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Un Mare di Storie Progetto Territoriale di Raccolta Testimonianze Dell’Associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando” Narrazioni, Emozioni e Ricordi Legati al Territorio di Ladispoli (Torre Flavia - foto di Alberto D’Antoni)

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“Un Mare di Storie”

Progetto Territoriale di Raccolta Testimonianze

Dell’Associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando”

Narrazioni, Emozioni e Ricordi Legati al Territorio di Ladispoli

(Torre Flavia - foto di Alberto D’Antoni)

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Chi siamo e come lavoriamo

Aver aderito all’Associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando” significa innanzitutto, per me presidente e per noi soci, aver aderito ai principi della“Carta dei Valori del Volontariato” che è possibile visionare nel nostro sito www.raccontarsiraccontando.it nella sezione documenti.

Le attività della nostra Associazione vengono portate avanti con il lavoro volontario dei soci tutti ed il contributo, sempre volontario, sia dei nostri collaboratori professionali che dei nostri simpatizzanti. RaccontarsiRaccontando può contare, quale finanziamento delle proprie attività, esclusivamente sulle quote sociali degli iscritti e, in quanto associazione di volontariato accreditata alla Regione Lazio (codice fiscale 97800150589), è riconosciuta come possibile destinataria del 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef). L’Associazione, iscritta all’Albo delle Associazioni Culturali del Comune di Roma è accreditata presso la Regione Lazio, è apartitica e le nostre iniziative non hanno alcun fine di lucro, neppure indiretto. Hanno per scopo l’elaborazione, la promozione e la realizzazione di progetti di solidarietà sociale centrati sul rispetto della dignità e dell’unicità di ogni “la persona” e della sua storia, nonchè della memoria collettiva.

L’Associazione in particolare si prefigge le seguenti finalità:

• Raccogliere, a titolo volontario, testimonianze personali e sociali legate al vissuto di singole persone o gruppi sociali • Tutelare la memoria collettiva territoriale quale riferimento per le giovani generazioni • Diffondere la pratica di “raccoglitori volontari di testimonianze e narrazioni”.

Le finalità di cui sopra, vengono perseguite attraverso le attività di seguito elencate:

• Percorsi formativi gratuiti, per coloro che intendono divenire “raccoglitori volontari di testimonianze e narrazioni” per una cultura di rispetto e tutela della “memoria individuale collettiva” • Raccolta, a titolo volontario, di testimonianze e narrazioni di persone anziane, cittadini in stato di fragilità sociale o in condizione di non poter scrivere la propria testimonianza • Interventi presso le scuole di ogni ordine e grado, con il fine di implementare lo scambio intergenerazionale attraverso “il racconto” di eventi, situazioni ed accadimenti di interesse storico e sociale sia locale che generale, legati a testimonianze dove solidarietà, “speranzosità”, pace, rispetto delle diverse culture e religioni, tolleranza e senso civico siano i valori portanti.

AnnaMaria Calore (Presidente)

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Presentazione del progetto

“Bambina che scrive” di Telemaco Signorini (1835-1901)

“La vita non è quella che abbiamo vissuto, ma quella che ricordiamo per poterla raccontare”

Gabriel García Márques, scrittore (1927-2014) I luoghi hanno un’anima, sono evocativi e l’autobiografia, come pure la scrittura di sé, ritrovano l’anima di quei luoghi. Quando raccontiamo di noi, i nostri ricordi premono per diventare uno scritto, perché lo scrivere è un modo per lasciare un segno della nostra storia, ma anche per imparare a conoscere dei lati della nostra vicenda umana.

Scrivendo, ci accorgiamo che siamo ancora vivi e che possiamo costruire nuovi ricordi da conservare. Per questo la scrittura ha anche una destinazione sociale: lo scopo è quello di far sapere, far conoscere e noi, rispetto alla storia raccontata, ci accorgiamo che ha sempre qualcosa di unico.

Lasciare una traccia dei propri ricordi attraverso il raccontare ad altri ed attraverso la scrittura di sé, ci aiuta a superare momenti di disagio e ci spinge anche a confrontarci con le storie altrui. Racconti, parte delle narrazioni ed aneddoti di vita sono una medicina narrativa: noi viviamo di narrazioni personali ed altrui, perché siamo importanti, come tutti.

Il “Camminare” è tra le prime esperienze autobiografiche. Camminando a ritroso è come se dipanassimo il gomitolo della nostra vita, rincontrando persone e ambienti che abbiamo già

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conosciuto; raccontarsi somiglia al camminare, in una riscoperta di un’attitudine riflessiva. Le parole, così, diventano una forma di cura e l’autobiografia un’espressione di scrittura che si costruisce all’insegna del bisogno di innovazione e di creatività. L’auto scrittura e l’autobiografia, un tempo considerate un genere letterario tra gli altri, oggi sono maturate nel bisogno umano di raccontare di sé, condividere le esperienze e costruirne una memoria collettiva.

Con il progetto “Un Mare di Storie”, abbiamo recuperato i ricordi di persone che hanno vissuto a Ladispoli o che ad essa sono in qualche modo legati, ricordi personali che si sono intrecciati con quelli delle famiglie storiche di Ladispoli, delle quali si è molto scritto.

Ogni storia di vita recuperata, affianca quella della cittadina e la sua evoluzione, dai territori assegnati dall’Ente Maremma, alla prima ferrovia, dall’attesa dello sbarco degli americani, allo sfollamento nel circondario in prossimità della via Aurelia. Ogni storia, tra l’altro, s’intreccia con le storie di altri, creando punti di vista comuni anche se con prospettive diverse.

