PreTesti • Occasioni di letteratura digitale • Giugno 2012 • Numero 6 • Anno II

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| Giugno 2012 pretesti 1 Molfetta. Ritratto di un anarchico di Emanuele Trevi Giovanni Arpino «chicco individuo» di Rolando Damiani La carezza della regina di Gerbrand Bakker Bilocale arredato di Marco Archetti Occasioni di letteratura digitale pretesti Giugno 2012 • Numero 6

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Transcript of PreTesti • Occasioni di letteratura digitale • Giugno 2012 • Numero 6 • Anno II

| Giugno 2012pretesti1

Molfetta. Ritratto di un anarchico

di Emanuele Trevi

Giovanni Arpino «chicco individuo»

di Rolando Damiani

La carezza della regina di Gerbrand Bakker

Bilocale arredato di Marco Archetti

Occasioni di letteratura digitale

pretesti

Giugno 2012 • Numero 6

www.cubolibri.it

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IL MeGLIodella Narrativa

e deLLA saGGistica

italiaNa e straNiera

iN oltre 24.000 titoli

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“Gialla… come il liquore che strega le parole”, così canta la rosa Vinicio Capossela, così la rosa “stat pristina nomine, nomina nuda tenemus”, solo il nome resta delle cose e del liquore lo spirito non è che sostanza aerea, immateriale, intoccabile. Non toccateci dunque il Premio Strega, giallo come le rose della gelosia, volatile come la bellezza delle parole che premia: il Premio per antonomasia della letteratura contemporanea italiana. E quest’anno non toccateci lo Strega, anche perché, in tempi non sospetti, abbiamo voluto ospitare un racconto di uno scrittore formidabile come Emanuele Trevi, che oggi si ritrova selezionato nella cinquina in concorso per la vittoria finale del Premio Strega. E oggi lo leggiamo nella storia di copertina del numero di giugno di “PreTesti”. E insieme a Trevi avremo anche il racconto inedito di Marco Archetti, promessa già mantenuta della letteratura italiana emer-gente. Celebriamo poi il grande scrittore Giovanni Arpino, del quale ricorre quest’anno il venticinquennale dalla scomparsa, con la riflessione di Rolando Damiani, curatore per i Meridiani Mondadori delle sue opere. Anticipiamo quindi un brano del libro Giugno di Gerbrand Bakker in uscita in Italia per Iperborea.Per “Il mondo dell’ebook” Daniela De Pasquale analizza la recente situazione del mercato che presenta una forte contrazione dei volumi e del fatturato dell’editoria. Stiamo diven-tando un popolo di analfabeti? Roberto Dessì, al contrario, si concentra sulla possibilità che gli ebook possano invece essere un volano di cultura per i paesi emergenti. Valeria Della Valle e l’Accademia della Crusca per “Sulla punta della lingua” va a caccia delle nuove parole della lingua italiana e Fabio Fumagalli in “Buona la prima” ci fa cono-scere la storia di Casa di bambola di Henrik Ibsen. Luca Bisin ci porta invece in viaggio sulle rotte di Corto Maltese e Francesco Baucia ci fa scoprire la cucina di Pellegrino Artusi.Ubriacatevi allora nelle storie dei nostri autori. Dateci dentro: lasciatevi stregare dalla let-teratura.

Buoni PreTesti a tutti.Roberto Murgia

editoriale

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39-41Buona la primaHenrik Ibsen “Casa di bambola” (1879)di Fabio Fumagalli42-44Sulla punta della linguaParole nuove nella lingua italiana di Valeria Della Valle45-47Anima del mondoSenza mettere radicidi Luca Bisin48-51Alta cucina Fare una ricetta è men che niente...di Francesco Baucia52 Recensioni

53Appuntamenti

54Tweets / Bookbugs

rubrichetesti

05-11RaccontoMolfetta. Ritratto di un anarchicodi Emanuele Trevi12-18SaggioGiovanni Arpino «chicco individuo»di Rolando Damiani19-22AnticipazioneLa carezza della regina di Gerbrand Bakker23-29Racconto Bilocale arredatodi Marco Archetti

il moNdo deLL’eBook

30-34Il digitale? “The next big thing” della letturadi Daniela De Pasquale35-38Gli eBook fanno benedi Roberto Dessì

Indice

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Racconto

di Emanuele Trevi

MOLFETTA. RITRATTO DI UN ANARCHICO

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ll’eventualità di prenderle di san-ta ragione, prima o poi, ci avevo pensato un sacco di volte ‒ cer-cando di immaginarmi l’even-

to nei minimi dettagli. Il vecchio Molfetta, che era il decano del circolo anarchico che frequentavo, e che era sempre prodigo di consigli con noi novellini, a questo propo-stito era categorico. “Per imparare ad an-dare a cavallo”, sentenziava col suo inde-lebile accento di emigrato pugliese, “devi cadere, giusto? E allo stesso modo, per es-sere un bravo anarchico devi prenderle: poco ma sicuro. In certe situazio-ni, quando sei circondato da un gruppo di fascisti o celerini, è inutile an-che solo pensare di di-fendersi. Fate come le tartarughe: rannicchiate-vi per terra, difendete la faccia”. Quanto alla cicatrice che lui stes-so, Molfetta, aveva sullo zigomo sinistro, si diceva che non c’entrassero né i fascisti né la polizia, ma fosse opera di una don-na gelosa, la prima moglie lasciata al pae-se, una bigotta assolutamente ostile al libero amore degli anarchici, che Molfetta, a suo dire, aveva sempre praticato fieramente. Ma insomma, prenderle era il destino dei bravi anarchici. Erano gli splendidi, fero-ci, irripetibili anni Settanta, avevo dicias-sette anni, e non desideravo di meglio che diventare un bravo anarchico. L’idea di prenderle non mi piaceva affatto. Ma il de-stino, per citare ancora una volta il saggio e loquace Molfetta, era il destino: “un por-co al servizio dei padroni, molto spesso”.

Puntuale, il momento arrivò. Ci eravamo spinti in un quartiere ostile e lontano, per attaccare dei manifesti in onore di Geroni-mo, il capo pellerossa, esempio per tutti i popoli oppressi dagli americani. L’agguato fu rapidissimo. Tutte le battaglie di quar-tiere di quei temi, in realtà, anche quelle più gravi, dove potevano scapparci morti e feriti gravi, duravano pochissimi minuti. Ci arrivarono addosso quando ormai pen-savamo di averla fatta franca. Non erano tanti, ma era gente abituata a picchiare, ar-mata di catene, cresciuta in quella zona del-la città. Non restava che darsela a gambe,

cercando di non rimane-re completamente soli. Fu proprio questo il mio errore. Non so come, mi ritrovai con due brutti ceffi alle calcagna, nel si-lenzio di un cortile con-dominiale deserto. Dal collo taurino di uno dei due bruti pendeva una

svastica d’argento. Con buona pace del vecchio Molfetta, le cose che temi non sono mai come te le sei lungamente immaginate. Non ci fu tempo di assumere l’ingloriosa ma efficace posizione della tartaruga. Uno dei due tizi mi colpì alla fronte con un ca-sco, brandito come un’arma. Il bordo della visiera, in plastica dura, mi causò un terri-bile, bruciante dolore. Al momento di toc-care terra dovevo essere già svenuto ‒ più per la paura, credo, che per la botta in sé. Invece che a una tartaruga, dovevo asso-migliare a uno straccio abbandonato sul pavimento. E così mi hanno trovato i miei compagni, tornati sui loro passi quando, fi-nito l’assalto, si erano accorti che mancavo all’appello.

A

“Per imparare ad andare a cavallo”,

sentenziava col suo indelebile accento di emigrato pugliese,

“devi cadere, giusto?”

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Le cose, lo ripeto, non sono mai come te le sei immaginate. Un dolore, una gioia, una paura, al momento di diventare reali assu-mono la loro veste definitiva di fatti unici, e irripetibili. Finché facevano parte degli in-finiti repertori dell’immaginazione, questi fatti erano puri schemi astratti, senza peso e senza colori reali, e pensavamo di poter reagire ad essi come nei film, o nei racconti degli altri. Ma la nostra vita è un’altra cosa: più limitata e più imprevedibile nello stes-so tempo. E così, io mi ero cullato a lungo nell’idea che, una volta che le avessi prese ‒ cercando di limitare i danni con il ricorso alla posizione della tartaruga ‒ un’altra tappa del mio ap-prendistato di anar-chico sarebbe stata raggiunta e supera-ta. Come i guerrieri antichi, sarei potu-to andare fiero delle eventuali ammacca-ture e cicatrici. Sarei stato (e questo era il premio più prezioso) l’eroe di un racconto, da ripetere all’infini-to agli amici con progressivi aggiustamenti e variazioni degne di un aedo greco. Nul-la di tutto questo accadde. Avevo un taglio che mi attraversava la fronte da un lato all’altro, simile al corso di un lungo fiume tropicale sulla cartina di un paese esotico. Ma all’orgoglio dell’eroe si era sostitituita, fin dalle prime ore, una profonda tristez-za mista a paura e vergogna. E questo in-nominabile, sconosciuto sentimento si era impadronito di me in maniera così totale,

così profonda, che mai nella mia vita, an-cora così inesperta sotto tutti i punti di vi-sta, avevo immaginato che si potesse stare così a disagio, perdendo il piacere, la curio-sità, la fame di esperienze. La conseguen-za più grave di quella nuova e inaspettata condizione era che non avevo più voglia di mettere piede fuori di casa. Me ne stavo nella mia stanza, senza nemmeno la voglia di sentire un disco, di leggere un fumetto. Ai miei avevo raccontato di una caduta dal motorino. Erano, i nostri, i genitori più smarriti, inadeguati, incapaci di esercitare un qualunque tipo di autorità, che la storia umana abbia mai conosciuto. Quell’orda di

ragazzini in rivolta che si erano trovati davanti li sgomenta-va. Avrebbero fatto di tutto per darsela a gambe. In ogni caso, fingevano di credere a molte più cose di quelle che effettiva-mente credevano. E così, anche la storia del motorino era sta-ta accettata. Del re-

sto, la ferita era vistosa, ma non grave, e nel giro di qualche settimana, come decretò il medico della mutua, l’escoriazione si sareb-be del tutto rimarginata. Quello che proprio non riuscivo a rimarginare apparteneva a un dominio, a un territorio della realtà del tutto differente. Lì, nel regno invisibile del-le paure e delle emozioni, dei desideri e dei rimpianti, si era aperta un’altra ferita, tan-to larga e profonda che leccarsela in qual-che modo mi appariva un compito assurdo ed impossibile, come svuotare il mare con un secchio. Quello che stavo vivendo, era

Carlo Carrà, I funerali dell’anarchico Galli

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una specie di triste battesimo: la scoperta, per così dire, dell’invivibilità della vita. Tale scoperta si ripete, ahimé, in molti momenti cruciali dell’esistenza. Per qualche rarissi-mo poeta o filosofo è una fonte, dalla quale ricavare insegnamenti amari e preziosi. Per la maggior parte dell’umanità, è solo un’e-sperienza orribile, come quella che stavo facendo io, rinchiuso nella mia stanzetta, guardando l’ombra di una tenda allungarsi lentamente sul soffitto, un pomeriggio die-tro l’altro.

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Gli unici aiuti che contano davvero, biso-gna ammettere, sono quelli che provengo-no da dove meno te lo aspetti. Fu il vecchio Molfetta, quel solenne rompiscatole, quella miniera inesauribile di aneddoti, a tirarmi fuori dal vicolo cieco in cui mi ero caccia-to. Aveva saputo della rissa, e si aspettava di rivedermi al circolo anarchico, assieme agli altri ragazzini che si sentiva in dovere di istruire sulle profonde verità della vita e sulle tecniche della rivoluzione. I miei ami-ci gli avevano raccontato che l’avevo pre-sa male, che stavo sempre chiuso in casa. E un giorno, eccomelo di fronte, introdotto dalla donna di servizio in una sala da pran-zo borghese che non poteva che metterlo in impaccio, lui che era sempre vissuto in

monolocali e seminterrati ai margini estre-mi della città. Me lo ricordo come fosse ieri, con il suo barbone sale e pepe, la camicia a quadri curva sotto il peso della grande pancia come una vela gonfia di vento, il basco calcato sulla testa che portava esta-te e inverno. Si scusò bofonchiando qual-cosa. Mia madre e mia sorella, incuriosite da quel mio strano amico, lo invitarono a sedersi a tavola con noi. Molfetta non se lo fece ripetere due volte. Gli serviva pochis-simo per trasformare l’impaccio in familia-rità. Cos’erano, in fondo, le classi sociali?

Le vecchie ingiustizie, si poteva dire, ave-vano i giorni contati, come la neve alla fine dell’inverno. Come se mia madre e mia so-rella potessero davvero andarne fiere, sot-tolineava spesso, passando dall’universale al particolare, come io, ancora così giovane, potessi già considerarmi un bravo anarchico, qualcuno in grado di affrettare l’arrivo dei tempi nuovi. “Certo”, aggiunse a un certo punto accompagnando le parole con un vi-stoso occhiolino, “bisogna guidare con pru-denza !!!”.

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Ed eccoci barricati in camera mia, io e l’in-stancabile, loquace, sudato Molfetta. Dopo un primo momento di imbarazzo, causato dal fatto che stavo rivelando a quell’auten-

Gli serviva pochissimo per trasformare l’impaccio in familiarità. cos’erano, in fondo, le classi sociali? le vecchie ingiustizie, si poteva dire, avevano i giorni contati, come la

neve alla fine dell’inverno.

