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Luca Marcigot PROSPETTIVE DI SVILUPPO DEI DISTRETTI INDUSTRIALI VENETI NELL’ATTUALE PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE A.A. 1998/1999: N.14 DISTRIBUZIONE SOLO PER FINI DIDATTICI

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Luca Marcigot

PROSPETTIVE DI SVILUPPO DEI DISTRETTI INDUSTRIALI VENETI

NELL’ATTUALE PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE

A.A. 1998/1999: N.14

DISTRIBUZIONE SOLO PER FINI DIDATTICI

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Indice

Introduzione 1

PARTE I : Descrizione della situazione attuale

1. Definizione e struttura del distretto industriale 5

2. Il Veneto e i distretti industriali regionali

19

2.1 Evoluzione storica dell’economia regionale veneta 19

2.2 Metodologia individuativa dei distretti industriali veneti 25

2.2.1 Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area

Pedemontana

31

2.2.2 Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area

Meridionale

32

2.2.3 Il distretto del mobile della Bassa Pianura Veronese 32

2.2.4 Il distretto del mobile della Sinistra Piave 33

2.2.5 Il distretto multisettoriale del Bassanese 34

2.2.6 Il distretto della calzatura e dello sport system di

Montebelluna

35

2.2.7 Il distretto della calzatura della Collina Veronese 36

2.2.8 Il distretto della calzatura della Riviera del Brenta 37

2.2.9 Il distretto della concia e del metalmeccanico di

Arzignano

37

2.2.10 Il distretto dell’occhiale della Montagna Bellunese e del

Segusino

38

2.2.11 Il distretto del marmo della Collina Veronese 40

2.2.12 Il distretto orafo di Vicenza 41

2.2.13 Il distretto metalmeccanico di Schio-Thiene 42

2.2.14 Il distretto metalmeccanico di Conegliano 42

2.2.15 Aree specializzate di estensione territoriale limitata 44

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3. I distretti industriali veneti e le dinamiche

dell’internazionalizzazione

47

3.1 L’internazionalizzazione dei distretti industriali 47

3.2 Dinamiche di internazionalizzazione dei distretti

industriali veneti

59

PARTE II : Analisi di un caso concreto

4. Il distretto industriale della Riviera del Brenta

71

4.1 La genesi storica del distretto calzaturiero e la sua

evoluzione fino al secondo dopoguerra

71

4.2 L’esplosione delle sinergie distrettuali 77

4.3 La struttura attuale del distretto calzaturiero 87

5. Percorsi valorizzanti il distretto nella logica

internazionale

97

5.1 L’azione collettiva all’interno di un distretto industriale 97

5.2 I servizi collettivi del distretto della Riviera del Brenta 103

5.3 La promozione delle specificità distrettuali

107

CONCLUSIONI

6. Un possibile sviluppo dei distretti industriali veneti

per il terzo millennio

115

ALLEGATI

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Introduzione

Il Nordest italiano, in particolare il Veneto, sta catalizzando l’attenzione dei

media e degli economisti da diversi anni per l’incredibile successo economico

ottenuto nel corso dell’ultimo decennio. Nella vasta letteratura economico-industriale

si é spesso menzionato, nonché abusato, del termine “miracolo” in riferimento ai

notevoli tassi di crescita registrati, senza neanche ricercate le ragioni alla base del

florido presente. La condizione attuale non é che il risultato del dispiegarsi di fattori

sociali ed economici maturati dall’inizio dell’industrializzazione regionale ed evolutisi

in concomitanza con lo scenario nazionale e internazionale. Solo analizzando

l’evoluzione fin qui raggiunta é possibile ipotizzare delle linee di sviluppo per il

prossimo futuro. Le tendenze presenti portano a immaginare un’economia globale, il

che non significa annullare la prospettiva locale, in quanto l’attenzione alla

dimensione internazionale deve partire da una concreta base locale.

Il presente elaborato intende adottare la logica induttiva per inserire il

contesto economico regionale nel più generale quadro internazionale. Evitando

inutili generalizzazioni, si é puntato sull’approfondimento dei distretti industriali

veneti, quali artefici di gran parte del successo economico odierno. Tali soggetti

rappresentano un importante elemento distintivo del panorama italiano e un fattore

di vantaggio internazionale. La tradizione manifatturiera nazionale ha consentito la

formazione dei distretti industriali e ne ha favorito la diffusione al punto che oggi essi

sono studiati come possibile metodo produttivo alternativo dopo il crollo del

fordismo.

Il Veneto può essere considerato l’archetipo dell’economia italiana in termini

di settori di specializzazione produttiva, per cui l’analisi regionale ha in qualche

modo un’applicabilità a livello nazionale. Ovviamente, il tessuto sociale e la cultura

locale hanno condotto a una contaminazione delle strutture economiche teoriche

dando vita a una “via veneta allo sviluppo”.

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La Parte Prima della tesi descrive appunto la situazione attuale della regione

affrontando la storia e la presente internazionalizzazione dei distretti industriali

veneti. La Parte Seconda, invece, si spinge nell’analisi di un caso concreto, il

distretto calzaturiero della Riviera del Brenta, nella sua evoluzione secolare e nella

proposta di applicazione di tecniche di marketing per la promozione collettiva. La

Parte Terza conclude il percorso tracciando possibili scenari evolutivi.

Più nel dettaglio, nel primo capitolo si affronta il concetto di distretto

industriale, analizzandone la trattazione teorica, e cercando di definirne la struttura.

Viene ivi messa in risalto la complessità organizzativa di questa entità in cui

economia e società sono inscindibili (distretto come modello sociale di

organizzazione della produzione). I valori appartenenti alle sfere dell’etica della

famiglia, della comunità locale e del lavoro si coagulano e si sciolgono in tratti

caratteristici e identificativi dei distretti industriali. Proprio la difficoltà nella loro

definizione e individuazione ha rallentato il processo di riconoscimento pubblico dei

distretti quali soggetti di politica economica; risale infatti al 1991 la prima iniziativa

governativa a tal proposito.

Nel secondo capitolo si procede dalla teoria astratta alle costruzioni concrete.

Una breve trattazione storica dell’industrializzazione regionale permette di

comprendere sia la distribuzione territoriale della produzione, sia le condizioni

macro-economiche di fondo del complessivo sviluppo dei distretti industriali veneti.

Questi ultimi sono individuati in base a un’integrazione degli studi precedenti con i

criteri delle normative pubbliche in materia.

L’internazionalizzazione viene affrontata nel capitolo terzo partendo dal

concetto di economia della conoscenza come fondante lo scenario post-fordista.

Infatti il declino del sistema produttivo fordista, l’evoluzione dell’Information

technology e l’espansione del commercio internazionale aprono la via alla

ristrutturazione dell’economia mondiale verso una dimensione globale. I distretti

industriali, in quanto soggetti economici, partecipano a questo salto evolutivo e si

riorganizzano per poter agire attivamente nel nuovo equilibrio strutturale. Forme e

metodi di internazionalizzazione modificano gli assetti dei sistemi produttivi locali e li

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spingono a rafforzare i loro fattori di vantaggio per affrontare la competizione

globale.

In particolare, il distretto calzaturiero della Riviera del Brenta é sensibile al

mutamento dello scenario internazionale in quanto più dell’80% della sua

produzione viene destinato all’esportazione. Le origini, i contesti e i meccanismi

genetici, i fattori e gli attori dello sviluppo, le dinamiche del cambiamento, le

continue trasformazioni che hanno contraddistinto il percorso evolutivo del sistema

brentano consentono di analizzare la struttura attuale e i meccanismi di

cooperazione e collaborazione fra le imprese (capitolo quarto). Importanti forme

autoregolative consentono alla Riviera del Brenta di affrontare i nodi critici del

passaggio all’economia globale in modo unitario e coeso.

In quest’ottica é inseribile il progetto, esposto nel quinto capitolo, di

rafforzamento della promozione collettiva dell’intero distretto e del suo toponimo a

contenuto merceologico. Valorizzando le risorse locali e connotando il sistema

produttivo attraverso tratti distintivi riconoscibili, gli si fornisce la possibilità di

partecipare alla catena internazionale del valore e di competere efficacemente con

gli altri attori mondiali.

In conclusione, le forme cooperative implicite nella struttura del distretto

industriale veneto offrono nuove opportunità per superare lo sradicamento legato

alla globalizzazione. Il territorio diventa fattore strategico per la localizzazione delle

imprese e i radicati saperi contestuali, diffusi nelle aree distrettuali, ne

rappresentano una valido elemento attrattivo. L’evoluzione deve quindi prendere

avvio dalla riproduzione dei fattori di vantaggio ambientale che hanno reso i distretti

industriali veneti protagonisti della storia economica nazionale.

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PARTE I

Descrizione della situazione attuale

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1. Definizione e struttura del distretto industriale

La storia della scienza economica vede nel corso dei secoli il succedersi di

numerose teorie e sistemi concettuali per l’interpretazione e l’analisi della realtà.

Teorie e sistemi che quindi ipotizzano o si basano su costruzioni economiche reali.

E’ infatti su alcune realtà specifiche che Alfred Marshall fonda le sue analisi

economiche dei distretti industriali. Si tratta di costruzioni umane risalenti agli inizi

del XX secolo, evidentemente meno complesse rispetto alle strutture odierne.

Ciononostante esse hanno permesso al teorizzatore delle curve di domanda

reciproca di affrontare il concetto distrettuale. La regione del Lancashire, l’area di

Sheffield, il distretto tedesco della Ruhr e molte altre presentavano similitudini

produttive talmente rilevanti da poterne trarre la concettualizzazione di un idealtipo.

In “Industry and Trade” del 1919, Marshall offre una chiara spiegazione del

distretto industriale quale alternativa produttiva alla grande impresa per il

conseguimento di economie di scala, economie non basate sull’internalizzazione

delle fasi produttive all’interno di un’unica grande oragnizzazione bensì sulla

presenza di economie esterne alla singola impresa ma interne al distretto. Una sorta

di factory without wall1 in cui si respira una comune “atmosfera industriale”

caratteristica di quel determinato territorio. E’ infatti l’attenzione prestata al territorio

che permette di dare rilievo a questi sistemi integrati di medie e piccole imprese

specializzate che sviluppano legami stabili fra loro dando vita a un’intensa divisione

locale del lavoro .

Sistemi caratterizzati da un ispessimento localizzato delle relazioni

interindustriali che consente di raggiungere i rendimenti crescenti tipici delle aree

considerate. Ovviamente, un tale sistema di piccole imprese può raggiungere la

piena utilizzazione di strumenti di lavoro altamente specializzati se il processo

produttivo é scomponibile e le sue componenti sono ripartite appropriatamente fra le

1 G. Becattini (1981).

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unità. Per cui la distribuzione territoriale é fortemente correlata alla scomponibilità

del processo produttivo. Con la scomposizione della produzione si verifica un

conseguente aumento di frequenza dei contatti fra le unità e una completa divisione

del lavoro poggiante su una solida professionalità. Ed é grazie a questo moltiplicarsi

degli scambi fra le imprese che si può introdurre i concetti di collaborazione e di

cooperazione caratteristici dei distretti. La necessità di contatti rapidi ed efficaci

implica un aumento dei vantaggi di una localizzazione comune delle attività

produttive e l’instaurazione di un clima di completa fiducia reciproca. Tali

considerazioni risalenti a inizio secolo appaiono particolarmente anticipatrici di quelli

che verranno identificati da O.E. Williamson negli anni ‘70 come costi di transazione.

Da questo breve accenno al pensiero marshalliano si può già capire che

l’originalità del suo contributo sta anche nel fatto che non si tratta del risultato di una

semplice analisi economica ma di una complessa interazione fra le scienze sociali,

l’economia e la geografia. Il distretto industriale “marshalliano” é infatti un sistema

socio-territoriale di produzione, un accoppiamento strutturale fra economia e società

che da vita a un processo produttivo completo. Si differenzia dalla “città

manifatturiera” (sempre seguendo una terminologia marshalliana), perché può

comprendere più centri urbani e una localizzazione industriale maggiormente

sparsa, ma soprattutto si distingue dal settore industriale. Marshall aveva proposto

due forme organizzative per l’economia industriale: il settore ed il distretto. Il primo si

differenzia tra l’altro perché le imprese sono solo in competizione fra loro, senza

essere governate da logiche collaborative, e perché astratte dai loro contesti locali;

di conseguenza il settore aggrega seguendo una logica tecnologica e mercantile

(“The Pure Theory of Domestic Values”).

Conviene a questo punto affrontare con maggior precisione e chiarezza i

connotati del distretto industriale in Alfred Marshall. Innanzitutto sono da individuare

i soggetti costituenti un distretto: un numeroso gruppo di piccole e medie imprese

raggruppate in uno stesso ambito geografico. La dimensione relativamente piccola

delle unità suggerisce la tendenza a una specializzazione in una o poche fasi del

ciclo produttivo, piuttosto che un’integrazione verticale, per cui una divisione del

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lavoro di tipo orizzontale con l’uso di tecnologie perfezionate e di una manodopera

qualificata. Spesso il numero di addetti per impresa é talmente ridotto da coincidere

con la figura dell’imprenditore e della sua famiglia. Ciò implica una professionalità

diffusa, una forte spinta motivazionale e una marcata interiorizzazione dell’attività

economica all’interno della vita sociale; vita sociale condivisa con gli altri operatori

della stessa area, per cui caratterizzata dallo stesso sistema valoriale.

L’appartenenza a uno stesso contesto sociale porta alla creazione di una

consuetudine cooperativa anche nei rapporti economici, perciò si crea la proficua

interazione fra cooperazione reciproca e concorrenza tipica del mercato. Il risultato

di tale dialettica integrativa é la spinta verso il rinnovamento continuo e lo stimolo

alla ricerca delle soluzioni produttive più efficienti. Il dinamismo e l’economicità

prodotti dalla concorrenza si fondono con i risultati della cooperazione. La

cooperazione diminuisce i rischi della partecipazione all’attività imprenditoriale

autonoma, per cui agevola l’entrata di un maggior numero di persone; consente il

frazionamento del processo di innovazione fra le imprese distrettuali; favorisce il

coordinamento delle attività complementari e permette la riduzione dei costi di

produzione grazie all’apporto delle economie esterne.

Potendo usufruire delle successive teorie sui costi di transazione, é a questo

punto possibile integrare l’analisi di Marshall per approffondire le dinamiche interne

a un distretto. Se, in base a quanto detto, vige una compenetrazione fra

competizione e cooperazione, il meccanismo che governa le transazioni non potrà

essere solo il mercato attraverso i prezzi e neanche solo la comunità con i codici

comportamentali, bensì una forma intermedia, contaminata dai due estremi. La parte

comunitaria assicura una reciprocità fra prestazione e compenso, tale da ridurre

notevolmente i costi di transazione che ci sarebbero all’interno del mercato. Così le

transazioni sono meno costose, più semplici e maggiormente variate. Infatti uno

degli elementi che ostacola e alza il costo delle transazioni é l’opportunismo degli

agenti, che però in un sistema cooperativo viene di molto ridotto2.

2 Lo stesso Marshall in un passo di Industry and Trade specifica: “Una forte individualità, la risolutezza e l’immediatezza di propositi, possono permettere ad una moltitudine di imprese britanniche di dimensioni modeste di resistere contro gli aggruppamenti potenti in tutte le industrie

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L’opportunismo può dipendere da un’asimmetria fra le parti di una transazione

per quanto riguarda le informazioni possedute, la sostituibilità dell’operazione stessa

e la spesa per investimenti specifici. Per le caratteristiche implicite al distretto tutte e

tre queste asimmetrie sono ridotte e i comportamenti opportunistici sono facilmente

individuabili e punibili con gravose sanzioni economiche, nonché morali. Altro

elemento che incide positivamente sui costi transazionali é costituito dall’incertezza.

Anch’essa viene di molto ridimensionata all’interno del distretto perché la flessibilità

organizzativa attenua i rischi per il sistema. La fiducia in una sorta di stabilità nella

mobilità, ovvero nella flessibilità, nasce dalla cooperazione garantita dalle istituzioni

del distretto e dalla famiglia nonché da una manodopera mobile e qualificata. Oltre a

ciò, la competizione promuove il cambiamento continuo nel senso di innovazione

permanente e diffusa, chiaro fattore anti-incertezza.

Man mano che ci si addentra nella descrizione del concetto “distretto

industriale”, si realizza la sua complessa costruzione e l’altrettanto ardua

decifrazione in termini economici. Come già specificato, le variabili da prendere in

considerazione sono di molteplice natura e viene richiesta una sintesi

interdisciplinare. Dopo Marshall, la scienza economica sembra essersi

disinteressata per lungo tempo alla realizzazione di uno studio sintetico sui distretti.

Ciò é imputabile all’influenza esercitata dal modello produttivo imperante lungo gran

parte del XX secolo. Il sistema produttivo fordista, il modello in questione, ha

catalizzato le attenzioni degli economisti in quanto dominatore incontrastato della

scena economica mondiale. Lo stesso distretto industriale appariva come un

decentramento produttivo a fini oppprtunistici, immeritevole di studi particolareggiati.

Negli anni ‘70, il fordismo classico entra in crisi, la grande impresa, monolitica e

complessa costruzione organizzativa, vacilla di fronte ai problemi dell’economia

mondiale3. L’attenzione quindi si sposta sulle alternative, la più probabile delle quali

sembra essere quella caratterizzante il sistema produttivo giapponese: un fordismo

nelle quali non v’é un vantaggio tecnico decisivo nella produzione continua di massa: purché tali volontà vadano congiunte ad una sincera disposizione ad imparare dagli altri, e a cooperare volentieri con gli altri in questioni nelle quali l’associazione non ostacolata ha grandi possibilità.” 3 F.Belussi, M. Festa (1990)

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maturo o “neo-fordismo”, in cui dalla potenza tecnologica si riscopre l’autonomia

dell’organizzazione sotto forma di comunicazione-cooperazione. Il rinnovato

interesse per il capitale umano, le relazioni sociali e i contesti territoriali riconduce

alla valorizzazione dei distretti industriali e con essi alla considerazione della realtà

italiana dei sistemi di piccole imprese.

Nel 1969, uno studio dell’IRPET (Istituto Regionale per la Programmazione

Economica della Toscana)4 riportava l’analisi economica al distretto, quale possibile

alternativa della grande fabbrica. Importante teorizzatore a livello italiano é Giacomo

Becattini5 che, studiando il pensiero di Marshall, mette in contrapposizione la

metodologia meccanicistica del settore e quella, più adattabile e complessa, del

distretto. Piore e Sabel (1984) enunciano una toria della specializzazione flessibile,

rompendo così l’immagine del modello unico di sviluppo e riaprendo la strada verso

la riflessione più generale dei rapporti fra sviluppo economico e territorio.

Si abbandona un approccio funzionalista in cui il territorio giocava solo un

ruolo passivo, e si riconoscono i vantaggi strategici del distretto e, in generale, dei

sistemi produttivi locali. Prendono forma studi e approfondimenti su settori rimasti

inesplorati e balzati improvvisamenti agli onori della cronaca. Un esempio fra i tanti

é la costituzione in seno alla Direzione Generale per la politica regionale della Cee

del GREMI (Groupe de Recherche Européen sur les Milieux Innovateurs) che ha

prodotto (1992) uno studio dal titolo: “Development prospects of the Community’s

lagging regions and the socio-economic consequences of the completion of the

international market”. Il milieu innovateur é il prodotto dell’unione di economie di

distretto, di prossimità e di sinergia che riduce l’incertezza e garantisce processi

diffusi di apprendimento e di trasferimento tacito di know-how e di assets

immateriali. E’ un concetto normativo per lo sviluppo di regioni arretrate che

valorizza un approccio endogeno della crescita strettamente correlato al territorio.

4 Lo sviluppo economico della Toscana: un’ipotesi di lavoro in Il Ponte, n.1. 5 Nel 1979 Becatt in i scr ive nel la “Rivista di economia e pol i t ica industr iale” un saggio dal t i tolo: Dal settore industr iale al distretto industr iale. Alcune considerazioni sul l ’unità di indagine dell ’economia industr iale .

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I contributi recenti in materia sono molto numerosi, indice della rilevanza

accordata al distretto industriale nell’attuale cornice post-fordista. Con esso si é

varcato il confine della più spinta globalizzazione, aprendo le porte a nuove

tecnologie che gestiscano gradi elevati di varietà/variabilità e a un alto livello di

comunicazione che permetta il collegamento fra luoghi molto distanti. Si delinea così

il nodo critico del coordinamento fra il localismo dei distretti e la globalizzazione

economica, ma di questo si parlerà nel terzo capitolo.

Mi preme qui riprendere una sorta di paragone evolutivo fra il metodo

produttivo fordista e quello distrettuale per dare ulteriore risalto all’importanza

attuale di quest’ultimo. Nel fordismo classico, l’organizzazione é gerarchia, prodotto

di tecnologia e mercato ed é determinata da processi di calcolo e selezione anonimi

rispetto alle capacità delle persone. L’organizzazione é una macchina pianificata,

dove appunto la tecnologia e il mercato sono efficaci algoritmi di problem solving. Di

conseguenza l’unico criterio valido di aggregazione appare il settore. Passano

invece in secondo piano i tratti salienti del distretto quali: le relazioni sociali, la

cultura tradizionale e imprenditoriale, la flessibilità lavorativa, i processi di

comunicazione e di cooperazione diffusi, la mobilità sociale e molti altri.

Nel fordismo maturo di stampo giapponese, l’organizzazione rimane sempre

al centro della produzione ma tecnologia e mercato diventano strumenti regolati

discrezionalmente dagli uomini. La macchina gerarchica fordista é inadeguata a far

fronte all’incertezza e variabilità crescenti perché ancorata a una rigida produzione

di massa (la grande impresa aveva un vantaggio quando l’evoluzione industriale

seguiva sentieri prevedibili ex ante e contrllabili ex post). Il neo-fordismo, quindi, non

mantiene la competizione esterna e la gerarchia interna come unici principi di

coordinamento operativo ma contempla anche l’interazione comunicativa e

cooperativa. Appare necessario mantenere condizioni di flessibilità e di coerenza in

un complesso sistema di interazioni e di distribuire il potere decisionale, attenuando

così i livelli gerarchici, per permettere di agire a chi si trova a contatto con problemi

e situazioni non previste. Permane tuttavia la massima compressione della varietà e

della variabilità in fabbrica, affiancata da produzioni più snelle affidate a piccole

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imprese manifatturiere specializzate. Nonostante l’evoluzione operata dal neo-

fordismo, la reale natura dei significati di comunicazione e cooperazione rimaneva

estranea al mondo della fabbrica.

La comunicazione, intesa come interpretazione, comprensione e selezione

dei significati messi in gioco dalle controparti di un gioco sociale, é un processo non

riducibile a un fenomeno meccanico. D’altra parte, cooperare significa assumere i

fini ed il senso che i potenziali interlocutori danno alle loro azioni e cercare tra loro

il punto di incontro che renda possibile il reciproco riconoscimento. Entrambi i

concetti presuppongono una relazione preesistente, tale da garantire un linguaggio

condiviso e un rapporto di fiducia reciproca. Infatti, l’organizzazione distrettuale, a

differenza di quella fordista, é una variabile endogena, intrinsecamente dinamica

perché generata da scelte di cooperazione e di comunicazione. E’ il bisogno di

interazione fra i soggetti del sistema che richiede la condivisione di un sapere di

base che crei i presupposti dei due concetti suddetti. La stessa scala

organizzativa gerarchia-mercato di Williamson6 é di confusa applicabilità al distretto

perché é difficile individuare con precisione dove finisce la società e dove inizia

l’impresa. Comunità sociale e popolazione di imprese operano nel sistema locale

attraverso la cooperazione e la comunicazione fra uomini che hanno una capacità

relazionale legata al contesto (e proprio le qualità contestuali entrano a far parte

della catena del valore). L’integrazione di economia e società genera una grande

complessità, che il distretto ha imparato col tempo a governare e a sfruttare. In ogni

caso si tratta di una complessità all’interno di un sistema dotato di coerenza, in cui le

imprese agiscono per sé e anche per il distretto nel suo insieme. Questo rapporto

fra attore e sistema viene modificato nei processi di innovazione, perché in un

momento iniziale tali processi interessano solo alcune imprese, ma il distanziamento

é temporaneo in quanto le logiche cooperative ricuciono lo strappo e riportano la

coerenza.

Il distretto non esiste in quanto organismo autonomo ma é sempre il rapporto

fra imprese e sistema ad avere un senso; solo così si può vedere la molteplicità dei

6G. Becattini (1987).

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livelli di organizzazione che coesistono. Se si prendesse come riferimento il solo

distretto si eliminerebbe la differenza con la grande impresa. Invece la differenza

esiste e si sostanzia nella decisione strategica e nell’evoluzione nel tempo. Le

strategie distrettuali non sono controllate da nessuna mente pianificatrice ma

scaturiscono da un processo di contrattazione disperso fra gli attori. Il distretto

“decide” attraverso molte decisioni interdipendenti e non coordinate. La stessa

strategia é frutto di un processo di evoluzione riconoscibile ex-post che consente la

riproduzione del sistema. Questa evoluzione modifica le forme collettive attraverso

un continuo processo di de-costruzione e di ri-costruzione operato dagli agenti

individuali che si muovono senza ruoli definiti e stabili e all’interno di una condizione

caotica. Il sistema non é ordinato e gli effetti non previsti delle azioni, grazie

all’apprendimento evolutivo, creano ordine nel caos. Il tutto avviene sempre

all’interno del distretto perché esso ha una frontiera con il mondo esterno che

rimane tendenzialmente chiusa. Solo nei momenti di crisi vi si possono aprire delle

brecce che fanno penetrare grandi imprese desiderose di accedere alle risorse

distrettuali o ne fanno uscire di interne in cerca di rilocalizzazioni più efficienti; in

pratica l’individualismo ha la meglio sulla cooperazione.

Il rapporto fra distretto e imprese non é inclusivo ma relazionale perché ci

possono essere più unità produttive localizzate in un territorio circoscritto che non

costituiscono un distretto. Tali imprese formano un distretto solo se dirigono verso

una comune direzione i loro processi cognitivi e decisionali, mettendosi a sistema

attraverso la formazione di un’identità collettiva e di circuiti autoreferenziali

necessari per la riproduzione nel tempo e nello spazio. Riprendendo la Teoria

Generale dei Sistemi, si può identificare il distretto come un sistema autopoietico i

cui elementi vengono prodotti e riprodotti dal sistema stesso secondo un codice di

differenziazione autoreferente.

Il distretto può essere interpretato allo stesso tempo come un sistema

evolutivo, cognitivo e autoregolato. All’interno di esso vige l’autoriferimento, vale a

dire un processo attraverso cui i significati vengono collaudati e stabilizzati

intersoggettivamente da individui che compongono la comunità di esperienza

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insediata in un certo contesto. Infatti la formazione di significati utilizzabili

collettivamente é diversa dalla semplice condivisione di un’esperienza. Il linguaggio

locale assume una validità intersoggettiva che serve ad esprimere un punto di vista

sistemico perché il contesto comune di esperienza diventa sistema, dotato di

meccanismi di controllo e di feedback per riprodurre un livello collettivo di

conoscenza e per introdurre le pratiche dell’agire cooperativo. Quindi il sistema

costruito intorno all’identità collettiva diventa capace di autoriferimento, qualità

immateriale che da ordine e significato ai processi materiali.

L’identità distrettuale non é una sovrastruttura ma una vera risorsa che

qualifica il distretto come medium relazionale dotato di ordine sistemico proprio.

Ciononostante il distretto rimane una “struttura dissipativa” che genera ordine dal

disordine (ordine che nasce dall’apprendimento evolutivo, aldilà dei calcoli

razionali). A livello micro, il sistema sembra non esistere invece c’é e i suoi agenti

hanno interesse a preservare le sue prestazioni cognitive e operative. Le singole

azioni hanno un doppio significato perché guidate dall’interesse personale e perché

vincolate dall’esigenza di riprodurre quei presupposti cognitivi e relazionali per

perseguire l’utilità individuale. La produzione corrente deve infatti reintegrare e

potenziare la conoscenza e le relazioni utilizzate nel corso del processo. Si tratta di

un processo circolare perché produrre non significa solo sfornare outputs ma anche

riprodurre i presupposti materiali e umani da cui prende avvio la produzione stessa.

Il distretto genera valore e vantaggi competitivi perché permette

l’accumulazione locale di informazioni, rende possibile la specializzazione e

l’integrazione delle conoscenze e delle competenze, limita fenomeni di

opportunismo e gli usi parassitari dei beni comuni. In conclusione un distretto

perfetto é un ordinatore delle interazioni che contiene, un sistema autoregolato e

una comunità capace di produrre visioni condivise. Anche se é assente una

organizzazione pianificatrice fordita, i mezzi di governance del distretto surrogano

una testa che non c’é e lo qualificano come sistema ordinato7. Le interdipendenze

distrettuali sono governate da diversi tipi di istituzione. Le regole di interazione

7 E. Rullani (1995).

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permettono di raggiungere i tre equilibri tra conoscenza contestuale e codificata, tra

competizione e cooperazione e tra conflitto e collaborazione. L’autoreferenza

sistemica distingue quali sono i confini del distretto stesso e l’identità comunitaria

costituisce un substrato comunicativo.

Finora si é accennato alla sola forma di interazione distrettuale ma l’analisi

non é completa se non si delinea l’esistenza di comunicazione e cooperazione

intercontestuali. Non può esserci nessuna possibilità di sviluppo per circuiti di

divisione del lavoro che assumano una dimensione solo locale senza aprirsi a linee

esterne. Soprattutto nell’attuale contesto globalizzato, la vera svolta del post-

fordismo implica un nuovo rapporto tra economia ed informazione su due aspetti:

nell’intelligenza artificiale e nella mondializzazione della divisione del lavoro per la

produzione e l’utilizzazione della conoscenza. Solo una forte identità locale può

inserirsi con successo nella catena internazionale del valore ma nessuna realtà

locale può permettersi di sopravvivere rimanendo ancorata a un solo ambito

territoriale.

E’ pur vero che il milieu locale fornisce all’organizzazione produttiva gli input

essenziali, quali: il lavoro, l’imprenditorialità, le infrastrutture materiali e immateriali,

la cultura sociale, e l’organizzazione istituzionale; che molti contesti locali sono dei

veri laboratori cognitivi in cui le varietà vengono continuamente sperimentate,

selezionate e conservate; ma ora non basta più. Se infatti prendiamo in

considerazione la conoscenza all’interno del distretto, essa può essere scomposta in

due generi: la conoscenza esplicita ovvero codificata e quella implicita, o

contestuale. La civiltà industriale moderna si regge su un incessante processo di

conversione di conoscenza codificata in conoscenza contestuale e viceversa.

Riferendosi a Nonaka8 , l’apprendimento si articola in 4 fasi. In un primo momento la

conoscenza tacita viene socializzata, quindi convertita in conoscenza esplicita,

ricombinata e infine assorbita nei processi concreti del fare. Si tratta di spirali

dialettiche in cui la sintesi contiene un di più rispetto ai termini originari. I primi due

8 Ikujiro Nonaka, Come un’organizzazione crea conoscenza, 1994.

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passaggi avvengono nei circuiti locali, ma i secondi si concretizzano grazie

all’apporto del sistema globale.

Di conseguenza il distretto, per collocare il proprio sovrappiù specifico e per

rispondere ai cambiamenti dell’ambiente competitivo, deve mutare continuamente la

propria struttura interna avvalendosi di apporti esterni. Ciò non significa rinunciare

alla propria identità, che deve al contrario essere mantenuta come nucleo

caratteristico di attività appartenenti all’area dei valori, delle conoscenze, e delle

istituzioni. Deve mantenere la propria diversità anche nei confronti della grande

organizzazione industriale perché detiene una modalità originale nell’allocare le

risorse della conoscenza. Grazie a questa maggiore efficienza nei processi di

creazione e di difffusione dei saperi produttivi e di mercato, il distretto mantiene un

rilevante vantaggio nel servire i settori fortemente condizionati dalla variabilità della

domanda (quale ad esempio il settore moda). Quindi, il rapporto globale-locale é la

vera sfida alla sopravvivenza dei distretti nei prossimi decenni.

