973), ed è stata sviluppata negli anni ‘50 dallo psicologo clinico statunitense Albert Ellis. Possiamo ritrovare in Paul Dubois, psichiatra svizzero, un precursore di questo approccio, in quanto egli già all’inizio del XX secolo basava il suo metodo sulla convinzione di poter modificare le idee erronee dei pazienti per mezzo di quella che chiamava ‘psicoterapia razionale’.

Secondo Ellis, i disturbi della sfera emotiva sarebbero il risultato di pensieri illogici e irrazionali, orientati verso l’assolutezza nei giudizi e una rigida concezione di ciò che si ‘deve essere’ (A. Ellis, R. A. Harper, 1975; A. Ellis, R. Grieger, 1977); reazioni emozionali prolungate sono causate da asserzioni su di sé che l’individuo ripete a se stesso e che riflettono talvolta assunti inespressi, convinzioni irrazionali circa ciò che è necessario per condurre un’esistenza significativa.

Uno dei compiti della terapia è dunque quello di individuare e chiarire queste credenze irrazionali, ingiustificate e nocive al benessere del paziente attraverso una disamina razionale,

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per sostituirle con altre più realistiche e flessibili, maggiormente utili per l’adattamento del soggetto. Ad esempio, persone ansiose possono crearsi dei problemi ponendo a se stesse o ad altri richieste non realistiche, come ‘devo riuscire a farmi voler bene da tutti. Ellis sostiene che le persone interpretano ciò che avviene intorno a loro, e talvolta tali interpretazioni possono generare gravi turbamenti emotivi; l’attenzione del terapeuta dovrebbe essere quindi rivolta a queste convinzioni, piuttosto che alle cause biografiche del disturbo o allo stesso comportamento manifesto (Ellis, 1962, 1964).

Per fare questo, il terapeuta si avvale di specifici metodi atti ad individuare in maniera accurata e puntuale i sistemi cognitivi dei pazienti, definendoli attraverso tre momenti: evento attivante, sistema di credenze e conseguenze comportamentali. L’attenzione di questo approccio è centrata sulle modalità cognitive individuali di costruzione della realtà e della sua interpretazione. Le tecniche adottate riflettono questi assunti di fondo, e comprendono anche l’atteggiamento emotivo del terapeuta, il quale deve accettare, tollerare e validare l’esperienza emotiva del paziente, così come altri metodi comportamentali come il condizionamento operante, la desensibilizzazione sistematica, il biofeedback e metodi cognitivi atti a mostrare in modo didattico-illustrativo l’origine delle ‘false credenze’.

Recentemente (1993b) Ellis ha iniziato a porre in rilievo l’autorealizzazione, incoraggiando i pazienti a sperimentare e infine scegliere il proprio percorso di autorealizzazione; questo spostamento di interesse concede una considerevole autonomia al paziente nel facilitare il proprio recupero. In ogni caso, la terapia razionale-emotiva incoraggia il terapeuta ad essere alquanto direttivo. L’ambito applicativo più mirato riguarda i pazienti con disturbi non gravi, che possiedono buone capacità intellettive e sufficiente forza dell’Io per accettare ed intraprendere i cambiamenti richiesti (T. B. Karasu, 1984); i sostenitori di questo approccio riportano vari esempi di casi trattati, dai disturbi d’ansia, a quelli dell’umore, di tipo sessuale, a problematiche di coppia, adolescenziali, fino a disturbi più gravi di personalità e psicotici.

Riferimenti bibliografici: Ellis A., (1973), Humanistic psychotherapy: The rational-emotive approach, McGraw-Hill, New York; Ellis A., Harper R. A. (1975), A new guide to rational living, Wilshire Books, North-Hollywood, CA; Ellis A., Grieger R. (1977), Handbook of rational-emotive therapy, Springer, New York; Ellis A., (1962), Reason and emotion in psychotherapy, New York: Lyle Stuart; Ellis A., (1993b), Fundamentals of rational-emotive therapy (RET) for the 1990s. In W. Dryden & L. Hill (Eds.), Innovations in rational-emotive therapy. Newbury Park, CA:Sage; Karasu, T. B., (1984), The psychiatric therapies, APA, Washington, DC.

APPENDICE : La terapia cognitiva di Aaron T. Beck nella depressione

Secondo Beck numerosi disturbi, ed in particolare la depressione, sono causati da convinzioni negative che gli individui nutrono riguardo a se stessi, al mondo e al futuro. Queste convinzioni disfunzionali, o schemi negativi, vengono mantenuti grazie ad uno o più preconcetti o errori di logica, quali l’interferenza arbitraria o l’estrapolazione selettiva.

La finalità generale della terapia cognitiva di Beck è fornire al paziente esperienze, sia all’interno che all’esterno dello studio medico, in grado di modificare gli schemi negativi in maniera favorevole.

In questo modo, un paziente che in base al suo schema di incapacità si lamenta della propria stupidità per aver bruciato un arrosto, viene incoraggiato a considerare spiacevole l’errore, ma a non ipergeneralizzarlo e a concludere, in base ad uno schema di disperazione, di non essere in grado di fare nulla di buono nemmeno in futuro. Il terapeuta cerca di spezzare il circolo vizioso indotto da uno schema negativo che alimenta un procedimento illogico, che a sua volta alimenta lo schema negativo. I tentativi di modificare il pensiero negativo vengono attuati sia a livello comportamentale che cognitivo.

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Una tecnica comportamentale utile per coloro che sono convinti di essere permanentemente depressi e che si deprimono ancor più gravemente a causa di questa loro convinzione, consiste nel far tenere loro un diario in cui registrare il proprio umore a intervalli regolari durante la giornata. Se dal diario risulta una certa variabilità del tono dell’umore, come in realtà spesso accade anche in soggetti molto depressi, questa informazione può servire a mettere in discussione la convinzione dei pazienti che la loro esistenza sia sempre triste. Questa modificazione del pensiero può servire allora da base di partenza per un cambiamento del comportamento, come alzarsi dal letto al mattino, fare alcuni lavori di casa o addirittura recarsi al lavoro.

Analogamente, gli individui depressi sono spesso abulici (Abulia: è uno dei sintomi della depressione. Impedisce di prendere decisioni in maniera autonoma, di imporre i propri desideri, di intraprendere qualsiasi iniziativa), perché qualsiasi compito sembra loro insormontabile e si ritengono degli incapaci. Per mettere alla prova questa convinzione, o schema, di insormontabilità, il terapeuta suddivide un particolare compito in tante piccole fasi e incoraggia il paziente a concentrarsi solo su una fase alla volta. Se tale procedura è gestita con abilità - e a questo scopo è ovviamente indispensabile un buon rapporto terapeutico - il paziente scopre di riuscire in realtà a fare qualcosa. I suoi progressi vengono poi discussi con il terapeuta, il quale dimostra al paziente che essi sono incompatibili con la sua convinzione di non possedere capacità sufficienti a svolgere alcun compito. Quando l’opinione che il paziente ha di sé comincia a cambiare, compiti di maggiore difficoltà appaiono meno insormontabili e il successo può alimentare altro successo, con ulteriori cambiamenti benefici nelle convinzioni del soggetto su se stesso e sul mondo.

La terapia di Aaron T. Beck è basata sulla collaborazione tra terapeuta e paziente; essi infatti lavorano come una coppia di ricercatori per scoprire ed esaminare qualunque interpretazione disadattiva del mondo che possa aggravare la depressione del paziente. Essi cercano di portare alla luce sia i pensieri automatici che gli assunti disfunzionali. I pensieri automatici sono quelle cose che diciamo a noi stessi o che immaginiamo durante le attività quotidiane, il constante dialogo che intratteniamo con noi stessi mentre guidiamo l’auto, ascoltiamo un amico parlare o guardiamo la gente che attraversa la strada. Di solito i pazienti hanno bisogno di molta pratica per riuscire a rendersi conto di pensieri e di immagini di questo tipo, specialmente di quelli associati al loro umore depresso. Per esempio, un genitore ascolta un figlio che gli dice di aver preso un brutto voto in un compito in classe e subito pensa: “Come genitore sono un fallimento”. Dopo di che si sente molto depresso. Il terapeuta aiuta il paziente a monitorare questi pensieri e insieme essi ne esaminano la validità.

Perché i problemi scolastici di suo figlio dovrebbero significare che lei è un cattivo genitore? Che cos’altro può influire su un figlio e determinarne il rendimento scolastico? Il questo modo il terapeuta insegna al paziente a verificare i propri pensieri sulla base delle informazioni disponibili e a formulare ipotesi che attribuiscano l’insuccesso scolastico del figlio a fattori che esulano dalle sue qualità di genitore. La fase dell’identificazione e della modificazione dei pensieri automatici è seguita da una fase più complessa e delicata: l’identificazione degli assunti, degli schemi o delle convinzioni disfunzionali soggiacenti. Questi possono essere paragonati al leitmotiv in musica, cioè ad un tema dominante ricorrente. Il genitore può arrivare a rendersi conto di sentirsi responsabile del benessere e della felicità di tutta la sua famiglia, ivi compreso il rendimento scolastico del figlio. Il terapeuta può esaminare con il paziente le implicazioni del peggiore dei casi possibili, cioè che davvero fosse comprovato che egli non è affatto un genitore onnipotente. È questa una realtà per cui valga la pena sviluppare una depressione clinica? La sua preoccupazione e il suo desiderio di fare qualcosa per i problemi del figlio è certamente comprensibile, ma queste reazioni possono spingere la persona ad agire in modo nuovo piuttosto che gettarla nella disperazione.

Come può il terapeuta aiutare la persona a modificare i suoi assunti disfunzionali? Oltre che persuaderlo con le parole, egli potrebbe incoraggiare il paziente a comportarsi in modo non

conforme a tali assunti. Per esempio, una persona che crede di dover soddisfare le richieste di chiunque nel suo ufficio, può provare a rifiutare la prima richiesta irragionevole che le venga fatta e vedere se, come ha sempre pensato, davvero le cadrà il mondo addosso. Se la situazione è stata analizzata in anticipo in maniera adeguata dal paziente e dal terapeuta, e questo è chiaramente un passo necessario, la persona può sperimentare cosa accade quando agisce contrariamente alla sua convinzione assoluta. La terapia di Beck, come altre che si prefiggono l’obiettivo di modificare il pensiero, è difficile da mettere in pratica. I pazienti probabilmente non sarebbero depressi se fosse facile convincerli, attraverso esperienze positive di padronanza e di competenza, che essi sono individui che valgono e meritano rispetto.