In questo contesto le narrazioni raccolte, diventano un documento a disposizione della collettività, da depositare presso la Biblioteca di Ladispoli “Peppino Impastato” e di tutte le istituzioni che lo richiederanno; inoltre il documento sarà proposto alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (www.lua.it) per essere eventualmente postato tra le buone pratiche territoriali della narrazione del sé e verrà postato sul sito dell’Associazione RaccontarsiRaccontando (www.raccontarsiraccontando.it), quale buona pratica di volontariato sociale a tutela della memoria individuale e collettiva.

Non si ha sempre voglia di sfogliare le pagine della propria vita, spesso dolorose come per tutti, ma il risultato finale di questo progetto è stato una sorpresa, perché ci si è accorti di ricominciare una nuova avventura di vita. Anche i medici invitano a scrivere, perché stimola una sorta di autoguarigione. In questa terapia di sé, vivere il piacere e la necessità di raccontarsi è un modo per amarsi di più e per non dimenticarsi di esistere.

Loredana Simonetti

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Paesi e città dei partecipanti

al Progetto “Un Mare di Storie”

Licia Mampieri, nata a Introdacqua (L’Aquila), villeggiante a Ladispoli

Gastone Bolaffi, nato a Roma, villeggiante a Ladispoli

Iole La Grotteria, nata a Palo Laziale (Roma), vive a Ladispoli

Filippo Conte, nato a Minturno (Latina), vive a Ladispoli

Luigi Chiappa, nato ad Arcevia (Ancona), vive a Ladispoli

Paolo Lombardi, nato a Roma, vive a Ladispoli; la famiglia d’origine è di Polverigi (Ancona)

Rosetta Ammirato, nasce e vive a Ladispoli; la famiglia d’origine è di Pozzuoli (Napoli)

Silvio Vitone, nato a Mafalda (Campobasso), vive a Ladispoli

Marco Mellace, nato a Roma,vive a Ladispoli; la famiglia d’origine è di Tagliacozzo (L’Aquila)

Claudia Simonetti, nata a Roma, villeggiante a Ladispoli

Roberta Cerroni, nata a Roma, vive a Ladispoli

Giovanni Melis, nato a Tarquinia (Viterbo), vive a Ladispoli

Loredana Simonetti, nata a Roma, villeggiante a Ladispoli

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Memoria di un incontro Licia Mampieri racconta

Torre Flavia, oggi (foto Silvio Vitone)

Quando si varca l’arco d’ingresso al tempio dei sogni, lì proprio lì, c’è il mare (Luis Sepúlveda, scrittore)

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La prima volta che sono venuta a Ladispoli era un limpido mattino di settembre, nel 2007. Il mare, dal colore azzurdo-verde, frangeva dolcemente le sue onde sulle sponde deserte. Laggiù, verso nord, Torre Flavia, a testimoniare la storia antica di questa giovane città.

Quel giorno ho camminato tanto con i miei pensieri, tra le bancarelle del mercato, in Viale Italia e sul lungomare, socchiuso tra i palazzi e gli stabilimenti balneari. Da allora sono tornata altre volte, in inverno, quando il mare diviene grigio mugghiosoin estate, quando la sabbia ferrosa si arroventa al sole.

da “I pescatori di Pozzuoli a Ladispoli” di Nardino D’Alessio e Crescenzo Paliotta , 2012, CISU Edizioni

Ed ho imparato a conoscere Ladispoli, immaginandola come la vedevano i pescatori di Pozzuoli, restando incantata dinanzi alle foto della marina negli anni ’30 e tuffandomi, come amo, nella storia breve di questa cittadina cresciuta troppo in fretta.

Ecco apparire il Vate, Gabriele D’Annunzio, che nel 1892 aspetta la sua Barbara sotto il lampione della stazione ferroviaria di Palo, in attesa del treno per Roma.

Ecco Roberto Rossellini ed Anna Magnani, i grandi del nostro cinema, che vivono la loro storia nella grande piazza che ad essi è dedicata.

Ecco i giovani, tantissimi, che scelgono di abitare a Ladispoli e la riempiono di bambini e di vita.

È così, con questa semplicità, che ho imparato ad amare Ladispoli, viva e vivace, dove ogni giorno è una festa.

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Quando Ladispoli era un villaggio Gastone Bolaffi racconta

Il Sindaco di Ladispoli, Crescenzo Paliotta, con Gastone Bolaffi

presso lo stabilimento Columbia (Estate 2015)

Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. È come se noi non fossimo mai esistiti. Se c’è un luogo, al mondo, in cui non pensare a nulla, quel luogo

è qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera.

È tempo. Tempo che passa. E basta.

(Alessandro Baricco, scrittore)

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Nel 1932, avevo 12 anni, trascorrevo le mie vacanze nel villaggio di Ladispoli. Villaggio, sì, perché la cittadina si raccoglieva nella piazza della fontana. La vita di Ladispoli si consumava tutta lì: c’era il negozio di frutta e verdura, una modesta osteria, il farmacista e l’ufficio postale, il cui capoufficio aveva una gran pancione.

Io ero bambino e quando lo guardavo, mi veniva da ridere. Anche il treno che proveniva da Palo si fermava in piazza: era l’unica stazione, scaricava i passeggeri e poi ripartiva a marcia indietro.

