Prima che sia tardi · 2013-03-11 · Servizi pubblici sprechi privati La giungla delle aziende...

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Periodico a cura della Scuola di giornalismo diretta da Paolo Mieli nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli www.inchiostronline.it 11 marzo 2013 anno XIII n. 4 di Alessandro Barbano* Il primo giorno abbiamo discusso di ipo- nimi e iperonimi e subito si è capito che la linguistica c’entra fino a un certo punto. Iponimo è il pioppo e iperonimo è l’albe- ro, si è detto. È tutta questione di pixel, o più banalmente di messa a fuoco. Che poi è la differenza tra una cartolina della città dall’alto e una passeggiata ai Quartieri. E si è convenuto che ipo batte iper. Dal bas- so si vede meglio. Il secondo giorno abbiamo discusso di numeri e vite. Per scoprire che nessuna statistica dice quanto un’emozione. An- che stavolta è parsa una questione di pi- xel. L’esistenza è più nitida di qualunque indagine di mercato. E allora si è detto che il buon giornalismo consuma le suole delle scarpe camminando nei vissuti delle per- sone. Il terzo giorno abbiamo discusso di plebi- sciti e maggioranze, di partecipazione di- retta e rappresentanza. E ancora una volta c’entravano i pixel. Perché niente avvicina alla verità quanto un sereno distacco. E ci si è trovati d’accordo sul fatto che l’imper- fezione della democrazia si riduce quanto più essa si allontana dalle cose. L’ultimo giorno abbiamo discusso di de- grado ed eccellenza e stavolta parlavamo di Napoli. Era sempre questione di pixel. Perché per separare il bene dal male biso- gna avere una messa a fuoco perfetta. Ma dalle urne elettorali i progetti e i disastri, le emergenze e le ambizioni della città sono usciti insieme, come sputati da un vaso di Pandora a forma di Vesuvio. Così abbia- mo provato a metterli in ordine nelle pagi- ne che seguono. Se l’immagine è tuttavia sfocata, il lettore ci perdoni. Era un sogno e quando si sogna la confusione regna nei pensieri. * direttore de Il Mattino Per carità, questo è un Paese cattolico, poi per il Papa, massimo rispetto… per carità. Epperò siamo in crisi economica da cinque anni almeno, la disoc- cupazione avanza, le botteghe chiudono i battenti, i palazzi crollano, le imprese e le banche falliscono, non abbiamo maggioranza, Governo… Che il Papa che ha deciso di ritirarsi in preghiera, chieda pure di pregare per Lui, con tutto il rispetto, ci sembra francamente esagerato! Benedicte ora pro nobis. Il fratello di Caino Prima che sia tardi Conti alla rovescia dell’emergenza in Campania QUESTIONE DI PIXEL PREGATE PER BENEDETTO

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Periodico a cura della Scuola di giornalismo diretta da Paolo Mieli nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoliwww.inchiostronline.it

11 marzo2013anno

XIIIn. 4

di Alessandro Barbano*

Il primo giorno abbiamo discusso di ipo-nimi e iperonimi e subito si è capito che la linguistica c’entra fino a un certo punto. Iponimo è il pioppo e iperonimo è l’albe-ro, si è detto. È tutta questione di pixel, o più banalmente di messa a fuoco. Che poi è la differenza tra una cartolina della città dall’alto e una passeggiata ai Quartieri. E si è convenuto che ipo batte iper. Dal bas-so si vede meglio.Il secondo giorno abbiamo discusso di numeri e vite. Per scoprire che nessuna statistica dice quanto un’emozione. An-che stavolta è parsa una questione di pi-xel. L’esistenza è più nitida di qualunque indagine di mercato. E allora si è detto che il buon giornalismo consuma le suole delle scarpe camminando nei vissuti delle per-sone.Il terzo giorno abbiamo discusso di plebi-sciti e maggioranze, di partecipazione di-retta e rappresentanza. E ancora una volta c’entravano i pixel. Perché niente avvicina alla verità quanto un sereno distacco. E ci si è trovati d’accordo sul fatto che l’imper-fezione della democrazia si riduce quanto più essa si allontana dalle cose.L’ultimo giorno abbiamo discusso di de-grado ed eccellenza e stavolta parlavamo di Napoli. Era sempre questione di pixel. Perché per separare il bene dal male biso-gna avere una messa a fuoco perfetta. Ma dalle urne elettorali i progetti e i disastri, le emergenze e le ambizioni della città sono usciti insieme, come sputati da un vaso di Pandora a forma di Vesuvio. Così abbia-mo provato a metterli in ordine nelle pagi-ne che seguono. Se l’immagine è tuttavia sfocata, il lettore ci perdoni. Era un sogno e quando si sogna la confusione regna nei pensieri.

* direttore de Il MattinoPer carità, questo è un Paese cattolico, poi per il Papa, massimo rispetto… per carità. Epperò siamo in crisi economica da cinque anni almeno, la disoc-cupazione avanza, le botteghe chiudono i battenti, i palazzi crollano, le imprese e le banche falliscono, non abbiamo maggioranza, Governo… Che il Papa che ha deciso di ritirarsi in preghiera, chieda pure di pregare per Lui, con tutto il rispetto, ci sembra francamente esagerato!Benedicte ora pro nobis.

Il fratello di Caino

Prima che sia tardiConti alla rovescia dell’emergenza in Campania

QUESTIONEDI PIXEL

PREGATE PER BENEDETTO

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di Pasquale Rescigno

“Le società partecipate sono il vero cancro del-le amministrazioni locali”. È la dura analisi del procuratore regionale della Corte dei conti del-la Campania, Tommaso Cottone, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il Comune di Napoli conta attualmente 17 socie-tà partecipate, un peso che nel corso degli anni è gravato pesantemente sul bilancio dell’Ente, oggi in una situazione di sostanziale dissesto. Basti pensare agli stipendi dei manager delle aziende municipalizzate, resi noti pochi mesi fa: oltre 125mila euro all’anno solo per Mario Hu-bler, amministratore unico di ACN S.r.l., la socie-tà di scopo costituita per l’organizzazione delle regate della America’s Cup World Series in città, di cui il Comune detiene il 30% delle quote azio-narie. È solo uno dei paradossi economici di un’ammi-nistrazione che a gennaio, dopo mesi trascorsi tra indecisione e resistenza, ha dovuto arrender-si e dichiarare il predissesto. Una procedura che permetterà al Comune di evitare il commissaria-mento, e di accedere, in forma di prestito, a un fondo di rotazione speciale messo a disposizio-ne dallo Stato per gli enti in difficoltà finanzia-rie. È quello che prevede il cosiddetto “Decreto salva Comuni”, un provvedimento che dovrebbe assicurare alla città di Napoli una somma intor-no ai 250 milioni di euro e contribuire al riequi-librio dei conti dell’amministrazione. Il decreto, convertito in legge il 7 dicembre scorso, impone misure severissime alle amministrazioni che di-chiarano il predissesto. Il Piano di rientro del Comune di Napoli, della du-rata massima di cinque anni, è stato approvato il 28 gennaio dal Collegio dei Revisori dei conti e dispone: l’innalzamento nella misura massima consentita delle aliquote IMU, IRPEF e TARSU; la dismissione del patrimonio immobiliare e di parte delle quote degli organismi partecipati; un programma di razionalizzazione delle socie-tà partecipate; l’impossibilità di contrarre nuo-vi debiti; la riduzione delle spese del personale nonché un rigido controllo sulle assunzioni. Una serie di provvedimenti “lacrime e sangue”, che si sono resi necessari per tentare di rimediare a una lunga catena di errori commessi nel tempo.Il sindaco Luigi de Magistris, quasi alla soglia dei due anni di governo cittadino, continua ad additare la responsabilità della situazione disa-strosa delle casse comunali alle precedenti am-ministrazioni. Bassolino prima, e Iervolino poi per intenderci. L’accusa non è del tutto infonda-ta, ma molti sono stati i passi falsi del sindaco arancione in questi ultimi 22 mesi, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle società partecipate. L’ex assessore al Bilancio Riccar-do Realfonzo, nel bilancio di previsione redatto nel giugno 2012, era riuscito a individuare una serie di accorgimenti da effettuare nei confronti delle aziende municipalizzate, salvo poi essere rimosso dall’incarico un mese dopo per diver-genze politiche con il primo cittadino. Realfonzo predispose “un vero e proprio rivoluzionamento del sistema delle partecipate, attraverso modifi-cazione degli assetti societari, razionalizzazione, fusioni, messe in liquidazione e vendite di quo-te azionarie.” Si devono a lui, infatti, la fusione delle società di trasporto pubblico locale (Metro-napoli, ANM e Napolipark), la chiusura definitiva dell’I.C.A. e di Nausicaa, la liquidazione di Napo-

li Orientale, la trasformazione dell’Arin S.p.A in Azienda speciale di diritto pubblico ABC Napoli (Acqua Bene Comune), oltre alla messa in vendi-ta delle quote possedute in Stoà e Gesac. Provvedimenti che non hanno evitato a Palazzo San Giacomo la palma di Comune più spreco-ne d’Italia. È il dato emerso da una classifica de “Il Sole 24 Ore”, stilata in base agli studi della Copaff, la Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale. A Napoli si concentra il 38% degli sprechi italiani. In termi-ni assoluti si sperperano 344 milioni di euro e 600mila in servizi generali mentre in un sistema caratterizzato da una gestione virtuosa si do-vrebbero spendere 226 milioni e 100mila. Una differenza di 118 milioni e 500mila euro, dovu-ta principalmente agli oltre 20 mila dipendenti sotto contratto, tra cui 10mila solo all’interno delle aziende municipalizzate. Secondo la Rela-zione dei Revisori al Rendiconto della gestione per l’esercizio 2011, gli organismi partecipati registrano debiti per 1 miliardo e 474 milioni di euro complessivi, di cui 1 miliardo e 318 milioni imputabili al Comune di Napoli in funzione della propria percentuale di partecipazione al capita-le sociale. Il dato più inquietante resta il credito vantato dalle partecipate stesse nei confronti di Palazzo San Giacomo, oltre 794 milioni di euro. Un passivo extra che si va a sommare al disa-vanzo di 850 milioni emerso nei conti dopo la cancellazione dei residui attivi, ovvero quelle en-trate, per di più fiscali, giudicate ormai impossi-bili da riscuotere dall’amministrazione. Per Salvatore Varriale, capo dipartimento del-le risorse finanziarie della Regione Campania, e componente del Copaff, l’unica soluzione pos-sibile è dismettere le società partecipate, por-tandole a un margine di redditività e poi metterle sul mercato: “La partecipazione pubblica avreb-be dovuto promuovere un primo step per poi lasciarle interamente in mano privata. Invece è avvenuto il contrario”.

