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1 ~ Settimana biblica ~ 3-8 ottobre 2011 L’alleanza dell’unico Dio creatore con l’umanità (Trascrizione non rivista dal relatore) Relatore: Francesco Rossi de Gasperis, SJ Prima riflessione Mi avete chiesto non tanto di parlarvi di un libro, ma piuttosto di offrirvi uno sguardo complessi- vo, generale sull’unità dei due Testamenti, sulla grandezza del progetto di Dio come viene riportato nella Bibbia. Cominciamo con il dire quale tipo di lettura noi facciamo. Noi cristiani facciamo la stessa lettura della prima comunità di Gerusalemme, proposta unicamente agli ebrei; è quindi una lettura ebraica. La Bibbia non fa parte del patrimonio della nostra cultura italiana, latina, padana… È un libro estra- neo anche alle culture europee, poiché viene dall’oriente. La nostra fede cristiana viene dall’oriente, poi il cristianesimo è entrato a far parte delle radici culturale dell’Europa anche se, come tale, non ha nessun bisogno dell’Europa. Viene dalla terra d’Israele, dalla Palestina, e la prima irradiazione cristiana è avvenuta in oriente. Quindi la lettura che noi seguiamo è quella degli autori del Nuovo Testamento, che è una raccolta di testi ebraici. Tutti gli autori del Nuovo Testamento, tranne Luca, erano tutti ebrei. Luca era un proselito, cioè un pagano tra quelli che si avvicinavano alla fede d’Israele per diventare ebreo, membro del popolo d’Israele. Quindi anche lui era completamente orientato verso l’ebraismo. Teniamo dunque ben presente che tutto il Nuovo Testamento – i vangeli, gli Atti degli Apostoli, le loro lettere, l’Apocalisse – appartengono alla letteratura ebraica del I secolo d.C.; alcuni sono sta- ti scritti proprio in ebraico e adesso li conosciamo come scritti in greco, ma nel greco del mondo el- lenistico.Era la lingua più diffusa (anche a Roma si parlava in greco…), un po’ come oggi succede per l’inglese, che è diventato un mezzo di comunicazione internazionale. Nel Nuovo Testamento incontriamo quindi un greco parlato da ebrei, scritto da ebrei, pieno di e- braismi, pieno di citazioni dell’Antico Testamento. Tutta la base fondamentale della nostra fede, contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento è ebraica, e noi facciamo la stessa lettura di tutta la Bibbia fatta da questi ebrei di Gerusalemme dopo la risurrezione di Gesù. Leggiamo quindi tutte le Scritture, dalla Genesi all’Apocalisse, alla luce della sua risurrezione, senza la quale il Nuovo Te- stamento non esisterebbe, come non esisterebbe il cristianesimo e non esisterebbero le nostre chie- se, i nostri campanili… Se Gesù non fosse risorto i suoi discepoli avrebbero detto con un certo sconforto di essersi sbagliati: “Speravamo che fosse lui il Messia, il liberatore d’Israele, ma è andata a finire male. Abbiamo fatto una brutta figura di fronte agli altri, riprendiamo i nostri mestieri e tor- niamo a fare i pubblicani, i pescatori, gli esattori di imposte”. Come mai, invece, si sono messi a scrivere persino l’infanzia di Gesù? Hanno cominciato da capo questo racconto ed è nato il Nuovo Testamento, sono nate le chiese ebraico-messianiche, cioè quelle degli ebrei che credono in Gesù Messia. Ricordiamo che non si chiamavano ‘cristiani’, perché non avevano mai pensato di diventare dei ‘cristiani’. Maria non era cristiana, come non lo erano i Dodi- ci, Paolo, Marco, Luca; tutti loro si chiamavano ‘ebrei discepoli di Gesù’. Poi quando dei pagani el-

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~ Settimana biblica ~ 3-8 ottobre 2011

L’alleanza dell’unico Dio creatore con l’umanità (Trascrizione non rivista dal relatore)

Relatore: Francesco Rossi de Gasperis, SJ

Prima riflessione Mi avete chiesto non tanto di parlarvi di un libro, ma piuttosto di offrirvi uno sguardo complessi-

vo, generale sull’unità dei due Testamenti, sulla grandezza del progetto di Dio come viene riportato nella Bibbia.

Cominciamo con il dire quale tipo di lettura noi facciamo. Noi cristiani facciamo la stessa lettura della prima comunità di Gerusalemme, proposta unicamente agli ebrei; è quindi una lettura ebraica. La Bibbia non fa parte del patrimonio della nostra cultura italiana, latina, padana… È un libro estra-neo anche alle culture europee, poiché viene dall’oriente.

La nostra fede cristiana viene dall’oriente, poi il cristianesimo è entrato a far parte delle radici culturale dell’Europa anche se, come tale, non ha nessun bisogno dell’Europa. Viene dalla terra d’Israele, dalla Palestina, e la prima irradiazione cristiana è avvenuta in oriente. Quindi la lettura che noi seguiamo è quella degli autori del Nuovo Testamento, che è una raccolta di testi ebraici. Tutti gli autori del Nuovo Testamento, tranne Luca, erano tutti ebrei. Luca era un proselito, cioè un pagano tra quelli che si avvicinavano alla fede d’Israele per diventare ebreo, membro del popolo d’Israele. Quindi anche lui era completamente orientato verso l’ebraismo.

Teniamo dunque ben presente che tutto il Nuovo Testamento – i vangeli, gli Atti degli Apostoli, le loro lettere, l’Apocalisse – appartengono alla letteratura ebraica del I secolo d.C.; alcuni sono sta-ti scritti proprio in ebraico e adesso li conosciamo come scritti in greco, ma nel greco del mondo el-lenistico.Era la lingua più diffusa (anche a Roma si parlava in greco…), un po’ come oggi succede per l’inglese, che è diventato un mezzo di comunicazione internazionale.

Nel Nuovo Testamento incontriamo quindi un greco parlato da ebrei, scritto da ebrei, pieno di e-braismi, pieno di citazioni dell’Antico Testamento. Tutta la base fondamentale della nostra fede, contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento è ebraica, e noi facciamo la stessa lettura di tutta la Bibbia fatta da questi ebrei di Gerusalemme dopo la risurrezione di Gesù. Leggiamo quindi tutte le Scritture, dalla Genesi all’Apocalisse, alla luce della sua risurrezione, senza la quale il Nuovo Te-stamento non esisterebbe, come non esisterebbe il cristianesimo e non esisterebbero le nostre chie-se, i nostri campanili… Se Gesù non fosse risorto i suoi discepoli avrebbero detto con un certo sconforto di essersi sbagliati: “Speravamo che fosse lui il Messia, il liberatore d’Israele, ma è andata a finire male. Abbiamo fatto una brutta figura di fronte agli altri, riprendiamo i nostri mestieri e tor-niamo a fare i pubblicani, i pescatori, gli esattori di imposte”.

Come mai, invece, si sono messi a scrivere persino l’infanzia di Gesù? Hanno cominciato da capo questo racconto ed è nato il Nuovo Testamento, sono nate le chiese ebraico-messianiche, cioè quelle degli ebrei che credono in Gesù Messia. Ricordiamo che non si chiamavano ‘cristiani’, perché non avevano mai pensato di diventare dei ‘cristiani’. Maria non era cristiana, come non lo erano i Dodi-ci, Paolo, Marco, Luca; tutti loro si chiamavano ‘ebrei discepoli di Gesù’. Poi quando dei pagani el-

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lenizzanti, ad Antiochia, hanno aderito alla loro fede, essi li hanno accolti e questi hanno cominciato a chiamarsi ‘cristiani’, traduzione greca del nome messianico ‘Cristo-Messia’.

Quello che ci dovrebbe interessare è che cosa sia successo, nella coscienza, nella mente e nel cuo-re di questi ebrei di Gerusalemme e di tutta la terra d’Israele, quando hanno riletto e compreso tutte le loro Scritture alla luce dell’evento di Gesù risorto. Che cos’è questa lettura ‘messianica’ che ha aperto i loro occhi? Quei testi c’erano già prima e li conoscevano a memoria. Un bambino ebreo, in una famiglia credente, a cinque anni comincia ad imparare a memoria tutta la Bibbia nella lingua originale. E al tempo di Gesù non c’erano tanti ebrei ‘secolarizzati’, perché erano credenti e religio-si; soprattutto non erano (e non sono) analfabeti. Nessun ebreo è analfabeta proprio perché la Scrit-tura fa parte della loro vita nazionale, della loro coscienza.

Quindi tutti, anche i pescatori e i contadini, conoscevano le Scritture, se non a memoria, certa-mente molto bene. Però queste Scritture si sono illuminate in modo nuovo davanti a Gesù risorto, senza aggiungervi niente.

Ho pensato di iniziare la mia riflessione con un testo che ci ricordi questo fatto di apertura di oc-chi e di cuore: il racconto dei discepoli di Emmaus. Vi ricordo che prima si racconta di donne che, dopo la morte di Gesù, hanno passato il sabato in silenzio e che appena nasce il nuovo giorno cor-rono alla tomba per portare gli aromi che avevano preparato per il cadavere di Gesù. Arrivano alla tomba, trovano che la pietra è stata rimossa, entrano per vedere il corpo di Gesù, e la trovano vuota: «Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Gali-lea e diceva: Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”» (Lc 24,5-7). Le donne non vedono Gesù, ma soltanto la tomba vuota! Al-lora corrono dagli Undici (Giuda Iscariota non c’era, si era suicidato) e raccontano quello che ‘non’ hanno visto e quello che hanno visto. Pietro «Pietro si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide sol-tanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto» (v. 12).

A questo punto ((Lc 24,13ss) viene il racconto dei due discepoli di Emmaus, che se ne vanno da Gerusalemme, forse stanchi di ascoltare i tanti commenti sulle ultime vicende.

Chi sono questi due? Di uno di loro ci viene dato il nome, Clèopa e, secondo Eusebio di Cesarea, scrittore ecclesiastico del III-IV secolo, era il fratello di S. Giuseppe, cioè lo ‘zio’ di Gesù. Proba-bilmente era con suo figlio, che più tardi è stato successore di Giacomo come capo della chiesa di Gerusalemme, forse come suo terzo vescovo.

Essi vanno ad Emmaus perché Nella Bibbia non c’è nulla di gratuito: tutto ha una sua ragione. Che cos’è Emmaus? In 1Maccabei, al cap, 4, troviamo il racconto di qualcosa che è avvenuto un secolo e mezzo prima, nel 164 a.C. I Maccabei erano insorti contro un tentativo ellenistico dei suc-cessori di Alessandro Magno. Costui, prima di morire (ancora molto giovane) aveva diviso il pro-prio immenso regno tra i suoi generali, e la parte mediorientale dell’Asia era toccata agli Antiochei: Antioco III, soprattutto, che era stato un grande sovrano, e poi Antioco IV Epifane che invece era diventato un persecutore dell’ebraismo. Egli non voleva soltanto ellenizzare tutto il suo regno, ma anche paganizzarlo, per cui aveva cominciato a diffondervi i culti greci, la mitologia e la religione greca. Tutto questo aveva trovato forte resistenza in Gerusalemme, nella famiglia dei Maccabei, i quali non accettavano che la loro fede venisse toccata. Erano pronti a combattere per difendere i lo-ro costumi, la loro cultura, ma soprattutto la loro fede, la religione dei padri.

I Maccabei, di stirpe sacerdotale, avevano preso le armi e iniziato una guerriglia dal deserto fino alla terra abitata, e combattevano contro i greci che venivano a paganizzare il paese. Tra l’altro, ad Emmaus ci fu una grande battaglia in cui Giuda Maccabeo, uno degli ebrei armati per questa lotta, riportò una splendida vittoria perché la differenza numerica era molto sensibile sui greci: «A quello spettacolo si sgomentarono grandemente; vedendo inoltre giù nella pianura lo schieramento di Giuda pronto all’attacco, fuggirono tutti nel territorio dei Filistei. Allora Giuda ritornò a depreda-re il campo e raccolsero oro e argento in quantità e stoffe tinte di porpora viola e porpora marina e grandi ricchezze. Di ritorno cantavano e benedicevano il Cielo perché è buono, perché il suo amo-re è per sempre. Fu quello un giorno di grande liberazione per Israele» (1Mac 4,21-25).

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Si potrebbe forse paragonare alla nostra “Vittorio Veneto”, il luogo di una grande vittoria che a-veva segnato una decisiva liberazione, perché di fatto i Maccabei riuscirono a ricacciare indietro i siro-ellenistici.

Tornando ai due di Emmaus, essi si allontanano da tutte le chiacchiere che si continuano a fare sulla tomba vuota e sulle donne che hanno riferito delle cose strane e si dirigono verso un luogo di cui si racconta una vittoria. Probabilmente c’era anche un monumento… Questa Emmaus era un villaggio che fino a cinquant’anni fa si chiamava Amwas e che si trova a cinque-sei chilometri da Modin, che era la patria dei Maccabei.

In tutto questo si possono vedere i segni della psicologia maschile. Quella femminile è rappresen-tata piuttosto da Maria di Magdala ritratta da Giovanni, che invece resta vicino alla tomba vuota. Anche a lei gli angeli hanno dato l’annuncio: Gesù non c’è. E lei piange, curva davanti alla tomba.

Invece la psicologia maschile porta ad allontanarsi, pur nella tristezza. Così i due discepoli erano in cammino «e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto.

Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo». Bisogna notare la finezza del racconto, che sembra una favoletta e invece ci sta indicando qualcosa di molto importante proprio per capire che cosa è successo in questa generazione di ebrei che sono passati alla fede nel Risorto.

«Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: “Solo tu sei forestiero a Ge-rusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. Domandò loro: “Che cosa?”. Gli ri-sposero: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo”». Notate che, come dicevo prima, questi due sono parenti della famiglia di Gesù, non appartengono al gruppo dei Dodici. Appartengono al quel nucleo familiare di Gesù che per molto tempo non ha creduto in lui. A Nazaret, la prima volta che ha parlato, volevano addi-rittura precipitarlo giù dalla collina, però alla fine si erano riavvicinati a Gesù e probabilmente du-rante la passione alcuni parenti sono scesi dalla Galilea e hanno accompagnato sua madre sul Calva-rio. Adesso riconoscono che Gesù era un profeta potente davanti a Dio e al popolo, ma «i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno croci-fisso».

«Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…». Ricorda il canto di Em-maus, come abbiamo già visto a proposito dei Maccabei: «Di ritorno cantavano e benedicevano il Cielo perché è buono, perché il suo amore è per sempre. Fu quello un giorno di grande liberazione per Israele». I due avevano sperato che Gesù fosse il liberatore, come gli ebrei avevano sperato un secolo e mezzo prima. Allora si trattava della dominazione greca, adesso di quella romana…

«Con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba

e, non avendo trovato il suo

corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». A loro non interessa niente della tomba, a loro interessa Gesù! Che fine ha fat-to? E che fine fanno loro, dopo averlo seguito tre anni?

Il Viandante li ferma e li interpella: «“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo [meglio: Messia, per il momento] patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Questo è ciò che ci interessa come tema di riflessione per la no-stra settimana). È come se il Viandante dicesse: “Voi conoscete le Scritture e sapete bene che cosa dicono i profeti, quindi avete già nella vostra mano e nel vostro cuore la risposta alla vostra tristez-za. Non ricordate che in tutte queste Scritture c’è che chi sarà il vostro Messia deve patire per entra-re nella sua gloria? Riprendete quindi il filo della storia che voi conoscete, tiratelo su e troverete una lettura di tutte le Scritture che vi rivela come il Messia che deve venie debba soffrire per essere glo-rificato”.

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Era del resto quanto aveva detto l’angelo alle donne: «Ricordatevi come vi parlò quando era an-cora in Galilea e diceva: “Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”» (Lc 24,6-7). La risposta ai dubbi, quindi, è già lì, ma sta sepol-ta insieme a tante altre cose della Bibbia che essi sanno a memoria. Non hanno ancora trovato la chiave di lettura di tutta questa storia.

«Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lon-tano. Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». Gesù compie i quattro gesti dell’Ultima Cena, la Cena della passione.

«Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista [greco: diventò non visibile]. Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli con-versava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”». Ricordano che, nel cammino, mentre il Viandante spiegava, apriva le Scritture e le rileggeva alla luce di questa parola attestante la sofferenza per la gloria, il loro cuore si scaldava, si accendeva in modo nuovo. Non avevano ri-conosciuto Gesù come nella frazione del pane, però è allora che è cominciato il cambiamento, poi-ché è apparsa un’altra lettura delle Scritture. La lettura che allora avevano in mente – come del resto tutto il popolo – era quella di un Messia trionfante, sovrano, profeta d’Israele, vittorioso. Invece il Viandante parlava di un Messia che sarebbe stato vittorioso solo dopo la passione.

Così, lungo la strada un’altra lettura delle Scritture ha scaldato il loro cuore, e durante la cena si sono aperti i loro occhi. Interessante questo fenomeno psicologico, spirituale! A me non piace il termine ‘apparizione’ perché Gesù risorto non appare, ma si fa vedere dove sta. I verbi greci che si trovano sia in Luca che negli altri evangelisti sono sempre al passivo e indicano che Gesù si fa ve-dere dove sta. E dove sta, Cristo risorto? Dappertutto, anche qui in mezzo a noi! Gesù appare ‘a porte chiuse’ perché sta già là, non perché è passato attraverso i muri!

Ebbene, quello che dovrebbe interessare la nostra intelligenza e la nostra preghiera è il capire che cosa sia successo, psicologicamente e spiritualmente, a questa generazione che ha aperto gli occhi. Come mai loro hanno aperto gli occhi e hanno visto, mentre gli altri attorno a loro non hanno visto e ancora oggi non vedono? Ancora oggi ci sono gli ebrei che non credono a Gesù, ma anche quelli che credono in lui. Quelli che non credono conoscono le Scritture perfettamente; oggi non sono tutti religiosi, però nelle scuole ebraiche, anche statali, tutti studiano la storia d’Israele, tutti conoscono la Bibbia se non come parola di Dio, come patrimonio letterario nazionale. I religiosi poi la cono-scono in una maniera impressionante e noi, rispetto a loro, siamo dei rozzi contadini. La conoscono a memoria! Mi ricordo un ragazzo di nome Moshe, che aveva studiato in una scuola rabbinica. I suoi genitori, poi, si erano convertiti a Gesù: purtroppo i due figli erano nati da matrimoni tra paren-ti, quindi erano psicologicamente tarati, tutti e due. Ma questo ragazzo, che era venuto una volta con noi al Monte Sinai ed era meravigliosamente puro, era tormentato da problemi psichici. Quando lui me ne parlava, mi parlava come il libro di Giobbe e si raccontava nei termini della Bibbia; per far capire le angosce che lo tormentavano. Parlo al passato perché poi a Firenze è salito sul campanile della piazza e si è buttato giù, suicidandosi. Parlava con il vocabolario della Bibbia perché anche i suoi occhi si erano aperti e aveva una grande fede in Gesù.

Gli altri ebrei conoscono la Bibbia, tuttavia non vedono quello che i due di Emmaus hanno visto quando Cristo spiegava loro le Scritture. Noi invece veniamo da questa gente, da questi ebrei che hanno sperimentato questo calore del cuore, questa apertura di occhi.

Se continuiamo a leggere il vangelo di Luca, vediamo che i due rientrano di corsa a Gerusalem-me, dove gli Undici dicono che Gesù si è manifestato anche a Simone. Mentre sono riuniti, Gesù si manifesta e dice: «“Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì lo-ro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il per-dono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”» (Lc 24,44-48).

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Quali sono allora le azioni del Signore risorto? Scalda il cuore, apre gli occhi e la mente. E loro vedono, capiscono e prendono consapevolezza che nelle Scritture si parla di un Messia che entra vittorioso nella sua gloria, ma passando per la passione. Allora, ripensando al loro Maestro crocifis-so, che ha lasciato il vuoto e adesso si fa vedere da loro, diventano suoi discepoli, e diventano di-scepoli delle loro Scritture lette in questa nuova luce. Non diventano cristiani, non passano ad un’altra religione, anzi, restano più ebrei che mai, perché hanno capito quale è la chiave delle loro Scritture. Altrimenti ci sarebbe un’altra chiave, ma sarebbe inservibile. Questa, che sta quasi nasco-sta, è nel libro del tempo dell’esilio, cioè il Secondo Isaia, il Libro del Servo (Is 40-55).

È il canto del Messia, del Servo del Signore che verrà. Israele è in esilio a Babilonia, ed è un po-polo che ha perduto tutto: terra, regno, tempio, trono, dignità. Il popolo di Dio, agli occhi degli altri popoli, appare come il più abbandonato e rigettato dal Signore, e quindi deriso. In mezzo a questo popolo vive un personaggio, il Servo del Signore, i cui carmi leggiamo in tempo di quaresima. Ma quei testi devono essere letti nell’insieme complessivo del Secondo Isaia. È il Servo sofferente che porta i peccati degli altri e che nessuno riconosce, e al quale il Signore prepara un destino di gloria. È cioè un Messia vittorioso dopo la sofferenza. Questo, Israele non se l’aspettava e non se l’aspetta neppure oggi! È chiaro che i nostri crocifissi sono uno schiaffo in faccia agli ebrei che non credono in Gesù. Certo, non mi spiego perché si vedano in giro così tanti crocifissi; va bene ricordarci che questa vita passa per la croce, ma si vedono certamente in circolazione più crocifissi che risorti! E questo non dà una bella impressione della nostra fede, perché sembra che noi adoriamo un morto, mentre noi adoriamo un Vivente, uno che ha vinto la morte! Nei primi crocifissi, anteriori al medio-evo, Cristo appare in croce, ma vestito e con la corona da re, che sta sulla bandiera del nemico che egli ha conquistato, cioè la croce stessa. Poi il Medioevo l’ha trasformato in un morente.

Certo, nelle diverse generazioni di cristiani e dalle diverse sensibilità, il Signore ha saputo trarre grandi figure di santi devoti alla croce, però mi faccio questa domanda: quanti cristiani, oggi, cre-dono che Gesù è vivo? E quanto cristiani credono che la nostra morte sarà una Pasqua, cioè non una fine, ma un passaggio? Quanti di noi hanno una paura terribile della morte? E perché? È una fine o un inizio o, meglio ancora, una continuazione? Il cristianesimo è nato da questo! Se Gesù non fosse risorto, dice Paolo, noi saremmo i più disgraziati degli uomini ma, soprattutto, non ci sarebbe la Chiesa e noi non esisteremmo come cristiani. La Chiesa infatti è nata dalla Pasqua, non dal Venerdì santo!

In questi nostri incontri noi vogliamo vedere la corsa della Parola nella storia, in una visione complessiva della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento. Cercheremo di ripercorrere, di ripresentare, quella lettura complessiva che Gesù ha fatto ai suoi, cominciando da Mosè e i profeti, mostrando che «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria». E l’ultima pa-rola non è la croce, ma la vita, ed è una vita che non muore più.

Una pagina da tenere presente per tutta la settimana, come un’icona davanti a cui pregare, è la prima manifestazione del Risorto nel primo capitolo dell’Apocalisse. Il veggente, che si dice essere Giovanni, dice che a Patmos ha avuto questa manifestazione: ha visto Gesù nello splendore della gloria, regale, profetico; tanto che lui, Giovanni, che aveva posato il capo sul petto di Gesù durante la Cena, dice: «Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”» (Ap 1,17-18). Gesù è in mezzo alle chiese, alla creazione, alla nostra vita: è il Signore della storia!

Sia Luca una volta, sia Giovanni due volte, quando ci raccontano che Gesù si fece vedere dagli apostoli riuniti, affermano che si mostrò ‘in mezzo’ a loro. Gesù risorto ‘sta in mezzo’ e tiene in mano le ‘sette chiese’, cioè tutta la Chiesa.

L’ultimo libretto che ho scritto è intitolato “Dalla Pasqua al Natale”, perché bisogna andare a Betlemme partendo dalla tomba vuota di Gesù. Nei nostri pellegrinaggi abbiamo sempre fatto così, partendo dal Santo Sepolcro e andando a Betlemme, perché nessuno avrebbe scritto la storia di Bet-lemme, se Gesù non fosse risorto. Per capire perché andiamo a Betlemme e per capire perché Gesù è nato a Betlemme, dobbiamo partire dalla risurrezione. Allora andiamo a vedere qualcosa che è

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contemporaneo a noi, oggi, altrimenti andiamo a vedere solo una storia che appartiene al passato. No, Cristo è risorto ed è vivo oggi, e in lui sono risorti tutti i suoi misteri: Betlemme, Nazaret e tutto il resto. Infatti gli evangelisti ci hanno raccontato tutti questi misteri partendo dalla risurrezione, al-trimenti avrebbero sentito la morte nel cuore, nel raccontare il passato: «Pensavamo che fosse lui…».

La Bibbia, dicevo, è una corsa nella storia, non una dottrina, come del resto non lo è il cristiane-simo. Non dovremmo mai dire ai bambini: “Andiamo a dottrina”, ma: “Andiamo a correre nella sto-ria” e forse il catechismo non dovrebbe svolgersi in classe, ma fuori, camminando.

**************** Seconda riflessione Cominciamo il nostro percorso partendo proprio dal libro della Genesi, il primo dell’Antico Te-

stamento. La Bibbia non è un libro scientifico, e nemmeno un libro di storia, ma un racconto. Im-maginate quello che avviene, ancora oggi, presso i popoli nomadi; quando scende la sera, nell’accampamento gli anziani raccontano le tradizioni antiche. Ci sono alcune leggende giapponesi che incominciano tutte con un termine che significa “c’era una volta” e che raccontano fatti del pas-sato che sono importanti anche per l’oggi.Questo risulta perfettamente nel modo di parlare di Gesù. Ad esempio, quando un dottore della Legge gli domanda: «Chi è il mio prossimo?», Gesù comincia un racconto: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, …Un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli ac-canto, vide e ne ebbe compassione…». Ecco, un episodio del passato può illuminare il nostro essere prossimo oggi.

La Bibbia è il racconto del cammino d’Israele nella storia. Come dicevo, la Bibbia non appartiene alla nostra letteratura come Dante, Petrarca, Virgilio, Tacito…, ma è il racconto di un popolo orien-tale, che proprio attraverso i discepoli di Emmaus e a quella loro generazione – a cui si è scaldato il cuore e si sono aperti gli occhi – ,è diventato poi nostro perché si è aperto ad accoglierci nella fede in Gesù. Noi siamo giunti a loro perché anche a noi si è scaldato il cuore e si sono aperti gli occhi. Quello che è successo a loro, in una maniera che non può essere la stessa, succede anche a noi; se non avviene in noi lo stesso fenomeno, la Bibbia non ci dice niente, ma rimane un insieme di favo-lette, di storie, di poesie, di salmi. Ma che c’entriamo noi con questo? Bisogna che la nostra mente si sia aperta a qualcosa che ci ha scaldato il cuore e ci ha fatto ascoltare e dire: “Questa è la mia sto-ria!”.

Gli Atti degli Apostoli usano molto il verbo ‘aggiungere’ ( ad esempio, «Coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone» - At 2,41). La Chiesa è cresciuta in questo modo: al primo gruppo di discepoli di Gerusalemme che hanno vissuto la stessa esperienza dei discepoli di Emmaus, si è aggiunto piano piano un certo numero di credenti, che si sono riconosciuti in questo calore del cuore, in questa apertura di occhi e di mente. Così è cresciuta la chiesa di Gerusalemme, poi sono cresciute quelle attorno e infine la Chiesa si è diffusa in tutto il mondo: ebrei e pagani che credono in Gesù Messia.

Ma questo racconto è già presente nell’Antico Testamento, e allora cerchiamo di capirne alcuni caratteri. Il racconto riguarda sempre tre soggetti: Dio, gli uomini e le donne, il mondo. È un rac-conto in cui si incrociano sempre tre direzioni che si corrispondono l’una all’altra, ma che non si possono mai ridurre l’una all’altra. E questo è proprio della religione biblica e della religione cri-stiana, in cui non c’è immediatamente e solo il rapporto tra gli uomini e Dio, ma anche il rapporto tra gli uomini e Dio, quello delle persone umane tra loro, e quello tra gli umani e la terra che abita-no. E non c’è nessuna specializzazione possibile, per cui qualcuno possa dire: “Io mi occupo di Dio, tu degli uomini e delle donne, tu della terra…”. No, bisogna che ciascuno di noi si occupi di tutti e

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tre i rapporti, perché questo è strutturale a come siamo fatti. Noi siamo fatti per guardare in alto, in basso, e per guardarci tra di noi. E ciascuno di noi deve prendere posizione nei confronti di Dio, del prossimo e della terra. Quello che si fa in una relazione, lo si deve fare anche nelle altre due, se vuo-le essere armonizzati, altrimenti si risulta spaccati. Forse in molti non siamo ancora ben armonizzati in queste tre dimensioni della condizione umana.

Nei salmi esse sono presenti come protagoniste. La preghiera d’Israele va sempre verso Dio, ver-so gli uomini e verso la terra. E allora in questo racconto degli anziani raccolti intorno al fuoco dell’accampamento nel deserto, tutto comincia con un libro che viene chiamato Genesi. O forse sa-rebbe meglio chiamarlo come si chiama in ebraico berešit, cioè in principio. Tutto il libro si chia-ma: “In principio”. È un libro sapienziale ma alla maniera ebraica, cioè sempre sotto forma di una storia, perché non è una filosofia, né una leggenda, né una fantasia, né una mitologia. Nella cultura greca, ad esempio, per risolvere i problemi degli uomini, per rispondere alle domande esistenziali a cui tutte le religioni e le filosofie vogliono rispondere, la mitologia comincia a dire che la storia u-mana è quella degli dèi. Infatti diamo le risposte ai nostri problemi proiettandole in alto: “Anche gli dèi hanno le nostre stesse emozioni e problematiche, che si riflettono poi su di noi, sulla terra!”. Ma queste divinità sono creazioni di fantasia: Giove, Minerva, Marte… e sono ripiene delle passioni che poi entrano nelle nostre storie. Quando non riconosciamo ancora la rivelazione vera, dall’alto,noi costruiamo una religione partendo dal basso, quindi tutte le religioni sono delle orga-nizzazioni che l’uomo dà ai suoi problemi. Se invece viene una rivelazione dall’alto, ci vengono da-te informazioni che ci consentono di organizzare la nostra religione in base alla rivelazione ricevuta. È ciò che troviamo nell’ebraismo, nel cristianesimo e, in parte, anche nell’islam.

Il libro della Genesi, quindi è il libro del ‘principio’, che ci viene raccontato appunto come una storia. È molto importante capire bene che cos’è il libro della Genesi, e cercheremo di farlo insieme.

Genesi presenta le tre realtà: Dio, l’uomo (e la donna), la terra. È il Dio d’Israele, ma non comin-cia da Israele. Il protagonista della Genesi non è Israele, ma sono gli uomini e le donne, l’umanità. Se ci pensiamo, questo è un grande servizio che Israele ha reso e rende a tutta l’umanità. Per questo la Bibbia può essere messa in mano a chiunque, perché appena la apre, si parla di lui.

Se vogliamo, il vero libro d’Israele comincia con l’Esodo, ma prima c’è la storia dell’umanità, che si snoda in tre tempi, in tre cicli. Innanzitutto quello che Dio Creatore fa (Gen 1-2) prima che l’uomo ci metta le mani; prima che gli uomini aprano la bocca, Dio già dice tutto.

Poi viene un tratto (dalla fine del cap. 2 fino al cap. 11) che parla di quando gli uomini mettono le mani sul creato e aprono la bocca, cominciando a rispondere al disegno di Dio. Ecco il bene e il ma-le: il bene perché la creazione divina è buona, e il bello e il buono di Dio non lo può cancellare nes-suno; ma dietro a questa bellezza e a questa bontà gli uomini combinano dei pasticci. Quindi c’è una storia, sempre sapienziale, di drammi e di peccati.

La terza parte, che va dal cap. 12 al cap. 50, racconta un nuovo intervento di Dio come risposta a ciò che avevano fatto gli uomini. Ma questo sulla scala di tutto il mondo, perché riguarda anche noi oggi. È cioè come il racconto di Gesù a proposito del samaritano: non è che parlasse di un caso sin-golo, di un samaritano buono o di un viandante aggredito dai briganti, ma parlava per indicare chi è il prossimo, qualunque prossimo. Perciò non si può leggere la Genesi come un libro di storia. È un libro di sapienza e la storia nasconde una sapienza umana. È un dramma della condizione umana di tutti i tempi. Viene raccontato come una storia, cioè con immagini che ricordano la terra mediorien-tale in cui è nato: Nilo, Tigri, costruzioni, torri come quella di Babele, ma non è la storia di Babele, bensì quella dell’umanità. Si potrebbero mettere altri nomi di fiumi e di località, perché è una storia aperta; per questo dicevo che Israele ha reso e rende un grande servizio alle altre nazioni nel dire che cosa il suo Dio ha fatto per tutti e poi, con il libro dell’Esodo, che cosa ha fatto per il suo popo-lo.

Nel libro della Genesi ci sono dei nomi storici che rivelano le costanti della condizione umana che è anche la nostra. E quali sono queste costanti? Innanzitutto Dio crea: il mondo – terra e creatu-re – non è fatto da noi, ma da Lui, ed è fatto bene, come ci dice il primo racconto. È fatto nell’arco di una settimana, immagine del tempo, di tutti i tempi. Il secondo racconto ci dice la stessa cosa, ma

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in un altro quadro, in un giardino; nel giardino, poi, mette il genere umano: non l’uomo-maschio, ma adàm (da adamà, la terra), il fangoso, quello fatto di terra, l’umano che ancora non è né ma-schio, né femmina. È uno solo, per dire tutti.

E alla fine della creazione delle cose, cioè nel sesto giorno, Dio disse: «Facciamo l’uomo», cioè qualcuno in grado di capire l’opera divina. Infatti nessuna delle creature viventi finora create era in grado di rispondergli, di guardare con Lui la bellezza delle cose, di ringraziarlo per tanta meraviglia. Per questa ragione: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somi-glianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvati-ci e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1,26-27). In che senso l’uomo e la donna (che sono due) sono ‘creati’ ad immagine del Creatore, che è uno solo, secondo la più importante professione di fede d’Israele: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4). I ‘due’ siamo noi, e la Bibbia si interessa non a quello che noi siamo oggi, ma a quello che siamo chiamati ad essere. Questo è tipico del pensiero biblico, mentre la cultura greca vuole definire le cose come stanno adesso, ad esempio: l’uomo è un animale razionale. Magari, fosse davvero un animale ragio-nevole! Invece deve diventarlo.

Perciò se il maschio e la femmina sono fatti ad immagine di Dio, vuol dire che, pur essendo due, devono diventare uno. Certo, il genere umano è fatto per la comunione, ma alla base di questa co-munione c’è la differenza dei sessi; per questo è necessario che nella storia le due persone umane diventino una, che tutte le differenze spariscano, a partire da quella sessuale, fino a quella tra nord e sud, del nero e del bianco, del colto e dell’ignorante, del povero e del ricco, del padrone e del servo, dell’imprenditore e dell’operaio, del generale e dell’ultimo soldato. Questo è il sogno di Dio Creato-re: tutti sono destinati a diventare ‘uno’ perché Dio è Uno. Nessuno quindi può pensare di portarsi appresso la propria umanità pensando di poter essere uomo da solo: tu non puoi essere te stesso se non prendi con te anche gli altri e se non ti fai prendere dagli altri.

Nel secondo racconto della creazione (sono due racconti paralleli, praticamente), dopo aver mes-so Adàm nel giardino e avergliene affidato la cura, Dio gli ricorda che Dio è Lui: gli ha affidato la terra, ma la terra rimane sua. Adàm è solo ospite in quel giardino!

Poi «il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corri-sponda». Non è da intendersi con il fatto che Dio ritenesse inopportuno che l’uomo rimanesse solo, perché già Adàm è ‘tutto’; non poteva essere solo, per il fatto che non poteva già essere ‘uno’ come Dio, ma lo doveva diventare. Per questo motivo Dio non vuole che Adàm sia solo, e ne crea un al-tro, togliendo una costola all’uomo. Ecco allora il maschio e la femmina. Secondo la Genesi (poi le cose si sono confuse), la donna non viene dal maschio, ma tutti e due i generi vengono dall’Adàm e tutti gli uomini sono ri-edizioni dell’essere umano, non identici ma assolutamente protagonisti di questa vita sulla terra che deve compiere il mandato affidato dal Creatore.