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tico proletario la mia condizione di borghe-se, servito a tavola da una cameriera in una sala da pranzo più grande di tutte le case che aveva mai abitato, quella visita mi ave-va fatto piacere. A dispetto della logica, nel mio sfuggire il mondo mi sentivo dimenti-cato. E Molfetta veniva a dimostrarmi che la mia sofferenza era presa nella giusta con-siderazione. Quell’Humpty Dumpty bar-buto, con gli occhi nerissimi sempre accesi come carboni scintillanti, in qualche oscu-ro e poetico modo rappresentava tutta l’A-narchia, con il suo interminabile corteo di eroi e di martiri. Ma adesso, rimasti faccia a faccia, tra noi si era steso un leggero velo di disagio, come ogni volta che qualcuno, che per noi è sempre stato un personaggio, si accosta a noi come una persona. Per noi ragazzini, Molfetta era sempre stato una maschera comica. Gli volevamo bene, ma lo prendevamo in giro appena voltava le spalle. Proprio io ero il più abile nell’imita-

re la sua cadenza pugliese, e i suoi intermi-nabili discorsi sul libero amore e sulla pace perpetua tra i popoli. Ed eccolo qui, inve-ce, di fronte a me, che scrutava la mia ferita mentre si accendeva una delle sue puzzo-lenti Nazionali senza filtro. “Quando torni al circolo? I tuoi amici ti aspettano... siete un bel gruppetto di anar-chici in erba. Io, alla vostra età... ma lascia-mo perdere, lo so che mi prendete in giro per tutte le storie che racconto. Che te ne stai a fare qui, sotto le gonne di mamma? È una donna simpaticissima, e una vera signora, per inciso... ma insomma, mi hai capito.” “Sto un po’ a casa, Molfetta. Presto torno a trovarvi. Ho anche avuto... un po’ da fare.”“Cose così importanti da trascurare i tuoi amici, tutte le persone che ti vogliono bene?”“Ma no, che dici...”“Stammi a sentire: io per queste cose ci sono passato molto prima di te. Non è che

Quell’humpty dumpty barbuto, con gli occhi

nerissimi sempre accesi come carboni scintillanti, in qualche

oscuro e poetico modo rappresentava tutta

l’Anarchia

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per caso, da qualche parte dietro quella fronte sgarata, tu stai coccolando l’idea che le persone che erano con te, quella sera di-sgraziata, non ti hanno difeso abbastanza, non sono stati capaci di capire da che parte eri scappato?”Decisamente, Molfetta conosceva l’animo umano, questo congegno così delicato e così stupido nello stesso tempo. Eccolo lì stanato, e messo a nudo come un ver-me solitario estratto dalle viscere, il vero rancore che nutrivo nel mio isolamento. Sarebbe stato mol-to duro confessarlo. Ma Molfetta non vo-leva confessioni. Le cose sono vere mol-to al di là di quanto e come le confessia-mo. “Fatti dire una cosa, ra-gazzino. I nostri com-pagni sono la cosa più preziosa che abbiamo. Ed è per questo che li vorremmo sempre vicini, quando le cose si mettono male. Ma non possono. Da quello che mi hanno detto, sei rimasto indietro, e poi sei scappato in un cortile chiuso. Sei ri-masto solo.”“Dài Molfetta, inutile rivangare, non è stata colpa di nessuno.”“Non è a me che devi dirlo, ragazzino. Sei tu che stai spargendo colpa come fosse mer-da. Su di te e sugli altri. Ma ogni tanto, nella vita, solo ci rimani. Davvero senza colpa di nesuno, come tu fingi di pensare. Però c’è

anche una cosa buona, in tutto questo. La sai quale?”“No, non la so.”“E allora te lo spiego io. Quando rimani da solo è duro, in tutti i casi. Ma se stai da solo impari l’arte ‒ mi capisci?”“Ma che arte dovevo imparare?”“L’arte di prendere le botte. Non è facile. Non c’è nessun libro che te la può insegna-

re. Me le vorrei essere prese io, che sono vec-chio e coriaceo, le tue. Ma quelle erano per te. E di sicuro te la sei cavata bene: non hai chiesto pietà al nemi-co, non hai tradito te stesso. Sei ancora qui, con la vita davanti.”

Era proprio vero: ero ancora lì, e la vita mi stava davanti, come

se fosse una campagna fiorita, una pista da sci, un’acqua limpida in cui nuotare. Il vecchio Mol-fetta, con la sua visita

così provvidenziale, mi aveva guarito dal dolore di avere imparato qualcosa. Perché quando davvero impari qualcosa, non puoi farla franca: questa cosa ti farà male. E l’u-nica variabile a cui puoi badare, tutto som-mato, è se ne valeva davvero la pena, oppu-re era meglio rimanere ignoranti. Ad ogni modo, il circolo anarchico si sciolse, con-fluendo in una più vasta organizzazione, ma per molti anni non ho perso del tutto di vista Molfetta. Ogni manifestazione, ogni assembramento umano in cui fosse possi-

“Quando rimani da solo è duro, in tutti i casi.

ma se stai da solo impari l’arte – mi capisci?”

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bile distribuire del materiale anarchico, pri-ma o poi lo vedeva apparire, col suo basco e il barbone sempre più candido. Ci appar-tavamo a fumare una sigaretta, a parlare della rivoluzione. Negli occhi dardeggiava-no le stesse braci di sempre. Da una bac-chetta appoggiata alle sue spalle, pendeva il drappo nero degli anarchici, con la sua A cerchiata. È un onore sventolare quella ban-diera. Nessuno degli ideali di quell’uomo si è mai realizzato, eppure ancora oggi pen-so che nulla di più giusto ed utile sia stato

pensato dagli uomini a favore dei loro simi-li. Non ero un intimo di Molfetta, e non so che fine abbia fatto. L’ultima volta che l’ho visto, mi confidò di essere stanco e malato, e di avere voglia di passare gli ultimi tempi al suo paese, in Puglia. Tanti che sono sta-ti giovani a Roma durante gli anni allegri e folli della grande rivolta, si ricordano di Molfetta, del suo basco e dei suoi aneddoti. E non c’è tomba migliore, direbbe lui, che il cuore dei propri compagni, il cuore fiero e generoso degli anarchici.

Emanuele Trevi (Roma, 1964) è scrittore e critico letterario. Ha esordito come autore di narrativa con I cani del nulla (Einaudi, 2003), ha pubblicato per la collana Contromano di Laterza Senza verso (2005), L’onda del porto (2005) e per Rizzoli Il libro della gioia perpetua (2010). Il suo ultimo roman-zo, Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie 2012), è finalista al Premio Strega 2012. È autore di numerose curatele e saggi: fra questi, i volumi Istruzioni per l’uso del lupo (Castelvecchi 1994) e Musica distante (Mondadori 1997). Ha inoltre pubblicato i libri-intervista Invasioni controllate (con Mario Trevi, Castelvecchi 2007) e Letteratura e libertà (con Raffaele La Capria, Fandango 2009). Collabora con la Repubblica, il manifesto, Il Messaggero e Il Foglio. È conduttore di programmi radiofonici per Rai Radio 3. I suoi libri Senza ver-so, Il libro della gioia perpetua e Qualcosa di scritto sono disponibili in ebook da Cubolibri.

Disponibile su www. cubolibri.it

emanuele trevi

Quando davvero impari qualcosa, non puoi farla franca: questa cosa ti farà male.

e l’unica variabile a cui puoi badare, tutto sommato, è se ne valeva davvero la pena.

L’ultimo libro di Emanuele Trevi

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Saggio

di Rolando Damiani

PENsIERI, PAROLE E OPERE DI UN ANARCHICO-bORgHEsE

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gIOVANNI ARPINO «CHICCO INDIVIDUO»

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ochi giorni dopo l’agguato briga-tista a Carlo Casalegno, suo ami-co e vicedirettore alla «Stampa», Arpino pubblicò un articolo co-

raggioso sul ruolo dell’intellettuale, poi raccolto nel quinto volume delle sue Opere edite da Rusconi in una sezione intitolata Autoritratto. Scrisse, guardando di riflesso a se stesso:

L’intellettuale, già. Ma chi sarebbe? Vor-rei citare Carlo Emilio Gadda, che intel-lettuale totalmente fu. Parlando di buon risotto, ci teneva a indicarlo come un cibo composto da «chicchi individui», chiaramente separati l’uno dall’altro. E nel nostro doloroso, forse immondo, «risotto storico», l’intellettuale non può essere altro che un chicco individuo. Non appartiene a una corporazione, non può costituire clan […] Il primo co-raggio dell’intellettuale consiste nell’in-dividuare il male, il bubbone, la piaga e nell’opporsi a coloro che teorizzano o «inventano» il male anche dove non c’è pur di creare falsi scopi e sollevare nuo-vi fanatismi.

Non solo nel modo di pensare e di esse-re ma in primo luogo nella sua natura di scrittore e chroniqueur è stato un «chicco individuo» l’autore presentato da Vittorini nel revers di Sei stato felice, Giovanni (deci-mo dei «Gettoni» apparso nel giugno 1952) come unicamente radicato «nella propria generazione», e già qualche anno dopo capace, poco più che trentenne, di realiz-zare con La suora giovane «un capolavoro» in un genere indefinibile per il fatto stesso di «essere tuttora in fieri», diceva Montale nella recensione sul «Corriere». E un auto-didatta, senza il modello di maestri nep-

pure fra i narratori prediletti alla cui testa c’era Flaubert, Arpino volle fino all’ultimo dichiararsi, talora in “confessioni” come quella annessa nel 1983 al racconto Il viale nero pubblicato dalla SEI. Le diede per ti-tolo Perché ho scelto questo mestiere, imma-ginando di rivolgersi a esordienti nelle at-tività che svolgeva. Si presentò in abito di lavoro, ammettendo di poter fare a tratti «certe cose con pochis-sima fatica». Pressato dal giornale, riusci-va a redigere in mezz’ora articoli magari accolti poi con elogi: durante le Olimpiadi o ai Mondiali di calcio era giunto all’ex-ploit di dettare al telefono un pezzo qua-si di seguito alla conclusione della gara o partita di cui doveva riferire. Al contrario ogni storia per un romanzo o un racconto lo obbligava a lunghe riflessioni e a uno stato fisico alterato: era come se la tempe-ratura gli salisse «intorno ai 40 gradi» e di conseguenza, alla maniera di un malato, si chiudeva in se stesso, diventava assente, taceva con tutti delle sue immagini menta-li. Non era reticente nel dichiarare in quali condizioni scriveva, ma consigli o ammo-nimenti era certo che da lui mai sarebbero arrivati per un motivo spiegabile in breve:

Nessun scrittore vero può dar consigli su come e perché e cosa scrivere a chi gli domanda: vorrei scrivere, mi aiuti. Non c’è aiuto che tenga. Uno scrittore si alleva da solo, e mentre sta allevan-dosi neppure se ne accorge. […] Qual-cuno disse che la vita è un compito da affrontare in piedi. E così è lo scrivere. Chi non sa scrivere in piedi, moralmen-te parlando, è uno che imbroglia, un fa-cilone che bracca il successo e non la ve-rità dolente ma sovrana della Scrittura.

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A Bruno Quaranta doveva ripetere, negli ultimi mesi che gli restavano, una convin-zione già fissata in gioventù:

Non ho mai voluto né potuto conside-rare un vivente come un maestro. Ho sempre obbedito a me stesso, all’impe-rativo categorico avvertito sin da picco-lo: essere scrittore. Il mio mestiere (am-messo che lo sia) sfugge ai consigli. Non c’è aiuto che tenga: il narratore di storie si alleva da solo (o non esiste). Piutto-sto, lungo il cammino verso la maturità (l’ossessione di Pavese) mi hanno ac-compagnato «maestri di libro», con cui via via mi sono misurato, talvolta con-cordando. Altre no.

In questa lunga intervista destinata a usci-re postuma nel volume di Quaranta Stile Arpino. Una vita torinese (SEI, 1989) preferì guardare a giornalisti più che a narrato-ri nel riconoscere un affine per tempera-mento e fece il nome di Montanelli, che lo

aveva accolto al «Giornale» dal novembre 1979 perché vi scrivesse un po’ a suo pia-cimento. Si spinse a definirlo «un fratello, talvolta molto più giovane e impulsivo» di lui stesso:

Apparteniamo, pur venendo da radici ed esperienze diverse, alla razza de-gli anarchici-borghesi, una definizione che piaceva a Prezzolini ma inventata nientemeno che da Jean Gabin. Siamo moderni, europei veri, con retaggi ri-sorgimentali, con un certo senso dello

Stato, con un pessimismo della ragione correggibile solo attraverso il dovere (il quale, nella nostra inguaribile stolidità, non ci «fa fatica»).

La sembianza di anarchico-borghese era stata assunta da Arpino sin dai primi rac-conti ed esibita in Sei stato felice, Giovanni, il suo «gettone d’esordio picaresco, anar-chico, corsaro», come amava chiamarlo. Non l’avevano mascherata neppure le raf-finatezze della Suora giovane, «deliziosa» trama all’insegna dell’«arte per l’arte», se-

Il film Profumo di donna tratto da Il buio e il miele

“Qualcuno disse che la vita è un compito da affrontare in piedi. e così è lo scrivere.”

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condo Montale. Viaggi con spirito ribelle e improvvise partenze e dissimulazioni sono già temi costanti in queste opere gio-vanili ed egli stesso nell’avventura innan-zitutto di scrittore dovrà di volta in volta ripartire, cargar la suerte (espressione da lui spesso citata quasi come un proprio stem-ma araldico), bruciare i vascelli alle spalle, essere molteplice e versatile sino a rendere inafferrabile la sua fisionomia. «Si direbbe ch’egli diffidi delle qualità che farebbero di lui un narratore lirico, senza program-mi e intenzioni, un narratore, absit iniuria, “puro”», scrisse in un’altra occasione Mon-tale al suo riguardo, imputandogli un ec-cesso di capacità come «evidente ostacolo». Era del resto un piano per l’intera esistenza annunciato da una po-esia dell’aprile 1946, Vita d’uomo, posta in apertura di Dov’è la luce?, la plaquette liri-ca che aveva pubblica-to a diciannove anni, prima di sperimentare la vastità del mondo: «Io vivo in un deserto. / Talvolta solo la mia ombra / è accanto a me, distesa. / E nul-la attorno […] / Poi il deserto si popola / diventa moltitudine: / tutti gli uomini en-trano in me. / E su di essi scorre il mio sguardo / e in ogni sguardo / si ritrova. / Solitudine e folla: / ecco cos’è / la mia vita». Nella sua stagione ulteriore, dopo successi e premi (fra i quali lo Strega nel 1964 per L’ombra delle colline) non era mutata l’incli-nazione a introiettare il mondo in se stesso sino allo smarrimento dei lineamenti del proprio io, come mostravano i versi beffar-

di di Promemoria della raccolta Fuorigioco uscita nel ’70: «Non chiedere di me, io non ci sono, / non vedo, non capisco, non perdo-no, / non sento, non ribatto, non appaio / là dove sembro, non mordo, non abbaio. / Quello che è stato è stato e mi condanna / quello che ho avuto ho avuto e non è man-na / quello che ho perso è mio e mi ci stra-zio / non ho più fame ma non sono sazio». Fughe dagli altri e anche da sé si repli-cano nella narrativa di Arpino: scappa e si nasconde nella genovese via di Prè il «Bello» alter ego dell’autore nel romanzo inaugurale, e di nuovo alla fine dell’azzar-do vissuto si trova davanti a un treno e a

un’altra meta possibile; come pure il ragionier Mathis dopo l’incontro con i genitori di suor Serena in cui culmina la sua detection amoro-sa, controlla alla stazio-ne di Mondovì i cartel-loni degli orari e vede che «una riga d’unto» rende illeggibili i nu-meri delle partenze per Torino, mentre «è lin-

do, senza uno strappo» il manifesto in cui sono indicate le corse da Torino a Milano e da lì a Ferrara, dove Serena ha chiesto di essere trasferita. In modo analogo vagabonda da Torino a Napoli con un giovane militare nel ruolo di succube attendente il cieco capitano Fau-sto, protagonista di Il buio e il miele (portato sugli schermi da Risi in Profumo di donna e poi riadattato nel remake di Martin Brest), con la mira di unirsi in uno spettacolare e duplice suicidio al commilitone vitti-ma del suo stesso incidente alle manovre. Piglia il volo verso un luogo misterioso a