PAGINA 2INCHIOSTRO N. 4

Servizi pubblicisprechi privati

La giungla delle aziende municipalizzate

1.474milioni

794milioni

590milioni*cifre in euroDATI ESTRATTI DALLA RELAZIONE DEI REVISORI AL RENDICONTO DELLA GESTIONE PER L’ESERCIZIO 2011

SOCIETA’ PARTECIPATE

DEBITI AL 31/12/2011

COSTO PERSONALE

ANM 182.875.683 109.957.303

A.R.I.N 333.969.395 28.950.459

A.S.I.A. 223.745.988 98.492.337

Bagnolifutura 261.179.149 4.278.066

C.A.A.N. 54.363.097 527.784

Ceinge N.D. N.D.

Elpis 2.060.588 2.846.083

GE.S.A.C. 53.336.178 17.652.410

Metronapoli 127.362.194 25.208.748

Mostra d’Oltremare 25.090.762 2.533.706

Napoli Servizi 100.643.443 44.566.174

Napoli Sociale 24.905.534 11.851.434

Napolipark 15.258.199 10.636.585

S.I.RE.NA. 1.027.138 183.925

STOA’ 2.595.458 1.237.777

Terme di Agnano 7.308.892 2.974.509

I debiti complessiviaccumulati dalle società partecipate

I debiti del Comune di Napolinei confronti delle aziendemunicipalizzate

Il valore totaledegli asset partecipatividi Palazzo San Giacomo

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“Quello che fu sognato agli inizi degli anni ‘90 in pochi anni sarà funzionante al 100%”. A parlare è Ennio Cascetta, dal 2000 al 2010 assessore ai Trasporti della Regione Campania, riferendosi al completamento della Linea 1 della me-tropolitana di Napoli.

Professore, la metropolitana di Napoli ha qualcosa da invidiare alle altre me-trò italiane?Assolutamente niente. Dal dopoguerra al 2000 tutto era fermo in Campania ma negli ultimi dieci anni si sono completati e messi in esercizio 23 chilometri di li-nee ferroviarie urbane e metropolitane e 25 stazioni nella sola città di Napoli. In nessun’altra città ci sono stati così tanti investimenti o, per meglio dire, solo ora

Roma e Milano hanno capito l’importanza del trasporto sotterraneo.Su cosa si è puntato durante la proget-tazione del completa-mento della linea 1?Si è cercato di raggiunge-re il cosiddetto “Station Renaissance” cioè quel movimento architettonico che esprime la necessità di far diventare le stazio-ni metropolitane non più solo luoghi di passaggio ma vere piazze al coper-to. Da qui l’idea di creare stazioni-opere d’arte. Nel medioevo si co-struivano le chiese per mostrare al mondo l’im-portanza della città, nel dopoguerra gli stadi, e ora, perché no, le fermate del metrò.

Alla stazione Toledo, l’ultima a essere stata aperta, anche in superficie c’è stato il cambiamento. La piazza sem-

bra aver recuperato il concetto tradizionale di luogo d’aggregazio-ne.Questo è stato un altro obiettivo che si è voluto raggiungere: sviluppa-re l’urbanistica a partire dal sistema di trasporto pubblico. Il fenomeno sarà ancora più evidente quando si apriranno le

stazioni di piazza Munici-pio e Garibaldi.L’estetica delle metro-politane è importante ma poi i cittadini si la-mentano degli scarsi servizi, tra i quali la len-tezza.

E hanno ragione. Si è interrotto negli ul-timi tre anni quel progetto che vedeva nel trasporto pubblico la cura del ferro: i fondi sono stati tagliati e così i treni si sono dimezzati. È come costruire un’au-tostrada ma non avere né le macchine né la benzina per farle transitare. Fuor di me-tafora, c’è un problema di gestione. Ma qui entriamo in politica e ora non è più il mio settore. Allo stato attuale ci sono i fondi per portare a conclusione tutti questi la-vori?I finanziamenti per costruire le linee si sono sempre trovati.Entro marzo il mini-stero dello Sviluppo Economico presen-terà al Comitato Interministeriale Pro-grammazione Economica il progetto per la realizzazione della tratta metropolitana Centro Direzionale-Capodichino. Speria-mo venga accettato.

g.c.

SCRIVERE IL SETTORE PAGINA 3

Tra polemiche e fondi a singhiozzo avanza la costruzione dell’anello ferroviario della Linea 1

L’ex assessore Cascetta: “I soldi ci sono, fare presto”

di Giorgia Ceccacci

Qualcosa si muove. Il completamento della Linea 1 della metropolitana di Napoli non è più un miraggio e l’anel-lo strategico che si chiuderà a Piscinola passando per piazza Garibaldi, Centro Direzionale e aeroporto di Ca-podichino, percorrerà ben 25 chilometri della città e della sua periferia. Ma quando? Le scadenze ci sono, l’inco-gnita è se verranno rispettate. Uno sguardo alle opere che a breve si realizzeranno. Ri-guardo alla linea che verrà prolungata da piazza Dante a Garibaldi, due delle stazioni progettate sono già state aperte: la fermata Università nel 2011 e l’anno scorso quella di Toledo definita dal Daily Telegraph la più bel-la d’Europa. Peccato che i cittadini, una volta arrivati a Dante, debbano scendere dal treno e prendere una na-vetta che arriva al capolinea Università. Tempo di attesa: 30 minuti. Quando la linea raggiungerà piazza Garibal-di – si prevede l’apertura entro quest’anno –, la tratta Dante-Toledo-Università verrà accorpata al resto della Linea 1 con l’installazione del doppio binario, incluse

le stazioni Municipio e Duomo. Ma qui i tempi si allun-gano. Per la fermate che serviranno piazza Plebiscito e piazza Nicola Amore si prospetta il completamento dei lavori per fine 2015. Entrambe andate fuori dalla tabella di marcia perché veri e propri “pozzi di San Patrizio”, dovuti all’enormità dei reperti archeologici che sono ve-nuti alla luce. Le sorprese che il sottosuolo di Napoli sta riservando durante gli scavi saranno inglobate nelle sta-zioni facendole diventare musei sotterranei. Un ritardo con risvolto positivo, e ora i lavori dovrebbero continuare senza nessun altro ostacolo.Se il collegamento slitterà oltre il 2013, o a essere pessi-misti oltre il 2014, non sarà per i soldi: quattro mesi fa il governatore Caldoro e il sindaco de Magistris hanno fir-mato un protocollo d’intesa per sbloccare 172 milioni di euro per il completamento della tratta Dante-Municipio-Garibaldi-Centro Direzionale.Una tranche di fondi che si è aggiunta ai 400 milioni già erogati dalla regione Campania attraverso il Fondo euro-peo di sviluppo regionale. Se per questa tratta non dovrebbero esserci problemi,

a parte i tempi, lo stesso non si può dire per la linea del metrò che collegherà la stazione Garibaldi con l’aeropor-to di Capodichino. Un’opera importante sia per i cittadini che per l’immagine della città. Napoli sarà la prima me-tropoli italiana ad aver collegato lo scalo aeroportuale con il proprio centro attraverso la metropolitana.È la sfida più attesa, un pressing da ottocento milioni di euro per l’apertura di uno dei cantieri decisivi per lo snodo del trasporto pubblico. La svolta arriverà entro il mese di marzo quando il progetto della tratta Garibaldi-Capodichino verrà presentata al Cipe, il Comitato in-terministeriale programmazione economica. Sul tavolo verrà illustrato il piano che prevede la realizzazione di quattro stazioni: Centro Direzionale, Poggioreale, Tribu-nale e Capodichino. Manca solo il via libera.A preoccupare di più è il pezzo della rete metropolitana Piscinola-Capodichino, l’ultimo tassello per completare l’anello metropolitano su ferro. Al momento è stato rea-lizzato il 60% ma i lavori non fanno progressi dalla fine del 2010 per una mancata approvazione di alcune va-rianti al progetto. E il ritardo potrebbe mettere a rischio 200 milioni di fondi europei se i cantieri non riapriranno a breve. Tra certezze e ritardi si presenta così oggi la metropoli-tana Linea 1 di Napoli. Il futuro prossimo sarà l’apertura delle stazioni più affascinanti, quelle dove l’arte e l’ar-cheologia si fondono con il trasporto underground. Un tracciato ideale di porte d’accesso alla città con la sua storia: la porta di mare a Municipio, di terra a Gari-baldi e fra poco quella di cielo a Capodichino. Per i pro-getti a lungo termine è necessario tenere d’occhio la ge-stione dei cantieri. Ora non ci sono più scuse, i progetti sono sul tavolo e i finanziamenti disponibili.