Del resto è l’uomo che completa il proprio nome con una ‘o’, diventando Adamo, e dà il nome di Eva alla donna. I nomi vengono dati da lui, non da Dio. Quando il maschio impone il nome alla donna, è per dominarla, poiché una creatura ragionevole non può dare il nome ad un’altra creatura: è solo Dio che può farlo.

Proprio all’inizio del cap. 5 di Genesi si legge: «Questo è il libro della discendenza di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li be-nedisse e diede loro il nome di uomo [Adàm] nel giorno in cui furono creati». Dio, quindi ha dato ‘loro’ (cioè a tutti e due) il nome di Adàm, essere umano, e ha detto loro di andare e di moltiplicar-si. Poi però interviene il peccato, che spezza questa comunione; così il maschio prende per sé il no-me (Adamo) ritenendosi l’essere umano e ponendo la donna in posizione subordinata. E questo ci racconta il nostro mondo attuale. Ci sono ancora dei popoli, oggi, che sono molto più indietro. Si potrebbe pensare al mondo palestinese, ancora pieno di paternalismo, di maschilismo. Il matrimonio è un fatto fondamentalmente sociale di famiglie che decidono loro chi i figli devono sposare, a se-conda della posizione patrimoniale o della parentela. I figli si trovano tutto predisposto dai genitori o perfino dai nonni, da chi devono sposare fino alla casa; poi se fra di loro nasce anche un po’

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d’amore, tanto meglio. L’importante non è l’amore, ma la società, il patto sociale. Al vertice di que-sto c’è il capo della famiglia, il maschio.

Nel secondo momento di quel ‘in principio’ c’è la creazione dell’uomo, il quale poi esclama da-vanti alla donna: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». I due sono ish e ishàh. La donna non poteva essere chiamata in modo diverso dall’uomo (uomo – uoma), poiché era fatta della stessa carne, con le stesse ossa. Si potrebbe dire che questa esclamazione sia il primo Cantico dei Cantici. È l’esultanza dell’uomo a cui la compagnia degli animali non può bastare: nessuno di loro era adeguato. Per fare un altro A-dàm si sarebbe dovuto spaccare in due il primo, ed è quello che Dio ha fatto. Le due creature umane stanno una di fronte all’altra: io ho bisogno di te per essere me, e tu hai bisogno di me per essere te; senza te allo stesso piano io non sono io, e tu non sei tu. Dobbiamo essere insieme, essere un ‘noi’.

Questa è una parabola – si potrebbe dire – raccontata dalla Genesi per la situazione umana di tutti i tempi. Il cap. 3 ci racconta della prima volta in cui il peccato entra nella creazione, e ci racconta da dove nasce. Non ci racconta il peccato originale, ma la sua origine. Il disordine, il peccato nasce quando i due Adàm credono di essere loro i padroni del mondo in cui sono stati posti. Dio ha con-cesso loro ogni libertà, ma devono ricordarsi sempre che il Creatore è Lui e che la terra, in cui ha messo un ordine, è sua. Le creature esistenti devono essere prese per quello che sono, e nulla può essere saccheggiato: i due devono aver cura della creazione divina. La chiave della creazione è in mano a Dio!

Ricordo che una volta leggevo queste pagine in Sardegna, e un signore della provincia di Nuoro mi disse che il pensiero confermava la sua cultura. Era un grande possidente e di terre e diceva: “Se qualcuno viene a casa mia, io gli metto a disposizione tutto quello che ho. Può fare quello che vuo-le, tranne una cosa: non tocchi mia moglie, perché mia moglie sono io. Se tocca mia moglie, tocca me e questo indicherebbe che non si sente più ospite, ma vuole diventare il padrone di casa. E ciò distruggerebbe la mia ospitalità!”.

Chi si fa padrone di qualcosa sulla terra, non è più ospite di Dio, ma un usurpatore, un arrogante che vuole le chiavi di casa. E così è entrato il peccato come offesa di Dio; poi ci sarà il peccati di Caino, il fratello contro il fratello; poi il peccato dei costruttori della torre di Babele, che vogliono elevare dal basso una torre che arrivi fino al cielo. In sostanza, è l’uomo che sulla terra vuol fare da solo; vuole fare e fare, dimenticando chi è, dimenticando di essere uno ‘fatto’ da Dio. Noi siamo stati ‘messi al mondo’, non ci siamo messi al mondo da noi stessi; noi siamo innanzitutto passivi…

Dalla fine del cap. 2 di Genesi fino al cap. 11 è la storia mescolata del mondo che va avanti – perché è buono e bello, dal momento che Dio l’ha fatto così –, ma con questo inquinamento del peccato umano che colpisce le tre dimensioni: contro Dio, contro il fratello/sorella, contro la terra (cc. 3; 4; 11). E quando questi tre peccati si mescolano, viene fuori il diluvio universale, con la terra che ritorna al caos primordiale, quando «la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». È un po’ quello che sta succedendo anche oggi: noi stiamo inquinando tutto – l’aria, le acque, la terra, l’uomo – però la creazione va avanti perché la terra è di Dio e gli uomini non sono capaci di inquinare il mondo fino a distruggerlo, anche se possono ridurlo ad un deserto. Quel terribile tsunami è stato un po’ l’esempio del diluvio universale ed è servito a far prendere coscienza dell’errato uso dell’energia.

La terra va avanti, sia pure con tutte queste falle prodotte dall’azione umana che da una parte fa progredire la creazione, e dall’altra la compromette con la sua mancanza di regole, di ordine.

La terza parte del libro della Genesi è una ricostruzione dell’ordine della creazione fatta da Dio, partendo proprio dal diluvio universale. Ma è una ricostruzione fatta in un modo singolare, strano. La nuova creazione adesso si chiamerà ‘alleanza’, redenzione, liberazione dal peccato.

Quindi nel libro della Genesi ci sono tre capitoli: creazione, peccato, redenzione/alleanza. La sal-vezza dal peccato viene fatta attraverso un solo uomo, un certo Noè, a cui Dio, in campagna, ordina di costruire un’arca, una grande barca. Questo fa sorridere i vicini, che vedono la costruzione di un’imbarcazione sulla terra: è il ritratto del giusto sofferente, al quale Dio domanda di fare una cosa saggia, ma in mezzo ad un popolo che lo irride. La storia del giusto sofferente comincia qui, e ve-

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diamo come viene letta dalla lettera agli Ebrei: «Per fede, Noè, avvertito di cose che ancora non si vedevano…». Parla di cose che ancora non si vedevano. Nel mondo di Dio ci sono le cose che si vedono e quelle che ancora non si vedono, ma sono reali. Bisogna stare attenti nel credere che il mondo sia fatto soltanto dalle cose che si vedono e si toccano. Le cose più importanti non si vedono ancora, e Paolo stesso afferma che le cose che si vedono passano, mentre quello che non si vedono durano. Dobbiamo fare attenzione a quello che vediamo con gli occhi, perché non sta tutto lì!

«…preso da sacro timore, costruì un’arca per la salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo e ricevette in eredità la giustizia secondo la fede» (Eb 11,7). Questa è l’economia dell’alleanza che Dio farà con Noè e con la sua famiglia. Ma la sua famiglia rappresenta tutto il genere umano, poiché sono gli unici superstiti del diluvio. Tutti noi, allora, siamo la famiglia di Noè, di questo eroe leggendario che fa parte del racconto sapienziale.

Nell’antichità i diluvi si sono verificati, ma non si può parlare di un diluvio ‘universale’, che coinvolgesse tutta la terra, dal momento che gli autori di Genesi non conoscevano tutta la terra… Probabilmente alludono proprio ad uno tsunami del Tigri o dell’Eufrate, che essi vedono come tutta la terra sommersa dall’acqua. Del resto, il racconto non è storico, ma sapienziale, come sapienziale è il personaggio di Noè.

Questa economia della ‘salvezza attraverso uno’ comincia con la storia di Abramo. È la terza par-te del libro della Genesi, quella dedicata ai patriarchi – Abramo, Isacco, Giacobbe – che sono per-sonaggi attraverso cui Dio mette rimedio ai tre peccati fondamentali della seconda parte, cioè quello contro Dio (con la fede di Abramo), contro il fratello (con il dialogo tra Isacco e Ismaele, e poi la riconciliazione tra Giacobbe e Esaù), contro la terra (Giuseppe e i fratelli riuniti, invece della torre di Babele). Vediamo quindi il racconto di Emmaus: Gesù fa capire che nelle Scritture è già presente il peccato di Caino contro Abele, del fratello contro il fratello; è già scritto il peccato di gelosia nel-le vicende di Isacco-Ismaele e Giacobbe-Esaù. Soprattutto c’è il peccato dei fratelli di Giuseppe, che addirittura lo vendono, lo danno per morto e raccontano al padre che è stato sbranato dalle bel-ve; lui, invece, sarà la salvezza per la sua famiglia, per l’Egitto e per le nazioni intorno, colpite dalla carestia. Il mondo viene salvato da un uomo che era stato tradito da tutti i suoi fratelli, e che è di-ventato l’àncora di salvezza per la sua famiglia e per i paesi colpiti dalla fame.

Questa è l’immagine del piano di Dio su tutta la nostra storia, fatta attraverso l’economia dell’alleanza e della salvezza, che non è più l’economia del creato tutto insieme, ma di qualcuno che è scelto mentre sembra emarginato dagli altri, buttato fuori. In tale economia, il vero Noè sembra essere Abramo, e il vero Giuseppe sarà Gesù.

Come si vede bene, allora, la Genesi non è il primo libro della storia, ma è il libro della storia del mondo. È un libro sapienziale in cui ci sono tanti personaggi che hanno nomi storici, ma non deve essere preso come un libro di storia nel senso in cui intendiamo noi. E non è nemmeno un libro di filosofia. È invece come una grande parabola; se volete, si può usare anche il termine ‘favola’: è la grande favola di Dio sul genere umano. Siamo tutti creati da Dio, siamo tutti esseri umani alla pari, perché così ci vuole il Signore. E quello che Lui vuol fin dall’inizio, di certo lo realizza poiché nes-suno può contrastare la sua volontà; riesce a realizzare il suo piano, sia che noi ci mettiamo d’accordo con Lui, sia che gli resistiamo.

Tuttavia la salvezza avviene attraverso una storia particolare. È la storia di alcuni che a prima vi-sta ci appaiono come sfortunati, come rigettati, come messi da parte, e che invece diventano i salva-tori degli altri, cominciando da Abele, da Giuseppe, dall’arca di Noè che, invece di essere un grande transatlantico in grado di trasportare tutti, è una barca in cui può stare solo una famiglia. E Noè di-venta la salvezza per tutti. Dio presenta questa economia della redenzione attraverso una certa po-vertà di mezzi, una certa povertà personale: non c’è mai una marcia trionfale, ma piuttosto la sa-pienza della croce. Attraverso l’apparente sventura di uno solo, attraverso la sua sofferenza e la sua umiliazione, Dio prepara la salvezza per tutti. La salvezza viene, e ci sarà da mangiare e da bere per tutti! Giuseppe, respinto dai suoi fratelli, prepara invece una grande cena a cui partecipa tutta l’umanità dei tempi ultimi.

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Ritornando all’inizio delle nostre conversazioni, ripeto che il titolo di questo libro è “In princi-pio”. Come rispondere alle domande: come è nato il mondo? chi siamo? che cosa ci stiamo a fare? chi ci ha messo al mondo? che cosa significa essere uomini e donne? Il nostro problema di sempre e in tutti i campi è la ricerca del senso. Anche nel caso di una malattia molto dolorosa, non è tanto la sofferenza fisica ad avvilire, quando il domandarsi a che cosa serva.

Si desidera avere l’interpretazione delle cose che ci succedono, ma di per sé la domanda sul per-ché del nostro essere al mondo, visto che si nasce, si cresce e poi si muore, è stupida. Lo ricorda an-che Gesù quando dichiara stolto colui che accumula con fatica tanti beni di cui godranno i suoi ere-di e non lui

In principio c’è questa storia e c’è questa risposta: attraverso ciò che sembra più assurdo, attra-verso addirittura la morte, che sembra la fine di questa vita terrena, si apre l’orizzonte della vita ri-sorta, che non finisce mai. E questa vita che non finisce si prepara qui, per cui il punto di arrivo è da costruire adesso. Anche il mondo creato dall’uomo diventa una parabola: guardate come i treni sono belli. Adesso ci sono le ‘Frecce’ – rosse, nere, blu –, e poi in treno si può usare il computer e navi-gare in Internet, e ci sono sale da pranzo e letti per dormire in un viaggio di notte, e ci sono libri e giornali… Noi cerchiamo di rendere sempre più bello e più comodo il treno, tuttavia ad un certo punto bisogna scendere, e bisogna conoscere la stazione d’arrivo. Se il treno è bello, ma non porta ad una stazione conosciuta a che cosa serve? Si inizia il viaggio avendo di vista la stazione d’arrivo, che sarà certamente ancora più bella e gradita del treno, che è solo un mezzo per arrivarci.

La Genesi ci racconta il principio per dirci come si arriva alla fine, quale è la conclusione di tale principio. Ed è il mondo riunito in comunione intorno a Giuseppe, al fratello tradito che, nella sua sapienza, ha preparato una grande cena per tutta l’umanità. Una moltiplicazione infinita dei pani per la nostra vita di sempre.

E comincia la storia d’Israele, con il libro dell’Esodo.

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Terza riflessione Abbiamo visto come la Genesi sia un panorama su tutta la storia della salvezza. Direi che ogni

tappa che troviamo nello svolgimento della storia biblica è un’anticipazione di tutta la storia. C’è uno sviluppo dinamico che abbraccia sempre tutti e tre i campi: Dio, uomo/donna, terra, in un modo anticipatorio, come una tappa che semina la tappa successiva. È quello che si può chiamare un pen-siero ‘ciclico’ della Bibbia, inteso però non come il ciclo delle stagioni, ma come un ciclo dinamico, che si muove in avanti, in modo che dal principio alla fine troviamo sempre gli stessi triplici capi-saldi, quelle tre colonne, ma in uno stadio di compimento ulteriore, successivo. E abbiamo visto che in questo ciclo anticipatorio, quasi una parabola di tutta la storia seguente – la creazione di Dio, il rapporto tra gli uomini (peccato), il rapporto degli uomini con la terra (alleanza) – ci sono due mo-menti propri di Dio (creazione e alleanza). La prima e l’ultima parola sono del Signore, in mezzo c’è la storia umana con momenti di grazia e di peccato, di confusione; a volte essa pare fermarsi, ma il piano di Dio va avanti.

E andando avanti si passa da una creazione che riguarda tutto e tutti (e dicevamo che quello di an-ticipare tutta la vicenda umana è un grande servizio reso da Israele all’umanità), al modo in cui Dio riprende le fila della creazione. Si passa dalla creazione del mondo alla storia di Dio nel mondo. Nelle vicende dei patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, questa storia diventa la storia di una fami-glia. Non è molto importante andare a vedere che cosa ci sia di veramente storico, anche se indub-biamente ci sono degli elementi storici, perfettamente riconoscibili. L’importante è la lezione che Dio ci vuole dare con questa storia: bisogna ricostruire il mondo dal peccato, nel rapporto con Dio, nel rapporto del fratello con il fratello/sorella e nel rapporto fra gli uomini e la terra. In questa rico-struzione, la ‘medicina’ al peccato degli uomini sono la fede, la carità e la speranza. La Bibbia non ci fornisce questi termini, ma praticamente è così.

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Il peccato contro l’obbedienza a Dio viene ripagato dalla fede di Abramo. È una fede difficile, perché non è più l’obbedienza richiesta nel giardino da parte dell’uomo e della donna, ma si tratta di una ‘medicina’ che deve sanare la ferita, e quindi c’è anche qui l’inizio della sofferenza, con la ri-chiesta divina di sacrificare il figlio Isacco.

Poi c’è il rapporto tra i fratelli, Isacco e Ismaele, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli, che esige la ricomposizione nella carità.

Infine c’è il rapporto con la terra. Il peccato della torre di Babele, con gli uomini che si vogliono costruire il futuro partendo dal basso; essi vogliono ‘farsi un nome’, mentre il nome viene dato da Dio, che all’inizio ha chiamato Adàm l’umanità. Farsi un nome da sé è l’arroganza dell’uomo! Eb-bene, Giuseppe, con la sua sapienza, riconduce ad interpretare la terra, e quindi ad organizzarla in modo che diventi luogo di comunione per tutta l’umanità nella benedizione del nome di Dio.

Noi cristiani possiamo riconoscere già, in questo disegno nella vita dei patriarchi, un’educazione, una pedagogia di Dio per rieducare l’umanità alla fede, alla carità, alla speranza. Questa è la medi-cina di Dio! Noi le chiamiamo ‘virtù teologali’, cioè provenienti da Dio, suo dono.

Dopo questo, troviamo un altro momento fondamentale, che è quello dell’esodo, Ma insieme al libro dell’Esodo dobbiamo mettere anche il Levitico, il libro dei Numeri e il Deuteronomio, cioè il Pentateuco, praticamente. I quattro libri dopo la Genesi ci raccontano – anch’essi a modo di narra-zione, questa volta vera – la storia d’Israele e ci spiegano, si potrebbe dire, come Dio educhi il suo popolo e come, attraverso questo popolo, voglia educare tutto il genere umano.

Anche in questo caso non possiamo fermarci a tutte le tappe del cammino nel deserto, ma cer-chiamo di cogliere la lezione fondamentale, sempre tenendo presente la spiegazione di Gesù ai di-scepoli di Emmaus: egli avrebbe dovuto soffrire per entrare nella sua gloria. In controluce si intra-vede che la via della salvezza per il popolo passa attraverso la sofferenza, la prova, la passione, la croce. Quello che li ha spaventati e li ha fatti allontanare da Gerusalemme, era in realtà il punto chiave, già racchiuso nella Bibbia che loro conoscevano.

Allora in che cosa consiste questa tappa dell’esodo? Innanzitutto c’è la partenza dall’Egitto. An-che nel caso di Abramo il Signore gli aveva ordinato: «Esci dalla tua terra», perché c’è qualcosa da cui bisogna staccarsi. Non è la terra in quanto tale, poiché essa è dono di Dio; e del resto, anche se lascia la terra di Ur deve poi andare in un’altra terra… Bisognava staccarsi dalla mondanità, da quello che poi l’evangelista Giovanni chiamerà ‘il mondo’. Ma che cos’è la mondanità? È quella re-altà sottintesa nell’esempio che vi ho fatto del treno e scambiarlo per la nostra vita normale. ‘Pren-dere’ questa vita terrestre che abbiamo come se fosse l’unica nostra vita e insediarvisi. Come sape-te, oggi uno dei problemi più gravi d’Israele è l’insediamento dei coloni in terra palestinese. C’è questa mania di insediarsi, che è il peccato fondamentale del genere umano: io mi insedio nel mio corpo, nella mia famiglia, nel mio stato di salute; cerco di sopravvivere a tutti i costi, con tutte le macchine possibili e immaginabili (è il discorso del testamento biologico). Io mi insedio qui e, par-tendo dal basso, comincio la costruzione di una torre che va verso il cielo.

La mondanità è il non capire ciò a cui Dio ha chiamato Abramo: fare il pellegrino. La vita umana su questa terra è l’inizio di un pellegrinaggio che deve arrivare ad una destinazione. Il Signore non dice ancora quale sia questa destinazione, che per noi è il Cristo risorto; ad Abramo parla di una ter-ra promessa, di un paese dove scorre il latte e il miele, ma per giungervi deve lasciare la mondanità.

Qui la mondanità è rappresentata dall’Egitto. In questa regione normalmente non piove, ma c’è il grande fiume, il Nilo, che assicura l’acqua. Non c’è bisogno di pregare per la pioggia, basta allarga-re il territorio vicino al fiume e si può fare un orto. La valle del Nilo è una delle più feconde della terra. Qui c’è la benedizione di Dio, quindi – pensano gli ebrei – ci insediamo in Egitto, dove c’è persino la città dei sovrani morti, che anche così vengono adorati. Le loro tombe sono bellissime, piene d’oro e di viveri come se i defunti mangiassero.

Ebbene, da questo modo di concepire la vita bisogna uscire. Il Faraone domanda che senso abbia andare nel deserto per tre giorni ad adorare Dio. Non possono farlo lì? No, non possono. Mosè ri-sponde al Faraone che lì si adora tutto, compresi gli animali che loro invece sacrificano a Dio. Gli

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ebrei non possono adorare le cose che provengono dalla terra, ma devono adorare il Signore offren-do a lui proprio i beni migliori della terra.

Andare d’accordo con gli egiziani non è possibile. Devono proprio uscire, e Mosè chiede al Fara-one: «Ci sia concesso di partire per un cammino di tre giorni nel deserto e offrire un sacrificio al Signore» (Es 5,3). Questo è il motivo ricorrente nell’Esodo: bisogna abbandonare l’Egitto per cele-brare una liturgia nel deserto. Ecco allora la Pasqua, che costa una grande prova all’Egitto con le ‘piaghe’ e che costa una scelta dolorosa anche agli ebrei, che non vorrebbero affatto lasciare l’Egitto. Quegli uomini non vogliono lasciare la mondanità: meglio essere schiavi in Egitto, che li-beri altrove! Mosè, che Dio ha chiamato per liberare il suo popolo, deve soffrire per ottenere final-mente che il popolo parta. E poi, lungo tutto il cammino, per quarant’anni, gli dicono che si stava meglio in Egitto e che sarebbe meglio ritornarvi: adesso non hanno nulla, né cibo, né acqua, né ca-sa… Quindi il servo del Signore deve soffrire per liberare il suo popolo.

E comincia questo cammino nel deserto che rappresenta un cammino topografico necessario, per-ché, se si esce dall’Egitto per andare in Palestina, bisogna necessariamente attraversare il deserto. Però questo pellegrinaggio nel deserto diventa un po’ immagine della vita umana. La cifra di qua-rant’anni non significa trentanove più uno, ma indica un numero pieno, un’avventura compiuta, e la vita umana è come un pellegrinaggio verso il deserto per arrivare alla terra promessa, che a questo punto della Bibbia è la Palestina, ma nel disegno finale è il cielo, cioè la posizione di Cristo risorto.

E che cosa avviene nel deserto? Avviene la rieducazione dell’umanità contro i tre peccati: quello dell’uomo e della donna nel giardino, quello di Caino contro Abele, e quello della torre di Babele. Alla fine c’è il diluvio universale.

La prima cosa che avviene, nel deserto, in assoluto fondamentale, è la sosta al Sinai con il dono della Tôrāh. Teniamo presente soprattutto i capitoli 19-20 e 24 di Esodo, che dicono la celebrazione dell’alleanza, quell’alleanza che è già stata significata con Noè, poi storicizzata con Abramo e rin-novata con i patriarchi Isacco e Giacobbe, e stretta adesso con tutto il popolo. Dio vuole farsi un popolo per sé nel deserto. Tutto questo poi nei profeti, da Osea in poi, viene rappresentato come un rapporto nuziale: «Perciò, ecco,… la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 1,16ss). Infatti la formula dell’alleanza sarà poi: «Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete mio popolo» (Lv 26,12).

In Es 19,1ss, Dio si presenta a Mosè all’inizio della sosta al monte Sinai, sosta che dura più o meno un anno: «Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, nello stesso giorno, es-si arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti…”».

Questa è forse la formulazione più solenne di quello che Dio vuole fare con questo suo popolo: «… Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza…». È come se Dio mettesse l’anello al dito del suo popolo, come se ci fosse uno scambio di anelli. C’è già l’idea nuziale anche nel mondo di chiamare Dio col nome di Baal – Signore, Padrone –, e c’è anche l’idea di ‘marito’, come verrà messo in luce molto più tardi da alcuni profeti: «… voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli».

L’alleanza comincia tra le differenze; l’elezione è una scelta. Dio, Signore di tutti i popoli, si sce-glie un popolo come sua proprietà particolare: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una na-zione santa». Dio comincia a provvedere a tutti attraverso alcuni. Il sogno di Dio è di fare di tutta l’umanità un regno. Ricordiamo che Giovanni il Battista e Gesù cominciano il loro ministero invi-tando alla conversione perché il regno di Dio è vicino.

Ma che cosa significa ‘un regno di sacerdoti’? Significa che i sacerdoti sono per tutti i popoli del-la terra. I sacerdoti da soli non hanno senso: essi sono per il popolo. Quindi se si parla di un ‘regno di sacerdoti’, significa che questi saranno i sacerdoti di tutta la terra e di tutti i popoli. E ciò richia-ma la vocazione di Abramo. Quando Dio lo chiama e gli ordina di uscire dalla sua terra, gli dice:

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«Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno bene-dette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).Quindi, fin dall’inizio, sia con Abramo – che è para-bola di tutte le genti –, che al Sinai, si capisce che l’elezione è per la salvezza di tutti.

Qui abbiamo due elementi fondamentali da capire: il particolare e l’universale. Dio comincia a provvedere a tutti attraverso alcuni. Ma per noi cristiani non è una novità, dal momento che il Padre ha inviato il Figlio, uno solo, per la salvezza di tutti. E noi saremo chiamati a diventare figli nel Fi-glio. Quindi il fatto che Dio abbia riservato un popolo per sé non è un sottrarre questo agli altri po-poli, ma anzi, significa dargli la missione di benedizione per tutte le altre nazioni, come la benedi-zione di Gesù sarà per tutti i popoli. Noi non siamo figli di Dio, come esseri umani, ma diventiamo suoi figli aderendo al Figlio, seguendolo, imitandolo e partecipando alla sua condizione. Quindi non è vero che ogni uomo è figlio di Dio, ma è vero che ogni uomo è chiamato ad essere figlio di Dio. Se ogni uomo fosse autonomamente figlio di Dio, Gesù non servirebbe a niente e Dio avrebbe potu-to evitargli il sacrificio. ‘Figlio’, come ‘Padre’, è un nome di elezione, per cui non è neppure vero che Dio è Padre di tutti gli uomini. Dio è Padre di un Figlio che si chiama Gesù e di coloro che di-ventano figli di Dio in lui.

Di questo dobbiamo essere ben coscienti, perché si è introdotto un pensiero e un modo di parlare, che praticamente distrugge l’alleanza e riduce tutto alla natura: basta che siamo venuti al mondo per essere figli di Dio, e noi diciamo il ‘Padre nostro’ perché è la preghiera di tutti gli uomini. Ciò è del tutto falso! Il ‘Padre nostro’ è la preghiera del Figlio, e noi non possiamo dire il ‘Padre nostro’ se non nel Figlio. Infatti la liturgia della Chiesa, già dal II secolo, prega: “Noi osiamo dire… il ‘Padre nostro’. È cosa rischiosa dire il ‘Padre nostro’, perché vuol dire mettersi nelle condizioni di figlio. Se si pensa a Dio Creatore, si può ammirare la sua potenza davanti all’aurora o al tramonto, ma se lo si vuole chiamare ‘Padre’, bisogna mettersi nella condizione di Gesù, perché soltanto lui può dire adeguatamente il ‘Padre nostro’. Noi non abbiamo il diritto di dirlo, possiamo soltanto ‘osare’, in quanto Gesù ce lo dona come preghiera sua.

Ritorniamo all’Esodo: «Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra!» (Es 19,5). Al capitolo successivo c’è la celebrazione dell’alleanza, con l’evento fondante della fede biblica: il do-no della Tôrāh. Noi usiamo il termine ‘Legge’, ma non è una buona traduzione perché nelle nostre culture la legge diventa un fatto giuridico. Tôrāh non significa ‘legge’, ma insegnamento normativo che deve essere messo in pratica. Quindi c’è l’idea della normatività, ma prima di tutto viene l’insegnamento. È rivelazione, è dono. La Tôrāh non è la voce della coscienza – che è un fatto psi-chico nostro, la capacità di essere consapevoli di quello che facciamo –, ma la rivelazione di Dio, la sua parola che scende sul popolo. Il primo atteggiamento del popolo di Dio è questo: se Dio è un Dio che parla, l’uomo è, essenzialmente e prima di tutto, ascolto.

Dio dona la Tôrāh dal monte, in una teofania di tuoni e lampi, e parla a tutto il popolo, non solo a Mosè, anche se costui è in ascolto. Dà le Dieci Parole. Alla fine di questa rivelazione il popolo tre-ma, impaurito dal fenomeno dice a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!». Loro non riuscirebbero a reggere la trascendenza divina, il contatto diretto ed immediato con il Signore.

Ecco allora il profeta. Fino a questo punto il popolo ha ricevuto la parola di Dio direttamente, e adesso Mosè sale sul monte e continua ad ascoltare la voce del Signore. Il profeta è colui che so-stiene la voce di Dio, con tutte le difficoltà e le conseguenze che questo comporta, e poi scende e adatta la parola di Dio alle condizioni attuali del popolo perché tutti possano continuare a cammina-re alla luce della Tôrāh, commentata e spiegata appunto dal profeta.

Direi che questa è la condizione fondamentale del cammino nel deserto, in cui il popolo è educato a seguire il Signore senza discutere. Il cammino nel deserto è il tempo in cui il popolo è ‘portato in braccio’ dal padre, come dice Osea. Praticamente il Signore fa tutto. Il popolo ha fame? Ecco il cibo da mangiare. Il popolo ha sete? Gli farà trovare l’acqua.

Ma che cosa fa il bambino? Qualche volta piange perché ha fame e ha sete, ma non è ancora l’ora del pasto. E il Signore invita il suo popolo a pazientare, perché dalla roccia scaturirà l’acqua. Del

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resto è un fenomeno effettivamente riscontrabile, anche se alcuni fenomeni vengono presentati co-me miracoli, mentre sono fondati sulla struttura geografica del territorio. Nel deserto, guardate, non si muore di fame: si trova sempre qualcosa da mangiare e si può sopravvivere. Ci sono perfino delle piante che in primavera producono della farina.

Nel deserto, Dio fa praticamente da ‘balia’ al popolo e il popolo viene abituato a farsi educare a ricostruire l’ordine turbato dai tre peccati. Infatti con la Tôrāh Dio parla e gli uomini ascoltano. Chiama Abramo e mostra il primato della sua parola e dell’ascolto; si incomincia dando la parola a Dio, e la preghiera cristiana è innanzitutto ascolto della parola del Signore. Quello che dice Lui è certamente più importante di quello che sento io, perché mi conosce e mi ama più di quanto io co-nosca e ami me stesso. Il primato di Dio è contro il peccato dell’uomo e della donna, commesso nel giardino.

Nel deserto, poi, ciascuno di questi schiavi liberati dall’Egitto pensa solo a se stesso. È del resto quanto ci viene detto dalle tante testimonianze di persone chiuse nei campi di concentramento, ri-dotte a rubare il pane agli altri affamati per sopravvivere. Ma in questo cammino vengono educati a diventare un popolo di fratelli e di sorelle: tutti devono pensare a tutti.

Pian piano Mosè li divide per tribù e per gruppi, poi assegna i compiti e i servizi, compreso il cul-to del Signore. Tutto il popolo sarebbe destinato al culto del Signore, ma non tutti possono passare tutto il tempo per la liturgia: bisogna lavorare, costruire o riparare le tende, preparare il cibo, accu-dire il bestiame… Perciò al culto del Signore provvede una tribù particolare, quella di Levi, mentre le altre tribù si dedicano alla vita sociale del popolo che si sposta nel deserto e cresce di numero. Per attraversare il deserto non ci vogliono certo quarant’anni, e allora questa cifra sta ad indicare una vita nomade. Vuol dire che, pur muovendo verso la terra promessa – che ancora non si è individua-ta, visto che ogni tanto Mosè manda degli esploratori per raccogliere notizie –, vivono nel deserto come nomadi. Ancora oggi ci sono dei nomadi nel deserto, i beduini, e ancora oggi non si sa bene chi comanda, nel Sinai; di per sé fa parte dell’Egitto, però gli egiziani sono lontani, e i beduini si gestiscono con le loro regole, con le loro leggi. Se una donna beduina venisse infastidita o aggredita mentre segue le greggi, si scatenerebbero vendette per intere generazioni. Queste tribù hanno i loro costumi, più forti delle leggi dello stato.

Ebbene, Israele ha vissuto così nel deserto, in queste condizioni di nomadismo, per un certo pe-riodo di tempo. Poi c’è l’incontro al Sinai e, dopo un anno, Dio chiama Mosè e lo sollecita a partire per la terra promessa. Ma lui rifiuta di allontanarsi dal monte su cui dimora il Signore; non se ne andranno senza di Lui. Allora Dio accetta di andare con loro, nella nube di giorno e nel fuoco di notte, e li guida verso la terra promessa: «Perché la nube del Signore, durante il giorno, rimaneva sulla Dimora e, durante la notte, vi era in essa un fuoco, visibile a tutta la casa d’Israele, per tutto il tempo del loro viaggio» (Es 40,38). La Parola quindi è la fede, la terra è la speranza, e gli schiavi che diventano un popolo rappresentano la carità.

Pero, come c’era da aspettarsi, ci sono i peccati propri del deserto. Questo ciclo si ripete. Quando Dio prende la parola tutto va bene, ma quando essa deve essere messa in pratica dagli uomini, non tutti lo fanno. C’è chi esce dall’Egitto ma poi vuole riprodurre le stesse condizioni anche cammi-nando nel deserto. Questo comincia dal rammarico di essere usciti dall’Egitto; c’è la mormorazione contro Mosè, ma in realtà contro Dio: «È forse perché non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai por-tati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto, portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: “Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”?» (Es 14,11-12). Perché ci ha fatto uscire dalla mondanità dell’Egitto per farci ritrova-re qui, in questa solitudine, dove non c’è più una discoteca, un film, un televisore? Ecco, questo fa parte dell’educazione per rimettere l’uomo nella sua condizione di creatura e di figlio davanti a Dio, perché ritrovi il senso della sua esistenza, dal momento che più abbonda di cose e meno comprende che cosa è lui, più cose possiede e più vi si perde dentro.

Le ricchezze non sono un male e l’abbondanza è una benedizione del Signore, ma il male è quello di prendere questi mezzi come un fine, e quindi di attaccarsi ad essi con tutte le nostre forze.

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Il primo peccato, perciò, è contro Dio con la mormorazione. Non capiscono che è il passaggio dalla schiavitù alla libertà. Non sono le cose (il Faraone) a dover essere servite, ma il Signore.

Poi c’è il peccato dell’uomo contro l’uomo, cioè la mormorazione contro Mosè, perfino da parte di suo fratello e di sua sorella: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?» (Nm 12,1). È la gelosia, l’invidia, le chiacchiere…

E infine il peccato contro la terra: «La terra che abbiamo attraversato per esplorarla è una terra che divora i suoi abitanti; tutto il popolo che vi abbiamo visto è gente di alta statura. Vi abbiamo visto i giganti» (Nm 13,32-33). Non arriveremo mai alla terra promessa, andremo soltanto verso la morte: «Fossimo morti in terra d’Egitto o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci fa entrare in questa terra per cadere di spada? Le nostre mogli e i nostri bambini saranno preda. Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?» (Nm 14,2-3).

Di nuovo, quindi, si rinnovano i tre peccati contro le tre relazioni fondamentali. E così si va avan-ti per tutti i quarant’anni, finché ad un certo punto si arriva. Il libro dei Numeri è molto ricco di de-scrizioni dei fatti (le quaglie, l’acqua dalla roccia, gli scontri con gli altri popoli che vivono nel de-serto e che vogliono intercettare il cammino d’Israele…).

Alla fine si arriva alla frontiera del Giordano, dove Mosè fa il suo testamento e muore prima di entrare nella terra. Lui, a cui Dio aveva dato le istruzioni più complete per vivere adeguatamente nella terra promessa, e che quindi sarebbe stato il più competente per condurre il popolo, muore sul-la frontiera, sul monte Nebo. La ragione non è molto chiara; pare che avesse dubitato della potenza divina, battendo due volte il bastone sulla roccia anziché una volta sola. Comunque anche qui c’è la figura del servo sofferente del Signore.

Ricordiamo che Gesù, nel dialogo con i discepoli di Emmaus, spiega le Scritture dicendo che, a cominciare da Mosè, il prescelto da Dio deve soffrire. La morte di Mosè, come è raccontata nell’ultimo capitolo del Deuteronomio, è molto bella (Dt 34). Dopo il testamento e la nomina di tut-te le dodici tribù, alla fine viene descritta la sua morte: «Mosè, servo del Signore…». Notiamo que-sto titolo, che verrà poi ripreso dal Secondo Isaia e che da un lato significa schiavo, e dall’altro si-gnifica primo ministro. Servire il Signore è un onore; essere suo schiavo vuol dire aver trovato un vero padrone. «… morì in quel luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine del Signore». In ebrai-co è detto: la bocca del Signore, per cui Mosè muore nel bacio di Dio.