(estratto da “Nel Lazio quando c’erano i treni a vapore” di Piero Muscolino)

Noi abitavamo in una casetta in via Duca degli Abruzzi e l’acqua potabile era poca: ad una certa ora il “fontaniere”, un dipendente del Comune, chiudeva le bocchette e noi restavamo senz’acqua fino a nuovo ordine. La nostra casa era poco prima della Chiesa e qualche volta vedevamo Rossellini e la Magnani, che erano molto riservati, passeggiare lungo Via Duca degli Abruzzi. Rossellini ha spesso utilizzato nelle sue scenografie scorci e immagini di Ladispoli e ci fu un’occasione in cui mia madre gli prestò le sue piante fiorite, per girare una scena di un film. Papà e mamma non amavano la spiaggia, ma il pesce a casa piaceva molto ed era frequente la mattina l’appuntamento con “Pietro o’piscatore”, che tornando dal mare, ci vendeva cefali e polpi appena pescati. Nel pomeriggio passava il furgoncino

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della lattaia che suonava una trombetta per attirare i clienti; mi sembra di sentire ancora quel suono sfiatato.

Noi eravamo fortunati perché nella casa che abitavamo c’era la ghiacciaia, una vera rarità per quei tempi, mentre le altre famiglie acquistavano il ghiaccio, mezza colonna di ghiaccio per volta e per farlo durare più a lungo possibile, lo conservavano avvolto in una coperta di lana!

Dal piccolo villaggio partiva una strada con tanti pini sulla destra e sulla sinistra. Quella era Viale Italia, la strada che oggi è la via principale che porta alla nuova stazione ferroviaria.

Viale della Stazione, 1940 (oggi Viale Italia)

fonte “Memorie intorno – Racconti di Paola Solaroli Moretti” (2010)

Ladispoli era tutta campagna e quando il Circo Equestre piantava le tende, era una novità straordinaria. Non era come il circo di oggi, avevano vecchi leoni e bestie spelacchiate, ma per noi bambini era una bella occasione di festa.

Il vero grande divertimento, però, era il cinema! A Ladispoli, sul lungomare, c’era il cinema all’aperto “Moretti”, naturalmente solo di sera: una grande terrazza con vista mare, dove tirava sempre tanto vento e potevamo vedere i film con il rumore del mare di sottofondo e il profumo della brezza marina. Vedere il film in quello scenario, mi faceva sentire quasi un protagonista della pellicola. Il biglietto del cinema costava una lira e principalmente proiettavano film americani, ma i miei attori preferiti, quelli che mi facevano sognare, erano Amedeo Nazzari e Vivi Gioi.

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Locandina del film “Dopo divorzieremo”, 1940.

Ho detto che i miei genitori non amavano il mare, ma noi bambini trascorrevamo giornate intere sulla spiaggia rovente di Ladispoli, rovente perché contiene il ferro. Mussolini si era messo in testa di estrarre quella preziosa risorsa dalla sabbia per costruire i cannoni. Portò sulla spiaggia anche delle macchine che avevano delle rotative con le calamite per separare la sabbia dal ferro, ma tutto poi finì miseramente e rinunciò all’impresa.

La spiaggia era un luogo di gioco e serenità per noi bambini, non avevamo niente, eppure ci divertivamo lo stesso e l’unica altalena era presa d’assalto. Le donne indossavano i costumi interi e noi le mutandine di lana, chissà perché…, con la sabbia e il sale pizzicavano da morire! Sulla spiaggia passava “coccobello e coccofresco” ed era il mio appuntamento giornaliero e ogni tanto una donna, con un cappello di paglia in testa che gridava “Ciambelle fritte e calde”… calde per forza: camminava sotto il sole! Questi ricordi da bambino hanno un profumo indimenticabile…

Poi, crescendo, le nostre vacanze sono state altalenanti tra Ladispoli e Ostia, ma per Ladispoli avevo un affetto particolare. Ricordo che in occasione della prima comunione dei miei figli, organizzai il ricevimento all’albergo Margherita e per portarci i parenti – non tutti possedevano le macchine negli anni ‘50 – presi in affitto un intero pullman!

Da adulto sono entrato nell’aeronautica, ero Sergente Maggiore, lavoravo come amministrativo e spesso mi capitava di ritornare nelle vicinanze di Ladispoli, a Furbara, per motivi di lavoro.

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Nel 1940 lavoravo a Forlì e mi trovai a partecipare, il 9 maggio, alle celebrazioni per la fondazione dell’impero fascista. Fu in quell’occasione che conobbi il Tenente Valerio Scarabellotto, un uomo serio e cordiale, che era in rappresentanza del 30^ stormo da bombardamento.

Fu un uomo che si distinse in guerra eroicamente. Dopo un mese il suo stormo fu trasferito in Sicilia, a Sciacca e in un’azione di guerra fu ferito gravemente. Malgrado questo, riuscì a portare a termine la sua missione dando al pilota le istruzioni per consentire il bombardamento su Malta e per il suo eroico gesto, dove perse la vita, gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Dopo 40 anni raccontai questa storia a mia nipote e lei lo riferì a sua volta all’associazione aeronautica di Ladispoli; così, da qualche anno, ad ogni ricorrenza militare del 25 aprile, in cui viene ricordato Valerio Scarabellotto, sono sempre invitato.

Gastone Bolaffi con la nipote Damiana La Pera, (aprile 2014)

La casa di Via Duca degli Abruzzi è stata venduta, però mia nipote, anche lei affezionata a Ladispoli, ha acquistato un appartamento di una palazzina sul lungomare e trascorre le sue vacanze lì con la sua famiglia. Io dal 2005 sono ritornato a trascorrere l’estate a Ladispoli, così ho anche occasione di rivedere i nipoti. Poco tempo fa, entrando nello stabilimento Columbia e guardando le foto e le cartoline d’epoca esposte lungo le pareti, mi sono improvvisamente fermato davanti ad una cartolina in bianco e nero. Non ci potevo credere! In quell’immagine, nella veranda dello stabilimento, il cui tetto era ancora di paglia, seduti a un tavolino c’erano i miei genitori e mia sorella. Mamma sorrideva nella mia direzione e dietro di lei spuntava mia sorella, anch’essa sorridente. Papà, con gli occhiali da sole, fumava la sua sigaretta, sicuramente in un momento di serenità. Ritrovare i miei genitori in quella cartolina a bianco e nero mi è sembrato un invito a stare insieme con loro: è stato un attimo di commozione intensa e non ho potuto trattenere le lacrime.