Il distretto industriale é il presente di molte realtà produttive italiane, per cui

la sua sopravvivenza, o per essere meno fatalisti, la sua evoluzione, condiziona e

caratterizza il nostro sistema industriale. E’da questa riflessione che é possibile

capire l’interesse del mondo politico italiano. Infatti il distretto, da oggetto di studio

socio-economico, ha assunto negli ultimi anni in Italia un valore maggiore, quale

possibile elemento di programmazione della politica industriale. Risultava

inspiegabile la scarsa considerazione del concetto da parte dei decisori pubblici in

termini di politiche mirate. Il distretto é ormai un concetto maturo e ha superato la

fase decisamente spontanea e disorganizzata a favore di una consistente

razionalizzazione. Le relazioni aziendali non sono più guidate dall’informalità

organizzativa ma governate da pratiche di divisione del lavoro e della responsabilità.

Le relazioni inter-aziendali non fanno più parte del solo circuito fiduciario basato sul

“saper fare comune” ma sono maggiormente formali e selettive. Ed infine le

relazioni socio-istituzionali richiedono una sempre maggiore complessità di

approccio verso la delineazione di sostanziose politiche sovralocali. Nonostante ciò,

solo nel 1991, la sfera di applicabilità del concetto “sistema industriale” é passata da

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un livello puramente scientifico e teorico ad uno più normativo e pratico. La legge

317/19919 e il successivo decreto ministeriale applicativo del 1993 hanno permesso

di inserire i distretti fra i potenziali strumenti di politica economica stabilendo dei

criteri legali per la loro individuazione. L’individuazione di sistemi socio-economici

tanto complessi non era compito facile e il risultato ha portato alla costruzione di una

mappa legale non completamente sovrapponibile a quella reale.

L’art. 36, comma 2, della suddetta legge così recita: “Si definiscono distretti

industriali le aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole

imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la

popolazione residente, nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle

imprese”10. Il decreto applicativo del ‘93 fa riferimento ai sistemi locali del lavoro

individuati dall’Istat ma spesso i distretti non coincidono con i bacini lavorativi definiti

sulla base degli spostamenti giornalieri casa-lavoro. La base settoriale del distretto

si ricava dalla classificazione censuaria dell’Istat (non tanto il settore-prodotto

quanto la filiera produttiva). 11

L’ambiente di un distretto é di difficile definizione esclusiva perché fatto di una

sedimentazione del sapere, di una imprenditorialità che matura all’interno dei

processi produttivi, di un circuito politico e di decisioni pubbliche che si trovano a

stretto contatto con gli operatori economici, di un sistema di assistenza e di servizi

9 Legge n.317 del 5 ottobre 1991 intitolata: “Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese”. 10 Tale legge definisce piccola impresa “quella avente non più di 200 dipendenti e 20 miliardi di lire di capitale investito”, ma nel 1993 la Commissione Europea ha adottato una definizione ufficiale che fissava la soglia dimensionale a 250, recepita dall’ordinamento italiano con DM 12/10/1997. 11 Una volta definiti in base al criterio territoriale, le aree individuate devono soddisfare a 5 condizioni: A. un indice di industrializzazione manifatturiera, in termini di addetti, come quota percentuale di

occupazione nell’industria manifatturiera locale, che sia superiore del 30% dell’analogo dato nazionale;

B. un indice di densità imprenditoriale dell’industria manifatturiera, in termini di unità locali in rapporto alla popolazione residente, superiore alla media nazionale;

C. un indice di specializzazione produttiva, in termini di addetti come quota percentuale di occupazione in una determinata attività manifatturiera rispetto al totale degli addetti al settore manifatturiero, superiore del 30% dell’analogo dato nazionale;

D. un livello di occupazione nell’attività manifatturiera di specializzazione che sia superiore al 30 % degli occupati manifatturieri dell’area;

E. una quota di occupazione nelle piccole imprese operanti nell’attività manifatturiera di specializzazione che sia superiore al 50% degli occupati in tutte le imprese operanti nell’attività di specializzazione dell’area.

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che spesso si localizza nel centro urbano di gravitazione dell’area interessata.

L’identificarlo con il mercato del lavoro potrebbe essere un’approssimazione

accettabile se non fosse che la metodologia indivituativa messa appunto dall’Irpet

aggreghi i comuni sulla base del principio di autocontenimento12. Ciò significa che

nelle aree a bassa mobilità territoriale i sistemi locali individuati sono molto piccoli,

mentre nelle aree più sviluppate dove sono fortemente elevate le interrelazioni

funzionali, i bacini minori scompaiono. Inoltre la definizione individuativa sembra

fare riferimento ai soli distretti “marshalliani”, cioé a quelli contraddistinti da una

specializzazione monosettoriale, soprattutto per quanto riguarda il quarto criterio,

che risulta essere molto selettivo. Ciò porta a sottostimare quelle specializzazioni

che interagiscono in un sistema articolato dal punto di vista settoriale, trascurando

la possibile coesistenza di più distretti nella stessa area.

Se si procedesse a un’applicazione meccanica dei criteri ministeriali si

individuerebbero non maturi distretti ma quelle che Gioacchino Garofoli chiama

“aree di specializzazione produttiva”. Queste sono caratterizzate dalla

preponderanza di un settore che non genera tuttavia consistenti fenomeni di

interrelazione produttiva tra le imprese, in quanto tutte concorrenti nel medesimo

mercato (un esempio lampante sono i sistemi di subfornitura). Lo stesso termine

“sistema produttivo locale” , caratterizzandosi da un nucleo storicamente circoscritto

di competenze distintive, comprende più varietà di sviluppo locale, nel senso che un

bacino di mercato del lavoro può abbracciare più sistemi locali di produzione o

viceversa.

I confini sistemici non sono così netti perché le relazioni fra imprese e

lavoratori si affievoliscono man mano che ci si allontana dall’inner core. Il paradosso

di questi criteri é che non fanno emergere i distretti caratterizzati da

un’organizzazione più evoluta; quei distretti in cui si sono raggiunti livelli così elevati

di sviluppo, di divisione del lavoro tra imprese e di integrazione produttiva, che il

sistema produttivo caratterizzante si é collegato progressivamente a comparti e

12 Un sistema locale viene definito autocontenuto in entrata se la percentuale di movimenti

interni all’area é superiore al 70% dei lavoratori di attività ivi insediate; autocontenuto in uscita se la percentualedi movimenti interni all’area é superiore al 70% dei lavoratori ivi residenti.

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settori merceologici diversi da quelli di partenza (caso comune é quello in cui si

sviluppa un comparto che produce i macchinari per la lavorazione del bene tipico

dell’area. D’altronde, se non si procede con la fase individuativa, non si può

accedere ai finanziamenti previsti dalla stessa legge al comma 3, art.36 13. I

programmi per i quali le regioni si impegnano a concorrere per il 40% delle spese,

possono avere come obiettivo lo sviluppo e l’ammodernamento del sistema

produttivo locale esistente oppure quello di favorire processi di riconversione interna

o verso altri settori delle risorse attualmente impegnate nelle tradizionali

specializzazioni produttive ed interessati da fenomeni di declino industriale. E’

innegabile che i distretti debbano mobilitare le risorse e le energie di cui dispongono

per concorrere alla realizzazione dei programmi di sviluppo, ma occorre che

possano realmente accedere a strumenti finanziari regionali e nazionali e

collaborare con le Università, i centri di ricerca e la Pubblica Amministrazione.

I tentativi in atto sono ispirati dal criterio di sussidiarietà, principio cardine

dell’Unione Europea, e muovono verso la creazione in ogni sistema locale di un

luogo riconosciuto ufficialmente dalle Regioni deputato all’analisi e alla

progettazione degli interventi. Nel 1994 si é formato il “Club dei distretti industriali”

per colmare il vuoto di rappresentanza degli interessi specifici di queste realtà. Le

sue linee d’azione sono congruenti con quanto detto finora perché i suoi obiettivi

riguardano la creazione di un network informativo e cooperativo fra operatori

distrettuali, lo sforzo di dare maggior risalto ai distretti quali oggetto di politiche

industriali mirate, il sostegno degli interessi dei distretti presso il governo nazionale

e l’Unione Europea, la promozione di studi e ricerche ad hoc.

13 “Per le aree individuate ai sensi del comma 2 é consentito il finanziamento da parte delle regioni, di progetti innovativi concernenti più imprese, in base a un contratto di programma tra i consorzi e le regioni medesime, le quali definiscono altresì la priorità degli interventi”.

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19

2.

Il Veneto e i distretti industriali regionali

2.1

Evoluzione storica dell’economia regionale veneta

Il sistema economico veneto viene spesso preso come esempio di diverse

concettualizzazioni descriventi il panorama produttivo italiano. A seconda degli

autori1, lo si identifica come modello specifico, come dimostrazione dell’esistenza

della Terza Italia, come parte sostanziale del Nordest internazionalizzato, come

economia semi-periferica e via dicendo. Il Veneto é in parte descrivibile con tutti gli

appellativi suddetti, perché ognuno di essi considera una parte della storia veneta

od uno o più aspetti dell’economia regionale. Si può ammettere che un modello

veneto abbia un suo spazio teorico e una sua dignità esplicativa solo se valorizza la

gradualità del trapasso dal sistema agricolo a quello industriale accompagnata dalla

massima continuità nell’ambiente sociale e politico. Questo non significa che possa

ritenersi avulso dal sistema capitalistico e industriale occidentale, anzi il modello

rappresenta un’articolazione regionale di un fenomeno internazionale. Non

necessariamente una sola forma sociale tipica si può legare a un modo di

produzione quale é il capitalismo. Il caso veneto, con la sua matrice cattolica e

contadina, ha generato un capitalismo contaminato e specifico, fondato su un

particolare connubio di arretratezza e differenziazione. Grazie all’emergere della

comune capacità imprenditiva, le regole del gioco sociale hanno riconosciuto un

privilegio all’imprenditorialità produttiva, caratterizzata fortemente dal proprio lavoro,

al “saper fare” oltre che al guadagno materiale. La laboriosità, già presente nel

1 B. Anastasia e G. Corò (1996)

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periodo protoindustriale, e una conformazione policentrica di piccole e diffuse

aziende hanno favorito la lenta acquisizione di una logica capitalistica comune.

Nel modello dell’economia mondiale di Wallerstein, il Veneto rientra fra le

economie semiperiferiche caratterizzate dalla compresenza di attività centrali, sedi

di accumulazione e del potere economico, e di attività periferiche, luoghi con

vantaggi comparativi dovuti a un minor costo dei fattori produttivi. E’ un incrocio fra

tendenze diffusive dello sviluppo e pratiche specializzatrici. Secondo la visione

microeconomica di Goglio, la stessa piccola impresa si differenzia in centrale, che

controlla il progresso tecnico e le sue applicazioni innovative, e in periferica, che

produce beni tradizionali con scarsa intensità di capitale, alta flessibilità e basso

costo del lavoro.

Il Veneto viene visto anche come Terza Italia, assieme alle regioni centro-

nord-orientali, caratterizzata da una crescita contemporanea più veloce che nelle

zone di antica industrializzazione 2. E’ senz’altro inconfutabile la similarità fra lo

sviluppo di alcune regioni del nord-centro Italia e la loro struttura produttiva.

Notoriamente, si parla di Nordest come di un’entità economico-sociale omogenea,

nonostante la diversificazione dei percorsi di successo, perché le tendenze di

sviluppo degli ultimi decenni sono coincise e i parametri economici sono

tendenzialmente simili.

La grande considerazione di cui gode il Veneto negli ultimi anni é un

fenomeno piuttosto recente perché é sufficiente tornare indietro di mezzo secolo per

leggere nella letteratura paragoni non troppo lusinghieri con il meridione d’Italia. Se

prendiamo in considerazione i dati dei censimenti industriali del 1911 e del 1991, si

nota come la situazione si sia modificata notevolmente. Le cause sono molteplici e

di diversa natura, alcune sono caratteristiche del contesto regionale, altre rientrano

in dinamiche nazionali o internazionali. In genere il rapporto regione-nazione si é

mantenuto piuttosto omogeneo e sensibile, legando le due economie nella

condivisione dei trend positivi e di quelli al ribasso. Dei settori di produzione

nazionali, in Veneto sono stati soprattutto quelli tradizionali (tessile-abbigliamento,

2 Tralasciando in questa sede una verifica della validità epistemologica e descrittiva del concetto di Terza Italia, esso rimane pur sempre di importanza relativa per aver superato il paradigma dualistico e in generale le semplicistiche classificazioni territoriali dello sviluppo.

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industria del mobile e meccanica leggera) a giocare un ruolo da protagonisti. Tali

produzioni si sono sviluppate all’interno di un contesto con specificità quali: una

forte polarità industriale con molte piccole e medie imprese, un’urbanizzazione

diffusa e un basso costo di riproduzione della forza lavoro, (anche per l’utilizzo di

lavoro non pagato in imprese famigliari).

L’abbondanza e il basso costo della forza lavoro sono stati determinanti per

l’industrializzazione veneta, già a partire dalle prime forme protoindustriali

settecentesche specializzate nel tessile. Il passaggio dalla protoindustria alla

fabbrica si é completato solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo con il polo

laniero di Schio. L’industrializzazione quindi é avvenuta, come nel resto d’Italia, in

un secondo tempo rispetto ai Paesi del Nord e si é contraddistinta per un suo

insediamento “dolce” nel territorio.

La struttura industriale tipica della regione si delinea peró pienamente dopo la

seconda guerra mondiale quando, le esportazioni, sostenute da una fortissima

domanda estera dovuta alla competitività delle merci venete, stimolano il sorgere di

numerose imprese di piccole e medie dimensioni.

Lo stato interviene in regione con una politica di sostegno economico solo a

partire dal 1957 con la legge n. 635, dal titolo “Legislazione sulle località

economiche depresse”. Tuttavia, l’intervento statale (rinforzato e razionalizzato con

la successiva legge 614/1966) non fa altro che accentuare il disequilibrio regionale.

L’imprenditoria minore che nasce da queste manovre assomiglia a quella

degli anni ‘30 e si caratterizza per numerosi fattori poco qualificanti: l’assenza di una

coscienza di classe, la scarsa cultura innovativa, la casualità della scelta

imprenditoriale, il dirottamento extraziendale del profitto con conseguente

sottocapitalizzazione, l’elevato turn over degli imprenditori, la forte componente di

lavoro terzista, l’utilizzazione esasperata della legislazione sull’artigianato, ecc.

Quindi viene naturale la riflessione degli anni ‘60 sulla qualità e la stabilità dello

sviluppo, sulla riduzione della distanza fra le poche grandi industrie e le diffuse

piccole imprese, indice di un capitalismo atipico e dualista. Dibattito, questo, che

non ha avuto modo di maturare perché gli anni ‘70 registrano un boom del Veneto

tale da far dimenticare i problemi del decennio precedente. Il successo di questi anni

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é essenzialmente attribuibile alla connotazione periferica dell’economia regionale.

La politica economica nazionale ha fatto fronte all’aumento del deficit dovuto alle

crisi energetiche manovrando i tassi di cambio e così favorendo le esportazioni più

flessibili.

Gli anni ‘70 sono stati anche il momento delle rivendicazioni salariali, del

decentramento produttivo e dell’aumento di complessità delle forme giuridiche

d’impresa. Dal 1973 al 1978, i tassi di crescita del margine industriale lordo flettono

a causa delle maggiori spese energetiche e per il personale, anche se il Veneto non

é stato toccato da violente lotte sindacali vista la scarsa presenza in regione di un

proletariato cosciente. Tale assenza é giustificabile viste le dimensioni ridotte delle

unità produttive e l’ampia offerta di manodopera a basso costo. Infatti negli stessi

anni si spinge verso un decentramento produttivo che razionalizzi la struttura

organizzativa togliendo potere al sindacato e aumenti la flessibilità. Un esempio lo

può fornire il settore tessile, che negli anni ‘70 ha subito una profonda

trasformazione che lo ha portato alla definizione del “sistema moda”, cioé di

un’interconnessione fra il tessile e l’abbigliamento. L’espulsione degli imprenditori

improvvisati degli anni della legislazione per le aree depresse, la specializzazione

produttiva, l’espansione grazie alla combinazione di elementi arretrati e di forti

investimenti in alcune fasi della produzione, la razionalizzazione organizzativa ed

amministrativa hanno contribuito all’affermazione mondiale dello “stile italiano”.

Lo scorporo di fasi in impianti giuridicamente distinti, dietro al quale si

intravedono chiari benefici in termini fiscali, ha portato alla costituzione di mini-

sistemi d’impresa sempre immersi in quel grande distretto tessile che può essere

considerato il Veneto nel suo insieme. Anche negli altri settori della specializzazione

produttiva veneta ci sono stati importanti evoluzioni verso nuove forme organizzative

ed aggregative. Anastasia e Rullani identificano nell’ “area tipica” un esempio di

sviluppo periferico. Queste aree sono un modo di organizzazione della

differenziazione industriale che utilizzano l’arretratezza, in termini per esempio di

basso costo salariale, innescando un processo di rapida industrializzazione

indirizzato verso i settori tradizionali. Si sviluppa un’elevata specializzazione in

alcuni comparti concentrati in zone fortemente integrate e una capacità sociale di

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gestire il ciclo produttivo (“socializzazione manifatturiera”) cosicché i fattori

imprenditoriali si diffondono velocemente, la produzione diventa molto flessibile e

adattabile alle esigenze del mercato e l’offerta del lavoro si connota da un alto grado

di mobilità. Il pericolo nello sfruttare le forme di marginalità estrema é un

appiattimento verso il basso delle maggiori variabili differenziali come la tecnologia

e la professionalità a chiaro svantaggio della qualità.

E’ evidente come l’area tipica abbia una forte parentela descrittiva con il

distretto industriale ed é comprensibile visto che agli inizi degli anni ‘80 l’attenzione

comincia a rivolgersi verso questo sistema produttivo come esempio che coniuga il

protoindustriale ed il post-fordismo. Durante questo decennio il Veneto é sempre

più neo-industriale, con una produzione manifatturiera che tende ad integrarsi alle

attività di servizio incorporando dosi crescenti di informazione e di conoscenza. La

settorializzazione manifatturiera si qualifica come sempre meno tradizionale e

presenta degli optimum a livello mondiale come l’orafo di Vicenza e gli strumenti

ottici e l’occhialeria di Belluno. Il settore moda e il sistema casa-arredo assommano

il 40% degli addetti manifatturieri e la filiera meccanica acquista centralità fra le

specializzazioni più promettenti. Le imprese individuali diminuiscono per lasciar

spazio a quelle societarie, infatti il 40% degli addetti é impiegato nel 23,7% delle

imprese.

La forte innovazione spinge verso produzioni diversificate ad alto valore

aggiunto e di marketing. Le attività di servizio si sviluppano nelle grandi città ma

soprattutto dove c’era già una forte base industriale. La seconda metà degli anni ‘80

decreta definitivamente l’inadeguatezza del metodo produttivo fordista, fatto di

grandi imprese verticalmente integrate e basate sul taylorismo, a favore di modelli

che incorporino un maggior grado di flessibilità e di auto-organizzazione, come la

lean production, il toyotismo e le imprese-rete. Il Veneto, vista la sua dotazione di

piccole e medie imprese nonché di sistemi produttivi locali, si trova nelle condizioni

per affrontare al meglio il post-fordismo. E così é: se poniamo il PIL del 1970 pari a

100, nel 1993 raggiunge il doppio, 200. Il reddito procapite nel 1993 é di 19,2 milioni

di Lire, tanto da poter inserire il Veneto nel novero delle regioni più ricche d’Europa,

assieme alla Baviera, al Baden-Württemberg, alle Rhône-Alpes e a poche altre. Il

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reddito medio mensile famigliare veneto (1993) é di 3,7 milioni, il più elevato di tutta

Italia. Il tasso di disoccupazione nel 1995 é di poco superiore al 7% rispetto a una

media italiana del 15%. L’export veneto nel 1960 era il 5% del totale made in Italy,

nel 1993 é il 18%. Il 1993 é in effetti un anno atipico perché gode degli effetti della

recente svalutazione della Lira. Infatti l’export ha mantenuto un buon andamento

fino al 1990, poi la rivalutazione di fatto della Lira dovuta al diiferenziale

inflazionistico fra Italia e partner commerciali ha condotto alla crisi valutaria del

1992, all’uscita dallo Sme e alla conseguente svalutazione monetaria del 20% circa.

Ancora una volta l’economia veneta ha visto un’impennata della crescita grazie alle

manovre sul tasso di cambio, che le hanno permesso nel 1994 di avere un saldo che

corrispondeva alla metà di quello italiano e la propensione all’export10 più alta di

tutte le regioni. I 2/3 delle transazioni internazionali avvengono con l’Europa

Occidentale e riguardano il settore meccanico, il sistema-moda e il legno-mobilio.

Il Veneto, e il nordest in generale, ha assunto sempre più la fisionomia di un

complesso di sistemi produttivi locali organizzato in distretti industriali e in città

diffuse11 con forti esternalità ambientali ed economie di localizzazione. La

dimensione locale e territoriale delle relazioni socio-produttive ha acquistato

rilevanza rispetto alla globalizzazione eliminando il concetto di centralità di un’area

rispetto ad un’altra. La gamma dei percorsi evolutivi che un sistema di produzione

locale può intraprendere dipende dalla sua capacità di rispondere agli stimoli senza

perdere la propria identità. Se la struttura interna del sistema entra in sintonia con le

trasformazioni dello scenario globale si verifica un accoppiamento strutturale

(matching), ciò che é avvenuto nel Nordest dagli anni ‘70. Inoltre il Veneto gode di

un particolare vantaggio dovuto alla sua posizione geo-economica. Secondo lo

studio del 1995 “Europa 2000+” della Commissione Europea, l’Unione si può

suddividere in 11 raggruppamenti transnazionali. Il Veneto fa parte dell’ Arco alpino

(assieme a Rhône-Alpes, Baden-Württemberg, Baviera, Svizzera e Austria), la

regione con il più alto PIL procapite, attraversata dalla principale arteria est-ovest.

10 definita come il rapporto fra le esportazioni e il valore aggiunto. 11 La città diffusa é un prodotto e una condizione del distretto industriale e si misura con l’indice di accessibilità, che dipende dalla distribuzione della popolazione sul territorio e dalla dotazione infrastrutturale che assicura i collegamenti.

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I vantaggi del Veneto sono molteplici soprattutto nell’attuale contesto post-

fordista, a cominciare della capillare distribuzione sociale della conoscenza, alle

pratiche della cooperazione economica e all’imprenditorialità diffusa e al lavoro

auto-organizzato. Ma non tutti i vantaggi rimangono costanti nel tempo, per esempio

l’offerta di lavoro non é più un punto di forza tale su cui poter basare la competitività

internazionale. Il costo della manodopera si é livellato con quello di altre regioni

europee, la popolazione attiva sta subendo un declino a causa della transizione

demografica, il livello di istruzione si é elevato (pur rimanendo inadeguato agli alti

standard richiesti dalla società globale e tecnologica) e con esso le aspettative

economiche dei nuovi lavoratori e l’etica del lavoro staccanovista ha meno presa

nella popolazione giovane. Il successo economico non ha diffuso un benessere

sociale omogeneo ma ha acuito una certa disuguaglianza, perché, se da un lato il

reddito da lavoro autonomo é aumentato, dall’altro é diminuito quello da lavoro

dipendente e da capitale. La ricchezza finanziaria netta ha segnato un’ascesa nel

corso degli ultimi anni ma essa é di certo più concentrata che il reddito disponibile.

La stessa dotazione infrastrutturale, essenziale per un sistema produttivo

distrettuale, presenta oggi segni di invecchiamento e di inadeguatezza per cui

richiede una modernizzazione sia a livello materiale che immateriale. I miglioramenti

da apportare in comunicazione e trasporti devono essere accompagnati da una più

radicale politica di innovazione ambientale , basata non su una logica incrementale

quantitativa ma su una qualitativa che miri a sviluppare un alto grado di

interconnessione.

2.2

Metodologia individuativa dei distretti industriali veneti

Dalla metà degli anni ‘80 in poi si sono succeduti diversi studi per

l’individuazione dei distretti industriali, ognuno dei quali ha proposto una serie di

grandezze con cui operare la delimitazione. Il problema non é di facile risoluzione

perché il distretto é una struttura socio-economica complessa con significative

differenze fra una costruzione concreta e l’altra. L’individuazione geografica, seppur

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problematica, é essenziale per studiare la consistenza del fenomeno e le sue

trasformazioni da un punto di vista economico e sociologico.

Nel 1986 é stato pubblicato una ricerca condotta dall’IRSEV (Istituto di

ricerche economiche per il Veneto) che classificava i comuni sulla base della

tipologia dell’occupazione industriale, individuando 11 specializzazioni settoriali

(mobile, calzature da passeggio, calzature sportive, elettrodomestici, ceramica,

concia, alluminio, zucchero, marmo, lana e il polo di Marghera) ma non tutte realtà

distrettuali perché mancava una distinzione tra grande e piccola industria. Gli studi

IRPET-ISTAT su dati dei censimenti del 1981 e del 1991 hanno per oggetto l’intera

realtà italiana. Il procedimento applicato consisteva in tre stadi successivi, a

cominciare da una regionalizzazione funzionale dell’Italia in base al rapporto tra

addetti e popolazione attiva a livello comunale e a una misura dei flussi giornalieri

casa-lavoro, si procedeva verso un’analisi della struttura economica dei sistemi

locali dell’industrializzazione leggera, selezionando quelli con specializzazione

manifatturiera dominante e con presenza relativa di piccole e medie imprese.

Risultavano esserci 61 distretti con 900000 occupati, il 5,4% del dato complessivo

nazionale, nei quali l’industria aveva un peso triplo rispetto che nel resto del

territorio italiano. Il Veneto presentava solo 8 distretti, dato che dimostra l’eccessiva

selettività del criterio individuativo e quindi l’inapplicabilità.

Nel 1993, l’indagine statistica condotta da Anastasia e Corò fornisce una

mappa più realistica della realtà distrettuale veneta con le sue specializzazioni

settoriali. Le fonti per l’estrapolazione dei dati sono i censimenti decennali Istat dal

1951 al 1981 e le elaborazioni di particolari archivi amministrativi. La mappatura

territoriale di riferimento deriva dalla classificazione in aree funzionali costruita sulla

base delle relazioni di interdipendenza nei flussi pendolari casa-lavoro e

l’articolazione settoriale é un’estrapolazione dai dati censimentari. Gli indicatori

applicati sono: il coefficiente di concentrazione territoriale (CS1), il coefficiente di

specializzazione settoriale (CS2) ed il quoziente di localizzazione (QL)12. Il Veneto

12 Se A=addetti S=settore T=totale manifatturiero i=area funzionale r=macroregione, CS1=(ASi/ASr)-(ATi/ATr) CS2=(ASi/ATi)-(ASr/ATr) QL=(ASi/ATi)/(ASr/ATr)

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risultava avere nel 1981 616.349 addetti nel settore manifatturiero impiegati in

64.000 unità locali (dimensione media inferiore ai 10 addetti per unità locale); nella

graduatoria fatta in base all’intensità di specializzazione compaiono nell’ordine

l’abbigliamento, il mobilio, le calzature, la maglieria e la concia (nella tabella n.1 si

confronta i valori del 1981 e quelli di dieci anni dopo); il quoziente di localizzazione

presenta i valori più alti per l’occhialeria, la concia, il mobilio, il materiale elettrico di

illuminazione, l’oreficeria e via dicendo. In generale si nota una corrispondenza fra

le specializzazioni venete e quelle nazionali (eccetto per il settore elettromeccanico

e della costruzione di autoveicoli) tanto da poter affermare che il Veneto é

l’archetipo statistico dell’Italia.

Tabella n.1 Gruppi di attivita' economica alle prime 20 posizioni secondo l'ordine decrescente di specializzazione del Veneto rispetto all'Italia

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Per quanto concerne propriamente la delimitazione dei distretti, l’analisi

Anastasia-Corò ne individua 13 (tabella n.2) con specifici caratteri distintivi (allegato

n.1).

Tabella n.2 Quadro riassuntivo dei distretti individuati. Indicatori di specializzazione e di dimensione

Fonte: elab. Anastasia-Corò, su dati Istat, Censimento economico 1981

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Il 1994 vede la proposta del Dipartimento Industria e lo studio sui sistemi di

piccola impresa condotta dall’Osservatorio Regionale del Mercato del Lavoro su dati

CERVED dello stesso anno (allegato n.2). Entrambe le analisi rappresentano dei

tentativi che non hanno condotto a risultati sostanzialmente diversi o più esaustivi di

quelli degli studi sopracitati.

L’attenzione sull’individuazione dei distretti si é particolarmente accuita a

causa della legge 317/91 e al relativo DM di applicazione del 1993 (vedi pagina 15).

La regione Veneto sta procedendo all’individuazione dei distretti ufficiali seguendo i

criteri ministeriali ma corretti col fine di restituire un’immagine della realtà aderente

alla conoscenza empirica. Infatti la procedura di delimitazione é preceduta da un

quadro conoscitivo di fondo, realizzato anche attraverso tecniche di analisi

multidimensionale dei dati sul territorio, é integrata dai risultati delle esperienze di

delimitazione di distretti effettuate negli ultimi anni e prende in considerazione i dati

del censimento ‘91, del CERVED 1994 e dell’Archivio Imprese del 1996, piuttosto

che del censimento ‘81 come indicato dalla legge. L’individuazione dei distretti

avviene procedendo secondo l’ordine discendente delle specializzazioni settoriali

della regione rispetto al contesto nazionale, partendo dalle filiere settoriali diffuse su

vaste aree del territorio.

Fatte queste considerazioni, prenderò i risultati di tale proposta individuativa

come base della descrizione specifica dei singoli distretti veneti. I distretti individuati,

seguendo i criteri ministeriali “allargati”, risultano essere 16 distribuiti nell’arco del

territorio regionale (allegato n.3); 10 rientrano perfettamente nei parametri

ministeriali, 3 soddisfano le 5 condizioni ma non sono costituiti da un intero sistema

locale del lavoro e 3 sono zone contenute all’interno di territori distrettuali ma che si

caratterizzano per una specializzazione settoriale differente (tabella n.3).

Come si può notare dall'allegato n.4, il Veneto può essere considerato un

unico grande distretto del settore tessile-abbigliamento e di quello metalmeccanico,

anche se entrambe le specializzazioni presentano pure delle aree particolarmente

concentrate.

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Tabella n.3 Valore dei parametri di cui al DM 21.04.1993 per i distretti industriali individuati

Le riflessioni di carattere generale riguardanti il concetto di distretto

industriale e la storia veneta devono essere calate nello specifico e integrate da

approfondimenti validi localmente (per esempio alcune concentrazioni di

specializzazioni territoriali si formano sul tronco di antiche tradizioni ma con salti

tecnologici, economici ed organizzativi, mentre altre sono frutto di una lenta

evoluzione dell’artigianato rurale). Lo stesso concetto di distretto industriale

manifesta nello specifico diverse sotto-caratterizzazioni: ci sono i distretti industriali

“sicuri” (aree extraurbane specializzate in una produzione dominante con un numero

di addetti nel settore rilevante rispetto al totale regionale), i distretti industriali

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integrati dove coesistono più aree specializzate e i distretti industriali “nascosti dal

contesto urbano” (concentrazioni annegate nella varietà produttiva delle città).

2.2.1

Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area Pedemontana

L’area in questione si estende su tutta la fascia pedemontana (allegato n.5)

da Valdagno a Treviso, con un appendice nel Feltrino, comprende gli ambiti di più

antica industrializzazione, sviluppatisi intorno all’industria tessile, il cui insediamento

era favorito in origine dall’intensificazione degli scambi allo sbocco delle valli e dalla

disponibilità di risorse idriche. L’origine storica dello sviluppo di questa zona va

sottolineata per evitare l’equivoco di considerarla come un sistema marginale e

periferico dell’industria italiana. In realtà, tra la fine del XVIII secolo e la prima metà

del XIX, si sono manifestati alcuni dei momenti più significativi

dell’industrializzazione italiana (basti solo pensare a imprenditori come Francesco

Rossi e Gaetano Marzotto jr). E’ quindi un esempio emblematico dell’attuale

successo del Nordest, che non é un episodio congiunturale emerso solo con la crisi

dei sistemi urbani ed industriali fordisti, ma l’esito di processi storici e sociali di lunga

durata e ben radicati nell’evoluzione dell’industria europea.