«Fu sepolto nella valle, nella terra di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha sapu-to dove sia la sua tomba». Ancora oggi non si sa dove sia stato sepolto. Probabilmente c’è l’idea di una sua assunzione al cielo che poi sarà ancora più esplicita in Elia («Mentre continuavano a cam-minare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo. Eliseo non lo vide più» - 2Re 2,11-12) e in Enoc («Enoc camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l’aveva preso» - Gn 5,24) e infine anche in Gesù. Mosè era amico di Dio! I musulmani ritengono Mosè un grande profeta e hanno costruito un cenotafio di Mosè al di qua del Giordano, cioè nella terra promessa. C’è una moschea dedicata al ‘profeta Mosè’, per af-fermare che egli è entrato nella terra promessa, dal momento che la terra promessa è il Signore stes-so, che ha preso con sé Mosè.

Questa vicenda dell’esodo, con il deserto e il Sinai, resta il modello di come Dio educhi il suo popolo lungo il cammino di questa vita. Quindi il libro dell’Esodo, insieme agli altri libri che parla-no di Israele nel deserto – specialmente il Deuteronomio, che è una rilettura di questa storia fatta più tardi, e che comprende tutti i discorsi fatti da Mosè al popolo per dire come vivere nella terra pro-messa, una volta che si è entrati – rappresentano la prima parte della Bibbia, quella che gli ebrei chiamano la Tôrāh, che è quello che Dio fa con le sue mani per educare il popolo.

La Bibbia ebraica è di fatto suddivisa in tre parti: la Tôrāh, i Profeti e gli Scritti. Non è soltanto una divisione letteraria, ma anche spirituale: è il cammino dell’uomo.

È bene soffermarsi un attimo a riflettere su tutte queste cose, e rileggere la stessa storia nella pro-pria esistenza, per portare a casa questa lezione del deserto e riconoscere le tappe della propria vita nelle tappe del cammino d’Israele, le tappe dell’alleanza.

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Quarta riflessione Vorrei spiegare meglio la struttura della Bibbia. Noi abbiamo distinto il Pentateuco, i libri storici,

i libri profetici, i libri sapienziali, secondo uno schema molto superficiale, applicando ai libri biblici le categorie che sono nostre. Ad esempio, non ci sono ‘libri storici’ nel senso nostro; è infatti fonte di un equivoco prendere quei testi come ‘storia’, perché è una storia particolare, spirituale, profeti-ca. Perciò io preferirei che aderissimo alla suddivisione ebraica: Tôrāh, Profeti e Scritti sapienziali.

I libri storici sono presi come profetici, anche 1-2Re, 1-2Samuele, Giudici. Questa divisione è molto importante dal punto di vista spirituale perché è l’itinerario della parola di Dio nella vita u-mana.

Il primo gruppo è la Tôrāh, cioè la parola che Dio fa scendere dal Sinai sul suo popolo e che il popolo riceve ascoltando e proclamando: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi prestere-mo ascolto» (Es 24,7). Sembra un controsenso, ma in realtà per ascoltare bene bisogna incominciare già a fare. Se vuoi capire la parola di Dio che ti è arrivata oggi, mettila in pratica: domani la capirai meglio. Questa è la dinamica di cui abbiamo parlato diverse volte: la Parola va capita camminando. Non si può dire: prima ascoltiamo tutto e poi lo mettiamo in pratica. Bisogna mettere in pratica ogni giorno per capire meglio domani.

Il secondo gruppo è quello dei Profeti. È quello di Mosè, il quale sale sul monte poi scende e sve-la la parola di Dio portandola alla riflessione del popolo, a quello stadio di evoluzione spirituale e sociale che egli conosce. Cioè, c’è la Didaché, la catechesi, che non è il primo annuncio o il primo ascolto, ma è la spiegazione di quello che si è ascoltato, per la quale è necessario il maestro, cioè il profeta.

Infine c’è il terzo gruppo, quello degli Scritti sapienziali, in cui il credente ha ascoltato, ha capito la spiegazione del maestro/profeta, ed è consapevole di ciò in cui ha creduto.

Il livello del primo gruppo è quello di ascoltare e scegliere di credere. Il secondo è il capire me-diante la spiegazione. Il terzo, infine, è il sapere. La mia sapienza è la parola di Dio che ha penetrato la spiegazione del maestro, poi ha penetrato il mio sapere – cioè la mia filosofia della vita –, bonifi-cando il sapere umano che ogni uomo ha tratto dalla propria esperienza. A questo punto il credente è cresciuto e si conduce da sé. Ricordiamo la Samaritana che, incontrato Gesù, diventa profetessa nel suo villaggio e «molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della don-na…Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salva-tore del mondo”» (Gv 4,39ss).

Sono dunque i tre stadi del cammino del credente. Sempre in questo modo sintetico con cui dobbiamo procedere vi parlerei del periodo della con-

quista della terra promessa e della prima forma del regno. Il regno è già presente al cap. 19,6 di Esodo: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una na-

zione santa». Dio vuol fare di Israele, del suo popolo, un regno particolare, e questa avventura del regno comincia con la conquista della terra promessa. Si passa il Giordano sotto la guida di Giosuè – poiché Mosè è morto e ha lasciato a lui in eredità il compito di condurre Israele – e c’è una prima sorpresa: la terra promessa, che è un dono, deve essere in realtà conquistata, perché c’è altra gente. Il dono di Dio è già abitato da altri! Si scopre l’esistenza dell’altro nel piano di Dio che ci riguarda.

Israele avrebbe potuto obiettare che il paese donato avrebbe dovuto essere suo e avrebbe dovuto essere disabitato. Invece è già abitato da altri, come era capitato ad Abramo in Gen 12. Aveva la-sciato la sua terra obbedendo a Dio che gli aveva promesso una terra nuova, e quando vi arriva la trova abitata dai Cananei.

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Così il popolo di Dio scopre di dover contrattare con gli altri che non appartengono ancora al po-polo di Dio, scelto perché sia un popolo di sacerdoti. Ed ecco allora la scoperta dell’altro, che è dif-ferente in quanto non scelto da Dio, però sta lì, ed è pure lui, come Israele, un essere umano, creatu-ra, chiamato a diventare ‘figlio’ entrando nell’alleanza e restandole fedele.

E come ci si comporta con l’altro? Questo è il primo capitolo della conquista. L’altro mi può ap-parire come un intruso – mentre in realtà l’intruso sono io – perché di quel territorio ho bisogno…

Il popolo di Dio che ha vissuto nel deserto e si è abituato alla cultura del deserto, coltivando la terra ed allevando le greggi, nutrendosi di latte, di formaggi e di datteri, adesso deve imparare nuo-ve culture, deve scoprire un paese fertile in cui i prodotti sono diversi. Deve imparare le tecniche e i tempi per coltivare i terreni, conoscere quali sono le piante più adatte… E chi glielo insegna, tutto questo? Gli abitanti del paese. Allora si forma con l’altro un rapporto di vicinanza, di sospetto, di gelosia, un po’ come per Caino e Abele.

Nella Bibbia c’è un mistero. Si racconta sempre: “Un padre aveva due figli…”. Non c’è mai un figlio solo, neppure nelle parabole di Gesù. Anzi, se risaliamo proprio al principio, Dio ha creato l’uomo e la donna; erano due chiamati a diventare uno, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Ma all’inizio erano due, diversi, anche se destinati alla comunione. Gli uomini da sempre devono af-frontarsi, in qualche modo. Così è successo al popolo di Dio, ma anche agli altri che si saranno chiesti chi mai fossero quelli che arrivavano. E notiamo bene che, nonostante i tentativi d’Israele, gli altri resteranno sempre nel paese, e questo paese si chiamerà, come si chiama ancora oggi, con due nomi. Oggi c’è Israele e Palestina, ma si è chiamato ‘terra di Canaan’ e Israele, o terra dei greci e degli ebrei, a seconda delle varie epoche. Ai tempi di Davide c’erano i filistei dai quali Davide si è fatto aiutare in più occasioni. Ha messo in salvo tutti i suoi parenti presso le altre tribù degli abitanti del paese. Qui nasce un problema forte: la fede del deserto, la fede del Sinai, che di quella massa di schiavi ha fatto un popolo, deve affrontare la fede degli altri popoli.

Nasce il problema del confronto tra culture/colture e fede, un grande problema che Giovanni Pao-lo II ha affrontato tante volte. Diceva che la fede deve produrre una cultura che vada d’accordo con la fede. Ma che cosa è la cultura? È l’insieme di consuetudini che noi troviamo venendo al mondo, proprie della società in cui nasciamo. Noi troviamo un paese, una lingua, una geografia, una terra di cui mangiamo i prodotti, e ci facciamo una cultura facendoci delle idee nel corso della vita quoti-diana. Impariamo chi è l’uomo e chi è la donna, che cos’è la pace e che cos’è la guerra, che cosa si coltiva nei campi, come si affrontano la pioggia e la siccità, quali sono i prodotti legati alle varie stagioni, che cos’è la vita e che cos’è la morte.

Nascendo, quindi, troviamo un mondo già abitato e interpretato. Voglio sottolineare questa idea, perché la nostra cultura si forma mediante l’interpretazione fatta da chi ci ha messo al mondo. Im-pariamo una particolare lingua, tanto che impararne un’altra diventa difficile; ci sono delle conso-nanti che altri popoli sanno pronunciare e noi no. Un umorista israeliano dice che Israele è un paese in cui i padri imparano dai figli la lingua dei nonni, perché gli ebrei che vengono dall’Europa non sanno pronunciare tutte le consonanti proprie dell’ebraico, poiché non le hanno imparate da bambi-ni. Adesso i figli imparano a pronunciare bene le parole perché le imparano dagli anziani, e quindi i padri imparano dai propri figli.

Tutto questo è cultura, e non ci viene insegnato dal Signore, ma dall’esperienza umana e dai no-stri predecessori, i nostri parenti, il nostro popolo, la nostra tribù, il nostro clan. In tutte le culture ci sono certamente dei valori positivi, ma anche negativi. Ricordiamo bene la tentazione di Giacomo e Giovanni: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impe-dito, perché non ti segue insieme con noi» (Lc 9,49). Ci sono gli amici e i nemici; ci sono i nordisti e i sudisti, i bianchi e i neri. Per troppi secoli, purtroppo, abbiamo pensato che gli africani fossero neri perché dovevano essere schiavi dei bianchi: non erano gente come noi!

E per queste diversità ci sono competizioni, gelosie, invidie… Ebbene, entrando nella terra promessa, Israele si trova di fronte questi problemi quando viene a

contatto con le popolazioni residenti in quel territorio. E naturalmente ci sono scontri e lotte.

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Ecco allora il problema: come può, la fede che viene da Dio e non è un dato di esperienza umana, incontrarsi con i dati dell’esperienza umana che ci troviamo tra le mani?

Tutto questo è narrato in modo efficace da due libri della Bibbia: Giosuè e Giudici che, apparen-temente sembrerebbero in contraddizione. Infatti il libro di Giosuè dice che Giosuè e gli israeliti passano il Giordano e in una specie di guerra-lampo conquistano in paese, dopo di che Giosuè di-stribuisce le tribù nei vari territori. In realtà si deve essere trattato di una serie di scorrerie per inva-dere la terra.

Il libro dei Giudici, invece, dà una visione opposta: i Cananei ci sono ancora, anzi, controllano le grandi strade e occupano le pianure dove ci sono i carri da guerra. Gli israeliti sono relegati sulle colline, sulla sommità dei monti, e la situazione non è affatto florida. La vita è ridotta a qualcosa di molto precario, a quanto sembrerebbe. Il Signore afferma di aver lasciato i popoli che c’erano per-ché fungano da pungolo ai fianchi d’Israele, il quale si è contaminato con loro. Certamente la cultu-ra deve essere assunta, ma bisogna stare attenti che essa non presenti anche cose che non devono es-sere assolutamente assunte. Questo capita con le culture agricole, che sono mescolate con la religio-ne, la quale può anche essere fatta di superstizione, di favole, sia nel mondo antico che in quello moderno. Anzi, nel mondo moderno abbiamo forse ancora più stregoni e più religioni esoteriche, che si rifanno agli astri, alle stagioni, a strani fenomeni atmosferici.

Bisogna stare attenti, perché sposando una cultura, si rischia di sposare concezioni false. E questo è successo agli israeliti nella terra promessa. Certo, c’è il Signore che li ha tratti dall’Egitto, ma in-sieme a Lui c’è anche il dio della pioggia, il dio del caldo e del freddo, il dio delle stagioni. Per col-tivare la vigna bisogna fare certi sacrifici… E allora bisogna cercare di fare andare d’accordo questi Baalim e queste Astarte con il Dio del Sinai.

Ma non meravigliamoci troppo, perché penso che anche nella Chiesa possa succedere qualcosa del genere. Sono sicuro che per molte persone padre Pio è più importante del Signore (in diverse parrocchie ci sono i ‘gruppi di Padre Pio’); oppure ci sono certe devozioni a Maria che hanno preso tutto il campo della fede. Questo non vuol dire che non amiamo il Signore, ma di fatto è messo da parte perché l’importante è la Madonna, tanto che c’è una stazione radiofonica che si chiama “Ra-dio Maria”. Se vuoi salvarti, invoca Maria! E c’è una supplica che si legge nel mese di ottobre e che dice all’incirca così: “Maria salvaci, perché tu sei più buona di tuo Figlio. Ferma il suo braccio, al-trimenti ci punisce. Invece tu sei più clemente e puoi calmarlo”. Come se Maria fosse più buona di Gesù Cristo.

Sono forme di cultura pagana che sono passate nella fede cristiana e la corrompono. Queste de-vozioni sono buone, ma se occupano tutto il campo e se tutto si riduce a quello, se uno è giudicato cristiano solo perché dice il rosario, è chiaro che si tratta di contaminazione della fede da parte di un elemento pagano. E siccome il cristianesimo è diffuso su tutta la terra, in ogni chiesa c’è questa me-scolanza tra la fede unica, la fede del Sinai, della Tôrāh, della parola di Dio, che si mescola con le usanze dei vari luoghi. Così vediamo famiglie, organizzate in modo maschilista, in cui il capofami-glia è rappresentante di Dio; nella cultura femminista è invece la donna ad essere mediatrice con la divinità, e può essere una mezza dea o una mezza serva. C’è poi una diversa concezione del matri-monio, di come si celebrano i funerali e, soprattutto, della vita e della morte.

Che cosa pensiamo della morte, noi che siamo qui? Il nostro pensiero della morte viene dalla fede cristiana o dagli spiriti maligni? Che cosa sarà la nostra morte? Come la immaginiamo?

E i figli, come vengono educati? Appartengono ai genitori finché questi non muoiono, oppure bi-sogna lasciarli liberi di vivere la loro vita? Perché i genitori si devono occupare dei figli grandi co-me quando erano bambini? Sono ancora i ‘nostri bambini’ o sono adulti come noi?

E il matrimonio è un patto sociale o un patto di amicizia e di amore? I due sposi si stimano e si sentono legati da amicizia e da amore, oppure hanno fatto soltanto un patto semi-commerciale (io ti accudisco e tu mi porti a casa i soldi)?

Tutti questi – ma la lista potrebbe continuare – sono tratti culturali. La conquista è il momento in cui fede e cultura cozzano insieme e devono trovare il modo di armonizzarsi, per cui sorge il pro-blema di organizzarsi. Bisogna tenere presente quello che avviene alla fine del tempo dei Giudici,

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che è un tempo molto bello. Per la verità tutto il libro dei Giudici è bello, è uno dei più belli della Bibbia. Morto Giosuè, chi è che comanda il popolo di Dio? Lo Spirito Santo, tant’è vero che ogni volta che comincia la storia di un Giudice si dice che «lo spirito di Dio investì… fu sopra a … cad-de su…». Israele vive senza istituzione statuale e sta sulle colline. Non è come gli altri popoli, che hanno i loro re, i loro eserciti, le loro istituzioni; non si è ancora formata una confederazione tra le tribù che sono uscite dall’Egitto e quelle che erano rimaste nella terra promessa (ricordiamo che dall’Egitto sono uscite le famiglie di Giuseppe, Efraim e Manasse, mentre le altre erano, a loro tem-po, rimaste nella terra).

Inoltre vive un momento di anarchia spirituale, perché il Signore provvede, ma fino ad un certo punto. Così quando dall’oriente spuntano i madianiti, Gedeone viene scelto dallo Spirito del Signo-re e con trecento uomini sconfigge i madianiti suonando la tromba. È molto bello vedere come il Signore conduce quelle che saranno poi chiamate ‘le guerre del Signore’. Il Signore non fa guerra contro nessuno. Di notte, al suono delle trombe e con una fiaccola accesa vengono sconfitti i nemi-ci. Il Signore non vuole la morte di nessuno, e appare come un’ironia il volersi opporre a Lui. Le mura di Gerico erano cadute al suono delle trombe nel corso di una processione sotto di esse…

Sono racconti poetici, che però insegnano come il Signore sia con il suo popolo e gli faccia pro-vare la gioia della vittoria contro i nemici. Eppure, dopo aver provato le esperienze più esaltanti, il popolo torna a peccare mescolandosi con le culture del tempo, attirando quindi l’ira di Dio su di sé.

Ma alla fine dell’epoca dei giudici, noi troviamo l’ultimo, Samuele, che è forse il più efficiente, il più vicino al Signore, il più santo. Samuele è nello stesso tempo giudice e profeta. Il popolo si sente sicuro sotto la sua guida, ma nello stesso tempo si domanda che cosa si farà alla sua morte, dal mo-mento che i suoi figli non sono affatto raccomandabili, pensano agli affari propri, si fanno portare le offerte per i sacrifici e se le mangiano loro. Cercano di sfruttare la situazione fraterna per fare car-riera, per accumulare denaro, per aumentare il proprio potere.

Bisogna tenere presenti i cc. 8-9-10 di 1Samuele, perché sono importanti per capire che cosa è il regno: «Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli”» (1Sam 8,4ss). “Dacci un nostro re, che ci governi in modo permanente, costituisca il nostro esercito – perché non ci si debba armare di corsa soltanto quando c’è pericolo – e lo guidi nelle guerre, riunisca le tribù in una federazione e organiz-zi la nostra società. Insomma, vogliamo essere un popolo come gli altri!”.

È importante sottolineare che Israele, scelto da Dio per essere il suo popolo, non intende rinuncia-re a questo privilegio, ma nel contempo desidera essere un regno come gli altri. Ma è possibile che il popolo di Dio sia proprio come gli altri? Traduciamolo ai tempi nostri: è possibile che la Chiesa di Dio sia un popolo come gli altri? È possibile che abbia una poltrona alle Nazioni Unite come gli altri? È possibile che abbia ambasciatori come gli altri? Ecco, questo è il problema del Regno.

Quale è la reazione di Samuele? «Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perché avevano detto: “Dacci un re che sia nostro giudice”. Perciò Samuele pregò il Signore». Il profeta è vera-mente indignato e chiede a Dio di dargli un consiglio, e il Signore gli risponde:

«Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro. Come hanno fatto dal giorno in cui li ho fatti salire dall’Egitto fino ad oggi, abbandonando me per seguire altri dèi, così stanno facendo anche a te. Ascolta pure la loro richiesta, però ammoniscili chiaramente e annuncia loro il diritto del re che regnerà su di loro: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli ar-mi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri… e voi stessi diventerete suoi servi. Ascoltali: lascia regnare un re su di loro”». Ma questo non è il tipo di Regno voluto dal Signore!.

Qui nascono i quattro secoli della monarchia d’Israele: il regno di Saul, il regno di Davide (alcuni generali del quale erano Filistei, come Uria fatto uccidere da Davide a causa di Betsabea), il regno

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di Salomone, il regno del Nord, il regno del Sud, la conquista della città di Gerusalemme, il tempio di Gerusalemme costruito dalle mani dell’uomo. Nasce una nazione come le altre, in mezzo agli al-tri popoli, ma il Signore rimane con loro perché essi sono il suo popolo fin dal deserto, fin dal Sinai. Egli però non vuole assolutamente che il suo popolo sia un regno come tutti gli altri regni; permette che sia un regno, ma deve essere un regno diverso. Quanti secoli ci vorranno perché il popolo di Dio capisca questo?

Il problema si riproduce quando Davide, una notte, fa un sogno che gli fa venire in mente di co-struire una ‘casa’ al Signore, cioè il tempio di Gerusalemme. Chiama il suo profeta personale e gli dice: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda» (2Sam 7,2 - cfr. 1Cronache 21,29: «La Dimora del Signore, eretta da Mosè nel deserto, e l’altare dell’olocausto in quel tempo stavano sull’altura che era a Gàbaon).

2Sam 7,5ss prosegue. Dio parla a Natan e gli obietta: «Va’ e di’ al mio servo Davide: Così dice il Signore: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io infatti non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Durante tutto il tempo in cui ho camminato insieme con tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei giudici d'Israele, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: Perché non mi avete edificato una casa di cedro?”…Il Signore ti annuncia che farà a te una casa e susciterà un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderà stabile il suo regno».

Si noti bene il gioco intorno alla parola ‘casa/discendenza’. Davide è un re che Dio ama e che ha scelto al posto di Saul, che era alto e forte, ma non sapeva come si doveva fare per guidare il popolo di Dio. Il problema non era del resto semplice: come si poteva essere ‘re’ di cui lo stesso Dio era re? In un certo senso, Saul porta con sé il destino del regno umano; nella sua breve vita consuma tutta la storia del regno che alla fine viene decretata dal Signore. Saul è davvero il profeta della fine del re-gno, però è lui che dà inizio a questo processo di insediamento e di istituzionalizzazione del regno.

Il Signore decide tuttavia di mettere sul trono un re secondo il suo cuore: è il più giovane dei figli di Iesse. È per ora un ragazzo, ma diventerà un maestro di preghiera, il grande salmista…

Rimane il fatto che Dio non vuole un regno di stile umano per il suo popolo. È molto paziente, il Signore, e accompagna la testardaggine dell’uomo che, quando ha un’idea in testa, non vi rinuncia mai. Poi, quando le cose finiscono male, interviene il Signore che gli è stato al fianco e lo induce a capire la strada giusta. Proprio come ad Emmaus, perché anche se ci si allontana dalla comunità, come i due discepoli, il Signore rimane sempre con i suoi.

Ritorniamo al tempio. Davide, alla fine, raccoglie comunque una grande quantità di materiali pregiati per costruirlo, ma Dio non vuole che venga edificato da lui perché ormai ha troppo sangue sulle mani, a causa delle guerre combattute e dei nemici uccisi.

“Ti vogliamo costruire una cattedrale imponente e meravigliosa, Signore!”. “Bene, e con che de-naro la costruirete? Chi sono i benefattori che contribuiscono? Come si sono arricchiti, questi bene-fattori? Con quale scopo volete erigere una cattedrale?”. Ci sono dei quartieri, nelle nostre città, nati intorno ad una chiesa che era stata costruita in quel luogo, distante e raccolto. Se queste case nasco-no numerose intorno ad essa, significa che quella vicinanza è economicamente vantaggiosa; ma che cosa ha a che fare, il Signore, con questi interessi economici?

«Davide, prima di morire, fece preparativi imponenti. Poi chiamò Salomone, suo figlio, e gli co-mandò di costruire una casa al Signore, Dio d’Israele: “Figlio mio, io avevo deciso di costruire una casa al nome del Signore, mio Dio. Ma mi fu rivolta questa parola del Signore: Tu hai versato troppo sangue e hai fatto grandi guerre; per questo non costruirai una casa al mio nome, perché hai versato troppo sangue sulla terra davanti a me. Ecco, ti nascerà un figlio, che sarà uomo di pa-ce; io gli concederò la tranquillità da parte di tutti i suoi nemici che lo circondano. Egli si chiame-rà Salomone. Nei suoi giorni io concederò pace e tranquillità a Israele. Egli costruirà una casa al mio nome; egli sarà figlio per me e io sarò padre per lui. Stabilirò il trono del suo regno su Israele per sempre’. Ora, figlio mio, il Signore sia con te perché tu riesca a costruire una casa al Signore, tuo Dio, come ti ha promesso» (1Cr 22,7-11).

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Ma Dio non vuole il tempio, perché il tempio fa pensare immediatamente che Lui sia lì e non fuo-ri e che per incontrarlo si debba per forza andare nel tempio, davanti al tabernacolo. E nasce tutta una religione – che è la religione d’Israele – accentrata attorno al lume del Signore che abita nel tempio di Gerusalemme.

Dio non desidera affatto il regno come lo vogliono gli israeliti, né come lo mettono in piedi Da-vide e Salomone. Infatti rapidamente questo regno si divide nel regno del Nord e nel regno del Sud a causa di due diverse culture: la gente del nord non sta bene con quella del sud. E quando Gerobo-amo pensa di dividersi da Roboamo, figlio di Salomone, il Signore lo approva perché riconosce che il tipo di vita del nord è diverso da quello del sud, vicino al deserto. Ma la colpa di Geroboamo è quella di vivere anche una diversità cultuale: egli costruisce due templi al nord per evitare di andare in quello di Gerusalemme. La cultura, quindi, prende il sopravvento sulla fede. La fede – anche a Betel e a Dan – è ancora la stessa di Gerusalemme, e si adora ancora lo stesso Dio che ha liberato Israele dall’Egitto, ma ci si divide sulla preghiera e sul culto.

Una volta un credente cristiano cattolico romano mi diceva di sentirsi più vicino ad un protestante olandese che ad un cattolico siciliano. Bisogna riconoscere che spesso siamo più fedeli alla nostra cultura che alla nostra fede, perché la cultura è opera delle nostre mani, è concretamente nostra.

Tornando alla pagina biblica, vediamo che si riproduce il problema della fede e della cultura all’interno del popolo di Dio. In quattro secoli di monarchia il popolo di Dio si organizza come un regno, ma sul modello degli altri regni, cioè quelli pagani. Come abbiamo detto, si spacca presto tra Samaria a nord e Gerusalemme a sud. È anche per questo che Gerusalemme diventa poi luogo sacro anche per l’islam; infatti quando i musulmani conquistano la città, per evitare che la loro gente se ne vada via per fare i pellegrinaggi a Medina o a La Mecca, costruiscono lì le moschee. La politica comanda la religione. Oggi dicono che Gerusalemme è la terza città santa dell’islam, ma perché? Con quale motivazione? Maometto non c’è mai stato! Il fatto è che la ragione politica ha fatto di Gerusalemme una città santa per tenere gli abitanti musulmani in quel luogo, anche se ancora oggi si fanno i pellegrinaggi a La Mecca, secondo le tradizioni antiche.

Teniamo ben presente che la politica e la religione sono cose umane, mentre la fede è una realtà divina. Da ciò che Dio dice, si deve bonificare la nostra cultura, affinché questa non contamini la parola divina.

L’avventura monarchica d’Israele finisce quando gli Assiri rovesciano il regno del Nord nell’VIII secolo a.C., e quando i Babilonesi, un secolo e mezzo dopo, distruggono Gerusalemme e il suo tempio. Il sogno di avere un regno come gli altri regni è finito, e soltanto oggi, ai nostri tempi, I-sraele si è formato come nazione, con la stessa tentazione di essere un popolo come gli altri, con le proprie istituzioni, con un proprio esercito… E si ripresenta la stessa domanda: è possibile, questo? Israele ‘deve’ essere un popolo, deve essere una nazione, ma non come le altre!

Lo stesso vale per la Chiesa: ‘deve’ essere un popolo, deve avere delle istituzioni e delle strutture, ma non come quelle del ‘mondo’. Fino a che punto ci insediamo in questa terra come un popolo qualunque? Bisogna davvero confrontarsi con queste realtà: fino a che punto siamo una ‘nazione’ come le altre? Non dimentichiamoci che il popolo di Dio deve essere sacerdote per tutte le nazioni della terra.

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Quinta riflessione In questo incontro cercheremo di capire che cosa avviene alla fine della monarchia, quando nasce

la nuova alleanza, quella in cui siamo anche noi oggi: Israele e la Chiesa vivono il rapporto con Dio in un regime di ‘nuova alleanza’. Non è più il regime dell’alleanza del Sinai, e nemmeno il regime dell’alleanza con Davide. Come abbiamo detto più volte, il frutto della Bibbia è dinamico, quindi anche l’alleanza cresce verso ciò che Dio desidera.

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Abbiamo visto una cosa molto importante: il Signore, pensando al Regno fin dal Sinai («voi sare-te un regno di sacerdoti…»), ad un certo punto si adatta al tipo di Regno come lo vogliono gli an-ziani d’Israele e per tanti secoli si adatta a questa forma di Regno che non è quella che pensa Lui, ma quella che, in un certo senso, il popolo gli impone. Spesso noi, con le nostre scelte – magari di-cendo di voler fare la volontà di Dio – gli imponiamo quello che lui non vuole da noi, e Lui si adatta finché la storia con le sue vicende sistema le cose secondo il suo pensiero. Allora capita che nella nostra vita noi conosciamo dei fallimenti che invece sono delle aperture sulla volontà di Dio nei no-stri confronti. Sono i fallimenti dei ‘nostri’ progetti, delle nostre immaginazioni, che certo ci fanno soffrire, ma in realtà sono un progresso che ci permette di avvicinarci all’idea che Dio si è fatto di noi.

Quello che affronteremo oggi è quindi un punto molto delicato, molto critico. Vediamo come va a finire questa monarchia voluta dagli anziani d’Israele, di cui si parla in 1Sam 8,4-5: «Si radunaro-no allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. Gli dissero: “Tu ormai sei vec-chio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giu-dice, come avviene per tutti i popoli”». È un proposito che scandalizza Samuele e fa ridere il Signo-re: «Ascolta pure la loro richiesta, però ammoniscili chiaramente e annuncia loro il diritto del re che regnerà su di loro». E come va a finire? Va a finire che la volontà di Dio viene avanti nella sto-ria attraverso le cose più strane, soprattutto attraverso gli sconvolgimenti politici del Medio Oriente.

Nei secoli X e IX a.C. c’erano tanti piccoli regni che hanno sviluppato una grande civilizzazione. Le piccole società sono di norma più evolute delle grandi, proprio come accadde in quei regni in confronto alle grandi potenze successive. Ma nell’VIII sec. cominciano a formarsi i grandi imperi, che pretendono di dominare tutti quei piccoli regni locali e di imporre la propria civilizzazione an-che a quelli che non appartengono a loro.

Il primo di questi grandi imperi è l’Assiria, con capitale Ninive, ed è uno dei regni più brutali, più invasivi, che sottomette gli altri popoli e cerca di distruggere la loro cultura per imporre una civiliz-zazione uniforme. L’impero assiro viene dal nord, dove oggi si trova la Turchia, e naturalmente preme sul primo regno d’Israele che incontra, il Regno del Nord, quello di Samaria, quello dei tem-pli di Dan e di Betel. Per difendersi, questo e altri piccoli regni (Damasco, Moab) cercano di coaliz-zarsi per resistere alla pressione assira e chiedono anche a Gerusalemme, cioè al Regno del Sud, di schierarsi con loro.

Ma il re di Gerusalemme, Acaz, capisce che gli Assiri sono più forti e rifiuta di unirsi ai piccoli regni che pretendono di resistere all’invasione. La loro coalizione però rischia di diventare pericolo-sa per Gerusalemme. Scoppia infatti una piccola guerra, verso il 730 a.C., e il re di Gerusalemme si rivolge al profeta Isaia, il quale dà una profezia che poi diventerà famosa come la ‘profezia dell’Emmanuele’: «Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele». Il termine qui usato per ‘giovane donna’ significa giovane donna nascosta, umile, e indica la moglie di Acaz. In realtà il nome del bambino sarà Ezechia, ma verrà chiamato Emmanuele (Dio con noi) ad indicare il sostegno divino, la presenza di Dio in lui. (La profezia verrà poi applicata a Gesù, perché nella Bibbia greca dei LXX si aggiunge a questo termine ‘giovane nascosta’, quello di ‘vergine’, e Mt 1,22-23 riprenderà le parole di Isaia: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele». La profezia, quindi, passa di generazione in generazione fi-no ad arrivare al Nuovo Testamento).

Il profeta dice dunque ad Acaz: “Non abbiate paura dei regni del nord che vi minacciano, fidatevi del Signore, perché Gerusalemme è la città di Dio e il tempio è l’unica sua Dimora. Inoltre la dina-stia di Gerusalemme è quella di Davide a cui Dio ha giurato fedeltà e protezione”.

Ma Acaz non ci crede troppo, perché l’aiuto del Signore non sempre arriva come lo desidera l’uomo. Sicché compie una grande imprudenza e chiede aiuto proprio al re d’Assiria, il quale è mol-to contento di scendere ad aiutare il Regno del Sud, perché così ha la possibilità di spazzare via il Regno del Nord e gli altri piccoli regni che si sono opposti. Nell’anno 722 a.C. Samaria cade sotto gli Assiri e la sua popolazione viene deportata in esilio: sono le dieci tribù del nord, di cui si è persa

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ogni traccia fino ad oggi. Pare che ci siano residui di questi popoli, dalla Scandinavia alla Nigeria, che dicono di essere i discendenti di queste dieci tribù disperse.

Ovviamente il re Acaz ha compiuto una grande imprudenza, perché adesso si trova al confine con gli Assiri. Il Regno del Sud comunque sopravvive sotto il governo del discendente di Acaz, un re molto buono, appunto Ezechia, quel bambino nato dalla giovane regina. Egli sarebbe il segno di come Dio interviene; infatti questo re fa una grande riforma religiosa, perché sia nel Regno del Nord che in quello del Sud, c’era sempre la commistione tra la fede del Sinai e i culti dei Baalim, cioè pagani.

Quando il Siracide (scritto alla fine del IV secolo, quindi poco prima di Alessandro Magno) ri-legge questa storia, pensando al Regno del Nord dice: «Con tutto ciò il popolo non si convertì e non rinnegò i suoi peccati, finché non fu deportato dal proprio paese e disperso su tutta la terra. Rima-se soltanto un piccolissimo popolo e un principe della casa di Davide. Alcuni di loro fecero ciò che è gradito a Dio, ma altri moltiplicarono i peccati» (Sir 48,15-16).

Ezechia fu un re buono, ma suo figlio fu pessimo. Perfino nella Bibbia si vede come anche le mi-gliori famiglie possono produrre figli pessimi! Il figlio di Ezechia, Manasse, regna 55 anni. Gli sto-rici sostengono che fossero 45, ma comunque si tratta di un regno molto lungo, in cui il sovrano fa ciò che la politica mondana suggerisce, cioè cerca di allearsi il più possibile all’Assiria per non fare la fine del Regno del Nord. Così corrompe la religione di Gerusalemme, introducendo addirittura il culto del sole, e nel corso dei lunghi anni la situazione si aggrava. La Bibbia ricorda che il Signore era profondamente sdegnato e prevede che anche Gerusalemme finirà male. Il peccato di Manasse è così grande che il Signore ne è disgustato. Tuttavia Manasse appartiene alla discendenza di Davide, con il quale Dio ha stretto un patto.

Alla morte di Manasse gli succede il figlio Amon, uguale a lui, che però dura solo due anni, se-guendo le orme del padre. Siamo verso la fine del VII secolo.

Quando muore Amon, suo figlio Giosia ha otto anni. Viene allevato bene dalla madre e dai suoi tutori. Si pensa che sia intervenuto nella sua educazione di bambino anche il profeta Geremia. Gio-sia diventa poi un re meraviglioso, un re santo; la Bibbia dice di lui: «Prima di lui non era esistito un re che come lui si fosse convertito al Signore con tutto il suo cuore e con tutta la sua anima e con tutta la sua forza, secondo tutta la legge di Mosè; dopo di lui non sorse uno come lui» (2Re 23,25). In un certo senso era stato migliore anche di Davide, del quale si raccontano i peccati. Il Si-racide ne parla così: «Il ricordo di Giosia è come una mistura d’incenso, preparata dall’arte del profumiere. In ogni bocca è dolce come il miele, come musica in un banchetto. Egli si dedicò alla riforma del popolo e sradicò gli abomini dell’empietà. Diresse il suo cuore verso il Signore, in un’epoca d’iniqui riaffermò la pietà» (Sir 49,1-3).

