Premessa Se fermiamo gli italiani per strada e chiediamo...

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Premessa Se fermiamo gli italiani per strada e chiediamo loro chi erano Prometeo, Giasone e Protesilao, con ogni probabilità finiremo col raccogliere solo risposte inesatte, se non addirittura, boh? di stupore. In compenso, però, i fermati saprebbero dirci tutto su Beautiful e Dynasty. Evidentemente c'è stato un cambio di guardia tra i personaggi mitici: fuori Adone e Afrodite e dentro Ridge e Sue Ellen. Eppure, a pensarci bene, la mitologia greca è più che mai presente nei nostri discorsi. Sempre più spesso infatti si sente dire: «Quello è un narcisista», oppure «Quell'altro ha il complesso di Edipo», o ancora «E stato un supplizio di Tantalo», pur senza che nessuno sappia in realtà chi fossero Narciso ed Edipo, e che avesse fatto di così terribile Tantalo da meritarsi un supplizio. Personalmente cominciai a interessarmi di mitologia all'età di quattro anni. Mio padre mi regalò un libro della UTET intitolato La leggenda aurea degli Dei e degli Eroi, libro che conservo tuttora e al quale, ovviamente, sono legato come Linus alla sua coperta. A quattro anni, non sapendo ancora leggere, mi limitavo a guardare le figure: tra le mie preferite, quella di Saturno che si mangia la pietra ritenendola l'ultimo dei suoi nati. I miti (e non soltanto quelli greci, naturalmente) sono la prima forma di narrativa di cui si abbia notizia. Ma come nascono i miti? Nascono in un certo periodo storico, da un particolare ambiente sociale, all'interno del quale la figura dell'eroe occupava la posizione di massimo prestigio. La principale differenza fra i miti greci e i miti d'oggi sta nel fatto che le vicende private dei personaggi allora venivano affidate alla tradizione orale, piuttosto che alle pagine dei rotocalchi. Ma il succo è lo stesso: non a caso, infatti, mithos in greco vuol dire racconto. Tra il IX e il Vl secolo avanti Cristo, non esistendo ancora la televisione, i Greci trascorrevano gran parte delle loro serate ascoltando un «Omero qualsiasi», ovvero un cantastorie che in cambio di un buon piatto di minestra raccontava le avventure degli Dei e degli Eroi. Non potendo, però, ricordare tutto a memoria, i cantori dell'epoca si specializzavano sui singoli miti, dando origine a dei veri e propri serial, per poi tramandarseli a voce di padre in figlio. Ebbene, propongo di riprendere questa bella abitudine, approfittando anche delfatto che raccontare attraverso il mezzo televisivo equivale grosso modo a essere invitati a cena da almeno un milione di italiani. Con il presente videolibro, insomma, è mia intenzione ricalcare le orme di Omero e dei grandi aedi dell'epoca classica (fatte, ovviamente, le debite proporzioni). I due video e il libro contenuti in questo cofanetto dovrebbero fornire al lettore due diversi livelli di conoscenza del mito: il primo (quello del video) per chi si accontenta del solo racconto, e il secondo (quello del libro) per chi invece desidera sapere qualche cosina in più e risalire alle fonti. Un'ultima precisazione: il lettore nei filmati non vedrà attori truccati da Dei, o da Eroi, bensì si dovrà accontentare (nel bene e nel male) della mia persona in qualità di raccontatore unico. I motivi di questa scelta sono dettati dal fatto che il mito è di per sé un massimo, ovvero l'essenza stessa del concetto che si vuole rappresentare. Detto terra terra, perfino la più affascinante fra le top model e Mister Universo non ce la farebbero a incarnare Afrodite e Marte, ovvero il Massimo della Bellezza e il Massimo della Violenza. Viceversa la parola, con il suo potere evocativo, stimolando l'immaginazione di chi ascolta, finirebbe con l'avvicinarsi di più all'idea che si vuole rappresentare. L.D.C. L'Arte amatoria I Greci lo chiamavano Eros e i Romani Cupido, ma sia i primi che i secondi lo

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Premessa

Se fermiamo gli italiani per strada e chiediamo loro chi erano Prometeo,Giasone e Protesilao, con ogni probabilità finiremo col raccogliere solorisposte inesatte, se non addirittura, boh? di stupore. In compenso, però, ifermati saprebbero dirci tutto su Beautiful e Dynasty. Evidentemente c'èstato un cambio di guardia tra i personaggi mitici: fuori Adone e Afrodite edentro Ridge e Sue Ellen. Eppure, a pensarci bene, la mitologia greca è piùche mai presente nei nostri discorsi. Sempre più spesso infatti si sentedire: «Quello è un narcisista», oppure «Quell'altro ha il complesso diEdipo», o ancora «E stato un supplizio di Tantalo», pur senza che nessunosappia in realtà chi fossero Narciso ed Edipo, e che avesse fatto di cosìterribile Tantalo da meritarsi un supplizio.Personalmente cominciai a interessarmi di mitologia all'età di quattro anni.Mio padre mi regalò un libro della UTET intitolato La leggenda aurea degliDei e degli Eroi, libro che conservo tuttora e al quale, ovviamente, sonolegato come Linus alla sua coperta. A quattro anni, non sapendo ancoraleggere, mi limitavo a guardare le figure:tra le mie preferite, quella di Saturnoche si mangia la pietra ritenendola l'ultimo dei suoi nati.I miti (e non soltanto quelli greci, naturalmente) sono la prima forma dinarrativa di cui si abbia notizia. Ma come nascono i miti? Nascono in un certoperiodo storico, da un particolare ambiente sociale, all'interno del quale lafigura dell'eroe occupava la posizione di massimo prestigio.La principale differenza fra i miti greci e i miti d'oggi sta nel fatto chele vicende private dei personaggi allora venivano affidate alla tradizioneorale, piuttosto che alle pagine dei rotocalchi. Ma il succo è lo stesso: nona caso, infatti, mithos in greco vuol dire racconto.Tra il IX e il Vl secolo avanti Cristo, non esistendo ancora la televisione,i Greci trascorrevano gran parte delle loro serate ascoltando un «Omeroqualsiasi», ovvero un cantastorie che in cambio di un buon piatto di minestraraccontava le avventure degli Dei e degli Eroi. Non potendo, però, ricordaretutto a memoria, i cantori dell'epoca si specializzavano sui singoli miti,dando origine a dei veri e propri serial, per poi tramandarseli a voce dipadre in figlio. Ebbene, propongo di riprendere questa bella abitudine,approfittando anche delfatto che raccontare attraverso il mezzo televisivoequivale grosso modo a essere invitati a cena da almeno un milione diitaliani.Con il presente videolibro, insomma, è mia intenzione ricalcare le orme diOmero e dei grandi aedi dell'epoca classica (fatte, ovviamente, le debiteproporzioni).I due video e il libro contenuti in questo cofanetto dovrebbero fornire allettore due diversi livelli di conoscenza del mito: il primo (quello delvideo) per chi si accontenta del solo racconto, e il secondo (quello dellibro) per chi invece desidera sapere qualche cosina in più e risalire allefonti.Un'ultima precisazione: il lettore nei filmati non vedrà attori truccati daDei, o da Eroi, bensì si dovrà accontentare (nel bene e nel male) della miapersona in qualità di raccontatore unico. I motivi di questa scelta sonodettati dal fatto che il mito è di per sé un massimo, ovvero l'essenza stessadel concetto che si vuole rappresentare. Detto terra terra, perfino la piùaffascinante fra le top model e Mister Universo non ce la farebbero aincarnare Afrodite e Marte, ovvero il Massimo della Bellezza e il Massimodella Violenza. Viceversa la parola, con il suo potere evocativo, stimolandol'immaginazione di chi ascolta, finirebbe con l'avvicinarsi di più all'ideache si vuole rappresentare.L.D.C.

L'Arte amatoria

I Greci lo chiamavano Eros e i Romani Cupido, ma sia i primi che i secondi lo

raffiguravano come un ragazzino nudo e riccioluto dell'apparente età dicinque anni.Dispettoso fino alla perfidia, Eros era spietato con le sue vittime. Quandoun poveraccio veniva ferito da una delle sue frecce, Dio o mortale che fosse,non aveva scampo: s'innamorava della prima persona che gli capitava a tiro !In realtà, il birbante disponeva di due tipi di frecce, quelle d'oro e quelledi piombo (duo tela pharetra diversorum operum. . . ): con le prime inoculaval'amore e con le seconde la repulsione.Un giorno Apollo, solo per avergli fatto una ramanzina, come la si può fare aun bambino capriccioso, si beccò una freccia d'oro in pieno petto che, oltre afarlo soffrire come una bestia, lo obbligò a invaghirsi di una ninfa, Dafne,che a sua volta era stata colpita da una freccia di piombo.Di chi sia figlio Eros, e in quale circostanza sia nato, è ancora oggetto didiscussione: per alcuni sarebbe figlio di Afrodite e Ares, per altri diAfrodite ed Ermes, per altri ancora del Caos, oppure del Vento e della Notte.C'è infine chi sostiene che sia sbucato da un Uovo d'Argento emerso dalNulla e che, subito dopo, abbiacreato il Cielo, la Terra, il Sole e la Luna. Per altri invece è unermafrodito dalle ali d'oro con ben quattro teste, una di leone, una divacca, una di serpente e una di ariete, ciascuna delle quali,rispettivamente, ruggiva, muggiva, sibilava e belava. Mo', va' a capire ilsignificato allegorico di tutte quelle teste! Misteri della mitologia.I sostenitori della tesi «Eros progenitore emerso dal Caos» affermano chesenza amore non nasce un bel nulla, e che quindi deve essere stato per forzalui il primo a entrare in scena. La tesi opposta, invece, obietta che ilsesso, da solo, basta e avanza per far nascere chicchessia: ne fa testo Zeusche disseminò di figli tutto l'Olimpo limitandosi a praticare lo stuproall'ingrosso ai danni di Dee, ninfe e signore di buona famiglia. Alla finetutti d'accordo nel dire che all'inizio ci fu unicamente il sesso, e che soloin un secondo momento si entrò nell'età dell'amore con Eros e le sue temibilifrecce.Ora, però, lasciamo queste dispute al giorno in cui affronteremo lacosmogonia ed esaminiamo più da vicino il problema che ci interessa: amare èun'arte oppure un qualcosa di naturale, d'istintivo, che si può praticarecosì, alla buona, senza alcuna preparazione specifica?Su questo argomento Ovidio ci ha lasciato addirittura un poema: L'Arteamatoria, ovvero il «manuale del perfetto latin lover». Per il nostro poeta,infatti, far bene l'amore presenta più o meno le stesse difficoltà del guidarbene un carro nelle gare del Circo, o del perfetto approdo di una nave inporto durante una notte di burrasca. Dettocon altre parole, secondo Ovidio, come è necessario frequentare una scuolaper prendere la patente, così è indispensabile leggersi tutta la sua Arteamatoria per imparare a far bene l'amore. Se non mi credete, eccovi l'iniziodel poema:Se è vero che per condurre una nave a vela o un carro leggero ci vuoleun'arte, perché non dovrebbe esserci un'arte anche per condurre l'Amore? ComeTifi era il più bravo fra i timonieri, e Automedonte il più bravo fra gliaurighi così anch'io cercherò di essere per voi il Tifi e l'Automedontedell'Amore.Dopodiché, passa ai consigli pratici:In primo luogo, cercati una persona da amare, poi, una volta che l'haiindividuata, cerca di conquistarla. Il terzo impegno sarà quello di far durarequesto amore il più a lungo possibile.E aggiunge:Il cacciatore di cervi sa dove sistemare le reti, o in quale valle recarsi percatturare un cinghiale. Chi invece va a caccia di uccelli conosce benissimo iboschi, così come chi è appassionato di pesca conosce a menadito i fondalipiù pescosi. Allo stesso modo chi cerca l'amore, se vuole avere un po' difortuna, dovrà recarsi nei luoghi più affollati di belle donne.Ma dove sono questi luoghi? Ovidio non ha dubbi: a Roma.Roma ti offrirà quante donne vuoi, e tutte così belle che a un certo puntosarai costretto a dire: «Ma questa città possiede davvero tutto quello chec'è di più desiderabile al mondo». Le belle ragazze che vi prosperano,infatti, sono più numerose delle spighe di Gargara, dei grappoli d'uva di

Metimna, dei pesci del mare, degli uccelli dei boschi e delle stelle delcielo. Venere, non a caso, ha fissato qui la sua dimora. Se ti attirano glianni acerbi, lei ti procurerà una ragazzina adatta ai tuoi desideri, seinvece la preferisci nel fiore degli anni, te ne potrà procurare addiritturamille, se infine è l'età matura quella che più ti soddisfa, allora, credimi,non ci sono limiti:ne potrai avere così tante che nemmeno proverò a contarle.Una volta individuata la città, Ovidio passa a elencare i luoghi pubblici, asuo avviso, più pescosi:Come le formiche vanno avanti e indietro in lunga fila, portando il grano conla bocca, o come le api, sparse sui campi profumati, che volano di fiore infiore, così le donne, tutte eleganti, corrono in massa agli spettacoli piùaffollati. Di sicuro vanno a teatro per guardare, ma anche per essereguardate. Il teatro, infatti, è un luogo pieno di rischi per la castità e ilpudore.Segue l'elenco di tutti i luoghi idonei all'abbordaggio.Anche i Fori, chi lo avrebbe mai detto, sono adatti all'amore. Colà, spesso,al facondo oratore viene a mancare la parola: quando meno se lo aspetta,infatti, il poverino viene irretito da Amore. E di IMiride la bella Venere, che proprio lì accanto ha il suo tempio: poco primaquell'oratore era solo un avvocato, ora, di punto in bianco, è diventato un suocliente.E come dimenticare le corse dei cavalli di razza: il Circo, con tutta lafolla che si ritrova, offre molti vantaggi. Non è necessario far segni con ledita per inviare messaggi, né attendere cenni d'intesa: volendo, ci si puòsedere accanto alla donna prescelta, e nessuno ci potrà dir nulla. E già,perché le linee divisorie costringono tutti a stare gli uni addosso aglialtri, che lo si voglia o no, e saranno proprio le regole del luogo a favorireun contatto più ravvicinato con le ragazze. A questo punto, dovrai attaccarediscorso: una qualsiasi frase basterà ad avviare la conversazione. Potraichiedere, ad esempio, da buon tifoso: «Di chi sono quei cavalli laggiù?». E seti accorgi che lei fa il tifo per qualcuno, fallo anche tu per lui. Quandopoi sfilerà la processione degli Dei in avorio, mi raccomando: applaudi piùdi tutti Venere. Se poi, come spesso succede, un po' di polvere le cadrà sulvestito, pensa tu a mandargliela via con le dita; e se la polvere non c'è,mandagliela via lo stesso.Anche i banchetti, con la tavola imbandita, offrono a volte buoni approcci. Ilvino predispone l'animo all'amore e lo rende più vulnerabile alla passione:L'inquietudine si dissolve man mano che viene versato il vino. Allora nascespontaneo il riso e perfino un poveruomo comincia a farsi audace. A quelpunto, spariscono i dolori, gli affanni e le rughe della fronte. Per contro,spunta la sincerità, così preziosa ai nostri giorni. Ai banchetti, spesso, leragazze sono solite rubare il cuore ai giovani, e questo mettere insieme Venere, evino è come aggiungere fuoco al fuoco.Detto in latino suona meglio: Et Venus in vinis, ignis in igne fuit, ma illatino, si sa, è sempre più suggestivo dell'italiano; in questo caso, poi, c'èanche l'assonanza tra Venus e vinis ad abbellire l'espressione.Una volta individuati i luoghi adatti, Ovidio passa in rassegna le strategiedi attacco. Non sempre, dice, è conveniente mostrarsi vogliosi; anzi, inalcuni casi, potrebbe addirittura essere più vantaggiosa l'indifferenza.Sono sicuro che se ci mettessimo d'accordo tra di noi maschi, di non far ilprimo passo con alcuna, le donne di certo prenderebbero l'iniziativa. Suimolli prati, infatti, è sempre la vacca a muggire al toro, ed è sempre lacavalla a nitrire al maschio, ogniqualvolta viene la stagione degli amori.A volte però le cose non sono così semplici, ammette Ovidio, tuttavia bisognatentare lo stesso.Coraggio, e provaci con tutte! Ce ne sarà, dico io, almeno una, fra le tante,che si lasci conquistare! E che si concedano o meno, non dimenticare che ledonne sono sempre ben liete di essere corteggiate.Piuttosto, suggerisce Ovidio, cercati degli alleati:ad esempio, fatti amica una delle sue ancelle.Sarà lei infatti a renderti più facili gli approcci;bada bene, però, che sia al corrente dei più reconditi pensieri della sua