Ancora oggi il sistema delle medie e piccole imprese coesiste con alcune

unità di maggiori dimensioni che hanno una posizione leader nei rispettivi settori. In

tutta l’area all’attività prevalente si associa un tessuto di piccole imprese del settore

metalmeccanico, particolarmente concentrate intorno ai poli urbani, che ha

conosciuto ultimamente un intenso sviluppo articolato in molte specializzazioni. Al

suo interno ci sono centri in grado di ospitare i servizi di sostegno al distretto quali

Treviso, Bassano del Grappa, Schio, Thiene, Castelfranco Veneto, Valdagno e

Feltre. Al presente é in corso all’interno del distretto un ripensamento delle logiche

produttive perché nel corso degli anni ‘90 si é verificata una forte crisi occupazionale

come conseguenza della perdita di competitività nel comparto della subfornitura

rispetto ai mercati del lavoro emergenti dell’Europa Orientale e del Terzo Mondo (dal

1991 al 1995, l’occupazione dipendente é calata del 17%). Gli addetti nel settore di

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specializzazione del tessile-abbigliamento erano nel 1996 41.309, il 39,92%del

totale regionale. Il tessile-abbigliamento é senz’altro un settore tecnologicamente

maturo ad alto contenuto di lavoro e i grandi gruppi veneti stanno abbandonando

l’organizzazione a ciclo completo, sviluppando solo le lavorazioni a maggior valore

aggiunto (di recente la Marzotto ha deciso di delocalizzare diverse fasi produttive

negli stabilimenti a Cosenza e nella Repubblica Ceca, potenziando a Valdagno il

controllo strategico del gruppo). In generale la delocalizzazione produttiva si é

manifestata massicciamente verso paesi come Slovenia, Romania, Spagna, Cina,

Iran, India, ecc.

2.2.2

Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area Meridionale

Nella media e bassa pianura, la specializzazione nel settore tessile e

dell’abbigliamento é la conseguenza della scarsa presenza di altre attività industriali

(in alcuni comuni del Basso Polesine la sola industria del vestiario occupa oltre il

70% degli addetti in tutto il settore manifatturiero). Le attività industriali sono tutte di

origine recente, con forte dipendenza da alcune grandi imprese localizzate al di fuori

dell’area. Si tratta di una grande area di sub-fornitura industriale con un grado di

autonomia assai ridotto e scarsi legami col territorio, i cui problemi sono diversi da

quelli dei distretti industriali maturi. A questo modello di specializzazione

dipendente, fanno eccezione due sistemi produttivi specializzati: il primo é quello

situato nell’Alto Polesine, tra le località di Lendinara, Trecenta e Badia, all’interno

del quale si é consolidato un processo locale di sviluppo imprenditoriale nel settore

dell’abbigliamento casual; il secondo é l’area specializzata nella pellicceria a Sud-

Ovest di Padova.. La crisi del tessile menzionata per il precedente distretto ha

coinvolto fortemente anche l’area meridionale portando il numero degli addetti nel

settore da 28.268 nel 1991 a 20.715 nel 1996.

2.2.3

Il distretto del mobile della Bassa Pianura Veronese

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La filiera del legno e del mobile, che é il secondo settore di specializzazione

regionale, é diffusa in diverse parti della regione (allegato n.6), differenziandosi per

tipo di prodotti e struttura organizzativa. Il distretto della Bassa Pianura Veronese é

specializzato nella fabbricazione di mobili tradizionali in legno (7.392 addetti pari al

30% del totale regionale) e di poltrone e divani (1.469 addetti, 28% del totale

regionale). Si tratta di un distretto a forte base artigianale, dove la manualità

costituisce ancora oggi una delle caratteristiche del processo di produzione. Le

minacce allo sviluppo di questo distretto non vengono dall’emergere di nuovi

competitors mondiali quanto piuttosto dall’indebolimento del mercato esterno dei

prodotti, i quali, essendo molto caratteristici, rischiano di essere soggetti alla

modifica dei gusti della domanda, nonché all’esaurimento del mercato interno del

lavoro qualificato.

2.2.4

Il distretto del mobile della Sinistra Piave

Questo distretto, confinante con quello del mobile pordenonese, salda le due

aree limitrofe del Livenza e del Quartier del Piave, fra cui si inserisce il sistema

locale di Conegliano e Vittorio Veneto specializzato nella metalmeccanica e

nell’elettrodomestico. Complessivamente occupano circa 22.000 addetti, impiegati

per il 95% in piccole e medie imprese. La specializzazione del distretto é orientata

verso la produzione del mobile industriale e vanta la presenza di leader nazionali

nel mobile per la casa o nella componentistica. La crescita del distretto inizia negli

anni ‘50, ma é solo un decennio dopo che l’area acquisisce una struttura distrettuale

grazie al decentramento produttivo che vede la scomposizione del ciclo, la

specializzazione e la disintegrazione verticale a monte. Questo processo risulta

essere molto positivo per il contenimento delle dimensioni aziendali, nell’ottica di

un’organizzazione più snella e controllabile, e per l’innovazione tecnologica diffusa.

Con gli anni ‘70 esplode l’export, attività che porterà l’Italia a diventare il primo

esportatore mondiale di mobili. Negli anni ‘80 e ‘90, il sistema si riorganizza su tre

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livelli: a livello distrettuale si formano dei gruppi di imprese (in media 4,3 mobilifici

per gruppo) per esigenze di diversificazione e di ulteriore contenimento delle

dimensioni. Tali gruppi attuano un decentramento operativo e, allo stesso tempo,

una centralizzazione strategica che permette alla aziende membri di raggiungere

economiche sinergie. A livello aziendale si creano delle innovazioni di processo e

una maggiore varietà di prodotto e di interazione con il cliente; ed infine a livello

globale si spinge verso una maggiore internazionalizzazione attraverso nuovi canali

di distribuzione, export di semilavorati e di componenti (proiezione all’estero di anelli

intermedi della catena del valore), delocalizzazioni di parte del ciclo produttivo in

paesi a basso costo del lavoro.

Rimangono dei punti critici come lo scarso utilizzo delle conoscenze

codificate. Il basso livello di scolarizzazione dimostra che le conoscenze tecniche si

sono diffuse in un processo di learning by doing e i media cognitivi utilizzati sono

stati le merci e le persone. Invece la codificazione delle competenze vere, e non

solo di facciata, faciliterebbe l’inserimento nel villaggio globale e, di conseguenza,

amplierebbe ulteriormente l’export e migliorerebbe l’immagine. La progettualità

collettiva ha fallito nella commercializzazione di un marchio identificativo della zona

ma ha portato alla creazione dell’Istituto Professionale per l’industria e l’artigianato

di Brugnera e del Cert (Centro di certificazione e di test di Treviso, della Camera di

Commercio di Treviso con il contributo di fondi comunitari).

Un altro piccolo centro specializzato nel mobile rustico della montagna si può

individuare in un gruppo di comuni dell’Alto Agordino, ma pur presentando un alto

indice di specializzazione non ha un indice di specializzazione manifatturiero e una

dimensione occupazionale sufficienti.

2.2.5

Il distretto multisettoriale del Bassanese

Bassano del Grappa, il centro del distretto in questione, é inserito nella

Fascia Pedemontana del tessile ma presenta delle sottospecializzazioni in settori

differenti. 33.900 occupati in attività manifatturiere, di cui 32.100 in piccole e medie

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imprese, denotano l’importanza produttiva dell’area. Le sottospecializzazioni, che

nell’insieme rappresentano il 31,4% dell’occupazione manifatturiera complessiva,

riguardano le produzioni per l’arredamento e la casa, in particolare l’industria del

legno e del mobile (5.072 addetti), dell’oreficeria-argenteria (2.174 addetti) e della

lavorazione della ceramica artistica (concentrato in modo particolare a Nove, dove é

localizzata il 30% dell’occupazione regionale nel settore, come mostra l'allegato

n.7). Vi é anche una specializzazione settoriale minore che però riveste

un’importanza a livello nazionale: il sistema produttivo integrato di componenti per la

bicicletta. Settore questo per cui il Veneto si qualifica come regione leader, con

un’esportazione pari al 30% di quella nazionale. Questa specializzazione si é

sempre più rafforzata in termini competitivi (la produzione di selle é al massimo

livello mondiale in quanto a qualità e a commercializzazione) ma si é anche estesa

ad altri settori collaterali fino a formare un sistema di competenze distribuite che

viene riconosciuto come il terreno più fertile anche per la rilocalizzazione della

produzione di medio-grandi imprese.

2.2.6

Il distretto della calzatura e dello sport system di Montebelluna

Il terzo settore di specializzazione della regione é quello delle calzature, che,

seppur presente in diverse aree, si concentra entro ambiti storici ben definiti, di

ridotte dimensioni territoriali (allegato n.8). Montebelluna é l’idealtipo del distretto

marshalliano (Porter, 1990, lo cita come caso esemplare di cluster settoriale

integrato su base locale), basato su una specializzazione produttiva unica, ma non é

detto che lo rimanga a lungo perché sta attuando forti innovazioni di prodotto

aprendosi verso una maggiore differenziazione merceologica nella gomma e nella

lavorazione delle plastiche.

Nel 1991 gli addetti alla sola industria calzaturiera erano 8.025, tutti in piccole

e medie imprese (l’industria media ha 24 dipendenti), su un totale di 23.000 addetti

manifatturieri distribuiti in circa dieci comuni. Consideriamo alcuni numeri

percentuali per dare un’idea dell’importanza del distretto: si producono il 62% delle

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scarpe da montagna europee, il 65% dei doposcì nel mondo, il 75% degli scarponi

da sci mondiali e l’80% degli stivali da motociclismo. L’attività calzaturiera si

sviluppa nella zona già a partire da inizi ‘800, ma é nel 1936, con l’entrata dello sci

negli sport olimpici , che inizia una produzione specializzata e all’avanguardia.

Negli anni ‘70 il distretto esplode grazie alla rivoluzione della plastica e da 136

imprese si passa a 511 nel giro di pochi anni. Contemporaneamente alla

specializzazione calzaturiera, si sviluppano i settori di supporto e si crea un sistema

produttivo locale integrato che comprende la filiera della scarpa sportiva, il ciclo dei

materiali, degli stampi, e dei componenti, e la catena logistica. Gli anni ‘80 portano

una crisi determinata dal calo della domanda (anche a causa di una successione di

inverni miti) e la conseguente sovraproduzione, dall’aumento della concorrenza

internazionale e da problemi finanziari per investimenti in know how da cui il distretto

esce diversificando la produzione. Oggi infatti si parla di sport system perché oltre al

comparto neve, c’è quello delle scarpe da specialità, delle scarpe sportive e

dell’abbigliamento. L’innovazione nei processi produttivi si é caratterizzata da un

andamento incrementale e supplier dominated che non ha creato grandi vantaggi

concorrenziali proprietari ma un miglioramento dell’efficienza generale del distretto.

La superiorità internazionale del distretto é proprio nelle relazioni distrettuali, cioé

nell’organizzazione di attività di supporto e di subfornitura e in un efficiente divisione

del lavoro. Questo vantaggio sistemico ha attirato i concorrenti ad entrare nel

distretto. Ciò evidenzia un ciclo biunivoco di internazionalizzazione produttiva: se da

un lato le imprese locali hanno aperto le proprie reti di divisione del lavoro su scala

globale, dall’altro alcune imprese transnazionali hanno ritenuto strategico localizzare

propri nodi nel sistema locale. Il processo di per sé arricchisce il sistema locale di

competenze specifiche codificate e, per questo, capaci di muoversi nella rete

globale.

2.2.7

I distretti della calzatura della Collina Veronese

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Nel Veronese quella che compare ufficialmente in base ai criteri ministeriali é

l’area calzaturiera di San Giovanni Ilarione, che ha solo 1588 addetti nel settore;

invece la concentrazione a ovest di Verona (Bussolengo, Sona e altri comuni), nella

quale lavorano 3556 addetti non riesce ad apparire come sistema locale del lavoro a

causa della sua vicinanza all’area economica del capoluogo. La descrizione delle

due aree é tuttavia assimilabile per caratteristiche produttive comuni. Una strategia

competitiva orientata a sfruttare prevalentemente i vantaggi di costo ha portato la

produzione locale a un basso livello qualitativo, ciò che espone il distretto a una

forte concorrenza internazionale. L’industrializzazione precoce degli anni ‘70 non ha

favorito un radicamento delle competenze e delle risorse imprenditoriali sul territorio,

infatti negli anni ‘80 il distretto ha incominciato il suo declino perché sprovvisto di

capacità di reazione di fronte alla crisi. Dopo la rapida crescita degli anni ‘70, é

iniziato l’altrettanto rapido declino della seconda metà degli anni ‘80 che non fa

prevedere un futuro roseo all’area.

2.2.8

Il distretto della calzatura della Riviera del Brenta

E’ il distretto più importante del settore nel Veneto con 8.942 addetti. Non é

tuttavia identificabile ufficialmente perché non corrisponde ad alcun sistema locale

del lavoro vista l’elevata mobilità territoriale della su cui si insiste, a cavallo fra

l’area di influenza degli spostamenti quotidiani di Venezia e quella di Padova. Per

una descrizione più approfondita rimando al quarto capitolo e successivi, che

tratteranno in particolar modo di tale distretto.

2.2.9

Il distretto della concia e del metalmeccanico di Arzignano

Nella Valle del Chiampo si concentra uno dei più importanti distretti conciari

d’Europa con 7.335 occupati nel settore, che concentra il 75,6% di tutti gli addetti

regionali (allegato n.9). In quest’area si registra la massima esposizione verso

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l’estero delle imprese distrettuali venete, sia per quanto riguarda i mercati di sbocco

che per gli approvvigionamenti. E’ anche il distretto che meglio si identifica con il

modello di sistema produttivo locale perché l’area del mercato del lavoro coincide

con il circuito relazionale delle attività economiche. Il distretto di Arzignano presenta

nel settore della concia una struttura industriale polarizzata in quanto la produzione

per metà viene realizzata da concerie a ciclo integrato alleate in gruppi e da circa 20

medie imprese e per l’altra metà da 80 microimprese industriali ed artigiane a ciclo

completo e da terzisti.

E’ interessante invece analizzare i tentativi di attività di progettazione

collettiva interna al distretto e finalizzata a economie di scala nel rispetto dei vincoli

ambientali e nella ricerca. Nel 1984 nasce un consorzio per la gestione di un

depuratore, visti i vincoli ambientali imposti dalla “legge Merli” del 1976, ma questo

si rivela presto inadeguato e viene chiuso. Allora nel 1987 l’Amministrazione

propone la realizzazione di un Centro servizi pelle, capace di offrire servizi reali

ordinari e innescare iniziative strategiche in campo tecnologico e commerciale. Il

progetto non riuscirà ad andare oltre lo studio di fattibilità per l’opposizione e lo

scarso interesse delle imprese maggiori. I gruppi e le medie aziende rimanevano

fiduciosi nelle proprie autonome possibilità di sostenere la sfida concorrenziale, e

non volevano un nuovo soggetto che alterasse l’equilibrio di potere nel distretto. Si

tenta allora la strada dell’accordo fra le imprese stesse, che da vita a Intesa spa,

una specie di holding formata da 80 concerie che si propone di operare nei campi

della finanza e mercato, della R&S ambientale e della tecnologia di processo. Con

essa si é dato risposta su base privata al fabbisogno di azione collettiva che vi é

comunque nel distretto.

Nel medesimo sistema locale del lavoro si é verificata negli ultimi decenni

anche una formidabile crescita di attività nel comparto della produzione di macchine

ed apparecchiature elettriche (3.771 addetti); in particolare si concentra, in termini di

addetti, il 25% della fabbricazione di motori della regione, il 36% di fili e cavi isolati,

il 38% di accumulatori, pile e batterie e il 58% di apparecchi elettrici per motori.

Considerando l’insieme delle attività connesse in filiera, il settore elettromeccanico

arriva a 7.361 addetti, dei quali 5.317 in piccole e medie imprese, con un indice di

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specializzazione pari al 30,3%, inferiore di pochi decimi a quello del settore

conciario.

2.2.10

Il distretto dell’occhiale della Montagna Bellunese e del Segusino

Quello degli occhiali é insieme all’oreficeria, il settore che ha avuto la

massima crescita negli ultimi anni, espandendosi dalla culla originaria del cadore

verso larga parte della montagna bellunese, in particolare nell’Agordino, e nell’area

del Segusino. La presenza della montagna ha a lungo costituito un ostacolo per lo

sviluppo industriale, ponendo vincoli sia alla possibilità di localizzare insediamenti

produttivi che alla realizzazione di reti di trasporto. Negli ultimi anni, proprio alcune

aree di montagna hanno manifestato dei trend di sviluppo altissimi, non spiegabili

con le risorse provenienti dal turismo ma con l’evoluzione tecnica e commerciale

delle originarie vocazioni produttive. Gli occhiali (allegato n.10) sono oggi una vera

e propria monocultura industriale, unica alternativa al turismo. Al 1991 l’indice di

specializzazione manifatturiera é uno dei più elevati del Veneto, facendo segnare

70,47% nel Cadore, 64,23% nell’Agordino e 56,21% nel Comelico.

L’industria dell’occhialeria ha raggiunto livelli di sviluppo e di apertura

internazionale delle produzioni che non possono essere spiegati con la svalutazione

della Lira; la crescita accomuna sia le microimprese artigianali che i grandi gruppi

industriali (come Luxottica, Safilo, De Rigo, ecc.) divenuti leaders mondiali del

settore. La corrispondenza di performance fra piccoli e grandi produttori indica una

complementarietà produttiva che accresce il vantaggio del sistema. Il vantaggio del

sistema é anche sostenuto dalla presenza di soggetti attivi di politica industriale

come il Comitato di Iniziativa per lo Sviluppo dell’Occhialeria Bellunese, nato nel

1992 per la realizzazione di progetti di sviluppo (focalizzati in cinque aree:

l’economia distrettuale, la certificazione e la qualità, il trasferimento delle tecnologie,

la formazione, la promozione dell’immagine dell’occhialeria bellunese) e per il

consolidamento, l’innovazione, la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese

artigianali e industriali della provincia. L’istituto per la certificazione “Certottica”,

parte del progetto succitato, ha preso vita nel 1992, é una società consortile a

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carattere misto, pubblico e privato, preposta alla certificazione dei prodotti ottici

secondo i parametri determinati dalla normativa nazionale e di derivazione

comunitaria. Il centro “Cittadella dell’occhiale”, ancora in fase di realizzazione,

dovrebbe coordinare l’attività di una pluralità di istituzioni e di servizi e promuovere

l’interscambio fra industria, università e ricerca; una delle unità operative dovrebbe

essere il “Centro Servizi Occhialeria” di Tai di Cadore che gestirà una banca dati

collegata con i principali centri mondiali per la ricerca. Gli organismi menzionati

assieme al Museo dell’occhiale e alla Scuola specifica sono segnali forti dell’attività

cooperativa degli attori del distretto.

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2.2.11

Il distretto del marmo della Collina Veronese

La Valpolicella é la prima fascia pedemontana veneta, al confine con l’area

trentina e bresciana. In questa valle l’industria del marmo (allegato n.11) é una delle

attività di specializzazione di più antica origine, che concentra ancora oggi oltre il

50% degli addetti regionali nel settore. Già in epoca romana il marmo rosso di

Verona veniva apprezzato e utilizzato per nobili usi, e nel corso della storia si é

creata una competenza nel settore dell’estrazione e della lavorazione di questo

materiale. L’evoluzione del distretto é tipica di quelle aree a ridosso dei sistemi

prealpini, dove l’industrializzazione é stata innescata da un iniziale specializzazione

nell’estrazione del marmo e della pietra. Contestualmente all’estrazione si é formata

una vera competenza specifica nella lavorazione della pietra, che ha portato già nel

1867 alla creazione di una scuola professionale che preparava tecnici qualificati nel

trattamento dei materiali lapidei. Questa competenza é diventata la risorsa

strategica del distretto nel momento in cui la materia estratta in loco presentava

segnali di esaurimento. Oggi l’attività estrattiva ha carattere residuale in quanto le

400 imprese specializzate lavorano marmi e graniti di provenienza esterna (dalla

Sardegna, dal Portogallo e dal Brasile). La grande varietà di materiali lavorati non

permette di dare precise quote di mercato della produzione veronese anche se é

facilmente comprensibile come le cifre da prendere in considerazione siano di

rilevanza mondiale. Basti pensare che l’80% della produzione é destinato

all’esportazione e che nell’area sono concentrate le imprese leaders mondiali nella

lavorazione degli agglomerati. Oltre che nella lavorazione della pietra il distretto si é

specializzato nella meccanica e nel settore della logistica e dei trasporti. Niente di

strano se si pensa alla specificità che devono avere le macchine per il taglio e la

lavorazione del marmo (telai da granito, argani, levigatrici, ecc.) e alla complessità

dell’organizzazione dei trasporti e della distribuzione di un materiale così pesante ed

ingombrante (a Sant’Ambrogio Valpollicella é stato realizzato un importante terminal

ferroviario privato, grazie ad un consorzio tra imprese ed enti locali, che gestisce

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direttamente i collegamenti con i porti del Tirreno e con la Sardegna). Per cui due

nodi critici legati alla produzione principale si sono trasformati in due vantaggi

aggiuntivi. Addirittura la specializzazione nel trasporto e nella logistica ha assunto

una competenza tale che si sta applicando a settori esterni al marmo, dando così al

distretto un’ulteriore via evolutiva. La storia della Valpolicella é interessante per

capire il concetto di evoluzione di un distretto, che si modifica mantenendo sempre

delle capacità specifiche, anche se diverse da quelle originarie.

2.2.12

Il distretto orafo di Vicenza

Vicenza é con Arezzo e Valenza Po uno dei tre poli nazionali della

produzione di oreficeria e gioielleria e insieme rendono l’Italia il primo produttore

europeo del settore. La sola provincia di Vicenza nel 1993 ha trasformato una

quantità di oro fine superiore a quella lavorata nell’intera Germania, secondo

produttore europeo. Il distretto reale ha difficoltà ad emergere a livello di sistema

locale del lavoro perché la produzione specifica é immersa in un’area urbana

fortemente industrializzata, con una composizione assai differenziata di attività.

Allargando la filiera alla produzione e alla lavorazione dei metalli, si individua un

distretto ufficiale comprendente il capoluogo ed i comuni limitrofi, con un indice di

specializzazione settoriale pari al 33,1%, derivato dalla presenza di 13.168 addetti

di cui 7.024 solo nel gruppo dell’oreficeria e dei gioielli. Si concentrano nell’area il

53% degli addetti regionali nella categoria di attività “fabbricazione di oggetti di

gioielleria e oreficeria” e il 65% nella “coniazione di monete e medaglie”.

L’attività orafa vicentina é di antica specializzazione perché le prime notizie

risalgono al 1325. Oggi il sistema produttivo urbano rappresenta la più elevata

concentrazione specializzata al mondo, con un'integrazione che coinvolge alcuni

settori sia di supporto tecnico (meccanica, strumentistica, galvanica, ecc.), che di

servizio (trasporto e corrieri specializzati, sistemi di sicurezza). L’attività

dell’oreficeria ha nel Vicentino (allegato n.12) altri due centri importanti: Trissino

(958 addetti, il 34,14% sul totale manifatturiero), specializzato nello stampato e nelle

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lavorazioni manuali, e Bassano del Grappa e comuni limitrofi con una presenza di

imprese più grandi e meccanizzate specializzate in catene (2170 addetti).

2.2.13

Il distretto metalmeccanico di Schio-Thiene

Il settore metalmeccanico ha avuto una crescita formidabile negli ultimi

quarant’anni in tutte le aree della regione (allegato n.13), ma soprattutto in quelle

circostanti i centri urbani maggiori (Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Schio-Thiene,

Bassano del Grappa-Cittadella, Conegliano-Vittorio Veneto). Negli anni recenti

questa crescita si é diffusa notevolmente sul territorio, interessando anche i comuni

di piccolissima dimensione. Pur essendo il settore che ha oggi il maggior peso in

valore assoluto nella regione, esso ha tuttavia un indice di specializzazione

regionale inferiore a quello medio nazionale. Per questa ragione e per il fatto che le

aree dove é più concentrato sono in genere caratterizzate anche da una forte

presenza di attività terziarie, con conseguente abbassamento dei valori dell’indice di

industrializzazione, esso si presta con difficoltà a far emergere formazioni socio-

economiche identificabili come distretti. L’area di Schio-Thiene é una di quelle che

presenta in modo più evidente i caratteri socio-economici e l’integrazione fra

ambiente e sviluppo produttivo tipici dei distretti industriali. L’attività metalmeccanica

si é sviluppata a partire dalla produzione di beni strumentali per l’industria della lana

ed é cresciuta di importanza in concomitanza con la crisi della grande industria

tessile. Oggi conta 12.900 addetti in piccole e medie imprese, di cui 6.482 nel solo

gruppo di fabbricazione di macchine. Più precisamente 1.086 addetti (il 60,2% del

totale regionale) si occupano di costruzione e installazione di macchine tessili, 1.162

di macchine per la lavorazione del legno, 1.065 di macchine per la lavorazione dei

prodotti alimentari, e così via.

2.2.14

Il distretto metalmeccanico di Conegliano

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Il settore di maggiore importanza per l’economia dell’area e quello

dell’elettrodomestico, che al 1991 contava 2.981 addetti, il 39% del totale regionale

(gli addetti nell’intera filiera metalmeccanica sono circa 8.000 e sono impiegati nella

fabbricazione di radiatori e caldaie per riscaldamento centrale, di strutture

metalliche, di serrature e cerniere, ecc.). La specializzazione territoriale nella

lavorazione dell’acciaio, in elettrodomestici e in forniture per la collettività ha dato

vita ad un sistema di piccole e medie imprese che oggi viene indicato come Inox

valley. Il sistema produttivo attuale nasce negli anni ‘60 grazie alla ristrutturazione

della Zanussi e della Zoppas, le grandi imprese del settore. L’esternalizzazione di

fasi della produzione ha incentivato una crescita sommersa del distretto, creando

una nebulosa di attività governate dai flussi produttivi della grande impresa. Lo spin-

off dalla Zoppas ha dato vita a una miriade di piccole imprese che, dopo un periodo

iniziale di sudditanza, si sono riqualificate verso una reale indipendenza e una

ricerca di sbocchi di mercato sempre più segmentati.

Dagli anni ‘70 (anni in cui termina anche la competizione fra la Zoppas e la

Zanussi a causa dell’acquisizione della prima da parte della seconda) le nuove

aziende hanno spinto verso una specializzazione nei piccoli elettrodomestici,

essendo il settore della ristorazione collettiva piuttosto saturo. Questo settore é

coperto da poche imprese leaders (non a livello di competitori globali) e tanti

produttori interstiziali e di nicchia. Nel distretto infatti c’è un’alta densità di

subfornitura, e un forte sfruttamento delle risorse diffuse sul territorio per

l’integrazione flessibile a monte e a valle, per la ricerca di modularizzazioni e

standardizzazioni produttive. Oggi, vista l’entrata nel distretto di multinazionali che

procedono con una politica di acquisizioni, dovrebbero essere valutate nuove

strategie per rispondere alle esigenze della domanda internazionale con sofisticate

forme commerciali e di assistenza tecnica. Il quadro evolutivo appare problematico

e poco chiaro, perché, a fronte di facili de-territorializzazioni per sfruttare i

differenziali di costo della manodopera, il distretto mantiene un affidabile sistema di

fornitura e di competenze diffuse. Infatti sono presenti nel sistema delle competenze

specifiche nella lavorazione dell’acciaio inox e nel design (quest’ultimo si é

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sviluppato per il fatto che le imprese distrettuali, essendo degli inseguitori dei grandi

gruppi internazionali, vi hanno puntato in vista di una diversificazione). Tuttavia

questo insieme di competenze sono difficilmente utilizzabili in un contesto globale

perché sono essenzialmente di natura tacita e informale. I luoghi di apprendimento

non sono mai stati i centri di diffusione della conoscienza codificata, per dire il vero

quasi assenti, ma la fabbrica, con i suoi continui miglioramenti, ed il mercato,

imitando le soluzioni di successo. La grande impresa é stata produttrice di nuovi

imprenditori e di norme comportamentali, é stato luogo di accumulazione e di

riproduzione delle conoscenze.

2.2.15

Aree specializzate di estensione territoriale limitata

Il sistema produttivo del vetro di Murano é il tipico distretto invisibile a ogni

tipo di indicatore statistico, in quanto sommerso nella realtà economica di un grande

centro urbano. In uno spazio ristrettissimo si concentra un elevato numero di addetti:

2.450 localizzati per lo più nella sola isola di Murano. All’origine della

concentrazione dei laboratori vetrai nell’isola di Murano c’è una disposizione della

Repubblica Veneta, che così facendo voleva delimitare il pericolo di incendi dovuto

ai forni. In seguito il carattere artigianale-artistico della produzione ha ancorato

l’industria alle risorse lavorative locali, anche se i processi di dispersione

insediativa nell’entroterra e i vincoli di accessibilità all’area lagunare stanno

progressivamente spostando le lavorazioni fuori dall’isola. Negli anni ‘50 il distretto

ha conosciuto il massimo successo (5.000 addetti) ma da allora é iniziato un periodo

di declino che ha frenato solo negli anni ‘80, grazie all’integrazione con il comparto

dell’illuminazione moderna. Recentemente é stato introdotto anche un marchio di

qualità per le produzioni di Murano, allo scopo di salvaguardare il distretto dai

prodotti concorrenti a basso costo. La Scuola professionale del vetro e la Stazione

sperimentale sono esempi di istituzioni create con l’obiettivo di facilitare l’evoluzione

strategica e tecnologica del distretto.

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Un altro sistema specializzato di piccole imprese é quello della strumentistica

di precisione di Padova, sviluppatosi anche per la domanda proveniente dal

comparto ospedaliero-universitario, e quello dell’illuminazione ai confini tra le

province di Padova, Treviso e Vicenza.

Colpisce il fatto che non si riesca a identificare nessun distretto specializzato

nella filiera alimentare. Ciò non sorprende se si tiene conto che nelle aree di

maggior specializzazione una parte notevole dell’occupazione é di tipo stagionale. Il

turismo e il peso del settore agroalimentare spiegano, soprattutto nel litorale

orientale, la mancanza di qualsiasi specializzazione significativa in altri settori

(“distretti turistico-agro-alimentare”). A questo punto rimangono fuori dalla

descrizione gli ambiti di gravitazione dei tre poli principali e di Belluno che

ovviamente hanno una forte connotazione nel terziario (“distretti terziari

metropolitani”).

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3. I distretti industriali veneti e le dinamiche

dell’internazionalizzazione

3.1

L’internazionalizzazione dei distretti industriali

L’internazionalizzazione, intesa quale sviluppo della divisione internazionale

del lavoro tra più imprese, richiama un concetto di catena del valore non circoscritta

ad un unico ambito locale ma frutto della compenetrazione di competenze e di

risorse plurilocalizzate. L’asse della divisione del lavoro cambia sotto lo stimolo della

competizione globale e con esso anche l’organizzazione distrettuale. Le linee chiuse

della divisione del lavoro fordista lasciano il passo all’instaurazione di un sistema

aperto. Il distretto in questo assomiglia alla grande impresa fordista perché entrambi

realizzano per linee interne la divisione del lavoro; entrambi interiorizzano tutte le

specializzazioni a monte e si aprono all’esterno solo nella vendita del prodotto

finale. Le economie a monte sono possibili grazie agli sbocchi sicuri e allo stesso

tempo offrono un vantaggio competitivo alle produzioni a valle nel senso di un

accesso privilegiato. Questa sinergia crea una stabile integrazione che cementa la

complementarietà1.

Tale meccanismo apparentemente efficiente ed evoluto entra in crisi quando i

differenziali nel costo del lavoro o dei trasporti rendono conveniente la

delocalizzazione produttiva in toto o di alcune fasi del ciclo. La concorrenza

internazionale non permette di mantenere all’interno di un’economia fortemente

industrializzata come quella italiana delle produzioni labour intensive facilmente

delocalizzabili perché non basate su competenze specialistiche complesse. Nel

processo di produzione fordista, l’integrazione scoraggiava la ricerca di strade più

1 F. Belussi e M. Festa (1990).

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proficue fra fornitori esterni, mentre oggi la de-verticalizzazione ha aperto i cicli a

monte a più sbocchi possibili. Ciò vale anche per il distretto e porta a conseguenze

rilevanti in termini di chiusura e di indebolimenti aziendali o di riduzione di quote di

mercato controllate da aziende interne. Inoltre la gerarchizzazione del distretto da

parte delle imprese più forti modifica l’identità collettiva tradizionale, che non

fornisce più una base adeguata alle nuove relazioni e a una divisione del lavoro

autosufficiente. Il tessuto produttivo dei distretti mostra infatti una progressiva

dissociazione tra i circuiti finanziari e organizzativi delle imprese divenute a pieno

titolo transnazionali ed i fattori che per loro natura rimangono radicati sul territorio,

come il lavoro, l’artigianato di qualità, i servizi locali, ecc. Le imprese leader

rappresentano la sola interfaccia locale con i mercati mondiali, le reti scientifiche,

tecnologiche e manageriali esterne al distretto e quindi sviluppano strategie

autonome e divergenti rispetto alle unità più piccole. Le aziende più deboli restano

senza copertura relazionale e cognitiva, perdono fornitori e sbocchi tradizionali

oppure competono con forti concorrenti che hanno acquisito l’ingresso nel distretto.