Nel citato 2Re, ripreso poi da Cronache, si racconta il regno di Giosia, che si propone di sistema-re tutti i guai combinati dal nonno Manasse e dal padre Amon, e di restituire la purezza del culto in Gerusalemme. Nel ristrutturare il tempio di Salomone, che era ancora in piedi, anche se devastato dagli Assiri, viene ritrovato il libro della Tôrāh (che verrà poi riportato in Deuteronomio, dal cap. 12 in poi). Quando trovano questo libro, che nessuno conosceva, perché erano passati dei secoli, lo portano al re il quale, leggendolo, comincia a piangere. In quelle pagine stava scritto tutto ciò che il popolo doveva fare e che non ha fatto. Allora fa portare questo libro ad una profetessa, la quale con-ferma che quella era la volontà di Dio, mentre i regni d’Israele se n’erano allontanati. Giosia avvia allora la riforma religiosa, riedifica il tempio, rimette in vigore il culto del sabato e il rispetto dell’anno sabbatico, abolisce i luoghi in cui si facevano i culti pagani ai Baal e alle Astarte (ddivini-tà maschili e femminili), e accoglie a Gerusalemme tutti i fuggiaschi del Regno del Nord che era stato invaso dagli Assiri. La città in questo periodo si allarga, perché deve aprire dei quartieri nuovi e si costruiscono nuove mura per contenere gli immigrati dal nord, israeliti pure loro; costoro sono gli ultimi rimasti di Samaria e, sfuggiti alla deportazione, si rifugiano al sud, in Giudea.

Giosia regna circa 40 anni ed è un regno florido, benedetto, in cui tutte le tribù si rimettono su una linea di fedeltà al Signore.

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Ma nel frattempo sorge un altro impero. Questa volta alcuni generali dell’esercito assiro (non so-no assiri, ma provengono dai piccoli regni sottomessi) cominciano a ribellarsi all’Assiria, che nel tempo si è indebolita. Sono i Medi e i Babilonesi. Questi ultimi cominciano a minacciare l’Assiria, la quale chiede aiuto all’Egitto. Bisogna precisare che specialmente la costa mediterranea del terri-torio d’Israele (Gaza, Tel Aviv, Haifa) non ha mai fatto parte del Regno di Gerusalemme, ma era dominata dai Filistei, non molto potenti, ma vassalli degli Egiziani. L’Egitto manteneva così un cor-ridoio tra l’Africa e l’Asia proprio attraverso la linea costiera della terra d’Israele. Qui c’era la via maris (la via del mare), un passaggio commerciale; non si trattava di una strada, ma di una pianura sotto il dominio egiziano, e le fortezze filistee assicuravano il dominio degli egiziani lungo la costa mediterranea.

Sicché quando l’Assiria chiama in aiuto l’Egitto perché i Babilonesi la minacciano, il Faraone Necao II prende un grande esercito e risale lungo la costa. Lì però non c’è un passaggio idoneo ad un esercito potente per cui, all’altezza di Cesarea Marittima, bisogna che esso entri in uno uadi (che si chiama Uadi Wara anche oggi), cioè in una valle di origine fluviale, attraversi la Galilea del nord e prosegua verso nord, verso Ninive. Lungo il percorso si incontra la fortezza di Meghiddo.

Il Faraone scrive una lettera al re Giosia per informarlo di dover passare nel suo territorio con l’esercito e i carri da guerra e di dover transitare nella grande pianura di Èsdrelon, sotto Nazaret (dal Tabor al Carmelo). Dichiara di non aver nessuna ostilità verso di lui, ma di dover andare ad aiutare gli Assiri contro i Babilonesi.

Giosia si oppone perché, non essendo sciocco, capisce bene che se concede il passaggio agli egi-ziani dimostra di appoggiare l’Assiria contro i Babilonesi. Questi però sono il grande impero emer-gente e lui non vuole apparire come nemico. Oltretutto aveva rioccupato parte del Regno del Nord che era stato sottomesso all’Assiria e poteva contare sulla fortezza di Meghiddo, che sta allo sbocco di quello uadi. Gli egiziani avanzano ugualmente e arrivano a Meghiddo, dove avviene un primo scontro in cui il re Giosia, colpito da una freccia, viene trasportato a Gerusalemme, dove muore.

Tutto questo è raccontato in 2Re 22,1-23,29. Sono fatti che accadono nel 609 a.C. Gli egiziani passano, vanno a nord, e ben quattro anni dopo si ha lo scontro con i Babilonesi.

Quattro anni impiegati per il viaggio, l’arrivo, il lavoro di accampamento, i piani di difesa e di guer-ra con gli Assiri… Nella battaglia di Càrchemis – di cui parlano anche i nostri libri di storia – i Ba-bilonesi vincono completamente sia gli Assiri, sia gli Egiziani, i quali si ritirano sulla costa, nelle loro fortezze difese dai Filistei. Praticamente, l’impero babilonese si sostituisce all’Assiria, e Babi-lonia diventa la capitale al posto di Ninive.

Che succede a Gerusalemme? Nella città, rimasta intatta, si svolgono i funerali del re Giosia, con un grande lutto. Se i figli di Giosia avessero seguito le orme del padre, avrebbero cercato di farsi amici i Babilonesi. Il profeta Geremia li invita a farsi vassalli dei Babilonesi, come i Filistei lo era-no diventati degli Egiziani: “Poi i Babilonesi finiranno e voi avrete salvato la città, il regno di Davi-de e la vostra casa reale!”. Invece i figli di Giosia seguono una politica cieca e credono di poter con-tare sull’aiuto egiziano, che già non era servito per nulla agli Assiri. Fanno il doppio gioco dicendo di sì a Babilonia, ma favorendo l’Egitto. Ma Nabucodonosor pone fine alla tresca: prende in ostag-gio il primo dei successori di Giosia e lo porta in esilio a Babilonia, mentre pone sul trono di Geru-salemme un nipote di Giosia. Anche costui fa il doppio gioco, anzi forse peggio del primo, e fa una brutta fine. Nabucodonosor mette sul trono un altro figlio di Giosia, Sedecia. Siamo agli inizi del VI secolo.

Alla fine i Babilonesi si stancano di questi comportamenti infidi dei re di Gerusalemme, invadono la Giudea, assediano Gerusalemme, e dopo un assedio duro e terribile, la distruggono insieme al tempio di Salomone. Portano in esilio l’ultimo re, Sedecia, gli uccidono i figli davanti e poi l’accecano perché gli resti nel ricordo la tragica scena della morte dei figli. Bisogna tuttavia ricono-scere che i Babilonesi hanno avuto più pazienza degli Assiri nei confronti d’Israele e hanno rispetta-to gli esuli del sud, perché anche in esilio hanno potuto mantenere la loro religione e i loro culti, senza il livellamento imposto invece dagli Assiri. Pur con tutta la loro crudeltà, i Babilonesi sono stati più umani.

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L’unico che in tutte queste terribili vicende riesce a tenere la testa a posto è il profeta Geremia, il quale fino all’ultimo continua a sostenere la necessità di sottomettersi ai Babilonesi (tra l’altro, Ge-remia è l’unico uomo dell’Antico Testamento a cui Dio ordina di non sposarsi). E siccome pare che Geremia sia stato il tutore dei figli di Giosia, oltre che amico del re e della regina madre, i re di Ge-rusalemme lo consultano in segreto per sapere che cosa dica il Signore. In realtà, poi, non ascoltano, perché fanno esattamente il contrario. Comunque lui espone la volontà divina, attirandosi tutte le ire e le vendette del partito filoegiziano. Trattato da reprobo e traditore, finisce prigioniero in fondo ad una cisterna. Ma Sedecia lo vuole salvare perché profeta del Signore: «Il re Sedecìa comandò di cu-stodire Geremia nell’atrio della prigione e gli fu data ogni giorno una focaccia di pane, provenien-te dalla via dei fornai, finché non fu esaurito tutto il pane in città. Così Geremia rimase nell’atrio della prigione» (Ger 37,21).

Alla vigilia della distruzione da parte di Babilonia, la gente vende i propri beni per accaparrare quanto necessario per sopravvivere all’assedio. Geremia fa un gesto profetico: mentre tutti vendono, lui acquista un campo da un parente. Non ha senso, alla vigilia della fine del mondo! Egli appare come un pazzo che in piena fine del mondo compera un terreno! È invece un segno di speranza.

Invece di ascoltare la voce del vero profeta, il popolo è accecato e segue delle politiche strane, e fino alla fine della distruzione di Gerusalemme, non vedono che stanno andando verso la catastrofe.

L’assedio finisce, Gerusalemme viene bruciata, il tempo è devastato, il re è portato in esilio in Babilonia; si chiude la dinastia di Davide sul trono e finisce il culto nel tempio. Finisce tutto! Fini-sce anche il possesso della terra, poiché il popolo viene deportato. Certo, non tutto, ma le famiglie influenti, nobili e benestanti. La casa d’Israele diventa una casa abbandonata in una terra incolta, in cui vivono i superstiti contadini. Tutta l’élite e la buona borghesia di Gerusalemme vengono portate a Babilonia.

Questa è la catastrofe più grave nella storia d’Israele. La si potrebbe definire come ‘la prima sho-ah’. Non è soltanto un disastro nazionale, ma è un disastro di fede religiosa. Qui c’è proprio il di-scorso del Regno! Fino ad allora gli israeliti si erano fatti un’immagine del Regno come lo avevano voluto loro secoli prima, con Samuele. E Dio aveva accettato questa situazione, curando anche il re che Lui stesso aveva scelto, Davide al posto di Saul, e promettendo a Davide che un suo discenden-te sarebbe sempre stato seduto sul suo trono. Ma qui non c’è più né trono, né discendente.

Se vi capita di meditare su queste pagine, pregate il Sal 89, che vi dà un po’ la misura della spiri-tualità dell’esilio, poiché si ricorda a Dio ciò che ha promesso a Davide:

«“Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono… Gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele. Stabilirò per sempre la sua discendenza, il suo trono come i giorni del cielo. Ma non annullerò il mio amore e alla mia fedeltà non verrò mai meno. Non profanerò la mia alleanza, non muterò la mia promessa. Sulla mia santità ho giurato una volta per sempre: certo non mentirò a Davide. In eterno durerà la sua discendenza, il suo trono davanti a me quanto il sole”... Ma dov’è, Signore, il tuo amore di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?». Gerusalemme è incendiata, quindi non è soltanto una catastrofe nazionale, ma una pro-fonda tentazione della fede: allora il nostro Dio non è forte, è più forte quello dei Babilonesi. È me-glio adorare il loro dio, Marduc…

È quindi anche una grossa crisi di fede, in cui Israele tocca il fondo. Vediamo che cosa dice anco-ra il Siracide, dopo aver fatto l’elogio di Giosia: «Se si eccettuano Davide, Ezechia e Giosia, tutti agirono perversamente» (Sir 49,4-7). Quindi: i re del nord, tutti male; a Gerusalemme se ne salvano tre, di cui però il vero santo è Giosia, poiché conosciamo i peccati di Davide e certi peccatucci di orgoglio di Ezechia.

E prosegue: «Poiché avevano abbandonato la legge dell’Altissimo, i re di Giuda scomparvero. Lasciarono infatti il loro potere ad altri, la loro gloria a una nazione straniera. I nemici incendia-rono l’eletta città del santuario, resero deserte le sue strade, secondo la parola di Geremia, che es-si però maltrattarono, benché fosse stato consacrato profeta nel seno materno, per estirpare, di-struggere e mandare in rovina, ma anche per costruire e piantare».

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In questa situazione Geremia, che era stato maltrattato e malmenato da tutti anche fisicamente, si rialza e dice: “Non abbiate paura, perché il Signore farà con voi un’alleanza nuova. Dio non ha rotto l’alleanza del Sinai e quella con Davide, perché Dio è fedele alla propria parola, ma è stata rotta da voi, con questa commistione con gli dèi pagani e con i poteri politici. Vi siete mescolati con gli As-siri e poi con i Babilonesi: avete cercato di fare i furbi barcamenandovi tra Babilonia e Egitto. Avete voluto essere un regno come tutti gli altri, avete fatto le vostre politiche mondane, le alleanze, e quindi avete rotto quella con il Signore. Siccome però Dio è fedele alla sua alleanza, la manterrà in modo nuovo”.

Ecco allora le profezie della nuova alleanza che voi conoscente, ma che vi suggerirei di rileggere nei capitoli dal 30 al 33 di Geremia che nelle nostre Bibbie vengono definiti ‘Libro della consola-zione’. Evidentemente è la consolazione del pianto per l’esilio. In questi testi c’è come un ritornel-lo: “verranno giorni in cui”; “in quei giorni”; “in quel tempo”…

Ma il testo che parla più chiaramente della speranza che non muore è il testo di Ger 31,31ss: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova». Non vuole dimenticare il Regno del Nord (casa d’Israele) e lo unisce a quello del Sud (casa di Giuda): vuole pensare a tutto il popolo insieme, le dodici tribù.

«Concluderò un’alleanza nuova». Questa espressione è l’unica in tutto l’Antico Testamento: l’alleanza di Dio diventa ‘nuova’.

«Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto…». Quindi non sarà come l’alleanza del Sinai, ma sarà l’alleanza del Si-nai che diventa nuova. Sarebbe come dire che la mia infanzia e giovinezza sono diventate nuove nella mia età adulta. L’infanzia e la giovinezza non ci sono più, ma io ci sono! Questo è il dinami-smo della Bibbia. La sua novità è l’età adulta dell’infanzia, non si tratta di un altro individuo.

«… alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore». Questa frase – benché io fossi loro Signore – include il termine ebraico baal che può significare anche ‘sposo’. Era un’alleanza nuziale, un matrimonio, per cui se il popolo è infedele commette adulterio. Non si trat-tava di un patto qualunque! Questo l’aveva già predetto Osea nell’VIII secolo nel Regno del Nord; aveva introdotto esplicitamente l’idea, che però era già presente al Sinai, Dio viene trattato come uno sposo tradito dalla sposa che si è concessa a tutti i passanti (Assiri, Babilonesi, Persiani…).

Nonostante sia come uno sposo tradito, Dio conserva la sua alleanza! «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Si-

gnore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore». Dio non parla di un’altra Tôrāh, ma della stessa data a Mosè e scolpita su due pietre; adesso la scriverà sul loro cuore.

«Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo». È la solita formula dell’alleanza. Ma si comprende bene che se la Tôrāh scritta su due tavole di pietra viene messa nel cuore, vuol dire che la Tôrāh diventa di carne e il cuore verrà modificato, altrimenti con una pietra dentro muore. Quindi questa ‘operazione chirurgica’ attuata dal Signore, che pone la legge di pietra dentro il cuore di car-ne, sarà resa possibile da una trasformazione della Tôrāh e da una trasformazione del cuore.

«Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi cono-sceranno, dal più piccolo al più grande». Questo non vuol dire che non ci sarà più la Didaché o il profeta che spiega la Tôrāh, ma vuol dire che la spiegazione dal di fuori (noi potremmo parlare di magistero ecclesiastico) è sempre preceduta dalla legge che sta nel cuore. E comprendiamo subito che questa è lo Spirito Santo… Ormai nel popolo di Dio non si insegna soltanto dall’esterno, ma è un dialogo dall’esterno all’interno perché tutti possediamo questa Tôrāh del Signore nel cuore.

Potremmo dire che non siamo più in una caserma, dove ci sono i graduati che comandano, ma in una famiglia che dialoga insieme per cercare la volontà del Signore.

«Io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».Da questo momento sarà un Dio che perdona. Non è che da questo momento Dio cambia, ma da questo momento si rivela fi-nalmente per come era fin dal principio. Se il popolo si trova in condizioni disastrose, tutto questo è la conseguenza dei suoi peccati: esso stesso si è danneggiato, non è la punizione divina. La punizio-ne del peccato la porta il peccato stesso!

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Che cosa succede, allora, nella nuova alleanza? Dio finalmente può stabilire il Regno come lo vo-leva Lui. Riprende la Tôrāh del Sinai («voi siete un regno di sacerdoti»), ma finalmente porta que-sto Regno nel cuore degli israeliti, dove non c’è più bisogno né di trono, né di corone, né di palazzi reali, né di eserciti, né di bandiere. Dio vuole il Regno, ma non che sia come tutti gli altri regni; vuole che il popolo di Dio sia davvero il popolo di Dio. E se poi si dovrà dare una forma istituziona-le, umana, sarà diversa da quella degli altri regni.

La nuova alleanza è lo svelamento di come Dio vuole il suo Regno. E dunque il momento dell’esilio, che è il momento più tragico della monarchia, diventa invece l’inaugurazione del Regno di Dio come Lui lo vuole.

Ed è in questo momento – e siamo all’inizio del VI secolo – che si inaugura la nuova alleanza. Nella nota di spiegazione del v. 31, nella Bibbia di Gerusalemme, c’è una cosa molto interessan-

te: “Questa alleanza nuova ed eterna, proclamata da Ezechiele, dagli ultimi capitoli di Isaia, vissuta nel salmo 51, secondo il Nuovo Testamento verrà inaugurata con il sacrificio di Cristo”.

Ma come può essere inaugurata dal sacrificio di Cristo, se è già cantata nel Sal 51, dal Secondo Isaia, da Ezechiele? Allora la nota si contraddice, in questo senso. L’alleanza è inaugurata adesso, al ritorno dall’esilio. Il sacrificio di Cristo porta ad un primo compimento questa alleanza che è co-minciata nel sec. VI. Infatti quando Gesù celebra la sua Cena, dice: «Questo calice è la nuova alle-anza nel mio sangue». È l’alleanza di cui parla Geremia, e non è ancora compiuta pienamente per-ché il Signore deve ritornare: noi attendiamo la sua parusía, il suo avvento. Siamo dunque nel clima della nuova alleanza, ma essa non è ancora pienamente compiuta; però Gesù ne mostra un primo compimento nella propria persona.

Questa è la novità di Gesù. Non è l’alleanza nuova, ma è il compimento di quello che è stato pre-detto dai profeti sei secoli prima.

Vedete come la parola di Dio cammina nella storia servendosi delle cose più strane, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Persiani, delle politiche internazionali, della politica illuminata di Giosia e di Ezechia, della politica cieca dei loro successori... Questi sono i giochi degli uomini, i nostri giochi. Ma c’è anche il gioco di Dio e non dobbiamo pensare che i nostri giochi possano intercettare il gio-co di Dio. Dio avanza con la sua provvidenza, magari facendo tanti circoli perché ha dovuto aspet-tare quattro secoli prima che il Regno prendesse la forma che Lui voleva. È la pazienza di Dio verso ciascuno di noi. Quanto ci vuole perché nella nostra vita si compia la volontà di Dio? Bisogna cer-care di capirla, bisogna cercarla nell’esistenza quotidiana, nei doni ricevuti, nelle esperienze che si fanno, ma senza paura. Se si sbaglia non importa, perché il Signore ci porta dove vuole Lui come ha portato in braccio Israele nel deserto e l’ha poi riportato dal fango dell’esilio per ripulirlo e farlo nuovo.

°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* Sesta riflessione Come abbiamo visto nella riflessione precedente, la nuova alleanza ha inizio nel VI secolo. Insi-

sto su questo perché la profezia di Ger 31,31-34 non va estrapolata dal suo contesto. Ancora oggi alcuni esegeti sostengono che qui si parla della Cena di Gesù, del suo sacrificio. Ma questo modo i procedere è poco esatto, prima di tutto perché un profeta non è un indovino, non parla di quello che deve avvenire tra sei secoli, ma interpreta la situazione presente e dice che cosa il Signore prepara in essa. E poi non è onesto prendere questo testo, toglierlo dal suo contesto e sostenere che si riferi-sce alla Cena di Gesù. Un esercizio che potete fare è questo: guardate nei capitoli dal 30 al 33 quan-te volte si ripete questa espressione: “In quel giorno”, “In quei giorni”, “Ecco verranno giorni”, “In quel tempo”. E proprio quel v. 31 è preceduto dal v. 27: «Ecco, verranno giorni» ed è seguito dal v.

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38: «Ecco, verranno giorni». Non c’è nessuna ragione letteraria per dire che il testo prevede quello che avverrà dopo sei secoli.

Se dice: «Ecco, verranno giorni nei quali renderò la casa d’Israele e la casa di Giuda feconde di uomini e bestiame…/ In quei giorni non si dirà più: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati!”…/ Ecco, verranno giorni nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova…/ Ecco, verranno giorni nei quali la città sarà riedificata…», è chiaro che parla del ritorno dall’esilio. Si fa quindi un’operazione esegetica molto arbitraria da parte di alcuni teologi quando si prende un versetto e lo si isola sostenendo che ha un particolare in-teresse, come nel caso del riferimento a Gesù. Certo, bisogna capire che Gesù poi si rifà a questo versetto: “Questa è la nuova alleanza annunciata da Geremia, che io porto a compimento nella mia persona”. La novità di Gesù è proprio la sua persona. Dobbiamo capire come questa profezia di Ge-remia incominci con il ritorno dall’esilio durato circa cinquanta/settant’anni, quando si inaugura una stagione dell’alleanza, che non è più quella del regno di Davide, ma è quella del Regno di Dio, che non è come gli altri regni della terra.

Cerchiamo allora di capire tutto il contesto di quello che ha accompagnato l’esilio e il ritorno dall’esilio. Questo è importante per individuare come la nuova alleanza si presenti. Bisogna abituar-si a staccarsi dalle parole e capire che cosa esse vogliano dire.

Che cosa c’è di ‘nuovo’ in questa alleanza? Diciamo subito che Geremia non è mai andato in esi-lio a Babilonia, ma è rimasto a Gerusalemme. Scrive però una lettera agli esiliati: «Così dice il Si-gnore degli eserciti, Dio d’Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babi-lonia: Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie, e costoro abbiano figlie e figli. Lì moltiplicatevi e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore, perché dal benessere suo dipende il vostro» (Ger 29,4-7). Li invita a non cerca-re di uscire da Babilonia, a non fare guerre di liberazione, perché il Signore stesso li libererà e li ri-porterà nel loro paese, poiché anche Babilonia passerà.

Il libro di Geremia, alla fine, parla proprio della caduta di Babilonia, ma sarà il Signore a distrug-gerla; loro non ci devono mettere mano. Non devono fare come per l’idea del regno, ma devono la-sciare che il Signore guidi la sua storia e li riporti nel loro paese quando vorrà e come vorrà.

Noi sappiamo che poi una parte del popolo è ritornata nella terra, a vari scaglioni. Ancora nel II secolo a.C. ci sono dei gruppi che partono da Babilonia e ritornano nella terra d’Israele, man mano che possono, anche dal punto di vista economico. Chi ha fatto fortuna a Babilonia è rimasto là. Del resto, fino al X secolo d.C. Babilonia è stato uno dei centri fondamentali di cultura ebraica. Il Tal-mud più lungo è stato scritto a Babilonia. Sono rimasti là, come oggi la maggior parte del popolo ebraico sta negli Stati Uniti o nell’Europa dell’Est; in terra d’Israele vive una minoranza di ebrei (6/7 milioni su 21 milioni).

Quelli sono quindi rimasti a Babilonia, ma questo fa parte della nuova alleanza. I sacerdoti che Geremia ha formato e il cui capo è il profeta Ezechiele partono per Babilonia per

fare i ‘cappellani’ degli esiliati (si potrebbe dire padri spirituali), e portano con loro la lettera di Ge-remia. Sia Geremia che Ezechiele sono profeti di famiglia sacerdotale, ma non esercitano quest’ultima funzione perché in Gerusalemme non c’è più il tempio.

All’arrivo dei sacerdoti-profeti, gli esiliati si riprendono spiritualmente. Si potrebbe dire che l’esilio abbia costituito l’occasione per una seconda conversione del popolo d’Israele, con la fine di tutti i culti idolatrici e la ritrovata purezza della fede del Sinai.

Dobbiamo adesso cercare di capire bene il contesto che accompagna l’esilio e il ritorno dall’esilio. Ci sono varie caratteristiche di questo periodo che bisogna conoscere, enumerare e cu-stodire perché, come vi dicevo, questo è il tempo della nuova alleanza anche per ciascuno di noi, e questi caratteri propri della nuova alleanza valgono anche per la Chiesa di oggi. Come dice Origene, c’è un senso letterario della Bibbia, che ci racconta una storia, poi c’è un senso ecclesiale e un senso individuale.

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La prima nota di questo tempo della nuova alleanza è l’interiorizzazione del culto di Dio: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore».

Ezechiele, che continua la profezia di Geremia, dice: «Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi pu-rificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vo-stro Dio» (Ez 36,24ss). Nel cap. 37 vi è poi quella bellissima immagine delle ossa aride che si ri-compongono e diventano un esercito in marcia. È il riferimento al popolo in esilio, un insieme di ossa aride, che riprende vigore e ricomincia a camminare come popolo di Dio, ma senza ritornare alla monarchia.

Ma che cosa vuol dire l’interiorizzazione del cuore? Bisogna sempre mettersi nella situazione sto-rica e politica. Il tempio non c’è più, l’altare non c’è più, non ci sono più i sacrifici quotidiani, non c’è più il luogo a cui andare in pellegrinaggio. Non c’è più niente! Come si fa a portare le offerte al Signore? Dove si va?

Abbiamo allora quei salmi che parlano della nuova alleanza e che sono di questo periodo. Fon-damentale, in questo senso, è il Sal 40,7ss, che risale a questo contesto: «Sacrificio e offerta non gradisci…». La distruzione del tempio indica forse il non gradimento del Signore verso i sacrifici offerti; forse Egli desidera un altro tipo di culto. È inutile portargli delle cose!

«… gli orecchi mi hai aperto, non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato». Ma come? Abbiamo fatto tante processioni… Non è questo che volevi? No, tu volevi che i nostri orecchi fos-sero aperti per ascoltare la tua Parola.

« Allora ho detto: “Ecco, io vengo. Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo”». Questa è la profezia di Geremia!

«Ho annunciato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi: non tengo chiuse le labbra, Signo-re, tu lo sai». “Ecco la trasformazione: non ci sono più sacrifici da offrire, ma ci sono io che vengo.

Sono io il sacrificio! Tuttavia non vengo per stendermi sull’altare, ma per ascoltare la tua Parola e compiere la tua volontà. Questo, Signore, era il culto che volevi da noi! Davide si era messo in testa di costruirti un tempio, ma tu non lo volevi perché stavi sotto la Tenda! Tutte le mediazioni tra me e Dio sono bandite e c’è un rapporto diretto: vengo io!”.

Geremia parla del ‘cuore circonciso’, delle ‘labbra circoncise’, delle ‘orecchie circoncise’. Vuol dire che prima di circoncidere la carne, bisogna circoncidere il cuore, purificarlo da tutto ciò che è immondizia. Bisogna circoncidere la lingua, cioè il nostro parlare deve essere puro, non malizioso.

Bisogna circoncidere le orecchie perché è necessario che la parola di Dio venga recepita in modo totale, integrale, autentico. Io sono il tempio di Dio, e devo purificarmi per presentarmi a Lui come un sacrificio vivente. Così non c’è più bisogno del tempio, e anche se siamo fuori da Gerusalemme, e anche se siamo in esilio ci possiamo presentare al Signore come sacrificio.

La nostra bocca canta le tue lodi! Offriamo a Dio il sacrificio delle labbra, cioè tutto ciò che è ri-tuale viene tradotto in termini esistenziali. Il vero pellegrinaggio della fede è uscire da se stessi per entrare in Cristo. E non importa se non si può fare il pellegrinaggio materiale, perché quello che importa è il pellegrinaggio spirituale della propria esistenza.

È molto interessante notare che la lettera agli Ebrei, al cap. 10,5-9 cita proprio questo Sal 40, pe-rò lo cita nella versione greca, la LXX, che presenta una piccola variante. Lo applica a Gesù dicen-do: «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato». Non dice che gli ha aperto gli orecchi, ma che gli ha dato un corpo: è l’incarnazione.

«Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poi-ché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”. Dopo aver detto: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che

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vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà». Ecco, questa è la prima trasformazione della nuova alleanza. L’offerta del corpo dell’uomo diventa il culto di Dio.

Paolo, poi, parla proprio di questo nella lettera ai Romani. È uno dei testi più letti dalla liturgia della Chiesa e costituisce la ‘lettura breve’ di tutte le Lodi di tutti i santi e le sante dell’anno liturgi-co: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vi-vente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Il termine ‘spirituale’ traduce il greco ‘logico’, che incorpora il logos; quindi non è ‘spirituale’ in senso stretto, ma piutto-sto corporale: mi hai aperto gli orecchi per ascoltare la tua parola. Questo è il culto cristiano, e Pao-lo trae il pensiero dal Sal 40 per tutta la vicenda di Gesù.

Tutto ciò è molto importante anche per noi, oggi, ma il compimento della nuova alleanza deve ancora venire. Noi siamo ancora a questo punto: facciamo dire delle Messe per i nostri cari, ma dobbiamo offrire noi stessi! Cito sempre una cosa che ho sentito alla radio anni fa. Era il giorno in cui la comunità ebraica di Roma celebrava la Festa dei Tabernacoli. In questa occasione ogni ebreo porta nella mano destra i rami di quattro piante: una palma, un cedro, della mirra e un ramo di sali-ce. Nella trasmissione parlava un ebreo scampato al campo di concentramento; durante la prigionia pregava: “Signore, oggi è la Festa dei Tabernacoli e io non posso venire a te con questi segni festivi. Ma no, io ce l’ho la palma: la mia spina dorsale; ho il cedro: il mio fegato; la mirra è il cuore; il sa-lice è il mio corpo. Ecco, vengo io!”.

Ebbene, questo è il Sal 40. È la scoperta che Israele ha fatto in esilio, di come può continuare a celebrare il Signore senza avere niente nelle mani da offrire se non il proprio corpo. E questo è il culto cristiano, la liturgia cristiana. Infatti noi abbiamo tante chiese, ma non abbiamo più un tempio in cui si deve andare per fare il pellegrinaggio. Noi abbiamo il nostro corpo da offrire! Allora non ci sono più i ‘tempi forti’ liturgici, poiché tutta l’esistenza umana diventa liturgia. Non dobbiamo più andare in chiesa, per pregare, poiché possiamo pregare dovunque, visto che il tempio siamo noi.

Paolo dice: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1Cor 3,16), e non sono chiacchiere, ma è la realtà! Certo, nelle nostre chiese abbiamo la presenza del Si-gnore nel pane e nel vino consacrati, come segni della sua passione e risurrezione, ma dobbiamo stare attenti a non pensare che il Signore sia soltanto là. Il Signore è risorto, ed è presente dappertut-to, e noi gli possiamo offrire la liturgia dell’esistenza. I sacramenti sono segni di questo, ma non so-no i sostituti di questo; per questo ripeto che diciamo troppe Messe invece di offrire noi stessi come sacrifici viventi. La Messa è il segno di questa liturgia esistenziale, e il rendere presente il sacrificio di Cristo attraverso il sacramento è per noi che lo celebriamo, e non perché ci sia bisogno di ripetere il sacrificio di Gesù, che si è compiuto una volta per sempre nel tempo.

Io faccio sempre un esempio un po’ ‘scandaloso’: se celebrassimo una Messa a cui partecipassero anche centomila persone (ipotesi assurda), in cui tutti, sacerdoti e fedeli, fossero in peccato mortale, quella Messa sarebbero centomila peccati mortali, perché chiameremmo ‘sacrificio di Gesù’ un’azione a cui nessuno partecipa. E non solo non servirebbe a niente, ma addirittura moltipliche-rebbe i peccati e quel sacrificio diventerebbe un enorme peccato collettivo. La Chiesa ci chiede di essere in grazia di Dio quando facciamo la comunione, non perché dobbiamo ricevere Gesù in una casetta pulita (al massimo, è lui che pulisce), ma perché noi dobbiamo essere pronti ad offrire noi stessi come lui si è offerto.

Riportiamo allora le cose come le vuole il Signore, riportiamo il Regno come lo vuole lui. Il suo Regno comincia nella nostra coscienza. È la coscienza pura, è l’amore, l’allontanamento dal male. Paolo ammonisce: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vo-stro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfet-to» (Rm 12,2). Questo è il culto cristiano e noi troviamo questo passo nella Liturgia delle Ore dei santi e delle sante. Il che significa che la Chiesa riconosce che la santità cristiana consiste proprio nell’offerta dei nostri corpi, nell’apertura delle nostre orecchie, per fare la volontà di Dio.

Non preoccupiamoci di correre alla Messa per essere puntuali, perché l’importante è offrire il no-stro corpo, aprire le orecchie alla parola del Signore. Se anche non puoi andare a Messa tutti i gior-ni, fa’ che tutti i giorni ci sia la tua preghiera con la quale apri il cuore e le orecchie alla parola del

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Signore. Certo, andare a Messa è più facile, perché la celebra il sacerdote e i partecipanti se ne stan-no là e seguono con le risposte e il canto. Poi tornano a casa…

Ma perché non conosciamo la parola di Dio? Perché invece di conoscere la parola di Dio faccia-mo tante altre cose, che sono buone e belle perché sono cose religiose, ma se sono vuote di cuore non servono a niente! Si fa l’adorazione eucaristica: si espone il Signore e lo si adora. In alcuni Se-minari, durante gli esercizi spirituali, di sera c’è sempre un’ora di adorazione del Santissimo. Mi è capitato di vedere che in questo tempo ognuno fa qualcosa di diverso: chi legge un libro, chi recita il rosario… Se l’adorazione eucaristica ha senso, è perché il Signore mi dice: “Io sono qui”, e io gli rispondo: “Anche io sono qui”. Basta! E non si fa un’ora di adorazione, ma tutta la giornata e tutta la notte!

Quante cose senza senso si possono fare! E questo sterilizza la fede, perché avvelena l’anima, ci stanca, ci disgusta. Ecco perché molti se ne vanno dalla Chiesa. Quante volte mi sono sentito dire: “Sono venuto in chiesa perché cercavo un po’ di spiritualità, ma non ho trovato niente! Ho trovato la proposta di iscrivermi al gruppo biblico o a quello missionario o a quello caritativo o a quello so-ciale. Sembra un’agenzia di collocamento, ma io volevo semplicemente un po’ di spiritualità…”.

Quindi la prima cosa fondamentale per la nuova alleanza è il culto interiore, delle mie ossa e della mia carne, non solo del cuore ma di tutta l’esistenza, che deve essere formata in questo orientamen-to verso il Signore. Se Egli dice: «Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo», io devo dire: “Sono tuo, non sono mio!”. Non posso gestire la mia vita con le mie mani, ma devo fare la volontà del Signore. E questo è un primo punto.

Il secondo punto è che quello che devo fare io, lo dobbiamo fare anche noi insieme. Siccome siamo popolo di Dio, il culto consiste nell’agire insieme. Per questo prende importanza la sinagoga, cioè l’assemblea delle persone che si mettono insieme ed offrono se stesse a Dio. Invece del tempio, che ‘contiene’ il popolo di Dio, c’è il popolo di Dio formato dalle persone. La sinagoga non è un lo-cale, ma le persone insieme. Al ‘muro del pianto’, a Gerusalemme, si accostano dei gruppi e ciascu-no di essi è una sinagoga a cielo aperto. E siccome, per gli ebrei, per fare una sinagoga bisogna es-sere almeno in dieci, se si è in nove bisogna andare a cercare una persona che completi il numero. Sono aggiunte che facciamo noi al pensiero di Dio. Gesù ha detto che bastano due o tre persone riu-nite nel suo nome, perché lui sia in mezzo a loro, tuttavia è comunque il principio della sinagoga. Per essere ‘popolo di Dio’ basta quindi essere in due, purché si dica al Signore: “Questo è il mio corpo, e questo è il mio sangue”, e la lode delle labbra sia l’offerta della vita.

Tutto ciò, nella vita d’Israele ha segnato un fatto molto importante. In esilio, e anche dopo quan-do il ritorno è stato possibile, si sono moltiplicate in tutta l’area mediorientale fino all’Occidente le sinagoghe ebraiche. È ovvio che per queste riunioni ci vuole anche un locale, perché se piove… E tutte queste piccole o grandi sinagoghe, tra l’altro, quattro o cinque secoli dopo l’esilio, hanno favo-rito la diffusione dell’evangelo. Negli Atti degli Apostoli, infatti, vediamo che gli apostoli Paolo, Si-la, Barnaba predicavano proprio nelle sinagoghe, perché lì incontravano la gente che parlava la loro stessa lingua e aveva la stessa cultura, per cui potevano parlare della Bibbia, della parola di Dio, di-cendo che tutto si era compiuto in Gesù.