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TERAPIA SISTEMICA FAMILIARE

L'approccio sistemico familiare, come spesso accade, non ha un punto di origine preciso; le sue radici possono essere fatte risalire alla fine degli anni '40 e agli anni '50, quando iniziano a sorgere gruppi di lavoro, non necessariamente coordinati fra loro, che si interessano al rapporto tra malattia mentale e famiglia. Questo interesse si sviluppa in seguito ad un certo livello di insoddisfazione registrato da alcuni psicologi nell'applicazione del modello psicanalitico ortodosso nella trattamento dei bambini. Chi lavorava nell'ambito infantile sentiva la necessità di coinvolgere maggiormente i genitori, cosa non praticabile con la psicanalisi classica che si basa su un rapporto di tipo paziente-terapeuta. Inoltre, il contemporaneo sviluppo di nuove discipline, quali l'antropologia e la sociologia, offriva un contributo significativo alla conoscenza dei contesti in cui l'individuo vive, e in particolare allo studio delle influenze che le relazioni e l'organizzazione familiare giocano sullo sviluppo della personalità. Un grosso contributo alla elaborazione del modello sistemico è stato offerto anche dai pionieri delle teorie cibernetiche, che hanno aperto la strada alle considerazioni che conducono poi gli autori appartenenti alla cosiddetta Scuola di Palo Alto (fra cui Beavin, D. D. Jackson, P. Watzslawik ecc.) e a Gregory Bateson di mettere a fuoco il modello che successivamente si è evoluto nella direzione della terapia sistemica che oggi conosciamo. In questa prospettiva la famiglia viene vista come un sistema, ossia come un'entità che possiede caratteristiche, regole e norme proprie; diviene così possibile comprendere i meccanismi e le dinamiche di tale sistema nel momento in cui si analizzano e rendono chiari i criteri alla base del suo funzionamento. Questo è lo stesso principio che sta alla base della società organizzata all'interno della quale ogni persona possiede un suo posto, un suo ruolo e interagisce con gli altri. La famiglia, che a sua volta è inserita in un contesto più ampio che è quello della società, possiede dunque una sua struttura di regole e meccanismi che la portano ad evolvere in un certo modo e, ogni suo membro, contribuisce al suo sviluppo. Ogni membro del sistema esercita una serie di effetti, di influenze, sugli altri membri; al tempo stesso tali influenze si ripercuotono sul sistema intero della famiglia. A differenza degli altri approcci che si basano sull'individualità della persona, nella terapia della famiglia l'individuo viene considerato una parte del tutto, che è appunto il sistema. Secondo la prospettiva sistemica, l'individuo è in grado di influire sul contesto, come il contesto influisce sull'individuo. Premesso questo, la persona che soffre viene inquadrata come "espressione" di un contesto a sua volta sofferente, nel quale esistono degli squilibri che provocano influenze negative su di essa. Tuttavia, la stessa persona sofferente fa parte del sistema famiglia, ed è quindi parzialmente responsabile della situazione che si è creata.

Il paziente, allora, non è solo colui che subisce ed esibisce un sintomo, ma, paradossalmente, diviene esso stesso un sintomo: quello di una famiglia disfunzionale. Ciò non significa che la causa del suo disagio sia dovuta a colpe personali, ma che comunque la persona contribuisce a mantenere in vita delle dinamiche familiari disfunzionali. Per esempio, se un adolescente soffre di una forte ansia e i membri della sua famiglia essendone al corrente lo proteggono in maniera eccessiva, evitandogli costantemente il confronto con le sue paure, egli tenderà a mantenere vive le sue paure; contemporaneamente dipenderà in maniera sempre maggiore dagli altri membri della famiglia, mantenendo in vita tale dinamica disfunzionale. La terapia della famiglia ha costruito quindi la sua metodologia clinica intorno all'idea che il disagio psichico può essere colto attraverso l'osservazione delle relazioni umane.

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Da questi presupposti la teoria generale dei sistemi ha condotto alla elaborazione di una forma di terapia che parte dall'idea che:

• Una malattia psicologica presenta una serie di schemi relazionali che si ripetono con costanza. Sono dunque stabili.

• Per fare in modo che vi sia un cambiamento/miglioramento è necessario interrompere o modificare questi schemi.

• Quando vengono interrotti o modificati tali schemi relazionali si apre una fase caratterizzata da un periodo di riorganizzazione del sistema individuo-famiglia-società.

In quest'ultima fase del processo si inserisce l'operazione terapeutica, attraverso la quale, il terapeuta, con i suoi strumenti e la sua esperienza accompagna il processo di cambiamento verso una direzione non più patologica TRAINING AUTOGENO

Il Training Autogeno è una tecnica di rilassamento ideata nella prima metà del ventesimo secolo da Johannes Heinrich Schultz, neurologo e psichiatra, nato nel 1884 a Gottingen. Da allora il Training Autogeno si è diffuso in tutto il mondo e ha subìto un grande numero di verifiche sperimentali.

L'obiettivo di Schultz, quando pensò a questo tipo di terapia, era quello di rendere il paziente meno vincolato al terapeuta e divenire lui stesso, in prima persona, autore del proprio miglioramento e del proprio benessere. Con il termine Training Autogeno (T.A.) Schultz definì un metodo di autorilassamento attraverso la concentrazione mentale, il quale consente di alleviare tensioni sia psichiche che corporee. Come indica il nome stesso, il Training Autogeno è una tecnica di allenamento che "si genera da sé", ovvero l'individuo la mette in pratica in prima persona sotto la guida di un esperto. Una volta appresi, gli esercizi possono essere praticati da soli a casa propria. Il metodo di allenamento del Training Autogeno prevede l'insegnamento preliminare di alcune posizioni corporee, da sdraiati e da seduti, che possano facilitare la successiva acquisizione degli esercizi di rilassamento. Il Training Autogeno, infatti, è costituito da una serie di esercizi standard, che si riferiscono a sei distretti fisiologici: muscolare, vascolare, cardiaco, respiratorio, addominale e cefalico. Gli esercizi si dividono in due fondamentali:

1. esercizio della pesantezza: produce uno stato di rilassamento muscolare, ovvero di rilassamento dei muscoli striati e lisci;

2. esercizio del calore: produce una vasodilatazione periferica con conseguente aumento del flusso sanguigno.

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E alcuni complementari:

• esercizio del cuore: produce un miglioramento della funzione cardiovascolare; • esercizio del respiro: produce un miglioramento della funzione respiratoria; • esercizio del plesso solare: produce un aumento del flusso sanguigno in tutti gli organi interni; • esercizio della fronte fresca: può favorire l'eliminazione di eventuali mal di testa, poiché produce un leggera vasocostrizione nella regione encefalica.

Tale tecnica di rilassamento, pertanto, ha molteplici scopi; da un lato si propone di ottenere un controllo muscolare e viscerale, dall'altro il raggiungimento di uno stato soggettivo di benessere fisico e mentale. Chi ha acquisito una certa familiarità con la pratica del T.A. È in grado di giungere alla modificazione di alcuni parametri fisiologici necessari per fronteggiare le situazione di stress, di tensione e di ansia. Con il Training Autogeno si acquisiscono maggiori sicurezza e fiducia, si è in grado di rimanere più calmi e distesi e diviene possibile scaricare in maniera minore le tensioni sui vari organi, ottenendo efficaci interventi sui disturbi psicosomatici. Il Training Autogeno non presenta controindicazioni e chiunque, quindi, può trarne beneficio; i settori di applicazione di questa tecnica sono molteplici. Risulta particolarmente indicato per le persone che per motivi diversi sostengono dei ritmi di vita molto accelerati e stressanti. Lo stress rappresenta una seria minaccia per la salute e per il benessere dell'organismo, e può produrre una lunga serie di effetti nocivi, quali l'ansia, l'irritabilità, il calo del desiderio sessuale, il mal di testa, la stanchezza diffusa e così via. Tutti sintomi che il Training Autogeno permette di prevenire, ridurre ed eliminare.

Il T.A. È consigliato in modo particolare a chi soffre di ansia, attacchi di panico e insonnia

APPENDICE : Il Training Autogeno di J.H. Schultz

Training significa “allenamento” e Autogeno “che si genera da sé”. Il Training Autogeno è un metodo pratico di psicoterapia che agisce sull’unità psico-somatica e determina modificazioni fisiche e psicologiche apprezzabili nell’individuo, consentendo di intervenire su numerosi disturbi funzionali in tempi relativamente brevi. “Training significa “allenamento”, cioè apprendimento graduale di una serie di esercizi di concentrazione psichica

passiva, particolarmente studiati e concatenati, allo scopo di portare progressivamente al realizzarsi di spontanee

modificazioni del tono muscolare, della funzionalità vascolare, dell’attività cardiaca e polmonare, dell’equilibrio

neurovegetativo e dello stato di coscienza.”. (G. Crosa)

La tecnica è stata ideata da J.H.Schultz, neurologo berlinese (1884-1970) e studioso di ipnosi; dopo circa un decennio di ricerche, egli espose nel 1932 questa tecnica di autodistensione psichica e somatica, che ha il fine di ristabilire

equilibri funzionali alterati, decondizionare

situazioni patologiche, e trasferire dinamismi positivi negli strati più profondi della personalità. Servendosi di tecniche

autoipnotiche, si apprende gradualmente una serie di sei esercizi volti a modificare il tono muscolare, la funzionalità

vascolare, l’attività cardiaca e polmonare fino all’equilibrio neurovegetativo e lo stato di coscienza. (Galimberti,

Dizionario di Psicologia).

Il fine è raggiungere una condizione di cosciente passività, che si realizza quando il soggetto si lascia andare ad un atteggiamento d’indifferente contemplazione di quanto spontaneamente accade nel proprio organismo e nella propria mente. In seguito all’apprendimento di questa tecnica ed all’allenamento quotidiano del paziente, si sviluppano spontaneamente modificazioni psichiche e somatiche di senso opposto a quelle provocate nella nostra mente da uno stato di tensione, di ansia e stress.