Si può aprire un conflitto fra i due tipi di impresa che mina la coesione interna nella

sua essenza.

Molti distretti veneti hanno basato il proprio successo competitivo su una

sapiente combinazione di saperi pratico-manuali e di innovazioni tecnologiche

incrementali, il che ha favorito la crescita di imprese specializzate in settori correlati

di supporto, nati come anelli specializzati delle catene locali del valore. Ora, dal

momento che i rapporti globali non permettono più di considerare la contiguità

territoriale come un’assicurazione sulla stabilità delle relazioni, esse come detto si

sfaldano e creano una distanza evolutiva fra i due tipi di unità economiche

inducendo le imprese leader ad agire più convenientemente fuori dal distretto. Però

i settori correlati sono stati i punti di forza delle imprese maggiori, per cui

sopprimere questa collaborazione può essere molto pericoloso per entrambe le

parti.

Tuttavia le fasi de-costruttive, provocate da strategie divergenti, sono

necessarie per far balzare in avanti il distretto lungo un percorso evolutivo e non

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reazionario-difensivo. La crisi é un passaggio obbligato verso l’evoluzione e farvi

fronte può significare dover sostenere sacrifici notevoli come é successo per la

ristrutturazione delle grandi imprese fordiste. A livello di distretto si possono

verificare più possibilità, con conseguenze diverse per la struttura d’insieme. La

soluzione più semplice é che le imprese leader traghettino le minori grazie alle

esperienze distintive fatte in questi anni di emersione dal locale. Ma può anche

accadere che tutte le imprese vengano spinte dalla maggiore concorrenza ad uscire

dal mercato prettamente locale per sfruttare differenziali di competenze cognitive

nella rete globale. Infatti la conseguente specializzazione e conoscenza più spinte,

provocate dall’inserimento di nuovi soggetti competitivi nelle fasi a monte e di

produzione della qualità, possono indurre le imprese a considerare la possibilità di

vendere all’esterno del distretto le proprie competenze.

In generale l’internazionalizzazione comporta dei notevoli cambiamenti anche

nei meccanismi regolativi di base di un distretto. Dovendo intrattenere relazioni a

distanza, i linguaggi e le procedure operative non possono rimanere connotati da

una valenza unicamente contestuale ma devono aprirsi a radicali processi di

formalizzazione. Il lavoro stesso necessita di una professionalizzazione a vari livelli

per poter gestire efficientemente le nuove relazioni formalizzate. La formazione é

l’unico strumento con cui generare quel continuo rinnovamento delle competenze

tecniche e professionali della forza lavoro per assicurare il rafforzamento dei fattori

strategici del vantaggio competitivo locale. Questi cambiamenti richiedono

naturalmente un incremento degli investimenti in risorse immateriali e comportano

un aumento dei rischi da sostenere. Anche se le risorse immateriali del distretto

aumentano, ci sono delle competenze specifiche che per eccessivi costi di

riproduzione non possono essere sviluppate all’interno del distretto, per cui

comportano una dipendenza dall’esterno. Da queste riflessioni si capisce che la

variabile strategica non é più l’esportazione di merci, di macchine o di componenti

ma la formazione di canali di cessione regolata delle conoscenze e di

accumulazione congiunta di nuove competenze e relazioni.

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La forma di internazionalizzazione recente non é paragonabile a quella degli

anni ‘70 perché non si limita all’esportazione di prodotti finiti ma da spazio per

l’appunto a scambi transnazionali di beni intermedi e di conoscenze . Infatti non

avviene solo attraverso forme relazionali quali il mercato o la gerarchia ma anche

attraverso la cooperazione, la fiducia e la comunicazione2. Grazie alle forme

relazionali attuali si costruiscono delle reti transnazionali che collegano diverse

realtà locali le quali si mantengono nella loro originalità distintiva. Il distretto può

mantenere la sua originalità dell’organizzazione produttiva solo se

l’internazionalizzazione coinvolge non soltanto le imprese leader ma tutti gli anelli

della catena, perché una produzione del valore competitiva richiede una divisione

del lavoro su scala globale. La produzione internazionale del valore non riguarda

solo la singola impresa ma tutta la catena del valore, vale a dire un concetto sovra-

aziendale. Bisogna osservare il processo di internazionalizzazione delle conoscenze

presenti ai vari livelli della catena e la posizione che la singola impresa occupa al

suo interno. L’impresa mette in circolo, attraverso la catena, l’originalità del suo

patrimonio conoscitivo e della sua forza imprenditoriale, ma anche le risorse

organizzative e professionali dell’ambiente locale, le fonti finanziarie a cui ha

accesso, i servizi disponibili in loco.

Non ci sono solo le esportazioni o gli investimenti diretti all’estero ma anche

altre forme di cooperazione transnazionale che ampliano la catena del valore.

Tuttavia anche l’esportazione può essere una forma valida di internazionalizzazione

ma solo se basata sulla qualità. Se nei prodotti esportati vi sono incorporate

competenze rare ed esclusive, se il profilo di redditività é soddisfacente e se lo

sbocco nel mercato é stabile, allora la produzione dei beni oggetto di esportazione

permette una crescita competitiva internazionale ed un’evoluzione economica

dell’impresa. Al contrario, se l’esportazione é solo dovuta a differenziali di costo dei

fattori produttivi (come succede spesso nel caso di sostegno all’export attraverso

manovre sui tassi di cambio non molto ortodosse), in tal caso la produzione sarà

2 R. Grandinetti ed E. Rullani (1996).

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incentivata finché si manterranno tali vantaggi contingenti ma poi sarà

inevitabilmente soggetta a declino.

L’internazionalizzazione di una piccola e media impresa, all’interno o meno di

un distretto, si sostanzia quindi nell’esportazione o nella messa appunto di un

prodotto finito giunto da una catena internazionale o nella realizzazione di beni e

servizi intermedi per utilizzatori industriali che servono un mercato sovranazionale (a

volte infatti un’impresa internazionalizzata può non avere rapporti diretti con

l’estero)3. In ogni caso, nelle piccole e medie imprese italiane, le variabili più vicine

al centro della formula imprenditoriale non vengono internazionalizzate ma

rimangono di competenza locale; solo il mantenimento di un rapporto stretto con il

proprio territorio permette all’impresa di acquisire risorse, relazioni e competenze

peculiari. Così si viene a delineare una certa complementarietà tra l’ambiente

internazionale, che fornisce domanda e tecnologia, e quello locale, imprenditorialità,

organizzazione e lavoro. Una piccola impresa che si internazionalizza mette in

valore, attraverso un circuito internazionale, l’originalità e le risorse dell’ambiente

locale, per cui rappresenta un segnale dell’efficienza del proprio contesto. Il pericolo

infatti insorge quando il contesto locale non é più in grado di riprodurre il valore

competitivo delle risorse endogene, allora il rapporto globale-locale subisce uno

squilibrio verso il primo termine e le imprese non trovano i motivi per rimanere

localizzate in quel territorio.

In un contesto in cui lo Stato-nazione perde importanza, l’impresa per

rimanere competitiva deve sempre più fare affidamento sulle capacità del proprio

sistema territoriale4. Si ricerca l’autonomia locale non in senso di isolamento ma di

partecipazione autonoma al processo decisionale globale. Il potere politico-

normativo deve sostenere questa svolta verso la responsabilizzazione del territorio

locale come attore specifico in uno scenario sovranazionale. La politica neo-localista 3 G. Nardin (1994). 4 K. Ohmae (1998) scrive: “In un sistema economico senza più frontiere gli aggregati da considerare sono quelli da me chiamati stati-regione [...] sono questi gli aggregati economici naturali, rientranti o meno entro i confini di un determinato paese. L’appartenenza ad uno stato nazionale éun aspetto storico che non ha più importanza pratica, mentre ciò che oggi conta é il possesso degli elementi che rendono efficace la partecipazione al sistema economico globale, non ultimi quelli dell’intento e della capacità di anteporre a tutto la nuova logica economica globale.”

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dovrebbe mettere in atto non solo semplici manovre di incremento tecnologico ma

misure importanti di innovazione sociale. Le politiche locali possono promuovere un

ambiente sociale in grado di utilizzare la tecnologia come mezzo di comunicazione.

Il sistema locale avrà un ruolo specifico all’interno dell’apertura comunicativa al

globale se le trasformazioni individuali saranno estese all’insieme delle imprese

attraverso un’azione di progettazione collettiva.

Il sistema politico locale ha ancora senso ma deve spostare i suoi obiettivi di

intervento dai fattori di crescita delle imprese alla costruzione delle condizioni

ambientali foriere di nuove potenzialità sociali per lo sviluppo. Il mantenimento

dell’integrità del luogo diventa una necessità strategica in un distretto, un limite e

allo stesso tempo una condizione allo sviluppo. La politica industriale deve puntare

all’innovazione ambientale, a replicare le condizioni di competitività del sistema

locale. Per agire concretamente a favore dei distretti, la politica dovrebbe

incentivare l’arricchimento dell’ambiente socio-economico, valorizzando la struttura

formativa e creando forme di applicazione e di apprendimento nel contesto che

evidenzino la specificità dell’area. Dal momento che il territorio su cui si sviluppa il

distretto coincide nello stesso tempo con il luogo di lavoro e di vita degli individui

che ne fanno parte, un’opera di valorizzazione dell’ambiente urbano e naturale

porterebbe dei benefici notevoli a tutto l’equilibrio sistemico. Si intuisce l’importanza

di azioni di questo tipo se si pensa al potere attrattivo verso i golden collars che

esercitano i parchi tecnologici immersi in aree naturali; per non parlare della vitalità

per un sistema fortemente integrato di disporre di un’efficiente e diffusa rete

infrastrutturale e di potenti sistemi di comunicazione (logistica integrata, sistemi

telematici, marketing strategico, e altri sono delle funzioni essenziali per la

competizione globale). In definitiva la politica industriale, per facilitare l’evoluzione

attuale delle piccole imprese distrettuali , dovrebbe mettere in atto allo stesso tempo

azioni rivolte all’incremento del processo formativo, all’istituzione di centri per

l’innovazione e il trasferimento tecnologico e alll’implementazione nel territorio di

centri che offrano servizi di sostegno per l’ internazionalizzazione commerciale e

produttiva.

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Come si é avuto modo di accennare, l’internazionalizzazione attuale riguarda

sia il lato commerciale sia quello produttivo; ciò significa in una parola: multi-

territorializzazione. Grazie ai canali connettivi delle reti transnazionali un’impresa

può delocalizzare fasi del proprio ciclo produttivo in altri paesi così da poter sfruttare

il differenziale di costo, di produttività e di cultura. Si é detto che il territorio con cui

l’impresa entra in relazione condiziona enormemente il successo ed il vantaggio

competitivo della stessa. La qualità del territorio diventa così un elemento portante

della differenziazione competitiva a tal punto che le scelte di localizzazione di

un’impresa sono quanto mai cruciali e complesse. L’impresa deve scegliere

l’ambiente più conveniente dove poter integrare le proprie risorse e competenze

imprenditoriali, stabilendo un nesso evolutivo con il luogo circostante. La scelta non

si basa sul principio dell’one best way ma su quello della differenziazione

competitiva, vale a dire che non si cerca il costo minimo in assoluto o per forza

l’area con migliori dotazioni infrastrutturali ma un luogo particolarmente adatto a

quella specifica attività. Il mix fra dotazioni infrastrutturali, conoscenze contestuali

esclusive, cultura locale e qualità della vita sarà differente da impresa a impresa

perché la ponderazione delle voci non porta ad attribuire lo stesso peso a ciascuna

variabile. Alla base delle scelte aziendali c’è il principio dell’equifinalità, che spinge

a ricercare la propria strada senza dover per forza convergere verso lo stesso

standard. Il fine delle strategie aziendali, soprattutto se si parla di piccole e medie

imprese, non é il livellamento ma la specializzazione, per cui non ci sarà la corsa

verso il luogo più conveniente in assoluto. Tuttavia é chiaro che le imprese

prenderanno in considerazione un paese a basso costo produttivo per poter

realizzare delle economie significative. Le delocalizzazioni delle imprese distrettuali

venete per lo più sono motivate da ragioni di costo e non tanto dalla necessità di

acquisire competenze specifiche presenti nei nuovi territori (come é invece il caso

dell’entrata di numerose multinazionali straniere all’interno dei distretti più innovativi

e specializzati).

La de-territorializzazione impoverisce il distretto di origine in termini di

occupazione e di ricchezza prodotta e attiva pericolosi concorrenti futuri nelle aree

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di delocalizzazione. Infatti le fasi del ciclo soggette a delocalizzazione sono

abitualmente quelle più labour intensive e non richiedenti competenze lavorative

molto complesse: proprio quelle più facilmente gestibili in proprio dai lavoratori del

luogo, che, una volta acquisito il sapere contestuale minimo trasferito dal distretto,

possono entrare in competizione con fabbriche proprie5. La convenienza nell’essere

territorio scelto é a questo punto evidente e, conseguente, ne scaturisce la lotta fra

aree per attirare le imprese (ci sono esempi anche fra i paesi dell’Unione Europea:

l’Irlanda sta seguendo da alcuni anni una politica di incentivazione nella

localizzazione industriale attraverso sgravi fiscali e sostegno pubblico). Da queste

riflessioni si é appurato che la mobilità delle imprese condiziona il loro insediamento

nel territorio a logiche più performanti delle semplici origini storiche. La simbiosi fra

territorio e imprese si é in parte incrinata, permettendo d’altro canto alle seconde

una maggiore libertà e possibilità di sperimentazione di forme imprenditoriali nuove.

Se scomponiamo l’impresa in due livelli distinti, da una parte il comando e la

finanza, e dall’altra il lavoro e la produzione, noteremo che il primo é composto da

funzioni mobili che possono essere spostate perché operanti in base a un linguaggio

codificato non strettamente connesso al territorio. Al contrario, il lavoro e la

produzione sono nel loro insieme funzioni meno mobili perché consumano molta

conoscenza contestuale. Questo é confermato dagli episodi recenti perché se a una

prima vista le delocalizzazioni riguardano soprattutto la produzione, a veder meglio

ci si accorge che sono solo alcune fasi del ciclo produttivo, le meno usufruttrici di

sapere contestuale. Ad esempio, nel settore delle calzature, le uniche fasi che

hanno permesso di sperimentare la delocalizzazione sono l’orlatura e la

fabbricazione di suole, cioè le due fasi meno determinanti per la qualità complessiva

della scarpa6. Appurato ciò, le istituzioni dovrebbero investire nel territorio per

renderlo appetibile anche al livello comando-finanza, così spingendo verso

l’evoluzione competitiva ideale dei distretti. Non si può lasciare la guida del

processo alle sole imprese perché si devono mobilitare risorse sovra-aziendali, che

5 G. Nardin (1994). 6 G.L. Gregori (1990).

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solo delle istituzioni collettive, ma interne al distretto, possono gestire con una

progettualità di lungo periodo. Un piano di sviluppo e di sostegno di lungo periodo é

necessario per far in modo che le imprese facciano del radicamento territoriale una

scelta strategica stabile; tale piano non deve inoltre essere delegato a livelli

decisionali pubblici superiori perché si perderebbe così l’autogoverno competitivo e

si beneficerebbe di azioni troppo generaliste.

Tuttavia esiste tutta una serie di nodi problematici che sono irrisolvibili dagli

automatismi dall’autogoverno distrettuale e che quindi necessiterebbero di un

intervento regolatore da parte di organi istituzionali sovra-locali. L’inserimento negli

equilibri socio-economici del distretto di una massa non qualificata di immigrati, che

non sono messi nella condizione di potersi integrare con la popolazione locale, non

supplisce alla carenza di forza lavoro tradizionale dovuta all’allontanamento della

nuova generazione dall’etica del lavoro di un tempo, ma innesca processi di rigetto

di matrice razzista. La catena del valore knowleged based richiede nuovi profili

professionali che sappiano gestire alti livelli di conoscenza codificata, ma il sistema

formativo statale non colma tale lacuna perché molto distante da un’organizzazione

educativa con fini di inserimento facilitato nel mondo del lavoro7. Lo stesso processo

di mobilitazione sociale del mercato non é più sostenuto dalle istituzioni non

economiche quali la famiglia e la comunità locale. In passato, la famiglia ha

sostenuto gran parte dei costi di riproduzione della forza lavoro, i legami di parentela

e di amicizia hanno favorito la mobilità del lavoro e garantito un clima di fiducia,

agevolandolo scambio di conoscenze e di informazioni. Ora, all’interno della

famiglia, non avviene più la socializzazione dei giovani ad un sistema di valori

funzionale alla mobilitazione del mercato.

L’aumento dell’istruzione e del tenore di vita porta i giovani a non adeguarsi

più alle condizioni lavorative interne al distretto (rischiose, faticose e scarsamente

remunerate) e quindi i saperi tradizionali non codificati vengono persi con l’uscita

dall’attività lavorativa dei vecchi detentori. La conseguenza é un aumento

dell’entropia del distretto, intesa come energia non disponibile in una struttura

7 F. Belussi (1993).

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isolata (Giovannetti), e una perdita di capacità di rigenerazione delle risorse

sistemiche. Dal lato produttivo, i problemi riguardano la subfornitura che deve

adeguarsi a standard qualitativi sempre più alti e in tempi sempre più brevi, per cui

le viene richiesta una notevole flessibilità e snellezza. Le stesse delocalizzazioni, se

non regolate, aprono dei vuoti all’interno del distretto e un aumento di entropia nel

senso di un non utilizzo della forza lavoro prima impiegata. Invece il sistema

finanziario é sempre stato un punto debole delle piccole e medie imprese italiane.

Esso é fragile perché gli imprenditori hanno sempre fatto ricorso ad un forte

indebitamento bancario. Per affrontare con successo la globalizzazione, c’é bisogno

di una ridefinizione qualitativa delle fonti di finanziamento del fabbisogno delle

piccole e medie imprese, capaci di dotarle di una struttura finanziaria solida. Il

passaggio evolutivo si dovrebbe avere con l’aumento del capitale di rischio, ottenuto

grazie al mercato telematico per le quotazioni delle piccole imprese e alla

concessione alle banche di acquisire partecipazioni in imprese non finanziarie.

L’attuale indebitamento é sgradevole perché é a breve termine e ad alta onerosità;

l’accesso al sistema bancario non é semplice, nonostante la grande presenza di enti

creditizi locali, perché questi non conoscono la situazione di molte piccole e medie

imprese che spesso, viste le ridotte dimensioni, non hanno grande forza

contrattuale. La quotazione in borsa é scarsa in quanto il piccolo imprenditore non

vuole essere condizionato nelle scelte che riguardano la sua impresa e perché il

mercato mobiliare ristretto e la stessa Borsa valori rimangono per lo più degli ambiti

speculativi. Oltre ai problemi menzionati, l’industrializzazione selvaggia degli scorsi

decenni ha prodotto situazioni di mancato rispetto delle norme riguardanti la tutela

dell’ambiente. Ora la necessità di certificare il prodotto con procedure standard

(ISO9000) ha riportato in luce tutta una serie di attività fortemente inquinanti e non

in linea con i minimi parametri di tutela dell’ambiente.

Questa serie di problemi non é facilmente risolvibile dall’Amministrazione

Pubblica, che in questi anni sta riorganizzando la propria presenza in ambito locale

a cominciare dalle Camere di Commercio8 . L’impotenza dell’Amministrazione

8 Legge 29 dicembre 1993 n.580.

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Pubblica e la permanenza delle difficoltà sopracitate evidenziano la carenza di

meccanismi spontanei ed istituzionali di aggiustamento, che si ricollega più in

generale alla crisi dell’organizzazione fordista con i suoi meccanismi di regolazione

endogena. Di fronte alla richiesta di maggior governo, la risposta più semplice

sarebbe indicare una linea giuridico-istituzionalista che porti a una riforma

completa dello stato in chiave più federalista. Questa non é la soluzione perché

bisogna conservare i principi costitutivi ancora validi ed inserirvi poteri ordinatori

diversi ed addizionali. Lo stato “fordista” ha istituzionalizzato la meso-economia

corporativista, quell’area fra il pubblico ed il privato fatta di attori collettivi, che non

può essere cancellata ma semmai riformata.

Nello stato “post-fordista” il rapporto tra il pubblico ed il privato é logicamente

cambiato, per cui il sistema produttivo deve trovare dei modi organizzativi nuovi. Il

presupposto é il decentramento e l’applicazione del principio della sussidiarietà non

solo a livello europeo ma anche nazionale; si deve riprendere la formazione di

regole di interazione uniformi e universali; nuovi attori collettivi devono essere

formati in grado di affrontare i problemi attuali attraverso metodologie auto-

organizzative, così da evitare il sovracarico dello stato. La struttura reticolare può

essere permeata dall’economia per impostare l’organizzazione pubblica, creando

strutture leggere basate sull’accentramento delle regole ma sul decentramento delle

scelte. Le reti sono le institutions del post-fordismo, l’equivalente dello stato in epoca

fordista9.

Il principio cardine di tale struttura é l’autoorganizzazione competitiva che

vale in tutti gli ambiti della società, dall’economia al sistema istituzionale. Per far

funzionare un tale principio non devono esserci alcun tipo di barriere all’entrata o

all’uscita dei sistemi locali, anzi bisogna incrementare la mobilità. Ciò non é

semplice perché la “sindrome da invasione” fa considerare con timore gli elementi in

entrata non corrispondenti alle aspettative, ma questo significa ridurre il dinamismo

competitivo e fare innalzare il costo degli input. A livello economico é essenziale che

9 R. Grandinetti ed E. Rullani (1996).

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ci siano nuovi ingressi, in termini per esempio di investimenti incrementali, per

crescere e per tenere sotto pressione le forze produttive locali. Per utilizzare una

metafora biologica, il sistema é in osmosi con il suo ambiente, l’equilibrio viene

mantenuto da logiche interne che sappiano sfruttare il rapporto aperto con il resto

del mondo. Dal momento che le imprese hanno acquisito mobilità, grazie alla

scomponibilità dei cicli e alle conquiste dell’information technology, possono

rappresentare proprio un elemento in entrata del sistema che mette in concorrenza i

vari territori fra di loro per attrarre questo nuovo input.

La concorrenza fra territori fa sì che le forze produttive radicate nel contesto

ambientale specifico acquisiscano effettiva capacità di autogoverno e capiscano che

la sopravvivenza competitiva dipende dall’innovazione collettiva del sistema

progettata in prima persona e senza deleghe. Ovviamente la progettazione di tali

azioni va svolta nell’ambito locale, come tale deve essere il finanziamento relativo e

l’assunzione del rischio specifico. Quindi perché il decentramento sia permeato dalla

logica della flessibilità, non deve essere calato d’autorità con atteggiamento

illuministico ma prodotto dal locale attraverso l’auto-organizzazione. La flessibilità

poi richiede che l’organizzazione a rete presenti l’unità elementare del sistema

relativamente piccola se vuole mobilitare sensi di appartenenza e di identità

sufficientemente forti. Beninteso, ciò non significa eliminare la presenza degli attori

pubblici perché essi garantiscono l’universalità del sevizio e decidono le modalità di

spesa del denaro pubblico. Lo stato, anche se trasformato e ridimensionato in

chiave di una maggiore autonomia decisionale delle periferie, rimane presente

come struttura che garantisce l’universalità di applicazione delle regole del gioco.

L’auto-organizzazione funziona solo se ci sono le premesse sufficienti, per

esempio nel lavoro. Nei distretti, il valore sociale del lavoro é una fondamentale

risorsa di mobilitazione, l’imprenditorialità é la forza base per il rinnovamento dei

processi produttivi e la sua rigenerazione può essere pensata appunto attraverso il

lavoro auto-organizzato. Ma perché si possa innescare un processo lineare di auto-

organizzazione del lavoro ci deve essere piena occupazione, altrimenti si accentua il

dualismo fra figure avanzate e quelle marginali (l’auto-organizzazione sarebbe un

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modo per non affrontare i problemi e lasciare che i più forti dettino legge), la

relazione fra gli orari di lavoro e i tempi di vita possibile e non contrastante, i regimi

contributivi e fiscali neutrali in rapporto alle diverse forme di impiego, il

rafforzamento delle reti di welfare. Come si può notare le condizioni non sono di

semplice attuazione per cui una forma di stato é necessaria.

Le discussioni teoriche sul futuro del modello organizzativo nazionale e locale

sono comprensibili perché la caduta del fordismo e l’avvento rapido della

globalizzazione ha lasciato senza sistemi di riferimento. L’internazionalizzazione

porta con sé il rischio di un processo che spinga alla sola de-regulation senza però

produrre una vera riorganizzazione post-fordista. Se si accettasse il mercato come

unica forma di organizzazione dei rapporti economici, non si vedrebbe mai una

piena divisione transnazionale del lavoro perché il sistema sarebbe troppo instabile.

Occorre allora puntare su un’internazionalizzazione dello stato nazionale, che non

significa solo depotenziamento ma costruzione di isole di cooperazione

transnazionale, partendo dai paesi e dai problemi dove esiste una condizione di

interdipendenza più avvertita e dunque il massimo incentivo a cooperare.

3.2

Dinamiche di internazionalizzazione dei distretti industriali veneti

Usando le parole di Porter, “uno dei maggiori ostacoli alla continuità del

successo economico é il successo stesso”. Il Veneto si trova nella condizione di

impostare le linee di innovazione per mantenere e incrementare il successo

raggiunto nel corso degli ultimi anni. Il momento non é semplice perché

l’autocompiacimento per i risultati raggiunti può minare la fonte di creazione e di

rinnovamento dei fattori di vantaggio; allo stesso tempo può subentrare la paura di

perdere indipendentemente dalla propria volontà le condizioni che hanno condotto

al successo. Il pericolo di una chiusura localistica é reale e non va sottovalutato

perché condiziona direttamente l’inserimento dei distretti industriali veneti nella

logica globale. La mancanza di iniziative politiche di ampio respiro strategico, la

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carenza di investimenti sostanziosi nella ricerca, la scarsità di infrastrutture vitali, la

difficoltà di coinvolgere le imprese in progetti comuni, sono tutti segnali che indicano

la difficoltà di individuare una chiara e condivisa direzione di marcia per i distretti

veneti. Il problema é serio perché il Veneto ha sfruttato abbondantemente i vantaggi

relativi ma non ne ha impostato la riproduzione. Il successo dei diversi sistemi locali

e delle singole imprese al loro interno sembra dovuto più a invenzioni involontarie

che a progetti intenzionali.

Nonostante la notevole attenzione puntata attualmente sui distretti industriali,

non c’é ancora un progetto uniforme estendibile alle varie realtà produttive regionali

per un loro sviluppo armonico e per l’impostazione di servizi indispensabili

all’internazionalizzazione. Porter10 ha chiaramente messo in evidenza che il

vantaggio duraturo di una nazione non si sostanzia in una maggiore dotazione di

fattori, bensì in un elevato tasso di crescita degli stessi. In Giappone, la carenza di

spazio, che era uno svantaggio relativo, non permetteva di produrre secondo logiche

fordiste di massa con beni standardizzati e stoccati in magazzini prima della vendita,

così si é ricorsi a logiche di prosumership, quali il just-in-time, che hanno permesso

di superare l’ostacolo iniziale e anzi di trasformarlo in un fattore vantaggioso perché

foriero di innovazioni. In Italia, il peso dei sindacati degli anni ‘70 ed il forte aumento

del costo del lavoro ha stimolato le imprese ad investire in meccanizzazioni ed

automazioni di fabbrica, tanto che ora il paese é leader mondiale nel settore. Sono

solo alcuni esempi per sottolineare l’importanza che ha per i distretti superare

l’individualismo imprenditoriale ed affrontare un’azione di riqualificazione

dell’ambiente locale, accantonare la logica della crescita estensiva per abbracciare

quella intensiva, basata sull’aumento della produttività delle risorse e non della loro

quantità.

Con l’entrata dei distretti nella catena del valore internazionale, la singola

impresa si focalizza maggiormente sulla fase del ciclo in cui gode di un vantaggio ed

esternalizza le altre, ricorrendo poi all’out-sourcing. Il rapporto con l’ambiente

circostante si mantiene e si rafforza solo se il territorio produce ciò di cui l’impresa

10 M. Porter (1990).

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ha bisogno, altrimenti questa lo cercherà altrove. Il Veneto ha beneficiato di un

ambiente adatto allo sviluppo ma ora il vantaggio storico viene eroso da una serie di

fattori interni ed esterni per cui é indispensabile un processo di evoluzione

ambientale. Dal momento che non si può pensare di rimanere estranei al processo

di internazionalizzazione, occorre rafforzare le infrastrutture che danno competitività.

Le produzioni hanno acquisito un contenuto di innovazione superiore rispetto ad un

tempo, ne viene che per l’impresa é indispensabile poter disporre del circuito della

riproduzione della conoscenza; tale circuito é impossibile da sviluppare all’interno di

una piccola e media impresa per cui il sistema locale potrebbe qualificarsi come

distributore di tale servizio.

La piccola impresa veneta é portatrice di un modello individualistico di azione

imprenditoriale che si é retto su di un forte impulso all’autosufficienza e sul sapere

pratico, informale, posseduto per lo più dall’imprenditore stesso. Ora questo punto di

partenza deve essere integrato con l’accesso alle reti globali, sviluppando nuovi

saperi che potenzino le capacità intellettuali e comunicative delle imprese. La

svalutazione del 1992 ha favorito uno sviluppo rapido ma ha fatto dimenticare

momentaneamente la necessità di una co-evoluzione di ambiente ed imprese. Solo

acquisendo competenze esclusive nei settori emergenti ed investendo nella base

tecnologica e organizzativa, le imprese possono reggere a lungo di fronte agli

inevitabili aumenti di costo dovuti al riapprezzamento della Lira, senza perdere

quote o velocità di crescita. Deve essere vinto il naturale scetticismo

dell’imprenditore distrettuale verso gli investimenti nell’information technology, a

maggior ragione nell’attuale contesto di creazione delle strutture reticolari. L’azienda

reticolare, o il distretto nel suo insieme, ha un assetto strategico centrato sul core

business e, nelle altre attività in cui non c’è una specializzazione adeguata, ricorre a

soggetti esterni. Ciò implica che la gestione dei collegamenti fra i vari nodi faccia

aumentare i costi di gestione, a patto che non si investa in sostanziali tecnologie di

comunicazione. In tal caso esse rappresenterebbero la condizione per la riduzione

dei costi di transazione e per il conseguente ampliamento della rete su scala

mondiale.

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Paradossalmente il Veneto registra una carenza nei sistemi tecnologici di

comunicazione pur essendo già stata sperimentata altrove la convenienza di

un’organizzazione innovativa e di una tecnologia all’avanguardia. Applicando le

moderne tecnologie comunicative, quindi non solo telefono, fax e posta elettronica,

si può costruire un’organizzazione incentrata sul lavoro per progetti e sulla

valutazione per obiettivi, che responsabilizza i dipendenti e permette maggiore

autonomia gestionale. Le cause della scarsa diffusione delle tecnologie di rete nelle

piccole e medie imprese venete é da ricondurre a fattori di diverso ordine. Prima di

tutto, l’offerta di connettività e le soluzioni informatiche sono limitate, cioè si tratta di

pacchetti standard che non soddisfano a pieno le esigenze specifiche delle imprese

in questione. Ciò é particolarmente importante perché, vista la numerosità dei

soggetti della filiera produttiva da coinvolgere, la soluzione offerta deve essere

articolata e specifica , progettata su misura per le necessità contestuali11. Dal lato

della domanda, gli imprenditori hanno una concezione del lavoro difficilmente

conciliabile con le trasformazioni virtuali impostate dalla nuove tecnologie e non

hanno una chiara consapevolezza dell’incidenza dei costi di comunicazione e di

transazione nella competitività globale. Il mancato incontro fra domanda e offerta é

un handicap del sistema verso la costruzione di un territorio virtuale che si basi sulla

condivisione di progettualità comuni piuttosto che di solo spazio fisico.