padrona, e che sia complice muta dei suoi svaghi segreti. Sceglierà lei ilmomento più propizio per comunicarle i tuoi messaggi (anche i medici badanoal momento adatto) e le parlerà quando vedrà in lei l'animo ben dispostoa lasciarsi conquistare. L'ancella, pettinandole i capelli al mattino, leparlerà di te, e dopo aver giurato che stai lì lì per morire d'amore,aggiungerà di suo parole persuasive. Mi chiedi se sia indispensabile sedurreanche l'ancella? Non sempre: se è bella fallo pure, cerca però di farti primala padrona e poi la serva.Ma non basta:Devi fare sempre l'innamorato, simulare a parole le ferite d'amore. Cerca conogni mezzo di convincerla che è stata lei a trafiggerti. Bada che non dovraifaticare molto a farglielo credere, dal momento che non c'è donna al mondoche non si ritenga degna di essere amata. Gli elogi alla bellezza, poi, fannosempre piacere, anche alle donne oneste, e perfino alle vergini. Se ciò nonfosse vero, non si capirebbe perché Giunone e Minerva si siano tantoarrabbiate quel giorno in cui vennero considerate da Paride meno belle diVenere.Prometti senza paura (le promesse attirano sempre le donne) e chiama pure atestimoni gli Dei.Giove, dall'alto, se la ride delle bugie degli amanti:non appena le ascolta, infatti, dà subito ordine a Eolo affinché le disperdanel vento.Dopo averlo istigato a mentire, Ovidio si attende dall'allievo una reazioneindignata, o quanto meno esitante. Ma a questo punto è già pronta la suareplica: anche le donne mentono, anzi in genere mentono di più!Ingannare chi inganna, questa è la regola! Le donne poi, nella maggior partedei casi, sono una razza sacrilega. E allora, coraggio: perfino le lacrime tipotranno essere d'aiuto, e fa' che lei veda bene le tue guance inumidite. Ese le lacrime tardano a venire (giacché a volte non vengono a tempo debito),bagnati pure gli occhi con la saliva.Questo è, in sintesi, quanto consiglia Ovidio (a noi uomini, ovviamente)nel primo libro dell'Arte amatoria. Nel secondo invece elenca, a una a una,tutte le strategie per far durare l'amore quanto più a lungo possibile, e cidice: «Se, grazie a me, avete appreso l'arte della cattura, sarà ancoragrazie a me che apprenderete l'arte del mantenimento». (Arte mea capta est,arte mea tenenda est.)Cominciamo con l'esaminare il caso in cui un'amante avida ci chiede unregalino particolarmente costoso. Andateci piano, suggerisce Ovidio, ericordatevi che ci sono donne capaci di ridurvi sul lastrico a forza diregalini.Se un venditore, un vero bellimbusto, poco poco si accorge che la tua donna èuna spendacciona, subito ne approfitterà per sciorinare in tua presenza lapropria mercanzia. Lei allora ti chiederà di darci solo un'occhiatina, tantoper dimostrare il tuobuon gusto, quindi comincerà a baciarti sulla guancia affinché tu le regaliqualcosa. Giurerà che per anni e anni non ti chiederà più nulla... e chequell'acquisto è per te un vero affare. A quel punto non avrai più scampo:anche se trovassi la scusa di non avere con te il denaro, il venditore tichiederebbe un impegno scritto, roba da pentirsi di aver imparato a scrivere.Certo Ovidio non doveva avere una grande opinione delle sue concittadine: conogni probabilità, però, lui, nell'Arte amatoria, parla solo delle cortigianee non già delle matrone romane che, viceversa, pare fossero molto virtuose.Avessi dieci bocche e altrettante lingue non riuscirei mai a elencare tuttele arti scellerate delle donne!Ma senza un regalino o un'attenzione di tanto in tanto, come faremo amantenerle al nostro fianco?Con la parola, sostiene Ovidio, solo con la parola.Dei poveri io sono il poeta, giacché molto ho amato in povertà; e se nonpotevo permettermi regali, in compenso regalavo belle parole.La guerra la si faccia con i Parti, con l'amica elegante invece ci sia semprela pace, lo scherzo e tutto ciò che genera amore. Se di fronte a questoatteggiamento lei non sarà dolce e cortese, allora sopportala e tieni duro: inpoco tempo si ammorbidirà. Un ramo d'albero si piega se lo curvi con grazia,se Ci metti invece tutta la tua forza si spezza. Perfino le tigri e i leoni

della Numidia si piegano con le buonemaniere, così come nei campi il toro, un po' alla volta, finisce peraccettare l'aratro.Se lei fa resistenza, cedi: solo cedendo risulterai vincitore. Cerca direcitare la parte che lei crederà opportuno assegnarti. Se ti accorgi checritica, critica anche tu. Quando approva, invece, approva anche tu. Se ride,ridi, se piange, piangi.E non considerare una vergogna (è una vergogna che le risulterà gradita)che la tua mano virile possa reggerle lo specchio.Se ti dirà: «Troviamoci al tal posto», rinvia ogni cosa e corri. La folla nonrallenti il tuo cammino. E se non hai un mezzo di trasporto con cui andare,miliTanta flessibilità sorprende in un uomo come Ovidio. Seppure, a benguardare, non di flessibilità si tratta, ma di cinica disistima nei confrontidella persona amata. Mi spiace per Ovidio, ma un amante come quello da luidescritto nell'Arte amatoria non verrebbe accettato da nessuna delle donne chenoi oggi frequentiamo.La sincerità, ad esempio, è una dote assolutamente sconosciuta al poeta.Sentite cosa consiglia al suo allievo:Se hai a cuore di tenerla legata, fa' in modo di apparire incantato dalla suabellezza: se indosserà una porpora di Tiro, fa' l'elogio delle porpore diTiro, se sarà in tessuto di Coo, dille che il tessuto diCoo le dona. Se la vedi adorna di gioielli d'oro, falle capire che per te leiè più preziosa dell'oro, se invece indossa solo una tunica, allora dille conentusiasmo:«Mi metti il fuoco addosso!»«Moves incendia», e questa sarebbe la frase che, secondo Ovidio, dovremourlare, estasiati, ogniqualvolta vediamo la nostra donna vestita in modocasuale.E inutile, adesso, stare a elencare tutte le tattiche che Ovidio suggeriscenel manuale, e andiamo direttamente al capitolo della infedeltà: quelledell'uomo e quelle della donna. Per l'uomo il poeta non ha dubbi: tradire èun'arte.Tu nega, nega sempre, anche se le cose che hai nascosto con cura venisseroalla luce, anche se fossero lampanti. E comunque non mostrarti mai remissivoo più dolce del solito, che questi sì che sarebbero indizi chiarissimi dicolpevolezza. Non risparmiarti invece con le reni e ricordati che la recenteavventura va smentita in un solo modo:andando a letto insieme.Devi metterle le braccia intorno al collo e accoglierla piangente sul tuopetto. Dàlle continuamente baci mentre piange e soprattutto falle provare ipiaceri di Venere. Solo così si potrà dissolvere la sua collera: col trattatodi pace dell'amplesso.Dopo tale premessa, Ovidio fa un raffronto tra il mondo della preistoria,dominato dalla forza bruta, e il mondo suo, regolato dall'amore.All'inizio c'era solo una massa confusa, all'interno della quale non erapossibile distinguere gli astri, la terra e il mare, finché un giorno laterra fu posta sotto il cielo e il mare intorno a essa. Allora le selveaccolsero le fiere, l'aria accolse gli uccelli e i pesci trovarono rifugionelle limpide acque. L'uomo invece vagava nei campi deserti e ubbidiva soloalla forza bruta. La sua casa era il bosco, l'erba il suo cibo e le foglie ilsuo giaciglio. Fu ilpiacere dell'amore ad addolcire gli animi selvaggi.S'erano fermati per caso l'uomo e la donna nello stesso luogo: ciò che feceroquel giorno lo appresero da soli, senza alcun maestro. A quei tempi non siconosceva ancora l'arte di amare, ma Venere compì lo stesso il suo dovere.Coraggio, ordunque, che questa è la medicina giusta per calmare l'amanteadirata: non esistono al mondo altre vie per riappacificarsi. Fare all'amore èuna medicina più efficace di qualsiasi filtro di Macaone.L'amore però, ammette Ovidio, non è sempre un tenero idillio, anzi, il piùdelle volte è pena e sofferenza.Si prepari l'amante a superare molte prove, e si ricordi che i piaceri sonoscarsi e le pene di gran lunga più abbondanti. Quante sono le lepri sul monteAthos, le api sull'Ibla, le bacche sul ceruleo albero di Pallade, leconchiglie sui lidi, tante sono le pene nell'amore.Ed ecco cosa deve essere pronto a sopportare un uomo se vuole diventare un

perfetto amante:Ti diranno che è uscita, e proprio mentre te lo stanno dicendo tu lascorgerai girare per casa attraverso un'apertura. Ebbene, in quel caso dovraiconvincerti che è uscita davvero e che se l'hai vista è perché sei unvisionario. Se dopo aver ottenuto un appuntamento per trascorrere con lei unanotte d'amore troverai la sua porta sbarrata, stendi il tuo corpo sulla nudaterra e aspetta. E se, dopo aver supplicato a lungo la donna crudele, ibattenti resteranno chiusi, lascia sull'uscio le rose che ti ornavano il capo.Non è vergogna, in nome dell'amore, sopportare gli insulti e le percosse diuna donna, né baciare i suoi piedi delicati.Queste cose Ovidio le scrive, ma non le pensa.Infatti, dopo una decina di versi, si lascia andare e sbotta:In quest'arte, lo confesso, non ho ancora raggiunto la perfezione: sono iostesso inferiore ai miei precetti. Se davanti a me un estraneo facessesegnali alla mia donna, non riuscirei mai a sopportarlo! Di sicuro mi fareiprendere dall'ira. A volte, infatti, è meglio non sapere. Ciò detto, ragazzi,eccovi un consiglio prezioso: evitate di cogliere in flagrante le vostredonne!E qui, per avvalorare la tesi, Ovidio racconta il celebre episodio di Efestoche scopre Ares e Afrodite, nudi, a letto insieme. In due parole, il mitoracconta come Efesto, il Dio zoppo, sospettando di essere tradito da suamoglie, avesse messo nel proprio letto una rete d'oro, robusta quantoinvisibile.In tal modo l'industrioso Dio riuscì a imprigionare i due amanti, dopo di chechiamò intorno al lettotutti gli Dei dell'Olimpo perché si rendessero conto di persona fino a chepunto la moglie era una svergognata. Risultato finale: Efesto venne schernitoda tutti e la vista di Afrodite nuda eccitò anche Ermes e Poseidone!Il poeta conclude il secondo libro impartendo agli uomini una lezioned'ipocrisia:Non criticare mai i difetti delle donne! Ignorarli è una regola utile amolti. Se, ad esempio, c'è qualcosa che non tolleri, cerca di rassegnarti:ricordati che più il tempo passa e più ti abituerai. Scegliendo i terminigiusti, poi, si possono addolcire le peggiori magagne: se lei è strabica lepotrai sempre dire che è simile a Venere, se invece ha gli occhi slavati dilleche somiglia a Minerva; e poi ancora: se è magra le dirai che è snella, se ègrassa che è fiorente, se è bassa che è minuta, e così di seguito: invece disottolineare un difetto, evidenzia il pregio che le è più vicino.Il terzo libro dell'Arte amatoria Ovidio lo dedica invece alle donne, e dalprimo all'ultimo verso è prodigo di consigli per il gentil sesso. Sottosotto, il poeta è preso dagli scrupoli: dopo aver speso due interi libri adirne peste e corna, ora fa marcia indietro ed è pronto ad ammettere che ledonne non sono tutte uguali:Non bisogna rovesciare su tutte la colpa di alcune:che ogni ragazza invece sia giudicata per le azioni che ha commesso! Se èvero che è esistita un'Elena sulla quale furono lanciate accuse infamanti, èaltrettanto vero che è esistita anche una Penelopeche, al contrario, ha atteso fedele per due lustri, e poi per due lustriancora, che il marito terminasse il suo errare dopo aver a lungo combattuto.A questo punto, perché non insegnare anche alle donne le strategie dell'amore?Ho dato le armi ai Danai contro le Amazzoni, non mi resta ora che dare learmi anche a te, Pentesilea, e alle tue schiere. Scendete or dunque in guerragli uni contro gli altri, ad armi pari, e che vinca colui a cui andràmaggiormente ilfavore delfanciullo che vola.Ovidio passa poi ai consigli pratici.Innanzitutto lavatevi! Che il viso, in particolare, venga lavato ogni mattinacon acqua appena attinta, che l'incuria non annerisca i denti, che l'asproodore di capro non alligni mai nelle vostre ascelle, e che le gambe non sianoirte di duri peli.Dono divino è la bellezza, ma quante di voi, in tutta onestà, possono dire diessere belle? Gran parte delle donne infatti non possiede quel dono. Se lefemmine di una volta non curavano molto ilproprio corpo, era perché a queltempo anche gli uomini non erano curati. Andromaca indossava una ruvidatunica, ma era anche la moglie di un duro soldataccio, e quale veste avrebbe