Vengo qua, allora, tutti i giorni con l’aiuto di Alex, un bravo ragazzo anch’egli con il sorriso sempre pronto, a godermi questa spiaggia ricca di ricordi, in compagnia dei miei genitori come quando ero piccolo, che mi aspettano sereni tutte le mattine in quella cartolina, quando entro nello stabilimento Columbia.

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La cartolina che ritrae i genitori e la sorella di Gastone

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Ai Grotti di Procoio di Ceri Jole La Grotteria racconta

Jole La Grotteria a Ronciglione, (anni ’80)

La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare… un po’ qua e un po’ là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia,

e qual è il granello che sostiene l’altro?

(Antonio Tabucchi, scrittore)

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Sono nata a Palo, nel 1935, sono la più piccola di tre sorelle e un fratello, e papà lavorava come giardiniere al castello del principe Odescalchi. Quando sono nata, mi hanno chiamata Maria Pia, ma la principessa Odescalchi mi chiamava sempre Jole e Jole sono rimasta. A due anni ci siamo trasferiti a Ladispoli, in Via Duca degli Abruzzi, poche case e tanto prato. Era pieno di tedeschi che avevano costruito sulla riva del mare alcuni bunker per poter avvistare l’arrivo degli americani; i politici erano convinti che gli americani sarebbero sbarcati a Ladispoli. Chi poteva, si rifugiava a Ceri.

Il bunker (fortino antisbarco) sulla spiaggia di Ladispoli

(foto del 1960 da “Ladispoli, un secolo d’immagini” di Corrado Melone)

Ricordo, avrò avuto otto anni, che mi avventuravo insieme ad un’amica sopra al ponte medievale, (che adesso non c’è più), per vedere se arrivavano gli americani dal mare; appena sentivamo un rumore scappavamo subito… Giocavamo ad aver paura. Poi alla fine, gli americani sono arrivati sul serio, non dal mare… e abbiamo cominciato a mangiare gallette e caramelle. Mamma ci faceva indossare i vestiti migliori, uno sopra all’altro, perché se i tedeschi entravano in casa ci cacciavano via e si rubavano anche i vestiti. Allora, con tutti i vestiti indosso, ci mettevamo a dormire sotto agli alberi. Abbiamo tribolato l’anima nostra…

Un giorno papà montò su un carretto tutte le nostre cose, lasciammo Ladispoli e ci rifugiammo dentro i grotti di Procoio di Ceri.

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I grotti di Procoio di Ceri (foto social)

Quei grotti, quando c’era l’Ente Maremma, erano utilizzati come stalle e ci tenevano i vitelli che venivano macellati. I grotti erano scavati in una specie di tufo e pozzolana, terra scura e umida; noi eravamo tre famiglie e papà per evitare che entrassero le bestie, aveva fatto una specie di cancello, intrecciando i rami di ginestra, e sempre con la ginestra aveva foderato tutto l’interno dei grotti, per ripararci dall’umido della terra. Papà era ingegnoso e quel sistema ci risparmiò freddo e malattie.

Mio padre ci raggiungeva la sera per prendersi un po’ di vestiario e roba da mangiare, ma una volta i tedeschi presero anche lui. Io ero disperata! Abbiamo saputo che l’avevano portato a Osteria Nuova a lavorare. Dopo un po’ di giorni, con mamma, siamo andati a cercarlo. Ero piccola e piangevo, allora i tedeschi, forse impietositi, ce l’hanno rimandato a casa.

Niente scuola: la mia infanzia l’ho trascorsa con quelle tre ragazzine giocando a barattolo e a campana, e soffrendo la fame!

Mamma mi dava un cuccumetto, come un pentolino e mi diceva: “Va’ dai tedeschi e fatti dare il siero del latte.”. I tedeschi, in realtà, si prendevano tutto, latte, ricotta… il siero era quel liquido che scolava dalla ricotta. Piuttosto che fallo buttà era meglio che lo davano a noi! Era come acqua, ma meglio di niente… Un giorno un tedesco si perse l’orologio e ci venne a spaventare che se non gli veniva restituito avrebbe preso sette padri di famiglia e li avrebbe uccisi tutti. Per fortuna il ladro restituì l’orologio.

Siamo stati sfollati per diversi anni e quando sono tornata a Ladispoli ho fatto le scuole serali, perché mi piaceva tanto studiare.

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La scuola di Via Lazio, inaugurata nel 1925

(foto del 1960 da “Ladispoli, un secolo d’immagini” di Corrado Melone)

Era la scuola di Via Lazio, che oggi ha soltanto l’asilo. In quel periodo mio padre, che si chiamava Vito La Grotteria, portava il trenino dalla piazza fino a Palo. All’entrata di Ladispoli c’è ancora il casello originale, dove fermava il treno. Le suore di Via Duca degli Abruzzi avevano l’orticello e le galline, che confinavano questa ferrovia.

. Il casello del treno, nel 2015

L’Ente Maremma, inoltre, aveva dato a mamma e papà un terreno vicino a Torre Flavia e loro lo coltivavano, soprattutto per venderne il raccolto. Mi ricordo che mamma portava i fagiolini e i cocomeri sulla testa dentro ad una cesta e uno dei suoi clienti più affezionati era il farmacista De Michelis. La grolla teneva in equilibrio questo cesto pesante sulla testa, mi sembra ancora di vederla… Pure se quei tempi erano brutti, io me li ricordo belli e con nostalgia.