Il fondamentale principio autogeno è l’ autogenicità: affinché questa si realizzi è importante che il paziente svolga gli esercizi in modo costante e autonomo; il compito del terapeuta è dunque quello di illustrare progressivamente il metodo,

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supervisionare il lavoro individuale del paziente e favorire l’elaborazione del vissuto che emerge durante l’apprendimento degli esercizi. Diversamente dunque dall’ipnosi, il Training Autogeno cerca di ridurre gli effetti suggestivi e di fornire al paziente uno strumento che possa poi essere utilizzato in modo autonomo. I sei esercizi somatici- detti anche “di base” o “standard” consentono il raggiungimento della distensione concentrativi in modo progressivo in questi settori:

1. Muscoli 2. Vasi sanguigni 3. Cuore 4. Respirazione 5. Organi addominali 6. Capo

Gli effetti diretti del T.A. sull’individuo si possono così riassumere: un più profondo e rapido recupero di energie, autoinduzione alla calma tramite il rilassamento interiore, autoregolazione di funzioni corporee involontarie (apparato cardiocircolatorio, respiratorio, viscerale) miglioramento della capacità di concentrazione e delle prestazioni mnemoniche, diminuzione della percezione del dolore (attraverso la modificazione del vissuto di sofferenza) autodeterminazione per mezzo di proponimenti che permettono di superare specifiche difficoltà, introspezione e autocontrollo attraverso l’ascolto del proprio corpo, quel “tuffo in se stessi” (Schultz) che permette una miglior coscienza di sé. Il T.A. fa riferimento al concetto bionomico dell’individuo in cui le componenti fisico-biologiche e psichiche sono interdipendenti; tale teoria si basa sulla considerazione che un cambiamento a livello fisico comporta modificazioni a livello psicologico, così come uno stato di tensione emotiva può presentarsi anche con sintomi di tipo prevalentemente fisico. Gli interventi sono dunque rivolti all’individuo nella sua totalità ed interezza, all’unità mente-corpo. Il Training Autogeno fu inizialmente ideato come parte integrante della psicoterapia bionomica, e comprendeva anche gli esercizi del ciclo superiore -non più orientati sul soma ma sulla psiche. E’ stato successivamente sviluppato come pura tecnica psico-corporea soprattutto dagli allievi di Schultz, che ne hanno intuito la larga applicabilità non solo in patologia, anche in ambiente non-clinico, come tecnica di prevenzione (nelle partorienti, nella psicologia del lavoro, dello sport e scolastica).

Tempi e modalità del T.A. L’apprendimento della tecnica, sia individualmente sia in gruppo, prevede circa 10 incontri con cadenza settimanale; particolare attenzione è posta nel colloquio preliminare alla valutazione dell’idoneità psico-fisica del soggetto per evidenziare controindicazioni o particolari situazioni che richiedono una modificazione alla tecnica standard o la supervisione di un medico.

Altre tecniche di rilassamento

Il training autogeno prevede l’apprendimento graduale della tecnica in modo che il paziente si renda progressivamente indipendente dal terapeuta, raggiungendo sempre più autonomamente lo stato autogeno; il T.A. rappresenta dunque un percorso di conoscenza, di consapevolezza dei propri vissuti psicologici attraverso il proprio corpo: ciò richiede, oltre alla motivazione, anche una certa costanza nel tempo, in quanto solitamente i dieci incontri che presuppone la tecnica si svolgono settimanalmente, per un periodo totale di circa 3 mesi. Ove non sia possibile applicare il Training Autogeno, per motivazioni di tempo o per alcune controindicazioni cliniche, esistono altre tecniche di rilassamento, che agiscono prevalentemente sull’apparato muscolare e vascolare (dunque con un approccio più centrato sul corpo che sulla psiche) e che permettono di ottenere un buon rilassamento generale.

Rilassamento frazionato di O.Vogt: è una tecnica di rilassamento a cui si è ispirato lo stesso Schultz, collaboratore di O.Vogt, e diretta dal terapista; si acquisisce più velocemente rispetto al T.A., ma contiene ancora alcuni aspetti suggestivi. Interessa l’apparato muscolare, vascolare e respiratorio, e favorisce la visualizzazione di immagini. Vi è una forma “breve” e una forma “completa”.

Rilassamento muscolare progressivo di Jacobson: questa tecnica è stata proposta da Jacobson e attualmente è inserita spesso all’interno di trattamenti psicoterapeutici di ispirazione cognitivo-comportamentale; interessa specificamente l’apparato muscolare e il lavoro con il paziente si basa sulla contrazione di specifici muscoli e l’osservazione della sensazione che accompagna il successivo rilassamento muscolare.

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TERAPIA BREVE STRATEGICA

La terapia breve strategica nasce in seguito alla teoria della comunicazione sviluppatasi in campo antropologico grazie agli studi di Gregory Bateson, agli sviluppi costruttivisti introdotti dalla cibernetica (Heinz von Foerster, Ernst von Glasersfeld) e agli studi sull'ipnosi e sulla suggestione di Milton Erickson. Nei tempi più recenti si deve alla feconda tradizione della Scuola di Palo Alto (Bateson, Jackson, Watzlawick, Weakland) la formulazione del modello strategico di psicoterapia breve. Negli anni '70, infatti, il gruppo del MRI (The Mental Research Institute of Palo Alto) presenta alla comunità dei terapeuti i risultati del progetto "Brief Therapy Center".

La terapia breve strategica, nella forma utilizzata attualmente, deve la sua formulazione alla collaborazione tra Paul Watzlawick e Giorgio Nardone, la quale ha portato l'evoluzione della terapia verso una forma di avanzata tecnologia terapeutica che ha dimostrato la sua sorprendente efficacia ed efficienza nella sua applicazione alle più invalidanti e persistenti forme di patologia (panico, fobie, ossessioni e compulsioni, disordini alimentari, presunte psicosi, etc.).

Il concetto fondamentale su cui si basa l'approccio della terapia breve strategica è costituito dalla convinzione che i disturbi psichici siano generati a partire dalle modalità percettive, emotive e cognitive che le persone assumono nei confronti della realtà favorendo, in questo modo, reazioni e comportamenti disfunzionali i quali, invece di risolvere, alimentano il problema di cui si soffre.

La terapia breve strategica ha come scopo principale la rottura di quel particolare circolo vizioso che si viene a creare tra la manifestazione del disturbo ed il comportamento disadattivo che la persona mette in atto nel tentativo di risolverlo, ma che finisce, invece, per alimentarlo ed aggravarlo ulteriormente. La struttura del metodo si esprime in 3 fasi:

• Studio delle caratteristiche specifiche di un problema.

• Rilevazione delle soluzioni già tentate per risolverlo.

• Cambiamento delle soluzioni disfunzionali che, invece di risolvere il problema, lo alimentano, con altre che si sono sperimentalmente dimostrate funzionali agli effetti desiderati.

La caratteristica peculiare di questo approccio terapico consiste, dunque, nell'interessamento verso il "come" un disturbo sia strutturato e si autoalimenti, e non verso il "perché" esso si sia sviluppato. In questo modo le energie del terapeuta e del paziente vengono totalmente concentrate sul disturbo così come si manifesta nel presente, evitando di allungare i tempi del processo terapico nella ricerca delle cause del problema, le quali sono spesso remote e difficilmente rintracciabili.

In sostanza, il metodo strategico si propone di modificare il modo di vedere le cose della persona che soffre di un disturbo; tale risultato può essere raggiunto attraverso una ristrutturazione del modo dimostratosi disfunzionale di percepire e reagire alla realtà. La ristrutturazione del proprio punto di vista inizia già durante le prime sedute, nelle quali la persona impara ad accedere a risorse che già possedeva ma che non era in grado di sfruttare, creandosi una nuova maniera di vedere e percepire ciò che fino a poco prima rappresentava un problema. La terapia breve strategica, in particolare, ha elaborato specifici protocolli di trattamento per attacchi di panico, agorafobia, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, ipocondria, disordini alimentari (anoressia, bulimia, sindrome da vomito), depressione, disturbi sessuali, disturbi dell'età evolutiva, problemi della famiglia e problemi di coppia

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L'ANALISI BIOENERGETICA (a cura della dott.ssa Rita Gagliardi, psicologa psicoterapeuta specializzata in Analisi Bioenergetica)

Se la Psicoanalisi rappresenta un contributo fondamentale nella storia della psichiatria e nella storia dell'uomo, l'Analisi Bioenergetica è una pietra miliare nello studio dei rapporti tra Psiche e Corpo.

Essa è opera di Alexander Lowen che edifica sulle basi gettate dal suo maestro Wilhelm Reich. Questi per primo si era interessato alle rigidità corporee come espressioni psichiche, come blocchi muscolari cronici di origine psicologica. Successivamente A. Lowen compie un prezioso lavoro di approfondimento sia sul piano teorico che metodologico, sia come modello teorico che come approccio psicoterapeutico. Con l'Analisi Bioenergetica le scoperte psicoanalitiche vengono studiate nelle relazioni con il piano biologico.

Mente - Corpo come "Unità"

La parte psichica e quella corporea erano già state menzionate dalla psicoanalisi come coesistenti. Con A. Lowen questa coesistenza si tocca e si verifica in modo chiaro e affascinante. Per cogliere in modo semplice il rapporto Mente-Corpo possiamo soffermarci sui nostri vissuti interni quotidiani. Sappiamo tutti, ma non ci prestiamo attenzione, che le nostre emozioni non sono scindibili dal livello corporeo e muscolare: se proviamo gioia i nostri occhi la esprimono, il nostro viso assume un'espressione aperta, le nostre labbra sorridono; cioè attiviamo, senza accorgercene, una serie di movimenti muscolari attraverso i quali l'emozione si esprime. Ciò accade naturalmente anche per la tristezza, per la rabbia e per ogni altra emozione. Questo piano corporeo può essere immediatamente chiaro e leggibile oppure può essere meno visibile ma comunque sempre presente. Se abbiamo un sentimento di rabbia che non possiamo esprimere e mostriamo invece una disponibilità, avremo questa situazione anche a livello corporeo: una espressione muscolare più superficiale obbedirà alla "circostanza" e una parte muscolare meno visibile sarà contratta come espressione di ostilità, di opposizione. Questa dualità Mente-Corpo è naturalmente presente sin dall'inizio della nostra esistenza.