Questa diaspora ha favorito enormemente l’evangelizzazione perché questa ha trovato la possibi-lità di diffondersi. Giosia aveva concentrato il culto nel tempio di Gerusalemme, e quando questo è stato distrutto, si sono moltiplicati i gruppi di persone che si rivolgevano al Signore in qualunque paese. Nella Bibbia ci sono dei libri, come quelli di Tobia o di Ester, nei quali si vede che anche in esilio (Tobia addirittura a Ninive tra gli assiri, e Ester nel regno persiano) si può pregare, rivolgersi a Dio, vivere secondo la sua legge, fare le opere di carità. L’importante è avere il cuore rivolto a Gerusalemme. Ribadisco: il particolare rimane anche nella massima universalità: «Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia» (Sal 137,5-6).

Questo è molto importante, per la nuova alleanza: si può essere sparsi nel mondo, ma orientati verso Gerusalemme! Ecco due aspetti della nuova alleanza: l’interiorizzazione del culto e la diaspo-ra. Se il culto è dentro di me, dove sono io c’è la possibilità di rendere culto a Dio.

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Inoltre c’è un terzo aspetto, dovuto soprattutto a Geremia, ma continuato poi fino a Gesù, e oserei dire fino ad oggi, quando è nato lo Stato d’Israele: per parecchi secoli si è verificata una separazione della politica dalla fede. La predicazione di Geremia, che diceva: “Arrendetevi ai Babilonesi per salvare la vostra fede” lasciava intendere che una cosa è il successo, la prosperità e l’indipendenza nazionale, e un’altra cosa è la purezza della fede. Fino ad allora si era sempre pensato che la bene-dizione divina si manifestasse nel successo nazionale.

Il profeta è stato contrastato, proprio come empio, perché gli ebrei ricordavano che, un secolo e mezzo prima, Isaia aveva esortato il popolo a resistere agli Assiri, che tentavano di conquistare an-che Gerusalemme, dopo Samaria. Improvvisamente l’esercito nemico si era ritirato, e gli abitanti avevano riconosciuto in questo avvenimento l’aiuto del Signore per salvare la sua città, Gerusa-lemme. Isaia aveva identificato l’indipendenza nazionale con la fede in Dio, e spesso, purtroppo, gli uomini hanno visto nelle loro vittorie l’intervento divino. A Lepanto, ad esempio, ha sostenuto la cristianità contro i Turchi, e adesso ci troviamo i turchi dappertutto. Allora non c’è nessun legame tra il Signore e le nostre armi. A Lui non interessa niente della benedizione delle armi, come si è fatta fino al Vietnam…

Geremia veniva accusato perché esortava a sottomettersi ai Babilonesi, mentre il popolo sostene-va che Dio li avrebbe difesi come aveva fatto con gli Assiri. Invece no: un secolo e mezzo dopo bi-sognava arrendersi a Babilonia. Geremia, quindi, ha rotto questa connessione tra prosperità politica, sociale, e fede, perché si può essere sconfitti ed essere popolo di Dio. Ma il Signore non guida forse le nostre battaglie? No, queste sono idee che ci si è fatti pensando ad un Regno di Dio che deve es-sere come i regni di questo mondo, e così si è trasferita la sapienza politica nel popolo di Dio. Inve-ce sono due cose diverse. Per la politica l’uomo ha la sua intelligenza, l’esperienza, la capacità di guardarsi intorno.

Questa rottura tra fede e politica fa parte della nuova alleanza. Infatti dicevo che fino ai nostri giorni, quando è nato lo Stato d’Israele, Israele non ha più avuto un’indipendenza politica, ma è sta-to disperso nelle nazioni. Bisognerà poi riflettere, alla luce della parola di Dio, su che cosa signifi-cherà il fatto che Israele è diventato uno Stato più o meno come gli altri Stati. È uno Stato che sem-bra voler dar fastidio a tutti, come se fosse un corpo estraneo. Forse è proprio perché vuole essere come tutti gli altri.

Comunque quello che importa è che nella nuova alleanza il Signore non ci assicura più la prospe-rità nazionale e materiale, economica, sociale. Questa è applicata all’esperienza degli uomini, alla loro intelligenza nell’amministrare i beni, alla loro oculatezza nello spendere, in modo da non fare debiti che poi cadono sulle generazioni seguenti, alla loro saggezza nella ricerca degli alleati mi-gliori. Gli uomini hanno la giustizia, che viene dalla creazione, e possono far funzionare la loro te-sta, la loro storia, nella consapevolezza che il Signore non si sostituisce a loro nelle attività pro-priamente umane. Egli passa ‘dentro’ le attività umane per fare la sua storia, che è una storia di sal-vezza e non di questo mondo: è una storia escatologica, verso la vita, verso un termine che è al di là della sapienza degli Stati e della loro politica. Il Regno di Dio non viene da questo mondo, e non si allinea in mezzo ai regni di questo mondo, non vi va mescolato!

Questa è una grande lezione, che Israele ha messo in pratica fino al tempo del Nuovo Testamento, e anche dopo. Anche la Chiesa, almeno nei primi secoli, l’ha messa in pratica con il martirio, ma poi si è trovata coinvolta nelle vicende dell’Oriente e dell’Occidente, con l’impero di Bisanzio e con quello di Carlo Magno, e ha continuato ad esserlo fino ai nostri giorni. Direi anzi che ancora non abbiamo un comportamento adeguato alla nuova alleanza: la Chiesa ancora conta sull’alleanza con i politici credendo di poter fare il gioco di Dio, e i politici contano sull’alleanza con la Chiesa per po-ter fare il loro gioco.

Fino a che punto siamo nella nuova alleanza? Una presenza in questo mondo dobbiamo pur aver-la! Inoltre oggi non siamo più al tempo dei grandi imperi, ma nel tempo delle democrazie. Certo, in gran parte queste sono solo parole, però hanno una qualche validità, foss’anche solo perché dob-biamo votare: Gesù non l’ha mai fatto; Paolo sì, come cittadino romano.

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Qui si pongono quindi problemi in parte nuovi che vanno affrontati. Ma come? Schierandosi con una parte contro l’altra? Vendendosi ai potenti di turno? Aderendo alle varie bandiere che si presen-tano? Che cosa devono fare i cristiani nella politica? Forse come cristiani non devono fare niente, forse ogni cristiano deve trovare il proprio punto di osservazione, il suo modo di partecipare a se-conda della propria coscienza e intelligenza, ma senza credere di difendere il Regno di Dio con il suo contributo. Certamente deve dare una testimonianza, ma nessun compito politico gli spetta co-me cristiano. Può infatti incontrare un altro cristiano in un altro partito, ma la loro comunione di fe-de e l’impegno a preparare il Regno di Dio che viene non deve dipendere dall’adesione ad un de-terminato partito politico.

Infatti una cosa è essere cittadino per il bene comune, e quindi prendere parte alla vita politica, ma non pensando soltanto ai cristiani, alle scuole cattoliche, ai matrimoni cattolici, ai testamenti cattolici. Come cittadino della repubblica italiana devo pensare al bene di tutti, anche dei non cri-stiani. Questo porta certo a delle complicazioni, ma sono complicazioni che fanno parte dell’esercizio dell’esperienza umana.

La nuova alleanza ci aiuta, in questo senso, proprio con il discorso dell’interiorizzazione del cul-to, la quale ci vuole rendere ‘soggetti’. Io ho un corpo e lo offro, ma sono io il soggetto della mia offerta! Non posso stare a vedere quello che fanno gli altri o eseguire quello che gli altri mi ordina-no. La scelta è un compito mio, è la mia storia, la mia esperienza umana: io sono soggetto della mia vita, esattamente come sono io ad imparare a camminare e poi a camminare in modo indipendente.

Questo significa essere uomini e donne, e questo si deve affermare certamente anche sul piano politico e sociale.

Non abbiamo finito di enumerare gli aspetti della nuova alleanza, ma quelli che abbiamo visto sono cose importanti per l’oggi, perché questa è l’alleanza in cui viviamo attualmente: sia per Israe-le che per la Chiesa, quella di prima non c’è più. Bisogna quindi che, alla fine, ciascuno trovi il pro-prio posto nell’economia di salvezza che il Signore ci ha proposto proprio con la fine della monar-chia davidica, dove Egli ha trovato il modo di essere fedele alla promessa fatta a Davide perché Ge-sù è ‘figlio di Davide’. È stato fedele alla promessa in un modo che Davide non aveva capito: «Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discen-dente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre» (2Sam 7,12-13). Certo Davide a-vrà pensato che il suo casato sarebbe per sempre rimasto a capo d’Israele e che un suo discendente si sarebbe seduto per sempre sul trono. Invece il suo discendente ha avuto per trono la croce, però poi è risorto e siede alla destra del Padre.

Dio sapeva ciò da sempre, perché questo è il Regno come lo desidera Lui. Quindi anche al di là del nostro modo di capire la parola del Signore, ci sono anche modi più profondi di capire la stessa Parola. Ed è quanto è successo ai due discepoli di Emmaus, quando Gesù ha riletto loro le Scritture: “Voi le capivate in un modo che escludeva il Calvario del Messia. Provate invece a rileggerle met-tendo al centro tutto quello che mi è successo e guardate se la lettura funziona, se il discorso corre. C’è infatti anche un’altra lettura che si può fare a partire proprio dagli eventi che vi hanno fatto fug-gire da Gerusalemme verso Emmaus. Se rifarete questa lettura, invertirete il cammino e ritornerete a Gerusalemme!”.

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Settima riflessione Nella nostra riflessione stiamo cercando di capire una svolta capitale, avvenuta nella storia

d’Israele e nella ‘corsa’ della Parola nella Bibbia, e che chiamiamo “l’ambiente e l’atmosfera della nuova alleanza”.

Siamo al tempo dell’esilio babilonese, della fine della monarchia israelitica (praticamente del re-gno di Davide) e della distruzione di Gerusalemme, capitale del regno del Sud. Bisogna rilevare questa svolta, perché dalle profondità più abissali di una crisi nazionale e religiosa insieme, per la parola di Dio presentata da Geremia, Isaia, Ezechiele, Secondo Isaia, molti salmi, ecc., si è avuta una svolta capitale nella spiritualità d’Israele, per cui è poi venuto il Nuovo Testamento. Poiché ciò che ci interessa per i nostri incontri è l’unità dei due Testamenti, il trovare nell’Antico Testamento la radice del Nuovo ci dovrebbe illuminare su tale continuità, sul fatto che siamo nella storia dell’unica alleanza, dell’unica parola di Dio, e sulla necessità assoluta di capire l’Antico Testamen-to per comprendere il Nuovo e di capire il Nuovo per comprendere dove sbocca l’Antico.

Nel piano di Dio la continuità è perfetta. Abbiamo già accennato a tre aspetti di questa atmosfera spirituale. Il primo è che, distrutta la città, distrutto il tempio e portato in esilio il popolo, si scopre che il

culto di Dio passa dal tempio al corpo dell’uomo e della donna: «Offrire i vostri corpi come sacrifi-cio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Questa interioriz-zazione del culto è ciò che ha permesso la sussistenza d’Israele nella diaspora. Si capisce subito che se per essere ebrei bisogna stare nel paese e nel tempio che è a Gerusalemme, andando in altri luo-ghi si perde tutto. Infatti le dieci tribù del regno del Nord sono sparite. Invece, per le parole di Ge-remia, che parlava del ‘cuore circonciso’, delle ‘orecchie circoncise’, della ‘lingua circoncisa’, an-cor prima della circoncisione della carne, i giudei hanno potuto rimanere giudei anche fuori dal loro paese. Si sono legati alla Tôrāh del Signore, all’apertura delle orecchie, per vivere secondo la Paro-la. E nei libri di Tobia e Ester abbiamo proprio l’esempio di ebrei che rimangono perfettamente fe-deli alla loro preghiera, ai salmi, all’ascolto della Parola, anche trovandosi fuori dal loro paese, sen-za il tempio e la sua liturgia. Hanno scoperto che l’esistenza stessa degli uomini è una liturgia, e questo ha permesso agli ebrei di non assimilarsi ai popoli in mezzo a cui sono dispersi, ma di con-servare la loro identità perché si attaccano alla Tôrāh, e non ai templi dei sacrifici o dei riti. Prima di tutto c’è l’obbedienza alla parola di Dio!

Se questa è la vicenda di ogni persona, quando il popolo si riunisce insieme per fare l’offerta a Dio nelle proprie persone, nasce la sinagoga, cioè l’assemblea di coloro che insieme ascoltano la parola di Dio e rispondono con quello che è chiamato ‘sacrificio delle labbra’ che sarebbe la lode del Signore o, meglio, la confessione della fede: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4).

Quindi, con la distruzione del tempio e della città si verifica questo passaggio: erano rimaste sol-tanto le due tribù di Giuda e di Beniamino nel regno del Sud, nelle persone dei superstiti alla guerra e all’esilio; le tribù del Nord non esistevano più. Nasce pertanto il ‘giudaismo’ in sostituzione dell’ebraismo. Sparisce ogni edificio sacro, ogni mediazione tra Dio e gli uomini, e al credente ri-mane il proprio corpo da offrire. Notiamo bene che questo è il culto cristiano, la liturgia cristiana…

Come dicevamo ieri, Geremia introduce un principio fondamentale – anche se richiederà dei se-coli per percorrere la strada che deve fare –, e cioè la distinzione tra fede e politica. La prosperità politica, sociale, economica del popolo di Dio non è necessariamente connessa alla sua fede. Israele rimane il popolo di Dio, il popolo sacerdotale per tutte le nazioni. Anche se perde la sua indipen-denza e la sua terra, anche se perde il suo regno, anche in esilio, anche disperso, non ha bisogno di una connotazione politica. Tant’è vero che i giudei sono rimasti giudei per secoli, anche se dissemi-nati in mezzo alle nazioni, e hanno santificato il nome del Signore con la loro preghiera, con la loro fedeltà alla Tôrāh e con la loro pietà. E la Chiesa ha ricevuto questa eredità.

Questi sono alcuni punti rintracciati finora nella storia biblica a riguardo della nuova alleanza.

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Adesso ne menzioneremo altri due o tre, il primo dei quali è forse il più importante. Ricordiamo che il tutto è cominciato con la morte del re Giosia, e questo è interessante perché i progressi teolo-gici e spirituali spesso nascono da fatti storici. Oggi si parla molto della parola di Dio, ma come par-la, Dio? Egli parla, innanzitutto, facendo la storia, attuando dei fatti. Ho detto già che ciascun uomo fa i propri giochi, poi gli uomini insieme fanno i loro giochi; ebbene, nella politica degli uomini Dio fa un suo cammino, come un filo rosso che attraversa la storia umana, e porta avanti il suo disegno che nel Nuovo Testamento chiamiamo ‘disegno di salvezza’. Ma forse, con più fedeltà biblica, si può dire che porta avanti il suo Regno, come Lui lo intende.

Quindi Dio parla e noi troviamo, in mezzo alle nostre storie, dei fatti che sono avvenuti e che camminano, e fanno parte della storia costruita da Dio nelle nostre storie.

Abbiamo detto che alla fine del VII secolo a.C. (anno 609), nella battaglia di Meghiddo, muore il re Giosia, il re santo (“un profumo d’incenso”, dice il Siracide). Se c’è qualcuno – secondo la teolo-gia corrente – a cui le cose devono andare bene, è proprio il re Giosia, e invece lui muore, colpito da una freccia egiziana, forse tirata a caso.

Alla sua morte si fanno avanti i tre figli, che fanno una politica completamente sbagliata, appog-giandosi all’Egitto invece che a Babilonia, e Geremia, l’unico profeta di Dio, di quel tempo, non è riconosciuto da nessuno; tutti i profeti di corte gli parlano contro. Lo vogliono uccidere, eliminare, perché consiglia di arrendersi ai Babilonesi, suggerendo una politica che avrebbe salvato Gerusa-lemme. Ma i figli di Giosia non lo ascoltano. Siamo in un periodo in cui c’è un solo profeta di Dio al quale nessuno dà retta. Anzi, lo malmenano e lo minacciano di morte. E tutto finisce in catastro-fe: il popolo di Gerusalemme, la città santa, che un secolo e mezzo prima si era salvata proprio per-ché si era fidata del Signore e del suo profeta Isaia nel corso dell’assedio degli Assiri, adesso crolla sotto i Babilonesi. Viene incendiata, il tempio viene distrutto, la monarchia finisce e il popolo viene portato in esilio: «O Dio, nella tua eredità sono entrate le genti: hanno profanato il tuo santo tem-pio, hanno ridotto Gerusalemme in macerie. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e nessuno seppelliva. Siamo divenuti il disprezzo dei nostri vicini, lo scherno e la de-risione di chi ci sta intorno. Perché le genti dovrebbero dire: “Dov’è il loro Dio?”» (Sal 79,3ss).

È così che Dio tratta il suo popolo? D’accordo, avranno compiuto dei peccati, ma qui sono stati presi tutti, peccatori e giusti. Si ha l’impressione che la sventura accaduta sia troppo grande, dal momento che non si distingue più tra giusti e peccatori.

L’esilio dura tra i cinquanta e i settant’anni, fin quando l’impero persiano rovescia l’impero babi-lonese e il re Ciro, nell’anno 530, proclama un editto per permettere agli ebrei che vogliono ritorna-re nella loro terra, di partire. Anzi, li aiuta ad andare e a ricostruire nel loro paese. Verso la fine dell’esilio, a Geremia si aggiunge un altro profeta, di cui non si conosce il nome, ma si conoscono gli scritti, e viene chiamato ‘Secondo Isaia’ perché il suo stile letterario e teologico, la sua spirituali-tà, si avvicina e sembra quasi continuare la scuola profetica del grande Isaia, vissuto due secoli pri-ma. Come sappiamo, a quel tempo – come del resto anche nel Medioevo – non c’era la mania dei ‘diritti d’autore’; anzi, uno che si sente chiamato ‘Secondo Isaia’ è certamente onorato di essere ac-costato al grande profeta. Troviamo i suoi scritti nel libro di Isaia, dal cap. 40 al cap. 55.

Più tardi ci sarà addirittura il Terzo Isaia, dopo l’esilio, nel sec. V. Anche lui è inserito nel libro di Isaia, ma la parte originale, attribuita ad Isaia, va dal cap. 1 al cap. 39.

Il Secondo Isaia è scritto in poesia più che in prosa. È un linguaggio profetico in versi. Bisogne-rebbe leggerlo tutto insieme: rende molto bene d’idea dell’esilio sul suo finire. È un poema, e si chiama il poema del Servo. È un canto di lode, una profezia sulla storia del tempo, in cui si canta il Servo del Signore, e questo Servo è Israele. È un ‘popolo servo’, in senso serio e umoristico; è un popolo che è diventato schiavo dei Babilonesi, però è il popolo del Signore. La parola ebraica indica insieme umiltà e grandezza, e il servo del re, del signore, è il primo ministro, quello che gli è più vi-cino, la persona più intima. Ricordiamo Giuseppe alla corte del Faraone: è ‘servo’, ma il Faraone dichiara «Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più grande di te» (Gen 41,40).

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Tranne che per l’essere Faraone, Giuseppe è in tutto e per tutto uguale al sovrano. ‘Servo’ è allora un titolo d’onore, ma insieme è segno di umiltà: è il secondo! Ebbene, Israele è il Servo del Signore, è il popolo che Dio ha scelto al Sinai per essere una nazione santa, un regno di sacerdoti, un popolo di suo possesso, scelto per il bene di tutti gli altri popoli.

Ma allora, come mai un popolo così nobile si trova in schiavitù a Babilonia? Così avviene una ri-voluzione spirituale che è opera dello Spirito Santo. Vediamo anche noi, oggi, quanta difficoltà tro-viamo a riconoscere questa verità: che l’amico più grande di Dio appaia come l’uomo provato, sfor-tunato, sofferente. Israele conosceva queste cose: già Abele viene ucciso dal fratello Caino, ad A-bramo viene chiesto di sacrificare il figlio, Mosè soffre nel portar fuori gli ebrei dall’Egitto e nel guidarli nel deserto, Davide è perseguitato da Saul… Ci siamo abituati anche noi a vedere che c’è stato qualche ‘giusto’ che è apparso sfortunato. Non è quindi una cosa nuova, ma adesso è un fatto macroscopico: tutto il popolo del Signore è schiavo dei Babilonesi! Allora si accende una luce nella spiritualità ebraica, il pensiero che nel disegno di Dio ci sia proprio questa figura del Servo soffe-rente. Non è un’idea arbitraria del Signore, ma un fatto di cui si tirano le somme: il piano di Dio tra gli uomini incontra resistenza, è ostacolato. Il Signore non fa una marcia trionfale, nella storia degli uomini, ma percorre un cammino anche doloroso.

Questa sì, è una cosa nuova: entra nella spiritualità ebraica questa pagina che poi ritroviamo nei salmi, alcuni dei quali appartengono alla scuola di Geremia. Nei salmi si ritrova la vecchia teologia della remunerazione, che in parte rimane ancora (il giusto è premiato, il peccatore è punito), alla quale però si accosta una teologia nuova: se mi capita una disgrazia, forse questo è un segno d’amore del Signore, di cui sono l’amico più intimo. Si scopre una cosa profondamente teologica, e cioè che Dio soffre nella storia nostra. Egli non fa soffrire il suo Servo, ma più si è vicini al Signore e più si partecipa, in qualche modo, alla sua sofferenza per salvare il mondo. Questo deve essere compreso bene: Dio soffre come soffre il contadino lavorando i campi; come il contadino suda la-vorando il campo, così Dio ‘suda’ avanzando nella nostra storia per salvarci.

Nella mistica ebraica si dice che Dio, già quando crea, si aliena da qualche cosa da sé per creare noi; rinuncia a qualcosa di sé per dare vita al mondo. E questo per amore! Allora è vero che chi ama soltanto, finisce per soffrire; chi ama fino ad un certo punto, non necessariamente soffre. Ricordia-mo Pietro, che domanda a Gesù: «“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22). Devi perdonare sempre. Ma se io perdono sempre, finisco per passare dei guai! Certo! Chi è solo amore, mette in conto la delusione, il tradimento. Dio è solo amore e quindi ci si può approfittare di Lui; Dio perdona sempre, e allora io faccio il comodo mio.

Il Secondo Isaia comincia a capire questo e introduce nel popolo, insieme ad Ezechiele e ai sa-cerdoti animati da Geremia, questo tipo di spiritualità: Dio ci ha punito, ma forse c’è qualche altra cosa, non solo la punizione. Il popolo di Dio partecipa del mistero di Dio.

Questa è una svolta fondamentale nella spiritualità ebraica perché, usando il modo di parlare cri-stiano, comincia a svelare la teologia della croce per amore. Allora è vero che più un popolo appar-tiene al Signore, più è ‘popolo di Dio’, e più conoscerà anche il mistero della croce. Noi troviamo questo in molti salmi perché da una parte continuiamo a leggere: «Non ho mai visto il giusto ab-bandonato» (Sal 37,25), e in altri invece il giusto si sente abbandonato, ma le ultime parole ricono-scono in questo un gesto di salvezza. Si illumina tutta la storia di Dio: la creazione, il peccato che comporta già in se stesso la punizione con la sofferenza; ma, attraverso questa sofferenza, il Signore salva non togliendo la sofferenza, bensì passandoci in mezzo.

Troviamo questi pensieri anche nei profeti del postesilio, come in Zaccaria, nei capitoli 12-13-14: «Faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primo-genito. In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo [dove è morto Giosia]. Farà lutto il paese, famiglia per famiglia…» (Zc 12,10ss).

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Come vedete, la morte di Giosia ha aperto tutta una pagina nuova, quella del giusto sofferente. Ma, due secoli dopo, questa spiritualità viene presa come tema fondamentale di uno dei libri più belli della Bibbia, quello di Giobbe. Si potrebbe dire che è quasi una tragedia da rappresentare in te-atro. Giobbe è un uomo ricco a cui tutto va bene: figli, campi, greggi, gli danno grandi soddisfazio-ni. Ad un certo punto perde tutto. Allora gli amici, uno dopo l’altro, lo vanno a trovare e cercano di interpretare che cosa gli sia successo. E siccome si fanno condurre dalla vecchia teologia, deducono che Giobbe deve essere un gran peccatore, sicché lo consigliano di confessare le sue colpe a Dio, che lo perdonerà e gli restituirà i suoi beni. Vuol forse litigare con Dio? È chiaro che Dio ha ragio-ne, perciò se le cose gli vanno male è a causa di una punizione divina! Giobbe rifiuta tutto questo; può anche riconoscersi peccatore, ma quello che gli è successo è più grave. Quello che tormenta Giobbe non è tanto la sua sofferenza, ma il non capire più il Signore: “Chi sei? Io ti ho voluto e, ma a chi ho voluto bene? Come faccio a voler bene a uno che mi tratta in questo modo? Se tu sei diver-so, allora io sono solo, non ho amore. Ho forse amato un fantasma?”.

Il libro di Giobbe è di due secoli dopo l’esilio, il che indica una maturazione profonda del pensie-ro, della preghiera, della spiritualità ebraica, che è consapevole di quello che le è successo.

Tutto questo si è riprodotto nei nostri tempi con la shoah. Il termine non può essere tradotto con olocausto, perché questo è un sacrificio gradito a Dio, mentre la shoah è stato uno sterminio che certamente Lui non ha gradito. Shoah significa un’assurdità, una cosa di cui è inutile cercare di ca-pire il perché. Israele si è trovato di fronte allo stesso problema dell’esilio e si è detto: “Non è pos-sibile che questo sia conseguenza delle nostre colpe. Gli ortodossi ebrei più rigidi dicono che tutto questo è successo perché non abbiamo osservato tutti i precetti del Signore, ma quelli che morivano nei campi di concentramento erano proprio quelli che osservavano di più i precetti del Signore!”.

È inutile cercare una ragione di retribuzione: dentro c’è un altro mistero! La storia di Giobbe è la riproduzione della storia d’Israele ed è anche il più profondo problema

umano. Nel trentesimo anniversario dello Stato d’Israele, nel 1978, ho partecipato a Gerusalemme ad una

riunione per le celebrazioni. Noi cristiani eravamo tre o quattro. Durante una conferenza, ci fu l’intervento di un rabbino, che poteva anche essere ecumenico, il quale disse: “Abbiamo assistito alla shoah, al tentativo di distruggere il nostro popolo e di fatto è stato distrutto quasi tutto l’ebraismo europeo, però lo Stato d’Israele è rinato. I cristiani credono nella risurrezione del loro Messia e noi, in un certo sento abbiamo vissuto questa morte e questa risurrezione dello Stato d’Israele”. Dal fondo dell’emiciclo si alzò un vecchietto: “Sì, sì, va bene, voi dite che c’è stata la nostra risurrezione, ma se YHWH ci riportasse davanti ai forni crematori noi dovremmo ugualmen-te dire: Signore, io credo che tu mi ami, perché il Signore con Israele può fare quello che gli pare!”. Questo vecchietto aveva capito il senso della sofferenza, che non è riposto nella vecchia teologia. La risurrezione non è un premio dopo la sofferenza. Il passare dentro la sofferenza è un fatto d’amore. Questa, tuttavia, rimane una lezione generalmente respinta: si celebra una rinascita, una vittoria, però non si capisce perché. La shoah, interpretata in modo cristiano, è proprio l’ombra del-la croce sul popolo; non è un segno d’amore di Dio sui sei milioni di ebrei assassinati (di quello ha la responsabilità Hitler e la sua compagnia), ma il segno che il Signore passava attraverso questo per la salvezza del suo popolo, per la missione sacerdotale della sua nazione santa. I vivi sono vivi perché gli altri sono morti!

Quindi la lezione del giusto sofferente resta nella nostra storia di oggi, e non solo d’Israele, ma dappertutto dove c’è questo mistero dei malvagi che fanno fortuna e dei giusti che sono colpiti dalla sofferenza. C’è nella Chiesa, fuori dalla Chiesa, nelle altre religioni. Anzi, io credo davvero che questo sia uno dei modi con cui Dio visita la vita di ogni uomo e di ogni donna.

Ed è un mistero, perché quando si provano certe sofferenze nel corso della propria esistenza, si può anche pensare che siano dovute ai propri peccati. Poi ci sono persone che rimangono persuase di aver fatto tutto il possibile per essere fedeli a Dio, e vengono sottoposte a prove durissime. Io credo che nessuno di noi sia, al cento per cento, il giusto sofferente e che nessuno possa dire: “Io

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sono completamente innocente, eppure mi è capitato questo e quest’altro”. Questo lo azzardiamo in pubblico, ma da soli, davanti allo specchio, non possiamo proprio farlo.

Però è vero che c’è dell’altro, e quindi la giustizia di Dio non è soltanto distributiva, perché in re-altà obbedisce all’amore e l’amore non si può pesare, non si paga: l’amore è gratuità. Allora o in questo amore ci si entra dentro o, se resta solo merce di scambio, non ci si capisce niente. Se la reli-gione – anche ebraica e anche cristiana – è fondata soltanto sullo scambio di giustizia (io faccio questo, e tu mi dai questo), allora capisco i teologi ebrei del nostro tempo che dicono: “Dopo la shoah bisogna cambiare teologia, non si può più parlare di Dio come se ne parlava prima!”. Il che è vero già dal VI secolo a.C. perché fin da allora anche nel popolo d’Israele c’è questa corrente spiri-tuale, ma la si è accantonata per rimettere in primo piano la giustizia distributiva. E finché uno non si sveglia e riconosce che c’è un’altra giustizia, non capisce ciò che sta succedendo.

Dentro il Canto del Servo, di cui vi parlavo, pian piano appare la particolare figura di una perso-na; non di un popolo, ma di un uomo veramente giusto, che patisce per il suo popolo sofferente (Is 42; 49; 50; 52-53, capitoli che non vanno separati da tutto il Canto del Servo). Questo popolo si as-sottiglia fino a diventare una persona che non solo soffre per tutti gli uomini, ma anche per il suo stesso popolo, e porta i peccati di tutti, pur essendo innocente.

Ci si potrebbe domandare a che cosa pensi (o a chi pensi) il profeta quando parla di questo. Molti cristiani affermano che stia pensando a Gesù, ma allora ricomparirebbe la figura del profeta-indovino… No, il profeta parla di quello che sta succedendo intorno a lui. Che poi Gesù abbia ripre-so questo, senz’altro, ma non era nel pensiero dell’autore biblico. Io credo invece che questo miste-ro, prima ancora di rappresentare il mistero di tutto il popolo, rappresenti il misero di qualcuno. E questo ‘qualcuno’ può essere innanzitutto il re Giosia, e poi lo stesso Geremia: Quest’ultimo ha ef-fettivamente portato, nella propria vicenda dolorosa, i peccati di tutto il suo popolo, pagandone le conseguenze. È stato perseguitato dai suoi, che non hanno capito il suo messaggio, ma è rimasto fe-dele e non se ne è separato; non è neppure andato a Babilonia e ha preferito rimanere tra le rovine di Gerusalemme.

Ed è interessante notare nel Secondo libro dei Maccabei (150 anni prima di Gesù) la visione di un sogno: «Poi, allo stesso modo, era apparso un uomo distinto per età senile e maestà, circonfuso di dignità meravigliosa e piena di magnificenza. Presa la parola, Onia disse: “Questi è l’amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo e per la città santa, Geremia, il profeta di Dio”» (2Mc 15,13-14). Quindi dopo cinque secoli ancora si ricordava, nella spiritualità ebraica, che Geremia era il profeta di Dio. Forse un po’ tardi per riconoscere questo, ma vuol dire che si era mantenuta la memoria e si è custodita nel cuore la figura di Geremia, che ha sofferto per il suo popolo. Ritrovia-mo quindi la sua figura alle soglie del Nuovo Testamento.

Ma perché il giusto viene onorato soltanto dopo che è morto? Anche nella Chiesa dei nostri giorni ci sono stati dei teologi, come Congar, De Lubac, Danielou, Von Balthasar, che da vivi hanno ri-schiato la scomunica e poi, dopo il Concilio Vaticano II sono stati fatti cardinali. Von Balthasar è morto prima di ricevere la nomina ufficiale. Perché ci mettiamo tanto ad accorgerci delle cose che sono così evidenti? Perché ancora oggi c’è tanta gente che ha paura del Vaticano II? Perché siamo lenti nel cuore, spiritualmente. Ancora oggi il Card. Biffi ha scritto che Giovanni XXIII è stato un buon pastore, ma un pessimo maestro… Perché alcuni sono così chiusi? Forse però tutti siamo chiusi in qualche aspetto della nostra fede. Forse perché non siamo vivi, però il Signore ci tiene nel suo popolo e magari soffre.

È vero o no, che Dio soffre? Basti ricordare che appena Egli prende la nostra carne, abbiamo la sofferenza di Gesù, visibilità della sofferenza del Padre («Chi vede me, vede il Padre»). Il Padre non può soffrire per i segni dei chiodi nelle mani e nei piedi, poiché non ha né mani né piedi, ma quelli nelle mani e nei piedi di Gesù sono il ‘sacramento’ di come il Padre ci ama. Quindi, quando guardiamo ai nostri crocifissi, ci troviamo davanti alla visibilità del Padre invisibile. Il Padre è vivo, perché a morire è stato il Figlio, ma adesso anche il Figlio è vivo, per cui l’ultima parola di questo amore è il trionfo dell’amore sofferente. Se fosse la morte dell’amore sofferente, allora il vincitore sarebbe il diavolo, invece è la nostra fede che vince il mondo, come dice Giovanni. Attraverso il

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cammino della croce si arriva alla risurrezione. L’amore vince, anzi, la fede e la speranza passeran-no, ma «l’amore non avrà mai fine» (1Cor 13,8).

Vediamo allora che cosa si celi e si apra nell’esilio: una svolta che rimane anche oggi nella spiri-tualità ebraica e cristiana, ma non guadagna la popolarità perché noi restiamo sempre più attaccati all’idea della retribuzione, alla giustizia distributiva.

La prima cosa che ci viene in mente, quando ci dicono che abbiamo una malattia incurabile, è la domanda: “Ma che cosa ho fatto di male?”. È morto giovane… è morto bambino… Certo, questi sono fatti. Ma sono fatti di un cammino che continua, oppure sono blocchi che sbarrano la strada perché vissuti come un fallimento?

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Ottava riflessione

Nel nostro primo incontro ho parlato del momento in cui Gesù ha intercettato i due discepoli che se ne andavano ad Emmaus e, dopo averli lasciati parlare della loro tristezza, della loro speranza de-lusa, ripropone loro tutte le Scritture, a partire da Mosè e dai profeti. Il punto cruciale era questo: «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26). Sarebbe meglio dire che “il Messia deve soffrire”, cioè che questo fa parte della vocazione del po-polo di Dio, che si identifica con il suo Messia. Il punto critico a cui si rifà Gesù è proprio la figura del Servo sofferente, per cui riprende tutte le Scritture partendo da questo nucleo, che fa parte dell’Antico Testamento, cioè del patrimonio d’Israele.

Però cerchiamo di capire che strada ha fatto, nella storia seguente, la spiritualità della nuova alle-anza, dell’esilio, che contiene questo mistero della passione del Messia, cioè d’Israele, mistero che certamente è entrato nella spiritualità d’Israele, dal momento che lo ritroviamo nei profeti del poste-silio, nel libro di Giobbe, nella mistica ebraica e soprattutto in quella ‘apertura degli occhi’ che i di-scepoli di Gesù sperimentano su questo fatto, dopo la risurrezione. Gesù ha fornito loro una nuova lettura di tutta la storia d’Israele, a partire dalla vicenda dell’esilio e del postesilio. Però, come si può immaginare e come avviene anche per noi, lo si sa, ma lo si dimentica e si ritorna più volentieri alla teologia tradizionale della retribuzione. Si fa scadere la fede nella religione, e questa è per un dare e un ricevere in cambio.

Che cosa è successo dopo l’esilio? Una parte del popolo è rimasta a Babilonia e nei vari luoghi dove si era dispersa, una parte invece è ritornata nella terra promessa. E si è posto così il problema di come ricostruire la comunità d’Israele; non si poteva ricostruire il regno, poiché il territorio era ridotto a provincia del grande impero persiano, succeduto a quello babilonese e assai tollerante ver-so le diverse culture e religioni. Sappiamo che nei territori persiani le sinagoghe sono state dei grandi centri di cultura ebraica.