Metro, il cerchiodelle incompiute

IL PERSONAGGIO

Ennio Cascettaordinario di pianificazionedei sistemi di trasporto all’università Federico II

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INCHIOSTRO N. 4 PAGINA 4

Il progetto del sottopasso che avrebbe dovuto collegare via Santa Lucia con via Acton, passando sotto via Cesario Console

di Daniela Abbrunzo

Molo San Vincenzo si estende per oltre 2 chilometri. Il suo restyling, previsto nel progetto Waterfront, non è mai avvenuto

Il Waterfront consisteva in una “filtering line” tra centro storico e porto, ma in dieci anni non si è riusciti a realizzarlo

Il progetto di via Marina prevedeva la divisione della strada in due parti: da un lato i pedoni e il tram, dall’altro le automobili

Parco Marinella è in zona Mercato, negli anni è diventato una baraccopoli. La riqualificazione non ha mai visto la luce

La città dei sogni proibitiLa mappa delle opere pubbliche annunciate e mai costruite tra il centro storico e il porto

L’urbanista Discepolo: “Noi, troppo conservatori per diventare come Barcellona”

Gli ultimi progetti realizzati risalgono agli anni ‘90. Da allora la tendenza dominante dell’urbanistica parte-nopea è stata l’immobilismo, complici le inefficienze dell’amministrazione e un certo conservatorismo. A definirlo così è Bruno Discepolo, architetto-socio dello studio Officina di architettura e coinvolto in prima per-sona nella realizzazione di idee di rilancio della città. “Non sono i progetti a mancare, ma la volontà di por-tarli a termine”, racconta l’urbanista dalla scrivania del suo studio in via dei Mille. “Conservatorismo – spie-ga - è l’idea che la città sia fatta in un certo modo e non possa cambia-re e conduce purtroppo a un unico risultato: impedisce l’innovazione”. L’architetto, come in tour virtuale, indi-ca sulla cartina in che punto sarebbero dovuti sorgere i progetti. La prima tappa è il sottopasso di via Acton: un ponte sotteraneo che avrebbe collegato via Santa Lu-cia con via Acton, passando sotto via Cesario Console. Progettato dallo studio londinese Arup, per un costo to-tale di 122 milioni di euro (grazie a fondi Por Campania 2000/2006), avrebbe snellito il traffico della zona portua-

le, troppo congestionata. L’inizio dei lavori era previsto per il 2005, la fine per il 2008. L’opera però non vedrà mai la luce. “Gli inglesi progettarono il tunnel e furono pagati – spiega Discepolo – ma le proteste ebbero la meglio e il progetto non venne mai realizzato. L’imboc-co di via Partenope, secondo gli albergatori, sarebbe sorto troppo vicino alle loro strutture”. Seconda tappa: Molo San Vincenzo. La costruzione di epoca borbonica si estende per oltre 2 chilometri verso il mare. Il restyling era previsto all’inter-no del progetto Waterfront (la riquali-ficazione del porto) e comprendeva un cambio di destinazione per la struttura che da vecchio molo diventava banchina per l’attrac-co di yacht e navi da crociera. “È un’altra occasione persa per Napoli – commenta –. Potrebbe diventare un posto rinnovato, con attività commerciali, oppu-re un molo turistico e invece è un luogo di degrado”. Al centro, non solo geografico ma anche sostanziale, di questi progetti c’è il Waterfront: la terza tappa del tour.

L’idea era quella di costruire una “filtering line” tra la città antica e il porto: un filtro, quindi, che consentisse al porto di continuare le sue attività e al contempo resti-tuisse ai cittadini lo spettacolo del mare. Un’armonizza-zione fra due spazi diversi della Polis che avrebbe com-preso il Molo Beverello, la stazione marittima e tutta la zona di piazza Municipio fino ad arrivare a via Duomo. Un progetto elaborato dall’architetto francese Michel

Euvé per la società Nausicaa. “La gente a Napoli pensa che il tempo sia neutrale – spiega –. Sembra sempre manchi poco all’approvazione del piano e invece in dieci anni non si è riusciti a realizzarlo. All’inizio il problema era l’abbattimento del grande ma-gazzino realizzato da Canino. Il progetto così si bloccò per due anni. Il tempo però non è

neutrale: i soggetti politici e i finanziamenti cambiaro-no. Il Waterfront fu riprogettato, ma nuove polemiche insorsero con gli armatori del Beverello. Non si è tro-vato un accordo e il Waterfront non è stato realizzato”.Ultime due tappe del tour: via Marina e Parco Mari-nella. La prima era un grande progetto che prevedeva la divisione della strada in due parti: da un lato quella pedonale con il tram posizionato su una struttura ri-alzata. I mezzi si sarebbero mossi di fianco ai pedoni a una velocità moderata. L’altro elemento innovativo del piano era l’abbassamento stradale di piazza Mer-cato e la liberazione delle mura aragonesi del vado del Carmine. Il progetto fu messo nero su bianco dai francesi Sistra con la consulenza dello studio di Bru-no Discepolo e Alessandra Fasanaro. “Le polemiche riguardarono la piattaforma dei tram, in più l’Anm dis-se che era un rischio far circolare pedoni e tram sul-lo stesso marciapiede. Un progetto come questo nel resto d’Europa è all’ordine del giorno, ma per Napoli non andava bene”. Il progetto alla fine fu stravolto e con i 23 milioni stanziati (soldi con i quali si pagò la progettazione) il sindaco Rosa Russo Iervolino de-cise di rifare i marciapiedi e i lampioni di via Marina. Il parco della Marinella, invece, in via Amerigo Vespucci (fine di via Marina) da sette anni è una zona verde da riqua-lificare. Negli anni è diventata una baraccopoli per immi-grati e rom, area di degrado e ricovero di clochard. An-

che questo progetto non ha mai visto la luce.“In molti pensano che basti la conservazio-ne della memoria del passato per garantire il futuro – conclude l’architetto – ma stia-mo consumando il nostro patrimonio sen-za ampliarlo con altri monumenti e la città sta pagando il prezzo di questo. Trenta anni fa Napoli, tra le città mediterranee, era la

prima. Ad esempio era più avanti di città come Mar-siglia, Instanbul o Barcellona. Poi ha iniziato a declina-re mentre le altre miglioravano. Oggi il ruolo di questa città non è più paragonabile alle città mediterranee. Barcellona ad esempio ha scelto la bandiera della modernizzazione, noi no. Abbiamo avuto la nostra oc-casione per essere Barcellona, ma l’abbiamo persa”.

Dal belvedere di San Martino si può ammirare tutta Napoli. Lo sguardo spazia dai cardini ai decumani greco-romani, dal campanile di Santa Chiara al Maschio An-gioino. E ancora dalla cupola di Galleria Umberto I a Palazzo Reale, residenza dei Borbone. Ed è proprio in questa zona, dove il centro storico incontra il porto e il mare di Napoli, che si raggruppano alcuni dei più celebri progetti “ignorati” della città. Napoli immobile sorge qui: tra il sottopasso di via Acton e il Molo San Vin-cenzo, tra il Waterfront Porto e il progetto di via Marina, e ancora tra la Darsena e il Parco Marinella. Una città fantasma che si estende per oltre 2,3 chilometri. Una città annunciata e mai costruita.

“Non mancano i progetti validima la volontà di realizzarli”

“Perso un trenoper diventareuna metropolimoderna”

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di Antonio Marino

Un investimento da 210 milioni di euro per una megastruttura di 130mila metri quadrati. Nell’Ospedale del Mare, a Ponticelli, dovevano trovare posto oltre all’ospedale vero e proprio per 550 degenti anche un centro commer-ciale e un albergo da 150 posti letto. D’eccel-lenza il progetto sanitario: Pronto soccorso all’avanguardia, un reparto specializzato di rianimazione, sette sale operatorie, due tac e una risonanza magnetica. La rivoluzione e, al tempo stesso, la salvezza, in termini di costi e di qualità dei servizi offerti ai cittadini, della disastrata sanità pubblica napoletana. Questo doveva essere l’Ospedale del Mare.O meglio dovrebbe, stando alle ultime no-tizie di cronaca e all’annuncio, fatto nelle scorse settimane dal presidente della Re-gione Caldoro, della ripresa dei lavori, dopo uno stop di due anni. La costruzione del-la megastruttura di Ponticelli, progettata dall’architetto Renzo Piano e voluta dall’ex governatore Bassolino e dal suo assesso-re alla Sanità Montemarano, parte ufficial-mente il 30 marzo del 2006. La formula scelta è quella del project financing, una condivisione di spese di realizzazione fra ente pubblico e aziende private. Il consorzio che si aggiudica l’appalto ha per capofila l’Astaldi. Da cronoprogramma l’Ospedale del Mare doveva essere conse-gnato nel febbraio del 2009. Ad oggi, tra contenziosi, rivendicazioni sindacali e bloc-co dei lavori, ciò che si scorge percorrendo le strade del quartiere adiacenti alla struttu-ra è solo un gigantesco edificio fatiscente, sommerso dai rifiuti e completato, si fa per dire, solo per il 55% del suo totale.La storia dell’Ospedale del Mare rappresen-ta uno degli esempi più significativi di una cattiva gestione di fondi pubblici, ma è anche la prova di come la scelta del project financing, vincente in altri territori italiani, da noi sia mise-ramente fallita. Secondo questa formula, l’ente privato avrebbe dovuto investire 90 milioni di euro e poi rifarsi dell’iniziale investimento con la gestione dei servizi presenti nella struttura per un periodo di 25 anni. La realizzazione dell’Ospedale del Mare do-veva essere propedeutica all’attuazione del nuovo piano regionale ospedaliero. In esso avrebbero dovuto confluire le quattro strutture sanitarie del centro cittadino: l’Ascalesi, il San

Gennaro, il Loreto Mare e Gli Incurabili. Il risparmio annuo ipotizzato dall’operazione era stimato in circa 260 milioni di euro. Nel contempo, si sarebbero potuti gestire in ma-niera più funzionale i pronto soccorso del Car-darelli e del Giovanni Bosco, in grado di gestire con appropriatezza i casi più urgenti.Tante aspettative a cui però è corrisposto nel tempo solo una serie infinita di stop ai cantieri, una prima volta nel 2006, poi ancora nel 2007, nel 2008 e definitivamente nel 2009. Intanto le operazioni di smobilitazione e di chiusura dei pronto soccorso degli ospedali San Gennaro e Incurabili sono state portate a termine con celerità. Risultato: l’Ospedale del