potuto mai indossare una donna come la moglie di Aiace sapendo che il maritoviveva giorno e notte coperto da sette pelli di bue?Forse c'è ancora qualcuno a cui piacciono questipersonaggi del passato, io, per quanto mi riguarda, ringrazio gli Dei diessere nato oggi.Ed ecco una vera e propria lezione di trucco:Con un velo d'argilla aumentate il candore della pelle, e se qualcuna di voiha il viso esangue che usi pure il rosso artificiale. Con un segno ben fattoriempite il vuoto sotto le sopracciglia e con un sottile cerone coprite leguance che la natura vi ha dato.Non abbiate vergogna di segnare gli occhi con la cenere, oppure con il croco.Ma che il vostro innamorato non veda mai i vasetti delle creme messi in bellamostra sulla toilette: l'arte dell'amore giova all aspetto solo se è bennascosta. I cosmetici aumentano la bellezza ma sono brutti a vedersi. Inpubblico non vi consiglierei mai di usare il midollo di cerva o dispazzolarvi i denti. Chiudete allora la porta della vostra camera e nonmostrate mai agli altri un'opera imperfetta.Non siano mai in disordine i capelli. La mano che li cura, a seconda deicasi, può donare o annullare la bellezza. L'acconciatura giusta non è di unsolo tipo: ogni donna può scegliere quella che più le dona, e prima che aglialtri chieda consiglio al suo specchio. Un ovale allungato vuole unascriminatura senza orpelli (così, infatti, era solita pettinarsi Laodamia).Un viso rotondo invece preferisce che tutti i capelli siano raggruppati sulcapo in modo da mostrare le orecchie. Una lascerà che i capelli le ricadanodolcemente sulle spalle, un'altra se li legherà tutti all'indietro come laDea Diana, allorquando, sollevata la tunica, andava a caccia di atterritefiere.Con voi donne la natura è stata benigna: mentre a noi uomini la testa, congli anni, diventa a volte nuda, voi avete modo di tingervi i capelli che sisono imbiancati con le erbe di Germania e l'artificio spesso vi procura uncolore ancora più bello di un tempo.Quanto all'abbigliamento, Ovidio lo consiglia non troPPo vistoso, ma nemmenotroppo dimesso.Una sobria eleganza è quella che attrae: non venite avanti con vestiappesantite e trapunte d'oro. Con tanti colori che ci sono in giro, a prezzimodesti, che follia è mai questa di portare addosso un intero patrimonio?Ecco il celeste, il colore del cielo quando è sgombro di nuvole, ed eccol'azzurro intenso, il colore che imita le onde del mare e che penso siaquello preferito dalle ninfe, e il croco, il colore del mantello che copre laRugiada allorquando la Dea aggioga i cavalli del mattino. Poi abbiamol'ametista, il viola cupo, il rosa pallido, il marrone delle castagne, quellopiù chiaro delle mandorle e via dicendo. Quanti sono i fiori che la primaveraproduce, tanti sono i colori che la lana è in grado di assorbire. Ma bisognaanche essere bravi a saperli scegliere: un tono scuro si adatta di più allecarnagioni candide (stava bene infatti a Briseideallorquando fu rapita), mentre il bianco si addice maggiormente alle brune (ela figlia di Cefeo ben lo sapeva quando calpestò la terra di Serifo).E passiamo ai comportamenti. Qui Ovidio diventa un vero e proprio maestro dibon ton: sa tutto su come ci si deve sedere, mangiare, bere,camminare, ridere, sdraiarsi sul triclinio e via dicendo. Consiglia il giustotono di voce da mantenere durante le conversazioni, e le principali arti chebisogna conoscere per brillare in società.Se sei piccola è meglio che tu stia seduta, se non altro per non sembrareseduta quando stai in piedi, e nel triclinio fai in modo di stare bendistesa, per minuta che sia la tua statura, e anche qui, affinché nessunomisuri la tua taglia mentre sei sdraiata, cerca di non mostrare i piedidrappeggiandovi sopra la coperta.Chi ha l'alito pesante non parli mai a digiuno, e si tenga a distanza dalviso dell'uomo con cui parla.Quando si hanno i denti grandi o irregolari è preferibile non ridere: sicorrono meno rischi. E se proprio scappa una risata, fate in modo di aprirela bocca moderatamente e di coprire le radici dei denti con le labbra. Avolte è meglio piangere. In verità, anche per piangere è necessario unostile: le donne di classe, infatti, piangono, ma lo fanno scegliendo il

momento giusto e i modi più appropriati.imparate a camminare con passo femminile giacché anche l'andatura fa partedella vostra eleganza:attira o mette in fuga lo sconosciuto che vi guarda.Alcune donne muovono i fianchi con arte e fanno gonfiare la tunicaondeggiante, altre invece, al pari della sposa rubiconda del burino umbro,camminano a gambe larghe facendo grandi passi. E anche qui, come in tantealtre cose, ci vuole misura: se è rozzo un certo tipo di andatura, anchel'altro non èconsigliabile, essendo manierato più del lecito.La voce è quanto mai importante: spesso, infatti, quando è armoniosa, fa damezzana nelle vicende d'amore. Le Sirene erano strani esseri marini che convoce melodiosa attiravano a sé tutte le navi, anche le più veloci. QuandoUlisse le udì, per poco non si liberò dai lacci, e se non ci riuscì fu solograzie ai suoi compagni che per non udire le voci delle Sirene si eranoturate le orecchie con la cera.Una ragazza dovrebbe sempre saper cantare, suonare l'arpa e danzare. Iballerini, infatti, il pubblico li ama, tanto eleganti sono le loro movenze.E qui Ovidio si lascia prendere dal suo stesso gioco e passa, armi e bagagli,dalla parte delle donne.Indica loro i luoghi più giusti per mettersi in mostra, ed elargisce a pienemani decine di piccoli suggerimenti.A voi ragazze belle è utile la folla: andate e venite, fuori di casa apasseggio. Chi mai conoscerebbe Danae se fosse rimasta sempre rinchiusa nellatorre fino alla vecchiaia? Una bella donna, invece, ha il dovere di offrirsiallo sguardo della gente: tra i tanti che la guardano, ce ne sarà pure unoche resterà abbagliatO! Che la ragazza si soffermi in ogni luogo, desiderosadi piacere: se l'amo è pronto, prima o poi un pesce abboccherà.In amore non esistono remore, incalza Ovidio, perfino i funerali, a volte,possono tornare utili!Funere saepe viri vir quaeritur (spesso è al funerale di un marito che sirimedia un altro marito). Ed ecco, invece, come comportarsi allefeste.Arrivate sempre in ritardo, e con eleganza fate il vostro ingresso a luci giàaccese. Più lunga sarà stata l'attesa, più gradita diventerà la vostrapresenza.L'attesa è una grande ruffiana. Anche se siete brutte, sembrerete più belle aquelli che hanno già bevuto. Prendete pure i cibi con le dita, ma, miraccomando, fermatevi prima di essere sazie, mangiate sempre un po' di menodi quello che vorreste mangiare, e lo stesso valga per il vino. Insomma fatein modo che la mente e le gambe restino ben salde a terra. in altre parole,se una cosa è una, evitate di vederla doppia!Fin qui, Ovidio si è perso nei dettagli. L'argomento, però, che più interessail sesso femminile è un altro: lei, la donna, vuol sapere come devecomportarsi quando è corteggiata da un uomo che le piace. Deve cedere oresistere? E se decide di concedersi, è meglio che lo faccia subito, alleprime avances, o che attenda un pochino al fine di accrescere nellospasimante il desiderio? Il poeta in proposito non sembra avere idee moltochiare: all'inizio è favorevole al lasciarsi andare, poi, all'improvviso,cambia parere e opta per la difesa a oltranza.Finché ti è consentito dichiarare l'età, goditi la vita: gli anni se ne vannocome acqua che scorre, e l'ora che hai appena trascorso non può più tornareindietro. L'età scivola via con passo lieve, e tu, cheora respingi gli innamorati, sappi che un giorno, da vecchia, giacerai solanel letto e sentirai tanto freddo a causa della solitudine. Oh te infelice,con quanta rapidità le rughe ti trasformeranno la fisionomia! E allora, dammiretta: segui l'esempio delle Dèè e non rifiutarti alle voglie degli uomini.Anche ammesso che loro t'ingannino, a te cosa costa? In fondo resta tuttocome è: fossero anche in mille a prendersi il piacere, tu non ci perderestinulla. Il ferro si consuma, la pietra con l'uso si assottiglia, mentre quellaparte che avete voi donne si mantiene integra e non teme alcun logorio. Allafin fine, cosa ci perdi se poi con l'acqua ti lavi?Che il piacere di Venere tu possa sentirlo in completo abbandono, sin nellefibre più profonde, e che il godimento sia uguale per entrambi. I giochi di

Venere sono mille, dal più semplice (di quando i due corpi giacciono l'unoaccanto all'altro) al più complicato. Non cessino mai per te i giochi d'amoree i dolci mormorii, e che in questi giochi si odano pure parole lascive. Mase per colmo di sfortuna la Natura ti avesse negato di provare i piaceri diVenere, allora simula le gioie più dolci con ingannevoli suoni. Bada soltantoche non se ne accorgano: crea con i movimenti e gli sguardi le espressioniestasiate di chi sta godendo, e che le parole e l'ansimare possano abilmentefingere il tuo godimento.Verso la fine del libro, però, il poeta ci ripensa e consiglia unatteggiamento più riservato:L'attesa per gli innamorati è sempre stimolante, purché non sia troppo lunga.Non mostrarti facilealle pretese dello spasimante, ma non respingerlo neppure con durezza: fa'che egli senta, nel medesimo tempo, timore e speranza.Per poi diventare addirittura crudele nei confronti del maschio.Ciò che viene dato con facilità alimenta a fatica un amore: ai piacevoligiochi si mescoli talvolta un rifiuto. Lascia che il tuo amante resti inattesa, fuori della porta, e che supplichi, minacci e urli nel buio dellanotte: «O porta crudele perché non ti apri». Il dolce viene presto a noia,una bevanda amara invece spesso è stimolante. Ciò che impedisce alle mogli diessere amate è il fatto che i mariti godano dei loro favori ogniqualvolta nehanno voglia. Tu metti invece fuori della porta un servo che gli dica a musoduro: «Qui non si passa», e per giunta fagli credere che ha un rivale e chenon è il solo ad avere accesso al tuo letto.Poi si rende conto di ciò che sta scrivendo e geme:Ma dove mi sono lasciato trasportare?! E folle affrontare in tal modo ilnemico, consegnandosi prigioniero spontaneamente e facendogli anche dainformatore. L'uccello non mostra al cacciatore il modo migliore per farsicatturare, la cerva non insegna a correre ai cani inseguitori. Ma ormai èfatta:ho già consegnato alle donne di Lemno le spade con le quali verrò trafitto.L'importante, però, è che si dica: «Ovidio fu il mio maestro».#Il simposio

Il tema dell'Amore fu l'argomento principale di una celebre cena, tenutasi adAtene 2407 anni fa (anno più, anno meno) in casa del poeta tragico Agatone.Oltre al padrone di casa erano presenti i seguenti signori: Fedro,Eurissimaco, Pausania, Aristofane, Socrate e Aristodemo (quest'ultimo, inverità, non invitato). Sul tardi arrivò anche Alcibiade con il suo seguito.Tutto quello che venne detto in tale occasione fu trascritto fedelmente,parola per parola, da Platone nel più bello dei suoi dialoghi: il Simposio.Simposio, detto alla buona, vuol dire banchetto.Quello greco, in particolare, aveva regole molto rigide: prima ci si lavavale mani, poi gli schiavi portavano il cibo, quindi ci si lavava di nuovo lemani e infine si ascoltava una flautista suonare. Il clou del simposio, però,stava tutto nel finale, e per la precisione nel momento in cui si cominciava abere e a parlare: i commensali si mettevano in testa una coroncina di alloro,forse in onore di Apollo, e sceglievano il tema della serata. Il vino, ingenere, era molto allungato, un po' perché costava caro e un po' perchébevuto allo stato puro era considerato un veleno. La misura degliannacquamenti variava alquanto: si oscillava dalle tre parti di acqua e unadi vino alle tre parti di acqua e due di vino, e si arrivava a tanto solo nelcaso che ci si volesse ubriacare.Il dialogo inizia con Aristodemo e Socrate che s'incontrano per caso lungouna strada di Atene, una di quelle strade, precisa Platone, «che sembranofatte apposta per parlare e camminare».Aristodemo vide Socrate lavato da capo a piedi e calzato con i sandaletti,cosa che faceva alquanto di rado, e gli chiese dove andasse così inghingheri. E Socrate gli rispose:«Vado a cena da Agatone, giacché ieri, alla sua vittoria, me ne sono scappatoper paura della confusione. Gli ho promesso, però, che sarei tornato oggi peri festeggiamenti, ed ecco il motivo per il quale mi sono fatto così bello:per andare da bello in casa di un bello. Tu, piuttosto, cosa ne penseresti di

venire a cena con me, seppure non invitato?» E Aristodemo rispose:«Ci verrei senz'altro, sempre però che la mia presenza fosse di tuogradimento.» E Socrate:«Allora seguimi, o Aristodemo, in modo che potremo avvalorare il proverbioche dice: "A tavola dei grandi, vanno i grandi senza invito".» In realtà ilproverbio non diceva affatto così (per la precisione, diceva che a casa degliumili vanno i grandi senza invito), ma dal momento che agathos voleva direanche «buono e nobile», Socrate subito ne approfittò per farci sopra un giocodi parole.Comunque, umile o grande che fosse, il giovane Aristodemo s'imbucò lo stesso,e noi, da queste poche battute, abbiamo capito che anche a quell'epoca c'erail problema degli imbucati. Venivano chiamati parasitos, nel senso di «coloroche mangiano con».Una volta giunti alla porta di Agatone, Socrate disse ad Aristodemo diavviarsi da solo giacché lui voleva sostare un attimino a riflettere. Dopo diche si bloccò in mezzo alla strada, in pratica come una statua di marmo, e simise a pensare. A Socrate capitava spesso questo fatto di estraniarsi dalresto del mondo: una volta (si dice) lo avrebbe fatto per un'intera notte,non solo, ma a piedi nudi in mezzo alla neve. Quella volta del Simposio,invece, ci restò solo un paio d'ore e giunse a tavola quando gli altri eranoquasi alla frutta.«O Socrate,» gli disse allora Agatone, facendogli spazio sul triclinio«distenditi accanto a me, e fa' che io pure possa avvalermi, toccandoti,della sapienza che mi è venuta incontro fuori della mia porta.» «Sarebbe bello,o Agatone» rispose prontamente Socrate «che la sapienza fosse di tale naturache, come l'acqua, scorresse dal più pieno al più vuoto.In questo caso, però, avvicinandomi a te, sarei io a riempirmi della tuasapienza, dal momento che la mia è robetta di poco conto, mentre la tua è COSìgrande che è stata capace di farti prevalere su tutti i poeti davanti atrentamila Elleni!» Chiaramente Socrate lo stava sfottendo e Agatone se neaccorse subito, tant'è vero che gli rispose alquantO risentito) «Seiinsolente, o Socrate, ma tra poco sarà qui Dioniso a constatare chi di noidue è più pregno di sapienza. Ora, però, tu pensa a mangiare.» Andata via laflautista, prese la parola Eurissimaco. «Se siete tutti d'accordo,» dissel'insignemedico «io proporrei come argomento della serata l'Amore Che ciascuno,procedendo da destra verso sinistra;faccia un bel discorso in lode del Dio, e che sia il giovane Fedro acominciare, dal momento che lui è anche il primo da destra.» Iniziò cosi lalunga carrellata degli oratori. Fedro, all'epoca era poco più di unragazzo e, con ogni probabilità, quello per lui doveva essere il primosimposio: non si sbilanciò quindi più di tanto e si mantenne sulle generali.«Amore è un Dio potente e meraviglioso per molte ragioni, non ultima la nascita: deve essere considerato infatti il più antico degli Dei,e, ovemai ne dubitassimo ce lo conferma Esiodo allorquando sostiene che fului il primo a emergere dal Caos.Ebbene amici, così come Amore è un Dio meraviglioso, anche coloro che amanosono a loro volta meravigliosi, giacché sono tutti disposti a sacrificarsiper la persona amata. Alcesti alla fin fine fu l'unica ad accettare la morteal posto del marito, sebbene questi avesse ancora in vita entrambi igenitori. Ciò detto, io affermo che chi ama è più divino di chi è amato, dalmomento che solo lui è pervaso dal Dio.» Il secondo a parlare fu Pausania, unamico di Platone, da non confondere con l'altro Pausania, il viaggiatore,quello che scrisse la Guida della Grecia.«Ho l'impressione, o Fedro, che tu abbia parlato di Amore come se sitrattasse di un unico Dio, laddove essi sono almeno due, e noi tutti vorremmosapere quale dei due di questi Dei sia il più degno di essere onorato. Esisteinfatti l'amore celeste di Afrodite Urania e quello volgare di AfroditePandemia.Ebbene, sapete cosa vi dico? Che l'amore volgare di Afrodite Pandemia èdavvero volgare. Gli uomini che lo praticano corrono dietro alle donne,desiderano i loro corpi più delle loro anime, e, intenti come sono araggiungere uno scopo così modesto, finiscono col prediligere le persone piùstupide, per l'appunto le donne. Al contrario il vero amatore, quello