Quindi l'emozione ha spontaneamente un corrispettivo corporeo; allo stesso modo in cui una pianta ha un apparato radicale e non è immaginabile senza di esso; allo stesso modo in cui quando adoperiamo una misura di "peso" di qualche cosa implichiamo inscindibilmente una "forza di gravità". Tutto ciò è una premessa fondamentale per la comprensione dei contenuti teorici e del modello psicoterapeutico dell'Analisi Bioenergetica. Noi sappiamo che la struttura della personalità, nell'esplicazione delle sue potenzialità, nelle inibizioni e nello sviluppo dei meccanismi di difesa (Meccanismo di difesa: metodo mobilitato dall'Io in risposta al proprio segnale di pericolo, cioè l'ansia, quale protezione da minacce interne ed esterne. I meccanismi di difesa sono indispensabili, ma possono divenire disfunzionali nel caso in cui siano utilizzati massicciamente), si compie fondamentalmente nei

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primi anni di vita. Non possiamo qui soffermarci su questo ampissimo e importantissimo argomento ma ci è necessario menzionarlo perché la dualità Mente-Corpo la troviamo, come abbiamo detto, sin dall'inizio della nostra vita. I meccanismi di difesa messi in atto dal bambino in modo prolungato li ritroviamo nel corpo dell'adulto sotto forma di tensioni muscolari croniche.

Per impedire sensazioni ed emozioni sgradevoli operiamo due cose fondamentali: 1) la contrazione dei muscoli interessati (che così "imprigionano" l'emozione anziché darle corso); 2) la riduzione dell'attività respiratoria (che è insita nella contrazione stessa e ne garantisce il controllo). Questa situazione, come già detto, si cronicizza se operata in modo prolungato e nelle fasi dello sviluppo psicofisico. In tutto ciò non ci si accorge dell'irrigidimento corporeo ma esso appare come parte integrante di noi stessi. Questi blocchi restano, insieme ai loro contenuti e alla dinamica del loro formarsi, al di fuori della nostra coscienza. Il tutto viene percepito come facente "parte di se stessi", come "caratteristica" personale. Abbiamo invece dei segnali, solo segnali che ci possono creare disagio. E qui troviamo l'Ansia con tutte le sue manifestazioni. Quando un Corpo non ha rigidità e la respirazione è buona non c'è ansia. In altre parole, quando non ci sono difese cronicizzate non c'è "ansia" ma "piacere". L'Ansia è una manifestazione di allarme, di disfunzione della difesa messa in atto. Per proteggersi dall'ansia il sistema difensivo è inconsciamente in continuo aggiornamento. È costantemente e inconsapevolmente in atto una ricerca di stabilità e solidità delle strutture difensive preesistenti.

Psicoterapia Bioenergetica

Con l'Analisi Bioenergetica gli strumenti di cui dispone la psicoterapia aumentano. La conoscenza approfondita della dualità Mente-Corpo permette l'intervento sui due aspetti. Oltre all'aspetto verbale lo psicoterapeuta lavora insieme al paziente con esercizi corporei appropriati e volti a sciogliere le tensioni in esso contenute. Ciò permette di arrivare efficacemente e rapidamente ai nodi emozionali. Non si tratta semplicemente di tecniche di rilassamento ma l'obbiettivo è di ridare al corpo l'apertura e la funzionalità originaria. Di ripristinare una condizione generale di fluidità e di piacere. Ciò passa attraverso l'elaborazione e la liberazione dei sentimenti rimasti imprigionati nelle tensioni croniche. Il lavoro a livello verbale e quello a livello corporeo si alternano e si inseriscono a seconda della persona e del momento specifico della psicoterapia. Una risoluzione reale della parte psicologica ha sempre un corrispettivo "corporeo", un'apertura all'esterno, un maggiore livello energetico e la capacità di provare "piacere".

La Psicoterapia Bioenergetica: 1) è di grande utilità per tutti, in quanto ripristina un funzionamento psicofisico adeguato, consente l'aumento del livello energetico e sviluppa il potenziale in ogni persona; 2) è di grande efficacia in tutte le situazioni sintomatiche di origine psicologica: depressione, ansia, angoscia, attacchi di panico, disturbi sessuali, disturbi psicosomatici etc.

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L'ANALISI TRANSAZIONALE (a cura del dott. Cristiano Emanuele De Lucia, psicologo psicoterapeuta specializzato in Analisi Transazionale)

L'analisi transazionale è stata ideata da Eric Berne, psichiatra e psicoanalista, verso la fine degli anni '50 a San Francisco, California. L'analisi transazionale (detta A.T.) offre una teoria sistematica della personalità e della dinamica sociale derivandola dall'esperienza clinica, dà origine a un metodo psicoterapeutico attivo e "razionale" e ad una teoria della comunicazione. L'A.T. si basa sull'analisi delle "transazioni", ossia, sull'osservazione delle manifestazioni esterne del rapporto sociale.

Si ha una transazione quando, da uno stimolo transazionale di un individuo X (una frase, un gesto, un'espressione del volto, un'azione) viene sollecitata una risposta transazionale di un altro individuo Y; risposta che diventa a sua volta stimolo per X, la cui ulteriore risposta diventa nuovo stimolo per Y. In questo modo si innesca una catena: L'A.T. si occupa dell'analisi di questa catena ed in particolare della sua programmazione: una volta iniziata la catena, conoscendo le caratteristiche di personalità dei soggetti interessati al rapporto sociale, ne risulta una sequenza in gran parte prevedibile.

Per individuare, codificare e riconoscere le caratteristiche di personalità di un soggetto, in analisi transazionale si utilizza un modello detto Modello degli Stati dell'Io. Uno Stato dell'Io si può descrivere come un sistema compatto di emozioni e pensieri riferiti ad un soggetto, che motivano dei corrispondenti modelli di comportamento; in altre parole, è un insieme di pensieri, emozioni e comportamenti organizzati in modo coerente tra loro, che rispecchia le esperienze del suo passato o del suo presente. Ad esempio: l'insieme di sentimenti, atteggiamenti e modelli di comportamento praticati dal soggetto, simili a quelli delle sue "figure genitoriali" (genitori reali e/o altre figure avute come riferimento durante i primi anni di vita), identificano il suo Stato dell'Io Genitore. Mentre l'insieme di sentimenti, atteggiamenti e modelli di comportamento che risalgono alla sua "infanzia individuale", cioè come si comportava da bambino fino ai primi 4/5 anni di età, costituiscono il suo Stato dell'Io Bambino. Un insieme autonomo di sentimenti, atteggiamenti e modelli di comportamento che risultano coerenti e adatti alla realtà presente evidenziano il suo Stato dell'Io Adulto. L'analisi transazionale teorizza la presenza in ognuno di noi di tre Stati Dell'Io, Genitore, Adulto e Bambino, partendo da questo presupposto:

è noto che - ogni individuo adulto è stato un tempo bambino; - ogni essere umano in possesso di una quantità sufficiente di tessuto cerebrale è potenzialmente capace di un esame di realtà adeguato;

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- ogni individuo che sopravviva nella vita adulta ha avuto dei genitori funzionanti, oppure qualcuno 'in loco parentis'.

Per cui possiamo ipotizzare che: - vestigia dell'infanzia sopravvivono nella vita successiva come stati dell'Io completi (Bambino); - l'esame di realtà può essere considerato una funzione specifica di uno stato dell'Io e non una 'facoltà' isolata (Adulto); - il controllo del comportamento può essere assunto da uno stato dell'Io di un individuo esterno, così come viene percepito (Genitore).

Osservando un individuo si può, con un po' di pratica, riscontrare agevolmente la presenza degli Stati dell'Io, attraverso la lettura della postura, dello sguardo, della gestualità, del tono di voce, del vocabolario usato. Lo Stato dell'Io Genitore (severo), può essere con mani sui fianchi, sguardo severo, indicazioni di divieto o di ordine, tono duro e con vocaboli che esprimono ordini o giudizi. Viceversa un Genitore amorevole, può essere con una materna flessione del collo, uno sguardo affettuoso, braccia che accolgono, tono confortante e con parole di incoraggiamento. L'Adulto è eretto e morbido, sguardo pensoso, con indicazioni operative e attente, con tono uguale (monotono) e preciso, vocabolario che esprime valutazioni. Il Bambino (sereno e spontaneo) può essere sciolto e sorridente, disinibito e allegro, con tono forte ed energico, con vocaboli esagerati. Viceversa può essere timido, chiuso, sprofondato, impaurito, imbronciato, piagnucoloso ed esigente, con vocaboli che evidenziano la sua percepita incapacità (non posso, spero, vorrei). L'utilizzo del Modello degli Stati dell'Io, una volta appreso, consente di aumentare la consapevolezza delle proprie caratteristiche di personalità e, se necessario, di adeguarle alle necessità, con l'intento di promuovere una gestione responsabile e congrua dei propri pensieri, delle proprie emozioni e dei propri comportamenti. Consente inoltre di "leggere" le transazioni sociali, partendo dalla conoscenza delle caratteristiche degli individui interessati, per cui aumenta la capacità di gestire una comunicazione rendendola efficace rispetto agli obiettivi prefissati.

Trattamento dei disturbi d'ansia con l'analisi transazionale L'ansia è un evento emotivo, una condizione "fisiologica" durante la quale la psiche e il corpo si orientano verso lo stimolo per prepararsi ad affrontarlo nel miglior modo possibile. È un adattamento dell'individuo a situazioni ambientali che gli richiedono risposte soddisfacenti. Tuttavia, talvolta, la presenza eccessiva di ansia può limitare la capacità di pensare ed agire adeguatamente alle circostanze, invalidando le naturali risorse a disposizione; in questa condizione l'ansia diviene ‘disfunzionale' e si parla di disturbo d'ansia.