Mare è ancora una chimera e i Pronto soccor-so di Cardarelli, San Giovanni Bosco e Loreto Mare boccheggiano sommersi da richieste a cui riescono a fatica a far fronte.Ma cos’è che ha bloccato la realizzazione dell’Ospedale del Mare? E perché i lavori sono proseguiti a singhiozzo e poi si sono brusca-mente interrotti?Lo spiega il commissario ad acta Ciro Verdoli-va, nominato dall’allora governatore Bassolino per portare a termine i lavori. Il problema, dice Verdoliva, nasce con l’approvazione nel 2010 del nuovo Piano regionale ospedaliero, al cui

interno il ruolo dell’Ospedale del Mare cambia, passando da presidio ospedaliero dell’ASL Napoli 1 a presidio sanitario di rilevanza na-zionale. Al progetto iniziale vanno apportate modifiche che richiedono lo stanziamento di nuovi fondi, per la precisione 32 milioni di euro. Dunque, chi paga? Tra Regione Campania e la Ati Astaldi nasce un contenzioso che, di fatto, resta senza soluzione e blocca definitivamente i lavori. E alla battuta definitiva d’arresto si ag-giungono altre grane.La magistratura rinvia a giudizio 12 tra diri-genti e tecnici dell’ASL Napoli 1, con l’accusa di aver fatto aumentare i costi di produzione a vantaggio delle ditte costruttrici. In ultimo

sale alla ribalta il problema del sito in cui l’Ospedale dovrebbe vedere la luce. La protezione civile estende i limiti della zona rossa, quella che dovrebbe essere evacuata prima di un’eventuale eruzione del Vesuvio, anche all’area est di Napoli. L’Ospedale del Mare ci finisce dentro. Un problema non da poco, insomma. Anche se l’assessore regionale alla protezione civile Edoardo Cosenza ha più volte stem-perato i toni della polemica, ricordando che “la legge regionale vieta la costruzio-ne di edilizia residenziale nella zona rossa, non di edilizia di servizio”.Negli ultimi mesi Verdoliva, è riuscito a ri-solvere il contenzioso con la ditta Astaldi, che riceverà dalla ASL Napoli 1 circa 45 milioni di euro, impegnandosi a terminare i lavori, senza più il ricorso al project fi-nancing. Per ultimare le modifiche neces-sarie, i finanziamenti saranno tutti a cari-co delle istituzioni pubbliche. Il presidente della Regione Caldoro ha reso disponibili 250 milioni di euro, in cui sono compre-si anche i 45 milioni per la risoluzione del contenzioso con l’Azienda sanitaria citta-

dina, troppo indebitata per far fronte all’accor-do. Della cifra complessiva, 178 milioni sono fondi Cipe, stanziati grazie a un accordo col ministro Barca, altri 22 sono stati recuperati da fondi precedentemente stanziati per la sanità regionale.Secondo le stime più ottimistiche, la struttura dovrebbe essere ultimata entro il 2015. I costi sono passati dai 210 iniziali a quasi 500 milioni di euro. Praticamente più del doppio. Saranno sufficienti a terminare i lavori del l’Ospedale del mare? O l’unico mare della sanità campana re-sterà quello degli sprechi e della confusione?

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C’è un ospedale in alto mareI lavori sono fermi da quattro anni. Si parla di consegna entro il 2015

Costo iniziale:

210 milionidi euro

Costo finale:500milioni di euro

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Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine di Philadel-phia, è autore, con Giulio Tarro, pri-mario emerito dell’Ospedale Cotugno di Napoli, del libro bianco “Campania, terra di veleni”.

Professore Giordano qual è il quadro che emerge dal suo libro?Il quadro è preoccupante. Quello che sta accadendo oggi è una catastrofe già annunciata quaranta anni fa. Mio padre, allora direttore del Dipartimento di Ana-tomia Patologica dell’Istituto Pascale, lanciava un allarme sulla situazione am-bientale di Napoli e provincia. Tra il 2000

e il 2005 sono stati 40.000 i casi di tu-mori non censiti di cui il 15% tra donne al di sotto dei 40 anni. La ricerca è stata successivamente ampliata fino ad arri-vare al 2008. Dal mio lavoro emerge un dato importante: i tumori mammari sono in crescita soprattutto tra le donne cam-pane di età compresa tra i 30 e i 35 anni. Quali sono le aree della Regione in cui si verifica un aumento della mortalità per tumore? Il Casertano e il “Triangolo della Morte”, che oggi è diventato un pentagono che

comprende un’area molto più vasta, ed è destinato a estendersi ancora. Il baci-no del fiume Sarno. Lì il generale Jucci ha fatto un gran lavoro, ma bonificare e intervenire con impianti di depurazione non ha senso se si continua a sversare veleni tossici. E la Costiera Amalfitana, dove si sono verificati una serie di casi di mesotelioma e di tumore al polmone e al seno legati all’amianto.L’aumento dei tumori in certe provin-ce della Campania è quindi correlato allo sversamento abusivo di rifiuti tos-sici?Dall’analisi dei dati delle schede di di-missioni ospedaliere dell’archivio na-zionale, ho riscontrato un aumento di tumori e di malformazioni congenite in Campania rispetto alle altre regioni d’Ita-lia. Le province di Napoli e Caserta, zone in cui ci sono siti di deposito di sostan-ze tossiche, hanno un indice di mortalità del 9,2% in più fra gli uomini e del 12,4% per le donne. E’ chiaro, quindi, la con-nessione tra il problema ambientale e l’aumento del cancro. Come fai a negare

che sostanze come benzopirene, amian-to, diossina non sviluppino patologie tu-morali? Non è possibile che in una sola generazione in Campania si sia verificato un aumento della mortalità per tumore per un progressivo indebolimento gene-tico, quando quest’area è sempre stata considerata una Campania Felix per la genuinità dei prodotti che offre. Quale potrebbe essere la soluzione per frenare l’aumento del cancro in queste zone? Cosa ne pensa dei re-gistri tumori?Le uniche soluzioni possibili sono la bo-nifica e la prevenzione. La mancanza di interventi di bonifica sul territorio non ci

consente di conoscere le tipologie di prodotti sversati e di conseguenza ci impedisce di capire che azioni mettere in campo. Per quanto riguarda il registro tumore, è uno strumento di indagine im-portante perché in grado di sorvegliare l’andamento delle patologie oncologi-che sul territorio di competenza. Mi au-guro solo che, da mezzo indispensabile

per la tutela della salute, il registro non si trasformi in uno strumento di potere politico ed economico, la cui gestione finisca nelle mani dei “soliti noti”.Crede che la situazione, da qui ad altri vent’anni, sarà destinata a peggiora-re? Se i tecnici e i politici continuano a nega-re il nesso di causalità tra i due fenome-ni, e alcuni oncologi continuano ad af-fermare che non c’è nessun allarmismo, la situazione è destinata a peggiorare. Bisogna intervenire con politiche di bo-nifica nei siti già inquinati. Inoltre, sono necessarie azioni di prevenzione capil-lare sulle zone ancora incontaminate. Ma come ho detto nel mio libro, oltre al territorio è necessario bonificare anche i pensieri e le azioni di alcuni dei nostri politici.

b.f.

PAGINA 6INCHIOSTRO N. 4

Morire di rifiutie far finta di niente

Viaggio tra i dati del rischio e gli allarmi inascoltati

In Campania aumentano i casi di cancro del 40%Il legame con l’inquinamento c’è, ma non si dice

di Barbara Fiorillo

Un “Segreto di Pulcinella”, perché tutti lo conoscono e tutti fingono di ignorarlo. Così viene definito il più gran-de disastro ambientale negato d’Italia nel libro bianco di Antonio Giordano “Campania, terra di veleni”. Nelle province di Napoli e Caserta sono stati smaltiti in 20 anni circa 13 milioni di tonnellate di rifiuti tossici. Sono decen-ni ormai che i rapporti annuali di Legambiente segnalano che una consistente quota di rifiuti speciali industriali, circa 30 milioni di tonnellate l’anno, perde la tracciabilità dal luogo di produzione ai siti di smaltimento. Di que-sta cifra, 1 milione di tonnellate l’anno sono rifiuti tossici

particolarmente pericolosi non solo per l’ambiente, ma soprattutto per la salute. Decenni di mancato smaltimento dei rifiuti urbani e di deposito di rifiuti industriali e speciali particolarmente nocivi in discariche illegali hanno contaminato il territo-rio campano producendo un disastro ambientale e sa-nitario. Dal 1988 al 2008 nella provincia di Napoli (città esclusa) si è avuto un aumento del tasso di mortalità per tumore del 47% fra gli uomini e del 40% tra le donne, incremento che è stato rispettivamente del 28,4% e del

32,7% anche nella provincia di Caserta. Un dato che va in controtendenza con il resto d’Italia, dove i tassi sono viceversa rimasti tendenzialmente stabili e al nord sono addirittura diminuiti. Questo emerge da uno studio inedito dell’Istituto per la cura dei tumori Pascale di Napoli. “La correlazione tra emergenza rifiuti e aumento delle malattie, dunque, esi-sterebbe eccome” afferma Maurizio Montella, responsa-bile dell’Epidemiologia del Pascale. Sono tanti gli studi che attestano i danni che lo sver-samento illegale di rifiuti e la diossina dei roghi tossici provocano nelle popolazioni delle province di Napoli e Caserta. Uno dei primi è quello di Alfredo Mazza che pubblicò nel 2004 il lavoro “Italian Triangle of death lin-ked to waste crisis” sulla rivista scientifica “The Lancet Oncology”. Il ricercatore definì i paesi di Nola, Acerra e Marigliano “triangolo della morte”. Area che oggi si è al-largata abbracciando molti altri comuni ed è destinata a estendersi ancora. Già sette anni fa il ricercatore dichia-rava: “In questo pezzo di Campania si muore di tumore più che nel resto d’Italia, come dimostrano le statistiche degli ultimi anni, se si pensa che in questa zona abitata da oltre mezzo milione di persone l’indice di mortalità per tumore al fegato ogni 100mila abitanti sfiora il 35,9 per gli uomini e il 20,5 per le donne rispetto a una media nazionale che è di 14. Mortalità ben più alta che nel resto d’Italia anche per quanto riguarda il cancro alla vescica, al sistema nervoso e alla prostata”.