celeste, preferisce i maschi, ammirandone la natura forte e l'intelligenzapiù viva. Purtroppo da noi, in Grecia, la norma non è sempre chiara: inElide, in Beozia e presso i Lacedemoni, è onesto amare i maschi, nella loniae neipaesi barbari invece, proprio perché governati da tiranni, la pederastiaè considerata una pratica vergognosa. Ad Atene infine non si sa bene comestiano le cose: a parole sono tutti permissivi, mentre nei fatti mettono ipedagoghi alle costole dei figli per poterli meglio controllare, vietano airagazzi più ambiti d'intrattenersi con gli amanti e inducono i loro coetaneiafare la spia. Ora io penso che l'amore in séper sé non sia una cosa né bellané brutta, ma che tutto dipenda dal come viene fatto: se è fatto bene èmorale, se è fatto male è vergognoso.» L'omosessualità, e in particolare lapederastia, era una pratica normale nella Grecia classica, ne fanno fede lepoesie di Alcmane a Sparta e quelle di Saffo a Lesbo. Non a caso l'amore tradue persone del medesimo sesso è passato alla storia come «amore greco». Peri maschi, i primi approcci sessuali avevano luogo nelle palestre, mentre perle femmine il luogo più indicato per l'iniziazione erano le scuole di danza.L'amante veniva chiamato erastes, l'amato eromenos, i bambini (sia maschi chefemmine) pais, e i ragazzini dai quattordici ai diciotto anni epheboi. Illottare insieme completamente nudi offriva molte occasioni d'incontro tra gliadolescenti.Spesso le palestre esibivano nei vestiboli una statua di Eros, e non già diAres, come sarebbe stato, invece, più lecito attendersi, dal momento che Aresera il Dio della Guerra.Dopo Pausania, avrebbe dovuto prendere la parola Aristofane, ma un singhiozzocontinuo glielo impedì. Il commediografo allora chiese a Eurissimaco disostituirlo o, in alternativa, di guarirlo all'istante con un rimedio. A mequesta faccenda del singhiozzo di Aristofane ha fatto crescere ancora di piùl'ammirazione che già nutrivo per Platone scrittore! E infatti mi chiedo:quale filosofo d'oggi avrebbe mai interrotto la sua esposizione, solo perraccontare il singhiozzo di un partecipante al convegno?«Farò l'uno e l'altro,» rispose il medico «parlerò alposto tuo e nelfrattempotu tratterrai il respiro in modo da farti passare il singhiozzo. Sull'Amore hoanch'io una mia teoria cke però è strettamente connessa al mio lavoro, ovveroalla medicina. Pausania sostiene che ci sono due forme di Amore, mentre iopenso che ce ne sono moltissime: vedo infatti l'Amore, non solo negli uominie nelle donne, ma anche negli animali, nelle piante e in tutte le altre specieviventi. Dovunque esiste una contrapposizione di valori (pienolvuoto,caldolfreddo, amaroldolce, secco/umido) io scorgo la necessità di unamediazione. Amore pertanto inteso come apportatore di armonia. La medicina, oamici, è uno strumento del Dio Amore e di questo bisogna essere riconoscential suo fondatore, al divino Asclepio. Quando l'amore volgare spinge l'uomo aindulgere ai piaceri della tavola, ecco giungere di corsa l'Amore celeste chesotto forma di medicina fissa il limite della giusta misura.Un potentissimo starnuto coprì l'ultima frase di Eurissimaco, e forse gliimpedì di ricevere l'applauso a cui aveva diritto. Tutti, infatti, si volseroverso Aristofane, l'autore dello starnuto, e il commediografo ne approfittòper dare inizio al proprio intervento.«Non ho più il singhiozzo» esclamò. «E trovo stupefacente che il Dio Amore dicui parla Eurissimaco si sia servito di una cosa ridicola come uno starnutoper ripristinare l'ordine nel mio corpo./» «Il tuo difetto, o Aristofane, èquello di voler essere sempre spiritoso, a ogni costo» replicò sconsolato ilmedico. «Ora, se non la smetterai, sarò costretto a montare la guardia al tuodiscorso, per capire, ogni volta, quando stai parlando sul serio e quando perscherzo.» «Non dartene pensiero, o Eurissimaco, dal momento che sto per direcose solo ridicole e non spiritose. Per capire bene la forza dell'Amore, ènecessario che tu sappia quali prove ha sofferto la natura dell'uomo. Inorigine l'umanità comprendeva tre sessi: gli uomini, le donne e certi esseristrani, chiamati androgini, che erano maschi e femmine nello stesso tempo.Tutti questi individui però erano doppi rispetto a noialtri: avevano quattrobraccia, quattro gambe, quattro occhi e via dicendo; e ciascuno di essi avevadue organi genitali, tutti e due maschili negli uomini, tutti e due femminilinelle donne, e uno maschile e uno femminile negli androgini.«Camminavano a quattro gambe, ma potevano procedere in ogni direzione, come iragni. Avevano un caratteraccio tremendo: possedevano una forza sovrumana e

una sovrumana superbia, al punto da sfidare gli Dei come se fossero loropari. Zeus, in particolare, era indignato per la loro tracotanza:non voleva ucciderli, per non perdersi i sacrifici, ma doveva pur reagirealle loro intemperanze. Pensa e ripensa, un bel giorno decise di dividerli indue, in modo che ciascuna parte avesse due gambe e un solo organo genitale; eli minacciò che se avessero perseverato nell'empietà, li avrebbe divisi ancorain due in modo da costringerli a camminare a bakelloni su una gamba sola.Dopo l'intervento chirurgico , malgrado Apollo avesse provveduto acicatrizzare le ferite, gli uomini erano diventati infelici: ciascuno di essisentiva la mancanza dell'altra metà, i semiuomini cercavano i semiuomini, lesemidonne desideravano le semidonne, e la metà maschile degli androginicorreva dietro, disperatamente, alla metà femminile. Insomma, per ritrovarela felicità perduta, ognuno di loro non vedeva l'ora di riunirsi con l'animagemella. Ed è appunto questa smania che si chiama Amore.» Dopo Aristofaneprese la parola Agatone. L'intervento del padrone di casa apparteneva algenere in cui la forma prevale sui contenuti. In altre parole, Agatone nondisse nulla d'interessante: badò solo a impreziosire il discorso confronzoli, iperboli e frasi a effetto, le stesse, probabilmente, con le qualiaveva vinto le gare il giorno prima. Ciò nonostante, un lungo applauso lopremiò alla fine. Agatone Si alzò in piedi per ringraziare, e subito dopoSocrate (l'unico a non aver applaudito) prese la parola.«Lo sapevo che sarei stato messo in crisi dalla bravura di Agatone» esordìil filosofo, con una smorfia di disappunto. «Ascoltandolo mi sembrava diudire i virtuosismi di Gorgia e poco ci è mancato che non me ne scappassi viadalla vergogna. Nella mia ingenuità, infatti, pensavo che ognuno di noidovesse limitarsi a dire il vero e non già che fosse obbligato a farel'apologia dell'Amore, magari raccontando delle frottole.Adesso non vi aspettate da me un secondo panegirico, se non altro perché nonlo saprei fare. Posso solo provare a dire la mia verità sull'argomento.» «CheAgatone abbia parlato in modo sublime è vero,» lo contestò Eurissimaco «mache tu, o Socrate, sia in imbarazzo, non lo credo nemmeno se me lo giuri sututti gli Dei. Parla, ordunque, e raccontaci la tua verità!» «A istruirmisulle cose d'Amore» continuò Socrate «fu una donna della Mantinea; sichiamava Diotima. Ella mi disse che Amore non era un Dio ma un Demone, comedire qualcosa a metà tra un Dio e un mortale, e che non era né bello, nébrutto, né sapiente, né ignorante.» «A me sembra che tu stia bestemmiando!»esclamò Agatone. «Come fai a dire che Amore non è un Dio?!» «Così disseDiotima» si scusò Socrate, come a precisare: non sono io che lo affermo.«Pare che il giorno in cui nacque Afrodite, gli Dei abbiano tenutosull'Olimpo un grande banchetto e che fra i tanti invitati ci fosse anchePoros, il Dio dell'Espediente, o se preferite dell'arte di arrangiarsi. Aquesta festa accaddero molte cose: arrivò Penìa, la Povertà, ma non la feceroentrare perché era troppo malvestita, e lei rimase fuori della stanza delbanchetto nella speranza di rimediare qualcosa, un avanzo o una coscetta dipollo. Poros esagerò nel bere: a un certo punto, completamente sbronzo, uscìall'aperto e, fatti appena due passi, crollò al suolo. Al che Penìa,vedendoselo davanti, lungo disteso, pensò bene di approfittarne. "Io sono laDea più povera, questo è Poros, il più furbo di tutti gli Dei: chissà cheaccoppiandomi con lui non riesca a migliorare la mia sorte!" E dall'unionedella Povertà con l'Arte di arrangiarsi nacque l'Amore.» Un lungo mormorioseguì le parole del vecchio filosofo. L'uditorio si fece ancora più attento:voleva saperne di più di questo Amore, cosi diverso da tutti quelli che finoallora erano stati descritti dai presenti. Socrate se la prese con calma:bevve un lungo sorso di vino, poi si guardò intorno, quasi meravigliato diaver suscitato tanto interesse con il racconto di Diotima, quindi cominciò adescrivere il figlio di Poros e Penìa.«Amore non è né bello, né delicato, come pensano molti, ma al contrario, asomiglianza della madre, è duro, scalzo, vagabondo, uso a dormir nudo e sullanuda terra, sui pianerottoli delle case e per le strade, abituato atrascorrere le notti all'addiaccio e sempre in compagnia della miseria.Inoltre, come suo padre, è anche insidiatore dei belli e dei nobili, semprepronto a escogitare trucchi di ogni tipo, curiosissimo di apprendere,inventare trappole, dedito a filosofare, terribile ciurmatore, stregone,sofista...» Ebbene, ditemi se questo non è il ritratto preciso dello

scugnizzo napoletano immortalato da Sommer nei suoi dagherrotipi verso lafine dell'Ottocento!«Nudo, uso a dormir per terra, ricco di trappole, insidiatore dei ricchi edei nobili.» La descrizione di Socrate, però, non riuscì a soddisfare ilgusto oleografico dei commensali, e il primo a protestare fu proprio Fedro,il più giovane di tutti.«Come è possibile, o Socrate, che Amore non sia bello?!» chiese il ragazzo.«Tu stesso l'hai detto, o Fedro: Amore è chi ama, non è chi è amato. Solo chiè amato ha bisogno di essere bello. Chi ama, invece, ne può fare a meno, eSiccome il Bello può identificarsi col Bene, chi vuole il Bello desideraanche il Bene, e potrà essere felice solo quando lo avrà trovato. Scopodell'Amore è la procreazione del Bello.» «Vuoi forse dire» chiese ancora Fedro«che se io desiderassi il Bello, lo potrei anche generare?» «Certo che lopuoi, e genereresti contemporaneamente sia il Bello che il Bene!» risposeSocrate infervorandosi. «Tutti gli uomini desiderano diventare immortali. Macome riuscirci? E semplice: partorendo il Bello e il Bene.Ognuno fa di tutto per assicurarsi l'immortalità: c'è chi la cerca attraversola gloria, chi s'illude di ottenerla accoppiandosi a una bella donna, e chi,fecondo nell'anima, lascia tracce di sé nelle opere d'ingegno. Ebbene questaè la strada giusta:cominciare dalle bellezze del corpo per pOI elevarsi, un gradino alla volta,fino a raggiungere il Bene assoluto.» Considerare l'Amore come il fruttodell'unione della povertà con l'arte della sopravvivenza è un'intuizioneeccezionale. Basta darsi una guardatina intorno per rendersi conto: ildialogo, la solidarietà umana, il bisogno di agorà, il dividersi ogni giornole gioie e i dolori, sono tutte prerogative dei popoli poveri, così come laprivacy è figlia naturale della ricchezza Non appena una comunità raggiunge unalto reddito pro capite, ecco far capolino la difesa strenua del benesseregià raggiunto: ognuno si chiude nel suo bunker, comincia a diffidare delvicino di casa e prova persino un senso di fastidio ogni volta che loincontra in ascensore. Visto da questa angolazione, il Simposio anticipa diquattrocento anni il Vangelo e in particolare il paradosso del cammello edella cruna dell'ago.Per quanto riguarda poi il collegamento tra il Bello e il Bene, Platoneconsidera l'Amore al pari di un ascensore che più sale e più trova inquilinidi prestigio: al primo piano incontra l'amore fisico, al secondo quellospirituale, al terzo l'arte, e poi via via la giustizia, la scienza e la veraconoscenza, fino ad arrivare al piano attico dove abita il Bene Assoluto.Socrate aveva appena finito di parlare quando si udì un frastuono assordanteprovenire dalla strada, poi un insistente bussare al portone e subito dopo lavoce di una donna, forse una flautista che chiedeva di entrare. Agatone ordinòagli schiavi:«Ragazzi, andate a vedere chi è: se è qualcuno dei nostri, fatelo entrare, incaso contrario ditegli che siamo andati tutti a dormire.» Ed ecco la voce diAlcibiade risuonare nel vestibolo: è completamente brillo, laflautista losorregge per non farlo cadere. Dietro di lui un gruppo festante di compagnidi baldoria urla a più non posso.«Salute, o amici,» esordì Alcibiade «e se accettate la compagnia di unubriaco, del tutto fradicio, eccomi a voi: io sono qui per incoronare il mioamico Agatone, eccelso fra i poeti e bellissimo fra gli amici!» Così dicendoAlcibiade cercò di sfilarsi dal capo una corona di alloro per appoggiarlasulla testa di Agatone. Ma siccome barcollava, l'operazione non gli riuscì alprimo colpo, e questo gli impedì di vedere Socrate seduto accanto ad Agatone.Il padrone di casa lo invitò ad accomodarsi e solo allora il giovanotto siaccorse del maestro.«Tu qui, o Socrate, eproprio accanto al più bello della compagnia! Per Ercole:le inventi davvero tutte pur di sdraiarti al fianco di chi desideri!» ESocrate, rivolgendosi ad Agatone:«Se puoi, o Agatone, cerca di aiutarmi, giacché costui è diventato per me unproblema: dal giorno in cui è nata tra me e lui una storia amorosa, non mi èpiù permesso posare gli occhi su nessun altro. Mi fa mille bizze, mi ingiuriain pubblico e a volte non riesce nemmeno a trattenere le mani. Bada che ancheora non si scateni, e se diventa violento, difendimi Per cortesia, giacchél'esaltazione e la follia amorosa di Alcibiade non conosce limiti.» A questo