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Donna con la grolla per portare la cesta in testa ((foto social)

Mamma era una semplice massaia, ma teneva tanto all’ordine e alla pulizia. Avevamo una casetta con il legno per terra e luccicava! Una volta passò un controllo della giunta fascista per vedere come erano tenute le case di Ladispoli. Inaspettatamente, mamma venne convocata al Cinema Moretti e un personaggio importante, non ricordo il nome, la chiamò sul palco: “Donata Soccorsa ha preso il Primo Premio per la pulizia della casa!”. Una sorpresa di grande soddisfazione, per lei.

Il premio consisteva in una bella e grande pentola di alluminio e a me, piccolina, regalarono una carrozzina con la bambola! Chi l’aveva mai vista?

A 14 anni ho conosciuto mio marito Armando. Era di Ronciglione e lavorava a Ladispoli, come manovale nella fornace di mattoni Bellelli. Io abitavo in via Odescalchi e lui aveva preso una camera vicino, in affitto. La nostra casetta oggi non c’è più, invece la casa dove alloggiava mio marito ci sta ancora.

Lui mi guardava a distanza e io, per vederlo meglio, andavo sempre sul terrazzo a raccogliere i fichi, avevamo una grande pianta in giardino: mamma mi diceva sempre “Madonna, ‘sti fichi non finiscono mai…”.

Quando Armando finì di lavorare, dovette ritornare a Ronciglione, e io ero disperata. Zitta zitta, presi le scarpe e le appoggiai sulla finestra che dava sul giardino.

Stavo con le ciabatte e dissi a mamma che avrei accompagnato Armando alla stazione, ma in realtà volevo andare via con lui. Uscendo, presi le scarpe dalla finestra, le misi in tasca e alla stazione confessai ad Armando che sarei partita anche io insieme a lui, ma Armando non volle e allora tornai indietro.

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Speravo tanto in un suo ritorno e desideravo andarlo a trovare, invece mi fece lui una sorpresa a casa mia: non ci siamo lasciati più, è stato un grande amore veramente.

A 15 anni esatti è nato il mio primo figlio, Luciano, a 17 anni è nato Gianni, e Mauro è nato quando ho compiuto 25 anni. Quando è nato Luciano, a Ladispoli eravamo mille abitanti e tutti vennero a vedere sto fijetto appena nato. Sono sempre rimasta a Ladispoli, le mie radici e i miei ricordi sono qui. Oggi ho 13 nipoti, siamo tutti molto uniti, e insieme abbiamo affrontato i dolori che inevitabilmente la vita ci ha riservato. Forse proprio per questo considero Ladispoli il mio piccolo scrigno prezioso dove ho riposto la mia vita, anche se ho tribolato tanto.

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Le dune di sabbia, spettatrici di vita Filippo Conte racconta

Minturno (foto proloco)

Luna, trasparente come la medusa marina, come la brina nell’alba, labile come la neve sull’acqua,

la schiuma su la sabbia.

Gabriele D’Annunzio, poeta e scrittore, (1863-1938)

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Avevo sette anni, quando, finita la guerra nel 1945, ci siamo trasferiti a Ladispoli. Eravamo sfollati dal mio paese nativo, Minturno.

Arrivammo da Sessa Aurunca e mia madre cercava suo marito, perché lo avevano portato via i tedeschi e non se ne avevano notizie. Alcuni pescatori fecero circolare la voce che tanti uomini di Minturno –un tempo chiamata Traetto - si erano rifugiati a Ostia, Fiumicino, Fregene, Ladispoli e dissero a mia madre: “Signora Rosina, prima di Civitavecchia ci sono alcune postazioni di pesca, suo marito Pietro, insieme ad altri che erano stati catturati dai tedeschi, sembra che sia là.”. E fu proprio così.

I tedeschi avevano serrato tutti gli uomini nei treni per portarli via, ma si erano fermati prima di Civitavecchia e i prigionieri ne approfittarono per saltare giù, prendendo la strada delle campagne.

In effetti mio padre da giovane era un capobarca e da Minturno andava a Fiumicino per pescare, quindi quelle zone le conosceva bene. In quelle parole dette dai pescatori, poteva esserci del vero. Però non si capiva perché, pur sapendo scrivere, papà non diede notizie di sé: la guerra era finita, a Minturno c’era sua moglie con quattro figli che lo aspettavano, ma lui non tornò, pur avendo una buona attività commerciale avviata in paese.

Mia madre, allora, si convinse che papà potesse stare a Ladispoli; prese un lenzuolo, avvolse i pochi indumenti suoi e dei quattro figli, e partì in treno. Ricordo che faceva molto freddo e arrivammo a Ladispoli la sera tardi.

La mamma di Filippo, Rosa Iannitti

Viale Italia era in terra battuta, piena di spine e rovi; trovammo un locale tra via Napoli e Viale Italia, un forno bruciato dai tedeschi e ci riparammo là dentro. Passò un uomo, s’affacciò in questo forno e ci chiese chi fossimo e che stavamo facendo. Mia madre raccontò che era venuta a Ladispoli per cercare suo marito, che s’era fatta notte e che aveva trovato riparo in quel forno con i suoi figli.

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Allora quel signore c’indicò una grande grotta, dove avremmo potuto passare la notte più riparati. Quella era la famosa “Grottaccia”, oggi nota perché d’estate ci fanno spettacoli di musica e teatro.