Il lavoro genera clamore, costringendo la Protezione Ci-vile a finanziare una serie di studi dell’Istituto Superio-re di Sanità definiti “Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana”. Anche qui emergono dati allarmanti. Nel 2007 uno studio di epidemiologia am-bientale, lo “studio Bertolaso”, ha avuto il merito di fare le prime connessioni tra cancro e rifiuti. Sovrapponendo alle aree comunali soggette a maggiore rischio di can-cro per sversamento illegale di rifiuti tossici, la “traccia cartografica” del cosiddetto “Asse Mediano” (Qualiano, Giugliano, Melito, Secondigliano), è emerso un evidente paradosso epidemiologico: la registrazione della mag-giore incidenza di cancro e di malformazioni non nei co-muni a maggiore urbanizzazione nell’hinterland napole-tano, ma in quelli a minore urbanizzazione, con maggiore disponibilità di zone demaniali, rurali e agricole.Risalgono al 2009, invece, i risultati dello “studio Sebio-rec” sulla presenza di diossina e altre sostanze tossiche in 900 campioni di sangue e 60 di latte materno tra gli

Vescica, fegato e polmoniecco le nuove emergenze

A rischio le donne in età pre-screening

Bisogna intervenire sui siti contaminati

Giordano: negano la veritàla bonifica è un’urgenza

Parla il direttore dello Sbarro Institute di Philadelphia

Antonio Giordano

Pianura, discarica abusiva

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Il professore Maurizio Montella, Di-rettore U.O. Epidemiologia “Fonda-zione Pascale” di Napoli, ha condot-to uno studio sull’aumento dei tumori nelle province di Napoli e Caserta.

Professore Montella a quali conclu-sioni giunge la sua indagine epide-miologica? Bisogna partire da un dato importante: negli ultimi 20 anni in Italia si è avuta una diminuzione dei tumori, tranne per quelli alla prostata e al pancreas. I numeri relativi alle province di Napoli e Caserta seguono un andamento diver-so. Invece di diminuire di 10 punti come nelle altre regioni, diminuiscono di 2/3 punti, e per alcuni tumori come quello al colon retto, il linfoma non-Hodgkin e altri tumori poco frequenti, c’è un aumento specialmente nei maschi.Napoli e Caserta sono le province con la più alta percentuale di tumori in Italia. E’ un fenomeno, inoltre, che non si sta

arrestando ma sembra continuare. C’è qualcosa di diverso tra queste zone e il resto d’Italia. Che cos’è? Dai dati che abbiamo non si può dedurre, ma solo ipotizzare.

Quali sono i comuni in cui si è verifica-to un aumento medio della mortalità per tumore?Una decina di comuni a sud di Caserta e una quindicina a nord di Napoli, quasi

sempre confinanti fra loro. Più altri due che sono attraversati dal fiume Volturno e dal fiume Sarno, che è il più inquinato d’Europa. Si tratta della stessa area geografica che secondo un rapporto dell’Istituto Supe-riore di Sanità del 2008, ha manifestato eccessi significativi della mortalità per tumore al polmone, fegato, stomaco, rene e vescica, e di prevalenza delle

malformazioni congenite totali, degli arti, del sistema cardiovascolare e dell’appa-rato urogenitale.

Lei parla di grave problema ambien-tale, oltre che sanitario, di vasta di-mensione e notevole gravità. Quale potrebbe essere la soluzione? Bisognerebbe fare degli studi specifici in quelle aree dove si verifica l’aumento di mortalità. Uno studio epidemiologico dovrebbe essere affiancato da uno tossicologico sui campioni di acqua, suolo, aria ecc., prelevati da quelle zone. L’aumento di tumori che si registra po-trebbe essere una conseguenza del danno ambientale, di cui, probabilmen-te, ancora non abbiamo visto il picco degenerativo.La Giunta regionale ha deciso di isti-tuire un registro tumori per ogni Asl della Campania. Secondo lei è uno strumento utile?I registri tumori sono sicuramente uno

strumento importante per raccogliere dati relativi ad aree specifiche.Se venti anni fa ci fossimo dotati di questo strumento, oggi avremmo i dati necessari per dimostrare l’eventuale connessione tra aumento di tumori e inquinamento ambientale. I registri tu-mori, attivati recentemente, forniranno dati non prima dei 3/5 anni, e comunque saranno datati a partire dal 2013.Alcuni esponenti del mondo scientifi-co sostengono che i dati emersi dal suo studio non sono attendibili, per-ché troppo influenzati dagli stili di vita locali. Lei cosa ne pensa?Se fosse così, mi dovrebbero spiegare perché ad Avellino, Benevento e Saler-no si sta meglio rispetto ad altre regioni d’Italia. E poi la nostra analisi è venten-nale.

Se l’avessimo fatta cinque, sei o dieci anni fa, sarebbe stata meno attendibile; ma realizzata su un tempo così lungo è impossibile che non lo sia. Abbiamo, inoltre, utilizzato metodolo-gie statistiche seguite per altri studi che hanno già indicato il trend in aumento per alcune neoplasie legate all’inquina-mento ambientale. b.f.

abitanti di 16 comuni a rischio del napoletano e nel ca-sertano, commissionato dall’ISS. L’allora ministro della Salute, Ferruccio Fazio, sottolineò quanto fossero tran-quillizzanti le conclusioni dello studio, collegando qual-che dato negativo ai cattivi stili di vita degli abitanti di quelle zone.Nel 2012 il ricercatore Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute di Philadelphia, pubblica il libro bianco “Campania, terra di veleni”, in cui illustra un lavoro già cominciato quarant’anni prima da suo padre. Studiando le schede di dimissione ospedaliera dell’archivio nazio-nale del ministero della Salute, il team messo in piedi da Giordano, ha calcolato il numero di interventi chirurgici (mastectomie e quadrantectomie) effettuati tra il 2001 e il 2008, dimostrando un incremento del 20% dei tumori alla mammella nelle donne campane in età pre-scree-ning. “La situazione è talmente critica - dice Giordano - che ho potuto descriverla solo con un paradosso: o la vicinanza dei cittadini ai siti di rifiuti tossici determina patologie tumorali o i campani sono stati vittime, negli

ultimi anni, di un progressivo indebolimento genetico, al punto da avere un DNA colabrodo”. Nell’estate del 2012 arrivano, infine, i dati del dottore Maurizio Montella che rivelano un incremento di mortalità del 40% in quei co-muni di Napoli e Caserta dove maggiore è l’esposizione agli sversamenti abusivi.Il linfoma non-Hodgkin è aumentato per gli uomini del 44% nella provincia di Napoli e del 58% nella provincia

di Caserta, nelle donne rispettivamente del 79% e oltre il 100%. Per il mieloma gli aumenti vanno dal 40% al 100%. “Sono tumori rari – spiega Montella -, sono quelli che vengono monitorati quando ci sono problemi con le centrali nucleari”.Il dossier del Pascale smuove il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, che incarica i carabinieri del NOE di stilare

un rapporto sulla situazione. “I dati che abbiamo – dice Clini - sono allarmanti. Le colpe non sono da imputare all’assenza dello Stato, quanto all’incapacità delle ammi-nistrazioni locali. Non dimentichiamo che in quei territori la malavita organizzata ha costruito molte fortune sul-lo smaltimento illecito dei rifiuti. Ma l’illegalità, da sola, non basta. Chi doveva governare vi ha rinunciato”. In tutti questi anni, non un metro quadro in queste zone è stato inibito alla coltivazione di prodotti agroalimentari. In questi anni, non un solo tir è stato fermato prima che depositasse il suo carico mortale nella terra più fertile d’Europa: la Campania Felix. Da vent’anni questo feno-meno criminoso distrugge la terra e i polmoni di chi vive in queste zone. Quelli che bruciano sono scorie derivanti dalle industrie soprattutto del nord Italia. Tra le sostanze più pericolose c’è l’amianto. Nelle zone di Caivano, Casoria, Barra/Ponticelli, Scam-pia, i rifiuti bruciano senza sosta nei siti abusivi. Il cielo su questa “diossina land” è pieno di fumo e aria irrespi-rabile. Ma, in Campania non vi è una discarica legale di rifiuti pericolosi e industriali. Eppure, sono circa 4 milioni e mezzo i rifiuti tossici che ogni anno fanno il loro ingres-so in Campania. Dove, e come vengono gestiti e tratta-ti, se mancano discariche speciali previste dalla legge? I costi di trattamento e smaltimento di sostanze come l’amianto solo altissimi. Chi pensa a smaltire a basso co-sto questi rifiuti pericolosi, e come?In buona parte l’ecomafia, che da anni in queste ter-re smaltisce, sotterrando, nascondendo, spedendo all’estero, bruciando in siti abusivi. La situazione dei ri-fiuti in Campania è lontana dall’essere risolta.Il “triangolo della morte”, la “terra dei fuochi”, la “Cam-pania Infelix”, continuano a rispecchiare un’amarissima realtà che dura ormai da oltre 20 anni. E a farne le spese sono sempre i cittadini. Nessuna bonifica, nessun inter-vento è stato mai fatto. I veleni ci sono e continuano ad aumentare, anche se sull’emergenza rifiuti in Campania è calato il silenzio.