punto Eurissimaco, noto propugnatore dell'Armonia, fece un timido tentativoper ammansire Alcibiade.«Ascoltami, o Alcibiade, mio giovane amico: prima del tuo arrivo, decidemmodi bere e nel contempo di render gloria al Dio Amore nel miglior modopossibile, cominciando a parlare dal lato destro della tavolata. Ebbene, alpunto in cui siamo, tutti abbiamo bevuto e parlato, e l'ultimo a parlare èstato proprio Socrate. Ora, se non erro, tu hai già abbondantemente bevuto:non ti resta quindi che dire la tua.» Quanto segue, signori miei, è di sicurola parte più bella del Simposio. Al di là, infatti, del contesto omosessuale(che magari potrebbe anche infastidire qualcuno) l'amore che Alcibiade nutreper il suo maestro è commovente.«Vi accontento subito,» esordì Alcibiade a bassa voce «ma se per caso, oSocrate, mi capitasse di raccontare qualcosa su di te che non fosse vera,smentiscimi pure senza timore in presenza di tutti, giacché di proposito nonintendo dire menzogne.» Alcibiade fece una lunga pausa per poter ancora dipiù accentrare su di sé l'attenzione dei presenti, poi, indicando Socrate,riprese:«Lo vedete quest'uomo? Proverò a farne l'elogio per immagini: lui èsomigliantissimo a quei sileni eSposti nelle botteghe degliscultori, raffigurati in genere mentre stanno soffiando nel flauto. E forsepiù di tutti rassomiglia a Marsia, il sileno nemico di Apollo: che lo siad'aspetto, nemmeno Socrate potrebbe negarlo, ma che lo sia anche per il restolo affermo io. E infatti è insolente come Marsia (e che non si azzardi anegarlo se non vuole che lo metta a confronto, subito, con dei testimoni). Epiù flautista di Marsia: quello almeno incantava gli uomini con la musica, luiinvece si serve della parola. Pensate che, quando l'ascolto, molto più che aicoribanti mi batte il cuore. Ho ascoltato Pericle e gli oratori che vanno perla maggiore, e se me ne chiedete un giudizio non ho difficoltà ad ammettereche sono bravissimi, ma solo in presenza di Socrate ho sentito l'animaballarmi dentro e le lacrime sgorgare spontanee per effetto delle sue parole.A volte, facendomi violenza, ho distratto le orecchie dal suo parlare e, comecon le Sirene, ho trovato scampo nella fuga.Spesso, infine, mi sono sorpreso a desiderare che non fosse più tra i vivi,pur sapendo che, se ciò accadesse, ne resterei sconvolto. E lui? Lui niente.Lui non se ne importa. Lui va diritto per la sua strada.Sappiate che se uno è bello per lui non significa nulla, né gli importa seuno è ricco o possiede una di quelle doti che sono ambite da tutti. Ungiorno, illudendomi che gradisse la mia bellezza, mi reputai fortunato e percompiacerlo mi misi ad ascoltarlo in silenzio. Era presente uno dei mieiservi e lo mandai via di corsa. Pensavo che prima o poi mi avrebbe fatto unodi quei discorsi che in genere gli amanti fanno al loro amore non appena sitrovano soli, ma lui non disse nulla: discorse con me come al solito, e, unavolta terminata la giornata, mi salutò e andò via. Allora io l'invitai inpalestra a far ginnastica insieme, sempre sperando che almeno lì avremmocombinato qualcosa. Ebbene, non ci crederete, ma facemmo ogni tipo diesercizio, anche quelli più coinvolgenti: lottammo l'uno avvinghiato all'altrosenza che per questo accadesse nulla di significativo.Accortomi allora che non riuscivo a concludere nulla, lo invitai a cena acasa mia, proprio come fa un amante che tende una trappola all'amato. Maneppure il bere e il mangiare insieme lo smosse più di tanto; allora io,fattomi coraggio, dopo un'ennesima cena lo invitai a restare, a parlare e abere fino a notte inoltrata, e quando volle andarsene, lo convinsi a dormirecon me col pretesto che ormai era troppo tardi per uscire. Riposammo l'unoaccanto all'altro, nel mio letto. Nella stanza non c'era nessuno:eravamo soli... Ora, se racconto queste cose è perché vedo qui intorno tantimiei compagni di sventura, vedo Fedro, Pausania, Agatone, Aristodemo, tuttiaccomunati dallo stesso delirio e dall'entusiasmo dionisiaco per lafilosofia... Come stavo dicendo, quando spensi il lume e i servi furonousciti, mi parve che non fosse più il caso di far troppe cerimonie, e alloragli rivelai sinceramente le mie intenzioni:«Dormi, o Socrate?»No» mi rispose.«Sai cosa ho pensato?»«Che cosa?»

«Ho pensato che sei l'unico amante che potrei avere, degno di questo nome,eppure, non so perché, esiti a dichiararti! Ora, io ritengo che non vi sianulla di più importante che il cercare di diventare migliori, e sono altresìconvinto che nessuno più di te potrà aiutarmi a raggiungere questo obiettivo.»Ebbene, cosa credete che mi abbia risposto? Prima si è fatta una risatinadelle sue, e poi, con quell'aria finta ingenua che gli è solita, mi ha detto:«Mio caro Alcibiade, se ho ben capito, tu vorresti barattare la tua bellezza,fatta di forme, con la mia bellezza, fatta di contenuti. In pratica è come seun mercante mi chiedesse di scambiare l'oro con il rame. Allora io a miavolta ti chiedo: ma non ti sembra di voler guadagnare un po' troppo a spesemie?»A queste parole non mi trattenni: lo coprii con il mio mantello (erad'inverno) e tentai di abbracciarlo, ma lui mi respinse. insomma, amici,dormii con Socrate e mi levai al mattino né più né meno che se avessi dormitocon mio padre o mio fratello. E ora eccomi ridotto alla stregua di unoschiavo, costretto come nessuno mai a girargli intorno. Consideratemi pureubriaco per quello che ho detto, ma non dubitate della mia sincerità. Questeparole le dedico a te, o Agatone, affinché almeno tu non ti faccia ingannarecome me, ma anzi, reso edotto dalle mie sventure, te ne stia sempre inguardia!» «Non mi sembri affatto ubriaco, o Alcibiade,» replicò Socrate, comeal solito sornione, «anzi, a mio avviso sei lucidissimo, dal momento che haifatto tutto questo lunghissimo discorso, apparentemente sconclusionato, soloper raggiungere lo scopo che ti eri prefisso, e ciòè quello di metterezizzania tra me e Agatone!» «Hai perfettamente ragione, o Socrate,» esclamòAgatone, alzandosi di scatto per poi andarsi a sedere alla destra delfilosofo, «non a caso infatti Alcibiade si è voluto sedere giusto tra noidue. Ma io non gliela darò vinta e mi sdraierò di nuovo al tuo fianco!»Questi erano i Greci del Simposio.#Il mito di Narciso

Negli anni Settanta, quando lavoravo alla IBM di Napoli, accadde un fattocurioso che merita di essere raccontato.Ci eravamo da poco trasferiti nella nuova sede di via Orazio ed eravamo tuttifelici e contenti per la magnificenza dei locali. Il nostro era uno dei piùbei palazzi che dominavano il golfo:primo e ultimo piano, entrambi a perpendicolo su Mergellina, con un Vesuviodi sfondo così vicino ma cosi vicino, da dare l'impressione di poterlotoccare con le mani. Unico neo: l'ascensore «moscio», o per dirla inlinguaggio tecnico «non adeguato al dinamismo dell'azienda». D'altra parte,l'edificio era stato progettato solo per uso abitativo, e non prevedevaquindi un viavai di impiegati.Dopo qualche mese di rodaggio, cominciarono a fioccare le prime proteste: siagli inquilini cosiddetti «civili» che i dipendenti IBM, erano fuori dellagrazia di Dio. Il continuo andirivieni tra il primo e l'ultimo pianoprovocava attese interminabili.«Ieri» sbraitava una delle segretarie «sono rimasta sul pianerottolo per piùdi un quarto d'ora!» Ovviamente non era vero: al massimo ci sarà stata cinqueminuti, il guaio pero è che a lei erano sembrati molti di più. Che fare? LaIBM decise finalmente di intervenire con i suoi potentissimi mezzi e creòun'apposita task-force per risolvere il problema. Nel giro di un paio di mesifu varato il progetto SAFN (Secondo Ascensore per la Filiale di Napoli). Enel frattempo, il portiere dello stabile, il mitico don Attilio, fuincaricato dal nostro direttore di rilevare l'entità del traffico tra le 8.30e le 10.Don Attilio, da buon non-informatico qual era, prese un quaderno a quadrettida poche lire, con la copertina nera, e con molta pazienza fece un segnettoper ogni individuo che vedeva entrare o uscire dall'ascensore (per laprecisione: un'asticella per i «civili» e una crocetta per gli IBM). Alla finedel rilevamento fu indetta una riunione per valutare i costi dell'operazionee per convincere i condomini ancora riluttanti a non opporsi al progetto.Erano presenti tutte le funzioni interessate: noi della filiale, latask-force venuta da Milano e don Attilio con il quadernetto nero. Si stavadiscutendo di quattrini e di permessi, quando dal fondo della sala il

portiere si alzò in piedi e chiese la parola.«Che c'è don Attilio?» disse il direttore.«Dottò, io ci avrei un'idea.» «E sarebbe?» «Dottò, scusate se m'intrometto,»continuò a dire il bravuomo «ma io al vostro posto, invece di spendere tuttiquesti milioni, metterei vicino al murO, a ogni pianerottolo, 'nu belluspecchio: così la gente si guarda, il tempo passa e nessuno se ne accorge!»Fu questa la soluzione vincente. La verità è che siamo tutti un po' narcisi,anche quelli non propriamente bellissimi: ci piace guardarci nello specchio epiù di tutto ci piacerebbe vederci in televisione.La tesi che siamo tutti narcisi, è bene chiarirlo non è mia ma di Freud.L'inventore della psicoanalisi, all'inizio, era convinto che il narcisismofosse solo una perversione, poi, avendone trovato tracce in quasi tutti ipazienti, gli venne il sospetto che si trattasse invece di una componentecomune della psiche umana, «complemento libidico dell'istinto diconservazione». Detto più terra terra, ognuno di noi, anche quando ama,pretende di riscontrare nel proprio partner dei segni di gradimento. Ebbene,dice Freud, quando ciò accade è come se considerassimo la persona amata unospecchio dove poterci guardare.Narciso, diciamolo subito, era un po' narcisista. Fin da piccolo non manifestòalcun segno di curiosità verso il mondo esterno: amici o amiche non neaveva, tantomeno fidanzate o amanti. Ma procediamo con ordine e cominciamocol parlare dei suoi genitori.Una bella mattina la cerulea Liriope, mentre prendeva il bagno nuda, fusedotta dal fiume Cefiso, «in un avvolgente gorgo» per dirla con Ovidio.Dopo nove mesi...la bella partorì tale un bambino che già poteva innamorar col riso;e tosto consultò, s'era destino che lunga età vivesse il suo Narciso, che talnomollo. E a lei: «Sì» l'indovino «se non vedrà» rispose «il proprio viso».Tradotto in parole più attuali, ilgiorno stesso in cui partorì Narciso, sua madre chiese a un indovino, ilcieco Tiresia, quante probabilità avesse il neonato di giungere allavecchiaia. E Tiresia riSPoSe «Vivrà finché non vedrà la propria immagine.» O,per essere più precisi, si se non noverit, che significa «finché nonconoscerà se stesso». Immaginiamoci come ci rimase la povera Liriope: fucostretta a far sparire di casa tutte le superfici riflettenti, e come taligli specchi, i vetri, le pentole di rame, le lastre di argento e viaenumerando.Giunto all'età di sedici anni, Narciso divenne il più bel giovanotto delpaese. «Dal monte Elicona al mare,» dicevano a Tespi «nessuno è pari, inquanto a bellezza, al figlio di Liriope, e chiunque lo vorrebbe come amante.»Ma il ragazzo, lo abbiamo già detto, non amava il prossimo suo.Lui ben mille garzon, mille bramaro donzelle accarezzar; ma tal dispetto insì tenera età nutre e alterezza, che i lor voti non ode e li disprezza.Nulli illum iuvenes, nullae tetigere puellae, comedire che non si filava nessuno, né i maschietti, né le femminucce. Una voltaun ragazzo, un certo Aminia, gli scrisse un bigliettino:«Dammi un pegno che m'ami, o dolce amico, ché, senza di te, preferireimorire!» Ebbene, quale pegno, pensate, gli abbia inviato Narciso? Una spada!Sissignore, proprio una spada, come a dire: «Ammazzati pure, tanto io me nefrego!». E quello si ammazzò sul serio: si recò una sera davanti al suoportone e s'infilzò con la spada che aveva appena avuta in regalo, dopo averinvocato, però, sul capo dell'amato la vendetta degli Dei.Che un uomo potesse suicidarsi perché non corrisposto da un ragazzo non eraun caso insolito nel mondo greco. In proposito, ricordiamo uno degli idillipiù struggenti di Teocrito, poeta siracusano del III secolo a.C., che ben siadatterebbe al caso di Aminio e Narciso.Un uomo appassionato amava un giovane crudele, bello d'aspetto, ma non dicuore:odiava chi l'amava e niente era dolce in lui, non conosceva Eros, né il suopotere, né la forza del suo arco, né le amare ferite dentro il petto.Ma l'amore, si sa, non si scoraggia per cosìpoco:più viene ostacolato e più si attizza, e soprattutto passa sopra a qualsiasidifetto della persona amata.