L'analisi transazionale consente di identificare quelle 'fantasie distorte' dello Stato dell'Io Bambino o quelle 'convinzioni errate' del Genitore che possono indurre a sperimentare una "paura di essere inadeguato" (in genere paura di fallire o paura di perdere l'oggetto desiderato) che si manifesta con i sintomi d'ansia. Nello Stato dell'Io Bambino si strutturano pensieri, emozioni e comportamenti sulla base delle competenze e dell'esperienza a disposizione a quell'età (fino a 4 o 5 anni), per cui è ragionevole pensare che ci possano essere delle distorsioni della realtà anche significative e che il relativo vissuto sia condizionato da queste. Lo Stato dell'Io Genitore si struttura sulla base degli esempi educativi, sociali e culturali dell'ambiente nel quale è vissuto il soggetto durante i primi anni di età, per cui, senza

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avere la capacità di valutarne l'adeguatezza, egli avrà fatto suoi alcuni valori morali e religiosi, consuetudini e credenze culturali, pregiudizi e abitudini familiari, che potrebbero essere errati o comunque adeguati per l'epoca ma inadeguati alla sua realtà presente. L'analisi transazionale si pone l'obiettivo di aumentare la consapevolezza dello Stato dell'Io Adulto nel qui ed ora, nel caso dei sintomi d'ansia si indaga su "qual è la cosa peggiore che può capitare oggi quando si prova quell'ansia" e, una volta emersa la fantasia, su "cosa c'è di male se si verifica"; in questo modo possono emergere esperienze del passato che hanno indotto il soggetto ad interpretare la realtà dell'epoca come "drammatica" o "catastrofica" e che lo condizionano oggi nell'interpretazione della realtà odierna. Rielaborare queste fantasie con la consapevolezza e con le informazioni del presente, consente di valutare la realtà per correggere le eventuali distorsioni e decidere cosa fare per gestire le possibili presenti fonti di disagio

TERAPIA DELLA GESTALT

La psicoterapia della Gestalt si sviluppa agli inizi degli anni '50 del secolo scorso, dal lavoro di Fritz Perls (1893-1970), medico ebreo di origine tedesca, il quale, per sfuggire alle persecuzioni naziste, emigra inizialmente nel sud Africa e successivamente si trasferisce a New York. Una volta stabilitosi Negli Stati Uniti egli fonda, nel 1952, il Gestalt Institute of New York. L'approccio della psicoterapia della Gestalt trae spunto dai concetti sviluppati in seguito alle ricerche nel campo della percezione svolte dagli psicologi della Gestalt, che dimostrano come l'uomo non percepisce le cose come elementi distinti e sconnessi, ma le organizza in insiemi significativi, mediante il processo percettivo. Uno dei concetti basilari di tale approccio è che il tutto è più della somma delle sue parti; esso spiega la modalità del funzionamento di base non solo del processo percettivo, ma anche dell'apparato psichico in generale. Quando noi osserviamo una figura geometrica, per esempio un quadrato, non lo vediamo come quattro linee e quattro angoli, ma come un oggetto unico. Ecco che l'oggetto, formato da tutte le parti che lo compongono, viene percepito come una totalità in cui il risultato finale è più della somma delle sue parti. La psicologia della Gestalt è dunque una dottrina olistica, ossia si basa sull'idea che le proprietà di un sistema non possano essere spiegate esclusivamente tramite le sue componenti, ma vadano analizzate nella loro interezza. Tale concezione viene applicata all'essere umano, producendo una visione della persona come una totalità più grande e complessa delle parti che la compongono, ossia: corpo, mente, pensieri, sentimenti, immaginario, movimento. La persona è costituita dal funzionamento integrato nel tempo e nello spazio dei vari aspetti del tutto. Da questo punto di vista curare esclusivamente un aspetto della persona o identificare una parte come la causa del problema significa frammentare artificialmente ciò che in realtà è qualcosa che funziona come unità. La psicoterapia della Gestalt pone particolare attenzione anche a quello che la scienza definisce "processo omeostatico". Tale processo governa le funzioni basilari della vita al fine di conservare l'equilibrio organismico e quindi la sua salute in

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condizioni variabili. Da esso discendono comportamenti coerenti e adeguati, atti a soddisfare i molteplici bisogni. Mentre la scienza si occupa e studia i bisogni fisiologici (ad esempio la regolazione fisiologica del livello di zucchero nel sangue), la psicologia tratta dei bisogni di natura psicologica dell'individuo e dei meccanismi omeostatici o adattativi con cui vengono soddisfatti, riconoscendo, comunque, che i due processi (biologico-fisiologico e psicologico) sono sempre interconnessi.

In una situazione di normalità l'organismo fa fronte a diversi bisogni che si manifestano simultaneamente, ma dal momento che può svolgere adeguatamente solo una funzione alla volta, deve operare una scelta entro una scala gerarchica di valori, seguendo uno schema che dà priorità al bisogno in primo piano (in "figura"), quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento, lasciando retrocedere temporaneamente nello "sfondo" gli altri. La psicoterapia della Gestalt descrive il funzionamento organismico come l'organizzazione di questa dinamica figura/sfondo. Se, invece, il processo omeostatico fallisce, perché l'individuo non è stato capace di identificare i suoi reali bisogni, o perché non ha saputo stabilire con il suo ambiente un contatto adeguato, la Gestalt (che in tedesco significa "forma") non si chiude, rimane inconclusa; e una Gestalt inconclusa pone continue interferenze al flusso di scambi tra l'individuo e l'ambiente, determinando una certa fissità nelle modalità con cui questi manipola e interagisce con l'ambiente stesso. L'elemento che differenzia maggiormente l'individuo sano da quello nevrotico è, infatti, proprio l'elemento di mobilità. Un modello sano di funzionamento prevede, dunque, un continuo, armonico e ritmato processo di apertura e chiusura verso l'ambiente. Uno di principali obiettivi della terapia della Gestalt è quello di ripristinare l'autoconsapevolezza che viene a mancare quando si manifesta un disturbo psicologico; ciò può essere fatto ristabilendo la capacità di discriminazione del soggetto, aiutandolo a scoprire cosa è e cosa non è lui stesso, cosa lo realizza e cosa lo frustra. La persona viene guidata verso l'integrazione, nella ricerca del giusto equilibrio e del confine tra sé e il resto del mondo. Una delle tecniche principali, finalizzata ad accrescere in tutti i sensi la consapevolezza del paziente, è la così detta tecnica della consapevolezza. Sono cinque le domande, ormai diventate classiche, con le quali il terapeuta della Gestalt favorisce il processo di autoconsapevolezza: "Cosa fa?", "Cosa sente?", "Cosa vuole?", "Cosa evita?", "Cosa si aspetta?". Il lavoro sulla consapevolezza prevede infatti più livelli di indagine; Perls usa la metafora del "pelare la cipolla". Si parte infatti dalle bucce in superficie, ossia il comportamento osservabile (cosa fa?), per poi passare via via agli strati più profondi, ovvero le sensazioni e le emozioni (cosa sente?), e in fine i processi cognitivi e volitivi (cosa vuole?; cosa evita?; cosa aspetta?) . Il terapeuta dà molta importanza anche alle risposte non verbali del soggetto in quanto, mentre il linguaggio mente, il corpo è più sincero, e spesso svela quando e come il paziente mette in atto le sue strategie automanipolative e difensive.

LA LOGOTERAPIA

Il modello di trattamento della logoterapia si ispira all'opera di Victor Frankl, medico austriaco che negli anni '30 elaborò diversi contributi orientati nel definire un approccio

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curativo dei disturbi psichici attento alle dimensioni etico-esistenziali distintive del fenomeno umano.

Egli fu il primo ad utilizzare questo termine, nel 1926; da quel momento la logoterapia inizia ad offrire un quadro di riferimento per le tematiche della libertà-responsabilità e del 'senso' della vita, considerate basilari. L'assunto di fondo da cui parte la logoterapia è la necessità di considerare l'uomo nella sua totalità irriducibile, come essere portatore di valori e di tematiche esistenziali che non possono essere trattate per mezzo di una modalità puramente psicologica. La logoterapia si definisce come una psicoterapia che parte dallo spirito e ha come oggetto la coscienza (Seele), costante intenzionalità verso i valori. Il trattamento con il paziente prevede quindi il porre al centro dell'intervento le tematiche relative al senso della vita, ponendosi al confine tra filosofia e psicologia. L'agire umano è guidato, secondo questa psicoterapia, verso la ricerca del senso, della 'verità esistenziale' nelle sue diverse manifestazioni. Il disagio psichico, che si esprime attraverso le nevrosi, viene considerato come una caduta nel cammino della ricerca del significato, e la sofferenza individuale non come un sintomo, ma come un'azione (Leistung) che si inserisce nella dinamica delle decisioni spirituali da prendere nel corso della vita. A tal proposito Frankl propone una nuova categoria diagnostica, chiamata 'noogenic neurosis', indicante una forma di nevrosi legata ad un vissuto di vuoto (vacuum) esistenziale.

La funzione del terapeuta è quella di porsi come aiuto per contrastare le diverse forme umane di 'irresponsabilità metafisica', portando il paziente a poco a poco verso la presa di coscienza dell'insieme di possibilità e libertà implicite nelle sue scelte. Il trattamento prevede specifiche forme di intervento, rappresentate dalla dereflessione e dalla intenzione paradossa, supportate da due capacità tipicamente umane che diventano strumenti di riferimento: la capacità di self-trascendence e self-detachment. Nella vita di ognuno accade di avere momenti in cui si è soggetti a disturbi temporanei, che, per lo più, sono considerati normali e non vengono degnati di particolare attenzione. Può però succedere che qualcuno affronti questi eventi come veri e propri problemi, tanto da cercare di superarli, forzando la situazione, ma ottenendo solo di trovarsi maggiormente invischiato. Per esempio, questo si verifica quando una persona che soffre di insonnia si sforza di addormentarsi, ma finisce per essere sempre più sveglia. Per superare la situazione, Frankl propone il metodo della dereflessione, che si basa sul concetto di intenzionalità. Nella pratica, si tratta di aiutare la persona a eliminare l'eccessiva attenzione su di sé, per sottolineare altri aspetti: perché sia efficace, tuttavia, non basta 'distrarsi', ma occorre accentrare l'attenzione su qualcosa di positivo. Inoltre, poiché lo scopo ultimo della tecnica è di distogliere l'attenzione della persona dal presunto problema, è importante che l'operatore non si soffermi troppo a dare spiegazioni preliminari. Per 'intenzione paradossa' Frankl intende la stimolazione al desiderio contrario: la persona viene aiutata a desiderare proprio quello che teme, usufruendo della propria capacità di autodistanziamento. Per meglio spiegare questo concetto, Frankl parte dal 'meccanismo di ansietà anticipatoria', che viene spiegato dallo stesso autore nel modo seguente: "Un dato sintomo evoca, da parte del paziente, l'aspettativa, piena di timore, che una certa cosa possa succedere. Il timore, tuttavia, tende sempre a far accadere precisamente ciò che è temuto e, nello stesso modo, l'ansietà anticipatoria è soggetta con una certa probabilità a far scattare ciò che il paziente con tanto timore si aspetta che succeda. Si viene così a formare un 'circolo vizioso' che si sostiene da sé". Continuando la trattazione sull'ansietà anticipatoria, definita anche 'ansia di attesa', Frankl afferma: "...il paziente reagisce ad un dato sintomo con la paura che esso possa ripetersi, con l'ansia di attesa quindi. Da tale ansia di attesa consegue che il sintomo si ripresenta realmente. Un tale accadimento non fa che rinforzare il paziente nella sua originaria paura". "…il sintomo produce una corrispondente fobia; la fobia rafforza il sintomo; il sintomo così rafforzato non fa che consolidare tanto maggiormente nel paziente lo stato fobico".