PAGINA 7

Il linfoma non-Hodgkinin crescita nelle donne

Sarno e Volturnole aree più pericolose

L’incremento di casiè reale, ora verifiche

Montella: il registro tumoriper togliere ogni dubbio

Parla l’epidemiologo dell’Istituto Pascale

Maurizio Montella

UOMINI

+47%DONNE

+40%

Polmoni, prostatae fegato gli organi più interessati

Carcinoma al seno e alle ovaie le patologie più frequenti

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Fantasmi di amianto

INCHIOSTRO N. 4 PAGINA 8

Pozzuoli, nel litorale dei velenisi attende ancora il risanamento

Viaggio nei cantieri-killer di S. Mariale verità nascoste nei vagoni

di Elisabetta Froncillo

Riqualificare quella che i romani chiama-vano “Litora Mundi Hospita”, distrutta negli anni da colate di cemento e amian-to. Creare un polo turistico o un centro abitativo, con lo spettro dell’amianto sotto ai piedi. Siamo a Pozzuoli, provin-cia di Napoli. Duecentoventimila metri quadrati, di terreni e colonne industriali dell’ex Sofer (la più grande industria di materiale rotabile del Mezzogiorno), da trasformare in porti, alberghi, ristoranti e centri commerciali. O forse in case di lusso, da costruire su terreni dove ogni giorno la fabbrica coibentava carrozze dei treni con 700 kg di amianto. Quei suoli sono stati acquistati dalla Milano Investimenti - dalle mani di Fin-meccanica - a 100 mila euro. La stes-

sa cifra che aveva incassato Ansaldo Breda, la vecchia compagnia, quando aveva venduto i terreni a Finmeccanica. Le stesse mani che hanno prima chiuso i cancelli della fabbrica dismettendola, e che hanno poi firmato, dopo solo 24 giorni dalla vendita, l’ingresso in società con il nuovo proprietario.Oggi il nuovo Piano Casa della Regione Campania permette di convertire le vec-chie aree industriali in spazi residenziali. Un progetto che interesserebbe gli im-prenditori, riuniti sotto il nome della Wa-terfront Flegreo Spa. Negli anni, come registrato dal ministero dell’Ambiente, le fabbriche nate a fine ‘800, hanno la-sciato su quel suolo e sottoterra diversi materiali, nocivi e inquinanti. Oggi ne restano aree mai bonificate, ricadenti in un Sin (sito interesse nazionale) quello del litorale domizio. La Sofer ha lavora-to fino al 1998, quando la legge ne ha vietato l’uso perché è stata dimostrata la mortalità causata da questo materiale che, in quel solo impianto, ha ucciso 86 persone. Oltre cento operai invece han-no ottenuto la pensione con soli venti anni di servizio.L’ultimo atto che chiede la rimozione di

ogni pericolo per la salute pubblica é del Ministero dell’Ambiente e risale a luglio 2012. Scrivono: “Di bonifica non si sa nulla, e di caratterizzazione si parla so-lamente”. Gli stessi proprietari parlano di un “loro interesse nel risolvere la fac-cenda prima possibile, ma l’esistenza di motivi ostativi impedirebbero l’inter-vento”. Intanto lí, nel vecchio impianto tutto resta fermo: i macchinari, le pareti semidistrutte, i tetti cadenti. All’indomani della scomparsa della So-fer, nel 2003, e con la mobilità di un centinaio di lavoratori dal sito, il sinda-co dell’epoca (lo stesso ritornato in ca-rica oggi), Vincenzo Figliolia, dichiarò: «L’amministrazione comunale farà la sua parte. Noi sappiamo poco di quello che ha in mente Finmeccanica, vorrem-mo che lì sorgesse un polo produttivo fiorente, fonte di altri posti di lavoro».Un’idea incarnata perfettamente dal di-segno Waterfront, tanto che nel 2007 si firma un protocollo d’intesa con il Co-mune di Pozzuoli, commissariato nel frattempo per infiltrazioni camorristiche.L’idea cammina, tanto da portare il Cipe (comitato interministeriale per la pro-grammazione economica) a stanziare 40 milioni di euro per una bretella che collegherà l’uscita della Tangenzia-le all’area Sofer. Un’infrastruttura che ottiene anche il parere positivo della commissione parlamentare Ambiente e territorio, nella quale siede, quasi per

coincidenza, l’onorevole Giulia Cosen-za, figlia di uno dei soci della Waterfront. Soltanto il Comune di Pozzuoli ha ora il potere di opporsi al Piano della Regione e chiedere una riqualificazione urgente.Tutto resta in silenzio. Urlano solo le voci dei morti per amian-to. L’ultimo decesso per asbesto-si risale a qualche giorno fa. Dopo 10 anni dal pensionamento, a meno di 70 anni è morto un altro operaio. Cemen-to e amianto. I terreni avvelenati: fino a quando uccideranno?

di Cristina Autore

Occhi tristi e mani grandi, segnate dal lavoro. Pasquale Luciano per vent’anni ha impugnato ogni mattina scalpello e martello. Si è recato nelle Officine Grandi Riparazioni di Trenitalia a Torre del Greco e ha lavorato sodo, eliminando dai va-goni ogni piccola traccia di amianto. Un impiego stabile, un servizio sociale per lui, come per i futuri passeggeri dei tre-ni, pensò allora. Un lavoro che qualcuno

deve pur fare e che accettò, inconsape-vole dei rischi. Non avrebbe mai imma-ginato che la polverina bianca all’appa-renza innocua e sottile, che grattava con tanta forza, 15 anni dopo gli avrebbe provocato la morte per tumore. Oggi sono migliaia gli operai di S. Maria la Bruna che rischiano di fare la fine di Claudio: lavorare per vivere e morire a causa di quello stesso lavoro. Per anni hanno scoibentato senza protezioni 800 kg di amianto a carrozza, incoscienti della sua pericolosità. «Era dappertutto: sotto i cassoni, sulle vetture, sui patti-ni che le trasportavano. Lo abbiamo inalato, forse mangiato, trattato in ogni modo». Così l’operaio Ciro Piglia de-scrive con amarezza l’officina. «Ora, a distanza di 15-30 anni – continua – gli effetti si fanno sentire. Ogni giorno uno di noi si ammala, proprio com’è suc-cesso a un mio collega a cui hanno diagnosticato un mesotelioma pleurico. Trenitalia l’ha trasferito in un bellissimo ufficio, come se questo potesse restitu-irgli la vita!» Grande tristezza anche sul volto dell’operaio Vincenzo Milito. «Nel compiere le mie mansioni, – racconta – lavoravo con scrupolo, ma nessuno mai mi ha informato sulla pericolosità dell’amianto, allora sconosciuta. Vivo in uno stato psicologico di tensione con-tinua, come un fumatore che sa di aver fumato e si aspetta il peggio». Nei cantieri di Trenitalia si lavorò senza protezioni dal 1980 fino al febbraio del 1989, anno della rivolta. Gli operai oc-

cuparono lo stabilimento, chiedendo a gran voce tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Ma la svolta avvenne solo un anno dopo quando il pretore di Firenze, Beniamino Deidda, a seguito di un so-pralluogo, mise i sigilli all’officina ordi-nandone la bonifica. Quando lo stabili-mento riaprì, tutto era in sicurezza. I lavoratori indossavano tute, caschi, mascherine e guanti, ma ormai era trop-po tardi. «Già nel 1989 alcuni presenta-vano sintomi di asbestosi – racconta l’ex operaio Felice Ciancio –. Era impossibi-le stendere un velo pietoso su tutto ciò che avevamo vissuto sulla nostra pelle: irregolarità, imbrogli, pericoli. Addirittu-ra a volte i capotecnici facevano parti-re le carrozze a scoibentazione ancora in corso. Anche i passeggeri dunque hanno inalato le fibre di amianto che si disperdono nell’aria con le vibrazioni del treno in corsa». Gli operai hanno chiesto all’Inail di Castellamare di Stabia il dovu-to riconoscimento dell’esposizione con l’amianto per beneficiare delle pensioni anticipate (previste dall’Art. 13 della leg-ge 257 del 1992). A quasi tutti l’Inail ha riconosciuto brevi periodi. Nessuno ha ottenuto i risultati sperati, come spiega Angelo Ciccone, Segretario Nazionale del sindacato Sat-Orsa ed ex operaio

Trenitalia. «È uno scandalo, chiediamo ancora giustizia. A Ciro Piglia l’Inail ha riconosciuto 9 anni e 6 mesi di contatto con l’amianto e quest’uomo per soli 4 mesi non riceverà il pre-pensionamento. È una vera “amiantopoli”!» Inoltre l’Inail ha trattato diversamente gli operai di S. Maria rispetto a quelli di Milano. «Sono stato assunto nell’85 – racconta Felice Ciancio –. Ho scoibentato per anni tra i cantieri del Nord e del Sud. In Campa-nia, dove ho lavorato per 10 anni, me ne hanno riconosciuto uno solo; mentre a Milano nel settore smistamenti, ben sette! È una vergogna. Spero di poter essere interrogato da un giudice, per raccontare tutta la verità».

L’INCHIESTA /1 L’INCHIESTA /2

Di bonifica non si sa nulla

Trattavamo 800 kgdi minerale al giorno

Un operaio su tre, ha già il cancro

Il futuro: porti turistici o case di lusso

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di Clemente Lepore

L’Italia come il Klondike. Cam-biano i luoghi, le epoche e so-prattutto il colore dell’oro ago-gnato. Non più giallo, ma nero. Nero petrolio. Dopo i picchi degli anni ’50 (per l’attivismo di Enrico Mattei) e degli anni ’70-’80 (in seguito allo choc del 1973), a partire dalla seconda metà degli anni ’90 la corsa al greggio vive una nuova stagione di entusiasmo. Ulte-riormente stimolata dalle linee guida della strategia energetica nazionale, presentata lo scorso ottobre dal ministro dello Svilup-po Economico Corrado Passera, e incentrata sull’incremento del-la produzione nazionale di idro-carburi. La quantità di petrolio prodotta nel 2012 è 5,37 milioni di tonnellate. A questo si ag-giungono altri dati: 110 sono le istanze per ottenere il permesso di ricerca in terraferma e nel sot-tofondo marino; 115 i permessi già operativi; 19 le richieste per la coltivazione d’idrocarburi; 200 le concessioni; oltre 1500 i pozzi. Dalla Lombardia alla Sici-lia, passando per la Basilicata, le trivelle sono un elemento co-stante del paesaggio. A queste regioni potrebbe presto aggiun-gersi la Campania. Sono 6 i pro-getti che interessano le province di Avellino, Benevento e Saler-no: alcuni attendono il via libera per la valutazione d’impatto am-bientale (Case Capozzi, Pietra Spaccata, Monte Cavallo, Muro Lucano), gli altri hanno ottenuto il permesso di ricerca d’idrocar-buri (Nusco e Santa Croce).Durante la prima fase le azien-de raccolgono dati ed eventual-mente procedono alla perfo-razione di pozzi esplorativi. La tappa successiva è l’estrazione e la produzione. Ogni passaggio è regolamentato da un iter auto-rizzativo che coinvolge società, uffici tecnici, regioni e ministero dello Sviluppo Economico.