Anche così era bello: la sua collera dava nuova passione all'amante, che allafine non resse alla fiamma impetuosa. Andò a quella casa nemica e piansedavanti alla porta. Baciò la sua soglia, e lasciò che il dolore fluisse.«Ragazzo crudele, ragazzo di pietra, implacabile, indegno d'amore, io vengo aportarti l'ultimo dono: il mio cappio.Non voglio più affliggerti con la mia presenza:io vado dove tutti gli amanti trovano il farmaco giusto per dimenticare, ilfiume dell'Oblio.Seppure nemmeno accostandolo alle labbra, e bevendolotutto di un fiato, riuscirei a spegnere questo amore. Un saluto d'addio allatua porta.»Detto fatto, l'amante s'impicca: fissail cappio alla trave della porta e sale su una grossa pietra.Prima, però, di dare il calcio alla «pietra fatale», così come la definisceTeocrito, supplica ancora una volta il ragazzo crudele.Fammi un favore, fanciullo, in quest'ultima ora:quando uscirai e alla tua porta mi vedrai impiccato, non ignorarmi: fermati epiangi, solo un istante.Poi staccami dal nodo e vestimi con i tuoi vestiti, e dammi un estremo, unicobacio. Dona per un attimo le tue labbra al mio cadavere. Non temere: io nonpotrò abbracciarti. E prima di andare via, grida forte, tre volte: «Riposa inpace, mio caro».E scrivi questo epitaffio: «Fermati viandante, è l'amore che l'ha ucciso.Aveva un amico crudele!».che il fanciullo fosse crudele, non ci sono dubbi;Teocrito, infatti, chiude l'idillio scrivendo:Aprì la porta il ragazzo e vide il cadavere, ma il suo cuore non ne fucommosso e non pianse.Se ne andò tranquillo alle gare del ginnasio e poi, come sempre, se ne andòin piscina.Più o meno così era anche Narciso: non aveva amicie non parlava con nessuno.Unica sua passione, la caccia, ovviamente da solo. E stava per l'appuntocacciando un cervo, quando incontrò la bella Eco. Ma chi era Eco? Era unaninfa dei monti, una delle Oreadi, celebre invece per la sua parlantina.Si racconta che un giorno Zeus, avendo notato questa propensione di Eco peril pettegolezzo, l'avesse spinta a distrarre sua moglie Era, in modo dapotersela filare con una sua amante, senza essere visto. «Tu,» disse allaninfa «raccontale le ultime novità dell'Olimpo, dille di quella volta in cuiAfrodite fu scoperta a letto con Ares, e di tutte le arrabbiature che siprese Efesto, insomma, tienila impegnata per un paio di ore.» Era però siaccorse che Eco la intratteneva con sua accorta favella finché il consortecon la rival fuggiva e la volle punire. Le miseuna mano sulla bocca e le tolse l'uso della parola.«Da oggi in poi, le disse «con quella stessa lingua con la quale mi haifrastornato, potrai solo raddoppiare i suoni che udranno le tue orecchie, enon potrai parlare, se non al termine dell'altrui parlare.»Povera Eco: non solo le avevano tolto la facoltà di spettegolare,ma anche di comunicare i propri sentimenti all'uomo che amava. E già, perchénel frattempo Eco si era perdutamente innamorata di Narciso. Com'era successo?Beh, per caso, mentre vagava per le foreste sulle falde dell'Elicona.Quando essa lo vide aggirarsi tra i boschi, si accese di tenero amore e dinascosto ne seguì le orme, e quanto più gli si accostava, tanto più les'infiammava il cuore, così come lo zolfo che è in cima alle fiaccole prendefuoco non appena vede la fiamma che gli si avvicina. Oh, poterlo fermare! Oh,potergli rivolgere frasi amorose e suadenti preghiereMa come fare a dirgli tutto quello che aveva nel cuore? Lei, inpratica era muta, era una che poteva solo ripetere le ultime sillabe cheudiva. Ecco, comunque, parola più parola meno, quello che si dissero quelgiorno Eco e Narciso:«Chi è costei che m'insegue?» «... segucce.» «Cosa vuoi da me orribile donna?»«... donnaaa.» «Lo vuoi capire o no che voglio restar solo!» «... solooo.»«Vattene via, ho detto: vattene via!» .. viaaa» ripeté Eco, e Narciso se neandò.

E da quel giorno Eco, sentendosi rifiutata, visse in solitarie caverne e sicoprì di foglie il volto reso rosso dalla vergogna. E così accadde che lapassione e il dolore per il rifiuto ebbero ragione di lei: cominciò aconsumarsi dal di dentro, la pelle le si raggrinzì addosso, e nel giro dipochi giorni sparì del tutto.Di lei restò nell'aria solo la voce, o per meglio dire la capacità diripetere l'ultima parola che udiva.Ormai Eco era diventata un suono.L'episodio delsuicidio di Aminio e subito dopo ¨ quello di Eco, consumatosi per amore, reseimpopolare Narciso.«Ma chi si crede di essere questo vanesio!» cominciò a dire la gente. «Chepossa essere rifiutato al pari di come rifiuta!» La voce, a forza dicircolare, giunse agli Dei e in particolare alla Dea di Ramnunte, laterribile Nemesi. E così accadde che un giorno Narciso venne attratto da unalimpida fonte situata in mezzo ai monti. [Si trattava, racconta Ovidio, di unminuscolo lago al quale non si erano mai accostati né pastori, né capre, néuccelli, né fiere.Qui, dall'arsura e dal cacciargià lasso, tratto al bel di quel loco il giovinetto per dissetarsi un dìrivolse il passo;ma un'altra sete, ohimè, crebbegli in petto!chè mentre chino a ber pende sul basso fonte, avvisa nell'onda il proprioaspetto:attento il guata, e tanto error l'ingombra, che stima corpo una fuggevolombra.Ma cosa vide Narciso nell'acqua?Per la prima volta vide i suoi occhi, e li scambiò per una coppia di stelle,e per la prima volta vide i suoi capelli e li trovò degni di Apollo o diDioniso, e per la prima volta vide le sue guance ancora imberbi, il collod'avorio, la tenera bocca, e l'incarnato rosa misto al candore della neve.Ignaro, cominciò a bramar se stesso. Lodò e fu lodato. Desiderò e fudesiderato. E quante volte baciò la fonte ingannatrice, e quante volteimmerse nell'acqua le tremanti braccia, pur non riuscendo ad abbracciare lapersona amata!Raramente un amante, rivolgendosiall'amato, riuscì a essere più tenero di Narciso, il giorno in cui s'innamoròdella propria immagine! Sentite quel che fu capace di dirsi:«Chiunque tu sia, ragazzo, esci dall'acqua e vienimi incontro! Perché haideciso di farmi soffrire?Perché mi sfuggi? Perché fai di tutto per sottrarti al mio amore? Eppurequando ti tendo le braccia, anche tu me le tendi; e quando sorrido, anche tumi sorridi, e quando piango anche tu piangi, e mischi le tue lacrime alle mienella medesima acqua.»Da questo punto in poi il mito di Narciso si dirama indiversi finali a seconda degli autori. Proveremo a citarne alcuni:In una raccolta di favole del Duecento, nota come il Novellino, leggiamo cheil «molto bellissimo» Narciso, avvilito dall'inutilità dei suoi sforzi, silasciò cadere nel laghetto e, salute a noi, vi morì annegato, anche perché,malgrado fosse figlio di un fiume e di una ninfa delle acque, non sapevanuotare. Eccovene la versione originale:Narcis fue molto bellissimo. Un giorno avenne ch'e' si riposava sopra unabella fontana. Guardò nell'acqua e vide l'ombra sua ch'iera molto bellissima:incominciò a riguardarla e rallegrarsi sopra la fonte, e l'ombra sua facea ilsimigliante; e così credette che quella fosse persona che avesse vita, cheistesse nell'acqua, e non si acorgea che fosse l'ombra sua. Cominciò adamare, e inamoronne sì forte, che la volle pigliare; e l'acqua si turbò el'ombra spario, ond'elli incominciò a piangere sopra la fonte; el'acqua schiarando, vide l'ombra che piangea in sembiante sì com'egli. AlloraNarcis si lasciò cadere nella fonte, di guisa che vi morìo e annegò.Più fantasiosa la versione di Pausania. L'autore della piùantica guida della Grecia sostiene che Narciso, in realtà, era stato moltoinnamorato di una sua sorella gemella, morta di malattia, e che quando sichinò sulla fonte per bere, gli sembrò di vederla rinascere.

Narcisso avea una sorella gemella, in tutte le altre cose simile a luinell'aspetto, così come ambedue avean simile la chioma e la veste con cuierano vestiti, e alla caccia andavano insieme; si accese allora Narcissod'amore per la sorella. Allorquando però la fanciulla morì, recandosi egli ognigiorno alla fonte, pur comprendendo che quella che vedeva altri non era chela sua immagine riflessa, era pur sempre per lui un alleviamento alle pened'amore.Ma torniamo a Ovidio e alle Metamorfosi.Narciso è disperato: l'amato non risponde. A un certo punto, lelacrime finiscono con l'increspare le acque e col far svanire l'immagine, alche lui si mette a gridare:«Fermati: non lasciarmi, o crudele, lo sai che ti amo! Mi sia concessa almenola vista dal momentO che toccar non posso.» Nel lamentarsi si lacerò la vestee si percosse il petto nudo con le marmoree mani, e un rossore si diffuse sulsuo petto percosso.Insomma, per chi non l'avesse ancora capito,Narciso si uccise; con ogni probabilità infilzandosi con un pugnale, e siracconta anche che in punto di morte abbia mormorato:«Addio ragazzo delle acque, addio: io mi uccido per te, per non averti potutoabbracciare. Giacché tu sei e rimarrai per me l'unico amore.» E da lontano sisentì ripetere l'ultima parola:«... amoreee.» Era Eco che, come sempre, ripeteva l'ultima parola.Morto Narciso, si udì un funebre lamento: erano le sue piangenti sorelle, leNaiadi, che gli offrivano le recise chiome. E già pronto era il rogo e già lefiaccole tremavano al vento, allorquando il corpo sparì dalle rive accantoalla fonte, e al posto suo venne trovato un fiore giallo, circondato dacandide corolle.Il fiore nato dal corpo di Narcisovenne chiamato per l'appunto «narciso».Appartenente al genere delle Amarillidacee bulbose, si presenta in natura avolte giallo e a volte bianco; al suo interno, ma solo in alcune specie, siintravedono minuscole macchie di colore rosso (è inutile precisare che peralcuni dette macchie sarebbero la prova che il fiore nacque dal sangue diNarciso). Ed ecco come il fiore viene raccontato dal marinista GiuseppeBattista:Fiore dopo la morte egli qui nacque, e fiore ancor, di se medesmo amante,mira le sue bellezze entro l'acque.(Giuseppe Battista, Il fatto di Narciso.) Si racconta anche che Narciso,quando attraversò lo Stige per entrare nell'Oltretomba, si sia affacciatonelle acque del fiume, sempre sperando di vedersi riflesso. Ma non riuscì ascorgere nulla, dal momento che lo Stige era il fiume dei morti, e perciòtorbido, fangoso, privo di qualsiasi riflesso.Ebbene, Narciso ne fu contento:«Vuol dire che solo io sono morto» mormorò. «e che tu non sei morto ancora!Vivi sempre lassù, sul monte Elicona, in quella fonte di acqua limpida, nelbosco dei miei sogni!»#I viaggiatori dell'Oltretomba

Da Orfeo a Totò (nel film Totò all'Inferno), i viaggiatori che hanno fattocapolino nell'Oltretomba per poi tornare sulla Terra, Dante compreso, sonostati moltissimi. Non potendo citarli tutti, ci limiteremo a ricordare quellipiù noti del periodo classico, e precisamente il platonico Er, Teseo, Ulisse,Enea e il già nominato Orfeo.Er, A volerlo giudicare oggi, quello di Er fu un caso di morte apparente: ilgiovanotto venne raccolto esanime su un campo di battaglia e sistemato conaltri cadaveri su una pira funebre. Sennonché, mentre gli altri commilitonierano tutti in stato di avanzata decomposizione, lui, pur essendo morto dapiù di dieci giorni, conservava uno strano colorito roseo; e così accaddeche, giusto un attimo prima che i sacerdoti si avvicinassero alla pira con letorce in mano, lui tornasse in vita, più vispo che mai.Una volta ripresi i sensi, Er raccontò quello che aveva visto durante i diecigiorni in cui aveva fatto il morto.«Uscita dal corpo, la mia anima si incamminò insieme alle altre e giunse in

un luogo meraviglioso dove si scorgevano quattro immense aperture: duesprofondavano nel buio della terra, e due davano accesso al cielo. Proprio inmezzo alle aperture sedevano i giudici; costoro invitavano i giusti a deviarea destra per raggiungere il cielo, e glI ingiusTI a imboccare la strada degliInferi. I primi portavano scritti sul petto i loro meriti, mentre i secondiavevano sul dorso l'elenco di tutte le loro malefatte.» Quando Er si feceavanti per essere giudicato, venne subito respinto: i funzionari celesti glispiegarono che la sua presenza era da imputarsi a un banale errore delleMoire; pur tuttavia, dal momento che era lì, che vi restasse pure, a pattoperò che, una volta sulla Terra, raccontasse ai mortali tutto quello cheavrebbe visto. Confesso che, fin dalla prima volta che lessi questo passodella Repubblica di Platone, mi piacque moltissimo l'idea che anche le Moirepotessero sbagliare.Oltre le anime dei defunti in attesa di giudizio, Er vide anche quelle chestavano per nascere di nuovo. Provenivano da turni di vita già vissuti efuoriuscivano dalle aperture del cielo, o dalle voragini degli Inferi, aseconda che avessero appena finito di scontare il premio ricevuto o la penaalla quale erano stati condannati.Quelle che risalivano dalla terra erano tutte sozze e impolverate, le altreinvece, quelle che scendevano dal cielo, erano linde e luccicanti. Tutte peròconfluirono nel medesimo prato, quasi si trattasse dI un raduno festivo, equelle che si erano conosciute in qualche altra vita si scambiaronoaffettuosi saluti:le anime che provenivano dal sottosuolo chiedevano notizie del mondo celeste,e quelle che provenivano dal cielo erano curiose di sapere cosa ci fosse ditanto orribile nel mondo sotterraneo. Si scambiavano in tal modo le loroimpressioni: le prime piangendo a dirotto per i patimenti sofferti, e leseconde magnificando i godimenti celesti e le visioni di bellezza.» A dettadi Platone, la pena (o il premio) corrispondeva alla colpa nella misura didieci a uno. In altre parole, un assassino, per essere riammesso a nuovavita, doveva soffrire dieci volte quello che aveva fatto soffrire alle suevittime.A un certo punto Er vide un'anima che, pur non avendo scontato del tutto lapena, cercava a ogNI costo di uscire da una delle voragini. Si trattava ditale Ardieo, un feroce tiranno che nell'ultima vita vissuta, pur diimpadronirsi del trono, non aveva esitatO a uccidere il vecchio padre e ilfratello maggiore. Ebbene, non appena il dannato tentò di sgattaiolareall'esterno, la voragine emise un suono assordante ed eruttò alcuni esseri difuoco i quali, rapidi come folgori, lo acciuffarono per i piedi e loscorticarono seduta stante, per poi trascinarlo a lungo su un tappeto dipiante di ortica.«Ma ecco apparire davanti a noi una luce diritta come una colonna, moltosimile all'arcobaleno, ma più intensa e più pura [è sempre Er che racconta.Questa luce teneva fermo il cielo cosi come una gomena riesce a trattenere untriremi. Alla sua estremità era appeso il fuso di Ananke intorno al qualegiravano tutte le sfere. Sia il fuso che l'uncino erano di diamante. Il fusosi svolgeva lentamente sulle ginocchia di Ananke. Intorno a lei cantavano leMoire: Lachesi, Cloto e Atropo. Vestivano tutte e tre abiti bianchi e avevanoserti sul capo. Lachesi cantava il passato, Cloto il presente e Atropo ilfuturo.» Ananke, ovvero la Necessità, ovvero il Destino era per i Greci laDea più potente dell'Olimpo.perfino Zeus era costretto a sottostare ai suoi voleri senza discutere.Quando Ananke aveva deciso qualcosa, non c'erano Santi, o per meglio dire nonc'erano Dei, capaci di farle cambiare idea! Per alcuni era la madre delleMoire, per altri invece (tra cui Platone) solo la sorella maggiore. Le Moiresovrintendevano ai vari momenti della vita. Cloto ne filava il fuso, Lachesimisurava la lunghezza del filo e Atropo, colei che mai perdona, lo tagliavacon forbici inesorabili.Er stava lì, estasiato, a guardare, quando gli si fece incontro un araldo:«Anime dall'effimera esistenza corporea,» disse l'araldo «inizia per voi unaltro periodo di vita, preludio a una nuova morte. Non sarà un dèmone ascegliere il vostro destino, ma sarete voi a scegliere il dèmone chepreferite. Il primo, infatti, che la sorte indicherà, sarà anche il primo adecidere il tipo di vita che vorrà vivere. A questo punto, una volta che ha