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I principali ambiti di applicazione vanno dai disturbi nevrotici alla sfera sessuale, ma negli ultimi anni nel nostro Paese sembrano essersi ampliati, includendo trattamenti per adolescenti, devianti, pazienti a rischio di suicidio, tossicodipendenti e malati di AIDS (E. Fizzotti, R. Carelli, 1990; E. Fizzotti, 1993). Riferimenti bibliografici: Fizzotti E., Carelli R. (1990), Logoterapia applicata, Salcom, Varese; Fizzotti E. (1993), Chi ha un perchè nella vita, LAS, Roma

LA PROGRAMMAZIONE NEUROLINGUISTICA

Il modello terapeutico della Programmazione Neurolinguistica è stato sviluppato negli anni '70 negli Stati Uniti da un matematico, Richard Bandler, e un linguista, John Grinder; esso si può inserire all'interno delle terapie ipnotiche e cognitive (M.H. Erikson, E.L. Rossi, 1979), e propone come aspetto basilare quello di non fondarsi su riferimenti filosofici, umanistici o dottrinari propri di varie correnti psicoterapeutiche bensì su un deliberato pragmatismo non vincolato ad alcuna teoria. La credenza base è che "la mappa non è il territorio"; questa affermazione significa che quello che pensiamo non è necessariamente quello che è. La mappa sono i nostri pensieri, il nostro modo di vedere il mondo, ed il territorio è il mondo e la realtà esterna. In altre parole le rappresentazioni interne che ci facciamo riguardo ad un evento esterno non sono necessariamente l'evento stesso. La Programmazione Neurolinguistica viene definita come lo studio della struttura dell'esperienza soggettiva, e si propone di offrire un vocabolario ampio e attendibile per la lettura della 'black box'. Le caratteristiche di questo approccio sono evidenti all'interno di tre assunti: il primo si rifà alle capacità creative ed organizzative della mente inconscia; il secondo prevede la descrizione particolareggiata dei processi sensoriali propri della persona, i quali hanno il compito di organizzare i contenuti della scatola nera, insieme alle strategie di decodificazione che influenzano i comportamenti messi in atto in risposta agli stimoli; il terzo riguarda un insieme di tecniche terapeutiche ben precise (R. Bandler, J. Grinder, 1978), basate sulla capacità del terapeuta di entrare in stretto contatto con l'emisfero non dominante del paziente, così come con i suoi processi cognitivi, comportamentali o inconsci. L'obiettivo principale della terapia è dunque quello di portare pian piano il paziente ad una ristrutturazione maggiormente funzionale delle sue strategie interne utilizzando tecniche ed esercizi specifici, come l'uso di metafore, enigmi a chiave, suggestioni indirette e racconti didattici (M.H. Erikson, 1982). Il senso dell'intervento è quello di modificare i processi sensoriali dell'emisfero non dominante, identificati come responsabili dell'organizzazione e del mantenimento del disagio psichico che ha spinto il soggetto a rivolgersi al terapeuta; l'esito positivo della terapia dipende quindi dalla capacità di creare un rapporto tra terapeuta e paziente, più che dagli specifici contenuti analizzati o dall'approccio utilizzato. Lo stile dell'intervento è di tipo didattico-esperienziale, sulla base dell'idea di non dover insegnare 'forme' di psicoterapia quanto le strategie di coloro i quali hanno mostrato particolari doti nel lavoro terapeutico, indipendentemente dalla scuola di appartenenza. La metodologia è dunque quella di identificare le strategie dei 'migliori' psicoterapeuti e in seguito imparare a riprodurle. L'ambito di applicazione è quello di pazienti non gravi e con discrete risorse individuali, ma si trovano riferimenti a strategie utilizzabili con pazienti psicotici (M.H. Erikson, 1982). Sebbene la PNL possa essere anche utilizzata come uno strumento di risoluzione di problemi comportamentali, le sue applicazioni sono molto più vaste. Anche quando utilizzata in tal senso, è essenzialmente un processo per insegnare alle persone a usare la propria mente più creativamente. Un practitioner di PNL può aiutare un cliente ad identificare e a cambiare l'impatto di modelli comportamentali negativi derivati dal passato rimpiazzandoli con positivi e

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più utili modelli. Per le sue caratteristiche di modello di comunicazione interpersonale, la Programmazione Neurolinguistica viene utilizzata nelle attività di formazione imprenditoriale ed organizzativa, nella selezione del personale e nell'attività didattica.

Riferimenti bibliografici: Erikson M.H., Rossi E.L. (1979), Ipnoterapia, una ricerca clinica, tr. it. Astrolabio, Roma, 1982; Bandler R., Grinder J., (1978), La metamorfosi terapeutica, tr. it. Astrolabio, Roma, 1980; Erikson M. H., (1982), La mia voce ti accompagnerà, tr. it. Astrolabio, Roma, 1983.

LA TERAPIA JUNGHIANA

Quando si usa il termine terapia junghiana ci si riferisce ad un approccio terapico che si fonda sui principi della psicologia analitica, la quale trae le sue origini dal pensiero e dalle opere di Carl Gustav Jung (1875-1961). Jung fece parte, per un periodo della sua vita, di quel ristretto circolo di psicanalisti che si riunivano intorno a Freud nella Società psicanalitica di Vienna, collaborando attivamente allo sviluppo e alla crescita delle teorie psicanalitiche, ma successivamente, a causa delle sue divergenze teoriche con Freud, se ne distaccò. Jung elaborò una sua teoria dell'energia psichica, secondo la quale, diversamente da quanto sosteneva Freud, la libido non fosse soltanto una pulsione sessuale pura, ma una vera e propria energia psichica generale che si esprime nell'uomo sotto forma di tendenze e desideri.

Essa rappresenta per Jung lo slancio vitale che spinge ogni uomo verso la propria realizzazione (e non solo verso la soddisfazione di pulsioni sessuali, come sosteneva Freud); è energia psichica, una tendenza spontanea che muove l'uomo verso il suo sviluppo più personale, verso la sua individuazione. Anche Jung considera la psiche come composta da più parti, fra cui l'inconscio. L'inconscio da lui teorizzato, tuttavia, è molto più complesso di quello freudiano. Esso non rappresenta soltanto il ricettacolo di ciò che è stato rimosso dalla coscienza dell'individuo, ma piuttosto il luogo di un'attività psicologica diversa, più oggettiva dell'esperienza dell'Io, in diretta relazione con le radici della specie (l'inconscio collettivo) e che si esprime attraverso il linguaggio archetipico dei simboli, tramite immagini e fantasie. Secondo Freud la natura conflittuale della psiche, da cui originano la coscienza e quindi l'Io, è basata sul dualismo libido-istinto di sopravvivenza/libido-istinto di morte. Jung, invece, sostiene che l'Io si trova nel punto di congiunzione tra il Mondo Esterno ed il Mondo Interno, ed è sempre alla ricerca di un punto di equilibrio che cambia continuamente nel corso della vita umana. Le immagini archetipiche di cui parla Jung sono rappresentazioni interiori di determinate prestrutture ereditarie, definite archetipi, che l'Io costruisce a partire dall'incontro con la realtà esterna. Gli archetipi sono presenti con la stessa simbologia nell'inconscio di ogni uomo, qualunque sia la sua cultura di provenienza; essi sarebbero quindi transculturali e sarebbero funzioni di quella parte di incoscio che Jung definisce inconscio collettivo, ovvero comune alla specie umana. Le immagini archetipiche più importanti sono quelle di: Persona, Ombra,

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Anima/Animus e Sé. Esse compaiono spesso nei sogni e hanno la funzione di rivelare al sognatore la possibilità di alternative di confronto con la propria realtà esterna ed interna. La Persona rappresenta il ruolo definito che ogni individuo deve avere nella nostra società; in questo senso essa può essere talora molto diversa dalla reale individualità di colui che la interpreta, ma proprio per questo è funzionale a difendere l'individuo da un impatto troppo diretto tra la realtà esterna e la realtà del proprio mondo interiore. L'Ombra è simile al rimosso freudiano, ma non esattamente la stessa cosa. Essa non è realmente inconscia e inconsapevole, ma soltanto non consapevole: pertanto se un individuo vuole realmente essere onesto con se stesso è in grado di vedere la propria Ombra. Per Jung sono invece maggiormente connesse con la realtà psichica più profonda altre immagini archetipiche: l'Anima (Animus o Anima), lo Spirito (il Vecchio Saggio, la Magna Mater etc.) e l'immagine archetipica centrale della psiche, il Sé. L'Anima rappresenta l'immagine interiorizzata che ogni uomo ha del femminile e l'Animus l'immagine interiorizzata che ogni donna ha del maschile. Secondo Jung, Animus e Anima orientano la scelta dei nostri legami affettivi e rappresentano le istanze più profonde della personalità, quelle che noi tendiamo a proiettare sugli altri; per questo motivo costituiscono il reale strumento di conoscenza dell'incoscio. Il Sé viene spesso rappresentato nei sogni da una persona di carattere eccezionale oppure da un animale, che rappresenta la natura istintuale del sognatore ed i legami di questa con l'ambiente esterno in cui vive. L'inconscio contiene dunque energia psichica che si manifesta nella spinta innata verso lo sviluppo della coscienza di sé, la quale tende ad emergere dando luogo al processo di individuazione. L'individuazione costituisce per Jung il naturale fine dell'esistenza umana e idealmente, nel corso di questo processo, l'uomo dovrebbe giungere alla scoperta e alla realizzazione dei propri bisogni individuali più profondi. La psicoterapia Junghiana, come sosteneva lo stesso autore, è indicata prevalentemente nelle crisi di mezza età, o comunque per quei pazienti, in crisi per motivi morali, filosofici o religiosi, che sono alla ricerca del senso della propria vita. Indipendentemente dalla gravità del disturbo e dalla sua diagnosi psicopatologica (nevrosi o psicosi), la terapia junghiana mira a ottenere un riadattamento alla realtà, che sia però inclusivo dei bisogni e delle motivazioni più profonde del soggetto.

LA TERAPIA ADLERIANA

La terapia di Alfred Adler (1870-1937), derivante dalla sua psicologia individuale, è di matrice psicanalitica; tuttavia si distingue dalla psicanalisi freudiana classica in diversi punti. Adler fu il primo a notare come il bambino, soprattutto nel primo periodo della sua vita, avverta una grave situazione di inadeguatezza, manifestando di conseguenza un grande bisogno di aiuto. È questa la situazione che egli definisce, intenzionalmente, sentimento di inferiorità, termine da lui utilizzato per indicare quella fisiologica e consueta condizione di insufficienza e di insicurezza che manifesta il fanciullo di fronte al mondo ancora sconosciuto, in cui vivono personaggi più grandi, più forti e più esperti di lui.