Dopo l’impero persiano è arrivato Alessandro Magno, il quale ha allargato ancora di più il suo impero, tollerando il giudaismo e portando nel proprio impero l’uniformità della lingua greca, che ha permesso una comunicazione più intensa fra le varie popolazioni da lui dominate. Ha creato cioè una lingua comune, per cui quei popoli, pur parlando una propria lingua, si potevano reciprocamen-te comprendere. Il greco è rimasto la lingua di scambio anche quando si formò l’impero romano. La gente comune parlava ovviamente il latino, ma la classe colta utilizzava il greco, come pure i go-vernatori nelle varie regioni, dove era rimasto abituale parlare in greco.

Allora, come si è ricostituito il giudaismo? Intorno alla Tôrāh, perché la ricostruzione del tempio avrebbe richiesto molto denaro, ma quelli che erano rientrati appartenevano alla classe più povera, che non era riuscita a far fortuna durante l’esilio. Sicché si è cominciato a ricostruire l’altare per i sacrifici. Poi, intorno all’altare, si è costruito, sotto la guida di Neemia ed Esdra, un piccolo tempio, assai più modesto di quello di Salomone, per avere un luogo riparato in cui riunirsi per alzare le lodi al Signore. Ma nel culto giudaico avviene un cambiamento: ormai il nucleo centrale è la Parola.

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Erode decise più tardi di rifare il tempio, di renderlo più grande e imponente, e lo costruì, effetti-vamente, anche se più brutto di quello di Salomone. Questo tempio venne distrutto dai romani nel 70 d.C.. Il Talmud racconta che il maestro fondatore del rabbinismo, vedendo un uomo che piange-va sulle rovine del tempio, gli disse: “Perché piangi? Non importa se il tempio non c’è più, poiché abbiamo la Tôrāh!”. È la spiritualità che viene dall’esilio di Babilonia: la Tôrāh può essere portata nello spirito di ciascuno e possiamo mantenere la nostra preghiera e le nostre tradizioni anche senza il tempio. La liberazione dall’istituzione religiosa è rimasta in Israele fino ad oggi, anche se non è passata la voglia – e questo vale anche per il cristianesimo – di rifare qualcosa del passato. Quando Begin riuscì ad avere ospite Saddat in Israele per un accordo di pace, venne applaudito come ‘re d’Israele’…

Quindi il ritorno dall’esilio conosce due canali. Uno è il canale del ritorno, cioè del desiderio di ricostruire – nella misura in cui è possibile –

qualcosa che è caduto. È la linea di Esdra e Neemia, di un giudaismo che vuole rimettere in piedi tutto quello che si riesce del passato. È comprensibile, anche per mantenere una certa differenza nei confronti di coloro che non sono giudei; c’è un certo rifiuto dell’assimilazione perché la contamina-zione della loro fede con le cose idolatriche li aveva portati all’esilio e adesso non desiderano ritor-nare a quella situazione di rischio. Vorrebbero una divisione che potrebbe sembrare razzismo, ma non lo è; è proprio per il fatto di rivendicare l’identità ebraica che le mogli non ebree vengono ri-mandate a casa: «Facciamo dunque un patto con il nostro Dio, impegnandoci a rimandare tutte le donne e i figli nati da loro, secondo la volontà del mio signore e rispettando il comando del nostro Dio. Si farà secondo la legge!» (Esd 10,3).

La seconda tendenza è quella dell’apertura, molto più significativa, perché la maggior parte d’Israele è rimasta fuori, all’estero. C’è quindi questa interazione tra Gerusalemme e le sinagoghe all’estero, che apre la grande pagina del giudaismo internazionale. Gerusalemme rimane il centro ideale, il centro religioso, il cuore della patria, ma si può anche rimanere fuori, orientati verso la cit-tà santa. Allora c’è il flusso di chi si reca a Gerusalemme in pellegrinaggio e il flusso contrario di coloro che poi lasciano Gerusalemme per ritornare a casa e testimoniare il nome del Signore in mezzo alle nazioni.

Si potrebbe dire che Gerusalemme diventa più importante di prima, come luogo religioso e cultu-rale perché non è più la capitale di un regno d’Israele che non c’è, ma diventa l’ombelico/centro della terra, come spesso viene definita nella Scrittura. Infatti le carte geografiche di quel tempo mo-strano Gerusalemme al centro e intorno c’è tutto il mondo conosciuto. Gerusalemme è la patria di tutti, perché il Dio di Gerusalemme è anche il Dio delle altre nazioni. Questo è un altro punto molto importante che è stato scoperto al tempo dell’esilio: la vocazione missionaria d’Israele. Prima vole-vano stare nel loro regno, adesso sono dispersi dappertutto e interpretano questa dispersione come un modo per far conoscere il nome del Signore alle altre nazioni. E si apre allora una grande pagina della Bibbia: tutta la letteratura sapienziale, che comprende un terzo della Bibbia.

La Tôrāh, la Profezia e la Sapienza sono le tre parti della Bibbia, ma sono anche le tre tappe di questa evoluzione storica. Pian piano i profeti spariscono e compaiono i ‘saggi’, cioè coloro che hanno imparato la lezione della Tôrāh nella storia e accolto la spiegazione che ne hanno dato i pro-feti. Adesso ‘sanno’! Così abbiamo i Proverbi, il Qoelet, il Cantico dei Cantici, molti salmi e più tardi il libro della Sapienza, il Siracide. In tutti questi libri, apparentemente, non si parla tanto d’Israele quanto dell’esperienza umana. La Sapienza biblica è la parola di Dio che ha fecondato l’esperienza umana anche degli altri popoli. Anzi, gli altri popoli hanno più sapienza d’Israele, per-ché la sapienza dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India è molto vasta e profonda. Tutto questo converge, ma il buon giudeo prende il bene che si trova in quella sapienza e lo rivive partendo dalla parola di Dio. C’è quindi un grande lavoro di bonifica intellettuale e morale, perché la parola di Dio si mescola in mezzo alla sapienza delle nazioni. La sapienza biblica ha poco a che fare con la sa-piente filosofia greca: è piuttosto un ‘saper vivere’, un ‘vivere buono’ nel mondo anche quando si ha un successo onesto. È un po’ la spiritualità delle Beatitudini, dove ‘beato/fortunato’ è l’uomo che ha avuto successo nella vita per il fatto di aver capito come si sta al mondo, di aver mostrato come

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si deve vivere anche di fronte al malvagio, che invece crede di essere fortunato quando fa fortuna schiacciando gli altri. Temere Dio e fare la sua volontà è il massimo della fortuna, come attestano le ultime pagine del Qoelet. Questo si può capire in diversi modi, e uno è quello del Servo sofferente perché alla fine, se si è onesti, si deve anche soffrire a causa dei disonesti.

Il ritorno dall’esilio, quindi, è complesso; non si può ricostruire il mondo di prima, perché la sto-ria non si riporta indietro. Bisogna fare quel qualcosa di nuovo che è il Regno come lo vuole Dio.

Dicevo che nella letteratura sapienziale non si parla spesso d’Israele, ma qualche volta sì, come in Sir 24,1ss dove si ha il più bel quadro del dopo-esilio: «La sapienza fa il proprio elogio, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria».

E comincia parlando della creazione: «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho ricoperto la terra. Io ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi…Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israe-le”… Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Viene presenta-ta tutta la geografia del territorio d’Israele: Libano, Ermon, Engaddi, Gerico, e si elencano tutte le piante profumate d’Israele, sicché diventa il paese odoroso della sapienza di Dio.

La Sapienza afferma: «Io sono la madre del bell’amore e del timore, della conoscenza e della santa speranza». È la vita buona!

«Tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la legge che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe».

In questo cap. 24 ritroviamo il motivo fondamentale dell’alleanza, cioè il particolare per l’universale. La Chiesa ha riletto questo capitolo dicendo che la Sapienza è Cristo. La Sapienza, che è inviata dal Creatore e mette la propria dimora in Israele, è Gesù che diventa il Messia d’Israele. Direi che tutto il vangelo di Giovanni sia centrato su questa idea: il Logos è la sapienza del Padre. Poi la Chiesa cattolica applica questo anche a Maria, benedizione di Dio da estendere a tutti i popo-li. Ma questo viene dall’Antico Testamento, dall’esilio, dalla letteratura sapienziale: è la missione per il mondo che Israele scopre a Babilonia, dove vivono gli ‘altri’, che sono anche buoni. Si scopre il vero monoteismo, finalmente, perché in quel tempo ogni popolo aveva il suo dio e Israele pensava che il suo fosse il più forte; ma è capitata la catastrofe dell’esilio e Israele ha scoperto che il suo Dio era diverso e che il vero Dio poteva conoscere anche delle sconfitte.

C’è quindi una grande maturazione e in questo senso si apre un’alleanza nuova che, come vi di-cevo, non è una seconda alleanza. Tutta questa teologia nuova, anche quella del Servo sofferente, non è un’aggiunta: il fatto è che si scopre chi è veramente il Signore!

Capita talvolta anche a noi cristiani di avere appreso certe cose e di aver la sensazione di sentirce-le dire adesso modificate. È vero, perché bisogna progredire nell’intelligenza. Sentiamo dire che Dio non punisce nessuno, ma ci è invece stato insegnato che punisce il peccato. Il linguaggio cam-bia con il crescere della comprensione di fede. La nuova alleanza non è altro che la rivelazione del Dio della prima alleanza. La novità sta nell’apertura della mente del fedele. Se Dio perdona sempre – come ha detto Geremia – anche il Dio di Mosè perdonava sempre: è lo stesso Dio! Ma Mosè non può spiegarlo al popolo, che ancora non capisce che cosa sia questo perdono, e quindi deve minac-ciarlo di un castigo divino se farà qualcosa di male. Ma il Signore non manda nessun castigo: il ma-le porta la conseguenza in se stesso; il peccato porta la sua punizione in se stesso. “Dio punisce” è una frase sciocca, perché è già sufficiente il male che ci facciamo da soli peccando..

Ma questa non è una cosa nuova, bensì la scoperta di una cosa antica. E chissà quante altre cose dobbiamo scoprire, perché abbiamo la parola di Dio, ma non la comprendiamo tutta. Per esempio, che cosa dobbiamo scoprire in quello che l’islam dice a noi cristiani? Che cosa dobbiamo scoprire nelle relazioni con l’induismo, il buddismo, l’ateismo? Noi parliamo di dialogo interreligioso, ma che cosa sappiamo realmente, noi, di Dio? Sappiamo quello che ci ha rivelato Gesù, e va bene, ma quanto altro c’è da scoprire? Bisognerà aspettare che la storia ce lo riveli, ma intanto è sciocco di-fendere il cristianesimo con le mura e con i reticolati. Chi c’è al di là dei reticolati? Il nostro Dio! E allora, di chi abbiamo paura? Certo, bisogna cogliere il nuovo, cioè quello che a noi pare nuovo, ma

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che è antico, è da sempre. Se Dio vuole essere Padre nostro, vuole esserlo anche di tutti gli altri, che sono suoi figli al pari di noi.

Questa è l’apertura della nuova alleanza che, come la chiamano Ezechiele e il Secondo Isaia, è l’alleanza eterna, e quindi è anche l’alleanza di oggi. Ma questa economia dell’alleanza non è anco-ra arrivata al compimento perché aspettiamo che il Signore venga. Quindi noi viviamo un ‘avvento’ permanente della rivelazione del nostro Dio e della sua Sapienza.

In tutto questo tempo, dall’inizio del VI secolo a.C. fino al tempo del Nuovo Testamento, si ha un giudaismo che si riorganizza modestamente in un piccolo corpo geografico e politico (Gerusalemme e qualche chilometro quadrato intorno ad essa), sotto il controllo straniero, però con un irraggia-mento internazionale. E questo comincia a darci l’idea di come Dio voglia il suo Regno. I profeti di quel tempo parlano dei ‘figlio di Davide’ che deve regnare, forse ancora di più di quanto ne parlas-sero prima. La casa di Davide non c’è più, il trono di Davide non c’è più, ma Ez 44,Is 55 e tanti altri parlano di Davide che dovrà regnare. Ma questo re è morto da diversi secoli…

Allora si capisce come tutto questo venga raccolto dal Nuovo Testamento a riguardo di Gesù, ‘fi-glio di Davide’, che viene dalla tribù di Giuda, poiché Maria ha sposato Giuseppe, che «appartene-va alla casa e alla famiglia di Davide» (Lc 2,4). Ma chi avrebbe pensato che il figlio di Davide de-stinato al trono era il figlio del falegname? Eppure è così: Dio compie le sue promesse.

Ritornando al periodo che arriva al Nuovo Testamento, è detto ‘tempo del secondo tempio’, quel-lo di Esdra e Neemia. Erode poi, come abbiamo detto, costruirà un tempio più imponente (ma siamo già al tempo del Nuovo Testamento) e lo edificherà per ingraziarsi in giudei, dal momento che lui è idumeo e teme fortemente per la propria vita.

Il giudaismo si ricostruisce con l’obbedienza alla Tôrāh. Tutta la vita religiosa è fondata su tre capisaldi.

La preghiera, cioè il rapporto con Dio, i salmi di lode, la confessione dei peccati, la richiesta di perdono, i sacrifici (che ancora si compiono, ma dando la precedenza all’obbedienza alla legge). La preghiera racchiude tutto l’orientamento del credente verso Dio, ed è la risposta al dono della Tô-rāh, parola di Dio. È l’offerta del corpo.

L’elemosina riguarda il rapporto tra noi, tra i fratelli. È l’aiuto reciproco. La fraternità si esercita nella comunione dei beni, secondo le necessità dei fratelli, e non consiste soltanto nel darsi delle co-se, ma nel sentirsi membri della stessa famiglia. Una cosa importante che viene segnalata dal libro di Tobia è seppellire i morti, ma anche assistere gli anziani, visitare gli ammalati, invitare gli altri a mangiare insieme a noi, facendo sentire che siamo fratelli.

Il digiuno è l’atteggiamento vero verso i beni della terra. Sembrerebbe un controsenso, perché l’atteggiamento vero verso i beni della terra sarebbe quello di consumarli. Infatti, tant’è vero che il digiuno viene promosso da quelli che mangiano… Il ‘digiuno’ dice che c’è l’uso dei beni, non il lo-ro consumo. L’uso migliore dei beni è anche il sapersene astenere, non farsene dominare. Avere quello che è sufficiente per vivere, cioè per fare altre cose, altrimenti si finisce per vivere per man-giare, per consumare, per produrre altre cose da mangiare e consumare. Basta guardare come sono cresciuti i nostri bisogni! È certamente giusto che cerchiamo di usare il mondo in modo degno, ma poi si arriva all’inutile e si soffoca. Più cose si hanno e di più cose si sente la necessità: i ricchi sono quelli che cercano di più.

Non tutti sanno che nella Chiesa delle origini l’astinenza del venerdì non era per astenersi dalle carni, ma per portarle ai poveri. Il digiuno serve per dare a chi non ha, per fare una certa uguaglian-za, come dice Paolo: «Vado a Gerusalemme, a rendere un servizio ai fratelli di quella comunità; la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto realizzare una forma di comunione con i poveri tra i santi che sono a Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti le genti, avendo par-tecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere loro un servizio sacro anche nelle loro ne-cessità materiali» (Rm 15,25-27); «Riguardo poi alla colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi metta da parte ciò che è riuscito a risparmiare» (1Cor 16,1-2).

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Si potrebbe dire che la vita spirituale del giudaismo postesilico si articoli attorno a queste tre co-lonne: preghiera, elemosina, digiuno. Ma questo è il Discorso della Montagna fatto da Gesù: «Quando fate l’elemosina… Quando pregate…E quando digiunate…» (Mt 6,2ss). Gesù si muove certamente nella religiosità del postesilio.

La preghiera è l’esercizio della fede, l’elemosina è l’esercizio della carità, e il digiuno è l’esercizio della speranza, poiché il vero bene non sta nelle cose che comperiamo, ma è il Signore, e le cose ci vengono date perché le usiamo per raggiungere lui. Nella letteratura sapienziale ci sono molti insegnamenti sul modo di vivere la novità della nuova alleanza. Nel Terzo Isaia (Is 55-66 - siamo verso la fine dell’impero persiano, vicino alla venuta di Alessandro Magno) c’è la visione di Gerusalemme che non rimane distrutta ma viene in parte ricostruita anche se, dal punto di vista u-mano, è molto mortificata. La gente rientrata dall’esilio non è in grado di pagare le ristrutturazioni in modo da far risplendere come un tempo la città santa e soffre di non poter esaltare Dio in modo adeguato.

I profeti come Zaccaria e Aggeo avevano ammonito gli israeliti, che si erano edificate belle case, affinché si dedicassero anche alla ricostruzione del tempio del Signore. Ma adesso Dio dice: «Il cie-lo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luo-go potrei fissare la dimora? Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie – oracolo del Signore» (Is 66,2ss). È lo stesso discorso fatto a Davide!

«Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia pa-rola. Uno sacrifica un giovenco e poi uccide un uomo, uno immola una pecora e poi strozza un ca-ne, uno presenta un’offerta e poi sangue di porco, uno brucia incenso e poi venera l’iniquità».

Ritorna il problema delle pratiche religiose che non traducono la fede nella vita. Il Signore volge lo sguardo su chi lo teme, e il timore del Signore è l’amore verso di Lui, la fedeltà alla sua parola, anche con le mani vuote e senza guardare quello che ha in mano l’altro. Ricordiamo la vedova de-scritta nel vangelo: «Lei, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,44). Dobbiamo andare davanti al Signore nella nudità, così si vedrà bene chi è Lui e chi siamo noi. Questa è la nuova alleanza!

Gesù dice: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6). Perché? Perché non rac-comanda di uscire di casa e di correre al tempio a pregare? No, prima devi spogliarti tu davanti al Signore che ti vede, e non nasconderti nella folla. Poi puoi presentarti con gli altri, perché siete fra-telli. E «mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà… E quando tu di-giuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Gesù non inventa nul-la di nuovo, poiché questa è la spiritualità del postesilio.

Allora ci si può domandare che cosa porti, Gesù, di nuovo. Di nuovo ha portato se stesso o, me-glio, porta nella sua persona tutta la vicenda postesilica. Fino ad allora c’era chi voleva ricostruire il tempio, ritornare alla vecchia religione; tutto questo si vive insieme ad un popolo che è arricchito dagli eventi, ma è anche appesantito dalla memoria del passato. Allora possiamo vedere la nuova alleanza in un uomo; la rivelazione che il Signore ha fatto del suo Regno la troviamo in un uomo che è il Regno, il Messia. E che cosa ci dice? Ci invita a seguirlo e a fare con lui tutte le cose che dobbiamo fare. Seguendo lui si troverà l’interiorizzazione della fede, la sinagoga con i fratelli, la separazione tra la fede e la politica, il giusto sofferente, la missione a tutti i popoli, il culto di Geru-salemme che però è madre di tutti i popoli. Troverai tutto quello che appartiene alla nuova alleanza nella vita di Uno che tu sei chiamato a seguire. E allora ogni cosa diventa sequela di Gesù, compo-nendo la preghiera, l’elemosina e il digiuno.

Ma tu hai bisogno di sapere che cosa scegli, scegliendo Gesù; devi conoscere da dove viene il Messia, che cosa incarna. Gesù comincia a portare a compimento la profezia della nuova alleanza, ma non ha finito perché ancora deve tornare e quindi noi siamo nell’attesa: Maranathà!

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Nel prossimo incontro vedremo che tutta la vita di Gesù è la vita del Servo del Signore, perché egli ha incarnato tutta la teologia del Secondo Isaia, in tutto il suo ministero, fino alla morte e alla risurrezione. Quindi è perfettamente lecito e logico che, una volta risorto, abbia detto ai due di Em-maus: “Io non ho portato niente di nuovo oltre a quello che c’è nelle Scritture. Non vi ricordate che il Servo deve camminare nella storia ascoltando la Parola, offrendo il suo corpo, e che deve soffrire per entrare nella gloria? Io porto a compimento ciò che già avete nelle vostre Scritture”. Allora si sono aperti i loro occhi e hanno dovuto riconoscere che era tutto vero; loro conoscevano tutto, ma era mescolato ad altre cose. Gesù ha posto davanti ai discepoli una serie di verità, di prassi, di dot-trina, di morale, cioè il regno di Dio come Dio lo sogna, e questo è ciò che la Chiesa è chiamata a realizzare passo passo nella storia e nel tempo.

Si vede quindi l’assoluta continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento. C’è una sola alleanza, ma da scoprire sempre di più. Bisogna solo saper leggere nella storia due volte gli avvenimenti: una prima lettura farà vedere che cosa è successo, ma nella seconda lettura si vedrà come questo conti-nui il piano di Dio. È la lettura profetica della parola di Dio.

Faccio solo un esempio, del tutto personale. A Madrid (Giornate Mondiali della Gioventù), du-rante l’adorazione del Santissimo, è scoppiato un temporale. Tutte le ostie che erano state preparate per la celebrazione della mattina dopo si sono bagnate e non hanno potuto essere usate. C’è stata un’adorazione magnifica, due milioni di giovani sono rimasti, fradici, davanti al Signore, e la matti-na dopo non hanno potuto fare la comunione. Questi sono i fatti. Ma perché il Signore ha permesso questo? Io mi sono dato questa spiegazione: il Signore ci ha voluto dire che fare la comunione è l’ultima cosa, e che l’importante è essere in comunione. Una volta che siete là davanti al Signore, davanti al Papa, in piena fraternità, che cosa volete di più? L’Eucarestia non è l’ostia consacrata, ma la vita della comunità fraterna intorno al segno della morte e della risurrezione di Cristo.

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Nona riflessione Siccome per questi nostri incontri mi è stato richiesto di riflettere sulla continuità dall’Antico al

Nuovo Testamento, sull’unità dell’alleanza, bisogna ricordare, innanzitutto, che il Nuovo Testamen-to si apre con i vangeli e che gli evangelisti scrivono nella fede della risurrezione. Se non ci fosse stata la fede nella risurrezione non sarebbe il vangelo, né la Chiesa. È molto importante osservare come gli evangelisti presentano la figura di Gesù alla luce della risurrezione. I vangeli non devono essere letti alla luce del catechismo, della teologia, delle definizioni conciliari, ma dobbiamo invece leggere il catechismo, la teologia, i testi conciliari alla luce del vangelo e dell’intera Scrittura. È as-solutamente necessario fare questa operazione, altrimenti si continuerà con l’equivoco che Gesù, es-sendo Dio, sapeva già tutto e ha fatto finta di essere uomo! Paolo scrive nel suo famoso inno di Fil 2: «Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini». Gesù è nato a Betlemme non nello splendore della gloria, e fino alla morte non ha conosciuto la gloria che gli era dovuta come Figlio di Dio.

È stato un uomo come noi e ha camminato nella fede, nella speranza e nella carità, obbedendo al Padre, pregando sul serio perché aveva bisogno di pregare e non faceva finta, è veramente stato ten-tato come siamo tentati noi, ha davvero sofferto come soffriamo noi, e ha conosciuto la gloria nella risurrezione. Nella sua preghiera di congedo dai discepoli egli invoca il Padre: «E ora, Padre, glori-ficami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). Con ‘gloria’ si dice tutta la ricchezza di conoscenza, di libertà, di contemplazione del Padre.

Gli evangelisti, dunque, ci presentano Gesù che nasce a Betlemme, ci raccontano della fuga in Egitto, della strage degli innocenti, della sua infanzia a Nazaret e lasciano poi intuire che da ragazzo

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lavori con Giuseppe. Lui sa di essere Figlio di Dio, ma non sa quando questo fatto diventerà attivo. Per ora conduce una quotidiana vita di famiglia, lavorando in un piccolo villaggio della Galilea, as-sai vicino alla grande città di Sephoris, che certamente offriva lavoro agli artigiani come falegnami, fabbri e carpentieri. Forse avrà lavorato alla costruzione del grande teatro della città, che al tempo della nascita di Gesù era la capitale della Galilea, sostituita poi da Tiberiade.

Ad un certo punto viene a conoscenza del grande movimento che ruotava intorno a Giovanni il Battista. Allora parte dalla Galilea con alcuni compagni per andare a farsi battezzare nel Giordano dal Battista come faceva tutta la gente, perché c’era nell’aria una grande attesa di qualcosa che do-veva succedere, e il Battista aveva messo in moto questa tensione, senza nessun appoggio dai reli-giosi ebrei. Ormai il tempo della profezia era lontano, eppure quest’uomo con il suo modo di vestire e di atteggiarsi appare come un profeta. Battezza le persone insegnando ad osservare i loro doveri, ammonendole a prepararsi all’arrivo di ‘uno’ che deve venire.

Tutta la predicazione del Battista, almeno come la leggiamo in Matteo e Luca è, a prima vista, una predicazione di tipo morale, ma è la morale che prepara l’avvento di qualcuno: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per racco-gliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» (Lc 3, 16-17). In Malachia troviamo questa affermazione: «Ecco che sta per venire il giorno rovente come un for-no. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel gior-no, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germo-glio» (Ml 3,19). Da qui la necessità di comportarsi giustamente e compiere il proprio dovere.

Come sappiamo anche da fonti non cristiane, il movimento del Battista è stato molto intenso, tan-to che il Battista è diventato poi figura di tutti i profeti d’Israele, da Elia a lui. Anzi, Gesù dirà che il Battista «è il più grande dei nati da donna».

Gesù, allora, parte da Nazaret con altri giovani compagni, per farsi battezzare. Quando arriva da-vanti a Battista ha una teofania, lui soltanto secondo Marco e Matteo: «E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”» (Mc 1,10; cfr. Mt 3,16-17: «Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed e-gli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”»).

Luca amplia la visione e dice che tutti ne fecero esperienza, mentre Matteo e Marco la restringo-no al solo Gesù. Comunque, Gesù se l’aspettava? Gli evangelisti non ce lo dicono. Qualunque cosa sia accaduta, è stata per Gesù un’esperienza fortissima, che lo indusse a compiere una svolta fon-damentale e decisiva nella sua vita. Si potrebbe dire che questo è stato il giorno della vocazione di Gesù come Messia: “Tu sei quel ‘qualcuno’ che deve venire”.

Giovanni Paolo II ha fatto molto bene ad aggiungere i misteri luminosi al santo rosario. Il primo mistero nella vita di Gesù è il battesimo, con il quale ha cambiato vita, ha smesso di fare il fabbro e il falegname e ha cominciato l’esistenza del Messia.

Ma che cosa significa l’affermazione divina: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»? Veniamo rimandati a Is 42,1. Questo è il Canto del Servo, e il ‘servo’, come ab-biamo detto, è il plenipotenziario del sovrano: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio». Per Gesù c’è una variante, perché il Padre dichiara: «Tu sei mio Figlio».

C’è una sorta di scaletta. Il termine ebraico indica il ‘servo/primo ministro’, in greco viene tradot-to con una parola significa ‘servo/figlio’, i vangeli usano un altro vocabolo greco che significa solo ‘figlio diletto’. Tuttavia la citazione è chiara. Che cosa vuol dire, allora, questo modo di presentare adottato dai vangeli per segnalare l’esperienza spirituale che Gesù ha avuto nel suo battesimo? È come se Gesù cominciasse a sentire una musica che è la canzone del Servo. Nel battesimo, Gesù ha la rivelazione che non solo è arrivato il momento di incominciare, ma che il tipo di messianismo che gli viene proposto dal Padre è quello del Servo, sullo stile del Secondo Isaia, di cui abbiamo parlato.

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Questo concorda con quanto dice Pietro quando è ospite della famiglia del centurione Cornelio, a Cesarea Marittima: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò [fece Messia] in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,37-38). E questo è il modo con cui Gesù ha a-dempiuto la missione del Servo.

Per me è molto importante che la prima percezione che Gesù ha avuto dal Padre come esperienza spirituale, come rivelazione, sia stata questa: “Tu sei quello che deve venire, e devi camminare in mezzo al tuo popolo con lo stile del Servo che ben conosci dal Secondo Isaia. In altre parole, tu sei il Messia della nuova alleanza, colui che deve portare la nuova alleanza che già si è preparata nel tuo popolo da sei secoli; tu la devo concretizzare nella tua persona”.

Questo non è l’unico testo, perché ce ne sono tanti altri che confermano ciò che stiamo dicendo. Si potrebbe affermare che la prima cristologia della Chiesa delle origini, il suo primo modo di leg-gere Cristo alla luce della risurrezione, è stato quello di capire chi era Gesù. Chi era questo Maestro che abbiamo seguito e che poi si è rivelato così inatteso? Aspettavamo la gloria, ed è arrivata la pas-sione. La gloria è venuta dopo…

Negli Atti degli Apostoli, nei capp. 3-4, quando Pietro e Giovanni parlano di quello che è capitato a loro quando hanno guarito lo storpio nel tempio, cercando di giustificare quanto è avvenuto, si di-ce: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (At 3,13). Pietro, quindi, non parla di ‘Figlio’, ma di ‘Servo’. E lo stesso alla fine del cap. 3: «Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione» (v. 26). E al cap. 4,24-30, dopo che i due apostoli vengono liberati, ecco la prima preghiera della Chiesa di Gerusalemme:

«Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano, tu che, per mezzo dello Spirito Santo, dicesti per bocca del nostro padre, il tuo servo Davide: “Perché le nazioni si agitarono e i popoli tramarono cose vane? Si sollevarono i re della terra e i prìncipi si allearono insieme contro il Signore e contro il suo Cristo”. Davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse. E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta fran-chezza la tua parola, stendendo la tua mano affinché si compiano guarigioni, segni e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù».

E perché sia chiaro che questo Servo non è un servo qualunque, ma è un riferimento a tutta la teo-logia del Servo che abbiamo visto nascere nell’esilio in Babilonia, leggiamo At 8,26ss, dove si parla di Filippo che incontra il ministro di Candace, regina d’Etiopia. Costui sta leggendo il profeta Isaia, esattamente alle pagine in cui si parla del servo sofferente: «“Come una pecora egli fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”. Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui Gesù».

Questo vuol dire che nella Chiesa delle origini la prima interpretazione di chi fosse Gesù è stata trovata nel Canto del Servo sofferente. Basta pensare come viene presentata la passione di Gesù, dove gli evangelisti citano continuamente, tra le righe, il Canto del Servo. Luca, addirittura, al cap. 22,37, scrive: «Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annove-rato tra gli empi», mettendo in bocca a Gesù stesso le parole di Is 53,12.

Si potrebbero citare altri testi, ma ne riporto uno solo, perché è forse il più esplicito nel riferimen-to a Is 53. Si tratta di 1Pietro 2,19-25: «Questa è grazia: subire afflizioni, soffrendo ingiustamente a causa della conoscenza di Dio; che gloria sarebbe, infatti, sopportare di essere percossi quando si è colpevoli? Ma se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito da-vanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un

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esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, per-ché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime».

Sulla croce Gesù grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Questo è il Sal 22, perfettamente nella linea del Servo del Secondo Isaia, il giusto abbandonato da Dio, che appare ri-gettato e che invece è l’amico più intimo del Signore.

Vediamo allora quella provocazione che Gesù risorto rivolge ai due di Emmaus: «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?».

Questo è il nucleo di tutta la rilettura delle Scritture fatta da Gesù a quei due discepoli e agli Un-dici chiusi nel Cenacolo. Ma alla luce della risurrezione, e solo alla luce della risurrezione – prima no –, i discepoli di Gesù hanno capito che il messianismo di Gesù era quello del Servo. Lui era dav-vero il Messia d’Israele, anche se ciò è uno scandalo per i giudei, per i quali è inaccettabile che il Messia venga crocifisso. I discepoli comprendono che in lui si compiono le Scritture: si aprono i lo-ro occhi, la mente, e si scalda il loro cuore.

Nei molti anni che ho trascorso a Gerusalemme ho cercato di capire: sono ebrei, tutti ebrei, ma alcuni sono diventati discepoli di Gesù crocifisso e risorto, e tutti gli altri non hanno creduto. Eppu-re gli ebrei sono tra di loro molto solidali, uniti… È accaduta una cosa incredibile: un gruppo note-vole di loro (gruppo che nel tempo si è incredibilmente accresciuto) si è staccato dagli altri e si è fatto scacciare dalle sinagoghe per la fede in Gesù. Questo è un miracolo sociologico, storico, che nessuno può negare. La Chiesa è nata come ‘chiesa di ebrei’ che hanno creduto a Gesù Messia, mentre gli altri ebrei non hanno creduto. In un certo senso, Gesù ha ‘spaccato’ il suo popolo proprio secondo la profezia di Simeone: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te [Maria] una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,33-35). (Maria è la madre di Gesù, ma è anche figura della Chiesa).

Ripeto, questa è la prima cristologia, il primo modo di vedere Gesù, di comprendere il suo modo di agire, di capire perché è stato crocifisso, di avere fede nella sua risurrezione, perché già sei secoli prima era stato tutto preannunciato, soprattutto nel Canto del Servo del Secondo Isaia.

Non abbiamo certo il tempo di ripercorrere tutta la vita messianica di Gesù, ma vorrei segnalarvi almeno alcuni momenti che ci mostrano come il mistero di Gesù si sia sviluppato nella linea del Servo. Perché Gesù si è comportato in un certo modo e non in un altro? Perché ha camminato se-guendo una linea di obbedienza alla parola che il Padre gli ha rivelato nel battesimo. E questa è la parola in cui deve camminare anche la Chiesa e anche ciascuno di noi, per essere cristiani.

Allora ciascuno pensi a ciò che conosce dei vangeli, della vita di Gesù: chi sa di più, chi sa di meno, chi conosce alcuni testi particolari, chi ricorda le parabole… Ognuno ha almeno una certa immagine del cammino di Gesù, che a un certo punto – dopo aver lavorato come falegname – ha cambiato vita e ha preso la strada della sua vocazione itinerante, comportandosi in un modo che alla fine l’ha portato alla passione.

Solitamente i vangeli presentano Gesù che lascia Nazaret e va verso il lago, a Cafarnao. (Luca parla di un discorso a Nazaret, che pure potrebbe rimandare alla figura del Servo). Quando sta in questa cittadina sul lago, Gesù ‘mette la tenda’ presso la casa della suocera di Pietro, il quale è di Betsaida e ha sposato una donna di Cafarnao.

Lì Gesù comincia la sua attività insegnando di sabato nelle sinagoghe, cacciando i demoni, gua-rendo le malattie (la prima ad essere guarita dalla febbre è stata proprio la suocera di Pietro), sce-gliendo e formando alcuni discepoli che lo seguano. Per circa due anni Gesù fa questa vita, andando avanti e indietro da Cafarnao agli altri villaggi, soprattutto al nord del lago: Magdala, Betsaida, Co-razim. Tutto va bene e Gesù ottiene un grande successo. Molti vengono dal Libano, Tiro e Sidone e dalle città intorno; alcuni vengono addirittura da Geruselemme, attirati da questo Rabbi, da questo Maestro, che predica sulla linea di Giovanni il Battista ma in modo un po’ diverso, meno duro, più

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mite. Inoltre cura i malati e caccia i demoni, e quindi fa un’attività terapeutica che chiaramente atti-ra molta gente. Tutto va bene, finché arriva un giorno particolare, in cui accade qualcosa di nuovo, proprio a Cafarnao.

Mc 2,1ss (cfr. Lc 5): «Entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annuncia-va loro la Parola. Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. Non po-tendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: “Figlio, ti sono perdonati i peccati”».Immaginate il gelo di quelli che l’hanno portato lì perché venisse guarito: per i peccati c’è sempre tempo! Loro hanno fatto tutta quella fatica perché quell’uomo possa camminare. Gesù capisce tutto questo, e allora domanda: «Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”?». Ovviamente nessuno può controllare se i peccati sono effettivamente perdonati, ma se il paralitico non si mette in piedi Gesù fa una brutta figura. Una cosa è ‘dire’ e un’altra cosa è il ‘fare’. È più facile far alzare il paralitico o perdonare i peccati? Certamente è più facile far alzare il paralitico, perché i peccati li può perdonare solo Dio.

«“Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra [cioè quello che è più difficile dire e fare], dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua ba-rella e va’ a casa tua”. Quello si alzò e subito presa la sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne an-dò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”».

Però rimangono quelli che «pensavano in cuor loro: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?”».