“Arpino, in Sei stato felice, Giovanni, ha voluto

raffigurare l’alternativa radicale alla poetica neorealista, un’altra

prospettiva, un modo totalmente diverso di

proporre, nella letteratura, la vita”

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conclusione delle sue prodezze “Domingo il favoloso”, primattore nel romanzo pub-blicato dapprima a puntate sulla «Stam-pa» dal dicembre 1973; e anche Saverio Piumatti nel Primo quarto di luna del 1976 evade dalla società volendo un giorno, con la fermezza di un rinunciante, mettersi a letto e non alzarsi più, per scomparire in-fine nella forma di una labile «macchia sul muro» o di «disegno fra le nuvole». E dalla sua stanza di malato dove sta per entrare Madama Requiem fugge il vecchio Berto-la, emerito di Matematica, sfidando l’igno-to per le strade di una Torino sconsolante e autunnale, simile a una terra desolata. L’aforisma in apertura del romanzo, scrit-to con «incerta grafia» sulla lavagna e «oc-chieggiato» dall’allievo Carlo Meroni con cui il professore si incontra per dialogare e giocare a scacchi, «La vita o è stile o è errore», può dirsi un “pensiero” un po’ da moralista francese di Arpino, colpi-to durante la stesura di Passo d’addio nel 1985 dal verdetto di «giudici velati e cru-deli» (quali gli erano parsi nel settembre del medesimo anno gli oscuri deliberatori della morte di Italo Calvino, suo confrère pur differente da lui per specie come «un uccello e un rinoceronte» o «un coccodril-lo e una tartaruga»). Mentre raccontava di

Giovanni Bertola invalido alla vita, Arpi-no già pativa nel suo organismo i sintomi di una malattia incurabile. Stava per chiu-dersi il cerchio della sua narrativa in una saldatura con i geniali inizi ed egli anche per proprio conto rifletteva nei termini at-tribuiti sul finire del romanzo a Meroni:

Pensò a quell’illustre letterato argen-tino che aveva detto: «io so di un labi-rinto greco che è un’unica linea retta. In questa linea unica e retta si sono perdu-ti tanti filosofi». Ma uno scienziato gli aveva risposto: «è vero, però con l’aiuto di Dio il matematico non si smarrisce». L’aiuto di Dio, e già. Se Dio vuole. Se Dio si degna. Se non gioca ai dadi. Al-trimenti rimane quella linea unica, ret-ta, labirintica ma retta, che Meroni intuì come immediato avvenire, il rasoio su cui camminavano intrecciate la vita sua e quella del professore. Solo la fuga po-teva evitargli d’affrontare la soluzione a cui portava il labirinto della linea retta…

Per una via retta e labirintica Arpino torna sui propri passi compiendo quello “d’ad-dio”. È un uomo solo il vecchio Bertola, desideroso di una morte per eutanasia quando sia un organismo allo stato vege-

Le colline nei pressi di Bra

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tativo, perché si ribella alla meccanica ca-duta delle gocce di vita dalla strettoia di una clessidra in alto ormai vuota. Al limite opposto dell’esistenza si specchia nel gio-vane stirneriano che sfida la sorte per una «felicità da coltello» in una Genova del do-poguerra vista nei suoi angoli di casbah o di “Quai des brumes”. Da qui era sboccia-ta la poetica di Arpino «chicco individuo», mantenuta “rettamente” pur nel labirin-to di deviazioni affrontate per il rischio e l’avventura in territori ideologici o in parti-bus infidelium, per così dire, come accadde per i romanzi Gli anni del giudizio (Einaudi, 1958) e Una nuvola d’ira (Mondadori, 1962) degno tuttavia di sembrare a Borges una «storia buenosairense». Per riconsiderarlo nella sua specie natu-rale di scrittore e nella sua singolarità di «chicco individuo» bisogna ripartire dal primo romanzo, dono di una giovinezza d’eccezione, sul quale si diffusero subito dei malintesi. Fu letto di norma, per l’aval-lo di Vittorini, da una visuale neorealisti-ca, forzatamente limitata dinanzi agli oriz-zonti dischiusi dall’idea in esso espressa che «la felicità è nell’avventura, in una vita senza rimorsi che inizia e termina e muore ogni giorno: ogni giorno una nuova vita, nell’attesa di nuove guerre, pesti, terre-moti, e nell’ingenua speranza che il vuoto morale si riempia da sé». Dal coro spicca-va nel 1952 la voce di un solista, “felice” di

una gioventù fine a stessa, estraneo a pre-cetti vincolanti, «corporazioni» e «clan». C’erano la forza e la sprezzatura dell’out-sider, quasi venuto dal nulla, nel suo gesto iniziale e programmatico che rovesciava come un castello di carte tutta l’impalca-tura teorica del neorealismo. Barberi Squa-rotti disse al momento di raccogliere il ro-manzo nell’edizione delle Opere:

Arpino, in Sei stato felice, Giovanni, ha voluto raffigurare l’alternativa radica-le alla poetica neorealista, un’altra pro-spettiva, un modo totalmente diverso di proporre, nella letteratura, la vita: un’idea dell’essere come avventura dei sensi e dell’anima, il cui significato mo-rale sta nel fatto che tutto ciò che il pro-tagonista sperimenta e compie è senza inganno e senza frode, e ha la purezza un poco irresponsabile, ma mai menzo-gnera, del giovane «divino», che passa fra le cose e gli uomini senza lasciarse-ne mai troppo coinvolgere, pur con il rispetto che a tutti si deve.

Due istantanee autobiografiche danno at-tendibilità all’immagine di Arpino che passa agile fra cose e uomini e all’altra fi-gura del fautore di un agire con purezza e onestà. Di sé al tempo delle riunioni di cellula all’Einaudi parlò nell’intervista di Quaranta:

“cinquantanove anni e tre mesi; mai compiere i sessanta, o almeno

ritardarli barando senza requie”

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Rolando Damiani insegna Letteratura italiana a Ca’ Foscari. Di Giovanni Arpino ha curato le Opere scelte nei «Meridiani» (Mon-dadori 2005). Nella medesima collana ha pubblicato le Opere di Giovanni Comisso, un Album Leopardi e, fra il 1988 e il 2006, dello stesso Giacomo Leopardi le Prose, lo Zibaldone e le Lettere. Da Mon-dadori è anche uscita una sua biografia di Leopardi, All’apparir del vero, che ha avuto di recente un’edizione francese (Silvia, te souvient-il?, Allia, Parigi 2012).

Rolando Damiani

Quasi ogni sera si svolgeva la riunio-ne di cellula. Vi partecipavano tutti i redattori, meno il sottoscritto, che non ha mai aderito a un partito. […] Il clima in breve si surriscaldava, grondavano i cerebralismi, si spremevano i sacri testi. Erano il miele e il fiele di casa Einaudi. In essi venivano riposte le speranze di ordinare finalmente il mondo e di risi-stemare, se possibile, il paradiso.

Nell’inverno 1985 si trattava invece per lui di spiegare a un pubblico svizzero, rispon-dendo all’interrogativo Insegnare il giorna-lismo?, il senso che dava al suo “secondo mestiere”. Citò una massima sapienziale già conveniente al suo doppio del debut-to romanzesco e valida ancora per quanto scriveva:

«Tutto quello che fai, fallo con gioia», dice la regola di un certo ordine religio-so. A me, laico anche se tentato, quan-do manca la purissima gioia spetta il compito di «fare» con buona volontà.

E almeno questo spero che sia stato capito dagli amici italo-zurighesi (che pur qualche umana «gioia» me l’hanno data).

Sin dall’archetipo narrativo gioia o felicità erano state congiunte alla gioventù come stagione esemplare della vita e stato prima-verile dell’anima. Nel romanzo postumo, La trappola amorosa, il protagonista Giacomo Berzia che ha lo stesso cognome del leggen-dario nonno artefice della villa sulle colline di Bra dove Giovanni trascorreva da ragaz-zo l’estate, dichiara spavaldo a quali «ordi-ni» unicamente si attiene: «Cinquantanove anni e tre mesi; mai compiere i sessanta, o almeno ritardarli barando senza requie». Il confine dei sessanta era stato varcato da Arpino nel gennaio 1987 e pochi mesi gli re-stavano per barare sulla propria età, per ot-temperare alla promessa del distico in epi-grafe alle poesie del Prezzo dell’oro dedicate alla moglie Rina quando entrambi erano giovani: «Vedrai rinnovarsi in più tempi / la mia giovinezza ostinata».

Anticipazione

16 giugno 1969: una visita di Juliana d’olanda muta per sempre il destino di una famiglia

di Gerbrand Bakker

Pubblichiamo, in esclusiva per i lettori di PreTesti, un brano del libro Giugno (Iperborea, 332 pagine, 17 €), in libreria dal 2 luglio.

LA CAREzzADELLA REgINA

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rima di salire, la regina si guar-da intorno. Ci sono bandiere che sventolano quasi a ogni casa e, parcheggiato di traverso, sull’al-

tra spon da del grande canale navigabile che divide in due il paese, vede di nuovo il furgone scintillan te. Solo ora si doman-da perché sia fermo lì. O la zona servita dal fornaio è così piccola che se la cava in una mattinata? La gente si allontana dal la Pol-derhuis, si volta anco-ra a guardare, senza però accalcarsi intor-no all’automobile. Ognuno torna alle sue faccende quotidiane, i bambini saranno forse già seduti ai banchi. No, avranno avuto va-canza nel pomeriggio, oggi è giorno di festa. Forse c’è una piscina nel paese. Poi la re-gina vede una giovane donna arrivare quasi di corsa, controcorren-te rispetto al fiume di folla che si assottiglia. Ha in braccio una bambina, fa fatica a camminare perché con l’altra mano tiene la bicicletta. Ah, qualcu-no che è in ritardo. Che arriva di corsa per poterla vedere, anche solo di sfuggita. Lei fa un cenno all’autista e si dirige verso la donna, con la coda dell’occhio vede che la Roëll la segue. “Che cosa fa?” le chiede la sua segretaria personale.Lei non risponde, aspetta la donna.“L’ora, dobbiamo tenere d’occhio l’ora”, dice la Roëll.

Ora la donna le è di fronte, ha il respiro un po’ affannato dalla corsa.“È uscita di casa tardi?” le domanda la re-gina.“Sì. Io...”“Che amore di bimba. Come ti chiami?”La bambina, che avrà al massimo due anni, la fissa con grandi occhi azzurri.“Allora, come ti chiami?”

“Anne”, farfuglia la piccola.“Hanne”, la corregge la madre.La sovrana si sfila il guanto destro. “Non è facile dire la ‘h’.” Ca-rezza la bambina sulla guancia. Lei si spaven-ta e nasconde il viso nel collo della madre. “E lei è?”“Anna Kaan, signora.”Toh, questa donna sa come le piace essere chiamata. “Il tempo è volato più del previsto stamattina?”La donna la fissa. Il suo

sguardo spaventato cede il posto a un sor-riso. Non risponde. La bi cicletta che aveva appoggiato al fianco scivola lentamente per terra e sbatte contro l’asfalto.La regina protende d’istinto entrambe le mani.“Non è niente”, dice la donna.“Dobbiamo andare”, interviene la Roëll.Intanto i fotografi continuano scattare, la regina non li vede, li sente. Fastidiosamente vicini. Fuori programma della sovrana. Un al-tro possibile titolo per i giornali di domani.

La re gina vede una giovane donna

arrivare quasi di corsa, controcorrente rispetto al fiume di folla che si

assottiglia

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“Ha sentito?” dice rivolta alla donna. “Dob-biamo andare. Ciao Hanne.”“Buongiorno, signora. E molte grazie.”“Per cosa?”“Perché si è presa il disturbo…”“Nessun disturbo”, dice lei. Quando si vol-ta, non c’è la Roëll, ma Jezuolda Kwanten alle sue spalle. Vicinissima. Sente il suo ali-to caldo lambirle il viso. È come se la suora volesse cat turare ogni poro, ogni imperfe-zione della sua pelle. Perché la sua «testa in bronzo» risulti più fedele possibile. La suora dell’Ordine delle So relle della Carità si sposta di lato e la segue a un passo di di-

stanza fino alla macchina.Lei accenna un ultimo saluto in direzione del portale della Polderhuis, dove il sindaco e sua moglie aspettano compiti. Poi le por-tiere si chiudono. Prima ancora che l’auto si metta in moto, la Roëll ha già ripreso in mano tut te le sue carte, tra cui rovista con una certa impazienza. La regina accende una sigaretta. L’auto svolta a destra e pro-cede con estrema lentezza verso la perife-ria del paese. Guardan do alla sua destra la regina vede un cimitero, proprio dietro la Polderhuis. Cosa di cui prima non si è accor-ta e a cui nessuno ha fatto cen no. Superano un acquedotto e un’idrovora. All’estrema periferia del paese c’è un mulino sotto un argine.“Quelle caprette”, dice la Roëll.“Sì?”“Come si fa a fare una cosa simile?”

“Perché?”“Con tutto il rispetto, ma delle capre!”“Sì?”“Come ci arrivano a Soestdijk?”“Ha già provveduto Van der Hoeven.”“E quella tizia con la bambina.”“Era in ritardo, può capitare a tutti.”“Può anche lasciar perdere cose del genere.” “Ma io non voglio lasciarle perdere. È stato bello, no? Per lei, per la bambina. Non di-menticheranno mai questa bella giornata di giugno piena di sole.” Aspira una boccata di fumo. “Non che io lo faccia per questo, ovviamente.”

La Roëll stringe le labbra e si concentra sul-le sue carte.“Provi a mettersi nei panni degli altri, per una volta. Che differenza vuole che faccia-no quei pochi minuti?”La sua segretaria personale non risponde. “Milleottocentoquarantasei”, dice poi. “Il pol der porta il nome della consorte di re Gugliel mo II.”“Questo non ha bisogno di dirmelo. Come si chiama il prossimo sindaco?”“Warners.”“E cosa prevede il programma?”“Una dimostrazione di sci nautico. Oggi po meriggio alle due e mezzo. Al Vecchio Pontone.”“Ah sì?”“La quarta prova è sci a piedi nudi.”La regina spegne la sigaretta e rinfila il guan to destro. Guarda fuori dal finestrino.

“È stato bello, no? Per lei, per la bambina. Non dimenticheranno mai

questa bella giornata di giugno piena di sole.”