compiuto la scelta, non potrà più tornare indietro, e nemmeno prendersela colDio.» Dette queste parole, l'araldo scagliò le sorti, ovvero i numeri in baseai quali ognuno dei presenti sarebbe stato chiamato.Tutti raccolsero il dado che gli era caduto più vicino, a eccezione di Er,che stava lì solo per fare da testimone.Subito dopo, l'araldo depose per terra innumerevoli sassi, ciascuno con lascritta riguardante una vita. Ed ecco come le possibili esistenze ci vengonoelencate da Platone:C'erano vite di ogni genere, di qualsiasi animale e di qualsiasi essereumano. C'erano vite di tiranni, alcune durature, altre interrotte a metà,alcune finite in esilio, altre ridotte in miseria. C'erano vite di uomini cheavrebbero raggiunto la celebrità, o per la bellezza, o per il vigore fisico,o per l'attività agonistica, o per la nobiltà e la virtù degli antenati. Ecosì pure vite di gente comune, o semplici vite di casalinghe.Insomma c'era di tutto: ricchezze e povertà, gioie e dolori, malattie esalute, e ognuna di queste cose in misura diversa a seconda del tipo di vita.Quelli che sceglievano senza riflettere, magari perché abbagliati dalprestigio di un ruolo, finivano spesso col trovarsi in balia di un'esistenzaavvelenata dagli affanni e dai pericoli. Eppure l'araldo li aveva avvertiti:«Anche chi si presenta per ultimo, purché sappia scegliere con la dovutasaggezza, potrà vivere una vita tranquilla. Il primo ordunque faccia la suascelta senza precipitazione, e l'ultimo non si scoraggi!» Socrate subito neapprofittò per dire che mai come in quella occasione risultò utile essere unfilosofo: non a caso, infatti, le vite migliori furono accaparrate da quelliche, avendo sofferto in passato, più degli altri avevano avuto modo diriflettere sul senso delle cose.«Ilprimo a essere convocato dalla sorte» racconta Er «scelse la vita di untiranno potentissimo. A questa decisione era pervenuto spinto dall'ignoranza edall'ingordigia. Senza accorgersi, per sua sventura che il Fato gli riservavamoltissimi mali, tra cui quello di doversi divorare i figli.» La maggioranzasceglieva in base a esperienze già maturate. Alcuni desiderando ripeterle(seppure con maggiore fortuna), altri, invece, cercando di evitarle. Er videmolti mitici personaggi compiere la loro scelta.L'anima di Tamiri volle diventare un usignolo.Aiace Telamonio, memore delle delusioni patite allorché gli vennero rifiutatele armi di Achille, preferì nascere leone piuttosto che vivere in un mondo diuomini ingiusti. E anche Agamennone, per pura ostilità verso il genere umano,preferì infilarsi nel corpo di un'aquila piuttosto che in quello di un re.La veloce Atalanta, stanca per aver partecipato a tante avventure, avrebbe dicerto scelto l'esistenza tranquilla di una madre di famiglia, se non si fosseimbattuta nella sorte di un atleta più volte vincitore nelle gare olimpiche:incapace di resistere al fascino della gloria agonistica, finì colraccoglierne il dado.L'ultimo a essere chiamato fu Ulisse: ebbene l'astuto figlio di Laerte, messosull'avviso dalle vicissitudini del suo interminabile ritorno, scelse la vitadi un uomo comune, a patto però che fosse priva di qualsiasi seccatura. Trovòquesta vita gettata in un angolino e ignorata da tutti. Quando la vide, dissead alta voce che l'avrebbe scelta anche se fosse stato lui il primo a esserechiamato. Il mito si chiude così: con tutte le anime che, prima di tornare avivere, vengono invitate a bere le acque del Lete per dimenticare la vitaprecedente.A differenza degli altri, Er ebbe l'ordine di non bere le acque del Lete.Come avesse fatto poi a rientrare nel suo corpo non seppe mai dirlo; dissesolo che tutto ad un tratto aveva aperto gli occhi e si era trovato seduto suuna catasta di legna, proprio mentre i suoi familiari stavano per appiccareil fuoco.

Teseo

Teseo e Piritoo, diciamolo subito, erano due vecchi sporcaccioni:malgrado avessero da un bel pezzo superato i cinquanta, vollero procurarsi un

paio di amanti di classe, e dal momento che, come si dice, avevano gli occhipiù grandi dello stomaco, decisero di rapire nientemeno che due figlie diZeus.La prima a finire nelle loro grinfie fu la famosissima Elena, appenadodicenne, a cui il Fato aveva riservato, fin d'allora, il ruolo dell'eternarapita. Per l'anagrafe, Elena era figlia di Tindaro e Leda, per i beneinformati, invece, una delle tante figlie che Zeus aveva disseminato nelcorso delle sue molteplici scappatelle.I due, una volta messa al sicuro la prima preda in un castello dell'Attica(se la giocarono anche ai dadi, e vinse Teseo), si guardarono intorno percercare la seconda. Ma chi scegliere tra le tante figlie illegittime che ilPadre degli Dei aveva messo al mondo? Pensa e ripensa, i due bricconi ebberola faccia tosta di chiedere consiglio proprio a lui, al divino genitore.«Rapite Persefone,» suggerì perfidamente Zeus, ben sapendo in quali guai sisarebbero andati a cacciare «posso garantirvi che la moglie di Ade, è la piùbella di tutte le figlie che ho generato!» Rapire Persefone voleva dire, inpratica, scendere nell'Oltretomba, e questo a Teseo non piaceva per nulla; ilgiuramento fatto, però, lo costringeva, volente o nolente, a seguire Piritoonell'impresa.I due evitarono di traversare lo Stige e riuscirono a penetrare nel mondosotterraneo attraverso una porticina segreta situata in una caverna dellaLaconia, in modo da presentarsi al cospetto di Ade quando questi meno sel'aspettava. Una volta giunti davanti a lui, Teseo e Piritoo ebbero ilcoraggio di chiedergli, spade alla mano, la consegna immediata di Persefone.Il Re degli Inferi non batté Ciglio.«D'accordo,» disse «prima però sediamoci a bere qualcosa.» E così dicendoindicò loro due sedie collocate di fronte al suo trono. Queste sedie,ovviamente, non erano sedie qualsiasi, bensì due «poltrone dell'Oblio», capacidi sequestrare chiunque vi ci fosse seduto: nel senso che si tramutavanoimmediatamente in carne, diventando un tutt'uno con il corpo del malcapitato.Teseo e Piritoo restarono immobilizzati sulle poltrone dell'Oblio per un belpezzo, circondati da serpenti, mordicchiati dal cane Cerbero e frustati dalleMoire, il tutto mentre Ade si divertiva a schernirli. Teseo, in particolare,vi sarebbe rimasto chissà quanto tempo se un bel giorno Eracle, sceso giùnegl'Inferi per catturare il cane Cerbero, non fosse riuscito, con la solaforza delle braccia, a liberarlo. Si racconta, però, che durante lo strappo,buona parte delle natiche di Teseo restarono appiccicate alla poltrona, ilche spiegherebbe, a detta dei mitologi, il motivo per cui, ancora oggi, gliateniesi non dispongono di glutei sufficientemente adiposi.Eracle e Teseo, prima di andarsene, cercarono di liberare anche il poveroPiritoo. Ogni loro tentativo, però, andò a vuoto dal momento che, come ciprovavano, un tremendo terremoto scuoteva tutta la terra. «Nec Letnaea valetTheseus abrumpere caro vincula Pirithoo» dice Orazio, e bisogna credergli.

Ulisse

A differenza di Teseo e Piritoo, Ulisse non ebbe alcun bisognod'infilarsi in un cunicolo sotterraneo per raggiungere il mondo dei morti: vigiunse spinto da una tempesta, dopo aver superato i limiti dell'oceano finoallora conosciuto. Seguiamo la sua avventura, così come lui stesso laracconta ai Feaci.«Tutto il giorno le vele restarono tese. La nave aveva corso a lungo sulmare. Il sole calò e tutte le strade cominciarono a ombrarsi. Giungemmo cosìai confini dell'Oceano profondo. E lì che abitano i Cimmerii, avvolti danebbie e da nuvole. Giammai il Sole li guarda con i suoi raggi splendenti,né quando sale nel cielo stellato, né quando scende al tramonto. E su questiinfelici mortali sempre uguale si stende una notte funesta.»L'eroe dagli occhi azzurri, dalla pelle scura e dai capelliscreziati di salsedine s'interruppe un attimo.Immobili e in silenzio restarono i Feaci, da incantesimo presi nella salaombrosa.

«Una volta sbarcate le bestie, andammo lungo il corso dell'Oceano, finché nonarrivammo al punto indicato da Circe. Lì giunti, io scavai con la lama aguzzauna fossa lunga un cubito, in un senso e nell'altro, e versai un'offerta aidefunti, prima di latte e miele, poi di dolce vino, e infine d'acqua. Cosparsiquindi il tutto con bianca farina d'orzo, dopo di che giurai sulle teste deimorti che, una volta giunto a Itaca, avrei immolato in loro onore la piùbella delle vacche sterili, e in particolare a Tiresia, e a lui soltanto, ilpiù bello dei montoni neri.» Tiresia, per chi non lo sapesse, era l'indovinopiù illustre di tutto il mondo greco e Ulisse aveva un interesse personale aevocarne l'anima, giacché solo Tiresia avrebbe potuto rimetterlo sulla buonastrada per raggiungere Itaca.«Dopo aver così supplicato i morti, con voti e preghiere, afferrai e scannaile bestie sul limite della fossa. Fosco come una nube si mise allora ascorrere il sangue- A quel punto, dall'Erebo, cominciarono ad arrivare leanime dei defunti: donne, ragazzi, vecchi provati dal dolore, tenere sposedall'animo straziato, uomini uccisi in battaglia con le armi lorde di sangue,alcuni con il petto ancora squarciato, tutti cercando di avvicinarsi allafossa con acuto gridio.Mi prese una tale angoscia, che ordinai ai compagni di scuoiare e bruciare lebestie e di pregare il possente Ade e la tremenda Persefone.» Ed ecco, comein un film horror, le silouette dei morti che si accalcano intorno allafossa, smaniosi di bere il sangue delle vittime. Il primo a presentarsi fu uncerto Elpenore, un compagno d'arme appena morto.Ulisse gli chiede il motivo del decesso e lui così risponde:«O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno di astuzie, mi colpì la malasorte e il troppo vino: dormivo ubriaco in casa di Circe e, invece d'imboccarela scala, come avrei dovuto, mi gettai a capofitto dal tetto, rompendomil'osso del collo.» Subito dopo ecco farsi avanti la madre di Ulisse,Anticlea. L'eroe ignorava la sua morte: l'aveva lasciata viva e vegeta nellasua casa a Itaca e ora se la ritrova, ombra fra le ombre, nel mondo deimorti. Vorrebbe parlarle, ma avendo scorto nel medesimo istante Tiresia,l'indovino per il quale si era spintO fin lì, la prega di attendere.Nel frattempo Tiresia gli chiede:«O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno di astuzie, perché mai, infelice,lasciata la luce del sole sei venuto a vedere i defunti e questo tristissimoluogo? Orsù, allontanati dalla fossa, togli l'aguzzo brando, e fa' che iobeva di questo sangue e ti dica parole veraci.» Tiresia, grato della bevuta,gli predice tutto quello che gli accadrà tornando a Itaca, e questoconsentirà a Ulisse di rivolgere la sua attenzione alla madre che è semprelì, in attesa.«O madre, quale fato di morte spietata ti vinse? Una lunga malattia o undardo improvviso [un infarto di Artemide saettatrice? Dimmi inoltre di miopadre e di mio figlio, e svelami il pensiero e il volere della mia legittimasposa, se mi è rimasta fedele o se ha sposato qualche nobile acheo.» Nel direqueste parole, tre volte tentò di abbracciarla e tre volte lei gli si dileguòtra le mani al pari di una nuvola di fumo.«O madre, perché non mi aspetti quando voglio abbracciarti, in modo dasaziarci ambedue di gelido pianto? Oppure quello che io scorgo è solo unfantasma, che a me l'insigne Persefone invia, affinché soffrendo possa gemereancora di più!» «Ohimè, figlio mio, Persefone non t'inganna:questa è la legge degli uomini allorquando si muore!I nervi non reggono più la carne e la furia violenta del fuoco li disfa nonappena la vita li abbandona di modo che l'anima vagola via, volando come unsogno!» Così dicendo l'anima di Anticlea si ritrae, anche perché scavalcatada decine e decine di altre donne che si ammassavano in folla intorno alfosco sangue.Tra le tante Ulisse scorge Antiope, Leda, Alcmena la madre di Eracle,Epicasta la madre di Edipo, la bellissima Clori, Ifimedea, Fedra, Procri,Arianna, Climene e tante altre.Subito dopo le donne, però, ecco arrivare anche gli uomini, anzi gli eroi, edè con loro che Ulisse ha gli incontri più significativi. Il primo apresentarsi fu Agamennone.«Appena con gli occhi mi vide, subito mi riconobbe. Stridulamente gemeva,versando pianto copioso, e con le braccia tese, avrebbe voluto abbracciarmi:

ma non aveva più né la forza, né il vigore di un tempo. Vedendolo, piansianch'io. Ne ebbi pietà, e parlando gli rivolsi alate parole:O gloriosissimo Atride, o Agamennone signore degli uomini, quale fato dimorte spietata ti vinse? Ti vinse forse Poseidone, mentre eri sulle navi, dopoaver suscitato un aspro uragano di venti, oppure ti uccisero a terra uominiostili, mentre razziavi buoi, greggi di pecore, e bellissime donne?«E lui così mi rispose: "O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno diastuzie, non fu Poseidone a vincermi dentro le navi, e nemmeno gli uominiostili a uccidermi a terra; fu Egisto, invece, a prepararmi la morte conl'aiuto della mia sposa funesta, invitandomi a casa a mangiare, e mi uccisecosì come si uccide un bue accanto alla greppia. Con me furono soppressianche i miei compagni, al pari di porci dalle candide zanne in casa di unricco signore. Sul mio corpo cadde il corpo di Cassandra, la figlia di Priamo,uccisa da Clitennestra esperta d'inganni. La cagna andò via e non ebbenemmeno il coraggio, mentre io scendevo nell'Ade, di chiudermi gli occhi e diserrarmi la bocca, gettando, con il suo comportamento, vergogna su di sé e sututte le donne che nasceranno in futuro! Ciò premesso, o amico, non esseremai franco con le donne e non raccontarle mai tutto quello che sai, bensì, seconosci solo due cose, delle due digliene una, e l'altra tienila nascosta,giacché delle donne non c'è da fidarsi".» Stavano ancora a parlar male delledonne, quando ecco fare la sua apparizione l'anima di Achille.L'eroe piangendo si rivolge a Ulisse:«O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno di astuzie, come ardisti venirenell'Ade, dove i morti privi di sensi dimorano?» E Ulisse a lui: «O Achille,figlio di Peleo, tra tutti gli Achei di certo il più valoroso, sono qui perfarmi dire da Tiresia i pericoli a cui andrò incontro tornando a Itaca.Nessuno più di te, comunque, può essere lieto, giacché prima, tra i vivi, erionorato al pari degli Dei, e ora tra i morti conservi ancora il tuo potere!».«Non abbellirmi la morte, o illustre Odisseo!» replicò con amarezza Achille.«Preferirei essere schiavo sulla terra di un uomo povero, piuttosto che ilprimo tra tutti i defunti!» Seduto in disparte, in un angoletto, Ulissescorge anche Aiace Telamonio:l'eroe greco ha lo sguardo truce, (è ancora fuori di sé dalla rabbia per iltorto subito, ovvero per essere stato ignorato dagli Achei, il giorno in cuiquesti consegnarono a Ulisse, e non a lui, le favolose armi del PelideAchille.Ulisse vorrebbe tendergli la mano ma non osa.«O Aiace, figlio del grande Telamone, è mai possibile che nemmeno ora che seinel mondo dei morti riesci a scordare il rancore che nutristi per meallorquando ti furono tolte quelle armi funeste!» Ma Aiace non risponde: sialza e si va a mischiare alle altre anime dei morti.