Di per sé il segno che Gesù aveva dato doveva essere chiaro: se il paralitico se ne torna a casa camminando, significa che anche l’altra cosa che Gesù ha affermato è vera e che lui ha qualche rap-porto con Dio. È vero che soltanto Dio perdona i peccati, perché ogni colpa è contro di Lui, contro la sua giustizia, ma se uno dimostra di avere quel potere, vuol dire che, se non è Dio lui stesso, per-lomeno è a contatto con Dio.

Le parole e le azioni di Gesù avrebbero dovuto significare una novità strepitosa, perché dopo due anni di ministero è la prima volta che parla di perdono dei peccati, mettendo le carte in tavola e di-chiarando di non essere venuto soltanto per predicare nelle sinagoghe o per guarire i malati, ma so-prattutto per perdonare i peccati, per raggiungere la radice dei mali dell’uomo. Per quest’ultimo mo-tivo il Servo è sofferente: «Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,4-5).

Nel citare prima alcuni testi, non ho citato Mt 8,16-17: «Gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie».

E ancora, in Mt 12,15-21: «Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti e impose loro di non divulgar-lo, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento... ». Viene citato tutto Is 42, e non solo il versetto del battesimo. Quindi gli evangelisti fanno sul serio, e interpretano Gesù con Is 42, vedendo il Messia: «Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. Non con-testerà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta finché non abbia fatto trionfare la giustizia». Uno stile del tutto diver-so da quello di Giovanni il Battista, profeta che ‘tuona’. Gesù è mite e parla con la gente. Si può forse dire che distribuisca ‘dinamite spirituale’, come nel caso del paralitico.

Da quel momento gli evangelisti attestano che intorno a Gesù nascono altre discussioni e il suo ministero comincia ad essere contestato in tutti i modi. Lo rimproverano di mangiare con i pubbli-cani e i peccatori, gli fanno notare che i suoi discepoli non digiunano, come invece fanno quelli di Giovanni, lo accusano di guarire la gente nel giorno di sabato… Insomma, comincia tutto un chiac-chiericcio contro Gesù, perché quest’uomo che perdona i peccati disturba. Finché guarisce i malati

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si può lasciar correre, ma quando entra nel mondo di Dio dà fastidio, perché loro hanno altri pro-blemi sociali, economici e politici a cui badare. Ci sono i romani, ci sono i ricchi e i poveri, ci sono i giusti e gli ingiusti, ci sono i vari partiti – gli erodiani all’estrema destra, gli zeloti all’estrema sini-stra, e quelli di mezzo, i farisei, i sadducei, i monaci di Qumran – e loro si aspettano che arrivi qual-cuno capace di risolvere queste problematiche che affliggono il paese. Ma uno che arriva a parlare di peccati è pericoloso, perché i peccati li abbiamo tutti. Lui parla per tutti e alla fine porta un giudi-zio su tutti, e questo disturba parecchio.

Da quel momento Gesù continua il proprio ministero, ma appartato. Una notte si ritira su una col-lina, passa la notte in preghiera, e il giorno dopo convoca i Dodici e li chiama ‘Apostoli’.

Notiamo bene che Gesù non ha cominciato la propria missione fondando la Chiesa, perché non ce n’era bisogno dal momento che il popolo di Dio c’era già e c’erano le strutture: il sabato, le feste re-ligiose, le preghiere, il digiuno, l’elemosina, il culto di Dio con l’offerta del corpo. C’era quindi tut-ta la pietà nata nella nuova alleanza dopo l’esilio, e Gesù, Messia della nuova alleanza, poteva con-tare su queste strutture religiose già presenti in Israele. Non c’era nessun bisogno di creare la Chie-sa, ma questo bisogno nasce dal fatto che addirittura – e questo lo denunciano sia Marco che Luca – quelle contestazioni arrivano fino al punto che «i farisei uscirono con gli erodiani [quelli di sinistra e quelli di destra] e tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Si parla di eliminarlo perché pretende di fare, in mezzo al suo popolo, le veci di Dio; anziché occuparsi del sociale e del politico, vuole parlare di ‘peccati’.

Gesù quindi chiama i Dodici – come dodici erano le tribù d’Israele – e forma un piccolo popolo dentro il primo popolo dell’alleanza. All’interno comincia a formare una piccola élite di dodici per-sone (pescatori, amministratori, pubblicani…) per educarli attorno a sé e portare avanti la sua mis-sione, ma non troppo pubblicamente. Da quel momento comincia ad alloggiare fuori dai villaggi, quasi alla macchia, si potrebbe dire. Continua il suo ministero, continua a fare ciò che faceva a Ca-farnao ma senza fare troppa pubblicità. Infatti quando risana qualcuno gli raccomanda di stare zitto, ma quello proclama ad alta voce la sua avvenuta guarigione. Continua il suo apostolato discreto e mite, proprio come deve fare il Servo di Is 42, però comincia a scoprire la sorte del Servo che, svol-gendo un ministero buono, incontra sempre maggiore resistenza.

Ma perché Gesù incontra resistenza? Il fatto è che guarisce dei malati, fa camminare qualche zoppo, apre gli occhi di qualche cieco, risuscita addirittura una bambina morta e poi il figlio di una vedova a Naim, però la gente continua a morire, ci sono altri ciechi e altri zoppi. Gesù passa, e dopo di lui le acque si richiudono, per cui non risolve nessuno dei problemi del suo popolo. Fa qualche segno, fa nascere speranze nella gente che corre per toccarlo, ma poi lui passa e le cose rimangono come prima.

Quindi, pian piano, si rivela come un piccolo Messia deludente perché, come dice Pietro dopo la prima giornata a Cafarnao, ci sono ancora tanti malati da guarire, ma Gesù va altrove. Non è venuto come medico ‘universale’, ma come incaricato di un’altra proposta.

Quindi anche i primi entusiasmi cominciano a smorzarsi. Le sue attività sono prevalentemente due: spiegare il vero modo di osservare la Tôrāh, perché i maestri del suo tempo non sempre lo san-no fare, e poi cacciare i demoni. La guerra che Gesù porta non è né alla destra, né alla sinistra, ma al demonio, che agisce sia nella destra che nella sinistra. Gesù ha davanti a sé una guerra escatologica con la radice di tutti i mali; il male non è la paralisi del paralitico, né la cecità del cieco, né la lebbra del lebbroso, ma è il peccato del paralitico, del cieco, del lebbroso e di tutti gli altri. Il mondo del peccato sono i peccati di tutti che ricadono su tutti, e il Signore gli ha fatto capire che lui è l’inviato del Padre per ‘questa’ battaglia.

Ma è chiaro che chi non è interessato a questa vittoria non apprezza neppure i segni di Gesù… Noi abbiamo bisogno di altro! Questo è anche un problema della Chiesa, di tanti preti che si do-mandano che cosa, alla fine, ci stiano a fare. E siccome la gente non si interessa di quello per cui il prete è mandato, lui deve interessarsi di sport, di pellegrinaggi, di cultura, di sociologia, di psicolo-gia, di qualcosa insomma che interessi alla gente. Ma come prete, che cosa ci sta a fare? La gente non va più neanche a confessarsi per essere perdonata dei peccati…

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Il Cardinal Martini è stato con noi a Gerusalemme per sei anni e mi diceva: “Vedi, noi parteci-piamo ai convegni degli ebrei, dei musulmani, parliamo di dialogo e ciascuno porta la propria ‘spe-cializzazione’ di biblista, o teologo, o esperto di critica testuale. Ma se noi dicessimo a questa gente quello in cui noi veramente crediamo – e cioè nel Cristo che è venuto per i nostri peccati, è morto in croce ed è risorto –, se ne andrebbero tutti, e forse qualcuno ci porterebbe anche in una clinica psi-chiatrica”.

Io sono stato missionario in Giappone per tre anni circa. I Giapponesi non hanno nessun bisogno di missionari che costruiscano ospedali, scuole, università. I gesuiti hanno un’università a Tokio, ma a Tokio ci sono 110 università. Durante la guerra, i nostri preti dell’università venivano invitati ogni mese dai giapponesi, che sono sempre molto gentili; erano alleati dei tedeschi, e quindi accet-tavano anche i nostri missionari che erano tedeschi. Ebbene, dicevano loro: “Reverendi padri, se ve ne andate ci fate un piacere. Non vi cacciamo via, però…”. Ma allora la Chiesa che ci sta a fare? Che cosa può fare? La guerra contro il peccato!

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Decima riflessione Alle contestazioni che accompagnano il suo messianismo, Gesù risponde chiamando a sé i dodici

apostoli perché pensa che la sua comunità sia quella che porterà avanti la nuova alleanza, cioè quell’economia del Padre di cui egli è Messia.

Passano alcuni mesi nell’attività di sempre, finché avviene un’altra cosa straordinaria, che segna una svolta decisiva anche nel modo di procedere di Gesù. Un giorno arriva da lui un’ambasceria da parte di Giovanni il Battista, il quale nel frattempo è stato arrestato da Erode Antipa, messo in pri-gione a Macheronte e trattenuto volentieri da questo re. Costui convive con la moglie del fratello e per questo fatto il Battista l’ha più volte giudicato e condannato. Erode l’ha messo in prigione, ma quest’uomo gli piace e quindi lo tiene lì, come un ‘cappellano’ di riserva; ogni tanto va a parlargli, a consultarlo, ad ascoltare quanto il Battista gli dice. Non fa niente di quello che il prigioniero gli consiglia o gli impone, ma lo tiene là.

Mentre è in prigione, al Battista giungono le chiacchiere a proposito di Gesù: quello che il popolo si aspetta, quello che fa o che non fa, le opinioni che si sentono. Ma il Battista è colui che ha annun-ciato e indicato l’Agnello di Dio, che doveva venire a togliere i peccati del mondo. Neppure lui ca-pisce il modo di procedere di Gesù, perché lo aveva preannunciato in modo del tutto diverso: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Giovanni si aspettava uno capace di emettere un giudizio definitivo, e invece Gesù non sembra comportarsi così, anzi, addirittura perdona i peccatori. Sembra quasi che faccia più confusione che ordine. Siccome però il Battista è un uomo onesto, fa chiamare due suoi discepoli «e li mandò a di-re al Signore: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Venuti da lui, quegli uomini dissero: “Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che deve ve-nire o dobbiamo aspettare un altro?”». Sei tu quello che io ho presentato, oppure c’è un altro che deve venire ma non è ancora giunto il tempo? Questo racconto si trova sia in Mt 11,2-19 che in Lc 7,18-35.

Che cosa fa, Gesù, quando riceve questa ambasceria? Continua a fare quello che sta facendo, non si fa interrompere nella sua attività: «Guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro [i due inviati di Giovanni] questa risposta: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbro-si sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia». Il

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Battista gli manda l’ambasceria con le parole di Malachia, che costituivano la sua predicazione presso il Giordano, e Gesù gli rimanda i discepoli con altre citazioni della Scrittura, come in una sorta di lectio divina per ricordare che nella Bibbia c’era anche quest’altro testo in cui si dice di lui. Conclude poi il messaggio di ritorno: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”».

I due ritornano dal Battista e gli portano la risposta, e il Battista rimane in prigione consapevole del valore del proprio messaggio.

Io credo, tuttavia, che questa ambasceria sia stata un pugno nello stomaco per Gesù, perché qui non ci sono più di mezzo i farisei e gli erodiani, ma Giovanni il Battista, il grande profeta di cui lui, proprio in questa occasione, fa l’elogio: «Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni». Eppure Giovanni dubita di Gesù! Si aspettava un altro tipo di manifestazione messia-nica, da parte sua. In un certo senso, il Battista è deluso da quello che sente dire in prigione, a pro-posito dell’attività di Gesù.

Giovanni è il suo maestro, poiché per qualche mese Gesù è stato con lui come discepolo; tra l’altro è anche suo parente, perché Maria è parente di Elisabetta, madre di Giovanni.

Quindi anche il Battista è scandalizzato dal suo modo di fare il Messia, ma d’altra parte Gesù ha la parola del Padre ricevuta al battesimo, parola che lo riconosceva come Figlio amato, nel quale Dio si è compiaciuto.

Probabilmente la domanda del Battista continua a disturbare Gesù, proprio come una tentazione. Le tentazioni subite da Gesù non sono soltanto quelle avanzate dal demonio nel deserto, ma anche i dubbi che si esprimono su di lui, il modo con cui la gente parla di lui senza capire bene quello che lui ‘fa’ ed ‘è’. Lui deve camminare diritto, deludendo sia quelli a destra che quelli a sinistra. In Lu-ca tutto questo si vede molto bene: Gesù cammina in mezzo, entra nei villaggi, nelle case e sempre crea delle coppie, come le sorelle Marta e Maria, il fariseo e il pubblicano, la peccatrice e il fariseo che giudica Gesù. Egli, cioè, è un Messia che separa, taglia le coscienze per guarirle. È come una spada come la parola di Dio, che è «più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimen-ti e i pensieri del cuore» (Eb 14,12). È necessario che si spacchi una cattiva coesione e si ritrovi la giusta armonia; si rompano le fedi false e si ritrovino le vere fedi.

In Lc 16,16 Gesù dice anche: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene an-nunciato il regno di Dio ». Questo non vuole assolutamente dire che Giovanni sia fuori dal regno di Dio, ma vuol dire che con Gesù comincia a compiersi quel disegno del Regno che Dio ha in mente fin dal principio, fin dal monte Sinai, quando ha affermato che Israele sarà un regno di sacerdoti, una nazione santa. Segna veramente l’inizio del Nuovo Testamento come compimento di tutte le profezie precedenti, che sboccano non tanto nell’insegnamento di Gesù, quanto nella sua persona, nel suo ‘essere’. È lui stesso la novità, perché sostanzialmente non ha detto cose nuove. Gesù è l’incarnazione di ogni insegnamento; il messaggio della nuova alleanza in lui è diventata la sua car-ne, il suo corpo, la sua storia.

Gesù continua nel suo ministero, finché gli arriva una notizia che lo turba: Giovanni è stato deca-pitato. Questo si vede bene nel vangelo di Marco, ai capp. 6-7. Gesù comincia a capire che quel movimento di rinnovamento spirituale nato con il Battista, alla fine sbocca nel martirio. Proprio in questo senso il Battista è il precursore di Gesù, e non nell’insegnamento, perché abbiamo visto che i loro due atteggiamenti erano opposti. È precursore perché diventa l’immagine del Servo sofferente che precede il Figlio. Appare chiaro anche agli occhi di Gesù che portare a questo mondo la via di Dio, fa incontrare la morte: il mondo lo si salva morendoci dentro! Egli capisce esattamente dove lo condurrà l’obbedienza al Padre. Non lo sa fin dalla nascita, ma lo comprende dall’esperienza, gior-no dopo giorno, attraverso gli avvenimenti che vive nel quotidiano.

Subito dopo aver appreso la notizia, porta lontano, con sé, i suoi discepoli (Mc 6,31-44): «“Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che anda-vano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero». A questo punto abbiamo una pagina importante del ministero di Gesù: la

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moltiplicazione dei pani e dei pesci. Sembra che Gesù pensi alla delusione del Battista davanti all’assenza di segni grandi da parte di colui che aveva presentato come Messia, davanti al suo disin-teresse per quelli che sono considerati i problemi del paese.

Comunque qui la gente non lo cerca per il pane, bensì per il suo insegnamento, e lui parla a lun-go, ascoltato attentamente da tutte quelle persone. Sono i discepoli che, a un certo punto, «gli si av-vicinarono i dicendo: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare”. Ma egli rispose loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Gli dissero: “Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”. Ma egli disse loro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. Si informa-rono e dissero: “Cinque, e due pesci”. E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cie-lo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini».

È un segno dalle proporzioni incredibili. Gesù non aveva mai fatto un miracolo così imponente: mangiano tutti a sazietà e raccolgono ancora dodici ceste di quanto rimasto. Dodici, il numero d’Israele…

Questa moltiplicazione dei pani viene fatta a nord del lago di Galilea, un po’ fuori Cafarnao, ed è il segno della moltiplicazione del pane per Israele. Il pane rappresenta quello di cui gli uomini han-no bisogno per vivere, sicché la notizia del prodigio si diffonde rapidamente nel paese: quest’uomo dà da mangiare al mondo! Questo è più di un re, e il segno è una cosa straordinaria. La notizia arri-va subito a Tiberiade, che sta a dodici chilometri da Cafarnao, dove vive Erode, il quale si preoccu-pa seriamente del fatto. Infatti, secondo l’evangelista Giovanni, dopo questo miracolo la gente vuole Gesù come re.

Gesù allora fugge sul monte – quello che oggi è il monte delle Beatitudini – a pregare. Non vuole affatto essere fatto re, poiché non è questa la volontà del Padre. Capisce che quel segno era stato in-terpretato non effettivamente solo come un segno, ma come la sostanza della sua missione: è venuto uno che ci moltiplica il pane, siamo a posto!

Così, quando torna dai suoi discepoli cammina sulle acque. È un simbolismo per dire che calma le acque. I discepoli sono in preda alla tempesta, all’agitazione, al vento contrario e lui domina su questo turbamento. Poi li porta fuori, a nord, a Sidone. I discepoli si sono agitati nel vedere la mol-tiplicazione dei pani, e pensano che l’affermazione socio-politica del loro gruppo sia ormai vicina. La zona di Tiro e Sidone è quella in cui Gesù incontra una donna non ebrea, ma cananea che parla in greco, come tutti.

Gesù è venuto lì per stare un po’ tranquillo con i suoi discepoli, ma quella entra, insiste: «“Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio”… “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”. Ma quella si avvicinò e si prostrò dinan-zi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!”. Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli e get-tarlo ai cagnolini”».

Non vi sembri strano questo modo di parlare di Gesù, perché anche oggi lo si usa. Perché si tirano i sassi, in Israele? Per allontanare i cani. E tirare un sasso ad una persona significa considerarla un cane. Questo è molto comune: per i musulmani noi siamo dei ‘cani infedeli’.

Gesù utilizza dei termini forti: i figli sono Israele, e lui ha moltiplicato il pane per i Dodici. Cer-tamente la volontà di Dio è quella di raggiungere tutti gli uomini, ma questo non è ancora il tempo. (È un po’ come a Cana, quando risponde alla madre: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora»).

Ma la donna cananea insiste: «“È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che ca-dono dalla tavola dei loro padroni”. Allora Gesù le replicò: “Donna, grande è la tua fede! Avven-ga per te come desideri”». C’è una conversione di Gesù non a fare una cosa che non vuole fare, ma a farla prima del tempo. Pensava che sarebbe poi stato compito dei discepoli il passare ai gentili, ma questa cananea, nella sua umiltà, lo mette davanti alla verità: “Tu sei il salvatore di tutti!”

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«E da quell’istante sua figlia fu guarita» ((Mt 15,21ss). Quando Gesù ritorna dal viaggio a Tiro e Sidone, invece di andare sulla riva nord del lago, va sul-

la riva est, cioè sulla riva dei pagani della Decapoli, dove si era verificato l’episodio dell’indemoniato di Gerasa, e dove i porci si erano gettati nel lago. (Il fatto che venissero allevati i maiali, indica che lì vivevano dei pagani, non legati alle regole alimentari).

E la gente, che ha sentito del suo ritorno, si raduna al di là del Giordano, dalle parti di Betsaida. È una folla di giudei e di pagani che lo aspetta per ascoltare la sua parola. Questa volta è lui che si preoccupa delle persone e moltiplica nuovamente il pane; lo fa distribuire e sfama tutti. Vengono raccolte sette ceste di pezzi avanzati. Se il ‘dodici’ della prima moltiplicazione dei pani era il nume-ro d’Israele, il ‘sette’ è il numero dei popoli pagani che Giosuè ha scacciato durante la conquista della terra promessa. Nel prosieguo del vangelo ci saranno dodici apostoli e settanta discepoli, cioè un multiplo di sette, il che significa che essendo il Messia d’Israele, diventa il Messia dei pagani.

E poi se ne torna in terra d’Israele, ma le due moltiplicazioni hanno eccitato la gente: qui c’è uno che ha in mano la chiave della vita di tutti gli uomini, d’Israele e delle nazioni. Anche i discepoli avranno pensato che finalmente Gesù si sarebbe mostrato con tutto quello che poteva fare!

«Allora gli dissero: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». E lui aveva moltiplicato i pani

Allora in Gv 6 abbiamo il discorso nella sinagoga di Cafarnao, poiché il giorno dopo la gente ri-torna per avere altro pane: Ma Gesù non è un fornaio che sforna pane ogni giorno, e il pane che ha dato è segno di un ‘altro pane’, che è lui stesso. Il segno che vogliono dal cielo è lui: «Io sono il pa-ne della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». E questo non vuol dire mangiare l’eucarestia, ma capire che la via della vita è la morte e risurrezione di Gesù. Che poi questo venga significato nel pane e nel vino è certo, ma questo è il sacramento di quello. La prima cosa è la fede nel suo mistero pasquale.

Gesù chiarisce subito la propria posizione: “Se avete pensato che io vi fornissi il pane tutti i gior-ni, vi siete sbagliati. Non sono venuto per risolvere i problemi socio-economici del popolo!”! Dob-biamo capirlo bene anche noi oggi: Gesù non è venuto a risanare questo mondo e non ha fondato una Chiesa per questo mondo. A tutto ciò devono provvedere gli uomini, con la loro intelligenza e la loro libertà. Non è venuto a risanare la società umana. A questo dobbiamo pensare noi, con la no-stra testa e la nostra esperienza, sia pure con l’aiuto del Signore, indiscutibilmente. Non è venuto a risanare le nostre istituzioni umane. Gesù è venuto a perdonare i peccati!

Bisogna capire bene anche che cosa significa ‘perdonare i peccati’. Non è certo l’inginocchiarsi nel confessionale e avere l’assoluzione. No, c’è tutta una strategia per distruggere il peccato nel mondo, perché di questo il mondo ha bisogno per entrare nella risurrezione. La società presente non è il mondo definitivo: la scena di questo mondo passa, il nostro corpo passa. Noi restiamo per sem-pre, ma non con la faccia e il peso che abbiamo adesso. Noi restiamo, ma lo scenario passa. Gerusa-lemme ha due nomi: Di sotto e Di sopra, e anche noi siamo ‘di sotto’ e ‘di sopra’. Ciascuno di noi, in questo momento, sta sotto, sta qui, ma deve diventare uno di sopra, cioè risorto; quello che siamo adesso è di passaggio per quello che saremo alla fine.

Ebbene, Gesù è venuto per istituire una strategia per la sconfitta del male tra di noi, già adesso, e questo lo si fa visitando la coscienza delle persone, non con le istituzioni. Certo, come uomini pos-siamo arrivare alle persone attraverso le istituzioni. Così si presta attenzione alla famiglia in modo che si ottenga una buona educazione dei figli. Curiamo la scuola, l’università, lo Stato, le associa-zioni, la cultura, i mezzi di comunicazione. Noi cerchiamo di arrivare alle coscienze delle persone attraverso le istituzioni perché non possiamo fare altrimenti.

Dio non fa questo, e questa non è l’opera di Gesù, il quale comincia dalle persone. È per questo che dà il suo tempo alla donna che gli chiede di guarire la figlia, a quello che gli chiede di guarire il suo servo, a una peccatrice che gli unge i piedi. Gesù si interessa delle persone, non delle istituzioni, perché il peccato sta nelle persone, non nell’aria.

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Certo, poi ci sono i grandi peccati collettivi, ma alla base della collettività ci sono le persone. La sete di denaro, che è un aspetto fondamentale del peccato nel mondo, la sete di potere, il consumi-smo delle ricchezze e del potere, hanno tutti alla base il peccato dei singoli individui. Alla base c’è Satana, e Gesù sa bene che la scena di questo mondo poggia sul demonio.

E come dobbiamo immaginarcelo, questo potere? La mafia – comunque la si voglia chiamare – sta dovunque, e la mafia è l’utilizzazione di tutto per accumulare denaro e potere, e comandare le istituzioni del mondo. La cultura delle nazioni è dominata da questo tipo di corruzione.

Pensiamo al problema della secolarizzazione: adesso abbiamo secolarizzato tutto, per cui anche nei programmi pastorali si parla dei problemi sociali, come se la cura spirituale del popolo si realiz-zasse attraverso quelli. E nessuno parla più della morte, della salvezza, della risurrezione. Chi pre-dica ancora sulla morte? Chi ci dice che la morte deve essere il capolavoro della nostra vita, perché sarà il passaggio alla vita vera, perché siamo indirizzati verso la Pasqua? No, si moltiplicano le cure mediche per far vivere il più possibile su questa terra, anzi, facciamo le leggi perché la gente venga nutrita per forza affinché non muoia. Si pensa che fin che si è qui si è vivi, e poi di là che cosa c’è…

Ma questo è frutto del demonio, che ha conquistato la cultura del paese, per cui l’altra vita (non si parla mai di ‘vera vita’) rimane una sconosciuta. Si è laicizzata, secolarizzata, persino la teologia cristiana. La ‘teologia della liberazione’, che abbiamo conosciuto, era in parte una traduzione socio-logica del libro dell’Esodo, e la liberazione dall’Egitto era la liberazione dal capitalismo.

Così, piano piano, si corrode la fede cristiana. La strategia di Gesù è stata posta in essere per conquistare le coscienze al regno di Dio e allonta-

nare il dominio di Satana. Per questo cacciava i demoni. Per gli evangelisti è fondamentale sottoli-neare queste due azioni di Gesù: insegnare la Parola e cacciare i demoni. È molto più importante che guarire le malattie perché guarito da una, te ne viene un’altra, finché muori. Cacciare i demoni significa instaurare nelle coscienze il regno di Dio, e la strategia per riuscirvi è racchiusa nella fede, nella speranza e nella carità. Il sacramento di questo è il battesimo, e la Chiesa è istituita per questo, perché è la strategia della salvezza del mondo attraverso la vittoria sul peccato. Perciò la prima cosa che la Chiesa deve fare è quella di pregare, perché la forza della preghiera può raggiungere vera-mente tutto il mondo nel peccato.

La preghiera è fatta a Dio e, in risposta, Egli visita le coscienze. E allora quale è l’opera mafiosa del demonio? Non si prega più! Ci sono le opere da compiere, c’è la cultura, ci sono i mezzi di co-municazione e tutto ciò è buono. La mafia non è sciocca, sa usare degli strumenti validi per portarli a fini non validi. La tentazione è sottile. Si comincia da ciò che è buono per arrivare a ciò che è cat-tivo: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Vedete la moltiplicazione dei pani? La prima tentazione diabolica di Gesù nel deserto è proprio quella del pane, che rappresenta un bisogno fondamentale della gente. E Gesù risponde a Satana: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», vive di me, del Pane che sono io!

Quindi tutta la strategia di Gesù e della Chiesa è fatta direttamente per questo: liberare gli uomini dal peccato e, attraverso gli uomini, liberare il mondo. Invece il modo umano di agire è quello di li-berare il mondo per liberare gli uomini. Questo si può fare umanamente, per delle cause terrene, ma l’uomo non si libera liberando la società, visto che abbiamo le migliori famiglie e le migliori scuole, da cui escono i peggiori elementi. Fidel Castro ha studiato presso i gesuiti… Questo non vuol dire che la scuola fosse cattiva, ma che uno può interpretare a modo suo anche un’ottima educazione, e poi proporre le proprie idee tramite i mezzi di comunicazione di massa.

Ecco perché Gesù non è stato popolare: il Battista e tutti gli altri si aspettavano che si dedicasse al risanamento della società, cacciando i romani, facendo giustizia, dando da mangiare a tutti, a libera-re dalla schiavitù. La condizione della donna, al tempo di Gesù era terribile, e lui ha trattato da esse-re umano ogni donna che ha incontrato. Gesù ha compiuto dei segni, ma non ha risolto nessun pro-blema sociale del suo tempo. Ma lui non era venuto per questo! Lui ha mostrato dove sta la radice di tutti i mali e ha indicato la direzione in cui camminare per essere liberati dal dominio satanico che attanaglia e circonda ogni persona.

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Quello che ci ha insegnato è il discernimento spirituale: « Offrite i vostri corpi come sacrificio vi-vente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» e « questo infatti siete stati chiama-ti, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme». La gran-de lezione che lui propone alla nostra libertà è la sua persona e ci invita a seguirlo: «E non fatevi chiamare “maestro”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo» (Mt 23,10).

Dopo le due moltiplicazioni dei pani, capisce che è arrivato il momento cruciale. I discepoli si sono entusiasmati, e allora li prende con sé e li porta all’estremo nord del paese, sotto il monte Er-mon, a Cesarea di Filippo, per una settimana di ‘esercizi spirituali’. E là pone la questione finale, che gli sta nel cuore fin dal messaggio del Battista: “Che cosa si è capito di me? La gente non parla con me, da me vuole solo i miracoli”. Si avverte anche una certa solitudine di Gesù, un allontana-mento dalla gente che non ha il coraggio di dire che cosa pensa.

«Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”». Però a che tipo di Cristo/Messia pensa, Pietro? A quello che ha moltiplicato i pani e che quindi può dare da mangiare al mondo. Con lui ci si può preparare ad una marcia trionfale per accompagnare il nuovo re…. Ma ecco che Gesù «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere… Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guar-dando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”». Pietro aveva già immaginato il loro enorme successo in Ge-rusalemme, ma Gesù sa bene dove sta andando, e lo ha capito dal Battista che è stato decapitato. La strategia contro il peccato era costata la vita a Giovanni, che aveva predicato contro l’adulterio di Erode, e ogni lotta contro il peccato conduce alla morte.

Tra questo dialogo e la Trasfigurazione passa circa una settimana, e credo che siano stati giorni molto critici, dal momento che il capo degli apostoli è stato definito ‘Satana’. Avranno forse fatto un po’ di silenzio, ma poi si saranno chiesti dove stessero andando e chi stessero seguendo. Gesù aveva sfamato le folle moltiplicando i pani, e ora parlava di andare a morire a Gerusalemme.

Credo – e forse non è un pensiero arbitrario – che anche Gesù sia stato desolato in questi giorni, perché le risposte sulla sua identità non erano state davvero soddisfacenti: la gente ha capito che è uno dei tanti, i suoi discepoli hanno capito che è il Messia, ma lo sognano trionfante, Pietro ha par-lato come Satana (o meglio, Satana ha parlato per mezzo di Pietro). Gesù si sarà chiesto: “Che cosa ho combinato in tre anni e mezzo di attività? Ho camminato secondo la parola del Padre nel batte-simo, ho accettato come programma la ‘carta della nuova alleanza’, quella di Geremia. Ma io non sono come Geremia, io porto a compimento l’opera di Geremia”. E siccome Gesù è uomo come noi e ha una psicologia umana, questi colpi, queste contestazioni, questo messaggio, risuonano dentro di lui. Anche se li ha superate volta per volta, queste tentazioni ogni tanto ritornano a galla e indu-cono Gesù a domandarsi che cosa stia facendo. Per questo ha un grande bisogno di pregare.

Sette giorni dopo va sul monte, dove avviene la Trasfigurazione, che è semplicemente la risposta del Padre alla questione del Figlio: “Visto che vuoi sapere che cosa pensano di te, sia la gente che i tuoi discepoli, adesso ti dico Io chi sei e che cosa penso di te, e te lo dico ripetendo le parole che ti ho detto al battesimo. Anzi, queste parole del battesimo le dico ai tuoi discepoli: Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. E Gesù per brevissimo un momento – l’unico della sua vita – appare nella gloria. E appare con Mosè ed Elia, che pure appaiono nella gloria. Questo non vuol dire che appaiono con l’aureola intorno alla testa, ma che si presentano nel significato che hanno nel piano di Dio: si veda, finalmente, il senso, il posto, il ruolo che questa persona ha giocato nel disegno di-vino. Così si vedono Mosè ed Elia, cioè la Tôrah e i Profeti, e quindi le Scritture orientate verso Gesù. In questo reciproco orientarsi avviene anche un reciproco illuminarsi delle tre figure; e da-vanti a loro ci sono Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè tutte le Scritture: l’Antico e il Nuovo Testa-mento.

La Trasfigurazione, allora, è la consolazione spirituale che il Padre dona al Figlio proprio sulla sua identità. Forte di questa consolazione, si può avviare verso Gerusalemme. E Luca lo descrive

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bene: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione [rese duro il volto] di mettersi in cammino verso Gerusalemme…

Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. E Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi di an-dare prima a seppellire mio padre”. Gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”» (Lc 9,51ss). Gesù sale a Gerusalemme camminando in mezzo al suo popolo e dividendolo come una spada. Nella città santa affronterà poi la passione e la morte, e alla fine ecco la risurrezione.

Ma accompagniamo Gesù in questa salita, perché c’è sì la promessa del Padre, ma Gesù è anche uomo, e la psicologia di un uomo non è mai risolutiva. I pensieri ritornano, ed egli esclama: «Geru-salemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te…», perché appena prima gli era stato detto: «“Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere”. Egli rispose loro: “Andate a dire a quella volpe che è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”». Non dice queste cose canterellando, perché sono cose grosse, tanto che quando scende dall’Orto de-gli Ulivi e scorge Gerusalemme scoppia in pianto davanti alla città che non ha saputo riconoscere la visita del suo salvatore.

E pochi giorni dopo, a pochi passi dal ‘Muro del pianto’, c’è l’agonia del Getsemani e il suo arre-sto. La passione di Gesù è il contrasto tra il suo messianismo come sarebbe desiderato dagli uomini – con il successo, le istituzioni, i partiti politici – e il progetto del Padre. E fino al Calvario la spada di Gesù divide: alla sua destra e alla sua sinistra ci sono altri due crocifissi, dei quali uno riconosce chi è Gesù e chiede perdono per i propri peccati, e l’altro rifiuta di capire. Sono le due figure del messianismo di Gesù, ma questo è il Messia d’Israele, e questo è il primo compimento della nuova alleanza (noi attendiamo il ritorno definitivo del Signore). Gesù, nella sua persona di Maestro itine-rante, di taumaturgo, di esorcista che caccia i demoni, e poi di crocifisso e risorto è il compimento personale, incarnato, dell’economia della nuova alleanza di Geremia, Ezechiele, Secondo Isaia.

Allora, come si fa a dire con tanta leggerezza che l’Antico Testamento non serve a niente? Senza l’Antico non capiamo niente del Nuovo, non capiamo quale sia il Messia voluto da Dio. Se pren-diamo solo il Nuovo Testamento, finisce che ciascuno si costruisce un Gesù a gusto suo: liberatore sociale, maestro sapienziale, filosofo. Se non si hanno gli strumenti dati da Dio per costruire la vera identità di Gesù, ognuno se lo inventa a modo suo: Gesù è il prigioniero del tabernacolo, al quale bisogna andare a fare compagnia e adorazione, oppure è il compagno di strada a cui dare pacche sulle spalle perché è uguale a noi… E questa diventa idolatria di Gesù, che non è più il Messia del Padre, ma è il messia fatto da noi. E non è escluso che nella Chiesa qualche volta si presenti un Ge-sù del genere, proprio perché non si capiscono le radici del piano di Dio.

Come si fa a dire che c’è una rottura tra Antico e Nuovo Testamento? La rottura sta negli uomini che credono e che non credono, ma non nel piano di Dio. Possiamo dire che c’è una continuità mi-steriosa, e si deve accettare il fatto – che è stato tanto duro anche per Pietro – che il Messia debba morire per entrare nella sua gloria. Ma una volta che lui è risorto, hanno capito tutto e hanno fatto ritorno alle Scritture, proprio come i due discepoli di Emmaus sotto la guida dello stesso Gesù.

Se Gesù ha camminato così, questo è il cammino della sua Chiesa, sia personalmente, sia come comunità. Ma una comunità che non è di questo mondo, non è condotta dalla sapienza mondana; pur vivendo in questo mondo, e pur essendo cittadini di questo mondo, come cristiani non siamo per questo mondo, ma siamo per liberare questo mondo dal peccato. La Chiesa non è mandata a sa-nare questo mondo che perisce nella sua mondanità; deve diventare la Gerusalemme dall’alto, ma certo purificata dal peccato. Come sarà del resto per noi, che non conosciamo il nostro secondo no-me, conosciuto soltanto dal Signore. Gesù è risorto e ha trovato la sua dimora e la sua gloria presso il Padre, e siede lì, non su qualche trono di questo mondo!

E allora, buon cammino!