La Grottaccia in Via Rapallo (foto da “Ladispoli, un secolo d’immagini” di Corrado Melone)

Andammo lì e ci trovammo un pecoraro che ci fece spazio in un angolo della grotta; c’era la paglia per terra e quel bravo cristiano ci diede pure del latte! Dopo un viaggio impietoso, pensammo di essere arrivati in Paradiso…

La mattina dopo, con uno spirito diverso, andammo a cercare mio padre. Mamma andava chiedendo se qualcuno conoscesse Pietro il Pescatore, perché a Minturno lo chiamavano così. La gente gli indicò al banco del pesce quello che era Pietro O’Piscatore, “pozzolano”, che faceva “Maddaluno” di cognome. Mamma, guardandolo, non lo riconobbe come suo marito! Allora le indicarono un altro Pietro, che pescava a mare con le barche e che faceva pure il “ranocchiaro”. Mia madre rimase perplessa: non sapeva niente del “ranocchiaro”.

Le indicarono alcune capanne, verso Torre Flavia, che poi sapemmo aveva fatto costruire proprio mio padre. Erano capanne ben fatte, con legno di castagno e cannucce di palude, d’estate erano freschissime e d’inverno c’era una temperatura mite! Si trovavano a pochi metri dal mare e quando c’era una mareggiata,l’acqua entrava in casa. Dalle capanne si vedevano le dune di sabbia sulla spiaggia.

In quella sabbia crescevano delle piante grasse e quando fiorivano, si formavano dei fiori grandi e colorati. Da bambini, sotto alle piante, raccoglievamo le lumache, che non erano né di terra né di mare. Erano lumacone bianche come il latte, che crescevano sulla sabbia, asciutte, senza bisogno di niente. Si nascondevano sotto la sabbia e lasciavano un bozzetto bianco della conchiglia fuori. Quando le trovavamo, facevamo un po’ di fuochino per terra e le cuocevamo arrosto.

Ricordo l’incontro tra mamma e papà: non vedevamo papà da anni e dopo gli abbracci e i baci, la voce di mia madre si fece seria. “Perché tu con moglie e quattro figli non sei venuto a cercarci e invece siamo venuti noi a cercare te?”.

Non rispose subito, ci fece entrare in una capanna e ci fece conoscere i pescatori che vi abitavano e che battevano i fossi: alcuni erano veramente ranocchiari, altri raccoglievano le sanguisughe. Fu a

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quel punto che arrivò la risposta alla domanda di mia madre. “Come faccio a tenervi qua? Io al massimo, posso tenere Pietro, se lui vuole rimanere .”. Pietro era mio fratello più grande, aveva 13 anni e si chiamava come mio padre e in seguito decise di rimanere, aiutandolo a preparare il pesce.

Pietro Conte e il figlio Pietro, in una buffa fotografia della 1^ sagra del carciofo, nel 1950

Papà non parlava della sua guerra, era molto schivo e, come tanti soldati che sono tornati vivi, non raccontava nulla di quello che aveva passato.

Trascorremmo un po’ di tempo con lui, poi mio padre diede un po’ di soldi a mamma e lei, con gli altri tre figli, ritornò a Minturno. Una volta alla settimana tornava a Ladispoli e portava un po’ di provviste per papà, e lui, a sua volta, le dava un po’ di soldi per farla tornare indietro con qualcosa.

Mamma aveva una piccola attività commerciale e riforniva i mercati romani con i prodotti locali di Minturno: abbacchi, uova, funghi… persino la cicoria, raccolta a Minturno, si vendeva bene a Roma.

A primavera, tornavamo tutti a Ladispoli, perché c’era lavoro per tutti. Noi bambini lavoravamo per la spiaggia, vendendo banane, noccioline e con poche cose si facevano un po’di soldini fino alla fine dell’estate.

Quella era anche la stagione dei ranocchiari. Mio padre aveva chiamato alcuni compaesani da Tufo, un paesetto vicino Minturno, e coordinava questo gruppo di uomini. La sera si mettevano tutti insieme a “capare” le rane. Le femmine venivano pulite e infilate nei giunchi, se ne facevano tanti mazzetti e si vendevano ai banchi e ai ristoranti. I ranocchi maschi e le sanguisughe si mettevano vivi dentro “boccacci” di vetro con l’acqua, e si portavano in ospedale, dove erano utilizzati per gli esperimenti.

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Esempi di boccacci di vetro (foto social)

Mio padre era un uomo di grande iniziativa; invitava in quelle capanne professori e primari degli ospedali e mentre offriva gli spaghetti alla pescatora, costruiva affari con loro, per le rane e le sanguisughe. Viene ricordato come ranocchiaro, ma lui neanche sapeva come si prendevano le rane, però organizzava le squadre di ranocchiari e a fine settimana divideva i guadagni tra tutti.

Nel 1951 mia madre rimase incinta per la quinta volta e io, che avevo 13 anni, restai con mio padre a lavorare con lui. Nel mese di aprile mamma ritornò a Ladispoli, era iniziata la stagione delle rane in amore e decise di rimanere qualche giorno per aiutare papà, visto che c’era tanto lavoro, anche se aveva la pancia molto grande.

Una notte le presero i dolori e noi figli, quattro maschi che non avevano mai visto partorire una donna , avemmo tutti paura quando si ruppero le acque. Decidemmo, tra fratelli di scappare in città; quella corsa tra le dune di sabbia, alte, è un ricordo straordinario, non passavano macchine, sembrava di stare nel deserto africano.

A fianco alle nostre capanne, c’era una piccola fattoria che ancora è rimasta così, ci abitava la famiglia Montini; uno dei figli, Fausto, un gran lavoratore, aveva un cuore grande come una capanna! Noi fratelli passammo sotto la recinzione per andare alla fattoria, inseguiti dai cani e dai tacchini che urlavano nella notte. Venne fuori il compare Fausto e gli raccontammo di mamma che stava partorendo, allora con la sua compagna, Lucia, vennero subito con noi.