Nell’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese ha più peso la

dimensione processuale e sperimentale rispetto a quella formalizzata in

pianificazione strategiche. L’imprenditore veneto ha, nel corso degli anni, imboccato

la strada dell’estero, per ricercare migliori opportunità di sviluppo, non seguendo

una logica coerente e premeditata ma lasciandosi guidare dalle scelte di chi era già

presente in quel determinato mercato e dal suo fiuto. Il “fiuto dell’imprenditore” ha

condizionato le scelte di export più di qualsiasi variabile tecnico-economica e ha

portato ad una conoscenza dei mercati e delle dinamiche di internazionalizzazione

basata sull’esperienza e quindi sulla sperimentazione. Anche perché le imprese di

piccole dimensioni non hanno avuto grandi possibilità di conoscere direttamente i

11 S. Micelli e L. DE Pietro (1997).

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vari mercati e di adottare la soluzione esportativa migliore, spesso si sono inserite

all’estero delegando ad intermediari indipendenti molta parte delle loro attività

commerciali. I vantaggi iniziali in termini di costo hanno portato ad una prima

penetrazione dei mercati esteri senza grandi distinzioni calcolate fra paese e paese,

al massimo la segmentazione delle esportazioni in più stati era la logica

conseguenza della riduzione del rischio associato ad una eccessiva concentrazione

in un solo mercato. Si parla di esportazione perché era ed é tuttora la più diffusa fra

le vie all’internazionalizzazione.

L’apertura verso l’esterno del distretto ha riguardato per lungo tempo solo la

fase commerciale dell’attività economica delle imprese venete; perciò si sono

sviluppate molteplici modalità di presenza nei mercati esteri concernenti

l’esportazione. L’esportazione si é configurata in diverse forme in base al prodotto e

al mercato di destinazione. La forma più diffusa é senz’altro quella indiretta , che

implica un minor rischio d’investimento e una penetrazione più veloce perché ci si

affida all’abilità e all’estensione dell’impresa intermediaria. I canali per l’esportazione

indiretta sono molteplici e si differenziano secondo la complessità

dell’intermediario12 (l’importatore-distributore, l’agente di vendita, l’agente di

acquisto, le trading company, ecc.).

Un’altra forma di esportazione é quella diretta, che permette un maggior

controllo da parte del produttore che segue i propri beni fino al dettaglio e che quindi

ne trae informazioni di ritorno per modifiche produttive. Il rappresentante dipendente

infatti negozia in nome e per conto dell’azienda fungendo così da tramite fra questa

e i clienti esteri. Filiali e succursali sono utilizzate da imprese che hanno una

produzione elevata e una capacità finanziaria adeguata a sostenere i costi maggiori

di una struttura stabile. Invece, le piccole imprese, se producono beni

complementari, si avvalgono di associazioni di esportatori, altrimenti ricorrono a

consorzi per l’export che le affiancano nell’intera attività.

Le forme di internazionalizzazione commerciale non esauriscono le possibilità

di coinvolgimento di un’impresa con l’estero. Esiste tutta una serie di “forme nuove

12 A. Foglio (1993).

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di internazionalizzazione” che si concretizzano in tipologie non mercantili di

presenza in mercati internazionali, vale a dire investimenti diretti all’estero, joint

ventures, accordi tecnologici e costruzioni di reti commerciali13. Il processo di

delocalizzazione sopracitato si sostanzia in questa forma di azioni, infatti gli

investimenti diretti all’estero mirano all’acquisizione di attività produttive in suolo

straniero, le joint ventures sono associazioni temporanee fra imprese, simili a

società congiunte o in coproprietà, per la realizzazione di una singola opera (i

partners si dividono i costi, il know how, i brevetti e gli impianti), gli accordi

tecnologici riguardano la cessione di licenze e di know how , usualmente in paesi

con economie molto protette, e i piggy back sono degli accordi di distribuzione con

cui si usufruisce della rete distributiva di un’impresa già insediata nel territorio.

Il Veneto ha puntato massicciamente sull’internazionalizzazione del primo tipo

e solo negli ultimi anni si sta verificando un aumento dell’interesse verso le forme

nuove che riguardano più propriamente la produzione. L’Italia nel suo complesso é

passata solo negli anni ‘90 dalla posizione di importatore di capitali destinati

all’acquisizione di attività produttive a paese esportatore14. Negli ultimi anni si

segnala una tendenza alla diminuzione del grado di concentrazione delle

partecipazioni italiane in imprese estere, dovuto, oltre che al minor dinamismo dei

grandi gruppi industriali, all’aumento della presenza, tra gli investitori, di piccole

imprese e di gruppi di dimensioni medio-grandi, operanti nei settori competitivi

dell’Italia. Anche i settori che caratterizzano i distretti industriali veneti, pur

risultando strutturalmente fra i meno interessati dagli Ide sia in uscita che in entrata,

hanno evidenziato negli anni ‘90 segnali di dinamicità, soprattutto in direzione

dell’Europa Orientale e dei nuovi mercati asiatici. Tuttavia nel 1992 solo sei imprese

su cento avevano costruito, o erano in procinto di farlo, relazioni di vera e propria

divisione produttiva del lavoro.

13 B. Anastasia (1995). 14 Il saldo cumulato tra investimenti diretti all’estero (Ide) in uscita e in entrata é diventato positivo non solo grazie alla maggiore apertura internazionale dei capitali italiani ma anche a causa della caduta di interesse degli investitori esteri per il nostro paese.

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I settori più attivi nella politica di delocalizzazione produttiva all’estero sono

risultati a livello regionale quelli del tessile-abbigliamento e delle calzature (esclusa

la produzione di scarpe ad alta qualità della Riviera del Brenta). Tali settori

presentano dei vantaggi competitivi nella loro collocazione in Paesi con basso costo

del lavoro in quanto sono labour intensive e dotati di tecnologie facilmente

acquisibili, e quindi esportabili. L’Osservatorio regionale nel 1993 ha svolto

un’indagine sulle delocalizzazioni estere nell’abbigliamento-maglieria: su 794

imprese considerate, le lavorazioni decentrate ammontavano a 2.060 mld di Lire, il

23,1% della produzione totale, di cui il 74,1% a laboratori veneti, il 13,3% a

laboratori italiani e il 13,3% all’estero (166 MLD di produzioni decentrate al netto

della materia prima e 274 MLD completamente decentrate)15. Il decentramento in

questione riguarda soprattutto le imprese più grandi e le fasi iniziali e intermedie del

ciclo produttivo. Le ragioni sottostanti una tale logica delocalizzativa si riconducono

al processo di natural resource seeking, cioé al reperimento di risorse a basso

costo16, ma non sono le uniche motivazioni che possono spingere un produttore

all’estero. In alcuni casi ricorre il market seeking, ovvero la ricerca di una presenza

sostanziale nei mercati più importanti, oppure l’efficiency seeking, che mira a una

razionalizzazione della struttura produttiva, od infine lo strategic assat seeking, vale

a dire il tentativo di accesso ad assetti complementari di rilevanza strategica. I Paesi

oggetto di insediamenti produttivi sono stati soprattutto quelli dell’Europa orientale,

confermando il cosiddetto “effetto Muro di Berlino” (la caduta del regime comunista

ha accelerato i processi di internazionalizzazione e ne ha orientato i flussi).

Ricollegabile all’internazionalizzazione produttiva succitata é il traffico di

perfezionamento passivo, o import strategico, che consiste nella fornitura di

semilavorati ad un terzista estero e nella reimportazione dei prodotti finiti per la

commercializzazione. Non si tratta di vera e propria importazione ma di esportazione

temporanea, soggetta a norme doganali particolari. Il traffico di perfezionamento

passivo é stata una delle prime forme di internazionalizzazione del tessile-

15 E. Scarso (1996). 16 I margini di convenienza sono comunque inferiori ai differenziali salariali perché i livelli produttivi sono più bassi ed entrano nel calcolo costi aggiuntivi.

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abbigliamento, che non ha in ogni caso interrotto il legame fra fasi di lavorazione a

monte e a valle perché sussisteva l’obbligo dell’utilizzo di materia prima europea. Si

capisce così perché il rapporto import/export si sia mantenuto costante nonostante il

forte incentivo dato al secondo dalla svalutazione del 1992. L’import strategico

comporta delle conseguenze negative in termini di una riduzione del valore aggiunto

della produzione nazionale, e di un aumento della competitività fra fornitori, spesso

a detrimento di quelli tradizionali. I Paesi eletti come meta preferenziale sono

sempre quelli dell’Est europeo, perché hanno una tradizione industriale preesistente

(rafforzata dalle già consolidate delocalizzazioni tedesche), livelli di costo inferiori

rispetto all’Europa occidentale e sono prossimi geograficamente.

Il processo di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese dei

distretti veneti non può essere considerato indipendentemente dall’azione pubblica

di sostegno, perché la singola unità produttiva dovrà essere supportata dal proprio

sistema-paese. L’internazionalizzazione si riscontra nell’unificazione su scala

mondiale del circuito di produzione, circolazione ed uso delle conoscenze , ma le

piccole imprese hanno volumi di produzione troppo bassi per potersi caricare dei

costi di accesso alle informazioni specializzate. I costi di produzione delle

conoscenze (sono sunk costs) sono insostenibili per una singola impresa e i prezzi

di utilizzo delle conoscenze prodotte sono bassi perché non ci sono forte barriere di

protezione. Ci si trova così di fronte a una market failure: oggi la conoscenza é

essenziale per innalzare la competitività e far funzionare bene i mercati, ma mercati

ed imprese non sono istituzioni adatte a produrla, c’è bisogno di un intervento

regolativo esterno.

In quest’ottica rientra la riorganizzazione delle Camere di Commercio

approntata dalla legge 580/1993, che ristruttura tali enti per garantire una migliore

attività di sostegno alle imprese17. I servizi per l’internazionalizzazione offerti dalle 17 Legge 29 /12/1993 n.580, art.1: “... enti autonomi di diritto pubblico che svolgono, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali”; descrivendo in generale le competenze delle riformate Camere di Commercio,l’art. 2 parla di “funzioni di sviluppo e di promozione degli interessigenerali delle imprese nonché, fatte salve le competenze attribuite dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato alle Amministrazioni statali e alle Regioni, funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al sistema delle imprese”.

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Camere di Commercio riguardano l’erogazione di informazioni, assistenza,

formazione e promozione. I principali servizi di sportello sono di varia natura,

concernendo il rilascio di certificati di origine per le merci destinate all’esportazione,

il visto di congruità dei prezzi, l’assistenza nel campo delle controversie doganali,

l’assegnazione del numero di posizione meccanografico alle imprese italiane, la

pubblicazione periodica degli elenchi, suddivisi per voci merceologiche, degli

importatori e degli esportatori delle singole provincie, ecc.

Gli Enti offrono anche la consultazione di aggiornate banche dati, le

principali delle quali sono: lo Sdoe (anagrafe ditte italiane operanti con l’estero) che

contiene le informazioni sulle imprese che svolgono un’abituale attività di

esportazione e/o di importazione; l’Itis (schede Paesi esteri), un archivio che

consente di mettere a fuoco gli elementi-base della realtà e della congiuntura

economica di ogni singolo Paese analizzato; lo Sfei che fornisce elenchi aggiornati

ed indicazioni importanti sulle principali fiere internazionali; il No.Do che permette di

ottenere informazioni sui trattamenti doganali in funzione nelle aree geografiche o

economiche di interscambio; ed infine il Top Line (inoltro personalizzato informazioni

estero), un pacchetto di software che consente di smistare e di selezionare le

notizie Sdoi (domanda internazionale di prodotti e servizi) e Sten (informazioni sui

Tender internazionali) per poterle poi indirizzare verso gli operatori interessati ai

singoli mercati e alle singole categorie merceologiche18.

Tra le linee direttrici dei servizi camerali rientra anche l’azione di sostegno

all’attività dei Consorzi export della provincia. Questa é un’iniziativa che consente di

stanziare nel bilancio camerale una somma, determinata annualmente, da erogare,

sotto forma di contributi, ai consorzi per l’esportazione legalmente costituiti tra

piccole e medie imprese industriali o artigianali operanti nella provincia. I consorzi

beneficiari devono avere per scopo sociale il sostegno delle esportazioni dei prodotti

dei consorziati e l’attività di promozione necessaria a realizzarlo. Le disponibilità

finanziarie delle singole Camere e la capacità-volontà delle aziende di organizzarsi

in consorzi sono fattori critici per la riuscita del progetto. Un’alternativa alle soluzioni

18 P. Ferrarese (1995).

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fin qui descritte é rappresentata dalle aziende speciali inquadrate nell’ambito

camerale; queste sono aziende per lo più prive di personalità giuridica, con fini

speciali, rispetto a quelli generali delle Camere di Commercio, che richiedono

rapidità decisionale e una specifica competenza tecnica. A Vicenza, per esempio, il

settore estero-normativo viene distinto da quello estero-promozionale, e quest’ultimo

risulta affidato ad un’azienda speciale, “Vicenza qualità”, che si occupa

principalmente della subfornitura e della realizzazione di filmati settoriali (oro, tessile

e concia). A Padova, accanto al Parco scientifico-tecnologico, c’é “Promo qualità”

che gestisce la valorizzazione delle produzioni agricole e l’organizzazione di fiere19.

Nel tentativo di coordinare e di approfondire l’offerta pubblica di servizi

all’internazionalizzazione é stato dotato di nuovo statuto anche il Centro Estero

delle Camere di Commercio del Veneto (il cui compito prioritario é appunto quello di

attuare “ogni iniziativa che possa favorire l’internazionalizzazione delle imprese e

dell’economia del Veneto”). Il Centro estero veneto é riuscito a coniugare il

potenziamento dei servizi all’impresa già esistenti con la copertura di aree-settori

informativi non serviti. Come esempio si può citare il programma promozionale 1994,

dove spiccano progetti speciali come quelli denominati “Nuove repubbliche Csi”

(partecipazione a progetti Ue, a mostre settoriali e realizzazione dello sportello

Ucraina), “Peco” (progetti di affiliazioni interregionali e missioni nei paesi dell’Europa

orientale), “Sud Est Asia” (accordi di collaborazione e realizzazione dello sportello

Taiwan), “America latina” e “Subfornitura” (banche dati, osservatori, organizzazioni

di workshops, ecc.). A questi progetti si aggiungono interessanti opportunità, sempre

attraverso un sevizio informativo e di assistenza, a favore delle joint ventures nei

Paesi di nuova industrializzazione e in via di sviluppo. Inoltre al Centro estero é

stata assegnata una delle sedi dell’Eurosportello veneto, servizio informativo

decentrato della Commissione Europea che si propone come strumento per facilitare

l’inserimento delle imprese venete nel processo di consolidamento dell’Unione

europea (tra i principali servizi: consultazioni Gazzette Ue e banche dati

19 Idem.

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comunitarie, informazioni su finanziamenti e prestiti comunitari, organizzazione di

corsi e seminari, ecc.)20.

A tal proposito non vanno dimenticati gli uffici locali di istituzioni nazionali

quali l’Ice (Istituto nazionale per il commercio con l’estero) e Mondimpresa (agenzia

che promuove programmi avanzati a livello di globalizzazione delle imprese e

fornisce assistenza tecnico-organizzativa ai soggetti più deboli). L’Ice ha in Veneto

più sedi che hanno lo scopo di sviluppare, agevolare e promuovere i rapporti

economici e commerciali italiani con l’estero, con particolare riguardo alle esigenze

delle piccole e medie imprese, dei loro consorzi e raggruppamenti, assumendo le

necessarie iniziative e curandone autonomamente la realizzazioni.

Oltre ai sevizi e alle risorse di carattere nazionale, i distretti possono

beneficiare delle azioni dell’Unione Europea, che nel 1997 ha indirizzato all’Italia

50.061 ml di Euro in fondi strutturali. Di tale somma il Veneto nel suo insieme ha

beneficiato di 1.885,4 mil di Euro concernenti tutti gli Obiettivi eccetto il primo. In

particolare, i fondi utilizzati in ambito distrettuale hanno riguardato l’Obiettivo 2, per

la riconversione delle aree in declino industriale, che rappresentavano il 10,31% del

totale nazionale21.

Ritornando all’esportazione, la principale forma di internazionalizzazione, non

ci sono dati ufficiali disaggregati per ogni singolo distretto veneto; bisogna ricorrere

ai dati Istat sull’export divisi in settori merceologici ed in provincie22 e quindi

procedere con un certo grado di approssimazione. Nel capitolo 2 si é cercato di

mappare e delimitare i principali distretti industriali veneti, ciò che ha permesso di

evidenziare la non corrispondenza fra l’estensione delle aree in questione e i confini

provinciali. Si deve quindi ricorrere ad una base provinciale per descrivere i trend di

sviluppo dei movimenti di merci da e verso l’estero. Tuttavia dalla tabella sottostante

si evince come gran parte dei primi 20 settori per esportazione nel Veneto

coincidono con quelli delle specializzazioni distrettuali. 20 Idem. 21 Anche se la regione per l’insieme degli interventi strutturali cofinanziati dall’Ue di sua precipua competenza segnalava alla fine del 1997 una capacità di assumere impegni del 36,4% ed una capacità di poco superiore al 14%. 22 Dati elaborati a cura dell’Unioncamere del Veneto.

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Se, per ogni singola voce regionale controllassimo la corrispondente

proviciale dove é localizzato il distretto, noteremmo che buona parte delle

esportazioni totali provengono da una zona specifica. E’ il caso del settore “Argento,

oro e platino” che nel 1997 registrava 3.277,8 mld di esportazione regionale: la

singola provincia di Vicenza, sede del distretto orafo, nello stesso anno ha esportato

2.936,2 mld. Tabella n.1 Esportazioni del Veneto 1987, 1993, 1997. Primi 20 settori 1993

Valori assoluti (in mld.) Percentuali di composizione N. indice 19971987 1993 1997 1987 1993 1997 87=100 93=100

Altre macchine non elettriche 1.487,1 3.441,7 5.828,9 8,3% 9,6% 10,4% 392,0 169,4Argento, oro e platino 1.772,3 3.061,6 3.277,8 9,9% 8,5% 5,8% 184,9 107,1Altru prodotti delle industrie manifatturiere varie 674,5 1.932,7 3.575,1 3,8% 5,4% 6,4% 530,0 185,0Calzature di pelle 1.384,3 1.660,4 2.285,8 7,8% 4,6% 4,1% 165,1 137,7Altri prodotti delle industrie metalmeccaniche 748,8 1.520,4 2.622,9 4,2% 4,2% 4,7% 350,3 172,5Oggetti cuciti di fibre tessili vegetali 570,6 1.399,6 1.840,2 3,2% 3,9% 3,3% 322,5 131,5Pelli conciate senza pelo 676,8 1.308,2 2.452,1 3,8% 3,7% 4,4% 362,3 187,4Mobili in legno, di giunchi, di vimini 716,6 1.261,9 1.998,4 4,0% 3,5% 3,6% 278,9 158,4Altri apparec. per l'applic dell'elettricità e parti 400,3 1.026,3 1.797,1 2,2% 2,9% 3,2% 448,9 175,1Parti staccate di macchine ed app. non elettrici 484,3 851,2 1.477,5 2,7% 2,4% 2,6% 305,1 173,6Calzature non di pelle (esclusa gomma elastica) 447,1 766,9 797,8 2,5% 2,1% 1,4% 178,4 104,0Maglieria e calze di fibre tessili vegetali 337,9 721,7 859,1 1,9% 2,0% 1,5% 254,2 119,0Maglieria e calze di lana 507,0 656,0 666,0 2,8% 1,8% 1,2% 131,4 101,5Parti staccate di autoveicoli 390,6 640,1 663,3 2,2% 1,8% 1,2% 169,8 103,6Altri prodotti chimici organici 346,9 567,4 871,5 1,9% 1,6% 1,6% 251,2 153,6Ferri e acciai laminati 233,5 542,8 734,3 1,3% 1,5% 1,3% 314,5 135,3Lavori di pietre e minerali non metalliferi 241,7 519,4 736,7 1,4% 1,5% 1,3% 304,8 141,8Vini 213,2 493,5 948,7 1,2% 1,4% 1,7% 445,0 192,2Altre macchine utensili 213,4 469,6 605,1 1,2% 1,3% 1,1% 283,6 128,9Macchine ed apparecchi agricoli 200,3 396,3 679,2 1,1% 1,1% 1,2% 339,1 171,4Altri settori 5.813,1 12.574,2 21.472,7 32,5% 35,1% 38,2% 369,4 170,8Totale 17.860,40 35.811,9 56.190,2 100,0% 100,0% 100,0% 314,6 156,9

Fonte: elab. su dati Istat-Unioncamere del Veneto

Anche il settore delle “pelli conciate senza pelo” rileva 2.452,1 mld di

esportazioni regionali, di cui 1915,2 attribuibili alla provincia di Vicenza (distretto

conciario della Valle del Chiampo). Dai dati esposti si comprende l’importanza dei

distretti e il loro peso nell’economia regionale. I settori trainanti dell’economia veneta

sono area di specializzazione dei più influenti distretti industriali. Il trend mostrato

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negli ultimi dieci anni é espansivo e non ha presentato un picco nel 1993, in

corrispondenza della svalutazione, per poi decrescere rapidamente. Questa é una

dimostrazione della solidità dei distretti e dei loro margini di evoluzione produttiva

nonché di internazionalizzazione commerciale. E’ infatti queto tipo di

internazionalizzazione che prenderò in considerazione per l’analisi del caso

specifico a partire dal prossimo capitolo.

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PARTE II

Analisi di un caso concreto

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4. Il distretto della calzatura della Riviera del Brenta

4.1

La genesi storica del distretto calzaturiero e la sua evoluzione fino al secondo

dopoguerra

Scendendo nello specifico della realtà di un distretto industriale, si realizza

l’integrazione degli elementi teorici e storici generali con le linee di sviluppo locali

precipue di un determinato contesto. Nella genesi storica e nell’evoluzione

strutturale dell’area produttiva della Riviera del Brenta (compresa nei sette comuni

di Stra, Fiesso d’Artico, Fossò, Vigonovo, Noventa Padovana e Camin, Saonara,

Vigonza) si riconoscono i fattori distintivi del distretto industriale veneto e si possono

ipotizzare le linee di sviluppo internazionalizzanti comuni a più ambienti regionali. Il

distretto in questione é uno dei più conosciuti ed importanti dell’intero panorama

italiano, nonché internazionale. Si tratta di un distretto consolidato con un presente

contraddistinto da una solida organizzazione produttiva (nel 1997 sono stati fatturati

2.652 miliardi di lire) ed un tasso di esposizione all’estero fra i più alti di tutto il

Veneto (sempre nel 1998, l’86% della produzione comune é stato esportato) e con

alle spalle un secolo di storia1. Risale al 1898 la fondazione da parte di Giovanni

Luigi Voltan della prima industria calzaturiera della zona, che ha segnato il

passaggio da una concezione prettamente artigianale del settore ad una industriale.

L’area in cui si svilupperà il moderno distretto era paragonabile economicamente e

socialmente alla gran parte dei territori agricoli della pianura veneta.

Le condizioni di vita nella seconda metà dell’800 erano legate alla mera

sussistenza perché il territorio non offriva grandi risorse e la classe proprietaria

1 Nel 1998 si sono tenute una serie di manifestazioni per celebrare i 100 anni di industria calzaturiera dislocata lungo la Riviera del Brenta.

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languiva in un atteggiamento per niente innovativo. L’area considerata non

includeva centri abitati di apprezzabili dimensioni ma solo piccoli centri rurali,

economicamente stagnanti, con scarse capacità attrattive.

Le attività artigianali avevano carattere tradizionale e non riuscivano a fare il

salto verso l’organizzazione industriale2. Fra le varie categorie di artigiani, quella dei

calzolai era una delle più diffuse in tutta Italia, nelle città e nelle campagne; nelle

campagne doveva essere integrata con altre fonti di reddito (i tratti distintivi della

figura del calzolaio in tutta Europa erano quelli dell’indipendenza e della povertà)

ma era in ogni caso conveniente perché l’attrezzatura di base aveva un costo

modesto e vi era la possibilità di lavorare in casa. Nel 1879, la provincia di Venezia

contava 1.600 lavoratori della scarpa divisi nelle varie sottospecializzazioni3 e tutti

formati grazie all’apprendistato in bottega. Le botteghe centrali dei paesi erano

luoghi di vita sociale , secondi solo alle locande, aperti e disponibili per la

conversazione durante tutta la giornata e i calzolai avevano un’immagine di artigiani-

intellettuali (risultavano sempre più alfabetizzati della media e inclini alla lettura).

Il destino dei calzolai e della Riviera subì un mutamento con l’attività di

Giovanni Luigi Voltan (1873-1941). Il padre possedeva due botteghe di calzolai,

aveva un negozio in affitto a Venezia e svolgeva attività di mediatore nelle

compravendite di beni immobili, cosa che consentì a G.L. Voltan di frequentare il

liceo e di intraprendere nel 1896 un viaggio negli Stati Uniti. L’America, ovvero gli

Stati Uniti, venivano già considerati come il futuro del capitalismo mondiale;

Alessandro Rossi, il fondatore del Lanificio Rossi di Schio, sosteneva con forza di

riflettere sulla concorrenza transatlantica e di imparare da quel pragmatismo

economico. Così G.L. Voltan emigrò con spirito intraprendente, sognando

opportunità di impiego e di affermazione professionale nel nuovo mondo. Si diresse

nella zona di Boston, una delle principali aree calzaturiere americane, dove la 2 La moda tardo ottocentesca degli scialli ricamati fece sorgere a Fiesso d’Artico un laboratorio-scuola di ricamo, che nonostante il successo presso i negozi veneziani non seppe passare dal laboratorio alla fabbrica (Elvio Tuis, 1998). 3 I “scarpari” si suddividevano in : “calegheri”che lavoravano su commissione e su misura per il cliente o su ordinazione per il negozio; l’artigiano che confezionava scarpe in serie; il cibattino che si limitava a riparare le scarpe rotte; il “savataro”che produceva scarpe morbide che avvolgevano solo la parte anteriore del piede; e l’artigiano più evoluto che aveva fatto il salto verso la piccola fabbrica.

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produzione era già fortemente industrializzata con un’elevata divisione del ciclo

produttivo e soprattutto con un alto grado di meccanizzazione delle fasi di lavoro. Le

condizioni professionali non furono affatto quelle immaginate e, dopo un anno di

permanenza e di esperienza all’interno dell’organizzazione produttiva americana,

tornò in patria senza “aver fatto fortuna”.

A distanza di pochi mesi Voltan diede avvio alla sua attività imprenditoriale a

Stra, iniziando con un piccolo laboratorio che nel giro di alcuni anni si sarebbe

trasformato in una grande fabbrica di calzature. Iniziò una fase di intensa attività

artigianale e commerciale per la quale, date le difficoltà di accesso al credito

bancario, ricorse ai circuiti parentali e relazionali, sempre molto importanti nelle fasi

di avvio dell’esercizio imprenditoriale. La ricerca delle risorse finanziarie divenne

sempre più essenziale man mano che l’attività si caratterizzava per un’intensa

meccanizzazione. Il suo, nella regione, rappresentava un tentativo innovativo di

meccanizzazione dell’attività calzaturiera, ma in Inghilterra già nel 1814 apparvero le

prime macchine applicate alla lavorazione delle scarpe. Il primo stabilimento

meccanizzato in Italia comparve a Vigevano nel 1872 ma rimase un episodio isolato,

per cui Voltan si trovò in una posizione eminente nel settore, ancora caratterizzato

dalla componente artigianale. Riunendo alcuni lavoranti dei negozi del padre ed

importando le prime macchine per cucire, Voltan aumentava i ritmi e la produttività

del lavoro senza sopprimere l’intervento manuale al quale sarebbe rimasto, nel

tempo, l’insostituibile compito di caratterizzare qualitativamente il prodotto.

La fabbrica qui non rappresentava, come nei proto-distretti tessili vicentini, il

risultato di una lenta e graduale evoluzione, ma l’irruzione di un moderno sistema

produttivo in un contesto ancorato alle attività agricolo-artigianali4. Il calzaturificio

Voltan fabbricava indistintamente scarpe da uomo, da donna ed anche pantofole,

con una specializzazione nei prodotti per bambini. Lavorava in parte su

commissione e in parte per magazzino. Legata alla produzione a magazzino era

l’apertura di un negozio dove venivano vendute le scarpe di produzione Voltan. Era

4 Ne é una prova l’intestazione della carta della ditta che riferiva: “Luigi Voltan Fabbricante calzature dei sistemi più colossali finora conosciuti - Venezia Stra”.

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un’anticipazione della creazione della successiva rete di vendita diretta al pubblico

secondo tecniche mutuate dall’esperienza americana. La forte abbondanza di

manodopera, a differenza del marchigiano (altra area calzaturiera), spingeva a

realizzare la maggior parte delle componenti della calzatura all’interno della

fabbrica. Gli approvvigionamenti di materie prime avvenivano nell’area veneziana,

padovana e al massimo brianzola. La presenza a Padova di fabbriche di cuoio e di

pellami, di depositi e negozi specializzati in articoli per il settore svolse

un’importante funzione di supporto al decollo delle lavorazioni della Riviera.

Il forte aumento delle importazioni di calzature prodotte in serie in paesi come

la Gran Bretagna e gli Stati Uniti spinse Voltan a puntare sulla meccanizzazione

della propria azienda e a darle la struttura di una vera fabbrica industriale. Una volta

pero' superata l’avversione del consumatore verso una calzatura prodotta in serie,

rimaneva da diffondere la stessa in più punti vendita. Voltan adottò un nuovo

sistema distributivo creando una rete di punti-vendita diretta, dislocati soprattutto

nell’Italia settentrionale, nei quali veniva eliminato ogni passaggio intermedio fra

produttore e consumatore, con riduzioni dei prezzi fino al 40%. Il numero dei negozi

crebbe fino alla prima guerra mondiale fino a raggiungere 35 punti vendita, dislocati

in tutte le maggiori città del Triveneto (solo a Venezia ve ne erano ubicati 4 ).

Gli anni del conflitto bellico furono molto duri per i punti vendita, anche perché

Voltan in questo periodo non era in grado di rifornirli essendo impegnato nel cogliere

la grande opportunità della fabbricazione di scarpe militari per l’esercito italiano.

Infatti la prima guerra mondiale offrì all’industria calzaturiera italiana un’eccezionale

possibilità di crescita, della quale seppero approfittare le imprese più attrezzate ed

efficienti. In tutti i settori interessati alle forniture belliche avvennero profonde

trasformazioni: si ampliò la base produttiva e si estese l’innovazione tecnologica nei

comparti industrialmente poco avanzati, mentre i settori più maturi (es. il tessile)

sopportavano una sollecitazione principalmente quantitativa. In questi casi, la guerra

fu uno spartiacque, innalzando di colpo il livello delle potenzialità produttive.

La situazione era comunque difficile e anche la Voltan dovette riorganizzare il

sistema di fornitura spostando l’asse dal mercato tedesco a quello italiano. Nel

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comparto delle calzature civili la situazione ristagnava date le carenze di materie

prime e la necessità di dare priorità assoluta alle esigenze dell’esercito. Lo stato

fissò i tipi di calzatura per uomo, donna, bambini e ragazzi, le materie prime con cui

dovevano essere prodotti, le modalità di fabbricazione, i prezzi di costo e anche

quelli di vendita. Tuttavia, nel suo insieme, il calzaturiero italiano uscì dal periodo

bellico fortemente rafforzato a livello produttivo ad anche più autonomo. Le vicende

belliche segnarono un irreversibile processo di dissociazione degli interessi

all’interno di un settore solo apparentemente omogeneo: calzaturieri, commercianti

di cuoio e conciatori si accusarono a vicenda di voler trarre vantaggio dalla

situazione a scapito degli altri comparti e così crearono separate associazioni di

categoria (nel 1925 fu fondata l’Anci, l’Associazione nazionale dei calzaturieri

italiani)5.

Consolidatosi durante la prima guerra mondiale, il calzaturiero italiano

mantenne un trend ascendente per tutti gli anni ‘20 beneficiando anche delle nuove

tariffe protezionistiche adottate nel 1921. La produzione interna salì dai 16 milioni di

paia di calzature del 1913 ai circa 26 milioni del 1926, quando per la prima volta il

saldo della bilancia commerciale del settore presentò un modesto saldo positivo.