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Undicesima riflessione Ci rimane da dire qualcosa di noi, del nostro tempo e della nostra Chiesa. Prima di tutto diciamo

che noi siamo nell’economia della nuova alleanza. Però non è che nella nuova alleanza ci si nasca. Noi non ‘apparteniamo’ alla nuova alleanza come potremmo appartenere al secolo XXI, perché essa è una dimensione spirituale, è un modo di essere spirituale in cui si entra attraverso la conversione. Quindi ci potremmo domandare se ci siamo convertiti alla nuova alleanza o se ad essa ci stiamo convertendo, tenendo presenti i suoi connotati del culto, di cui abbiamo a lungo parlato: la persona-le interiorizzazione del culto, l’assemblea, il Servo sofferente, la dispersione nel mondo, la santifi-cazione del nome del Signore, la salita a Gerusalemme, l’uscita dalla città santa per il servizio alle nazioni, l’apertura universale.

Io credo che ciascuno debba fare un esame di coscienza per vedere a che punto sta in questa con-versione; è molto probabile che siamo in cammino, magari in alcune cose un po’ più avanti e in al-tre un po’ più indietro. E questo va detto anche di tutta la nostra Chiesa: il nostro tempo, dalla parte di Dio, è quello della nuova alleanza, sia per la Chiesa, sia per Israele, sia per tutto il mondo. È il tempo dell’alleanza di pace, nuova ed eterna. Non ce ne sarà un’altra! Alcuni hanno diviso la storia in ‘età del Padre’, ‘età del Figlio’, ‘età dello Spirito’; ebbene, noi siamo in quest’ultima, perché il Figlio risorto ci ha dato lo Spirito da parte di Dio. Bisogna però vedere se noi ci siamo aperti a que-sto dono. I carismatici pregano invocando la discesa dello Spirito, ma lo Spirito è già venuto! Siamo noi che dobbiamo aprirci a riceverlo. Non c’è più una rivelazione da aggiungere, perché il Padre ci ha detto tutto nel Figlio, che non è ‘una parola’, ma ‘la Parola’. Dal Figlio, quindi, noi dobbiamo ‘ti-rar fuori’ tutto ciò che il Padre vuole dirci.

Abbiamo visto il messianismo di Gesù come il messianismo del Servo, e dicevamo che il Servo viene da lontano, dall’esilio in Babilonia. Ma la novità di Gesù sta nel fatto che questo modo di av-vicinarsi agli uomini si è incarnato nella sua stessa persona. E questo dovrebbe essere il nostro pro-getto: non tanto le cose da fare, quanto le persone da essere: dovremmo diventare persone della nuova alleanza in questo mondo presente. Come Gesù è passato nel suo mondo, così anche noi dob-biamo passare nel nostro come persone della nuova alleanza. Come? Ciascuno deve trovare il pro-prio modo, perché lo Spirito detta a ciascuno la sua ispirazione. Ma se uno capisce che cos’è la nuova alleanza, che cos’è nella Bibbia, che cosa è stata fin dall’inizio della storia d’Israele, come si è passati dal regno di Davide ai libri sapienziali e l’incarnazione del tutto in Gesù, allora troverà la sua risposta.

I santi della Chiesa sono semplicemente uomini e donne della nuova alleanza, e tra di loro sono diversissimi. Non c’è un esercito con le stesse milizie, perché la Chiesa non è una caserma, e si va dagli eremiti del deserto fino ai membri delle comunità più numerose; ma nei santi della Chiesa si riconoscono i tratti del Signore Gesù. Certo, le stimmate di S. Francesco sono un timbro forte di tut-ta l’economia del giusto sofferente, della croce come via della salvezza e della risurrezione. In alcu-ni santi questi segni sono più forti e più evidenti, impressi nella loro stessa carne, ma in tutti c’è la risposta a questa richiesta: «Offrite i vostri corpi [la vostra storia, la vostra vita] come sacrificio vi-vente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» e «non conformatevi a questo mon-do, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto».

Allora, riprendendo quello che ho detto fin dal primo giorno, pensiamo al cammino da Gerusa-lemme ad Emmaus e da Emmaus a Gerusalemme. È la distanza tra i due poli del regno di Dio. Co-me abbiamo visto, Emmaus è il luogo di una vittoria militare dei Maccabei per la difesa della fede e del patrimonio religioso d’Israele, contro il tentativo di paganizzare la terra d’Israele. E non tanto politicamente, perché certo l’indipendenza era perduta fin dal tempo dei Babilonesi e dei Persiani, quanto dal punto di vista della fede. Per opporsi a questo tentativo, i Maccabei non trovarono altra

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via che la rivolta armata: riuscirono a respingere la colonizzazione pagana e a salvare in qualche modo il santuario, con la riconsacrazione del tempio, che era stato contaminato dai culti ellenistici.

Questa è stata una grande vittoria ‘terrestre’ del popolo di Dio, tant’è vero che nei libri di storia è citata. Non hanno ristabilito il regno di Davide, perché questo spettava ad un discendente della tribù di Giuda, mentre i Maccabei erano della tribù di Levi, erano sacerdoti. Quindi dal punto di vista re-ligioso non era un regno legittimo, però ha portato una certa indipendenza locale del popolo di Dio, che è durata fino ad Erode il Grande, sotto il cui regno è nato Gesù.

L’altro polo è Gerusalemme, dove questo Gesù – che era grande davanti a Dio e davanti agli uo-mini, è passato facendo del bene e seguendo la via che veniva da Dio – ha conosciuto la passione e la morte, per mostrarsi infine ai suoi nella risurrezione.

Da questo è nata la Chiesa: da una tomba vuota! Le donne che per prime sono andate al sepolcro, l’hanno trovato vuoto. Lì c’è già qualcosa di nuovo.

Anche oggi, nel giudaismo la testimonianza di una donna non è valida dal punto di vista religio-so. In un tribunale civile israeliano la testimonianza di una donna vale certamente, ma in un tribuna-le canonico no. Il Talmud dice che le donne sono un po’ ‘mobili’ nei loro sentimenti, e vanno da una parte all’altra, per cui non c’è da fidarsi della loro testimonianza. Il Talmud dice pure che è me-glio che la Tôrāh cada nel fuoco piuttosto che in mano a una donna. E pensare che la Tôrāh di Dio, il Figlio di Dio, è ‘caduto’ nel grembo di una donna! C’è anche scritto che se un padre insegnasse ad una figlia la Tôrāh, sarebbe come se la istigasse alla prostituzione.

L’idea è che la donna è molto importante in famiglia, per l’educazione dei bambini, per insegnare loro a pregare e a celebrare le feste, però è meglio che stia fuori dalla sinagoga. E se proprio vuole entrarci, vada al piano di sopra con le altre donne; gli uomini che pregano stanno sotto e non devo-no vedere le donne per non esserne distratti.

Naturalmente ci sono quelli più estremisti e quelli meno, ma l’idea fondamentale è che un mes-saggio serio non può essere affidato ad una donna. Invece la scoperta della tomba vuota è avvenuta proprio per mezzo di alcune donne! Questo fa parte della nuova alleanza, che chiede di santificare Dio nella propria vita, nel proprio corpo, che è una realtà comune agli uomini e alle donne.

E allora il Signore non ha avuto paura di affidare il messaggio della risurrezione proprio a delle donne. E sono le donne che hanno evangelizzato gli apostoli… Giovanni ha personalizzato questo in Maria di Magdala e quindi è lei la prima evangelista della storia. E insieme a lei le altre donne che l’accompagnavano. Questa è già una bomba che esplode all’inizio della Chiesa.

In seguito Gesù si è fatto vedere anche dagli apostoli, dagli altri discepoli e dalla gente che era con loro, ma, come dicevo, tutto è nato da una tomba vuota. Questo è un fatto, valido per credenti e non credenti: il sepolcro di Gesù è vuoto!

Ma che cosa significa questa condizione di ‘vuoto’, per il sepolcro di Cristo? Dove è andato a fi-nire Gesù? E la sua missione? E il suo messaggio? E il suo testamento? Che cosa continua di lui, se noi ci troviamo ad essere suoi discepoli, dal momento che crediamo alla sua risurrezione?

Se è risorto significa che il suo corpo – cioè la sua storia, la vita che egli ha vissuto nella carne – è passato nella gloria, è diventato luminoso. È un corpo risorto, non più tangibile e pesante. Biso-gnerebbe leggere tutti i vangeli della risurrezione per vedere la catechesi che ci offrono, molto deli-cata, molto fine, attraverso dei racconti come quello di Emmaus o di Maria di Magdala, per farci capire che Gesù risorto è diventato un soggetto totalmente libero. Noi siamo soggetti (nel senso che possiamo dire ‘io’), ma non siamo totalmente liberi; siamo in parte soggetti e in parte oggetti, siamo soggetti ‘pesanti’. ‘Pesanti’ significa che noi siamo anche delle cose, tant’è vero che possiamo addi-rittura soffrire violenza o imporre violenza; ci si può perfino prendere e trattare da oggetti. Quindi possiamo affermare che ciascuno è in parte persona libera e autoderminante e in parte è ‘cosa’, una sorta di pacco. Gesù risorto ha perduto completamente questa dimensione di ‘cosa’, e infatti non lo si può nemmeno vedere. Certo, i due di Emmaus vedono un viandante, Maria di Magdala vede un giardiniere… Quando noi ci guardiamo, crediamo di conoscerci; io vi vedo e voi mi vedete, ma che cosa sappiamo gli uni degli altri? Quando si va per strada, in treno o in autobus si vede certo la gen-

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te, ma che si sa di loro? Si vedono dei corpi, ma chi sa la loro storia? Quand’è che si comincia a ve-dere una persona? Quando si rivela raccontando la propria storia.

Questo per dire che la storia umana è veramente il cammino verso l’umanizzazione vera, cioè le persone libere che si rivelano l’una all’altra, e che non possono soffrire violenza perché non hanno questa dimensione pesante dei chili che portiamo con noi. Anche fare delle fotografie a tradimento è una violenza; il fatto di poterci fotografare senza che noi lo vogliamo è perché siamo delle ‘cose’. Nessuno ha potuto fotografare Gesù risorto, perché è lui che si è rivelato…

La lettura di questi vangeli ci dice che Gesù è più uomo di noi. Non è che si è salvato l’anima, no! È risorto, è glorificato nel suo corpo. È un uomo pieno, libero. C’è, come afferma il verbo usato dagli evangelisti; si fa vedere dove sta. Non è che ‘appare’ da fuori, ma si fa vedere dove sta, e sta in mezzo e sta dappertutto. È molto più reale di noi, ma questo suppone una conversione; reale non vuol dire corporeo o materiale, ma indica una cosa che c’è, anche se non si vede e non si tocca. L’amore è una cosa reale, ma non si vede; si possono vedere i suoi segni in un abbraccio o in un ba-cio, ma i segni sono sempre interpretabili in un altro modo: posso baciare mia moglie e pensare ad un’altra donna, ad esempio, e allora il bacio diventa tradimento.

L’amicizia è una realtà, ma non si pesa, non si tocca; ci si fida l’uno dell’altro, il che significa che si crede a tutto quello che l’altro dice. Questa fiducia è più reale di ogni firma che si può apporre su una cartolina. S. Agostino, che non era uno sciocco, ha detto di aver impiegato dieci anni per capire che reale non vuol dire corporeo, ma semplicemente ‘esistente’. Dio esiste, è reale molto più di noi!

La conversione verso il Risorto è avvenuta scoprendo il sepolcro vuoto e poi vedendo il Signore che si rivela. E allora hanno capito che Gesù ha lasciato vuoto il suo sepolcro perché tutta la vita che lui ha vissuto nella carne è stata consumata nella carità, nell’amore. E solo l’amore è reale. Co-me dice Paolo, la fede e la speranza passano appena si è raggiunto il bene desiderato, ma la carità rimane.

Allora, che cosa vuol dire ‘salvarci’? Vuol dire consumare la nostra vita presente nella carità, come ha fatto Gesù con la sua. O come ha fatto Maria, perché anche la tomba della madre di Gesù è vuota, a Gerusalemme. La risurrezione non è una cosa diversa dalla vita presente. Si prepara qui, e il tempo che ci è dato di vivere qui è il tempo per radunarci nell’amore, per consumarci nell’amore, per consumare tutte le relazioni gli uni con gli altri, le cose che facciamo, le cose che soffriamo, la vita, la morte, le malattie, i dolori, le vicende tristi, perché allora, come dice Paolo in 1Cor 15,42-44 nell’unica teologia della risurrezione che abbiamo nel Nuovo Testamento, stiamo seminando il no-stro corpo: «Così anche la risurrezione dei morti: [il nostro corpo] è seminato nella corruzione, ri-sorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolez-za, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale».

In questa vita noi seminiamo noi stessi, noi oggi siamo delle sementi che devono fiorire e poi da-re frutto nella gloria. Quindi quella presente e quella futura è una vita sola, e non si va all’altro mondo.

C’è un solo mondo, ma questo mondo tangibile deve diventare il mondo della risurrezione, la ‘città di sopra’. Bisogna che tutto ciò che si trova ‘sotto’ passi ‘sopra’, e che quello che sta sopra ar-rivi al cielo. Questo non si sapeva, prima che Gesù risorgesse; nessuno ne sapeva niente, e chi non è cristiano continua a non saperne niente. Questo è il mistero rimasto nascosto nei secoli in Dio: la vi-ta umana è fatta per durare sempre, e questo mondo passa per aprirsi all’ultimo scenario.

La risurrezione di Gesù, insomma, è la rivelazione della condizione umana. Ma questo, si capisce bene, è una rivoluzione completa del modo di essere uomini e donne, perché vuol dire che siamo in viaggio e la stazione d’arrivo è quella. E come ci si arriva? Camminando come ha camminato Gesù!

Questo è un progetto per ciascuno di noi, ma siccome Gesù ha chiamato a sé dei discepoli e li ha invitati a seguirlo, questo è anche il cammino della Chiesa. Infatti, che cosa ha lasciato alla Chiesa come parola d’ordine? «Nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (Lc 24,47); «A coloro a cui perdonerete i peccati, sa-ranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23).

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Questa è la missione della Chiesa, è la lotta contro il mondo satanico che tiene schiavo questo mondo presente, in mezzo al quale noi dobbiamo passare come luci che attraversano le tenebre, perché il regno di Dio come Lui lo vuole è quello in cui Cristo è il Re dei re e il Signore dei signori. Non vuole un trono come quello di Davide, che aveva costruito una Dimora al Signore! La promes-sa fatta a Davide rimane vera, ma il modo con cui Dio la vuole compiere, Davide non se lo immagi-nava nemmeno da lontano.

Allora il vero cammino non è da Gerusalemme verso Emmaus, perché quello sarebbe un tornare indietro. Andare da Gerusalemme ad Emmaus sarebbe prendere questo mondo per costruirci sopra la Chiesa, come se alla Chiesa interessasse di insediarsi qui, di vincere le battaglie e di affermare le sue vittorie, di costruire le sue istituzioni, di occuparsi in sostanza di questo mondo. Ma Gesù non è venuto per occuparsi di questo mondo se non per portarlo alla gloria.

In che Chiesa ci troviamo, oggi? Una Chiesa che si preoccupa più di portarci in questo mondo o di aiutarci ad andare avanti? Certo, siamo in questo mondo, ma stiamo camminando verso un punto di arrivo, oppure al punto di arrivo non ci pensiamo per niente e preferiamo stare qua? Si sente mol-to spesso dire che bisogna portare più cattolici ad occuparsi della politica, per cui sembra che il fine dei cattolici sia quello di interessarsi dello stato, qui. Il cattolico deve operare bene in politica, sulla terra! Ora, è vero che se siamo cittadini in un sistema più o meno democratico dobbiamo occuparci bene anche della politica ‘di qua’, ma questo non è il fine della Chiesa. Questo è il cammino di ogni cittadino, ma la Chiesa deve indicare il punto di arrivo, che è il Cristo risorto! Chi ha seguito il Cri-sto risorto è passato attraverso il fascismo, il nazismo, il comunismo, i campi di concentramento, le democrazie occidentali… Questi sono tutti scenari che restano qui, e l’importante è passarci in mezzo per arrivare alla stazione d’arrivo.

Se la risurrezione di Gesù è la rivelazione della condizione umana, è sconosciuta agli uomini co-me tale. Non lo sanno. Anche le religioni più alte, e perfino l’ebraismo, sanno che staremo con il Signore, in qualche modo. Ma poiché non sanno ‘come’, intanto si occupano di questo mondo; del mondo dell’aldilà è meglio non parlarne troppo, perché non sanno. Noi invece lo sappiamo, perché Gesù è risorto e si è rivelato, e ci ha detto che siamo fatti per la gloria, non per andare a votare.

Noi abbiamo bisogno che la Chiesa ci parli di tutta la nostra vita, ma ne ha bisogno tutto il mon-do! È necessario testimoniare al mondo – con tutto il rispetto, con tutta la buona educazione e con molta modestia, come dice Pietro – quale è la nostra speranza. Se viene lo tsunami in Giappone, bi-sogna che ci sia nel mondo qualcuno che dica: “Questa gente non si è perduta! Questa gente fa parte dell’umanità che Dio ama!”. Non possiamo aggiungerci al pianto di coloro che già piangono, né di-re: “Salviamo il salvabile. Non procediamo con l’energia atomica!”. Va bene tutto, ma questa non è la fine del mondo, perché l’uomo non finisce: Dio lo salva.

Quindi tutti dobbiamo pensare a dove sono arrivati quelli che sono morti, perché ci arriviamo an-che noi! Questa è la nostra fine, e questo è il modo di essere uomini e donne su questa terra.

Bisogna che diciamo: “Attenti ad abortire i bambini, perché non si può uccidere nessuno. Ma se avete abortito i bambini, loro pregano per voi, perché sono vivi, non morti”. Questo se vogliamo di-re le cose come stanno, perché questa è la realtà. Quindi non possiamo fermarci a condannare l’aborto, il divorzio, o altro, perché la Chiesa non può allinearsi a questo mondo, dicendo che queste sono le frontiere della vita e poi di là chissà che cosa c’è. No, noi lo sappiamo che cosa c’è, c’è Cri-sto risorto, e quindi siamo liberi da questi pesi che ci mettiamo addosso.

Ciascuno deve misurare i suoi compiti e i suoi doveri anche nella società però, in quanto cristiani, siamo traboccanti di questa speranza, viviamo questa speranza che ci porta avanti. È la speranza della vita che non finisce, la gioia di essere messi al mondo per vivere sempre, e la gioia di poterci amare già da adesso perché l’amore è l’unica cosa che rimane. Chi mette da parte dei miliardi, met-te da parte cose che non rimangono; chi si mette da parte la carità, quella rimane. E non solo fa una cosa buona, ma fa anche una cosa sapiente. Quale è il tesoro: il sapere o l’essere? Questa non è filo-sofia, è sapienza di tutti coloro che credono che Gesù è risorto. Non sono considerazioni di alta ri-flessione, ma è solo una notizia: il Signore è risorto! E se lui è salito al Padre, anche noi dobbiamo salire al Padre.

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Quindi non c’è alcuna frattura tra la vita di ‘adesso’ e la vita di ‘dopo’, perché la vita di dopo è la glorificazione della vita di adesso. È però la glorificazione di ciò che è glorificabile, perché se io ad esempio consumo la mia carne nel sesso, di certo non risorge; se io consumo la mia sessualità nell’amore, allora risorge. Se io consumo il mio tempo nella ricerca del denaro, quel tempo è perdu-to. Quali sono le grandi autostrade della vita presente? Le abbiamo viste: la preghiera, l’elemosina, il digiuno, che nella Chiesa prendono anche il nome di fede, carità e speranza, di obbedienza, castità e povertà. Questi non sono i voti religiosi, ma la vita cristiana.

Quelli che si chiamano canonicamente i ‘consigli evangelici’ sono le strade evangeliche per il popolo di Dio. C’è l’obbedienza, e direi che nella vita laica c’è più obbedienza che nella vita reli-giosa. C’è la povertà, ma in Italia accade un fatto molto bello, che si è sviluppato assai di più che negli altri paesi: il volontariato. Questo sta ad indicare una cosa estremamente importante: per una ragione o per l’altra (e forse per qualche modo di sentire mafioso), gli italiani non si fidano troppo delle istituzioni ufficiali. È sempre un problema, quando invitano a fare la carità mandando i soldi ad un certo numero di conto corrente. Che fine fanno i soldi inviati? Questo vale anche per le inizia-tive cattoliche, naturalmente. C’è sempre qualcuno che si inserisce a metà del loro viaggio e se ne prende almeno la metà. Il volontariato fa scappare dalle istituzioni perché di queste non ci si fida. E questo non succede solo in Italia, ma dappertutto, perché il genere umano è così: più intermediari ci sono, e più i beni vengono diminuiti. Capire il volontariato significa capire che la carità deve arriva-re il più possibile direttamente ai destinatari.

È come per il fiume Giordano: dal monte Ermon le acque scendono copiose, ma quando giungo-no al Mar Morto arrivano goccia a goccia, perché lungo la strada se le prendono i giordani, gli israe-liani, i palestinesi, e l’acqua diminuisce sempre di più.

In questo mondo le cose vanno così, e non credo che si possa sperare che migliorino. Un mondo migliore non viene su questa terra; il mondo migliore viene nella condizione della risurrezione, e quella è la nostra speranza. Non possiamo prendere la speranza di Gerusalemme e portarla ad Em-maus. Non possiamo laicizzare la nostra fede e renderla una causa umana. Questa è la lezione della nuova alleanza che Gesù ci dà. Si potrebbe dire che Gesù ci ha dis-disillusionati definitivamente su questo mondo; non c’è da illudersi, chiusi in questo mondo, perché non siamo più di questo mondo. Tuttavia dobbiamo cercare di vivere bene in questo mondo e aiutare tutti gli altri a vivere bene rive-landoci reciprocamente quale è il punto d’arrivo e sostenendoci per raggiungerlo.

Facciamo pure un’inchiesta per vedere quale è la disoccupazione oggi a Bergamo, ma soprattutto aiutiamoci ad aiutare i disoccupati. Gesù non ha fatto le inchieste per vedere quale fosse la situazio-ne, ma è partito e ha guarito lo storpio, il lebbroso, il cieco. Ha curato le persone, non le istituzioni.

C’è la cura delle istituzioni, ed è compito della società civile, ma poi ci vogliono i volontari che vanno ad aiutare le persone.

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Dodicesima riflessione Anche all’interno della Chiesa dobbiamo vigilare perché ci può essere un cammino che va più

verso Emmaus che verso Gerusalemme non solo per la scelta della mondanità – ed è la cosa più grave –, ma anche per l’orientarci più verso le ‘cose’ della nostra fede che verso la fede stessa, più verso le ‘cose’ della speranza che verso la speranza, sulle ‘cose’ della carità, più che verso la carità. Penso che siamo più orientati verso i sacramenti che verso ciò che essi significano, più verso la quantità che verso la qualità, più verso il sapere che verso il fare.

Allora può succedere che la moltiplicazione della vita sacramentale perda significato, senso. Ho sentito spesso dire che l’eucarestia è fatta perché si possa entrare in contatto con il Signore, come se senza di essa non ci fosse contatto con il Signore. Ma questa non è l’eucarestia, ma la dispersione del significato di ‘eucarestia’. L’eucarestia è la confessione che la nostra fede viene dal mistero pa-squale di Gesù. Non è che l’eucarestia sia un gesto per prendere il Signore e portarmelo via, dentro

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di me; questo è un intimismo che non fa parte dell’eucarestia, è una forma di cattolicesimo poco cri-stiano, che rende il Signore una cosa che io mi prendo e tengo per me. Riconosco che questo era forse quanto ai nostri tempi si insegnava nella preparazione alla prima comunione: l’intimità con il Signore, preparargli una casa pulita… Ma è il Signore che rende pulita la casa! Io non mi posso pu-lire, perché se potessi farlo non avrei bisogno di lui! Allora c’è una maniera di interpretare la fede – come c’è una maniera per interpretare la devozione a certi santi e il senso dei pellegrinaggi – come ridurla a delle cose da fare. E questo mi sembra un modo per andare ad Emmaus, piuttosto che a Gerusalemme.

Come anche la voglia di frequentare dei corsi, sentimento mosso da qualcosa di molto bello e di molto reale, cioè dal desiderio di ‘mangiare’ la Parola, di ‘vivere’ la Parola. Ma la Parola non si vi-ve ascoltando soltanto, moltiplicando le conferenze, i corsi. Questo mostra semplicemente una so-cietà che ha dei soldi e che si può pagare delle lezioni; i soldi si disperdono nell’ascolto, mentre ci sono delle cose da fare, da mettere in pratica, da vivere. Nella comunità cristiana c’è la necessità di aiutarsi a crescere senza ascoltare soltanto delle conferenze, ma mettendo insieme delle esperienze personali, perché quelle sarebbero capaci di nutrire, e fare di noi dei soggetti adulti. Bisogna diven-tare adulti nella fede.

Abbiamo visto che c’è la Tôrāh, i Profeti e la Sapienza. Bene, adesso sappiamo le cose e cammi-niamo con quello che sappiamo; non ho bisogno di andare continuamente a scuola. È chiaro che un insegnamento ci deve accompagnare sempre, ma è questione di discernimento, di misura. Per quello che posso capire, mi sembra che in Italia siamo più presi dalla quantità che dalla qualità della nostra vita e quindi immagazziniamo cose che poi non abbiamo tempo di fare.

Prima di tutto curiamo la fede, la speranza e la carità, e preoccupiamoci di viverle bene. La via da seguire per ottenere il risultato è la Parola, l’ascolto diretto della Parola (non delle conferenze sulla Parola) e una dimensione seria della preghiera nella nostra vita. Proviamo a ‘non fare’ qualche altra cosa per dare tempo alla preghiera e per esercitarci a mettere in pratica la Parola, che ci condurrà a Gerusalemme. Non fermiamoci al trono di Davide soltanto! Bisogna sapere dove siamo diretti, ca-pendo la Parola in tutto il suo senso che, come abbiamo visto, si rivela alla fine.

Noi dobbiamo leggere tutte le Scritture, ma partendo dal Cristo risorto, perché la lettura cristiana della Bibbia non è una lettura archeologica, letteraria o storica, ma è una lettura di fede, di speranza e di carità. Bisogna dare molta più importanza alla preghiera che ai sacramenti, più alla preghiera che all’adorazione dell’eucarestia. Certo, bisogna arrivare all’eucarestia, ma dandole il senso che ha: non è qualcosa che noi facciamo per il Signore, ma è qualcosa che viene fatto per noi che la ce-lebriamo. Deve cambiare noi! Non dobbiamo andare a offrire un sacrificio al Signore, perché il Si-gnore già l’ha fatto, il sacrificio.

Tutti i sacramenti, dal più piccolo al più grande, sono fatti per cambiare noi, qui e insieme, perché è una celebrazione ecclesiale. Anche la confessione dei peccati è fatta per renderci di nuovo agili, in buona forma, in seno alla comunità. I sacramenti sono una celebrazione ecclesiale, dicevo, e lo è anche quello per una buona morte; infatti è una celebrazione liturgica della comunità quella che ac-compagna qualcuno nel passaggio pasquale della sua vita. Ma devono essere preceduti dalla consa-pevolezza di quello che si sta facendo.

Così se si recita il rosario è una cosa magnifica, ma bisogna farne un nutrimento della fede attra-verso i misteri di Dio nella storia umana, che non sono cose da capire, da ricordare, ma da fare la-sciandosene coinvolgere, per farne un capitolo della nostra storia, una stanza della nostra casa, un momento del nostro mondo. Non facciamo le pratiche di pietà, ma facciamo una vita di pietà! Non facciamo ‘cose da fare’, ma facciamo ‘modi di essere’. E se non potete andare a Messa, cercate di intensificare la vita di fede, di preghiera, perché quello si può sempre fare e viene prima.

Domandiamoci sempre quale è il significato delle cose che facciamo, perché anche qui bisogna crescere e trovare nutrimento. Per me è una meraviglia, ogni giorno e ogni anno, capire un po’ me-glio che cosa è la vita cristiana. C’è una ricchezza incredibile nella nostra tradizione di fede, di spe-ranza e di carità. Non mi viene più nemmeno in mente il pensiero che sia tutta una montatura, per-ché la fede è conoscenza, non è chiudere gli occhi, ma aprirli. Io posso capire chi non ha fede, ma il

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fatto che non veda certe cose mi dice che io ci vedo meglio. Non è merito mio, è un dono di Dio, ma la fede mi ha aperto gli occhi, mi dà il senso della vita, mi dà una logica per la quale i conti tor-nano, anche quelli che io non so fare. C’è Qualcuno che ne sa più di noi e ci accompagna, dandoci fiducia e certezza. Noi non abbiamo la responsabilità di essere dei ‘padri eterni’! Stiamo al nostro posto, e più staremo al nostro posto e meglio ci vedremo.

Non possiamo organizzare la nostra vita cristiana come se non dovessimo risorgere, perché la fe-de nella risurrezione è essenziale. È essenziale accorgerci che invecchiamo e sentiamo le forze di-minuire. Passa la scena di questo mondo, e passa anche la scena di questo corpo. Non bisogna ram-maricarsi perché invecchiando perdiamo la memoria, dimentichiamo i nomi, non ci sentiamo bene: questo è normale. È anzi un buon segno; è segno che siamo un buon frutto giunto a maturazione, che sta per scoppiare e offrire semi che cadranno a terra e daranno a loro volta frutti.

Dobbiamo amare la vita umana così come ci è data, perché è un tesoro per l’eternità. Non bisogna rimpiangere la giovinezza, perché essa è un momento meraviglioso di semina, di partenza, ma co-nosce meno dell’età matura e della vecchiaia. Io sto meglio adesso, anche se mi fanno un po’ male le ginocchia e ho qualche malanno: mi sento più uomo. E non credo che sia una cosa eccezionale, perché la vita umana è fatta così. Essa ci è data affinché ci consumiamo nella conoscenza, nella fe-de, nella speranza e nell’amore.

Desidero concludere questa settimana ascoltando la vostra richiesta, che è una buona richiesta. Sembra che incontriate alcuni vostri preti che non curano l’Antico Testamento, per cui nasce il pro-blema sulla continuità della Bibbia. Mio nonno, che era ‘papalino’ del Papa-re a Roma, non voleva che la Bibbia entrasse in casa, perché era il libro dei protestanti. Non leggeva neppure tutto il Nuo-vo Testamento, ma solo il vangelo. Purtroppo si usciva da una crisi delle chiese, nata con la Rifor-ma protestante, e praticamente si è verificato questo: i protestanti si sono tenuti la Parola, i cattolici si sono tenuti i Sacramenti, con il risultato che i cattolici sono rimasti con i Sacramenti senza la Pa-rola, e i protestanti con la Parola senza i Sacramenti. In sostanza, si è diviso quello che invece Dio ha unito!

Adesso pare che questo sia stato superato e che dal secolo scorso siano stati fatti parecchi pro-gressi in questo senso, sia da parte dei cattolici che dei protestanti, ma siamo soltanto all’inizio di questa ‘saldatura’ tra queste due colonne fondamentali della teologia cristiana: le Scritture e la vita sacramentale. La vita sacramentale, infatti, trova il suo significato nelle Scritture, e queste sono fatte per essere messe in pratica nella vita sacramentale.

Abbiate perciò pazienza se ci sono ancora degli esemplari di alcune generazioni che non sono a-bituati a questo e credono che il Vangelo sia una cosa nuova, e che sostenere la continuità tra Gesù e l’Antico Testamento significa diminuire la novità di Gesù.

Ma allora ritorniamo alla domanda: “Dove sta la novità? Che cosa ha portato di nuovo, Gesù?”. Ha portato se stesso: questa è la risposta di Ireneo. Tutto il nuovo che ha portato è se stesso. Ma il

se stesso che incarna tutto quello che è venuto prima. Ripeto, bisogna avere pazienza perché ci sarà ancora qualche generazione che è stata ‘diseducata’

alla vecchia maniera, e inoltre si è diffusa una grande ignoranza di cui bisognerebbe vergognarsi all’interno della Chiesa. Oggi, infatti, siamo più ignoranti di quanto non fossero i cristiani di alcuni secoli fa. Si vede dagli scritti, dai santi e dalle devozioni del popolo di Dio. Perché ci facciamo sug-gestionare da tante cose e da tanti luoghi? Proprio perché siamo diventati ignoranti, sicché ci entu-siasmiamo di Medjugorie e altro, ma sembra che tutto si riduca a questo. Ma Maria di Nazaret non è quella di Medjugorie, siamo seri! Questo, non per essere contro Medjugorie, ma per illuminare la vera Maria, Maria di Nazaret. Bisogna avere il cervello particolarmente piccolo per credere che tut-to consista nel fare il digiuno di mercoledì per la Madonna di Medjugorie. La fede cristiana è molto più seria e non si può ridurre il cristianesimo a queste cose!

E lo stesso si dica di padre Pio. È soltanto frutto di ignoranza, per cui si ringrazia il cielo che sia spuntata una piantina che si chiama padre Pio. Almeno coltiviamo quella!

Viene voglia di respirare a pieni polmoni! Cerchiamo la qualità, più che la quantità; cerchiamo i soggetti, più che gli oggetti; le persone, più che le cose. E soprattutto scopriamo la carità nel rappor-

Page 65: Prima riflessione - odos.altervista.org · tomba, trovano che la pietra è stata rimossa, entrano per vedere il corpo di Gesù, e la trovano vuota: « Le donne, impaurite, tenevano

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to con le persone. Le persone sono una meraviglia, molto più belle dei tramonti e delle albe; ogni persona è un miracolo, un dono, ma bisogna capirla, accoglierla. Non bisogna condannare nessuno, perché certamente c’è qualcosa di bello e di buono in ciascuno, anche se è nascosto come un tesoro da esplorare. Certo, ci vuole pazienza, apertura, per cui ciascuno di noi fa quello che può.

Nei nostri incontri abbiamo cercato di vedere come il piano di Dio sia una storia che si snoda at-traverso le nostre storie. Però è anche una storia indipendente, che si nutre dei rapporti con tutte le nostre storie, ma che non si può contaminare con le storie umane.

Oggi, in Europa e anche da parte della Chiesa, si insiste molto sulle radici cristiane. Io credo che sia vero, tenendo presente però che l’Europa non ha soltanto radici cristiane, ma anche radici paga-ne (Grecia e Roma), radici ebraiche, radici islamiche per la presenza musulmana in Europa durata molti secoli (Spagna, Sicilia, Bosnia, Erzegovina, Balcani dove c’è ancora oggi); ci sono stati anche i fascisti, i nazisti, i comunisti.

È vero che il cristianesimo ha messo grosse e visibili radici, tuttavia questo riguarda lo studio del-la civiltà europea. Ma il cristianesimo non ha bisogno dell’Europa, non dipende dall’Europa. Il cri-stianesimo è nato in oriente, e oggi la Chiesa conosce molte più risposte in Africa e in Asia che in Europa. E perché la Chiesa riprenda vigore anche in Europa, abbiamo bisogno che l’allargamento che si è verificato con la nuova alleanza, con l’apertura delle sinagoghe ebraiche a tutto il mondo e l’apertura del vangelo a tutte le nazioni, metta profonde radici anche in Asia, in Africa e in Cina.

Non riduciamo, per favore, la difesa dell’Europa alla difesa della Chiesa: sarebbe ancora una vol-ta andare a Emmaus. Infatti la Chiesa si è sviluppata in Europa in tanti modi belli e santi, ma in Eu-ropa si è anche inquinata, per esempio, con l’idea della conquista. L’Europa ha ‘conquistato’ un po’ il mondo, sia dal punto di vista coloniale che tecnico e industriale, e questa idea è diventata a volte anche l’idea dei missionari europei. Ma Gesù non ci ha mandato a conquistare nessuno! Dobbiamo essere fratelli e sorelle di tutti, ma non conquistatori. Dobbiamo interessarci a tutti, alla loro speran-za; dobbiamo stimare le vie religiose anche di tutti gli altri. Si agisce così quando si ama la gente, e quando non si pensa che gli altri non abbiano niente e che abbiamo tutto noi.

Quindi i cristiani europei hanno tanto da imparare dai non-europei, proprio per correggere dei di-fetti che sono specificamente europei. La storia di Dio continua e certamente dovremo conoscere altre cose nuove, inaspettate, che non sappiamo ancora come potremo mettere insieme a quello che sappiamo. Bisogna cogliere la verità delle Scritture perché in esse queste cose, anche del domani, ci sono già. Spesso dobbiamo fare come i due di Emmaus: riconoscere che quella certa cosa era già nelle Scritture, ma non avevamo gli strumenti per tirarla fuori.