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Se gli apporti ambientali gli saranno favorevoli, il bambino supererà successivamente, in modo graduale, il disagio dell'inferiorità, in concomitanza con lo sviluppo somatopsichico, con il processo di apprendimento e con l'integrazione sociale, dapprima collaudata nella cerchia della famiglia e, via via, al di fuori di questa. Se, al contrario, gli stimoli saranno negativi, o verranno percepiti come tali, è probabile che si verifichi, come conseguenza, un rafforzamento dell'ordinario sentimento di inferiorità, tanto da far scivolare fatalmente il soggetto nel complesso di inferiorità, che è sempre patologico. Secondo Adler non è possibile studiare un essere umano in una condizione di isolamento sociale, in quanto ognuno di noi fa parte di un contesto sociale. Questo punto distingue la psicologia individuale da quella di Freud, poiché nella teoria psicanalitica classica i rapporti sociali, ad eccezione di quelli con i genitori, vengono trascurati. Per Adler i rapporti sociali sono fondamentali e vanno presi in considerazione come parte costituente della vita psichica di un individuo. Con il termine individuale ci si riferisce al concetto di una individualità psichica unica e irripetibile che, per necessità di sopravvivenza, deve entrare a far parte di una struttura comunitaria formata da altre unità psichiche, anch'esse uniche e irripetibili. Le due istanze che Adler riconobbe come fondamentali, la volontà di potenza e il sentimento sociale, provvedono a garantire la sopravvivenza dell'essere umano. Tali strumenti ineludibili si pongono entrambi al di sopra delle pulsioni con il preciso compito di regolare in ogni individuo sia gli impulsi istintuali che le attività coscienti. La volontà di potenza, da parte sua, provvede con la spinta energetica che la contraddistingue a indirizzare l'uomo verso le mete affermative con quell'altra esigenza fondamentale dell'uomo, il sentimento sociale; esso è rappresentato dalla necessità che ha ciascun essere umano di cooperare con i propri simili e di compartecipare solidalmente alle loro emozioni. Il campo d'azione della volontà di potenza si estende a tutti i settori della vita di relazione, dagli affetti alla sessualità, dal lavoro ai rapporti interpersonali, mentre la sua linea operativa, senza possedere di per sé un fondamento aggressivo, si serve, per fini di potere, di dominio o di conservazione, di ciò che Adler definì pulsione aggressiva. Per Adler, nel bambino più piccolo, l'aggressività non è altro che un'energia primordiale, non ancora ben disciplinata e indirizzata, ma già in grado di garantire la soddisfazione delle necessità più elementari. Lungo il cammino si ergono però i primi ostacoli, le prime sofferenze, i primi pericoli a indicare al bambino i confini entro i quali potrà esprimere la propria forza, modulandone l'intensità a seconda delle esigenze contingenti. Più avanti, quando sarà maggiormente cresciuto, egli dovrà necessariamente fare i conti con le regole di convivenza, indicate all'inizio dalla madre e, successivamente, proposte dalla famiglia e quindi dalla società. Molte di queste regole riguardano proprio il controllo dell'aggressività, che sarà così indirizzata verso settori consentiti, se non anche sollecitati o addirittura imposti. L'originalità del pensiero di Alfred Adler sta nell'aver posto l'accento sulla visione finalistica del superamento del sentimento d'inferiorità (qualsiasi senso abbia l'inferiorità). La volontà di potenza nella sua irresistibile spinta verso le mete affermative non tollera lo stato di inferiorità e si serve di tutta la sua energia per ottenerne il superamento. Lo sforzo dell'individuo per emergere, per imporsi, rappresenta il tentativo di superare il complesso di inferiorità che prova, da bambino, nei confronti del mondo degli adulti, inferiorità che può essere acutizzata da fattori economici e organici. Nel tentativo di superare questo senso di inferiorità, il bambino si prefigge obiettivi fittizi che hanno lo scopo di tranquillizzarlo. Nel soggetto normale questa contraddizione fra visione fittizia della vita e realtà viene mediata, consentendogli di stabilire soddisfacenti rapporti sociali. Nel nevrotico questa mediazione fallisce, vanificando la possibilità di una relazione sociale positiva. La terapia mira a determinare come si è formato questo autoinganno, attraverso i ricordi e i sogni, non ricorre alle libere associazioni, considera il transfert come elemento facilitante e presuppone una partecipazione attiva da parte del terapeuta tesa a smascherare i falsi obiettivi a cui il paziente tende e a fornire mete esistenziali più idonee e stimolanti.

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LA TERAPIA CENTRATA SUL CLIENTE

Questo tipo di terapia è stato sviluppato tra gli anni '50 e '60 da Carl Rogers, durante la sua lunga esperienza clinica; tale approccio si basa su alcuni assunti concernenti la natura umana e i mezzi con i quali possiamo provare a comprenderla.

• Le persone possono essere capite solamente partendo dalle loro percezioni e dai loro sentimenti, ossia dal loro mondo fenomenologico. Per capire un individuo dobbiamo concentrare la nostra attenzione non sugli eventi che egli esperisce ma sul modo in cui li esperisce, perché il mondo fenomenologico di ogni persona è la determinante principale del suo comportamento e ciò che la rende unica.

• Le persone sane sono consapevoli del loro comportamento. In questo senso il sistema di Rogers è simile a quello della psicanalisi e dell'analisi dell'Io, poiché pone la consapevolezza delle motivazioni tra i suoi obiettivi principali.

• Le persone sane sono per loro natura buone e capaci di comportarsi in maniera efficace; esse diventano inefficaci e disturbate solamente quando interviene un apprendimento errato.

• Le persone sane sono capaci di comportamenti finalizzati e sanno darsi degli obiettivi. Esse non rispondono passivamente all'influenza dell'ambiente o alle proprie pulsioni interiori, e sono in grado di compiere scelte autonome. In questa asserzione Rogers è più vicino agli psicanalisti dell'Io che agli psicanalisti freudiani ortodossi.

• Il terapeuta non dovrebbe cercare di manipolare gli eventi per conto del cliente; piuttosto dovrebbe creare le condizioni in grado di facilitare un processo decisionale autonomo da parte sua. Quando le persone non si preoccupano eccessivamente delle valutazioni, delle esigenze e delle preferenze altrui, la loro esistenza risulta guidata da una tendenza innata all'autorealizzazione.

Sulla base del presupposto che una persona matura e bene adattata fonda i suoi giudizi su elementi intrinseci di soddisfacimento e autorealizzazione, Rogers evitava di imporre obiettivi al cliente durante la terapia. Secondo Rogers è il cliente che deve "prendere il comando" e dirigere l'andamento della conversazione e della seduta. Il compito del terapeuta è quello di creare le condizioni per cui durante la seduta il cliente possa entrare in contatto con la sua natura più profonda e valutare da solo quale stile di vita è per lui intrinsecamente gratificante. Poiché aveva un visione molto positiva delle persone, Carl Rogers riteneva che attraverso l'esercizio di decisioni autonome esse sarebbero riuscite non solo ad essere soddifatte di se stesse, ma anche a diventare delle persone capaci di instaurare relazioni socialmente adeguate. La strada per raggiungere queste decisioni positive, tuttavia, non è facile.

Secondo Rogers e gli altri terapeuti del filone umanistico ed esistenziale, la persone devono assumersi la responsabilità della propria vita anche quando sono disturbate. È spesso difficile per un terapeuta astenersi dal dare consigli, dal farsi carico dell'esistenza del cliente, specialmente quando tale cliente appare incapace di prendere decisioni autonome. Ma i rogersiani si attengono strettamente alla regola secondo cui, data un'atmosfera terapeutica calda, sollecita e ricettiva, l'innata capacità di crescita e di autorealizzazione dell'individuo alla

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fine si affermerà. Essi ritengono che se il terapeuta interviene scopertamente, il processo di crescita e di autorealizzazione ne risulterà solo ostacolato, e che qualunque sollievo a breve termine possa derivare dall'intervento del terapeuta esso interferirà con la crescita a lungo termine. Il terapeuta non deve diventare l'ennesima persona i cui desideri il cliente deve cercare di soddisfare. Secondo Rogers il terapeuta dovrebbe possedere tre qualità fondamentali: autenticità, considerazione positiva e incondizionata e profonda comprensione empatica. L'autenticità, talvolta chiamata congruenza, comprende la spontaneità, l'apertura e la genuinità. Il terapeuta non ha niente di fasullo, non si nasconde dietro una facciata professionale, e rivela i suoi pensieri e sentimenti al cliente in maniera informale e schietta. In un certo senso il terapeuta, mettendosi così onestamente allo scoperto, fornisce un modello di ciò che il cliente stesso può diventare se si mette in contatto con i suoi sentimenti, li esprime e si assume la responsabilità di farlo. Il terapeuta ha il coraggio di presentarsi agli altri per quello che veramente è. Il secondo attributo di un bravo terapeuta, secondo Rogers, è la capacità di offrire una considerazione positiva incondizionata. Egli apprezza il cliente per quello che è e gli comunica un affetto non possessivo, anche quando non approva il suo comportamento. Le persone hanno valore semplicemente per il fatto di essere persone e il terapeuta deve avere profondamente a cuore il cliente e rispettarlo, per la semplice ragione che egli è un essere umano impegnato nella lotta per crescere e stare al mondo. La terza qualità, una profonda comprensione empatica, è la capacità di vedere il mondo - momento per momento - attraverso gli occhi del cliente, di comprendere i sentimenti sia da suo personale punto di vista fenomenologico, di cui il cliente è ben conscio, sia da prospettive di cui egli potrebbe essere solo confusamente consapevole

LA TERAPIA DI GRUPPO

Nella terapia di gruppo il terapeuta tratta con un certo numero di pazienti contemporaneamente. Essa risulta meno costosa della terapia individuale e può agire su più persone allo stesso tempo, offrendo il vantaggio di sfruttare in maniera più efficace il tempo. Durante le sedute di terapia di gruppo l'attenzione può essere focalizzata su uno dei partecipanti, mentre gli altri ascoltano e partecipano attivamente, rendendo possibile una forma di apprendimento vicario. All'interno del gruppo, inoltre, le pressioni sociali possono essere sorprendentemente forti. Se durante una seduta individuale il terapeuta dice a un suo cliente che il suo comportamento risulta ostile anche quando l'ostilità non è intenzionale, il messaggio può essere respinto; se invece tre o quattro altre persone concordano con l'interpretazione del terapeuta, diventa molto più difficile per l'individuo non accettarla. Inoltre, molti traggono conforto e sostegno semplicemente dalla consapevolezza che anche altri hanno problemi simili ai loro. Molte delle tecniche proprie della terapia individuale possono essere impiegate anche per trattare gli individui in gruppo. Vi sono, pertanto, gruppi a orientamento psicanalitico, gruppi di terapia della Gestalt, gruppi di terapia centrata sul cliente, gruppi di terapia comportamentale, nonché innumerevoli altri gruppi. Nel formare un gruppo per scopi terapeutici occorre tenere presenti diverse considerazioni. La selezione dei pazienti. È più facile identificare le persone per le quali la terapia di gruppo non è appropriata piuttosto che coloro per i quali è appropriata. In generale, i pazienti affetti da una forma acuta di psicosi o di depressione, gli psicopatici o chi ha problemi connessi all'abuso di sostanze non sono buoni candidati per questo tipo di terapia, benché i gruppi specializzati possano apportare loro qualche beneficio. I contesti ospedalieri consentono scarsa flessibilità per quanto riguarda la selezione dei partecipanti, perché di solito tutti i pazienti vengono inseriti in gruppi. I contesti non ospedalieri forniscono al terapeuta maggior controllo su chi possa opportunamente diventare membro di un gruppo.