Così per l’intervento di perfora-zione di un pozzo a Gesualdo, in provincia di Avellino, la Cogeid e l’Italmin Exploration hanno do-vuto inoltrare un’istanza di valu-tazione d’impatto ambientale. Lo scorso 21 febbraio il Consi-glio regionale ha votato contro l’attività di scavo dei pozzi e per il momento tutto è bloccato. Con grande soddisfazione dei No Triv. “Non si tratta di un’op-posizione a priori. Siamo andati in Val d’Agri e abbiamo visto una realtà d’inquinamento e depres-sione. Il petrolio non arricchisce. Anzi, in una zona rurale come questa, può solo impoverire”, dice Amato Della Vecchia, ge-store di un bar a Nusco e pro-motore del comitato “No pe-trolio in alta Irpinia”. Con altre persone s’impegna a informare le comunità locali.Nusco è un piccolo borgo in-castonato tra i Monti Picentini, immerso nel verde dell’Irpinia. È possibile far coesistere na-tura incontaminata e pozzi pe-troliferi? Il no alle trivellazioni è semplicemente un residuo pre-moderno, l’anelito a vivere in un mondo arcadico? Sembra pensarla così Gino Cortellazzi, responsabile della Cogeid: “Il no al petrolio è assurdo. Tutti si spostano con l’automobile, tut-ti usano l’elettricità”. Secondo Cortellazzi l’agricoltura locale non corre alcun pericolo. In assenza di dati certi e di un monitoraggio che tenga conto dei valori prima e dopo le per-

forazioni (cosa che spesso man-ca in Italia), è difficile accertare le conseguenze dell’estrazione d’idrocarburi sull’ambiente. Il petrolio contiene alcuni com-posti chimici altamente tossici. Come gli idrocarburi aromatici o l’idrogeno solforato (H2S). Uno studio recente, condotto da un team di ricercatori del centro cardiologico di Singapore, ha dimostrato la correlazione tra idrogeno solforato e danneg-giamento del tessuto muscola-re cardiaco. L’H2S deve essere rimosso nel processo di desul-furizzazione in appositi impianti, ma secondo molti esperti dif-ficilmente l’eliminazione riesce del tutto. Ne è sicura Maria Rita D’Orsogna, docente presso il di-partimento di matematica della California State University: “Tut-te le operazioni di trattamento dei prodotti petroliferi possono emettere quantità di idrogeno solforato, sia nel caso d’inci-denti sia nel caso di rilascio nell’atmosfera durante le fasi della lavorazione”. Nonostante l’indicazione dell’Organizzazio-ne mondiale della sanità a por-re una soglia di 0,005 parti per

milione, il limite di legge in Italia per l’emissione di H2S può arri-vare a 30 ppm. Ma le criticità sono tante: le so-stanze contenute nei fanghi di perforazione; l’interferenza tra attività estrattive e zone sismi-che (come nel caso di Sannio e Irpinia); l’impatto dei composti chimici su suolo e sottosuolo. “In Irpinia ci sono le falde acqui-fere che riforniscono Campania, Puglia e Basilicata. Come si può pensare di mettere a rischio i serbatoi idrici?”, afferma Do-menico Cicchella, ricercatore di geochimica ambientale presso l’Università del Sannio.D’altra parte gli incidenti non sono una merce rara. Recen-temente malfunzionamenti si sono registrati nell’impianto di desulfurizzazione di Viggiano; e nel 2012 c’è stata una fuoriu-scita di greggio dall’oleodotto a Bernalda, in provincia di Matera. Le compagnie petrolifere si di-fendono sostenendo che stanno investendo in nuove tecnologie. David Turco, domiciliatario della Delta Energy, la ditta inglese che vuole mettere le mani sull’oro nero irpino-sannita, sottolinea come l’impatto ambientale sia relativo in presenza di misure di sicurezza adeguate: “Que-sto tipo di attività può generare ricchezza e lavoro, ma dipende dalle amministrazioni e dalle im-prese”.Nata nel 2010, la Delta Ener-gy ltd ha un capitale sociale di 240mila euro ed è divisa tra 22 soci. L’azienda non ha un sito ufficiale e David Turco, pur es-sendosi impegnato a fornire l’elenco dei finanziatori, ha fino-ra glissato sull’argomento. Uno dei direttori – Robert Donald Ferguson – opera sul mercato da oltre 20 anni, costellati da partecipazioni in società che hanno tutte una caratteristica in comune: non hanno un web-site né contatti. La Cresswell Petroleum esiste dal 1993. Ep-

pure saperne qualcosa in più, a parte il nome, è impresa ardua. Ferguson ha partecipato anche all’avventura della Caingorm Oil & Gas, nata nel 2009 e già chiu-sa. E poi c’è la Humberside Oil & Gas, fondata nel 2012 e sita allo stesso indirizzo della Delta Energy. Delle sei istanze per il permes-so di ricerca inoltrate dalla Delta Energy due riguardano la Cam-pania (Case Capozzi e Pietra Spaccata). L’area interessata è principalmente quella del Be-neventano, zona agricola e tra le più sismiche d’Italia. Alessio Valente, ricercatore del diparti-mento di Scienze dell’Università del Sannio, dubita della compa-tibilità ambientale dei progetti di ricerca: “Stiamo parlando di un territorio rurale, caratterizzato da fenomeni franosi e dal ruolo strutturale dei corpi idrici sotter-ranei”. La peculiarità dell’Irpinia e del Sannio è riconosciuta dai tecni-ci della Delta Energy. Malgrado ciò, lo studio preliminare a sup-porto del progetto Case Capozzi – approvato dal geologo-mana-ger della società di consulenza G.E.Plan Raffaele di Cuia (un passato in una multinazionale come Total) – non ravvisa alcuna incompatibilità ambientale. Sull’oro nero si gioca una par-tita importante. Da un lato le promesse di ricchezza e lavoro, dall’altro il timore d’inquinamen-to e sfruttamento. Con la con-sapevolezza che i combustibili fossili sono una risorsa a termi-ne. Con i numeri della Basilicata a portata di mano: 143 i lavora-tori locali impiegati in Val d’Agri, altri 668 nell’indotto; 585 milioni di euro di royalty versati nelle casse degli enti locali tra il 1998 e il 2011. Numeri allarmanti se-condo Domenico Cicchella: “Se la Basilicata fosse diventata una regione ricca, se ci fosse lavoro per i tanti disoccupati, i No Triv neanche esisterebbero”.

Le compagnie petrolifere vogliono trivellare il Sannio e l’Irpinia, i comitati si mobilitano

5,37 milioniLe tonnellate

di greggioprodotte nel 2012

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L’oro neronon sempreluccica

Della Vecchia: “Non si tratta di un’opposizione a priori”

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di Natale Cassano e Sergio Lanzillotta

Dimissionarie, in cerca di un’occupazione e, sempre più spesso, licenziate in tronco.Nel 2012, secondo l’Istat, in Italia le neo-madri lascia-no o perdono il lavoro nel 22,7% dei casi dopo essere entrate in maternità. Un incremento di quasi tre punti ri-spetto all’anno 2005 (19,9%) e più di quattro rispetto al 2002 (18,4%). Nel Mezzogiorno, poi, va anche peggio: 29,9% per le neo-madri e il 45,1% per le under 25.Le imprese, insomma, vedono la gravidanza come una colpa piuttosto che un lieto evento. La paura di dover ricoprire a loro carico le spese della maternità disincen-tiva le aziende ad assumere donne nel proprio organico. Un problema crescente che si concretizza nella scarsa attenzione a una politica di welfare. E le donne si ritrovano a pagare il conto: dopo la nascita di un figlio, nei cestini dell’immondizia oltre ai propri curriculum gettano le loro speranze. Negli ulti-mi anni le donne tendono sempre più a essere licenziate (un incremento dell’8% dal 2005) e, pa-rallelamente, diminuiscono le dimissioni sponta-nee (meno 12% rispetto al 2005). La percentuale di donne occupate decresce – spiega l’Istat – a seconda del numero di bambini: è del 58,5% per le donne con un figlio under 15, mentre scende al 54% quando i figli sono due. Se i figli sono tre o più, la percentuale precipita al 33,3%.E a Napoli? Se il Mezzogiorno è il fanalino di coda dell’occupazione, Napoli, e la Campania in gene-rale, scavano il fondo: hanno il più alto tasso di

disoccupazione; 15,5 % a fronte di una media na-zionale del 7,8%. Un quinto dei disoccupati, per l’appunto, è di sesso femminile. Gli inattivi invece sono il 68 %, 19 punti in più rispetto al dato na-zionale.I motivi? La crisi, senza dubbio. Ma non deve es-sere un alibi. Parlare di Sud significa anche con-frontarsi con una discriminazione di genere nel lavoro. Ciò si riverbera anche nelle tipologie di contratto offerte alle donne: uno su tutti l’inseri-mento della clausola di dimissioni in bianco nel caso di una gravidanza. Una triste realtà che, se-guendo una cupa ma efficace espressione della giornalista Manuela Campitelli, possiamo definire forma contrattuale “in scadenza come l’orologio biologico delle donne”.Poi c’è la riforma del lavoro, da molti giudicata deludente. Una delle cause principali del difficile accesso al mondo del lavoro, infatti, è proprio la legge 92 del Ministro Fornero. Da quando è en-trata in vigore nel luglio 2012 – dice l’Istat – la disoccupazione è salita all’11% e il tasso di disoccupa-zione giovanile (15-24 anni) è cresciuto di un punto per-centuale (36,3%). Una riforma inefficace nonché disor-ganizzata: offre un po’ di flessibilità in uscita (anche se le modifiche apportate alla legge 30 non sono efficienti nel breve termine) ma aumenta la rigidità in entrata (non cancella le forme contrattuali spurie largamente usa-te). Questo penalizza l’ingresso al mondo del lavoro sia delle 489mila donne non occupate (l’11,6%) che delle 204mila donne occupate part-time (14,3%). Una legge da rivedere, quindi. Così come è da rivedere la politica di welfare. L’attenzione dell’Italia per i servizi e detrazio-ni fiscali per le famiglie è ben lontana dalle indicazioni

dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): nel nostro Paese viene desti-nato l’1,4% del Pil dei contributi a fronte del 1,8% in ambito Ocse. Secondo Confartigianato nel 2011 i fondi per la famiglia sono stati 20,7 miliardi di euro, pari al 4,6% dei 449,9 miliardi totali destinati alla protezione sociale. Nonostante l’incremento nel pe-riodo 2007-2011, i fondi destinati alle famiglie sono quelli cresciuti meno. Con conseguenze allarmanti. Denuncia il dossier “Mamme nella Crisi” di Save the Children che il mancato investimento in politiche di welfare si ripercuote in una “carenza di servizi per la prima infanzia che sono fondamentali per lo stes-so sviluppo educativo e relazionale dei più picco-li”, nonché indispensabili per la “conciliazione dei

tempi familiari e di lavoro delle mamme”. Solo il 13,5% dei bambini fino a 3 anni viene preso in carico dai ser-vizi, continua il dossier, “una percentuale lontanissima dall’obiettivo europeo del 33%, con una forte penalizza-zione del Sud: sono meno di 3 su 100 (2,4%) i bambini che accedono ai servizi in Campania.Tutto negativo? Uno spiraglio di luce, seppur flebile si riesce a trovare. Il governo Monti ha tentato di incen-tivare l’occupazione femminile attraverso un protocollo d’intesa con il Ministero per lo Sviluppo Economico e l’Unioncamere. “Attraverso l’accordo sono stati amplia-ti i poteri dei Comitati per l’Imprenditorialità, nati da un protocollo d’intesa sottoscritto nel 1999 poi rinnovato

nel 2003”, fanno notare dall’Unioncamere. I comitati fan-no capo alle Camere di Commercio e sono costituiti da imprenditrici di aziende locali per promuovere, sostenere e consolidare le imprese femminili.Anche grazie al sostegno dei comitati, l’Italia mantiene la leadership in Europa per il maggior numero di impren-ditrici e lavoratrici autonome: il 16,4% di donne occupa-te, con una media europea che si attesta a poco oltre il 10%. Sebbene a livello nazionale il rapporto occupazio-nale femminile è ben sopra la media, dunque, continuia-mo a risentire eccessivamente del divario tra imprendito-rialità settentrionale, ben avviata e aperta all’inserimento femminile e quella meridionale, che ancora non riesce a tutelare adeguatamente le donne lavoratrici.

In Campania il tasso di inattivi-tà femminile è del 48,5%. Cosa ne pensa?

La realtà attuale corrispon-de al cedimento della struttura dell’economia e al rapido franare del già debole welfare in questi ultimi quattro anni, particolar-mente provato al Sud dall’auste-rità. Si determina così il dilagare della disoccupazione e l’emargi-nazione della forza lavoro delle

donne e – quando occupate - le forme estreme della loro segregazione nelle mansioni più umili, meno pagate e più precarie.

Al Nord i dati dell’occupazione femminile superano spesso il 50%. C’è qualche fattore ideologico alla base della disoccupazione femminile nel Mezzogiorno?

Penso che quel che appare ideologico è legato al contesto che, in aggiunta ad una strutturale carenza di domanda in particolare al Sud, non offre servizi adeguati sia per quan-tità che per qualità e prezzo. Tutto ciò si poggia su un’eco-nomia estremamente più precaria e discontinua di quella centrosettentrionale. Inoltre una parte degli inoccupati al Sud sono coloro che lavorano in nero o irregolarmente e che in periodo di crisi hanno costituito una fonte di reddito importante nel Sud.

Sempre più spesso le imprese sono restie ad assumere donne. Deriva dal tempo di maternità che per legge va concesso?

È noto che la maternità incide riducendo il tasso di occupa-zione anche in altri Paesi, ma in questi tende a presentarsi nei primi tre anni dopo la nascita, per attenuarsi poi fino al pieno reimpiego della donna. In Italia invece la materni-tà spesso è un fattore irreversibile di uscita dal mondo del lavoro, accentuato per ulteriori maternità. Il reinserimento della donna oltre a essere più difficile, la mette in condi-zione di debolezza determinando minori retribuzioni e un peggiore inquadramento funzionale.

La situazione è preoccupante sebbene dal 1999 siano attivi i Comitati per l’Imprenditorialità Femminile del Mi-nistero dell’Economia.

Penso che i Comitati del Ministero siano come le divisioni del Papa. Forse impongono quote rosa nelle assunzioni, ma non è questo il problema. Ministri e riformatori del mercato del lavoro credono che la disoccupazione si basi su informazioni e aspettative errate dei lavoratori che perciò vanno resi pazienti, flessibili e mo-bili (specie se sono giovani e donne). Bisognerebbe partire dalla ricostruzione di una domanda di lavoro da parte delle imprese. È invece del tutto controproducente intaccare la qualità dell’offerta comprimendo salari e qualità del lavoro.

n.c. e s.l.

PAGINA 10INCHIOSTRO N. 4

Figlio in arrivo?Sei licenziataLa disoccupazione femminile è ai livelli del Pakistan

Donne e lavoro in Campania: un binomio impossibile

Solo il 13% dei bambiniha accesso al welfare

“Le imprese devono incentivare la parità”Parla Adriano Giannola, presidente dell’associazione SvimezIL PERSONAGGIO

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di Giorgia Ceccacci

“Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare”. Così lo scrittore Jorge Luis Borges scriveva all’inizio del Novecento. Per chi passa la propria vita a lavorare su una nave, è facile comprenderne il miste-ro. L’antico mestiere di navigante è diffici-le, pieno di sacrifici e rinunce, ma anche un’occasione per i tanti giovani in cerca di lavoro. Luigi Giordano vive a Cava de’ Tirreni o, per meglio dire, abita lì nei pochi mesi che non è imbarcato. Ha 26 anni e da 5 rico-pre il grado di primo ufficiale di coperta nella compagnia di navigazione Grimaldi. “Ho studiato poco, ho solo un diploma come perito per il Trasporto Marittimo - racconta Luigi -, ma a bordo faccio così tanta pratica che ho la sensazione di es-sere sempre sotto esame”. L’ufficiale de-scrive la sua passione. Il solo fatto che un uomo possa comandare una nave di sva-riate tonnellate, lo fa sentire “il padrone del mondo”. Per un rendimento migliore

a bordo, preferisce imbarcarsi per 4 mesi che, da contratto, è il tempo minimo ri-chiesto. “È un lavoro che ti fa guadagnare bene, ma trascorri giorni e giorni in mezzo al nulla. Dopo due mesi a casa la com-pagnia ti richiama e devi ripartire” spiega Luigi. In questo lavoro la stabilità senti-mentale è un’utopia ma il giovane marina-io non intende rinunciarvi. “Non farò il ma-rittimo tutta la vita. Un giorno mi fermerò e ritornerò sulla terraferma”, conclude. Il guadagno in questo lavoro è assicurato così come la possibilità di visitare loca-lità sperdute. Le tratte possono essere lunghissime: si può partire da Dakar per arrivare dopo dodici ore di navigazione a New York, o da Genova a Oslo percor-rendo migliaia di chilometri. Ma anche in questo settore la crisi si è fatta sentire. Gli armatori hanno sostituito gran parte del

personale europeo assumendo asiatici. Il motivo è semplice: un marinaio italiano viene remunerato con 1800 euro, un filip-pino viene pagato solamente 800 euro. Anche Gennaro Ferrandino, un 23enne di Ischia, ha deciso di trascorrere la pro-pria vita in mare. Lavora da due anni per la stessa compagnia di Luigi e ammette che la crisi ha coinvolto il trasporto marit-timo. Meno richiesta di merci equivale alla riduzione dei container da trasportare. Ma non c’è da disperare. Se sei competente, il tuo nome comincia a girare tra le varie compagnie di navigazione ed è sicuro che ti chiamino. Il registro navale “Imbarchi e sbarchi” documenta che nel 2012 i marit-timi imbarcati tra la provincia di Napoli e Salerno sono più di 10.000. Ottocento in meno rispetto all’anno precedente. E poi c’è chi decide di ritornare sulla terrafer-ma. Ma non è il caso di Gennaro che, a differenza di Luigi, vorrebbe fare questo lavoro per tutta la vita: “L’ho sempre so-gnato fin da quando ero bambino. Sono nato sul mare e lì rimarrò”. Imbarcarsi è sicuramente un’occasione per fare car-

riera. Un ragazzo marchigiano, primo uf-ficiale nelle navi mercantili, racconta che, nonostante i sacrifici, si sente fortunato. Pensa ai tanti ragazzi che si ritrovano senza lavoro. Per Emanuele essere un marittimo non è una passeggiata: “Co-noscete che significa la parola rinuncia?

Bene, perché questo lavoro è privazione”, conclude. Nelle navi mercantili si lavora dal lunedì alla domenica, senza pausa. Non è la tua ora di turno? Devi comunque dare una mano. Si trascorre la serata con le persone dell’equipaggio che sono al massimo una trentina. Quando la nave at-tracca al porto, si scende insieme a bere una birra. Un modo per dare una normali-tà a un lavoro che dà e toglie. Quello che rimane è comunque la passione e la vo-lontà di questi ragazzi verso un mestiere che dall’esterno pure non sembra avere niente di romantico.

InchiostroAnno XIII numero 411 Marzo 2013www.unisob.na.it/inchiostro

Periodico a cura della Scuoladi giornalismo diretta da Paolo Mielinell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa

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2/5/2001

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Ma come fanno i marinaiStorie di giovani campani imbarcati sulle navi mercantili per una paga di 1800 euro al mese

Sono più di diecimila, una vita di sacrifici ma con la crisi è l’unico mestiere che va

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E’ un lavoro difficile,non ci sono mai pause

A bordo mi sento il padrone del mondo