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Anche qui il paesaggio è leggermente di-verso rispetto al comune precedente. Stra-de diverse, fattorie diverse, meno prati. Fosse già passata quella sto ria dello sci nau-tico. Ci saranno vecchi anche lì. Fosse già passata anche la visita a Den Helder. Non vede l’ora di essere a bordo del Piet Hein, sono mesi che non mette piede sullo yacht. Il legno di pero lucido, le poltrone Rietveld fode rate di verde, i letti a castello. «Papi» forse in quello superiore. E altrimenti una chiacchiera ta tranquilla, davanti al mobi-le bar aperto, con Van der Hoeven. E do-mattina magari un giret to con lei al timo-

ne, o comunque al fianco del comandante. Tra due mesi qualche altro giorno a bordo, per la parata della Marina durante le Gior-nate della Pesca a Harlinger. “Sciare a pie-di nudi”, mormora. “Ma come vengono in men te alla gente certe idee?”

gerbrand bakker

Gerbrand Bakker, nato a Wieringerwaard nell’Olanda del Nord nel 1962, ha studiato Letteratura Nederlandese prima di diventa-re doppiatore di documentari naturalistici, autista e giardiniere. C’è silenzio lassù (pubblicato in traduzione da Iperborea nel 2010) è il suo primo romanzo. Premiato con l’IMPAC Dublin Literary Award, il Prix Initiales 2010, il Prix Millepages 2009, il Gouden Ezelsoor, il Debutantenprijs, è stato un bestseller in Olanda, tradot-to in dieci paesi (tra cui Francia/Gallimard, Germania/Surkhamp e Inghilterra/Harvill Secker). Nel 2010 è stata realizzata la ridu-zione cinematografica.

Tratto da Giugnodi Gerbrand Bakker (Iperborea)Traduzione e postfazione di Elisabetta Svaluto Moreolo© 2009, Gerbrand Bakker e Uitgeverij Cossee BV© 2012, Iperborea S.r.l.

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l primo appuntamento è alle otto del mattino davanti alla Coop di via Veneto. Si presenta un ragazzo con la faccia larga e simpatica.

Ha il fiatone e mi fa: “Buongiorno, scusi il ritardo.”“Buongiorno.”“Vado subito al dunque: il bilocale per cui ci ha chiamato è in questo palazzo. È abita-to da un professore di origini rumene e sarà libero in due settimane. Le confermo…” scartabella fogli stropicciati, “che è arreda-to in ogni sua stanza.”Gioisco: il giorno prima avevo contattato un’altra agenzia per avere dettagli su un annuncio che parlava di un bilocale arreda-to ed era andata così.

“C’è solo la cucina,” aveva esordito l’agen-te del franchising. E io: “Scusi, ma allora non è arredato.” “Be’, mi permetta, non è nemmeno vuoto”. Incredibile, vero? Avevo perso il pomerig-gio in altre telefonate dello stesso tenore.Ma forse adesso ci siamo, mi dico mentre saliamo in un minuscolo ascensore.Intanto penso a Ceausescu, a quante vite consumino le case, e a come quattro mura contengano romanzi.Il trabiccolo timbra piano dopo piano e l’a-gente mi fa: “Spero che lei non abbia pro-blemi per il fatto che…” “Che?”“Ci siamo capiti.”“Cosa intende?”

di Marco Archetti

Racconto

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bILOCALE ARREDATO

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“Be’, che il signore…”“Il signore?” “Voglio dire, è rumeno.”“E allora?”“Non le da fastidio?”“No.”“Però è una brava persona.”“Le dico che non mi da fastidio.”Sbarchiamo all’ultimo piano – il sesto.La brava persona ci accoglie sul pianerotto-lo: settant’anni, pantofole sformate, cardi-gan verde marcio. Poco incline alla socializzazione, con le sue grandi, fosche sopracciglia, ci fa cenno di entrare. “C’è un po’ di disordine,” dice, “ma tanto è per farvelo vedere solo cinque minuti, no?”Le cattive premesse c’erano tutte: per esem-pio, la moquette del corridoio era rosso uc-cello.Ma deglutisco e mi dico: pazienta, è intera-

mente arredato – cosa fondamentale – e poi dai, questo è solo l’ingresso.Quindi alzo gli occhi. Le pareti del corridoio sono giallo senape.Dilato le narici: l’odore che ristagna, se anch’esso lo potessi esprimere con un colo-re, direi essere grigio tortora – la tortora non bisogna immaginarla viva, ovviamente. Così mi guardo intorno sempre più scorag-giato, la sensazione è che quella casa abbia trattenuto secoli di ombra.

Chiedo di vedere la cucina.L’agente si fa strada e me la mostra – picco-la, piccolissima.Poi c’è un salotto molto ampio che si apre come un ventaglio, dotato di una grande vetrata.Penso: finalmente la possibilità di un’oc-chiata spaziosa, vasta, panoramica.Peccato solo che anche il salotto esali un’es-senza macabra e obitoriale.Il balcone sembra davvero l’unica salvezza. La vista? Notevole.Restiamo appoggiati alla ringhiera a chiac-chierare un po’.Ho già deciso che sarà un no, ma c’è ancora la camera da letto. Mi chiedo: si può ruzzo-lare ulteriormente in basso?Si può.Il letto è sfatto, spanciato. Le lenzuola attor-cigliate come liane, rovesciate di lato.Finestra chiusa da secoli, anche qui.

Lo scendiletto è un tappetino nero, di pla-stica, da interno auto.Mi mostrano il bagno: piastrelle bordeaux, a rombi verde acido.Ringraziamo il professore e ce ne torniamo giù, condividendo un secondo viaggio in ascensore. È lui, l’agente, a parlare per primo. “Io… Be’, sa… non l’avevo mai visto, questo ap-partamento.”“M-m.”

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dilato le narici: l’odore che ristagna, se anch’esso lo potessi esprimere con un colore, direi essere grigio tortora – la

tortora non bisogna immaginarla viva, ovviamente

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“Insomma, credo che ne dovrò parlare in agenzia perché… va bene tutto, ma… dicia-molo: fa proprio schifo.”Io sorrido. “Più che altro mi aspettavo qual-cosa di meno triste. Ma pazienza.”“La vista era bella, però.”“Bella, sì.”“Ma non è che uno vive in terrazzo, no?”“No, infatti”.“…”“…”“Ecco, signor Archetti, come vede, questo è il mio lavoro.”“Non è facile, vero?”“No. È proprio difficile.”“E scusi, non trova altro?” “Sono laureato in Filosofia.” “Immagino. Be’, arrivederci.”“Arrivederci.”“E buona giornata.”“Faccia un po’ lei.”

Il secondo appuntamento è alle quattro del pomeriggio. Aspetto il mio uomo e passeg-gio sotto il portico di un condominio altissi-mo, costruito negli anni ’60, schietta archi-tettura sovietico-lombarda.Passa una ragazza brutta che porta il cane a pisciare.Un vecchio entra al bar e si appende a una slot di donne nude. Un tizio in cappotto, seduto all’aperto a bere, sembra Enrico Maria Salerno in “Ano-nimo veneziano”. La giornata è grigia; tra poco farà buio su questi caseggiati bulgari, sulle massicciate di cemento senza speranza, sul brullo par-co giochi in cui una badante biondastra sta

facendo deambulare un’anziana in tuta co-lor pesca.Ma una musica alta si preannuncia in lon-tananza.Un martellamento da discoteca.Ed ecco che il mio anti-Godot balza giù dall’auto: camicia di quelle col colletto di un colore e il resto di un altro, giacca grigia, ciuffo che spiove sugli occhi, calzoni grigi anch’essi, a metà caviglia, e mocassini neri a punta.“Ciao grande, come stai?” e mi porge la mano. “Sei Archetti, giusto? Bene, dopo di te ne ho altri sette.”Suona un campanello.Mentre saliamo mi sommerge di chiacchie-re su quello che chiama il contesto, molto tranquillo, come posso vedere – lo vedo? Quindi mi presenta la proprietaria, sosia di Jessica Fletcher, che viene ad accoglierci sul pianerottolo, pigolando.“Signora Maddalena!” sbraita l’agente ab-bracciandola.La signora Maddalena lo bacia, gli da una pacchetta sul di dietro e mi chiede: “Lei si chiama?”Ma non mi ascolta; con un gesto un po’ ami-chevole e un po’ autoritario mi abbranca e fa: “Se permette, le spiego tutto io. Questa è la cucina.”Niente di realmente depressivo, a guardar-lo così. Ma se si aguzzava la vista, risultava chiaro che i mobili erano scollegati stilisti-camente – il classico tentativo di concilia-zione tra avanzi eteroprovenienti.La vecchia prosegue: “Qui c’è la lavastovi-glie… Vede? Poi il suo bel lavello… E que-sto è il frigor. Le piace?”

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“Non male.” “Lo credo bene. Io e mio marito ci siamo detti: perché non ren-dere bella una casa, anche se ci deve abi-tare una persona che non conosciamo? In ogni caso, conoscia-moci un po’: come mai non è sposato?”“Ma… Non so… Per-ché lo vuol sapere?”“Ho notato che non ha la fede. Poi sa, io le of-fro un appartamento con tutti i confòr ed è ovvio che lei debba ri-spondere alle mie do-mande.”“Be’, non sono sposa-to perché… non sono sposato.”Il giovane agente, alle spalle della vecchia, fa silenziosi segni di non poterne più, dap-prima mimando uno che trasporti con una carriola i propri testicoli, quindi inscenan-do una sbrigativa autocrocifissione all’at-taccapanni.Io rilancio: “Se le può andar bene, signora, sono fidanzato.”“Uff… Chi non è fidanzato, al giorno d’og-gi? Passiamo al salotto, che è meglio.”Ma no, il salotto non era meglio.Tuttavia lo presenta così: “Questa è la sala di rappresentanza.”Quindi tira dritto verso l’immensa porta-finestra, conta fino a tre, solleva la tappa-rella – il coup de théâtre della visita – e fa:

“Guardi che popò di vista. Guardi. Dove la trova una vista così?”Tutto è grigio topo: pa-noramica su un parco giochi da “Decalogo” di Kieslowski e il tor-reggiante, minaccioso pinnacolo di un ince-neritore.“È rimasto senza pa-role? Non se l’aspet-tava eh? Ah, e poi dia un’occhiata qui.”E passa a dettagliarmi, di quel salotto di rap-presentanza, mobile per mobile; a un certo punto impernia tutto il trallallà su una tova-glietta di viscosa rosa salmone a losanghe crema, che ricopre un

mobile color martora che aveva bisogno di tutto tranne che di ulteriori insolenze este-tiche. Poi si interrompe e mi fa: “Scusi se torno sull’argomento, ma… Ha detto fidanzata, vero?”“Sì.”“Fidanzat-a?”“Sì. Fidanzat-a.”“Ah, ecco. Sennò non se ne parlava nem-meno.”La camera da letto è anch’essa arcaica e buia, satura di afrori etruschi.Poi la visita finisce e la vecchia dice: “Mi ha fatto una buona impressione, glielo devo dire.”

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Scendo le scale e immagino la mia vita lì – ma non posso, non me la

sento.

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Non penso la stessa cosa, né di lei né della casa.Scendo le scale e immagino la mia vita lì – ma non posso, non me la sento.Il giovane agente, trotterellandomi accanto, mi pressa: “Come ti è sembrata? Secondo me ti è piaciuta molto.”“Mah. Ci devo pensare.”“Non ti è piaciuta?”“Forse no.”“Be’, l’avevo capito subito che non ti era piaciuta. E non ci crederai, ma… ta-da-dà! Ho una cosa che fa al caso tuo. Molto più di questa catapecchia.”“In che senso?”

“Guarda, te ne parlo in via del tutto confi-denziale.”Arriviamo da basso.Fuori imperversa il classico, scoraggiante buio novembrino.Lui mi tira in un angolo e bisbiglia: “C’è questo posto… una specie di loft… In via… dunque, vediamo… Lombroso.

Via Lombroso, sì. Una perla. L’arredamen-to è recente. Che dici? Come la vedi? A me puoi dirlo. Allora?” “Non saprei. Sempre su questo prezzo?”“Poco di più. Ma poco. Però tieni conto di una cosa. Questo posto ti rappresenta alla grande.”“Cioè?” “Cioè, prendi punti. Tipo che una ci entra, ti salta addosso e… zam zam! Ci siamo capiti.” Mi affibbia una pacca sulla spalla più forte di quel che avrei desiderato e andandosene fa: “Chiamami domattina, mi raccomando.” Salta sulla Mini, fa un saluto dal finestrino, e in un energico pulsare hip hop vola via.

Il terzo appuntamento è la mattina succes-siva. Con me c’è un’agentessa bionda e sbri-gativa – secca, dritta, capelli corti, vestita di pelle rossa, tacchi alti, sessant’anni.Il palazzo è nello stesso quartiere in cui sono nato.Ci fermiamo davanti a una porta sottilissi-ma di legno bianco; in cima, a sbavare di luce morta il pianerottolo, una lampadina a forma di pera. Poi guardo meglio: la porta stessa non è un pezzo unico, ma è composta da due grandi fasce di legno tenute insieme da una zeppa di compensato inchiodata di traverso e crivellata in basso da decine di puntine da disegno.La bionda, inspiegabilmente seccata men-tre cerca le chiavi e le fa rullare nella serra-tura, dice: “Se le dà fastidio, possiamo far mettere tutto a posto, eh.”“Grazie, per fortuna l’ha detto lei. Una porta così non è il massimo.”

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“Intendevo la lampadi-na.” Entriamo.L’appartamento è simi-le a una grande came-ra di motel sulla statale in cui, nell’immagina-rio caro a certo cinema horror, si consumano delitti feroci ad opera di taciturni e rabbiosi disadattati coi capelli a spazzola.Neon nel corridoio, che balbetta su una cucina angusta.La moquette, per dirla col Della Casa, putisce.Il frigorifero è un vec-chio frigo da roulotte incastrato in una sede che non è la sua, inchio-dato in un vano che la-scia ampi vuoti laterali in cui, a una superfi-ciale indagine, riscon-tro forme biologiche che non primeggiano nella tassonomia universale; ma il gioiello è la figurina appiccicata sullo sportello, un po’ opaca e un po’ grattata via, di Geróni-mo Barbadillo, Avellino, stagione calcistica 1983/84.Il salotto ha poltrone che non solo sembra-no unte, ma lo sono davvero.L’aria è quasi farinosa, talmente zeppa di polvere da sembrare velata di fumo.Il rapido tour prosegue al bagno, diviso in due parti: in una, vasca e bidé; nell’al-

tra, lavandino e water. Mi figuro grotteschi trasferimenti dall’una all’altra parte, talvolta reggendomi un asciu-gamano intorno a un fianco, talora a braghe calate.I rubinetti perdono tut-ti, rintoccando il conto alla rovescia per il mio suicidio.Poi l’agentessa mi ri-chiama in soggiorno.Ritta vicino alla fine-stra, solleva al massi-mo la tapparella del decadente corridoio e con legnosa assenza d’ironia, aggiunge ci-liegine a una torta che vede solo lei.Si bilancia su un tacco e proclama: “Le faccio notare che in questo spazioso appartamen-to sono ben tre i pregi

piuttosto rari altrove. Innanzitutto, il balco-ne.”Pregio che però si presenta sotto le mentite spoglie del difetto: una lingua di cemento stretta e spavimentata, che corre dalla stri-scia di Gaza del cucinino fino al salotto, dove finisce in un rovinoso cumulo di ciottoli. Secondo pregio: “Vogliamo trascurare l’a-ria condizionata?” No. Almeno quella, non trascuriamola. Anzi, trascuriamola meno dell’intonaco del

l’appartamento è simile a una grande camera di motel sulla statale in cui, nell’immaginario caro a certo cinema horror, si

consumano delitti feroci ad opera di taciturni e rabbiosi disadattati coi

capelli a spazzola

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Marco Archetti è nato a Brescia nel 1976. Ha scritto cin-que libri, caratterizzati da una felice mescolanza di generi. Tra questi, ricordiamo: Maggio splendeva (Feltrinelli 2006), romanzo fantastico ambientato nel ventennio fascista che parla di un ragazzino in possesso di poteri paranormali; Gli asini volano alto (Feltrinelli 2009), romanzo comico sul viag-gio picaresco di due fratelli; Sabato, addio (Feltrinelli 2011), noir teso e cupo che narra una vendetta e una storia d’amore

impossibile: i protagonisti sono Filippo, uomo senza donne, e Marlén, una ballerina bellissima. Ha collaborato al soggetto del film Tutta colpa di Giuda di Davide Ferrario. Suoi reportage sono apparsi su “Vanity fair”, “D-Repubblica”, “Vogue”. Scrive per il “Corriere della Sera” (pagine di Brescia) e ha una rubrica intitolata L’infiltrato speciale. (Altre informazioni sul sito www.marcoarchetti.it.)