Dopo la guerra ebbe importanza l’affermazione dell’incidenza della variabile moda

per la calzatura quale stimolo alla diversificazione della produzione tradizionale. Chi

esportava doveva puntare sulla calzatura di lusso e alla moda perché in quella

economica non avrebbe potuto competere con la ben più sviluppata industria

straniera. Le condizioni del tempo erano però tali da consentire di esportare solo a

pochissimi produttori che potevano avvalersi di una collaudata organizzazione e di

una larga rete di rappresentanti. Il settore si era infatti configurato con caratteristiche

specifiche e presentava aree produttive specializzate e la convivenza di una ristretta

fascia di grandi produttori standardizzati con una miriade di piccole imprese.

Nel Veneto le ditte specializzate nel calzaturiero passarono da 1.612, con

6.090 addetti, nel 1911 a 6.264, con 12.931 occupati nel 1927 mostrando così che

5 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).

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gli addetti medi per unità erano 3,8 nella prima rilevazione e solo 2 nella seconda.

La Riviera del Brenta conobbe negli anni ‘20 i primi fenomeni di germinazione

produttiva come dimostrano i censimenti. Nel 1927 l’attività calzaturiera brentana si

componeva di 14 ditte, una nella classe tra i 101 e i 250 addetti e le altre

variamente ripartite nelle classi dimensionali inferiori. Nel 1937 i calzaturifici

industriali erano 28 con 646 occupati totali e una dimensione media di 23 addetti.

Chi, nel distretto, sceglieva di abbandonare il lavoro dipendente non poteva iniziare

un’attività imitando il prodotto in cui precedentemente aveva affinato il mestiere,

perché le calzature Voltan avevano un grado di standardizzazione non replicabile in

piccoli laboratori. Così chi tentava l’attività autonoma doveva ricominciare dalla

bottega, oppure mantenere un legame con l’ex datore di lavoro ed occuparsi di

lavorazioni decentrate dalla grande fabbrica. La decentralizzazione delle fasi ed il

ricorso al lavoro a cottimo fu continuato anche dai nuovi imprenditori. Alla fine degli

anni ‘30, nel tipico stabilimento brentano veniva perfezionato solo il 20% del lavoro

complessivo; qui si creavano i modelli, si tagliavano i materiali, si preparava la

tomaia ma il resto veniva realizzato all’esterno dai singoli artigiani.

E’ in questo informe decentramento, che richiama ad un’organizzazione del

lavoro preindustriale, che si inserì una sorta di micro-economia sommersa, spesso

integrativa del reddito contadino; un’attività residuale che nasceva dal tentativo di

sfuggire dai vincoli di un’economia povera e marginale. Germinò all’interno dell’area

una miriade di iniziative individuali tutte incentrate sulla calzatura, l’unica forma di

produzione manifatturiera presente in loco. Lo stesso artigiano, dovendo affrontare

una molteplicità di linee e di materiali a lui prima sconosciuti, affinò capacità e gusto

estetico e iniziò a svincolarsi dal lavoro di terzista e a proporre ai negozianti di

Padova e di Venezia le sue creazioni6. Inizialmente le difficoltà di proporsi come

interlocutore credibile furono forti, ma poi, grazie alla qualità delle lavorazioni e ai

ritmi di lavoro massacranti, riuscì a ritagliarsi una propria presenza nel mercato. Da

qui all’assunzione di qualche lavorante, al trasferimento in una bottega un pò più

grande e all’introduzione di pochi macchinari il passaggio é stato breve. Tuttavia

6 Idem.

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77

delle unità produttive così semplici erano particolarmente soggette alle variazioni

delle condizioni del mercato e molte furono danneggiate pesantemente dalla Grande

Depressione.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale avvenne in un regime di autarchia,

in cui le corporazioni fasciste avevano già un forte controllo sulle principali

fabbriche. I prodotti esteri erano stati sostituiti con quelli nazionali, per cui gli scarsi

quantitativi di pellame vennero utilizzati per produzioni militari.

4.2

L’esplosione delle sinergie distrettuali

Dal secondo dopoguerra, il rinnovamento politico, l’entusiasmo per un futuro

senza conflitti bellici, la voglia di riscatto, il tutto inserito in un clima di solidarietà

familiare e sociale e di tenuta di valori della morale cattolica, aprirono la strada ad

una nuova configurazione socio-economica del distretto. Il mondo agricolo comincio'

a superare la soglia di sopravvivenza grazie all’apporto di redditi extra, provenienti

da impiego in calzaturifici locali o nel polo industriale di Marghera. Ed é proprio

questo mondo contadino che ha fornito accanto a lavoro a basso costo, anche una

cultura basata sull’adattamento e l’aggiramento di grandi difficoltà quotidiane, nella

continua sfida con il rischio.

Le aspettative di una rapida ripresa andarono tuttavia deluse, poiché la

domanda interna rimase a valori minimi a causa delle difficoltà della Ricostruzione

del Paese, della disoccupazione dilagante e del permanere di redditi di pura

sussistenza. La domanda dei prodotti calzaturieri, come di quelli tessili, era

estremamente sensibile ai dati congiunturali, se a ciò si aggiunge il massiccio arrivo

di calzature in cuoio dagli Stati Uniti nel quadro del piano Unrra, la situazione

appare nella sua reale drammaticità7.

La debolezza strutturale del calzaturiero brentano, incentrato su poche

imprese e su un numero variabile di piccoli e piccolissimi artigiani, se costituiva un

7 G. Roverato (1996).

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punto debole ne rappresentò, contraddittoriamente, anche un elemento di forza.

Quando infatti, nella seconda metà del 1948, la ripresa della domanda cominciò

anche in Italia, sia le imprese brentane che i lavoratori indipendenti furono in grado

di recuperare presto le nicchie di mercato precedentemente occupate sul mercato

interregionale. Le contenute dimensioni aziendali permisero con più agilità che non

ai produttori di Vigevano, maggiormente meccanizzati e standardizzati, di lavorare

per piccole serie, servendo una domanda che andava differenziandosi quanto a

gusto e a tipologia di calzatura. Nel giro di pochi mesi riprese corpo la filiera che

legava laboratori terzisti e lavoranti domiciliari part-time imprese formalizzate. Fino

al 1948, data la dipendenza dai consumi popolari e l’ancora scarso potere

contrattuale nei confronti degli organi di governo, il calzaturiero italiano attese la

ripresa dell’economia nazionale per usufruire dell’aumento dei consumi. Nel 1947 il

Governo decise di vietare ai conciatori l’esportazione delle pelli e con l’avvio del

Piano Marshall si stabilì che il 60% delle pelli giunte in Italia venisse consegnato

direttamente agli industriali calzaturieri. Così nel 1948 la domanda riprese vigore e

con essa la produzione calzaturiera.

Il settore della calzatura presentava fermenti vitali ma cresceva in modo

disordinato; le unità produttive italiane nel censimento del 1951 risultavano inferiori

a quelle del 1937 in quanto a numero e occupati ma, in compenso, i calzaturifici

industriali erano raddoppiati. La Lombardia rimaneva la regione più specializzata nel

comparto ma cresceva anche il peso delle Marche, con la provincia di Ascoli, e della

Toscana. La Riviera del Brenta non compariva come una realtà importante a causa

della sua suddivisione nelle due provincie di Padova e di Venezia, tuttavia essa

poteva vantare nel 1951 ben 278 imprese, anche se più del 90% erano unità

artigianali. La scelta di intraprendere un’attività autonoma nel calzaturiero era

l’unica possibilità per avviare un miglioramento reale delle condizioni di vita.

Ormai il territorio locale aveva assorbito una certa cultura specifica sulla

produzione di calzature. Alle origini del distretto infatti stava la combinazione del

sapere tacito sedimentato nelle pratiche dei laboratori artigianali e del sapere

codificato incorporato nelle macchine, nelle tecniche produttive e nelle formule

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organizzative introdotte dall’impresa Voltan. Il calzaturificio Voltan svolse la funzione

di una vera e propria scuola, così le conoscenze codificate vennero a mescolarsi

con quelle pratico-contestuali socializzate attraverso il rapporto diretto maestro-

apprendista. Questo connubio fra le due forme di sapere produsse già nel 1923 la

scuola per artigiani “Ottorino Tombolan Fava”, promossa dall’Associazione

nazionale combattenti di Stra e finanziata da Voltan e dai comuni limitrofi8.

Inizialmente l’impreparazione didattica venne ovviata con la collaborazione con un

istituto artistico-industriale di Padova, dal quale venne un insegnante per i corsi.

Successivamente la scuola assunse una propria autonomia e una specializzazione

nel settore calzaturiero; le sovvenzioni pubbliche le permisero di estendere i corsi,

sempre impartiti durante il fine settimana, e di accogliere nel 1938 140 allievi. Molti

degli allievi erano operai delle aziende maggiori, apprendisti di bottega o lavoranti a

domicilio e per tutti il frequentare la scuola festiva rappresentava un investimento

formativo in un settore in crescita.

Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 si preparò il boom del calzaturiero italiano, si

migliorarono le tecniche commerciali e si imparò a beneficiare della formazione del

Mercato comune europeo. In Italia il tenore di vita era migliorato ma il reddito pro

capite rimaneva comunque al di sotto di quello dei paesi europei più evoluti (nel

1952 l’Italia era all’ottavo posto per il consumo pro capite di calzature), ciò che

faceva puntare ai produttori di ampliare l’esportazione. Nel processo di

qualificazione del prodotto in vista di una concorrenza europea più forte, l’antica

tradizione artigianale poteva essere fonte di vantaggiose opportunità se si riusciva a

puntare sulla moda e sulla qualità. Ciò che fece un crescente numero di operatori

della Riviera del Brenta, mettendo a profitto l’elasticità della struttura produttiva

assicurata dalla piccola impresa e dal lavoro a domicilio, fonte anche di riduzione

dei costi vista la sua frequente illegalità. Le calzature della Riviera trovarono

favorevole accoglienza nel mercato tedesco grazie all’accuratezza del prodotto,

all’eleganza della forma e della linea, alla competitività del prezzo; infatti la

8 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).

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Germania federale sarebbe diventata il più importante mercato estero per i

calzaturieri della zona, arrivando ad assorbire il 50% del totale delle vendite.

Nel 1955 fu costituito il Centro nazionale studi sulla calzatura, con lo scopo di

analizzare i mercati di sbocco e di indirizzare la moda sulla linea dell’Italian style.

Era proprio lo stile italiano delle calzature ad attirare gli acquirenti stranieri nei

negozi esteri o in quelli nazionali durante le vacanze. La produzione italiana di

calzature esportate passò da 1,212 milioni nel 1951 ai 19,205 del 1957; nella

Riviera le calzature esportate nel 1955 erano solo il 16% della produzione ma nel

1962 erano già arrivate al 50%9. Il successo della scarpa brentana all’estero era

dovuto all’eccellente rapporto qualità-prezzo di calzature per donna di tipo fine e

medio -fine. La reputazione di tali calzature, basata su stile-qualità-prezzo, crebbe

velocemente a livello internazionale e i flussi esportativi si diressero oltre che in

Germania anche verso Svizzera, Belgio, Olanda, Paesi scandinavi, Gran Bretagna

e Francia.

Strumenti essenziali per far conoscere il prodotto italiano al resto del mondo

furono le fiere internazionali del settore. La Riviera del Brenta organizzò nel 1955 la

prima edizione della “Mostra della calzatura” a Villa Pisani di Stra. La già ricordata

rilevanza dal punto di vista promozionale non esaurisce l’importanza di una tale

mostra perché essa rappresenta anche un essenziale momento di progettazione

collettiva. Cooperazione e collaborazione, fattori alla base di una crescita

distrettuale, cominciavano a manifestarsi in azioni istituzionalizzate. Si vedeva infatti

nella cooperazione e nell’associazionismo dei fondamentali strumenti attraverso i

quali le piccole imprese e i lavoratori avrebbero potuto beneficiare dell’espansione

del mercato. L’obiettivo di creare una coscienza unitaria negli industriali della zona

non era però cosa facile. La mostra fu proprio il primo passo per riunire i produttori

del Brenta in una pubblica manifestazione, per dar loro coscienza della propria forza

nel presentarsi unitariamente. Dei 60.000 abitanti della zona, il 70% era impiegato

direttamente o indirettamente nell’industria calzaturiera; 1/3 delle calzature venivano

esportate: dopo solo tre anni di collaborazione, iniziata grazie alla “Mostra della

9 Idem.

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calzatura”, si cominciavano a raccogliere i frutti, anche in termini di successo

ottenuto dalle “collettive” all’estero. Nel 1959 la Riviera del Brenta era ormai al

secondo posto in qualità di produttrice di calzature in Italia dopo l’area di Vigevano.

L’azione collettiva sfociò nel 1961 nella creazione dell’Associazione

calzaturifici della Riviera del Brenta (Acrib) con finalità sindacali, di assistenza, di

consulenza e di promozione del prodotto nel mondo. La sua utilità si poté constatare

praticamente quando sorsero problemi per la partecipazione alla fiera internazionale

di Düsseldorf. Infatti la fiera consentiva la partecipazione solo a ditte che, nello

stand assegnato, presentassero singolarmente e non in gruppo le proprie

produzioni, escludendo inoltre i rappresentanti di vendita. L’Acrib studiò il caso con

la Camera di Commercio di Venezia e decise di affittare un salone nelle prossimità

della fiera dove esporre i propri prodotti in concomitanza con la manifestazione

principale.

La soluzione funzionò fino al 1977, anno in cui il regolamento della fiera fu

modificato permettendo ai calzaturieri del Brenta di affittare un salone all’interno

dell’esposizione che potesse ospitare 120 imprese. Sempre nell’ambito dell’attività di

cooperazione e di promozione dello sviluppo del distretto nel suo insieme, va

inserita la riapertura nel 1947 della scuola per artigiani “Ottorino Tombolan Fava”,

chiusa durante la seconda guerra mondiale. I corsi festivi miravano a fornire agli

allievi le indispensabili nozioni teoriche e pratiche per iniziare un’attività lavorativa

come operai qualificati o specializzati oppure di proseguire negli studi superiori. Il

successo iniziale é testimoniato dalle iscrizioni che nel 1958 arrivarono a 312,

concentrate soprattutto nella specializzazione per calzolai. L’istituto era l’unica

scuola in Italia riconosciuta dallo stato per la formazione professionale dei lavoratori

dell’industria calzaturiera. Tuttavia la difficoltà nel reperimento di finanziamenti, la

concorrenza esercitata da altri corsi più generalisti in provincia, l’aumento della

cultura con l’introduzione delle medie obbligatorie e l’attrazione esercitata sui

giovanoi da Marghera segnarono il declino della scuola negli anni ‘60 (il numero

degli iscritti toccò quota 29 nel 1973). La ripresa si ebbe solo con una più spinta

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qualificazione degli insegnamenti nel settore calzaturiero, ciò che le permise din

raggiungere i brillanti risultati odierni.

L’internazionalizzazione del distretto procedette più rapidamente con la

nascita nel 1957 della Comunità Europea: nel solo comparto calzaturiero le tariffe

doganali vennero ridotte del 30%. L’industria calzaturiera italiana aveva il numero

più alto di imprese nel settore rispetto ai partner europei ma molto frammentate (una

media di addetti per impresa bassa), per cui la maggiore dinamicità italiana veniva

frenata dalla scarsa complessità organizzativa. Tuttavia le piccole imprese italiane

non erano arretrate tecnologicamente e soprattutto potevano sfruttare la loro

flessibilità complessiva e le loro abilità produttive per specializzarsi ulteriormente

nella calzatura di lusso. Cosa che fece la Riviera del Brenta contribuendo a

decretare il successo dell’export di qualità italiano. Tra il 1954 e il 1958, la

produzione di calzature italiane crebbe come in nessun altro paese europeo, come

lo dimostra il grafico sottostante (figura n.1).

I maggiori paesi di destinazione dei flussi di export erano gli Stati Uniti e la

Germania che ne assorbivano complessivamente il 50%, seguiti da Francia, Gran

Bretagna e Svezia. La produzione del Brenta era come detto concentrata soprattutto

in Gemania e la distribuzione era molto semplificata; tra produttori e dettaglianti vi

era un rapporto diretto in modo che i primi potessero avvertire più rapidamente il

mutamento dei gusti dei consumatori evitando il collo di bottiglia dei grossisti (il

costo della distribuzione oscillava a seconda dei modelli tra il 23 e il 29% del prezzo

totale della calzatura).

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Figura n.1 - Produzione di calzature in pelle in alcuni paesi europei. 1954 1958.

0

20

40

60

80

100

120

Germania Belgio /Lus

Francia Italia Olanda RegnoUnito

Mili

on

i di p

aia

1954

1958

Fonte: Ente autonomo per le fiere di Bologna, Ufficio Studi, 1960.

Gli anni ‘50 furono anche sinonimo di crescita delle dimensioni medie delle

unità produttive della Riviera, facendo segnare un aumento da 5 a 21 addetti nel

1961. Tuttavia la dimensione media era inferiore a quella italiana ed indicava un

contesto produttivo fatto di aziende piccole o piccolissime. L’organizzazione della

produzione non era più su base familiare ma di tipo industriale, con l’introduzione

nel processo di macchinari non ancora sofisticati10. Gli anni ‘60 furono appunto

contrassegnati dalla meccanizzazione del processo, dal costante miglioramento

qualitativo e dalla forte natalità di imprese grazie al basso costo degli investimenti

per addetto. Il know how diffuso e l’irrilevanza di un fattore di scala nei costi di

produzione della calzature del Brenta favorirono la proliferazione delle nuove unità.

Il biennio 1968-1969 fu anche quello che fece registrare la punta massima della

produzione che arrivò alle 10 milioni di paia per poi attestarsi sugli 8 milioni negli

anni successivi (tabella n.1). Nel 1969, il 73% delle imprese brentane non superava i

50 addetti e solo il 9% giungeva ad oltrepassare i 100. Sotto il profilo giuridico

prevalevano naturalmente le ditte individuali (67%), le società di fatto (18%) e le

10 Roverato, 1996.

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società in nome collettivo (10,5%), costituite spesso tra familiari. La produzione

italiana nel corso del decennio subì un aumento incredibile passando da 73 milioni

di paia di scarpe nel 1960 a 270 milioni nel 1970. Il mercato italiano si era

fortemente dilatato per effetto del migliorato tenore di vita della popolazione, ma la

quota di produzione nazionale assorbita dal consumo interno rimaneva al di sotto

del 40%, le esportazioni non diminuivano e rimanevano dirette per i 4/5 verso Stati

Uniti e paesi CEE. Numerose attività di sostegno all’esportazione furono progettate

dall’Anci, che guadagnò importanza per l’intero settore anche in virtù dei numerosi

accordi raggiunti con le altre associazioni di categoria e organi di governo.

Tabella n.1 - Produzione in paia, fatturato globale ed esportazioni delle aziende calzaturiere della Riviera del Brenta

Anni paia prodotte % fatturato %

incremento fatturato % export

globale fatturato export rispetto l'interno 1964 6.800.000 - 21.580 - 12.080 55,97 1965 6.819.000 0,27 23.868 10,60 14.320 59,99 1966 8.620.000 26,41 31.033 30,00 18.619 59,95 1967 9.650.000 11,95 36.244 13,50 21.146 60,00 1968 10.387.000 7,63 39.474 12,00 23.084 58,50 1969 10.970.000 5,61 45.540 15,30 27.320 60,00 1970 9.310.000 15,13 40.986 -10,00 24.591 60,00 1971 8.500.000 8,70 40.500 -1,20 25.000 61,73 1972 8.500.000 - 50.250 24,00 31.250 62,18 1973 9.100.000 7,05 64.600 28,50 40.698 63,00 1974 9.050.000 -0,55 86.900 34,54 55.616 64,10 1975 9.010.000 -0,44 108.400 25,00 72.628 67,00 1976 8.650.000 -3,99 133.200 22,88 93.300 70,05 1977 8.615.000 -0,40 165.850 24,51 120.125 72,43 1978 8.700.000 0,60 188.660 13,75 136.967 72,59

Fonte: elaborazione su dati Acrib

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Gli anni ‘70 rappresentarono per tutta l’economia italiana un periodo di

ripensamento della logica produttiva e di razionalizzazione dell’apparato

organizzativo. Anche il calzaturiero del Brenta subì la flessione produttiva e le

difficoltà organizzative ma il risultato fu di rafforzamento dello spirito associativo che

si espresse con una temporanea iniziativa consortile fra quattro calzaturifici che si

riunirono sotto un’unica organizzazione di vendita (Stracalzatura). La fase

congiunturale era critica a causa della diminuzione dei consumi interni, della

flessione delle esportazioni, della stretta creditizia e dell’improvviso aumento dei

costi di produzione e delle materie prime. L’area del Brenta utilizzava quasi solo

esclusivamente cuoio e pellami come materie prime, per mantenere alta la qualità

del prodotto finito, forniti loro direttamente dai produttori, che negli anni ‘70

aumentarono notevolmente i prezzi. I calzaturieri, non avendo possibilità di

controllare i prezzi della materia prima, dovettero adeguarsi all’aumento. Come

dovettero adeguarsi anche di fronte alle violente lotte sindacali di quegli anni. La

soluzione fu un processo di ristrutturazione aziendale mirante a ridurre le dimensioni

delle imprese e semmai a crearne di nuove piccolissime. Infatti i livelli di

sindacalizzazione risultavano praticamente nulli nelle imprese artigiane.

Altro grosso problema della zona, esploso qualche anno prima, era la grave

emorragia di manodopera specializzata per effetto dell’attrazione esercitata dal polo

industriale di Marghera. I costi di produzione ed in particolar modo del lavoro, fattore

che era sempre stato abbondante e a buon mercato, lievitarono a tal punto che gli

imprenditori brentani dovettero forzatamente puntare su un prodotto ulteriormente

qualitativo che permettesse una commercializzazione a prezzi più alti. Con un

prezzo medio unitario triplo rispetto a quello nazionale, la produzione locale veniva

a posizionarsi su una fascia di assoluto prestigio. La maggior parte delle imprese

abbandonò la gamma media per qualità e prezzo per collocarsi sulla fascia di

mercato dove il fattore moda assumeva un ruolo decisivo. La scelta di prodotti a

maggior valore aggiunto per l’alto contenuto moda contribuì all’innalzamento della

percentuale di produzione destinata all’esportazione, che salì a 75,29% nel 1978,

rappresentando il 9,55% del totale export italiano di calzature in pelle. Vista la

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qualificazione verso l’Italian fashion, si fecero più urgenti le necessità di avere un

sistema informativo sulla moda-mercato. All’inizio si affidarono a continui contatti

con i clienti, con i rappresentanti, con riviste specializzate per poi approdare ad

accordi di collaborazione con le più importanti case di moda europee e statunitensi.

Così divenne sempre più importante la flessibilità produttiva per poter realizzare lotti

minimi con tempi di esecuzione ridotti. L’opzione strategica dei produttori venne

sostenuta dal progressivo ampliarsi delle attività collegate, tanto che l’indotto

comprendeva componenti ed accessori della calzatura, modelleria e design, ma

anche macchinari ed attrezzature. Il capitale utilizzato per sostenere gli investimenti

era per lo più capitale d’esercizio e non fisso, caratteristica di molte piccole e medie

imprese dei distretti industriali veneti. Il rapporto con i fornitori era migliorato

notevolmente grazie allla sostituzione dell’intermediazione dei grossisti con un

contatto diretto. Anche le vendite del prodotto finito si svolgevano direttamente al

dettagliante o tramite agente non esclusivo in Italia e all’estero attraverso agenzie o

agenti.

Nel 1974, risultavano iscritte all’Acrib 345 ditte di cui 77 industrie calzaturiere,

129 laboratori artigianali, 9 aziende industriali per la produzione di accessori e 50

artigianali, 30 ditte per lo studio di modelli e 50 aziende commerciali. La nascita di

queste imprese fabbricanti parti, accessori e componenti, permise ai calzaturifici di

focalizzarsi sulle fasi strategiche del ciclo produttivo, rivolgendosi all’esterno per

l’esecuzione delle altre lavorazioni11. In questo clima di interazioni si poterono

sviluppare economie di scala, di specializzazione e di standardizzazione altrimenti

difficilmente conseguibili da un singolo calzaturificio. I vantaggi consistevano in un

contenimento delle dimensioni aziendali, in minori costi di investimento in capitale

fisso, in una maggiore velocità di risposta al mercato e in una riduzione dei costi di

eventuali specializzazioni interne. La deverticalizzazione della produzione era

favorita dalla struttura del ciclo produttivo che non presentava forti vincoli alla sua

scomponibilità per i bassi investimenti connessi e per le caratteristiche tecniche

11 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).

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della lavorazione. Le imprese di media-grande dimensione rimasero in numero

sempre minore ed incentrarono la loro forza competitiva principalmente sul design e

sulla qualità del prodotto, realizzato spesso in piccole serie e destinato

prevalentemente all’esportazione. I terzisti erano costituiti sia da aziende industriali

che artigiane di piccolissime dimensioni oppure da lavoranti a domicilio che si

occupavano di operazioni come l’orlatura, il taglio dei pellami o la foderatura dei

tacchi. La manodopera di queste piccole unità artigiane era in parte agevolata dalla

legislazione con sgravi fiscali e in parte era forza irregolare.

L’area produttiva della Riviera del Brenta aveva così assunto definitivamente

la conformazione di un moderno distretto industriale. Le conoscenze si diffondevano

in modo semplificato grazie alla circolazione tramite canali informali; la

professionalità e l’innovazione erano presenti ad un altissimo grado; un diffuso

senso di appartenenza e di cooperazione fra i diversi attori evitava comportamenti

scorretti e allo stesso tempo la concorrenza fra imprenditori impediva atteggiamenti

collusivi. Le aziende avevano modificato le loro forme societarie pur sempre

mantenendo un carattere familiare. Infatti lo spirito imprenditoriale costituì un valore

tramandato di generazione in generazione che alimentò anche atteggiamenti

fortemente individualistici accompagnati da grande fiducia nelle capacità progettuali

aziendali e nelle caratteristiche dei prodotti realizzati.

4.3

La struttura attuale del distretto calzaturiero

Gli anni ‘80, con le loro fasi altalenanti di vendita, decretarono definitivamente

l’importanza della deverticalizzazione del ciclo e quindi della flessibilità produttiva. Il

ricorso ai produttori di fase esterni non fu più temporaneo ma sistematico, e con essi

si cercò di ovviare ai maggiori costi di produzione attraverso le economie di scala

nel complessivo sistema della calzatura brentana. Le fasi decentrate sono state

soprattutto quelle del taglio del pellame, dell’orlatura e della giuntura della tomaia.

L’insieme delle imprese poteva così suddividersi in diverse tipologie (figura n.2); le

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4-5 imprese di media dimensione che avevano rapporti diretti con il mercato finale, il

cui posizionamento si basava sulla qualità, sul design e sull’innovazione nei

materiali e nei processi produttivi; le piccole imprese industriali puntavano sul

decentramento produttivo di alcune fasi, non avevano un’organizzazione di vendita

diretta ma collocavano i loro prodotti o attraverso le fiere internazionali oppure

tramite i gruppi di acquisto nei paesi in cui esportavano; le imprese artigianali

avevano al massimo 20 addetti per lo più non strutturati, producevano in base alle

esigenze dei committenti con macchinari piuttosto obsoleti; le imprese specializzate

in singole parti del prodotto, in accessori o in servizi erano le più numerose e, una

volta acquisita una solida competenza, presero a servire anche clienti esterni al

distretto; infine le imprese commerciali erano essenziali per i piccoli produttori che

non potevano internalizzare la fase distributiva.

Figura n.2 – Aziende della Riviera del Brenta

Fonte: elab. su dati Acrib

Nonostante l’ambiente distrettuale si fosse strutturato grazie a una vasta

divisione del lavoro e a relazioni stabili fra gli operatori, i produttori brentani si

dovettero confrontare con nuovi nodi problematici. Primo fra tutti era l’aumento della

Figura n.2 - Aziende della Riviera del Brenta

Calzaturifici49%

Accessori38%

Modellisti7%

Ditte commerciali6%

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concorrenza internazionale. I prezzi molto convenienti, uniti però a una qualità

medio-bassa, delle produzioni dei paesi in via di sviluppo crearono effetti

destabilizzanti per l’intero mercato. Altri distretti calzaturieri italiani furono spinti da

questa competitività a reimpostare la propria offerta in direzione di quella qualità

medio-fine fino a non molto tempo prima presidiata dalla Riviera. La stessa struttura

produttiva di paesi come la Spagna, il Portogallo e il Brasile aveva raggiunto un

livello di sviluppo tale da eguagliare la qualità delle calzature del Brenta ma a costi

inferiori.

Al contrario, nella Riviera, i vantaggi di costo legati negli anni ‘50 e ‘60 sia alla

vasta disponibilità di manodopera che ai contenuti prezzi di acquisto delle materie

prime, sono stati compromessi da un lato dalla attenuazione della possibilità di

ricorrere al lavoro non regolamentato e dall’altro dal crescente aumento dei pellami.

La strategia di risposta del distretto si é orientata verso due direzioni: alcuni hanno

puntato sulle variabili qualitative della produzione e del sistema locale (maggiori

caratteristiche tecniche dei propri articoli rispetto a quelli della concorrenza,

affidabilità nei tempi di consegna, ricchezza del campionario, possibilità di avere

piccole serie esclusive , ecc.), altri hanno introdotto una politica di contenimento dei

prezzi sia attraverso una contrazione dei propri margini sia con un ricorso ancora più

spinto al decentramento di fase.

Le difficoltà che ha affrontato, e sta tuttora facendo, la Riviera sono comuni a

più distretti calzaturieri italiani. La produzione italiana nei primi anni ‘90 é risultata la

prima in Europa e la quarta nel mondo dopo la Cina Popolare, Hong Kong e Taiwan

e questo grazie alla sua specializzazione nelle calzature di qualità in pelle e alla

grande capacità di inseguimento della domanda internazionale. In tutto ciò ha

giocato un ruolo fondamentale l’affermazione nel mondo del “made in Italy” come

valore extraeconomico rispetto al contenuto intrinseco dei prodotti del nostro export

nel tessile-abbigliamento12. L’esportazione di calzature ha nuovamente accelerato il

suo andamento dopo la svalutazione competitiva del 1992, non raggiungendo più

tuttavia il valore massimo del 1985 (434,7 milioni di paia), con un aumento del

12 M. Maugeri (1998).

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90

fatturato grazie alla già ricordata manovra di innalzamento della qualità e del prezzo

medio. La produzione italiana può ora considerarsi per la gran parte attestata su

una tipologia medio-fine fabbricata in pelle e cuoio (67% del totale prodotto e 81,5%

del fatturato). La Riviera del Brenta rientra quindi nell’andamento del comparto

nazionale, con un’ulteriore destinazione della produzione all’esportazione (nel 1996

82,7%).

I maggiori paesi di sbocco delle esportazioni si sono confermati quelli

dell’Unione Europea, in particolare Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Regno

Unito, favoriti dalla caduta dei dazi doganali, dalla prossimità geografica e dalla

comune appartenenza a una stessa cultura dei consumi. Tuttavia il peso delle

esportazioni verso l’Europa occidentale sta presentando negli ultimi anni segnali di

flessione a causa della rapida crescita dell’industria spagnola e portoghese, così

che le imprese del Brenta stanno reimpostando la propria politica in direzione di un

allarganento dei paesi di sbocco. Gli Stati Uniti, il Giappone ed i Paesi arabi

rappresentano un nucleo preferenziale di meta esportativa in quanto luoghi dove il

“made in Italy” é particolarmente apprezzato e dove il contenuto immateriale della

creatività italiana riesce a porre in secondo piano il problema del prezzo.

E’ importante soffermarci sulla flessione delle vendite in Germania,

compratore storico delle calzature del Brenta, nonché principale mercato di molte

imprese locali. Le difficoltà sono attuali e dipendono dalla succitata concorrenza

iberica. I produttori della Riviera si vedono costretti a lavorare agli stessi prezzi dei

calzaturieri spagnoli, pena l’uscita dal mercato, pur non avendo la stessa struttura

dei costi. La soluzione per evitare di chiudere i bilanci in rosso é la ricerca di nuovi

approvvigionamenti di componenti, più economici ma meno qualitativi, nei paesi

dell’Est europeo. Soluzione poco convincente perché ne deriverebbe un

peggioramento complessivo della qualità della calzatura e di conseguenza una

perdita di caratterizzazione del prodotto. Il problema é quindi serio e ha radici

lontane nel tempo. Le dimensioni aziendali ridotte non consentirono infatti agli

imprenditori di raggiungere direttamente i clienti comportando un rapporto squilibrato

a favore dei compratori. In più la tendenza tedesca di pianificare anche la moda

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portò i compratori a pretendere dei prezzi standard per tipologia di prodotto,

costruendo in pratica delle “gabbie” di riferimento sempre più rigide: la domanda finì

per determinare il prezzo di acquisto. Unito a ciò, si deve considerare come causa la

pessima strategia di alcune imprese di far dipendere la totalità della propria

produzione da un unico mercato.