Mentre Lucia aiutava mamma a preparare gli asciugamani, l’acqua calda e la biancheria pulita, Fausto in pochi minuti mise il cavallo davanti al calesse e corse a prendere l’ostetrica di Ladispoli, mi sembra che fosse Paola Bargiacchi, per portarla alla capanna da mamma. In pochi minuti, nacque quel bambino, bello e pacioccone e tutti ci mettemmo a piangere; era passata la paura, grazie alla gioia di vedere questo bel bambino.

Il compare Fausto, - si chiamava così perché tenne a battesimo a Ladispoli quel bambino – riportò l’ostetrica anche il giorno dopo, per far controllare mamma, ma mia madre era una donna forte come un toro, per fortuna non ebbe bisogno di nulla. Così nacque mio fratello Franco, quasi come

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Gesù Bambino, in una capanna vicino al mare, in piena notte, con lo spettacolo delle dune dai riflessi violacei.

A fine estate mamma ritornò a Minturno con Umberto e Franco, gli ultimi due fratelli, mentre io rimasi con Benito e Pietro a Ladispoli, insieme a mio padre.

A ottobre successe la tragedia: durante uno dei suoi viaggi a Roma, mia madre lasciò Franco ad una ragazza che lo guardava in casa: non si seppe cosa accadde, ma questo bambino cadde per terra e morì. La piccola vita di Franco ci lasciò un vuoto incolmabile e con grande fatica riprendemmo una vita normale. Per assicurarsi un tetto per quando sarebbero stati anziani, mio padre prese una casa in affitto in via Molfetta a Ladispoli.

Io, crescendo, ebbi occasione di svolgere tanti lavoria Ladispoli; mi ricordo bene di quando quelle magnifiche dune di sabbia ferrosa vennero pettinate; non rimase più niente. Solo tra Torre Flavia e Campo di Mare era rimasta parecchia sabbia nera, per 500 metri.

Una società di Terni, con una piccola locomotiva con i binari che volta per volta venivano spostati, raccoglieva questa sabbia. Già da prima della guerra, raccoglievano la sabbia per estrarne il ferro.

Motrice che trainava i carrelli pieni di sabbia (1940, foto da “Ladispoli immagini e racconti di Crescenzo Paliotta)

Il responsabile di quell’appalto era il sig. Deodato di Ladispoli, aveva la ferramenta e lo smorzo vicino al vecchio lavatoio, in Via del Mare e assumeva gli operai. Gli occorreva un operaio a Campo di Mare per scaricare la sabbia dai carrelli e andai a lavorare con loro; io ero il più piccolo e quella sabbia, con il ferro, pesava il doppio della sabbia normale. Quando arrivava un camionaccio con le gomme ci caricavamo la sabbia con la pala. Lavorai con il sig. Deodato un breve periodo, abbastanza per veder usurpare il patrimonio storico di quelle meravigliose dune di sabbia nera.

Ancora oggi dal nostro mare esce sabbia nera, ma mai abbastanza per ricostituire quel panorama selvaggio meraviglioso che ho fissato nei miei ricordi di bambino.

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Ricevere un valore nella vita

La famiglia Castellano. Filippo Conte racconta

Il Gran Bar Nazionale (1940, foto collezione Castellano)

In questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo essere ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.

Da “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi (1826 – 1890)

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Durante l’estate noi fratelli venivamo sempre qui a Ladispoli. Amilcare Castellano, cognato della signora Maria, mamma di Laura Castellano, una mattina fermò mio padre per strada. Aveva saputo che i suoi figli, un paio di “giovanottelli”, erano in cerca di lavoro per l’estate e voleva conoscerli. Mio padre, allora, ci dissedi prepararci puliti e ordinati perché il sig. Amilcare cercava qualcuno per lavorare al bar. Io ero innamorato del Bar Nazionale e mi tremavano le gambe: mio padre ci accompagnò fin là.

“Come ti chiami?”, chiese il Sig. Amilcare, “Io sono Filippo”, ”Te piace fare il barista? Comprati una giacca bianca e vieni qua.”. Comprare? io non avevo una lira…

Amilcare mi presentò la mamma, - che morì a 104 anni - ; mi fece un sacco di complimenti e sapendo che non avevo una giacca bianca, me ne prestò una di un altro cameriere, con l’impegno che l’avrei restituita appena avessi messo due soldi da parte. Mi stava grandicella, però facevo la mia bella figura. Il giorno dopo feci il mio ingresso al Bar Nazionale come apprendista barista; era il 1950, avevo solo 12 anni e lavoravo con un banchista che faceva il caffè e un altro che serviva i liquori.

La fabbrica delle gassose di Giovanni e Carlo Castellano (foto da “Storia & Storie” di Corrado Melone)

Il Bar Nazionale aveva sul retro un piccolo piazzale dove si produceva l’aranciata, la gazosa e il chinotto Castellano. Avevano una ruotella, le donne ci poggiavano le bottiglie e poi giravano una macchinetta che chiudeva i tappi. Dopo incassettavano e caricavano le bevande per le consegne. Io ero sì, un ragazzone, ma mi divertiva un sacco vedere l’imbottigliamento… Un giorno, all’ora di pranzo, mi chiamò la mamma di Amilcare.

“Filippo, vieni a mangiare”, mi disse,

“No, signora, io vado a pranzo a casa…”.