Marco Archetti

soffitto e della sua lunga sindone di umido a forma di Gesù Cristo crocifisso. Terzo: “Non dimentichi il ripostiglio!” Certo, il ripostiglio. Col retrogusto di cani-le. E che contiene, misteriosamente, un vec-chio bidé zampe all’aria.Mentre riabbassa le tapparelle, conclude: “Bene, andiamo sul pratico: quattro mesi anticipati, non i soliti tre – sa, la padrona ci tiene. E poi scusi, signor Barchetti, ma lei ha un lavoro?”“Sì, certo.”“E che lavoro fa?”“Scrivo.”“Dicevo lavoro.”

“Scrivo ed è il mio lavoro.”“Busta paga che lo dimostri, grazie. La pa-drona valuterà.”E se ne va così, disseminando il vano scale dei suoi tacchi rimbombanti.Resto al buio, sul pianerottolo.Fuori comincia a piovere.Tre minuti, e mi squilla il cellulare.È ancora l’agentessa.Mi fa: “Signor Marchetti, dimenticavo: niente in contrario se nella sua scheda met-to in cerca di occupazione, vero?”“No. Niente in contrario.”“Bene. Se non ci sentissimo più, in bocca al lupo per tutto.”

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il mondo dell’ebook

IL DIgITALE? “THE NEXT bIg THINg” DELLA LETTURAL’emorragia di lettori che emerge dalle ricerche ufficiali sposta la riflessione dalla battaglia tra carta e ebook alla competizione tra la lettura e tutte le altre opzioni del mutato mercato culturale e di intrattenimento

di Daniela De Pasquale

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iamo a metà 2012 e finalmente ab-biamo a disposizione molti dati sulla lettura: se da un lato è un bene, perché i numeri sono spesso

merce rara soprattutto nel digitale, dall’al-tro rimane doloroso farne un’analisi perché sono sempre preceduti dal segno meno.A marzo Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro e la Lettura (CEPELL), pre-senta i risultati del rap-porto commissionato a Nielsen L’Italia dei libri definendoli “catastrofi-ci”: il mercato librario nel 2011 ha perso il 10% di acquirenti, con un 20% in meno di spesa complessiva in libri.A maggio l’ISTAT con-ferma che nel 2011 poco meno di 26 milioni di Italiani di 6 anni e più hanno letto almeno un libro nei 12 mesi prece-denti l’intervista, per motivi non strettamente scolastici o professiona-li: i lettori passano dal 46,8% al 45,3% della po-polazione.Questi lettori si sono forse tuffati nel merca-to digitale? Verrebbe da dire che è impossibile, perché gli eBook sono di fatto dei libri e quindi i dati do-vrebbero ricomprendere anche la lettura digitale. Dai paragrafi dedicati, emergono

numeri che non compensano l’emorragia di lettori: per il CEPELL l’eBook rappresen-ta appena l’1,1% del mercato nel 2011 (567 mila gli acquisti contro i 22,7 milioni di co-pie cartacee). Raddoppia la quota di letto-

ri: 1.100.000, il 2,3% della popolazione. Ossia: nella metà dei casi scarichiamo gra-tuitamente gli eBook. Per l’AIE (l’occa-sione è il Salone di Torino, dedicato quest’anno alla pri-mavera digitale) gli e-lettori sono passa-ti dallo 0,1% di fine 2010 allo 0,9% di fine 2011, percentuale de-stinata ad aumentare nel 2012 alla luce del fattore Amazon, con i suoi due eReader a cavallo dei 100 euro, e il fattore Google. Dati meno incorag-gianti sono stati però diffusi dalla stessa AIE al termine del contest “è-book fuo-ri lo slogan” rivolto agli studenti univer-sitari con l’obiettivo di intervistarli per capire se sono pronti a studiare in digita-le. Solo il 19,9% usa

gli eBook (ma è davvero un dato negati-vo se rapportato alle percentuali citate?). Dunque tirando le somme: meno di 1 ita-liano su 2 legge libri, solo 2 ogni 100 hanno

Gli italiani sono i maggiori utilizzatori di social Network e blog: domina Facebook, con

21 milioni di utenti, il 70% del totale dei navigatori,

che vi trascorrono un quarto del loro tempo

online complessivo

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Gian Arturo Ferrari, presidente CEPELL

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letto un eBook, 2 studenti universitari su 5 imparano in digitale. Cosa possiamo dire di questi dati?Chi opera nel settore dei libri digitali è un ot-timista per definizione, innanzitutto perché ha scommesso su un settore nuovo, per cui deve utilizzare tutte le sue energie per farlo risultare reale, tangibile e con delle poten-zialità di successo, e poi perché si inserisce in un trend negativo, per cui deve necessa-riamente fare emergere aspetti di business convincenti per chi deve investire. Per tro-vare risposte tangibili e convincenti è ne-cessario provare a porsi le giuste domande. La prima: dove vanno a finire i lettori che spariscono dalle statistiche e cosa fanno nel tempo che prima dedicavano alla lettura?

L’ufficialità del pensare comune arriva dal Social Media Report di Nielsen: noi italiani siamo i maggiori utilizzatori di Social Net-work e Blog. A dominare la scena c’è Face- book, con 21 milioni di utenti, il 70% del totale dei navigatori, che vi trascorrono un quarto del loro tempo online complessivo.Trovano conferma le riflessioni di chi si oc-cupa di editoria digitale: il mercato della cultura, dell’intrattenimento e della comu-nicazione è cambiato con la rete. Non ha senso concentrarsi sulla battaglia in difesa della carta o dei bit. I due estremi del conti-nuum non sono i libri e gli eBook, ma la let-tura e la non-lettura. I libri devono compe-tere non tra loro, sul piano dei formati, ma con altri prodotti e servizi nello smisurato

la battaglia non è tra carta e ebook, ma tra lettura e non-lettura: i libri non competono tra loro sul piano dei formati,

ma con altri prodotti e servizi culturali nello smisurato e fluido contesto del media consumption

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e fluido contesto del media consumption, per conquistarsi uno spazio nelle preferenze non dei lettori ma di tutti.Rispetto alla carta, gli eBook hanno un van-taggio, perché condividono con i Social Network la tecnologia, i supporti e gli sti-li di fruizione, soprattutto in mobilità. E ci dice l’ISTAT che la tecnologia è una grande alleata della lettura: la propensione a legge-re e il grado di alfabetizzazione culturale si riflettono nelle forme di fruizione del web: più si legge più si usa la rete per acquisire informazioni o consultare un Wiki, indice di una possibile complementarietà tra me-dia di informazione e conoscenza tradizio-nali e innovativi.

Diventa allora fondamentale trovare dei punti di contatto, per fare in modo che chi legge o leggeva sia agevolato nel farlo se-guendo le sue nuove abitudini, e chi inve-ce non legge possa scoprire un nuovo pia-cevole impiego del tempo online. Che, dal lato editore, vuol dire intercettare un nuo-vo target. Per farlo, sono necessarie nuove competenze: l’editore deve essere in grado di creare discorsi attorno ai libri e veicolar-li sui Social Network, ma anche attraverso strategie pianificate su tutti i new media.Newton Compton è un esempio di editore che ha compreso l’importanza del dialogo

con i suoi lettori, e usa in modo interessan-te Facebook per trovare spazi per dare vi-sibilità ai suoi libri. Einaudi fa lo stesso su Twitter. Cubolibri, tra gli eBook store, è tra i pochi a sperimentare la costruzione di un dialogo sugli eBook oltre gli eBook. Mentre la strada offline degli eventi, della formazio-ne o dei meeting resta una valida occasione per fare cultura sull’editoria digitale, il ne-gozio virtuale di Telecom Italia sta lavoran-do direttamente online, e lo fa dalle pagine che state leggendo. “PreTesti” ha un payoff eloquente e chiede agli scrittori ospiti di ogni numero di confrontarsi con l’evolu-zione del proprio ruolo e di quello del let-tore, creando occasioni di letteratura digitale in cui i contenuti siano al passo con il cam-biamento dei contenitori (tablet, eReader e smartphone). E soprattutto siano liquidi e pensati per essere fruiti anche in manie-ra non lineare, come avviene in Cubolibri café. Si tratta del Social Reader di “PreTe-sti”: gli utenti di Facebook possono rima-nere all’interno del Social Network per leg-gere, condividere e commentare i racconti e gli articoli del magazine. L’idea è coin-volgere il lettore nel processo di creazione di valore contemporaneamente alla lettura, svecchiando alcune precedenti esperienze di social reading che, per quanto creative e appassionanti, richiedono al lettore uno sforzo doppio: se c’è poco tempo per legge-re, ce n’è ancora meno per i discorsi intorno alla lettura. Un’applicazione di lettura come Cubolibri café si inserisce nel percorso di cambiamen-to dello stesso Facebook, che è diventato un network di azioni: se prima ci si poteva li-mitare a dire che un contenuto o un’azienda ci piaceva, ora è possibile scoprire in tem-po reale a cosa i nostri amici giocano, cosa

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ascoltano e, nel nostro caso, cosa leggono. Azioni che colmano il vuoto tra un aggior-namento di status, la pubblicazione di una foto, il check-in in una pizzeria. Insomma, nei momenti morti del tempo di svago si può decidere di leggere un articolo condi-viso da un amico, scoprirne altri e, perché no, avviare una conversazione sull’argo-mento letto. È un nuovo modo di mettere in relazione utenti e contenuti. Un servizio di consegna di contenuti a do-micilio serviti su un piatto d’argento: si tratta solo di un esempio di come il lettore venga pensato come Maometto e l’editore come la montagna. Un’altra domanda da porsi in quest’ottica è: gli store, ma soprat-tutto gli editori, possiedono le competenze e la tecnologia per sperimentare su queste strade? E sono consapevoli che potrebbero/dovrebbero investire in questa direzione? Certo, si tratta di contenuti gratuiti, capaci di catturare l’attenzione dell’utente per un periodo non troppo lungo. A questo punto nuove domande sono d’ob-bligo: chi è un lettore? Cosa deve leggere per essere considerato tale? E cosa intendia-mo con testo digitale? Il report di Nielsen parla di blog oltre che di Social Network: se invece di leggere il libro ‒ inteso come testo chiuso ‒ di un autore-esperto-giornalista, si leggono appunti ed esperienze sul suo blog

e sui suoi profili sociali, con la possibilità di interagire con lui intorno a questo nuo-vo testo arricchito e trasmesso in pillole su diverse piattaforme, ci si può considerare un lettore? Se si leggono contenuti digitali autopubblicati da uno scrittore, magari una raccolta di articoli, o un unico approfondito pezzo in stile long-form-journalism, si sta o non si sta leggendo un eBook?L’ISTAT vede nell’online un modo per av-vicinarsi alla lettura e un nuovo canale di accesso ai prodotti culturali, in particolare nell’e-commerce: i non lettori e i lettori de-boli costituiscono un terzo di chi mette nel carrello libri, giornali o riviste online. For-se si leggono meno libri ma si legge di più in generale. D’altra parte, come sostiene la scrittrice Ursula Le Guin, cos’altro puoi fare nel mondo digitale senza leggere?I confini sono davvero sfumati, la conver-genza è in atto, l’ambiente di fruizione è già stato creato ed è ampiamente frequentato, la strada da percorrere è fatta di integrazio-ne di funzionalità nuove ed eliminazione di barriere vecchie che riducono la circola-zione dei contenuti. In questa prospettiva si può abbandonare la battaglia in difesa del libro tradizionale e concentrarsi sulle rispo-ste da dare alle nuove richieste di chi legge. Il digitale non è il nemico della carta, ma “the next big thing” della lettura.