Aldilà dei mercati di sbocco, resta per il distretto la necessità di approntrare

validi meccanismi volti all’evoluzione delle singole imprese e del sistema nel suo

insieme. Le innovazioni tecnologiche non sono fonti di grandi e duraturi vantaggi

competitivi in questo settore, perché sono facilmente acquisibili e imitabili. Invece

sono sempre più importanti le innovazioni strategico-aziendale per mantenere un

ruolo nel contesto internazionale. Da una strategia prevalente orientata al prodotto

si sono aperte nuove strade organizzative. La strategia più diffusa era appunto

quella basata sulla qualità dei materiali e della lavorazione in sé, senza grandi sforzi

per far conoscere il prodotto ai consumatori finali. Questa carente cultura del

marketing non ha permesso un’adeguata segmentazione dell’offerta e una ricerca di

visibilità dei prodotti brentani presso il grande pubblico. Di conseguenza si può

ipotizzare un’evoluzione verso una strategia di immagine propria che raggiunga

direttamente il consumatore finale e spinga i prodotti verso nicchie molto precise e

identificabili. Un’alternativa é quella attuata da alcune imprese del distretto: la

collaborazione con le case di moda. La produzione può essere firmata da stilisti o

per conto loro. Nel primo caso il calzaturificio si occupa della realizzazione e della

commercializzazione in proprio di un progetto di calzatura fornito dalla casa di

moda; il guadagno risiede nell’immagine della firma, che nelle sue complessive

operazioni di marketing inserisce anche la calzatura la quale poi entra in

selezionatissimi canali di vendita. Nel secondo caso, lo stilista é interessato a un

arricchimento della propria gamma merceologica e così commissiona la produzione

di calzature a un’impresa che diventa una semplice subfornitrice perdendo la propria

autonomia ma guadagnando in stabilità13.

13 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).

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Come si può immaginare le strategie aziendali adottabili sono molteplici ma

da sole non bastano a far evolvere un distretto industriale. Un punto di forza, una

risorsa vantaggiosa del distretto é la cooperazione interna fra gli operatori del

sistema e la progettualità comune. I calzaturieri del Brenta l’hanno sperimentata e

incentivata in diverse forme. Alcune di queste hanno avuto grande successo perché

sorrette da una reale volontà collaborativa, altre sono fallite a causa della

prevalenza delle logiche individualistiche dei singoli imprenditori. L’esempio più

eclatante del sistema cooperativo distrettuale é rappresentato dall’Acrib e dalle sue

germinazioni.

L’Associazione Calzaturifici della Riviera del Brenta (vedi allegato n.2) venne

fondata nel 1961 dagli imprenditori locali con lo scopo di agevolare l’attività comune

del distretto. I suoi rappresentanti si inserirono nelle principali istituzioni collegate al

settore della calzatura, a cominciare dall’Anci, fino ai consigli direttivi delle

Associazioni industriali delle provincie di Padova e Venezia e alla Confederazione

europea delle calzature (Cec). Alle aziende aderenti l’Acrib fornì da subito i servizi di

consulenza sindacale e tributaria, infatti dagli anni ‘70 si era acuita la necessità di

assistenza per l’interpretazione e l’applicazione delle norme di legge e di contratto in

materia di lavoro e per le problematiche inerenti i sistemi retributivi e i trattamenti

economici in generale. L’Acrib fu dunque essenziale per la stipulazione di contratti

integrativi zonali. Un altro importante settore di attività divenne quello relativo ai

problemi fiscali in genere con la consulenza per l’applicazione delle disposizioni

tributarie.

Nei primi anni di evoluzione dei sistemi comunicativi l’associazione si fece

carico delle esigenze delle imprese istituendo un servizio di posta, telex e

traduzione. Dato il preminente orientamento all’esportazione, il mantenimento dei

contatti con persone parlanti altre lingue era di vitale importanza, ma non essendoci

grandi conoscenze linguistiche diffuse fra gli imprenditori, i servizi Acrib ebbero una

notevole espansione. Connesse a queste attività furono fin dall’inizio quelle relative

alle manifestazioni fieristiche nazionali e internazionali. Già alla fine degli anni ‘50

cominciarono ad affermarsi alcune fiere di carattere nazionale, come a Bologna,

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Milano e Firenze, e in campo internazionale a Düsseldorf, Bruxelles e New York.

Proprio con la Fiera delle calzature di Düsseldorf, una delle più importanti al mondo,

sorsero i problemi organizzativi già menzionati, che l’Acrib risolse prontamente

dimostrando l’utilità della scelta consortile. Nel 1976 nacque dall’associazione il

consorzio Maestri calzaturieri del Brenta, costituito anch’esso per promuovere ed

assistere la cooperazione fra le aziende consorziate. Il consorzio ha curato azioni

promozionali attraverso fiere, convegni e manifestazioni collettive in Italia e

all’estero. Oggi fa parte della FEDEREXPORT, compie studi e rilevazioni statistiche,

acquisisce e diffonde ricerche di mercato, informa sui problemi commerciali con

l’estero, organizza partecipazioni a missioni economiche, fa conoscere e tutela le

caratteristiche qualitative della produzione calzaturiera della Riviera del Brenta e

provvede alla pubblicità collettiva.

L’attività del consorzio e dell’associazione principale si compenetrano a

vicenda nel seguire i produttori nello sviluppo internazionale. E’ recente infatti la

mobilitazione dell’Acrib per l’organizzazione di una presenza collettiva alla fiera di

Hong Kong. Tale fiera é essenziale per farsi conoscere all’interno del mercato

asiatico, in particolar modo quello cinese, e quindi nel corso degli anni ha rivestito

un’importanza crescente per i calzaturifici che stavano riprogettando gli sbocchi

commerciali. In generale una fiera non é solo il momento della vendita del prodotto

ma rappresenta un momento di incontro fra produttori e operatori del settore, un

luogo di aggiornamento e di scambio delle opinioni, e un modo di presentare le

proprie produzioni in aree di nuova penetrazione (spesso nei nuovi paesi le vendite

si realizzano solo dopo alcuni anni di presenza costante alle fiere, ciò che dimostra

la qualità dell’investimento effettuato).

Oltre alla promozione dell’immagine collettiva, l’Acrib mette a disposizione

anche un servizio per identificare le tendenze moda del momento offrendo

consulenze personalizzate alle singole aziende in base al tipo di prodotto che si

vuole creare e al mercato in cui si vuole vendere. Un’attività collegata é quella

pubblicitaria che viene sfruttata talmente poco dai membri che i prodotti della

Riviera sono ben conosciuti dagli importatori, dai grossisti e dai negozianti ma

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praticamente sconosciuti per i consumatori finali. Una promozione di carattere

collettivo é sempre stata fra gli obiettivi dell’Acrib, ma le differenze fra le varie fasce

di prodotti coperte, pur nella generale qualità medio-alta, e l’assenza nella zona di

organizzazioni specifiche non hanno per il momento permesso la riuscita del

progetto. La forza collettiva si é invece fatta valere dal lato delle forniture in quanto

l’associazione ha intermediato per la stipula di convenzioni con grandi fornitori di

servizi come banche, assicurazioni, autotrasportatori, ecc. Le condizioni contrattuali

ottenute sono sicuramente più vantaggiose di quelle che potrebbe spuntare una ditta

singola, infatti le adesioni in taluni casi coinvolgono il 90% degli operatori.

Il Centro Veneto Calzaturiero é un consorzio germinato dall’Acrib e ne fanno

parte la Scuola Modellisti di Stra e il Centro Tecnologico di Vigonovo. La prima

rappresenta l’evoluzione dell’antica scuola “Ottorino Tombolan Fava” e organizza

corsi di vario livello per modellisti tecnici e creativi, operatori su Cad-Cam e

computer grafici. I docenti della scuola sono tutti prestati all’insegnamento, sono

imprenditori, liberi professionisti e tecnici della calzatura, che, dopo aver lavorato

regolarmente durante la settimana, al sabato mettono a disposizione le proprie

conoscenze. Il Centro Tecnologico si occupa invece dell’innovazione tecnica e

informatica nonché del controllo qualità sui materiali con prove di tipo fisico.

Tutto l’apparato cooperativo non é sufficiente a superare il punto debole del

distretto, vale a dire il nodo della commercializzazione. Gli alti livelli di qualità da

mantenere si scontrano con il problema del prezzo e, posto che ad essi la

deverticalizzazione produttiva sta già dando una parziale soluzione, la risposta non

può che trovarsi nelle strategie di marketing e di commercializzazione.

L’intensificazione del ricorso a terzisti, come del resto la delocalizzazione di fasi del

ciclo nei paesi ex-comunisti, non sempre garantiscono il livello di qualità su cui si

basa il successo della produzione brentana. La delocalizzazione nei paesi a minor

costo del lavoro non si é realizzata se non per segmenti limitati del ciclo, tanto é

vero che il traffico di perfezionamento passivo ha mantenuto un andamento

altalenante se non regressivo. Fattori che si oppongono all’internazionalizzazione

produttiva sono essenzialmente le piccole dimensioni medie delle imprese locali e la

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ricerca della massima qualità dei prodotti. Chi lavora nel settore moda, magari

essendo licenziatario di marchi prestigiosi, sa che la delocalizzazione di parti

significative della produzione o causerebbe una caduta pericolosa dei contenuti del

prodotto o produrrebbe antieconomiche fasi centralizzate di rifinitura dello stesso. La

rivoluzione attuale del ciclo produttivo spinge verso l’utilizzo di nuove tecnologie

nelle fasi ancora legate al prevalente uso di manodopera, ma perché sia veramente

applicabile alla Riviera deve garantire una caratteristica artigianale delle finiture. In

definitiva il cumulo di sapere e di abilità operaie risulta ancora vincente rispetto alla

pure stringente necessità di abbattimento dei costi.

La commercializzazione rimane il problema e lo testimonia l’insuccesso del

tentativo di avviare una politica di qualificazione della produzione locale mediante

un marchio distintivo. Il marchio non é mai decollato a causa dell’opposizione degli

intermediari, restii a vincolare la propria attività ad una specifica zona d’origine del

prodotto, e all’accentuato individualismo degli imprenditori. L’attuale sistema di

commercializzazione risulta oggi in mano agli intermediari plurimandatari, ai

grossisti e alle centrali d’acquisto straniere, che di fatto impongono il prezzo alle

aziende produttrici. Probabilmente solo l’emergere all’interno del sistema di imprese

capofila moderne, in grado di guidare l’approccio tecnologico al prodotto e il

cambiamento commerciale e di marketing, offrirà alle piccole imprese la possibilità di

essere compatibili con un mercato globale. La Riviera del Brenta potrebbe attuare

un mutamento che la renda sempre meno zona di produzione in senso stretto e

sempre più testa pensante di un sistema proiettato all’estero, dove la

delocalizzazione non sia solo quella del lavoro materiale ma incorpori anche

trasferimento di sapere organizzativo, tecnico e professionale.

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5. Percorsi valorizzanti il distretto nella logica

internazionale

5.1

L’azione collettiva all’interno di un distretto industriale

Seguendo i principi della nuova sociologia economica1, oltre al mercato e alla

gerarchia, esistono altre modalità ricorrenti e stabili di organizzare la produzione e

distribuzione di beni e servizi. Associazioni imprenditoriali, alleanze e reti tra

imprese, forme fiduciarie di collaborazione tra aziende e tra capitale e lavoro sono

tutte forme nuove di governance2. Secondo lo schema analitico di Parri (1993),

l’azione economica si può dividere in due dimensioni fondamentali: quella dell’homo

œconomicus, indirizzata verso la produzione e la distribuzione di beni individuali o

per piccoli gruppi, e quella dell’homo sociologicus, basata su interazioni multilaterali

e orientata verso beni collettivi (sia pubblici che categoriali). Se lungo queste due

dimensioni si distingue un continuum di crescente formalizzazione delle relazioni fra

gli attori coinvolti, si ottengono sei modalità di governance: due basate sulla

regolazione spontanea (mercato e comunità); due sull’autoregolazione (alleanze tra

imprese e associazioni imprenditoriali); due sulla regolazione amministrata

(gerarchie aziendali e autorità pubblica). La realtà distrettuale ha conosciuto

un’evoluzione dei sistemi di regolazione verso una sempre maggiore influenza della

dimensione cooperativa e auto-organizzata.

Negli anni ‘70, il distretto si configura come un sistema decentrato e

scarsamente connesso tenuto assieme da mercato e comunità, supportati da forme

deboli di intervento dell’autorità pubblica e da informali alleanze verticali tra imprese;

i beni collettivi sono creati dal mercato comunitario e l’efficienza é di carattere

1 Swendberg e Granovetter (1992). 2 Governance è qui intesa come modalità attraverso cui le azioni degli attori economici sono coordinate, le corrispondenti risorse sono allocate, i relativi conflitti sono trattati (Lange e Regini, 1987).

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adattivo, orientata al breve periodo, con apprendimenti routinari e innovazioni

incrementali..

L’aumento della concorrenza degli anni ‘80, dovuto all’emersione di paesi di

nuova industrializzazione e alla fine dei vantaggi di costo dell’economia italiana,

spinge i distretti a riprogrammare la ricerca dell’efficienza in chiave non più solo

adattiva ma dinamica, agendo attivamente all’interno del proprio ambiente per

sfruttarne le contingenze. L’efficienza basata sul mercato comunitario mostra le sue

inadeguatezze regolative nell’affrontare l’aumento di complessità e dinamicità

dell’ambiente. Sono perciò necessarie aggregazioni di risorse all’interno del sistema

, in modo da raggiungere le masse critiche necessarie per produrre beni privati,

categoriali e pubblici all’altezza delle nuove sfide ambientali. Queste masse si

raggiungono sia aggregando in maniera fortemente connessa unità aziendali

distinte, sia permettendo ad attori come le associazioni imprenitoriali locali e le

autorità pubbliche subnazionali di dar vita a nuove organizzazioni, capaci di

concentrare risorse pubbliche, private o miste (Parri, 1993).

Il sistema passa all’autoregolazione o alla regolazione amministrata perché la

spontaneità comunitaria non é più sufficiente. Nascono o si rafforzano, come nel

caso della Riviera del Brenta, consorzi e società pubblico-private che organizzano il

complicato percorso interattivo dei distretti semplificando le linee di forza interne. Il

distretto indusriale da maturo diventa evoluto e non più eterodiretto. Il percorso di

ricerca del nuovo equilibrio é ad apprendimento progressivo, in cui l’errore é

inevitabile e necessario, pena la chiusura immobilistica e la destrutturazione del

sistema produttivo locale. Un ostacolo evidente e di notevole gravità verso il salto

evolutivo é rappresentato dalle inerzie strutturali connaturate alla specifica natura

dell’imprenditorialità e della tipologia aziendale distrettuali. La profonda immersione

nella società locale rende molto viscosi i comportamenti imprenditoriali e preclude

salti strategici trainati da unità di comando, come per esempio il nuovo vertice di una

grande impresa.

I sistemi-distretto sono poco aperti verso l’esterno, presentando dei limiti

autarchici nella propria cultura imprenditoriale, manageriale e tecnologica, una

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scarsa terziarizzazione e un’insufficiente peso nella politica economica nazionale. I

casi di autoregolazione sono diventati sempre più frequenti ma ciò non vuol dire che

siano tutti coronati dal successo, anzi spesso incappano in difficoltà insuperabili. E’

infatti evidente che il dilemma sociale3 fa vedere le iniziative, razionali dal punto di

vista collettivo, ma irrazionali da quello individuale. Ciò vale per le imprese

distrettuali più dotate di risorse interne, che pensano di poter prosperare da sole, ma

anche per quelle più piccole, alle quali un investimento di tempo e denaro in

iniziative comuni sembra insostenibile. La logica diffusa fra gli operatori del distretto

é quella mirata al perseguimento del massimo di beni privati nel breve periodo, per

lasciare la creazione dei beni collettivi necessari alle altre imprese e poi

condividerne solo i benefici. I costi da sostenere per produrre collettivamente

attraverso progetti di medio-lungo periodo dei beni categoriali4 o pubblici sembrano

alla singola piccola impresa molto alti rispetto ai benefici che se ne ricavano.

Gli ostacoli all’azione collettiva sono paradossalmente molto forti all’interno

del distretto perché l’individualismo degli imprenditori é reale e consente loro di

raggiungere lo status sociale sognato, le aziende hanno una base familiare e quindi

sopportano malamente le deleghe interne ed esterne delle funzioni chiave e la

mentalità predominante fra gli operatori é puntata esclusivamente alla produzione.

Ovviamente, questi citati sono fattori che rivestono un peso differente a seconda dei

distretti, della loro storia e del loro settore di specializzazione manifatturiera, ma é

comune per tutti la necessità che l’azione collettiva sia attivata da soggetti trainanti

pubblici, associativi, privati o misti, capaci di catalizzarla. Le strategie per farlo sono

molteplici e sono spesso applicate naturalmente quelle che la letteratura economica

ritiene più efficaci per sviluppare la logica cooperativa. Un forte stimolo ad unirsi e

collaborare, su cui si può far leva, é rappresentato dalla paura del futuro sul 3 “I dilemmi sociali sono caratterizzati da due proprietà: a) la ricompensa sociale ad ogni individuo per un suo comportamento di defezione é più alta di quella per un comportamento cooperativo, indipendentemente da quello che gli altri membri della società fanno; b) ogni individuo nella società riceve una ricompensa più bassa, se tutti e quanti defezionano, rispetto a quella che riceverebbero se tutti cooperassero” (Dawes, 1980). 4 I beni pubblici e categoriali rientrano entrambi all’interno della categoria dei beni collettivi, ma i primi sono prodotti da un certo numero di attori per portere vantaggio a tutto l’universo di riferimento; mentre i beni categoriali sono prodotti da un numero limitato di attori facenti parte di una stessa categoria produttiva, funzionalmente o territorialmente intesa, e destinati alla fruizione da parte dei soli attori che hanno contribuito alla loro realizzazione, in quanto formalmente associati (Streeck e Schmitter, 1985).

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presente per il mantenimento del successo raggiunto. Altra strategia é la

promozione della cultura dell’interdipendenza e della reciprocità fra le varie unità

produttiva, insistere cioé sull’appartenenza allo stesso distretto e quindi sulla

contraddittorietà del comportamento non cooperativo anche rispetto ai fini

individuali. Può anche essere progettato un sistema che penalizzi chi non collabora

e che al contrario premi chi lo fa. In ogni caso é essenziale che il singolo

imprenditore avverta che la scelta cooperativa sia sostenuta anche dai suoi vicini e

che quindi sia animato dalla fiducia nella reciprocità dei comportamenti collaborativi.

Un altro importante fattore che può ostacolare la realizzazione di iniziative

collettive é l’opposizione da parte di imprese che detengono posizioni di preminenza

all’interno del distretto; queste possono temere che il loro potere venga messo in

dubbio dalla nascita di nuovi soggetti collettivi, per cui é necessario guadagnarsi il

loro consenso. Il distretto é senz’altro un luogo dove la collaborazione convive

spontaneamente con la concorrenza ma solo a un livello di debole e strategicamente

poco impegnativa pratica cooperativa fra imprese; se si vuole puntare su un sistema

di autogoverno efficiente, che stimoli la produzione di beni collettivi, bisogna

necessariamente agire con più forza verso la sfera comunitaria.

Il consorzio5 rappresenta un assetto misto tra le modalità regolative

dell’alleanza, per la sua natura contrattuale, e dell’associazione tra le imprese, per i

suoi meccanismi di interazione politici, ed é finalizzato alla produzione di beni

categoriali e, a volte, pubblici. Esso viene usato per svolgere nuove o più efficaci

azioni aziendali, che le imprese non potrebbero realizzare perché non aventi la

massa critica adeguata, ma anche per disciplinare le attività delle imprese stesse.

Ciò significa che i beni categoriali possono derivare dalla creazione di un’apposita

organizzazione oppure dalla rinuncia delle imprese membri ad atteggiamenti

illecitamente concorrenziali (imitazioni selvagge, realizzazione di articoli ”bidone” di

bassa qualità, guerre di sconti, ecc.) nei confronti delle altre consorziate.

5 L’art. 2602 del Codice Civile dice: “Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”.

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Le funzioni operative di un consorzio sono di diversa natura e possono

concernere la promozione all’export, l’esposizione, gli acquisti di materie prime, il

controllo della qualità, la ricerca e sviluppo, l’assistenza sindacale e tributaria, ecc.

Un consorzio distrettuale é ulteriormente esposto al conflitto fra cooperazione e

concorrenza perché i membri producono lo stesso bene, si conoscono tra di loro e

pensano di poter far meglio dell’altro, sospettano che la direzione consortile si

muova dietro una facciata di neutralità per favorire alcuni di loro e via dicendo.

Sicuramente é più semplice proporre e far funzionare un consorzio che non invada

le prerogative imprenditoriali cruciali ma che si limiti alla promozione

dell’esportazione o di esposizioni collettive piuttosto che alla vendita all’estero o

alla R&S. In questi ultimi casi, le imprese dovrebbero essere animate da un notevole

grado di fiducia nei confronti degli altri consorziati perché si andrebbero a toccare

funzioni vitali e caratterizzanti le singole unità produttive.

La difficoltà nell’organizzare e nel gestire un ente che fornisca a livello locale i

beni collettivi necessari non deve far dimenticare che, in un distretto industriale, i

fattori di successo si basano molto sulle economie esterne. Marshall evidenziava

l’importanza dell’“atmosfera industriale”, descrivendolo come un patrimonio di

esternalità che rappresenta un vantaggio competitivo e un insieme di competenze

distintive. In questo senso le esternalità possono essere avvicinate al concetto di

bene pubblico spontaneamente prodotto dal distretto. La conoscenza su cui si basa

la divisione interna del lavoro non va sottovalutata nel momento in cui un soggetto

forte, che può essere pubblico, privato o misto, stimola l’azione collettiva. In questa

fase di globalizzazione dell’economia é essenziale che il distretto si equipaggi di

strumenti adatti a gestire il maggiore grado di conoscenza codificata presente nella

produzione e necessariamente può farlo solo impostando una logica collettiva. Infatti

la creazione di servizi ad elevato contenuto di conoscenza é funzionale ai sistemi di

piccola e media impresa perché la singola azienda non ha i mezzi finanziari per

provvederne individualmente.

Normalmente nella fase di avvio, la struttura allocativa di tali servizi innovativi

deve essere di tipo monopolistico e sorretta dall’azione pubblica che garantisca la

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qualità delle informazioni in caso di asimmetria informativa. La strategia erogatrice

deve tuttavia rimanere di carattere locale ed essere imbevuta di quella conoscenza

contestuale fondante un distretto. Il servizio erogato perché possa essere avvertito

come importante dagli imprenditori distrettuali deve essere di natura reale e

permettere un aumento di competenze possedute a livello individuale. Dal lato della

domanda prevalgono le richieste di servizi informativi che consentano di ottimizzare

le strategie di penetrazione commerciale (soprattutto per le nuove aree geo-

economiche, dove non si conoscono le controparti, la domanda, il contesto

economico e politico) e che permettano di selezionare gli operatori locali affidabili

con i quali avviare rapporti di cooperazione. Spesso questi servizi non sono quelli

standard che possono venire offerti da una grande agenzia di consulenza ma sono

specifici per le esigenze degli operatori locali, per cui c’é inseparabilità fra

l’economia dell’offerente e quella dell’acquirente.

La natura relazionale, la contiguità, di domanda e offerta porta a due

anomalie: da un lato la domanda per molti servizi all’internazionalizzazione é latente

perché non si può manifestare senza l’offerta, dall’altro le imprese non acquisiscono

servizi specializzati ma si limitano a quelli standard. Qui rientra il ruolo di un

consorzio o di altra espressione collettiva nel senso di fornire le risposte ai bisogni

tipici latenti delle imprese locali e di proporre soluzioni innovative su misura per il

contesto di riferimento. Gli esempi di successo di consorzi o centri servizi all’interno

di un distretto sono tutti caratterizzati da un processo di co-evoluzione di domanda e

offerta. Le condizioni del successo riguardano i servizi, la cui gamma di offerta non

deve essere troppo ampia e generica ma deve poter evolversi e arricchirsi

continuamente da un nucleo originario semplice e visibile, e il ruolo

dell’organizzazione erogatrice, ruolo di interfaccia dinamica tra il sistema locale e

l’ambiente internazionale attraverso la partecipazione a circuiti cognitivi globali6. In

mancanza di un processo di co-evoluzione attraverso cui la domanda genera la

propria offerta e viceversa, le imprese si trovano di fronte a due alternative: ricorrere

al mercato dei servizi esterni oppure autoprodurre il servizio al proprio interno con

6 G.Corò ed E. Rullani (1998).

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grande dispendio di risorse. Entrambe le soluzioni pongono forti limiti allo sviluppo

di servizi di qualità. L’autoproduzione di servizi di qualità può essere un punto di

avvio, ma non una soluzione efficace a lungo termine; quindi l’evoluzione congiunta

di domanda e offerta può trarre origine dall’esternalizzazione del terziario che si

forma all’interno delle imprese più innovative. Una volta creata l’offerta, si manifesta

la domanda latente anche delle imprese meno innovative contribuendo a innescare

il circuito virtuoso evolutivo.

In conclusione, le imprese venete all’interno di distretti export oriented

possono entrare nel nuovo contesto competitivo investendo in intelligenza terziaria

interna, ma soprattutto esternalizzando i servizi interni verso organizzazioni che

mantengano un rapporto privilegiato con la matrice di origine. Lo sviluppo del

terziario interno non é alternativo, ma piuttosto complementare, alla crescita del

terziario esterno. Questo collegamento però rende più difficile l’evoluzione delle

imprese verso il miglioramento della qualità dell’internazionalizzazione, perché in

aziende povere di intelligenza terziaria e collocate in un ambiente poco stimolante,

la domanda di servizi interni non può manifestarsi in quanto non sufficientemente

stimolata dal contatto con servizi esterni di qualità, e viceversa.

5.2

I servizi collettivi all’interno del distretto della Riviera del Brenta

Il distretto calzaturiero della Riviera del Brenta é uno dei primi ad aver

manifestato dei segnali cooperativi forti fra le imprese interne. L’esempio più

significativo dell’azione collettiva brentana é rappresentato dall’ ACRiB e dai due

consorzi da essa gemmati: i Maestri Calzaturieri del Brenta e il Centro Veneto

Calzaturiero. Queste strutture funzionano rispettivamente dal 1961 e dal 1976 e

hanno accompagnato l’evoluzione del distretto adattando i propri servizi alle

esigenze delle imprese. La natura associativa privata é un segnale dello stimolo

aggregativo evidente che anima gli operatori economici del distretto. Dalle interviste

fatte ad alcuni imprenditori si evince la ferma convinzione dell’appartenenza allo

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stesso ambiente produttivo e dell’utilità nel cooperare per facilitare l’evoluzione del

distretto e per ottimizzare alcune fasi del ciclo produttivo. Essenzialmente la

cooperazione fra le imprese brentane si é sostanziata nella volontà di presentarsi

agli occhi dei fornitori e dei clienti come un insieme omogeneo di produttori

condividenti la stessa cultura imprenditoriale. I rapporti informali ricorrenti fra gli

abitanti del distretto é una valida base sociale che stimola le iniziative aggregative a

livello economico.

L’Associazione dei calzaturieri della Riviera del Brenta condivide il sistema

comunicativo e valoriale delle imprese del distretto per cui raccoglie grande fiducia e

convinte adesioni da parte di queste ultime. Quindi esistono le condizioni di

partenza per la progettazione e la successiva erogazione dei servizi ottimali per i

calzaturifici. Oggi, i servizi offerti dall’associazione, come già accennato nello scorso

capitolo, riguardano la materia sindacale e tributaria, l’informazione del settore, i

rapporti esterni e gli acquisti collettivi.

Dal lato commerciale é di maggiore interesse il consorzio affiliato dei Maestri

Calzaturieri del Brenta a cui é propriamente affidata l’innovazione dell’ultima fase

della catena del valore. Il consorzio in questione si occupa dell’assistenza nella

diplomazia commerciale, delle campagne pubblicitarie istituzionali, di studi di

mercato e statistiche di settore, di pratiche doganali, di organizzazione di fiere ed

esposizioni collettive all’estero e di iniziative promozionali in genere. La dimensione

media delle imprese del distretto non permette l’esistenza di un articolato reparto

commerciale all’interno di ogni azienda, di conseguenza i servizi collettivi offerti

sono di vitale importanza.

Un esempio fra i tanti é la banca dati sui punti vendita messa a disposizione

dei consorziati. Essa ha raggiunto la dimensione di 35.000 indirizzi, fra importatori,

esportatori, dettaglianti, gruppi d’acquisto, che le imprese possono consultare

gratuitamente evitando così costose e lunghe ricerche individuali. La costruzione

della banca dati, e il suo continuo aggiornamento, si é avvalsa dell’esperienza delle

imprese del distretto con i singoli punti vendita mettendo a disposizione della

collettività gli errori e i successi ottenuti nei rapporti esterni nel corso di 50 anni di

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attività. L’impresa, rivolgendosi al consorzio, può avere informazioni su un

particolare mercato di sbocco o su uno specifico punto vendita contando sulla

segretezza del servizio e sull’accuratezza dei dati forniti. Infatti il consorzio si

interpone fra l’impresa offerente e quella richiedente l’informazione garantendo

l’anonimato e così incentivando l’uso del servizio stesso. Per un distretto che

esporta più dell’80% della produzione é molto importante la scelta dei giusti canali di

distribuzione all’estero, anche perché non é diffusa la pratica dell’export strategy o

dei marketing plan7.

Nella mia esperienza personale all’interno del distretto ho avuto modo di

constatare l’inesistenza di un politica di marketing aziendale in senso stretto.

L’intero processo di programmazione dell’esportazione é basato sulle scelte

arbitrarie dell’imprenditore, che é a sua volta orientato dall’esperienza accumulata,

dal comportamento altrui e da un indefinibile fiuto commerciale. Il prodotto esportato

si contraddistingue da un’omogeneità qualitativa e tipologica e si rivolge a un target

specifico per cui non si realizzano azioni di segmentazione del mercato o lanci di

nuovi beni con specifici posizionamenti. Il marketing é presente nelle scelte

strategiche delle aziende non perché vi sia un reparto apposito ma in quanto

componente connaturata alla figura imprenditoriale. Non si tratta di marketing

scientifico perché rientra all’interno del sapere contestuale decodificato degli

operatori del distretto. E’ compito delle organizzazioni collettive codificare tale forma

di sapere e integrarla con nozioni scientifiche per permettere alle aziende di inserirsi

all’interno della catena internazionale del valore.

Infatti se il sapere contestuale non viene codificato, esso non può condurre

all’esplicitazione di una domanda di servizi reali e alla conseguente creazione

dell’offerta. Nell’internazionalizzazione, un’impresa deve necessariamente fare

ricorso a fornitori di servizi esterni che possono essere realmente utili solo se chi li

eroga condivide la cultura aziendale e sa interagire con i richiedenti. Le imprese

della Riviera riconoscono l’Acrib e i consorzi collegati come una loro creazione,

immersi nello stesso contesto di riferimento, quindi partecipano al momento

7 A. Foglio (1993).

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cooperativo traendone linee d’azione individuali. Lo stesso servizio moda messo a

disposizione delle imprese dall’associazione é usufruito da gran parte delle

associate8. Dal momento che le produzioni della Riviera si stanno connotando da

una sempre maggiore ricerca della qualità e del contenuto moda, la fase di

ideazione dei modelli risulta essere determinante per il successo della collezione. Il

servizio consente ai modellisti delle singole imprese di caratterizzare le proprie

creazioni a seconda delle tendenze presenti e future del settore della moda

riducendo i costi di una ricerca individuale e dando al distretto una certa unitarietà

stilistica distinguibile dal consumatore.