“Vieni a mangiare con me…”

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Io mi vergognavo, sono sempre stato molto timido… Mi misi a sedere e la signora mi portò un piatto di pasta che non finiva più, mi mise una mano sulla spalla e mi disse: “La devi mangiare tutta, che devi ancora crescere…”. Pensavo fosse finito il pranzo, e invece mi portò anche una bistecca e la frutta! Dio Benedetto! Se non mangiavo, strillava!

Il giorno appresso fece la stessa cosa. “Guarda, Filippo, devi mangiare!”. Noi a casa non avevamo da mangiare così tanto, ci arrangiavamo da Rosati con un piatto di minestra; Rosati aveva una piccola trattoria negli anni 50 in piazza, e in quel periodo mamma era a Minturno a lavorare. Qualche volta andavamo a mangiare dal Sor Domenico all’Albergo Santa Lucia, perché ci dormivano alcuni operai di mio padre, che d’inverno non vivevano nelle capanne sul mare. La sera mangiavano e poi passava mio padre, che non sempre aveva i soldi per saldare il conti. Il Sor Domenico gli diceva: “Sor Pie’, nun te preoccupà, le sanno capà le patate? Sennò, dopo làveno i piatti…”.

Lo stabilimento Columbia (1950, foto collezione Castellano)

Avevo già familiarizzato al Bar Nazionale, quando la signora Maria mi volle portare a lavorare allo stabilimento Columbia. Ero intimorito, ma non mi sono certo tirato indietro. Al Columbia lavoravano già due persone che conoscevo, Francesco Marini che studiava da geometra e poi c’era Elio Fiorini, che ancora porto nel cuore. Elio in pochi giorni m’insegnò la tecnica della conoscenza di tutti i liquori: mi metteva di spalle alla scaffalatura dei liquori e chiedeva: “Dov’è il marsala? “ e io pronto “Prima fila, la prima a sinistra…”.

Quando non c’era la Signora Maria, Elio m’insegnava a fare il caffè. Ogni volta che la signora veniva, la salutavo e lei, carina, mi rispondeva con cortesia. La sera si ballava un paio di volte a settimana e le due figlie, che erano signorinelle, qualche volta in cassa si perdevano i soldi per terra.

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Questa è una cosa che mi ha fatto sempre paura, perché io sono onesto. Non toccavo quei soldi, ma andavo a chiamare una delle figlie alla quale erano caduti i soldi e glieli indicavo per terra. “Se poi vi mancano i soldi, non voglio sapere niente, cercate di non farli cascà…”, dicevo.

Altre volte trovavo dei soldi nascosti dietro le bottiglie dei liquori e io glieli facevo subito vedere. Qualche volta ho pensato che fosse “un giochetto” per vedere la mia onestà, oppure qualcuno che li rubava e poi la sera se li portava a casa. A me non interessava, io chiamavo sempre i padroni, volevo stare tranquillo e lavorare serenamente.

Tutte le mattine si affacciava al bar una signora molto distinta e la signora Maria le andava incontro, la prendeva sottobraccio e prendevano il caffè insieme. Il caffè lo preparava sempre il mio amico Elio. Una mattina Elio mi disse in un orecchio: “Se per caso venisse quella signora a prendere il caffè e la signora Maria non ci dovesse essere, faglielo tu, quella signora è una vera intenditrice del caffè.”.

“Ma corro questo rischio, Elio?” gli dissi preoccupato.

“Fidati, t’insegno un trucco: metti la dose di due caffè, pigialo bene e facci un solo caffè, leggermente ristretto.”.

Una mattina che la signora Maria era assente, si affacciò la sua amica distinta e mi chiese un bel caffè. Io, timoroso, le dissi che il barista Elio era uscito un attimo.

“Perché lei non è capace a fare il caffè?”

“Certo che sono capace!”, risposi rischiando.

“E allora lo faccia lei!”.

Mi ricordai subito il suggerimento di Elio e feci il caffè come m’aveva insegnato.

Mentre la signora stava finendo di gustare il suo caffè, arrivò la signora Maria e rivolgendosi alla sua amica disse: “Che hai fatto?, Potevi aspettare un secondo che arrivava il banchista… Filippo non è barista, non sa fare il caffè!”.

“Senta Maria – rispose la signora distinta – non mi dica che Filippo non sa fare il caffè! Io, un caffè così, non l’ho mai bevuto da nessuna parte!”

Maria rimase di stucco, si avvicinò e mise un dito nella tazzina del caffè, ce n’era ancora una lacrima, e se lo mise in bocca. Dopo qualche istante mi guardò e disse: “Filippo, fai un caffè anche a me!”. Naturalmente anche alla signora Maria ho messo la dose doppia…

“Nemmeno una settimana di lavoro qua dentro e fa il caffè meglio di Elio!”, disse stupita. “Elio, ti caccio via e al posto tuo metto Filippo!”, disse rivolto a Elio, il quale sorrise e mi fece l’occhiolino.

Ancora oggi ricordo quel momento con grande soddisfazione: la signora Maria, davanti alla distinta signora mi ha fatto un gran complimento e per me, giovanissimo e alle prime armi, è stata la spinta necessaria per capire che fare il proprio lavoro onestamente e seriamente, ripaga sempre con grandi soddisfazioni. Da quel giorno sono diventato barista e anche la paga non fu più da sciacquabicchieri. A fine estate, quando lo stabilimento chiudeva, io tornavo a Minturno, perché

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arrivava la stagione delle feste paesane, ma per quattro estati di seguito ho sempre lavorato come barista al Columbia, con grande soddisfazione.

Elio Fiorini, con la sua amicizia e la signora Maria Castellano, con il suo complimento mi hanno dato un valore nella vita, non me lo sono più dimenticato e forse per questo motivo sono ancora legato a quella famiglia, in una gioiosa amicizia.