Pretesti chiede agli autori contenuti al passo con il cambiamento dei contenitori e liquidi, pensati per essere

fruiti anche in maniera non lineare, come avviene in cubolibri café, il nuovo social reader

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’è un mondo fatto di sprechi, e uno fatto di stenti. Un mondo all’ultimo grido, e uno all’ultima spiaggia. Un mondo che costruia-

mo, e uno che dimentichiamo. I due mondi camminano su binari paralleli, ma sempre più distanti. Il terzomondismo si è affermato come dottrina dal successo mediatico e accademico inferiore soltanto alla mole di fallimenti collezionati sul cam-po, eppure continua a proporre paternali-sticamente le proprie ricette di crescita ai paesi “in via di sviluppo”. Ultima in ordine cronologico, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio: un mastodonte messo in piedi dalle Nazioni Unite con la collaborazione di economisti dal discusso curriculum e testimonial assoldati dallo star system per portare all’attenzione dei potenti della terra le otto principali fonti di povertà e iniquità che affliggono il terzo mondo, ormai retro-

cesso a quarto con l’emergere dei paesi del BRICS. Ma dopo un incalcolabile fiume di soldi spesi, ed a tre anni dalla loro conclusione, con il colpo di grazia assestato dal disimpe-gno dei paesi finanziatori – causa ricorrenti crisi finanziarie – gli Obiettivi rischiano di passare alla storia come l’ennesima zavor-ra nel fardello che l’uomo bianco ha tentato invano, per sessanta anni, di scrollarsi dalle spalle e dalla mente. Limitandoci all’ambito di cui siamo soli-ti occuparci, gli ultimi tre anni potrebbero aver portato sostanziali novità nell’ambi-to del secondo obiettivo, garantire a ogni bambino almeno l’istruzione primaria. Co-sti d’acquisto di libri e materiale didatti-co abbattuti grazie agli eBook, scolari che studiano e si collegano alla Rete attraverso eReader alimentati da impianti a energia solare ed eolica, superamento dell’apar-

gLI EbOOK FANNO bENENon solo piacere della lettura, o cibo per la mente. i libri digitali potrebbero garantire istruzione a basso costo nei paesi in via di sviluppo. e in parte già lo fanno.

il mondo dell’ebook

di Roberto Dessì

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theid digitale. Che siano i libri elettronici la luce in grado di squarciare la cappa di ignoranza e povertà che opprime i paesi in via di sviluppo? Se ne discute più o meno dal 2009, quando dinanzi al grande successo ottenuto negli Stati Uniti dal Kindle Amazon prima, e dai suoi concorrenti Kobo, Nook e Sony a stret-to giro di posta, anche tra i burocrati del-la solidarietà monta il ragionevole dubbio: perché non utilizzare gli eBook in Africa? Perché non sperimen-tare la tecnologia che sta rivoluzionando l’editoria e l’apprendi-mento proprio sotto il nostro naso? Non sorprenderà così scoprire che uno dei progetti pilota, con-dotto dalla ONG Worldreader, porta forte in sé l’imprinting Amazon. Il suo idea-tore è David Risher, uno degli artefici del grande balzo in avanti della società nei primi anni del 2000, quando ancora gli eBook era-no più un concetto che un prodotto. Eppure è stato proprio lui a comprendere tra i pri-mi che un eReader non era poi così lonta-no parente di un telefono cellulare – unica altra tecnologia diffusa anche nei piccoli villaggi dell’Africa subsahariana – ma con un consumo energetico infinitamente infe-

riore e inversamente proporzionale alle po-tenzialità che la lettura sprigiona. Il primo progetto pilota in Ghana, i primi successi, l’interesse del governo keniota e un terzo progetto in Uganda. Grazie ai libri digitali gli scolari possono leggere di più, leggere meglio, maneggiando tecnologie fino ad al-lora poco conosciute e migliorando il pro-prio rendimento scolastico. L’idea di Risher è diventata matura grazie

a un pugno di volon-tari; ma Worldreader non è sola, e ha trova-to per strada impor-tanti partnership che fanno convivere sotto lo stesso tetto Ama-zon, Random House, Hulu e Penguin. Ne-gli occhi, un obiettivo ambizioso: portare un milione di eBook nei villaggi africani. Ambizioso sì, ma non così inarrivabile. Se un progetto con-dotto in minuscoli vil-laggi rurali vi sembra poco per avvalorare tanto entusiasmo, ben più impressionante è il caso del Bangla-desh, più del doppio di abitanti dell’Italia di cui circa la metà

under 16. Il ministero dell’istruzione ben-galese ha deciso di offrire tutti i libri di te-sto per le scuole primarie in formato eBook, gratuitamente scaricabili da un portale web. La digitalizzazione dell’apprendimento na-

l’idea di risher è diventata matura grazie a un pugno di volontari; ma Worldreader non è sola, e ha trovato per strada importanti partnership

che fanno convivere sotto lo stesso tetto amazon, random house, hulu e

Penguin

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sconde in questo caso un’esigenza pratica: considerate le difficoltà nel reperire libri di testo in Bengali, e lo scarso supporto dei “colossi” della traduzione online, al gover-no di Dhaka non è rimasta altra via se non la completa liberalizzazione dei contenuti. Il problema è semmai aggirare lo scoglio dei costi della diffusione tecnologica. In Ban-gladesh soltanto il 40% delle famiglie pos-siede un PC, ed è un tasso neppure malva-gio confrontato con quello di altri paesi nei quali possedere un computer è pura utopia. Ecco perché, quando per la prima volta si è parlato del progetto One Laptop per Child – obiettivo dichiarato realizzare un PC por-tatile acquistabile con meno di 100 dollari

studiato per la didattica nei paesi del terzo mondo – governi occidentali e media han-no gridato al miracolo. L’iniziativa, avviata da Nicholas Negroponte e sostenuta econo-micamente da colossi dell’IT del calibro di Google, eBay e AMD, non ha però sortito il successo sperato: a fronte di oltre due milio-ni di pezzi venduti direttamente ai governi degli stati commissionanti, il laptop costa

ancora ben oltre i 100 dollari, quasi quanto un netbook. Di recente OLPC ha ripiegato sulla moda del momento, proponendo un tablet a ricarica solare denominato XO3. Per ora poco più che un prototipo, ma ca-pace di riscuotere tanta curiosità e simpatia alle fiere di settore. Il laptop low cost ha paradossalmente re-gistrato le critiche più feroci proprio tra i destinatari del progetto, definito “l’ennesi-mo atto di arroganza del mondo occidenta-le”, “incapace di capire le reali esigenze dei paesi che pretende di aiutare”, e “un altro modo inventato dall’occidente per spillare soldi” ai paesi il cui debito con l’estero pesa ben più della loro stessa arretratezza, e ne è anzi concausa. Le innovazioni “autocto-ne” hanno così avuto la meglio dalla peni-

sola indiana fino al sud est asiatico, uniche aree del globo realmente definibili in via di sviluppo. Aakash in lingua hindi significa “cielo”, e se la scommessa del governo di Nuova Dehli – che mira a produrre questo tablet per 35 dollari e regalarne uno a ogni studente – verrà vinta, sarà un cielo incre-dibilmente terso. Le difficoltà, come per ogni idea utopistica, non mancano: il pro-getto tablet low cost ha subito ritardi, rice-

il ministero dell’istruzione bengalese ha deciso di offrire tutti i libri di testo per le scuole primarie

in formato ebook, gratuitamente scaricabili da

un portale web

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vuto critiche su più fronti e convissuto con limiti squisitamente tecnici, derivanti dalla difficoltà nel produrre un dispositivo a un prezzo così basso senza andare in perdita o dissanguarsi elargendo sovvenzioni pub-bliche. Ubislate, la versione commerciale del tablet, per ora costa quasi il doppio del preventivato, e quella destinata agli stu-denti pare non riuscirà a scendere sotto i 50 dollari. Una strada lunga ma non impercor-ribile, e neppure desolata: le Filippine nel 2010 hanno messo in cantiere la realizzazio-ne di un analogo dispositivo destinato all’i-struzione al prezzo calmierato di 75 dol-lari, la Thailandia ha di recente siglato un accordo commerciale con la Cina per l’im-portazione di centinaia di migliaia di tavo-

lette, da distribuire tra le scuole primarie. Gocce nel mare. Inutili azzardi. Depaupe-ramento di preziose risorse. Chissà. Ma nel mondo sprecone e autoreferenziale che viviamo quotidianamente, sono piccoli se-gnali che le cose possono cambiare dall’in-terno, o senza ricorrere sistematicamente a pompose collette del millennio.

che siano i libri digitali la luce in grado di squarciare

la cappa di ignoranza e povertà che opprime i

paesi in via di sviluppo?

David Risher, fondatore della ONG Worldreader

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uando ci si appresta a entrare nel piccolo salotto borghese messo in scena dalla penna di Henrik Ibsen, bisogna farlo di soppiatto, sbirciando dall’uscio della serratura, non disturbando. Vedremo allora i personaggi che lo occupano, con i propri desideri e le proprie emozioni, muoversi sulla scena dando la sensazio-

ne che la loro dimora sia il mondo intero, incuranti di chi li potrebbe osservare o giudicare. I loro pensieri meschini, le loro voglie incestuose, il lezzo della menzogna che regna sovrano, vengono da Ibsen messi alla berlina dell’uomo qualunque, spettatore ingenuo del dramma umano che si sta vivendo. È proprio qui che sorge spontanea la domanda: perché fare ciò? Quale diritto (“divino”?) dà il permesso a un artista di entrare impunemente nel focolare domestico, il luogo più privato che esista? La vulgata propone una semplice risposta: Ibsen è il primo (certo non il solo) che, attraverso un’opera dominata da un forte spirito illumini-stico, vuole porre in primo piano la liberazione spirituale degli esseri umani. Come scrive Alberto Savinio: “Ibsen in un primo tempo pensò che era destinato a salvare il mondo, in un secondo tempo che era destinato a salvare la società, in un terzo che era destinato a salvare l’uomo, in un quarto pensò che era destinato a salvare la donna… Qui, per la prima volta, la missione salvatrice di quest’uomo trovò terreno fertile e attecchì”. Ibsen come proto-

di Fabio Fumagalli

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buona la primaStorie di libri ed edizioni

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“CAsA DI bAMbOLA” (1879)

HENRIK IbsEN

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femminista, dunque. Ibsen salvatore della donna. In effetti, negli anni settanta-ottanta dell’Ottocento, la “questione femminile”, in Scandinavia, prese fuoco. Il critico lette-rario e filosofo danese Georg Brandes nel 1869 tradusse il saggio di Stuart Mill Sulla soggezione della donna, mentre Ibsen stesso entrò in contatto con alcune intellettuali femministe come Camilla Collett e Aasta Hansteen. Eppure, c’è qualcosa che non torna. Le dichiarazioni di Ibsen innanzitut-to: “Tutto ciò che ho scritto si è collocato al di là di ogni cosciente letteratura di propa-ganda”. E ancora: “Non mi è chiaro che cosa sia propriamente questa causa [femminile]. Il mio fine è solo la descrizione degli esseri umani”. Non resta allora che porsi sul pia-no della semplice descrizione psicologica, emarginando ogni volontà di redenzione. In questo modo sembra interpretabile l’o-pera più famosa dell’autore norvegese, Casa di bambola, la cui prima edizione apparve a Copenaghen il 4 dicembre 1879. Già il tito-lo, infatti, nasconde alcune sorprese. L’ori-ginale norvegese, Et dukkehjem, “Una casa di bambola”, con l’articolo indeterminativo (et), sottolinea come tale dimora sia una fra le tante, scoprendo la volontà dell’autore di delineare un exemplum di una vasta feno-menologia della vita familiare di fine Ot-tocento. Il dramma, suddiviso in tre atti, è ispirato a una storia vera. La scena è domi-nata da un conflitto. Nora, la protagonista, ha contratto un debito dall’equivoco pro-curatore legale Krogstad, falsificando una firma, per salvare il marito, l’avvocato Hel-mer. Quest’ultimo, all’oscuro di tutto, dopo una serie convulsa di avvenimenti scopre la

verità. E, come sempre nell’opera di Ibsen, quest’ultima ha un effetto devastante sul-le relazioni familiari. Inizialmente, Helmer inveisce contro la moglie, ma poi, con la re-missione della cambiale, la perdona. Nora però decide ugualmente di abbandonare il tetto coniugale.Il successo dell’opera fu clamoroso ancor prima di essere rappresentata (la prima rappresentazione avvenne al Det Kongeli-ge Theater di Copenaghen il 21 dicembre 1879). Ne dà testimonianza lo stesso Ibsen in una lettera del 3 gennaio 1880 all’Inten-dente dei regi teatri di Svezia: “Questo mio nuovo dramma […] ha sollevato in Dani-marca una fortissima reazione; le fazioni si fronteggiano bellicose; l’intera grande tiratura del libro, 8000 esemplari, è andata esaurita nel giro di due settimane e si sta già preparando una ristampa”. Poi, sibilli-no, aggiunge: “Oggetto della contesa non è comunque il valore estetico del dramma, ma il problema morale che pone. Che da molte parti sarebbe stato contestato, lo sa-pevo in anticipo; se il pubblico nordico fos-se stato così evoluto da non sollevare dis-sensi sul problema, sarebbe stato superfluo scrivere l’opera”. È chiaro quindi che Ibsen scrive anche tenendo conto del pubblico, quell’umanità nordica che Franco Perrelli definisce “barbarica”, puntando su certi ef-fetti bassamente contenutistici. Casa di bam-bola, infatti, rompe definitivamente con la pièce bien faite, cioè con l’opera, di origine francese, che consente alla classe borghese di rispecchiarsi a teatro solo a condizione di restare un prodotto gradevole e di facile consumo. In Ibsen il teatro diventa, invece,

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lo specchio critico della società. Cos’è, in-fatti, una “bambola”? Non è altro che un es-sere alienato, una maschera il cui ossigeno, per lei vitale, è la menzogna. Ma è, soprat-tutto, la ribellione di Nora a scandalizzare. È però, la sua, una vera rivolta? Oppure è essa stessa una maschera? L’ultima battu-ta del dramma sembra, a un’attenta lettu-ra, lasciare queste domande senza risposta. Helmer, affranto dalla partenza di Nora, esprime un ultimo barlume di speranza (è la didascalia, sempre importantissima nel teatro ibseniano, a confermarcelo) quando si domanda cosa sia il “meraviglioso” di cui Nora costantemente attende l’avvento. Parola chiave di Casa di bambola (vidunderlig in norvegese; se ne contano 19 ricorrenze nel testo, ma ben 4 riunite nell’ultima pagi-na della pièce) il “meraviglioso” assume qui il significato di una vera unione tra la leg-ge maschile e la legge femminile, pur nella

loro reciproca indipendenza. Eppure, non è questa speranza, questo “sogno”, un’enne-sima maschera che Nora indossa dopo aver constatato che quella della “bambola”, pro-tetta dal suo “eroe” Helmer, non le si ad-dice più? Forse ha ragione lo psicoanalista Georg Groddeck quando, con grande acu-me, afferma che Nora è essenzialmente una creatura che vive in una dimensione fiabe-sca e mitopoietica. Certo è, però, che que-sta forza creativa Ibsen la concede esclusi-vamente all’essere femminile, mettendola in scena con una grande energia prima di ogni altro. È questo il segreto dell’ibseni-smo: poesia dell’eterno conflitto cosmico tra il principio maschile e quello femminile, esaltazione dell’abisso che separa da sem-pre la donna dall’uomo. Ma, come afferma Savinio, anche gli abissi debbono essere col-mati. Il modo per farlo però è ancora tutto da scoprire.