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La preparazione dei pazienti. La maggior parte dei terapeuti cerca di fare almeno un minimo di conoscenza con i singoli partecipanti prima di inserirli in un gruppo. Oltre a contribuire alla selezione, questa fase aiuta il terapeuta a preparare i partecipanti all'esperienza di gruppo, per esempio informandoli sulle regole di base, quali l'obbligo di mantenere la più assoluta riservatezza su quanto emerge all'interno del gruppo e la necessità di astenersi da comportamenti aggressvi. La preparazione di partecipanti è associata a tassi inferiori di abbandono, a minori silenzi improduttivi e a risultati migliori e può mostrarsi uno dei fattori più importanti per la piena riuscita del trattamento di gruppo. La frequenza e la durata delle sedute. I gruppi in genere si incontrano per una o due ore una volta alla settimana. All'interno degli ospedali psichiatrici le sedute di gruppo tendono a durare meno perché i pazienti ricoverati sono in genere più disturbati dei pazienti esterni e non sono in grado di affrontare lunghe sedute. La coesione. In generale si ritiene che quando vi è coesione di gruppo, quando cioè i suoi membri si sentono coinvolti nel gruppo o provano un senso di lealtà nei suoi confronti, essi partecipano più volentieri, con un'adesione più piena, e sono più aperti agli interventi terapeutici. La conclusione. Idealmente, un gruppo giunge a conclusione quando tutti i suoi membri hanno raggiunto i loro obiettivi terapeutici, ma ciò si verifica assai di rado. Fattori extraterapeutici - fondi insufficienti, membri che si trasferiscono etc. - giocano spesso un ruolo chiave nel determinare lo scioglimento di un particolare gruppo. La conclusione della terapia di gruppo può indurre un'ampia gamma di emozioni, che vanno dalla felicità al senso di abbandono; tali emozioni e sentimenti diventano di solito argomenti di discussione per il gruppo. Il contesto ospedaliero e i contesti extraospedalieri. La maggior parte dei punti fin qui descritti si riferisce a gruppi i cui membri non sono ricoverati in ospedali psichiatrici. I gruppi composti da pazienti ricoverati differiscono da tali gruppi sotto diversi aspetti. Negli ospedali, in genere, i pazienti vengono assegnati ad un gruppo che si incontra ogni giorno; questi gruppi hanno un ricambio molto rapido e sono più eterogenei rispetto ai gruppi formati da non ospedalizzati. I pazienti ospedalizzati tendono ad essere più ambivalenti rispetto ai non ospedalizzati, poiché la partecipazione al gruppo per loro è obbligatoria. Essi, inoltre, soffrono di disturbi più gravi e quando non sono sotto l'effetto di farmaci antipsicotici o antidepressivi la loro capacità di partecipare attivamente al gruppo risulta notevolmente ridotta. L'obiettivo terapeutico dei gruppi di ricoverati è aiutare i pazienti a riconquistare il loro precedente livello di funzionamento e prepararli per la dimissione e il trattamento esterno. I conduttori di tali gruppi svolgono in genere un ruolo più attivo e incoraggiano maggiormente la partecipazione rispetto ai conduttori dei gruppi extraospedalieri. Infine, diversamente da quanto avviene tra i partecipanti dei gruppi esterni, il contatto tra i pazienti ospedalizzati al di fuori del gruppo è frequente dal momento che essi vivono assieme

ANALISI IMMAGINATIVA, MUSICOTERAPIA, PSICODRAMMA, PSICOSOMATICA

L'analisi immaginativa È una psicoterapia analitica-psicodinamica in quanto fonda le sue premesse teoriche nella dottrina psicoanalitica, così come si è delineata nei suoi sviluppi post-freudiani e post-kleiniani. Nell'analisi immaginativa l'immaginario ha un ruolo fondamentale nel processo di rappresentazione del mondo interno del paziente con i suoi molteplici affetti e desideri, con i suoi meccanismi di difesa ed i contenuti transferali. Diventa pertanto essenziale la funzione di contenimento del terapeuta, il quale nel suo lavoro d'interpretazione tiene conto del proprio controtransfert. All'immagine è sottesa la fantasia inconscia, che si carica di significato nuovo nella relazione terapeutica ed acquista una funzione fondamentale di conoscenza del mondo

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interno emozionale del paziente, il cui immaginario tende a modificarsi in relazione alle trasformazioni del suo mondo interno. L'immaginario mostra eventi fondamentali dell'incontro con le paure, le frustrazioni, le aspirazioni, la dipendenza, l'asimmetria della relazione e le difese relative ai sentimenti dolorosi attivati nel transfert. Quando il paziente è depresso, per esempio, l'immaginario si arricchisce e diventa più dinamico ed articolato. La musicoterapia La musicoterapia, intesa come metodologia di intervento psicologico, permette di comunicare, con l'aiuto del terapeuta, attraverso un codice alternativo rispetto a quello verbale, partendo dal principio dell'ISO (identità sonora individuale) che utilizza il suono, la musica, il movimento per aprire canali di comunicazione ed una finestra nel mondo interno dell'individuo. Dal punto di vista terapeutico essa diviene attiva stimolazione multisensoriale, relazionale, emozionale e cognitiva, impiegata in diverse problematiche come prevenzione, riabilitazione e sostegno al fine di ottenere una maggiore integrazione sul piano intrapersonale ed interpersonale, un migliore equilibrio e armonia psico-fisica. La terapia musicale ha un approccio olistico, che riguarda cioè sia la parte spirituale che quella fisica dell'individuo: i suoni, infatti, provocano nello stesso tempo reazioni emotive e risposte fisiologiche, per cui nella cura con la musicoterapia mente e corpo vengono considerati nella loro unità. La musicoterapia sollecita il coinvolgimento dell'individuo, contribuisce a risvegliare la volontà nei soggetti apatici o a moderare l'eccessiva irruenza in chi si mostra aggressivo con gli altri. I campi di applicazione di questo approccio sono diversi. Tale tecnica si è rivelata molto utile nel miglioramento dei disturbi provocati dall'ansia e dallo stress. Le sedute di musicoterapia, infatti, possono distendere efficacemente i soggetti troppo tesi o, al contrario, restituire ottimismo e vitalità a quelli che soffrono di momenti di apatia o di depressione. Lo psicodramma Lo psicodramma è un metodo d'approccio psicologico che consente alla persona di esprimere, attraverso la messa in atto sulla scena, le diverse dimensioni della sua vita e di stabilire dei collegamenti costruttivi fra di esse. Lo psicodramma facilita, grazie alla rappresentazione scenica, lo stabilirsi di un intreccio più armonico tra le esigenze intrapsichiche e le richieste della realtà, e porta alla riscoperta ed alla valorizzazione della propria spontaneità e creatività. J. L. Moreno, psichiatra e pioniere nel campo dei processi di gruppo, ha scoperto negli anni '20 l'importanza e l'efficacia per la persona della rappresentazione scenica di ciò che ella vive, ha vissuto, desidererebbe vivere, avrebbe desiderato vivere, etc. Tale messa in scena permette di avviare, in un contesto protetto e rassicurante, un dialogo percepibile, attivo e costruttivo fra i diversi aspetti della propria vita. La persona giunge così ad un più alto livello di coscienza di sé e di fiducia, e può accedere a modi maggiormente spontanei e creativi nel relazionarsi a sé e agli altri. Lo psicodramma è dunque un metodo di sviluppo personale basato essenzialmente sulla 'messa in azione' dei contenuti del mondo interno. Nello psicodramma la persona 'gioca', concretizzando sulla scena le sue rappresentazioni mentali. La psicosomatica La psicosomatica è quella branca della medicina che pone in relazione la mente con il corpo, ossia il mondo emozionale ed affettivo con il soma (il disturbo), occupandosi nello specifico di rilevare e capire l'influenza che l'emozione esercita sul corpo e le sue affezioni. In ambito medico è ormai consuetudine considerare come collegati il benessere fisico e quello psichico; mente e corpo si influenzano infatti in maniera reciproca. Appare sempre più evidente che ogni malattia organica deriva da una costellazione di fattori di varia origine, tra i quali sta assumendo sempre maggior rilievo il fattore psicologico. Si ipotizza inoltre che quest'ultimo, a

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seconda della sua natura, possa agire favorendo l'insorgere di una malattia, o al contrario favorendone la guarigione. Il trattamento delle disfunzioni o malattie psicosomatiche si avvale di molte tecniche diverse. Tra le varie metodologie elaborate sono presenti l'addestramento al rilassamento, la ristrutturazione conoscitiva ed il biofeedback. Queste tecniche offrono risultati molto efficaci contro i disturbi d'ansia; in particolare il biofeedback, ossia un apparecchio che permette di monitorare in tempo reale le principali funzioni fisiologiche come il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la respirazione, la tensione muscolare, viene utilizzato per insegnare alla persona a controllare in modo volontario le proprie funzioni corporee con il fine di produrre un maggiore stato di rilassamento e di consapevolezza del proprio corpo.