Il problema dell’accesso ai canali distributivi non si risolve con il solo ricorso

alla banca dati perché, oltre alla difficoltà informativa, esiste l’ostacolo della

intermediazione distributiva internazionale. In mercati relativamente vicini come

quelli europei, la distribuzione si effettua sia direttamente che indirettamente, ma nel

caso di una penetrazione cospicua in un paese lontano si presenta il problema di

un’organizzazione fissa in loco. La maggior parte delle imprese brentane hanno

dimensioni troppo esigue per potersi avvalere di filiali o di succursali in mercati

lontani, per cui l’Acrib ha studiato e realizzato una soluzione alternativa. Il problema

alla base era la presenza delle calzature distrettuali nel mercato nordamericano; di

fronte a relativamente alti volumi di vendita (relativamente perché per le produzioni

di calzature di elevata qualità non si può parlare di cifre ingenti in termini di numeri

di paia) la distribuzione indiretta non era più sufficiente. L’idea é stata quella di dare

un supporto materiale a un nucleo di imprese del distretto interessate a tale sbocco

senza costringerle a forti immobilizzazioni finanziarie. Il risultato é stato lo show

room (“Venetian Fashion Group”) aperto nel 1998 a New York.

Il progetto riveste un’importanza specifica perché ha coinvolto l’attore

collettivo (l’Acrib), le singole imprese, l’amministrazione pubblica e l’Istituto

nazionale per il commercio estero. Lo show room é stato realizzato come progetto

all’interno degli accordi di programma del 1997 fra Regione Veneto e Ministero per il

8 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).

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Commercio Estero e ne detiene la titolarità l’ufficio Ice di New York. Fino a questo

momento la Regione si era limitata a interventi contributivi mirati a singole iniziative

promozionali, ma con questo progetto si é aperta la strada di una collaborazione più

sostanziosa con il distretto. Lo show room consente a 13 imprese brentane di

usufruire di un punto d’appoggio per la penetrazione del mercato americano. E’ una

struttura di servizio e non di vendita e in esso operano individualmente i

rappresentanti delle imprese. A coordinare il tutto c’é un capo progetto che lavora

all’interno dell’Italian Trade Comission (ICE) nella sezione calzature, pelle e

componenti. I costi d’esercizio del centro sono ripartiti fra l’impresa (50%), il

Ministero per il Commercio Estero (25%) e la Regione Veneto (25%) cosicché la

prima non deve sobbarcarsi ingenti uscite. La struttura ha lo scopo di facilitare i

rapporti con il mercato americano e non ha scopo di lucro per cui i servizi offerti

sono pagati dalle imprese al prezzo di costo.

Una tale struttura di presenza nel mercato é un’innovazione tale che, in caso

di successo, potrebbe rappresentare il primo di numerosi moduli identici da

implementare in paesi differenti. E’ in effetti allo studio un progetto di tale tipo anche

per la Cina Popolare, nella fattispecie a Shangai, che permetta una più agevole

attività ai calzaturifici brentani nel promettente mercato del sud-est asiatico.

L’azione intrapresa porterà i suoi benefici in termini di efficienza distributiva

ma anche dal punto di vista promozionale. E’ infatti su questo versante che il

distretto nel suo insieme dovrebbe investire per migliorare la sua visibilità nei

confronti del più ampio spettro di operatori economici e di consumatori.

5.3

La promozione delle specificità distrettuali

La Riviera del Brenta rappresenta uno dei maggiori distretti italiani per la

produzione di calzature in pelle e cuoio di alta qualità e contiene al suo interno una

competenza nel settore accumulata nel corso di un secolo di attività. Tali

caratteristiche sono il motivo del grande successo esportativo dei calzaturifici del

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Brenta ma possono anche essere considerate il punto di partenza per l’evoluzione

del distretto. Il suo inserimento nel comparto moda si adatta perfettamente con le

caratteristiche produttive dell’area. Come già detto, le dimensioni limitate delle

imprese e l’alta flessibilità produttiva consentono la fabbricazione di piccole serie

estremamente variate. Ciò si adatta perfettamente alle necessità delle grandi griffe

della moda, che richiedono qualità del prodotto e varietà tipologica in piccoli numeri

di paia. Il distretto quindi si é notevolmente specializzato in un prodotto di fascia alta

e si é definitivamente inserito nell’Italian fashion style. Questa qualificazione

produttiva é il presupposto essenziale per un proficuo collocamento all’interno

dell’economia globale. Effettivamente, i concorrenti sono sempre più numerosi, ma

la Riviera del Brenta si distingue fra tutti. L’omogeneità e la qualità della produzione

locale rappresentano per i clienti storici una garanzia nell’acquisto, e li fidelizza in

un rapporto duraturo9.

Fra gli elementi del marketing mix, il più importante per il target di vendita dei

calzaturifici del Brenta é senza dubbio la qualità. Non si riscontra la necessità di un

controllo consorziale stringente su tale aspetto perché il singolo produttore avverte

che l’unico modo per rimanere sul mercato é quello di puntare sulla qualità del

prodotto. La logica qualitativa é perseguita con estrema tenacia dai singoli

imprenditori e permea le abilità professionali degli operai specializzati. La qualità

della calzatura rappresenta il segnale delle capacità lavorative dell’imprenditore e

dei suoi dipendenti. Il “saper fare il proprio mestiere” all’interno del distretto significa

il riconoscimento sociale della comunità, vale a dire la condizione per una vita

gratificante. E’ indubbiamente un fattore extra-economico, ma strutturale per capire

le logiche di funzionamento di un distretto industriale. Gli operatori economici che

danno vita a un’attività sono inseriti in una specifica etica del lavoro e quindi sanno

quali sono le conseguenze sociali di comportamenti che si distaccano

negativamente dalla media. Ciò non comporta un’inibizione nell’introduzione delle

innovazioni purché queste ultime non contrastino con i principi produttivi locali.

9 Idem.

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Questa puntualizzazione sulla qualità come fattore implicito nella produzione

é funzionale alla spiegazione delle potenzialità di un marchio collettivo, che

promuova l’intero distretto. Per un calzaturificio che produce scarpe di tipo medio-

fine in pelle e cuoio é un fattore di vantaggio poter dimostrare la costanza nella

ricerca della qualità, e questo é normalmente impossibile se l’attività é stata

intrapresa da breve tempo. La clientela del settore é così concorrenziale ed esigente

da pretendere delle garanzie e delle dimostrazioni anche storiche della qualità

produttiva dell’imprenditore. Un produttore agente all’interno di un distretto

consolidato può avvalersi a tal fine dell’immagine collettiva. Per questa ragione gli

operatori economici della Riviera del Brenta possono usufruire dell’immagine del

distretto come garanzia di qualità.

A tal proposito nel 1976, con la creazione dei Maestri Calzaturieri del Brenta,

si é ideato un marchio collettivo che identificasse il consorzio. Il marchio

effettivamente esisteva già ed era quello della Confraternita dei Calegheri veneziani

del 1868. Il trasferimento di tale sigillo storico sulla terraferma é avvenuto in modo

naturale e non conflittuale. Oramai l’attività calzaturiera di Venezia era estinta , al

contrario di quella brentana che era nata e cresciuta nel corso del novecento. Così il

marchio é passato di titolarità al consorzio, che lo ha depositato presso il tribunale e

ha iniziato a farne uso. Si tratta di un sigillo storico senza funzioni commerciali ma

solo promozionali e informativi. Esso é impiegato dal consorzio come simbolo

distintivo della sua attività e di quella delle imprese del distretto, ma non ha mai

interessato strategie che vadano oltre l’informazione.

Il collegamento ai calzolai veneziani non é improprio e per di più rievoca

nell’immaginario collettivo il passato artistico fiorente della Serenissima. Ed é il

legame con Venezia che é stato al centro di un importante iniziativa culturale,

promossa dai Maestri Calzaturieri del Brenta, che ha prodotto nel 1988 l’allestimento

di un’esposizione sulle arti e i mestieri nella città lagunare (“I mestieri della moda a

Venezia”). La cura della mostra ha richiesto cinque anni di ricerca e di studio in

archivi e musei e ha portato alla costituzione di una società a responsabilità limitata

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per l’amministrazione dell’evento10. E’ stata portata a Berlino, New York e Londra

ottenendo un grande successo di pubblico11. Tutto ciò sembra esulare il contesto

economico-produttivo del distretto, invece rappresenta un’interessante azione

promozionale per rendere visibili i calzaturieri del Brenta anche al grande pubblico.

E’ proprio la scarsa conoscenza del distretto da parte dei consumatori un

handicap per la diffusione del prodotto. Infatti solo i punti vendita conoscono la

provenienza delle calzature e identificano la Riviera del Brenta come zona tipica di

produzione. A questo punto risulta necessario presentare ai consumatori-target la

specificità delle calzature provenienti dal distretto veneto. Per fare ciò bisogna

proseguire l’attività di promozione collettiva, portando avanti un’immagine unitaria

della qualità della produzione brentana e il marchio dei Calegheri potrebbe

assolvere a tale scopo. Per il momento l’uso del sigillo é consentito, oltre che al

consorzio promotore, a tutte le imprese consorziate. Il limite ufficiale é quindi solo

l’appartenenza all’area geografica della Riviera, condizione per poter aderire al

consorzio, senza controlli specifici sulla qualità delle calzature. Il consorzio si riserva

il diritto di possibili diffide nel caso in cui un’impresa consorziata utilizzi il marchio

per produzioni di visibile qualità inferiore (fatto mai accaduto, a ulteriore prova della

professionalità degli imprenditori locali). Tuttavia la mancanza di un controllo

ufficiale e stringente sulla qualità del prodotto non permette di considerare il sigillo

come un indiscutibile marchio di qualità.

I traguardi di un’evoluzione del marchio collettivo riguardano due aspetti: da

un lato l’attestazione attraverso un controllo della qualità effettiva della calzatura,

dall’altro l’utilizzo più esteso possibile del sigillo soprattutto dalle imprese che

godono già di un certo successo individuale presso i consumatori. Riguardo al primo

punto, e ricollegandomi al concetto di qualità produttiva come manifestazione della

cultura distrettuale, é facile capire come e perché non siano stati sviluppati da parte

degli attori collettivi dei controlli ufficiali sulla qualità. Tuttavia all’acquirente serve

una garanzia tecnica della testata qualità perché sarebbe meno immediato nonché

10 Al termini dell’esposizione la società é stata sciolta e le quote sono passate al consorzio del Maestri Calzaturieri. 11 Solo a New York, in due mesi di permanenza della mostra, sono stati registrati 22.000 visitatori.

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di difficile comprensione un discorso articolato sulle dinamiche distrettuali. Le

attestazioni rappresenterebbero così dei metodi veloci di rappresentazione di qualità

effettiva.

Un esempio analogo si é verificato nel dstretto del tessile-abbigliamento di

Carpi nel 1985, quando é stato costituito il consorzio misto privato-associativo-

pubblico “Carpi Qualità”12. Compito del consorzio era l’assegnazione del marchio di

qualità ai prodotti che avessero superato cinque tipi di controlli (solidità colori,

durata, stabilità dimensionale, regolarità taglie e misure, regolarità visibile di

esecuzione). Il progetto ha avuto una vita breve a causa di leggerezze gestionali del

consorzio, scarsità di risorse finanziarie e controlli troppo omogeneizzanti per un

distretto con produzioni di qualità molto varia. Infatti l’errore é stato strategico

perché il marchio é stato assegnato a imprese troppo distanti per fascia di prezzo,

tipo di prodotto e canale di vendita. Ovviamente le imprese più “in alto” non

marchiavano per non confondersi con quelle più “in basso” e perdere così immagine.

La fonte di insuccesso di “Carpi Qualità” non riguarda il distretto della Riviera

del Brenta in quanto il tipo, la qualità e il posizionamento del prodotto sono

omogenei. Resta da superare la percezione dell’imprenditore della superiorità delle

proprie creazioni rispetto a quelle degli altri. Ma anche i più restii si

convincerebbero di fronte al successo dell’iniziativa, in termini di partecipazione e di

risultati economici.

Un altro passo delicato da affrontare con estrema competenza consiste nella

scelta dei criteri per testare la qualità di una calzatura in pelle e cuoio13. La

decisione dei tipi di controllo dovrebbe essere presa a maggioranza dal personale

tecnico specializzato delle imprese consorziate, perché il marchio rimane comunque

patrimonio dell’intero distretto e non solo delle imprese leader. In questa fase, i

responsabili del progetto devono considerare l’utilità di predisporre dei controlli non

12 L.Parri (1993). 13 Le fasi del ciclo produttivo della calzatura in pelle si possono suddividere in: 1) taglio del pellame (a trancia o manualmente) sulla base dei disegni del modellista; 2) lavorazione delle differenti parti della tomaia, incollatura e cucitura; 3) preparazione del fondo (suola, soletta, guardolo e tacco), che viene normalmente affidata ai suolifici; 4) montaggio della tomaia sulla suola; 5) finissaggio (stiratura, tintura dei tacchi, lucidatura, correzione difetti, messa in scatola) lungo la manovia.

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troppo leggeri in modo da certificare una reale qualità superiore e stimolare le

imprese a raggiungere il livello richiesto. Un marchio qualità infatti non esaurisce la

sua validità solo dal lato dell’offerta e quindi della commercializzazione ma

contribuisce, se ben impostato, a innalzare il livello medio qualitativo. Nel caso della

Riviera del Brenta, i margini di livellamento verso l’alto della qualità sono

estremamente limitati per cui il marchio avrebbe una funzione più propriamente

promozionale.

Il marchio collettivo assolverebbe al compito di certificare la qualità del

prodotto finito e allo stesso tempo di identificarne la provenienza. Esso rappresenta

una politica di qualificazione e di promozione della produzione locale. Cosicché

l’acquirente, dettagliante o consumatore che sia, racchiude in un unico binomio la

qualità di una calzatura alto di gamma e la sua origine produttiva, il tutto in un

marchio impresso nel prodotto stesso. Il sigillo della confraternita dei calegheri

rappresenta già per gli operatori un identificativo della qualità brentana, seppur non

su basi tecniche, perciò il suo uso nelle modalità descritte sarebbe una naturale

evoluzione.

La seconda condizione per l’attuazione di una innovativa politica di marketing

territoriale é che il marchio in questione sia riconosciuto e usato dal maggior numero

di calzaturifici del distretto. Normalmente ogni imprenditore considera il proprio

prodotto superiore ai concorrenti e riconosce solo le proprie competenze aziendali

come fonte del successo ottenuto. Anche nella Riviera del Brenta esiste questo

atteggiamento ma allo stesso tempo prevale la consapevolezza che le competenze

distintive sviluppate all’interno dell’area siano fonte di vantaggio comparato e che

leghino i diversi produttori a un comune destino. Ciò induce a pensare, e il tutto é

stato confermato da alcune interviste agli imprenditori locali, che l’azione prospettata

di promozione collettiva sarebbe considerata con interesse.

L’adesione delle imprese più conosciute a livello commerciale rappresenta la

chiave per il successo del marchio. Ovviamente non essendo un marchio

commerciale non interferisce con quello individuale dell’impresa bensì lo arricchisce.

Normalmente il sigillo dei calegheri viene impresso sulla suola e integrato con il

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simbolo della vera pelle, per cui non compromette la visibilità del marchio aziendale.

La neutralità per il design della calzatura e, al contrario, il guadagno in termini di

immagine provocati dal marchio collettivo possono essere spiegati attraverso un

paragone proprio con il simbolo della vera pelle. L’apposizione di quest’ultimo in un

prodotto di pelle ne accresce il valore perché certifica la natura del materiale e

garantisce l’acquirente da possibili contraffazioni. Identico risultato lo si otterrebbe

con il marchio di qualità e di origine per le calzature della Riviera.

L’utilità dell’uso del marchio collettivo sussiste anche per le imprese che

fabbricano calzature su concessione o su disegno di grandi firme della moda

internazionale. Le case di moda concordano le caratteristiche della produzione

locale e pretendono una qualità all’altezza della loro immagine. Un’ulteriore

attestazione della qualità che specifichi la provenienza della calzatura (la Riviera del

Brenta é già riconosciuta dagli operatori del settore) non può compromettere

l’immagine di marca ma rinforzarne la garanzia sull’accuratezza costruttiva

dell’oggetto. Se le scarpe firmate, che hanno un forte impatto comunicativo e un alto

valore aggiunto, utilizzassero il marchio i benefici si ripercuoterebbero sull’intera

produzione distrettuale.

Un tentativo analogo di rafforzamento dell’immagine distrettuale grazie alle

imprese più conosciute lo sta intraprendendo la società consortile “Promozione e

Sviluppo dei Distretti del Ticino” in provincia di Novara. E’ un consorzio misto di

recente creazione, finanziato da fondi pubblici (Legge Regionale 24/1997) e privati.

La società consortile opera all’interno dei territori di Oleggio e Varallo Pombia, zone

produttive specializzate nel settore tessile (in particolare sul costume da bagno) e

riconosciute come distretti ufficiali dalla Regione. Il tessuto sociale e produttivo é

differente da quello descritto della Riviera del Brenta per una serie di caratteristiche.

Prima fra tutte la scarsa cooperazione fra i produttori locali che non ha mai condotto

alla progettazione di azioni collettive per lo sviluppo complessivo dell’area.

Senza addentrarsi troppo in una realtà complessa, meritevole di spiegazioni

accurate, é interessante il programma di lavoro del neo-costituito consorzio. Per il

momento le adesioni delle imprese distrettuali sono in numero ridottissimo, anche

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perché non sono ancora state realizzate attività promozionali concrete che

dimostrino l’efficacia dell’organizzazione collettiva. Il programma consortile prevede,

oltre alla creazione di una banca dati distrettuale e di una pagina web su internet,

valide attività di promozione in termini di marketing territoriale. Una brochure

descrivente il distretto e le imprese sarà recapitata ai potenziali clienti e si

attueranno manovre promozionali specifiche in base ai risultati dei preliminari studi

di mercato e di posizionamento della produzione locale. Fra le diverse iniziative

anche quella, ricollegandomi così con il progetto di promozione collettiva del Brenta,

di proporre agli acquirenti un’immagine forte del distretto potendo vantare grandi

nomi dello stilismo italiano.

La presenza in loco di attività produttive di alta qualità di case di moda

affermate é un’implicita promozione dell’intero distretto, se, e solo se, tali produzioni

vengano riconosciute dagli acquirenti e dai distributori come originarie di Oleggio e

Varallo Pombia. Il distretto cioé deve puntare su un aumento della visibilità

internazionale e su una qualificazione generale delle imprese grazie all’avvio di un

nuovo centro servizi specializzato e alla sensibilizzazione degli imprenditori in

termini di Total Quality Management.

Dal breve confronto con l’esperienza piemontese, emergono i traguardi già

raggiunti e le potenzialità per lo sviluppo futuro nella Riviera del Brenta, che si può

senz’altro definire come un distretto evoluto. Il marchio collettivo dei Calegheri

rappresenterebbe l’esempio pratico della maturità del distretto e gli consentirebbe di

affrontare il mercato globale. La specificità del distretto sarebbe individuata e

distinta agevolmente dagli operatori e dai consumatori internazionali, qualificando

l’area locale con un’esclusività mondiale. Infatti il percorso di internazionalizzazione

consente la sopravvivenza delle forme produttive locali, tra cui il distretto industriale,

solo se queste si presentano alla competizione globale in modo coeso, sostenendo

e dimostrando la superiorità e la convenienza delle proprie produzioni.

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CONCLUSIONI

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6. Un possibile sviluppo dei distretti industriali veneti per il

terzo millennio

L’analisi fin qui proposta ha evidenziato i tratti salienti del passato e del

presente dei distretti industriali veneti consentendo a questo punto di abbozzare

alcune linee di sviluppo futuro. Premettendo che l’esercizio del vaticinio non rientra

fra le prerogative di un’analisi economica, si possono solo delineare delle possibili

tendenze, delle direzioni probabili che lo sviluppo distrettuale potrebbe seguire.

Non si può perciò affermare con assoluta certezza che aspetto avrà il futuro,

dato che l’economia veneta non sarà una semplice conseguenza dello statu quo

perché alcuni fra i principali fattori che ne hanno permesso lo sviluppo stanno

irrimediabilmente subendo processi di forte erosione e sono coinvolti in dinamiche

ad elevata discontinuità.

Nel mercato del lavoro, il raggiungimento di condizioni di quasi piena

occupazione, il miglioramento delle qualità dell’offerta, il benessere diffuso delle

famiglie, la nuova situazione demografica con conseguente attrazione di flussi di

manodopera straniera invertono le condizioni originarie esaurendo la risorsa lavoro

come fattore a basso costo.

La formula imprenditoriale alla base del successo delle piccole e medie

imprese venete sta mutando con l’avvento della seconda generazione ai vertici della

struttura organizzativa. Il passaggio generazionale inserisce a capo delle imprese

nuovi operatori economici, ispirati da una diversa etica del lavoro, i quali si trovano

ad affrontare problemi legati alla complessità del presente. La piccola impresa

veneta é portatrice di un modello individualistico di azione imprenditoriale che si é

retto su di un forte impulso all’autosufficienza e sul sapere pratico, informale,

posseduto per lo più dall’imprenditore stesso. Ora questo punto di partenza deve

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essere integrato con l’accesso alle reti globali, sviluppando nuovi saperi che

potenzino le capacità intellettuali e comunicative delle imprese.

Le trasformazioni dell’economia internazionale richiedono nuovi strumenti di

problem solving strettamente correlati ai progressi dell’information technology e che

sappiano gestire gradi elevati di conoscenza. Quindi l’ambiente locale non fornisce

più tutte le risorse necessarie all’attività economica: anche le piccole imprese

distrettuali devono aprirsi ed entrare in simbiosi con il sistema globale. Lo stesso

ambiente esterno all’impresa é mutato nel senso di un cambiamento delle condizioni

d’uso del territorio, delle infrastrutture logistiche e di quelle sociali mettendo in

evidenza sempre più preoccupanti problemi di congestione. La produzione attuale

nei distretti si sta riqualificando verso un sempre maggiore livello di qualità; la logica

quantitativa non é più la predominante e, di conseguenza, anche l’ambiente di

riferimento deve orientarsi nella nuova direzione offrendo risorse specifiche.

I distretti industriali si trovano a fronteggiare un salto evolutivo epocale che

condiziona e determina il loro futuro. La capacità di ogni singolo distretto di auto-

organizzarsi in base alle necessità prodotte dalla competizione globale nell’era

dell’economia della conoscenza influenzerà l’intero panorama produttivo veneto.

Bruno Anastasia, in un articolo dal titolo Il Veneto alla fine del XX secolo:

esercizi divinatori di scenari possibili 1, ipotizza quattro linee evolutive della regione.

Un primo scenario vede un Veneto “dualista” o “americano” dove le imprese migliori

riescono ad agganciarsi all’internazionalizzazione, vengono premiate dallo stato e

auto-organizzano dei servizi privati concorrenti a quelli pubblici poco efficienti. In

questa prospettiva i distretti rischiano di scomparire perché l’individualismo egoistico

delle imprese leader prevale sulle tradizionali forme aggregative determinando un

netto dualismo sociale.

Un secondo scenario descrive una situazione ancora più negativa, dove

l’economia veneta prende le caratteristiche di quella inglese in declino. La posizione

strategica marginale dell’Italia, il suo scarso virtuosismo economico, l’inefficienza

allocativa pubblica, la frammentazione politica si rifletterebbero inesorabilmente

1 B. Anastasia (1993).

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sulle virtù regionali scoraggiando gli slanci imprenditoriali locali. Le difficoltà

politiche si sommerebbero a quelle economiche generando un clima di sfiducia

inadatto anche a mantenere l’interesse dei capitali esteri verso il nostro paese. I

distretti subirebbero il trend negativo nazionale e soffrirebbero della scarsa

competitività internazionale perché non supportati da un forte sistema-paese.

Il Veneto potrebbe anche “nipponizzarsi”, nel senso di un’accentuazione della

neo-integrazione sociale. L’ideologia del lavoro, la subordinazione alle ragioni

dell’azienda, il valore del risparmio e la coesione socio-politica di stampo regionale

distanzierebbero sempre più il Veneto e le altre regioni virtuose dal resto d’Italia

attribuendo all’impresa un ruolo di integratore socio-economico. La classe politica

sarebbe delegittimata dalle sue funzioni di regolazione pubblica e si rimetterebbe

alle forze economiche. L’orgoglio regionale, non più l’amor patrio, e la percezione

del grado di benessere raggiunto spingerebbero verso una chiusura difensiva nei

confronti degli elementi destabilizzanti provenienti dall’esterno della regione. Lo

stato nazionale diverrebbe secondario e si prenderebbe come contesto di

riferimento l’Unione Europea. I sistemi produttivi locali sarebbero protagonisti di

questa evoluzione e aumenterebbero di numero e di forza configurando l’intera

regione come un unico distretto plurisettoriale.

Infine, il quarto scenario ipotizzato da Anastasia prefigura un Veneto virtuoso,

calato in una situazione nazionale promettente e integrata. I dati congiunturali

positivi permetterebbero di affrontare i problemi socio-economici con meno

allarmismo e preoccupazione, trovando la soluzione per l’integrazione degli

immigrati extra-europei, per le delocalizzazioni produttive in paesi a basso costo del

lavoro e per la riqualificazione dell’offerta pubblica e privata di servizi. Un sistema di

welfare smorzerebbe le situazioni sociali problematiche e i soggetti economici,

privati e pubblici, investirebbero in risorse umane internalizzando innovazioni e

nuove tecnologie.

Quest’ultima soluzione appare eccessivamente ottimistica e quindi

irrealizzabile, per quanto debba essere interpretata col significato che le é stato

attribuito dal suo autore: un mero esercizio divinatorio. Sulla base dell’obiettivo che

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mi sono prefisso, ritengo che lo scenario probabile sia il risultato della combinazione

di elementi di ciascuno dei quattro prospetti con l’aggiunta di ulteriori osservazioni

(derivanti anche dai nuovi sviluppi occorsi dopo il 1993, anno di pubblicazione

dell’articolo di Anastasia).

Il distretto industriale va prima di tutto confrontato con la globalizzazione

dell’economia mondiale per capire quale sarà il suo ruolo e la sua forma di

interazione con l’esterno. Esso non potrà sopravvivere se si chiuderà all’interno dei

propri limitati confini con scopi difensivi perché non beneficerebbe dell’allocazione

internazionale delle risorse. Infatti alcuni distretti veneti stanno aprendo la propria

struttura a monte e nelle fasi intermedie del ciclo produttivo entrando così a far parte

della catena internazionale del valore. A seguito di questo passaggio, l’impresa si

focalizza maggiormente sulla fase del ciclo produttivo in cui gode di un vantaggio

comparato ed esternalizza le altre, ricorrendo poi all’out-sourcing.

L’internazionalizzazione non fa solo riferimento all’esportazione ma a tutte le

attività all’estero che non siano di natura occasionale, dalla delocalizzazione

produttiva agli accordi di distribuzione. I vari distretti hanno attuato percorsi di

internazionalizzazione differenti, più o meno spinti, anche a seconda della

specializzazione produttiva tipica. Nei distretti tessili, ad esempio, la produzione

labour-intensive non richiede specifiche abilità professionali per cui si presta alla

delocalizzazione in paesi con un costo del lavoro inferiore all’Italia. Un esempio

opposto é rappresentato dal distretto calzaturiero della Riviera del Brenta, dove le

calzature prodotte richiedono un forte sapere contestuale per raggiungere l’alto

livello di qualità che le contraddistingue, per cui risulta più conveniente mantenerne

la produzione in loco.

Nonostante i distretti si differenzino in termini di scelte strategiche, tutti sono

portati a internazionalizzarsi dal punto di vista della gestione della conoscenza. Nel

probabile successo dell’organizzazione internazionale, i nodi locali, quali potrebbero

essere i distretti, devono mantenere i rapporti fra di loro e con il centro attraverso

l’uso di sostanziali tecnologie di comunicazione. Paradossalmente, nello sviluppato

Veneto, dal lato dell’offerta di sistemi tecnologici di comunicazione c’è una carenza

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di soluzioni specifiche per le realtà distrettuali, e dal lato della domanda é ancora

forte la diffidenza degli imprenditori nei confronti della dimensione virtuale del

lavoro. Nei servizi non-standard mirati all’internazionalizzazione deve esserci una

co-evoluzione di domanda e offerta e ciò complica il processo di creazione degli

stessi.

I servizi complessi non possono essere sviluppati e mantenuti all’interno di

una piccola impresa, per cui l’attore collettivo, pubblico o privato, deve garantirne

l’erogazione. Da qui l’importanza dell’autoregolazione distrettuale in termini di

associazioni, consorzi e alleanze fra imprese. L’attore collettivo distrettuale possiede

la massa critica per affrontare livelli superiori di complessità e di distribuirne i

risultati fra le imprese locali. Le logiche cooperative, strutturali per un distretto

industriale, hanno fatto registrare a tal proposito importanti successi che gettano le

basi per l’evoluzione futura. Nel caso specifico della Riviera del Brenta,

l’associazione locale (ACRiB) e i consorzi ad essa collegati rappresentano il

successo dell’azione collaborativa fra gli imprenditori locali. I servizi offerti si sono

evoluti con il cambiamento dei bisogni delle imprese e attualmente hanno raggiunto

una gamma diversificata che va dall’assistenza tributaria a quella commerciale.

Ciò costituisce la tendenza di sviluppo più chiara e diffusa all’interno dei

distretti veneti. Ovviamente, creare un organismo collettivo non significa dotare il

sistema locale di una testa pensante, ma di implementare nel territorio l’offerta di un

sapere codificato specifico. Le associazioni o i consorzi distrettuali costituiranno

anche i soggetti intermediari fra la realtà produttiva locale e quella regolativa

pubblica. Spetterà a tali organizzazioni colmare la carenza attuale di servizi specifici

per la specializzazione produttiva del distretto. Infatti, dalle interviste ad alcuni

imprenditori della Riviera del Brenta, è emerso sia l’interesse per le potenzialità

della funzione di marketing (internazionale, in questo caso, visto l’alto tasso di

esportazione) sia la consapevolezza che le proprie ridotte dimensioni non ne

consentono uno sviluppo interno all’impresa. La soluzione appare quindi la

cooperazione fra le imprese per dotare gli organismi collettivi di sempre maggiori

competenze nel marketing internazionale. A ciò occorre aggiungere un altro compito

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specifico, la promozione collettiva dell’intero distretto, che dovrebbe rendere visibili

e riconoscibili le realtà locali in quanto zone tipiche per una determinata produzione,

dotate di risorse specifiche e di competenze professionali e tecnologiche mirate.

In questa prospettiva si inserisce il progetto di un uso sistematico del marchio

collettivo, non commerciale, e che permetta di identificare il distretto. Nella Riviera

del Brenta esiste un margine di sviluppo nel senso di un utilizzo del sigillo storico

della Confraternita dei Calegheri come marchio che certifichi la qualità (testata) e

l’origine delle calzature. Il marchio apposto sul prodotto certificato rappresenterebbe

così un mezzo comunicativo rapido che codifica il risultato finale del dispiegamento

dei saperi contestuali e ne consente un’agevole circolazione nel mercato mondiale.

I distretti così qualificati possono entrare come attori economici autonomi

nella competizione globale, ma devono essere sostenuti da un ambiente locale in

continua evoluzione, che fornisce sempre più intensi fattori di vantaggio2. Le

imprese non scelgono più la loro localizzazione in base ai vantaggi della sola

contiguità spaziale all’interno di un distretto, ma valutano la scelta del territorio che

più si confà al complesso delle loro esigenze economiche.

In conclusione, il territorio veneto è stato oggetto in passato di una

industrializzazione “dolce” che ha permesso l’imprenditorializzazione dell’ambiente

e la creazione di nuclei produttivi locali, evolutisi in moderni distretti industriali. Oggi,

perché le imprese venete, nel processo di internazionalizzazione, mantengano la

loro sede all’interno dei distretti originari, il territorio deve essere competitivo rispetto

agli altri contesti localizativi offrendo alle aziende le risorse necessarie alla

riproduzione del successo ottenuto. Siamo agli inizi di un processo di

terziarizzazione dell’economia veneta, che, se procede senza fratture, consentirà ai

distretti industriali di sviluppare al loro interno, tramite gli attori collettivi, le tecniche

e le forme per un’efficiente gestione della conoscenza. Se il globale mira a una

divisione più ampia possibile della conoscenza, al locale spetta sviluppare quella

contestuale. Questa complementarietà di forme della conoscenza è il motivo che

2 M.Porter (1990).

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può rendere i distretti industriali nodi di una rete che trova nei diversi ambienti

un’indispensabile fonte di originalità e di innovazione.

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