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Mariangela Melato interpreta Nora

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ella lingua italiana vengono coniate continuamente parole nuove. Penso che sia un bene. Se il nostro lessico rimanesse

immobile e sempre uguale a sé stesso, vor-rebbe dire che la nostra lingua non riesce più a produrre parole per le nuove neces-sità. Voglio ricordare che il rapporto tra la lingua italiana e le parole nuove è stato sempre difficile: la nostra lingua, per secoli fortemente condizio-nata dalla tradizione letteraria, e per lun-go tempo stretta fra il modello fiorentino, la pressione proveniente dalle lingue straniere, i richiami all’ordine delle varie ondate pu-riste, ha fronteggiato con difficoltà la nasci-ta e la diffusione delle nuove parole e delle nuove espressioni. La censura nei confronti delle novità linguistiche non riguarda solo il passato: anche nell’età contemporanea il comune parlante oppone, di fronte ai neo-logismi, resistenze e pregiudizi di stampo

estetico, più che grammaticale. L’obiezione più frequente e immediata nei confronti del nuovo è che si tratti «di una brutta parola», o di una parola «che suona male». Ammet-tiamolo: tutto quello che è nuovo ci appa-re linguisticamente brutto e insopportabi-le, perché obbliga a confrontarci non tanto con qualcosa che non abbiamo mai letto o ascoltato prima, ma con un nuovo concet-to, con una nuova tendenza, con un nuo-

vo fenomeno sociale. Ne sono testimonianza le parole usate per in-dicare cariche, mestieri o professioni femmini-li, che hanno l’unico difetto di essere state usate solo in tempi re-lativamente recenti, da

quando la donna ha cominciato a svolge-re ruoli prima riservati esclusivamente agli uomini: termini come avvocata, ministra, sindaca o chirurga e molti altri sono del tutto legittimi e accettabili dal punto di vista del-la formazione strutturale, ma continuano a essere respinti, o usati con una connotazio-

Sulla punta della lingua come parliamo, come scriviamo

Rubrica a curadell’Accademia della Crusca

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PAROLE NUOVE NELLA LINgUA ITALIANAdi Valeria Della Valle

L’obiezione più frequente e immediata nei

confronti del nuovo è che si tratti «di una

brutta parola», o di una parola «che suona male»

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ne ironico-spregiativa, o messi tra virgolet-te, anche se ormai progressivamente legitti-mati e accolti dai più importanti vocabolari della lingua italiana. A proposito di voca-bolari, assistiamo da anni, con il lancio del-le nuove edizioni, non a caso definite «mil-lesimate», come se si trattasse di vini pre-giati, all’ostentazione pubblicitaria del nu-mero di neologismi registrati: da una parte, dunque, ci si scandalizza per il numero di nuove parole che si affacciano quotidiana-mente nel nostro lessico, considerate strava-ganti, brutte, inutili, dall’altra i neologismi vengono usati come richiamo pubblicita-rio. Anche nell’inno-vazione linguistica, del resto, si riflettono mode, tic, vizi e pre-gi della società che li produce: basti pen-sare alla fortuna non solo giornalistica di un’espressione come «i furbetti del quartierino», coniata nel 2005 non da uno scrittore, da un intellettuale, da un giornalista, ma da Stefano Ricucci, lo spregiudicato finanziere di Zagarolo, per alludere ai piccoli lestofanti che si davano tono e importanza, ma che cercavano di ag-girare le difficoltà con trucchetti da poco, con manovre di piccolo cabotaggio, tipi-che di chi sbarca a malapena il lunario con imbrogli da bar di periferia. Oppure all’e-spressione «compagni di merende», usata da Mario Vanni nel 1994 durante il proces-so per gli omicidi di Firenze, poi entrata nell’uso comune per indicare ironicamente persone legate da complicità che tramano

segretamente qualcosa alle spalle di qual-cuno. In questo e in moltissimi altri casi, a fare da cassa di risonanza ai nuovi termini e alle nuove espressioni che poi entrano in circolo sono proprio i mezzi di informazio-ne: radio, televisione, cinema, pubblicità, e, soprattutto, giornali e periodici, che in più, rispetto agli altri media, hanno il vantaggio di consacrare e conservare ufficialmente, nella loro veste di fonte scritta, la nuova en-trata. Se ne rese conto, nel lontano 1905, il giornalista e scrittore Alfredo Panzini, che per primo ebbe l’idea di raccogliere parole e locuzioni nuove registrate al loro primo

apparire, ricavando-le anche dai giorna-li, dalle riviste, dal cinema, dalle canzo-ni, ecc. La tradizione inaugurata da Panzi-ni è stata continuata, nel tempo, da chi ha pubblicato diziona-

ri particolari, i dizionari di neologismi. Si tratta di repertori a parte, che svolgono una funzione “di servizio” rispetto ai diziona-ri generali: registrare, documentare, datare e munire di firma, quando è possibile, le nuove formazioni. Fonte privilegiata sono i quotidiani, che contribuiscono a svolge-re una funzione informativa e divulgativa, diffondendo nel lessico d’uso comune sia i termini che provengono dai settori specia-listici, sia le parole straniere che circolano in ambito internazionale. In questo modo, i giornalisti svolgono un ruolo fondamen-tale nel processo di arricchimento e inno-vazione del lessico di una lingua: termini

termini come avvocata, ministra, sindaca o chirurga e molti altri sono del tutto

legittimi e accettabili dal punto di vista della formazione strutturale

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come ateo devoto, buonista, ciecopacismo, glo-cale, inciucista, non-luogo, mediacrazia, spreco-poli, stipendificio o velinismo, per citarne solo alcuni, circolano ormai da tempo non solo nei discorsi e negli scritti di editorialisti e politici, ma, sempre più spesso, nella co-municazione quotidiana. Più recentemen-te, altre parole e altre espressioni sono en-trate in circolo: da esodato a spread, da titoli tossici a nativi digitali, da facebookiano a twit-teratore, fino all’irruzione mediatico-giu-diziaria del tristemente noto bunga-bunga.

A proposito di molti di questi termini, è difficile fare previsioni sulla loro durata e sulla loro capacità di reale attecchimen-to nella lingua italiana. Chi avrebbe scom-messo, anni fa sulla vitalità di espressioni come tangentopoli, mani pulite, celodurismo, cetomedizzazione, finanza creativa? Neologi-smi che forse sembreranno ancora, a qual-cuno, «brutti sporchi e cattivi», ma ormai indispensabili e insostituibili per rievocare momenti, umori e fasi della nostra vita e della nostra società.

a fare da cassa di risonanza ai nuovi termini e alle nuove espressioni che poi entrano in circolo sono proprio i mezzi

di informazione: radio, televisione, cinema, pubblicità, e, soprattutto, giornali e periodici

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anima del mondo

Paesaggi della letteraturasENzA METTERE RADICIGli orizzonti di corto maltese

di Luca Bisin

l profilo di un’isola, che si mostra via via in lontananza tra le frange e i guiz-zi di un oceano dai confini imprecisi, a rompere il cerchio d’un orizzonte che

pareva inflessibile, è per l’uomo di mare una vista a un tempo consolante e malinconica. La promessa di terraferma riesce dolce dopo i lunghi giorni sospesi, ondeggianti, barcol-lanti, beccheggianti in balia di onde dalle geometrie imprevedibili, e tuttavia l’urgen-za del viaggio già sale al modo di un pungo-lo insospettato, già incita quasi, non ancora approdati, a prendere nuovamente il largo. Quella vista, però, non è meno pungente quando sia racchiusa nella cornice ben squa-drata di una vignetta, in un angolo poco ap-pariscente di una tavola a fumetti: è così che Hugo Pratt, nel 1967, fa apparire la “Escon-dida”, “la misteriosissima isola del misterio-sissimo ‘Monaco’”, covo di pirati e leggen-de, segreti ed enigmi, intorno a cui si dipana la storia di Una ballata del mare salato, prima avventura di Corto Maltese. Del resto, l’en-trata in scena dello stesso Corto Maltese non

è molto più appariscente: anch’egli si profi-la all’orizzonte di un mare che non è certo avido di imprevisti, catturato nella lente im-pietosa di un cannocchiale che ce lo restitu-isce legato a una zattera, abbandonato alla deriva in quella che sembra essere piuttosto la fine ingloriosa che non l’inizio scintillan-te di un’avventura. Come l’“Escondida”, in effetti, Corto ci si presenta già carico di mi-steri, già preso nel passaggio da un’avven-tura all’altra: forse, come egli stesso racconta all’amico/nemico Rasputin che lo salva dal mare, è stata una faccenda di pirati, ammuti-namenti e amori non corrisposti a condurlo sulla soglia di una ballata del grande Oceano. Ma forse, invece, è stato soltanto il passaggio di un varco immaginario, di quelli che colle-gano segretamente gli spazi e i tempi: come quando, al termine di un’altra avventura, Favola di Venezia, Corto si reca in uno dei luoghi magici che la città lagunare riserva ai suoi più profondi conoscitori, e bussando a una delle porte che vi si affacciano chiede semplicemente di entrare “in un’altra sto-

I

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ria e in un altro luogo”. Questo intreccio di reali-smo e fantasia, tanto ag-grovigliato da lasciarci ogni volta incerti sui ri-spettivi confini, è certo un ingrediente importante del fascino del Maltese, il quale si muove con non-curanza tra i casi di una Storia fin troppo vera, per lo più rabbiosa e im-placabile, fatta di guerre, insurrezioni, avidità, ef-feratezza, e la seducen-te lievità delle leggende e dei sogni, del gioco e dell’invenzione. È certo la promessa di avventu-ra a muovere ogni passo di Corto Maltese, pirata e avventuriero, roman-tico e spregiudicato, la seduzione di un viaggio che è forse la segreta ri-cerca di qualcosa che non ci è dato sapere, forse la fuga da un passato che ci rimane ignoto, incastonato nella biografia del Maltese che Pratt, nel susseguirsi degli albi, ha ricostruito solo per cenni e allusioni, sapientemente dosando rivelazioni e silen-zi, biografia e leggenda. Eppure quel vaga-re non ha poi bisogno di una motivazione o una meta, non risponde ad altro disegno che “la libertà, la scoperta, l’incontro e il vaga-bondare tra un arcipelago e un altro”. Così quando nel corso di un’avventura brasilia-na, Un’aquila nella giungla, l’indovina Boc-ca Dorata chiede a Corto Maltese: “Allora, bel marinaio, parti?”, egli non può che dare voce a un’urgenza recondita e inafferrabile:

“Sono costretto… non sono di quelli che met-tono le radici”. E anche il severo avvertimento dell’indovina, che mette in guardia il vagabondo dall’ostinarsi a cercare qualcosa che forse non esiste o che forse egli ha già davanti agli occhi, se solo non fosse così ac-cecato dalla smania del viaggio, non può che muoverlo a una consi-derazione disincantata e ironica, di quelle che così spesso abitano le storie di Corto: “Può darsi, Bocca Dorata… Ma è affar mio accorgermene”.Questo consapevole az-zardo di indipendenza è forse ciò che riscatta il personaggio di Pratt dal-la consuetudine, accatti-vante ma facile, dell’eroe, dandogli la dignità di una figura letteraria. Per-

ché, come notava lucidamente Oreste Del Buono, l’avventuriero Corto Maltese “non si lascia ingannare da certe apparenze dell’Av-ventura, è istruito sulla trama, sull’approdo storico dell’Avventura stessa. È disincantato e scettico sulla bontà della natura umana. E persino sulla sua complessità eroica”. E così, nei viaggi di Corto la favola non è mai un semplice pretesto di evasione, ma la lente di rifrazione di una realtà che reclama ogni volta il proprio scotto e di una umanità che fa valere anche le proprie debolezze: scam-pato alla morte nel corso di un’avventura africana (…e di altri Romei e di altre Giuliette),

“Allora, bel marinaio, parti?”

“Sono costretto… non sono di quelli che mettono le radici.”

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v

vdopo una fuga ingloriosa che ha quasi i trat-ti della viltà, Corto Maltese può cedere allo sconcerto e allo smarrimento di una impieto-sa diagnosi su se stesso: “Non sono un eroe io… Sono come gli altri… e ho il diritto di sbagliare come tutti, tranquillamente, senza dover ogni volta fare l’esame di coscienza”. È vero allora, come ha scritto Gianni Bru-noro, che la legge segreta delle peripezie di Corto è “non tanto la prospettiva salgariana dell’azione, quanto quella dell’inquietudi-ne”. Ed è sul filo dell’inquietudine, assai più che dell’impresa favolosa o del gesto intre-

pido, che Corto attraversa i paesi, incrocia gli eventi storici, insegue le leggende, lam-bisce i destini di personaggi immaginari o reali (Jack London, Herman Hesse, Ernest Hemingway…). “Sono un autore di ‘letteratura disegnata’”, rivendicava orgogliosamente Pratt in rispo-sta agli ottusi detrattori del fumetto: “Il mio disegno cerca di essere una scrittura. Dise-gno la mia scrittura e scrivo i miei disegni”. Sicché nei romanzi che egli stesso vorrà rica-vare da alcune storie di Corto (Una ballata del

mare salato, Corte Sconta detta Arcana) si ritro-va certo il suo innato gusto per il racconto, vi manca però il suo talento per lo scorcio allusivo, la sua tensione ad “arrivare a dire tutto con una linea”, come amava ripetere, la sua dedizione verso l’evocativa pregnan-za di un sapiente tratto di china che sappia catturare lo sguardo a una forma che si an-nuncia all’orizzonte – forse il profilo di un’i-sola da scoprire o la sagoma incerta di un avventuriero con cui smarrirsi. Corto Mal-tese è egli stesso questa linea pronta a spie-garsi nell’irrompente disegno di un tutto. E forse è ancora un segno della natura beffar-da e sfuggente di questo esploratore d’altri tempi, che sia proprio il suo sgraziato alter

ego, ben più avido, feroce, indifferente, a pronunciare infine la regola più intima della sua esistenza: quando, nell’ultima avventu-ra di Corto (Mu, la città perduta), Rasputin si lascia infine convincere a seguirlo nell’enne-simo viaggio: “Ma sì, può essere bello, se c’è la speranza di trovare il solito tesoro... Ma anche se non si trovasse niente... è l’arcano, il mistero, l’ambiguità, la sfinge, l’allegoria, la sciarada quello che conta... è il simbolo, il gioco, l’avventura!”

“Sono un autore di ‘letteratura disegnata’”, rivendicava hugo Pratt: “il mio disegno cerca

di essere una scrittura. disegno la mia scrittura e

scrivo i miei disegni”

di Francesco Baucia

Pellegrino Artusi in Odore di chiuso di Marco Malvaldi

Alta cucinaLeggere di gusto

FARE UNA RICETTA È MEN CHE NIENTE…

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l crimine ha attraversato la vita di Pellegrino Artusi in maniera brutale e drammatica, quando egli era anco-ra un giovane uomo. In una sera del

gennaio 1851, la banda di briganti capita-nata dal celeberrimo Passatore (il “Passator cortese” di Pascoli) prese in ostaggio la sua famiglia: la sorella Gertrude subì la violenza dei delinquenti e in seguito non riuscì mai a riprendersi dal trauma dello stupro, tanto da precipitare irrimediabilmente nella follia. Erano lontani i tempi in cui l’Artusi, con ro-busto piglio positivistico, si sarebbe imbar-cato nell’avventura di si-stematizzare le abitudini culinarie della sua gio-vane e ancora disgregata patria in un libro il cui ti-tolo è già un manifesto e una dichiarazione d’in-tenti: La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene (1891). E nemmeno im-maginava che di nuovo, verso i settant’anni, la sua esistenza sarebbe incappata in un delitto. Anzi, quasi in due: un avvelenamento e una tentata fucilazione a colpi di doppietta da caccia. Chi si avventuri, però, nella ricca mole di opere biogra-fiche dedicate al primo “scien-ziato del gusto” dell’Italia unita, difficilmente troverà traccia di questi episodi. E non se ne do-vrà stupire, dal momento che in realtà non sono mai accadu-ti. Nascono invece dalla brillante fantasia di Marco Malvaldi, che ha fatto di Pellegrino Artusi uno dei protagonisti del suo recente

romanzo giallo Odore di chiuso (Sellerio 2011). Nella prefazione alla terza edizione del suo opus magnum, Artusi scriveva che le funzioni principali della vita umana sono la nutrizio-ne e la riproduzione, e in quanto tali merita-no di essere studiate in maniera scientifica. Molte miglia lontano, e nel campo della fic-tion piuttosto che della trattatistica, quasi ne-gli stessi anni si sosteneva che anche l’uscita dalla vita merita di essere studiata in manie-ra strettamente scientifica. Specie quando tale uscita è di natura violenta e non natura-le. Il delitto, al pari della cucina e del sesso,

è un’arte (avrebbe det-to più tardi Raymond Chandler) e come tale merita i propri esclu-sivi studiosi. Nasceva-no così Auguste Dupin dalla penna di Edgar Allan Poe e Sherlock Holmes da quella di Arthur Conan Doyle, primi (e ineguagliati) di una lunga serie di imi-

tatori. Ed è proprio con un ro-manzo di Conan Doyle sotto un braccio (e un cesto ripieno dei suoi due amati gatti Bian-chino e Sibillone sotto l’altro) che Pellegrino Artusi si presen-ta, nel primo capitolo di Odore di chiuso, presso il castello del barone di Roccapendente, in Maremma. Cova nella mente l’idea di trascorrere qualche giorno di riposo in compagnia

del suo ospite e magari di curiosare nelle cucine della dimora, per carpire qualche se-greto utile ai suoi “studi”. Ma i suoi piani

I

Artusi scriveva che le funzioni principali

della vita umana sono la nutrizione e la

riproduzione, e in quanto tali meritano di essere

studiate in maniera scientifica

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dovranno essere disattesi. In-nanzitutto perché, al risveglio dopo la prima notte trascorsa al castello, viene trovato nelle cantine, ucciso da un bicchie-re di Porto avvelenato, il mag-giordomo Teodoro. E il giorno dopo la fidanzata di quest’ul-timo, la giunonica e avvenen-te cameriera Agatina, tenta di sparare di nascosto al barone, intento in una passeggiata per le sue proprietà in compagnia del dagherrotipista Ciceri. Quali segreti si nascondono dietro tali eventi criminosi, straordinari per la sonnacchiosa piccola nobiltà di Rocca-pendente? Certo non è difficile immaginare qualche losco retroscena. Perché il castello è un covo di vipere, come ha modo di con-statare Artusi sin dal suo arrivo. I rampolli Gaddo e Lapo sono due giovanotti vanesi e

stizzosi, persi l’uno dietro velleità letterarie, l’altro dietro le sottane; le cugine Cosima e Ugolina Bonaiuti Ferro hanno a cuore sol-tanto il loro piccolo e antipatico yorkshire Briciola; il barone Romualdo e la baronessa madre sono oltremodo alteri e sprezzanti, e la dama di compagnia della nobildonna è costretta a ricorrere segretamente all’assen-zio per sopportarla. Solo la giovane Cecilia è benevola e intelligente, ma il credo maschi-lista della famiglia le impedisce perfino di coltivare il piacere della lettura. Un bel rom-

picapo, dunque, per il de-legato di polizia Artistico, ansioso però di risolverlo per farsi bello con il suo-cero, l’ufficiale dei carabi-nieri Onorato Passalacqua. Ma il delegato Artistico po-trà avvalersi di un aiutante d’eccezione per le sue in-dagini: il sornione Artusi, che si rivelerà quanto mai curioso e perspicace. Tut-tavia far luce sui misteri di Roccapendente non è dav-vero ciò che sta più a cuore

al gourmand romagnolo: egli è più impegna-to dal tentativo di scoprire la ricetta del pol-pettone “all’uso zingaro” che la cuoca Pari-sina ha preparato per il suo arrivo al castello. Entrambe le indagini, in ogni caso, avranno una soluzione. E per non guastare la lettu-ra di questo godibilissimo romanzo, rivele-

remo qui l’esito soltanto di quella culinaria. Artusi dice di essere “uno che è stato bug-gerato tante di quelle volte che ha impara-to che è meglio fare da soli più che si può, e non fidarsi se non dei propri occhi e dei propri sensi. Questo vale massimamente per la cucina”. Così, più che far tesoro delle indicazioni di Parisina enunciate in italiano approssimativo misto a vernacolo toscano, Artusi preferisce osservarla all’opera die-tro ai fornelli. E solo dopo aver riprodotto il piatto in prima persona, nel raccoglimen-

“È meglio fare da soli più che si può, e non fidarsi se non dei propri occhi e dei propri sensi. Questo vale

massimamente per la cucina.”

Marco Malvaldi

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PolPettoNe all’uso ZiNGaroIngredienti per 4 persone500 gr di tonno sott’olio2 peperoni3 coste di sedano300 gr di pane raffermo100 grammi di olive taggiasche snocciolate2 uova2 dl di latte1 dl di pannaprezzemolo tritatopangrattatooliosalepepe

to della propria residenza fiorentina, potrà affermare di padroneggiarne la preparazio-ne. Dai racconti di Parisina, di interessante impara solo che le ascendenze “gitane” del piatto sono dovute proprio al fatto che degli zingari lo insegnarono al padre della cuoca, col quale commerciavano in bestiame. Ma veniamo alla ricetta. Si tagliano a listarelle due peperoni gialli, precedentemente spel-lati e puliti. In una padella, si aggiungono alle fettine di sedano già fatte soffriggere e si lasciano colorire per qualche minuto. Nel frattempo, si ammolla del pane raffermo in due decilitri di latte bollente. Si sbriciola mezzo chilo di tonno sott’olio in una pento-la, e a fuoco moderato si attende che si asciu-ghi l’olio in eccesso. A questo punto, si uni-scono al tonno i peperoni, il sedano, un etto di olive taggiasche snocciolate, il pane accu-

ratamente strizzato, una presa abbondante di prezzemolo fresco tritato, sale e pepe. Un volta raffreddato il composto, lo si mescola a due uova e a un decilitro di panna. Imburra-ta una teglia, e spolveratala di pan grattato, vi si versa l’amalgama ottenuta e la si cuoce in forno. “Il fare un libro è men che niente, se il libro fat-to non rifà la gente” dice Artusi, citando Giu-seppe Giusti, a proposito del proprio libro La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Lo stesso vale per le ricette: a nulla servono, se chi le legge non può “trarne piacere e nu-trimento” riproducendole. E se ancora i libri a qualcosa valgono, Odore di chiuso sarà utile tra l’altro a questo: a insegnarvi a prestare attenzione a chi, al dessert, vi versa del Por-to nel bicchiere.

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Tempo d’estate. Si promuovono nuovi libri, da leggere magari sotto l’ombrellone (alme-no chi può). Se l’ombrellone invece rimane un miraggio, è comunque bene non privarsi della compagnia di un libro. E se questo ac-cade per colpa della crisi, non sia che il prez-zo scoraggi quanti vorranno distrarsi dalla calura con una storia che faccia sognare. RCS Libri lancia così due nuove collane per l’intrattenimento popolare, per sfidare appunto la cri-si, per riportare il pubblico dei lettori ai libri, per pro-muovere talenti: si tratta di Rizzoli Max e Fabbri Life. Nelle prime due settimane di giugno sono usciti dieci titoli a 8 euro e 80 centesi-mi in edizione cartacea e in promozione in edizione digitale a 4 euro e 99 cente-simi. Per Rizzoli Max sono usciti Invictus, L’altare delle ossa maledette, Gente letale, La parola del diavolo, Il giu-stiziere, L’uomo che odiava Sherlock Holmes. Per Fabbri Life sono usciti Cosa indossare con un cuore spezzato, Il libro dei profumi perduti, Vo-glio prenderti per mano, Il ristorante degli chef innamorati. Due nuovi marchi che ci fanno capire subi-to come anche RCS Libri voglia puntare sul filone del genere, percorrendolo in forma in-dustriale come già altri editori hanno fatto nel recentissimo passato (si vedano Newton Compton e Fanucci con TimeCrime). Rizzoli

Max si rivolge a un pubblico maschile (o ma-chista?) e Fabbri Life si rivolge a un pubblico femminile (non femminista!). Un target ben identificato dove indirizzare la propria offer-ta editoriale che punta alla qualità delle sto-rie, che sono tutte di livello, anche se general-mente prive di forza linguistica, alla bellezza del prodotto (le copertine sono chiare e prive di ambiguità) e al prezzo contenuto.

Dieci romanzoni per comin-ciare bene l’estate con scrittori italiani e stranieri. Tra gli ita-liani Simone Sarasso ci conse-gna un Costantino inedito e soprattutto “Invictus”, men-tre tra gli stranieri troviamo M.J. Rose e il suo Libro dei pro-fumi perduti che ci fa scoprire un senso raramente esplora-to dalla letteratura come l’ol-fatto. E forse il vero senso di questa operazione editoriale è racchiuso proprio nello sforzo di stimolare nuove sensazioni nei lettori. “Dare un senso” al

prezzo e al genere, “dare un senso” alla lette-ratura che distrae, ma che nel momento in cui ci fa sognare produce in noi nuove sensazio-ni, nuovi mondi. E se queste nuove collane riusciranno davvero a far provare a ciascun lettore una sensazione differente, avranno forse raggiunto lo scopo: quello, cioè, di non presentare libri rivolti a un solo genere, ma capaci di parlare al cuore di tutti. Buona fortuna Rizzoli Life, buona fortuna Fabbri Max (... e non è un refuso!).

DARE UN sENsO, DARE sENsAzIONIrizzoli max e Fabbri life

Recensioni

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letteraltura 2012e gli altri eventi del mese

appuntamenti

LETTERALTURA 2012Ai molti meriti che vengono ascritti a France-sco Petrarca è da aggiungere, fuori dall’ambi-to letterario, quello di essere il primo alpinista della storia, e il giorno della sua ascensione al Mont Ventoux (26 aprile 1336) è considerato la data di nascita dell’alpinismo. Non è dunque così peregrina la liaison tra letteratura e am-bienti di montagna sancita dal festival Lette-rAltura, giunto oggi alla sesta edizione. La ma-nifestazione, che si tiene come di consueto nel suggestivo territorio del Verbano Cusio Ossola, ha come filo conduttore proprio la passione per la montagna, per il viaggio e l’avventura. Oltre sessanta ospiti dall’Italia e dal mondo saranno protagonisti di reading, spettacoli e laborato-ri. Tra i molti eventi proposti, segnaliamo lo spettacolo Uomini e cani (basato sui libri di Jack London) di e con Marco Paolini, il 30 giungo a Verbania; l’incontro con Luis Sepulveda (in dialogo con Lella Costa) dal titolo Patagonia. La grande storia del Sud del mondo, il primo luglio, sempre a Verbania; la rievocazione di Giulia-na Sgrena (originaria della Val d’Ossola) delle esperienze partigiane dei suoi genitori, il 7 lu-glio a Crodo; il ricordo di Walter Bonatti con Roberto Mantovani, Marco Berchi e Luigi Zan-zi, a Macugnaga il 21 luglio. Per il programma completo del festival, si può consultare il sito www.letteraltura.it.Verbania: dal 28 giugno al 1 luglio; Valle Anti-gorio: 7 e 8 luglio; Lago d’Orta: 14 e 15 luglio; Macugnaga: 20, 21 e 22 luglio

PAROLE SPALANCATE 2012. 18° FESTIVAL DI POESIA DI GENOVAIl 16 giugno è una giornata particolare per gli appassionati di letteratura: è il giorno che Ja-mes Joyce ha eternato nel suo romanzo Ulisse (e per gli appassionati di gossip “colto” anche

quello in cui lo scrittore incontrò sua moglie). La città di Genova, nel contesto del Festival di Poesia, rende omaggio allo scrittore irlandese e al suo (anti)eroe Leopold Bloom ospitando l’edizione italiana del Bloomsday in 23 luoghi del centro storico cittadino. Inoltre, nei giorni di chiusura del Festival si renderà omaggio alla poesia ecuadoriana contemporanea (con una lettura di Ramiro Oviedo, sempre il 16), alla fi-gura di Giorgio Caproni e al poeta americano David Young (domenica 17). Fino al 17 giugno

K.LIT. IL FESTIVAL DEI BLOG LETTERARIÈ noto che i blog sono spesso il territorio di cac-cia favorito degli editor alla ricerca di nuovi fe-nomeni editoriali. Il romanzo d’esordio di Mi-chela Murgia ad esempio, è nato come un blog, poi è diventato un romanzo e infine un film per la regia di Paolo Virzì. I blog dunque sono le incubatrici in cui si irrobustiscono le storie più accattivanti. Il festival di Thiene (Vicenza), uni-co nel suo genere in tutta Europa, si propone di esplorare questa selva oscura telematica spesso difficile da attraversare senza suggerimenti e chiavi di lettura. Scenari del presente e del fu-turo affrontati però, come tengono a precisare gli organizzatori, con lo spirito degli antichi caf-fè letterari; non solo tavole rotonde e dibattiti, dunque, saranno al centro della manifestazio-ne, ma anche concerti, mostre e workshop mul-timediali. Tra gli eventi ricordiamo, proprio in merito al legame tra editoria mainstream e blog letterari, l’incontro con Jacopo De Michelis (re-sponsabile della narrativa per Marsilio) e con il critico Marco Dotti, sabato 7 luglio. Per scarica-re il programma, si veda il sito www.klit.it. 7 e 8 luglio

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Tweets

bookbugs

@SilviaSurano#eBook: pace fatta tra #Google e gli editori francesi. Si chiude il contenzioso aperto nel 2006.

@mrjones1981Mai letto Thomas Pynchon? Presto potrete farlo in ebook e la notizia non era affatto scontata..

@Pianeta_eBookAnno 2016: Auto volanti?

Torna la Lira? Juve in B?

Difficile. Più probabile che 1

americano su 2 legga #eBook.

@manahLeggere ebook preclude dallo sfoggiare la copertina del libro davanti i compagni di viaggio in treno.

@sellerioeditore

ebook meno ecologici dei

libri? È proprio vero che

l’editoria elettronica è una

cosa piuttosto complessa.

@fourthalfHo scoperto un metodo che rispet-to agli ebook fa risparmiare circa il 100% dei soldi spesi in libri: si chiama biblioteca pubblica.

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PreTesti • Occasioni di letteratura digitaleGiugno 2012 • Numero 6 • Anno IIRegistrazione Tribunale di Cagliari N. 14 del 09-05-2012

Telecom Italia S.p.A.

Direttore responsabile:Daniela De Pasquale

Direttore editoriale:Roberto Murgia

Coordinamento editoriale:Francesco Baucia

Direzione creativa e progetto grafico:Fabio ZaninoAlberto Nicoletta

Redazione:Sergio BassaniLuca BisinFabio FumagalliPatrizia MartinoFrancesco Picconi

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L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.

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