Enea

Anche un altro reduce della guerra di Troia, Enea, arriva negli Inferisenza proporselo. La sua nave troiana è ormai in vista delle coste campane.Poche ore prima il suo timoniere, Palinuro, essendosi addormentato, èscivolato a mare (primo caso di morte per colpo di sonno di cui si abbianotizia nella storia dei trasporti). Enea si accorge che l'imbarcazione vaalla deriva e ne prende il comando.Approda così, sulle spiagge di Cuma, la nave dei nostri progenitori. Di lì apochi passi c'è il lago d'Averno. Ebbene, chiunque abbia avuto modo divisitare questo tristissimo lago, concorderà senz'altro con Virgilio che loindica come il luogo di transito più probabile tra il mondo dei vivi e quellodei morti. Dai sinistri soffioni della vicina solfatara agli echi angosciosidell'antro della Sibilla, tutto concorre a rendere l'atmosfera magicamentelugubre.E Virgilio era uno che di magia se ne intendeva.Enea ormeggia la nave e sbarca con tutti i suoi uomini. Fatti pochi metri, sitrova innanzi l'antro della Sibilla. L'immenso fianco della rupe si apre in unantro.

Conducono a esso cento passaggi e cento porte, dalle quali eromponoaltrettante voci: sono i responsi della Sibilla.La Sibilla, per chi non lo sapesse, era una vecchia di settecentoanni, o per meglio dire, una veggente subentrata a un'altra veggente che asua volta ne aveva sostituito un'altra, secondo una prassi che durava ormaida oltre settecento anni. Enea vorrebbe interrogarla per conoscere il luogoesatto, in Italia, dove gli converrebbe fondare una nuova comunità. Sta Perentrare ma ha paura.«Che fai, o troiano, esiti?» gli urla allora la Sibilla. «Sappi che se nonsupplicherai con voti e preghiere, giammai si apriranno per te le porte dellamia dimora.» «O divina sacerdotessa, presaga del futuro,» risponde Enea«dimmi se è conveniente che i Teucri si stabiliscano nel Lazio con i loro Deierranti. Ché se così fosse, io innalzerei ad Apollo e a Diana un tempio, e ate un enorme sacrario. Solo, ti prego, non affidare i tuoi responsi allefoglie, affinché confusi, poi, non volino via in balia dei venti.» La Sibillaesaudisce la sua preghiera.«Sei da poco scampato ai pericoli del mare, o figlio di Anchise, e ora non tirestano che i pericoli di terra. I Teucri giungeranno nel regno di Lavinio erimpiangeranno a lungo di esservi giunti: vedo guerre, moltissime guerre, evedo il Tevere tingersi di sangue copioso. Né ti mancheranno il Simoenta e loScamandro, perché nel Lazio è già nato un nuovo Achille, anch'egli nemicodei Teucri, così come a generare il male sarà ancora una volta una donnastraniera.» In che senso Enea non sentirà la mancanza dei due fiumi troiani,il Simoenta e lo Scamandro? E presto detto: la Sibilla gli predice che anchenel Lazio troverà vita durissima, la stessa vita durissima, in pratica, cheha lasciato a Troia. Per quanto riguarda poi Achille e la donna straniera, laprofezia lo mette in guardia da Turno e dalla sua promessa sposa Lavinia,che, passando dalle braccia del re dei Rutuli a quelle sue, finirà col farscoppiare, al pari di Elena, una terribile guerra.A questo punto però l'eroe si fa più ardimentoso e chiede alla Sibilla se èvero che in quella zona c'è un'apertura sotterranea che immette direttamentenel regno dei morti:«Poiché si dice che la porta degl'inferi e la tenebrosa palude formata dalrigurgito dell'Acheronte, si trovino in questi paraggi, mi sia concesso digiungere al cospetto dell'amato padre: io lo sottrassi alle fiamme e ai milledardi degli Achei, portandolo sulle spalle. Ora, ti prego, o Divina, indicamise puoi la giusta via e apri le sacre porte. Avrai pietà, cosi facendo, delfiglio e del padre!» E la Sibilla a lui:«O nato da sangue divino, o figlio di Anchise, è facile scendere nell'Averno,la cui porta è sempre aperta. Più difficile, invece, è il ritorno. Ma sedavvero vuoi affrontare la prova, allora cerca nelfolto del bosco unramoscello carico difoglie d'oro eportalo in dono a Proserpina. In quel caso,e solo in quel caso, io stessa tifarò da guida.» Enea già disperava diriuscire a trovare il sospirato ramoscello, quando due colombe (evidentementeinviate dalla madre Venere) attrassero la sua attenzione. Le colombe sialzarono in aria, quel tanto che bastava per farsi vedere, per poi dirigersivelocissime in un punto del bosco. Seguendo il loro volo, l'eroe non ebbedifficoltà a scovare il ramoscello d'oro, che si affrettò a mostrare allaSibilla.V'era in quel luogo un'interminabile grotta, immane e di vasta apertura,difesa dalle tenebre dei boschi e da un lago nero, sul quale nessun uccelloavrebbe mai potuto impunemente volare, tali erano le esalazioni che silevavano da esso. I Greci lo chiamarono Aornon. Per maggior precisione,Virgilio scrive: «Unde locum Grai dixerunt nomine Aornum», dove il terminelatino Avernum si è mutato in quello greco Aornon (a privativa più ornis,come a dire: «privo di uccelli»).Qui la profetessa collocò quattro giovenche dalle nere terga e versò vinosulle loro fronti, invocando a gran voce Ecate, signora del cielo e delletenebre.Enea, dal canto suo, sguainò la spada e sacrificò un'agnella nera alla madredelle Eumenidi e una vacca sterile a Proserpina. Ed ecco la terra muggiresotto i suoi piedi, ed ecco le selve agitarsi, ed ecco le cagne ululare trale ombre dei boschi.La Sibilla a questo punto vieta ai compagni di Enea di avvicinarsi:

«Altolà, o profani!» grida la veggente. «E tu Enea, invece, vai! E giuntal'ora in cui necessita il coraggio.» Così dicendo entra furente nell'immensoantro, mentre Enea, con impavidipassi, le sipone al fianco.Proprio davanti al vestibolo, sull'orlo delle fauci dell'Orco, il Pianto e iRimorsi incalzanti posero la loro orrenda dimora; ed e lì che abitano lepallide Malattie, la triste Vecchiaia, la Paura, la Fame cattiva consigliera,la turpe Miseria dal viso deforme, e poi, uno dietro l'altro, il Dolore, ilSonno consanguineo della Morte, la Morte stessa e le malvagie Passioni,mentre sull'opposta soglia sogghigna la Guerra cagione di lutti.L'eroe e la Sibilla vengono immediatamente circondati da decine di mostri:tra di essi scorgiamo i Centauri, il gigante Briareo dalle cento braccia, epoi Scilla, la bestia di Lerna, la Chimera, le Gorgoni e le Arpie.Ma non c'era da aver paura, essendo tutta una finzione: più o meno comequando ci s'infila nel «Tunnel dell'Orrore» dei nostri Luna Park.Enea, preso da improvviso tremore, afferra la spada e sta per volgerne lapunta ai sopravvenuti, quando l'esperta compagna lo frena: i mostri che luivede sono solo figure incorporee, ombre che volteggiano inoffensive, e chenessun'arma potrebbe mai ferire. Il viaggio prosegue secondo le tappepreviste da tutte le escursioni nell'Oltretomba: prima l'incontro conCaronte, il vecchio barcaiuolo sporco, brutto e cattivo, poil'attraversamento dello Stige quindi Cerbero, il ferocissimo cane a tre teste(al quale la Sibilla dà da mangiare una focaccia farcita di sonnifero) einfine il mondo dei morti propriamente detto.Subito si udirono le grida delle anime in pena e l'alto vagire dei neonatipiangenti sul limitare della soglia. Accanto a loro, si lamentano icondannati a morte per ingiusta accusa. Minosse inquisitore scuote l'urna,giudica le vite e le colpe commesse. Più in la sono rinchiusi gli innocentiche si diedero da soli la morte: oh, quanto vorrebbero i meschini sopportareadesso i duri affanni a causa dei qualifuggirono la vita! Ma la legge a ciòsi oppone e li condanna tutti all'esecrabilepalude. Ed ecco i Campi delPianto: così chiamati in quanto celano le donne che un doloroso amore indussea morire. Tra di esse Enea scorge Fedra, Procri, Erifile, Evadne, Pasifae e lalacrimante Laodamia. Il guaio è che, tra le suicide, Enea incontra ancheDidone, la regina fenicia che si è appena uccisa per colpa sua. A saperlo, sisarebbe ben guardato dallo scendere nel mondo dei morti. Per coloro che nonavessero mai letto l'Eneide, informiamo che Didone aveva ospitato a lungol'eroe a Cartagine (innamorandosene pazzamente) e che Enea, dopo aver bevutoe mangiato per un annetto a casa sua (lui e tutti i Troiani) se l'erasquagliata un bel mattino, infischiandosene di come l'avrebbe presa lei.Certo è che quando se la vede davanti, ombra tra le ombre, lo sventurato nonsa proprio che fare:balbetta, farfuglia, poi comincia a dire:«O infelice Didone, vera ordunque e la notizia che avevi posto fine alla tuavita con la spada! Ahimè, mi chiedo: sono forse io che ho provocato questamorte? Mi siano però testimoni le stelle e gli Dei celesti, che a malincuorepartii dai tuoi lidi. Fu il volere di Giove, o mia regina, che mi costrinse aimbarcarmi, e mai avrei potuto immaginare che la mia partenza ti avrebbefatto tanto soffrire!» Che faccia tosta! Eppure lei era stata così chiara ilgiorno in cui lo aveva sorpreso a fare i preparativi per la partenza!Facciamo un passo indietro e ascoltiamo quello che Didone dice a Eneanell'Iliade.«Ti accolsi naufrago e bisognoso di tutto, e da vera folle ti misi adisposizione il mio regno. Salvai la flotta perduta e i tuoi compagni, e oratu mi vieni a dire che gli Dei e gli oracoli della Licia ti trasmisero pervia aerea, da lontano, l'ordine di partire. No, non ti trattengo, noncontesto le tue parole: insegui pure, se vuoi, la tua Italia tra i venti ecerca pure il tuo regno tra le onde. Sappi però che ti auguro di Scontaremille volte le tue colpe tra gli scogli, e d'invocare spesso il nome diDidone. Sappi che ti tormenterò per sempre, anche quando la fredda morte avràseparato le mie membra dall'anima. E anche allora ti apparirò sotto forma difantasma, dovunque tu andrai.» Beh, più chiaro di così, cos'altro avrebbepotuto dirgli? In proposito sento il bisogno di citare anche una letteraimmaginaria che Ovidio fa scrivere a Didone (ma sapeva scrivere?) il giornoin cui vide partire Enea. Eccone alcuni stralci:

Ricevi o Enea la lettera di Didone decisa a morire: le parole che leggi sonole ultime che avrai da me... e non perché io speri che una preghiera ti possacommuovere, ma siccome ho perduto, e con onta, sia l'onore che la purezzadell'anima, cosa vuoi che mi possa più importare una parola in più o unaparola in meno.Sei deciso a partire comunque, ad abbandonare l'infelice Didone, e gli stessiventi che gonfieranno le tue vele porteranno via anche le tue promesse. Seideciso, o Enea, a correre dietro ai regni d'Italia, che tu stesso non saidove siano, e non ti attira Cartagine appena fondata. Tu fuggi ciò che è fatto einsegui ciò che è ancora dafare... Un altro amore, immagino, ti attende,un'altra Didone. Hai sempre bisogno di fare nuove promesse, per poterlenuovamente tradire! Ma anche se trovassi un amore nuovo, non troveresti maiuna sposa capace di amarti come ti amo io... Io brucio come una torcia dicera impregnata di zolfo, io brucio come il pio incenso gettato sui roghifumanti, io tipenso quando sono sveglia, io ti penso quando dormo, io tipensogiorno e notte... Eppure, nonostante i tuoi empi disegni, non ti odio, lamentosolo la tua infedeltà, e il lamento fa sì che ancora di più io t'ami...Respinto daiflutti ti accolsi in un rifugio sicuro: non avevo ancora uditobene il tuo nome quando ti diedi il mio regno. E mifossi almeno limitata aquesto! Anche il mio corpo volli chefosse tuo!Mifufatale il giorno in cui un temporale ci sorprese e ci costrinse aripararci in una grotta. E ora tu, pudore offeso, vendicati pure, esigi comeè giusto la mia punizione!Non partire, o Dardanide, ti prego: se tivergogni di avermi in moglie, non chiamarmi sposa, ma ospite, o concubina. Purdi essere tua, Didone sopporterà qualsiasi nome... Vorrei che mi vedessimentre scrivo: ho qui sul grembo la lama troiana che mi regalasti e dalleguance le lacrime cadono sulla spada. Ben presto sarà il mio sangue abagnarla. Ah, come fu utile questo tuo dono, e quanto poco ti è costatoliberarti di me! Ora immaginiamoci l'incontro tra idue nell'Oltretomba: lui le tende le braccia e lei gli volta le spalle.Ella, rivolta altrove, teneva gli occhi fissi a terra ed era più dura di unaselce dura o di una roccia marpesia. Dopo di che si dileguò e fuggì ostile nelbosco dove l'attendeva Sicheo, il suo primo marito.Enea, è inutile dirlo, ci restò malissimo: avrebbevoluto correrle dietro, spiegarsi meglio, ripetere ancora una volta che erastato costretto dagli Dei, ma non ebbe nemmeno il tempo di fare un gesto chela Sibilla già l'ammoniva: «Nox ruit, Aenea!».«La notte corre, o Enea, e tu resti qui, impalato, a perdere tempo! Ora lavia si divide in due sentieri: il sentiero di destra che conduce fin sopral'Elisio e che ci porterà alla meta desiderata, e il sentiero di sinistra checonduce all'empio Tartaro dove vengono punite le colpe.» Enea si volta escorge infatti a sinistra, sotto una rupe, un'ampia città circondata da untriplice muro e da un vorticoso fiume di fiamme roventi: è il Flegetonte.All'ingresso, su una ferrea torre, in veste di custode insonne, è assisa latremenda Tisifone, tutta avvolta in un mantello insanguinato.Ma non è nella città dolente che Enea vuole andare: ormai ne ha abbastanza digrida e di lamenti, lui desidera solo incontrare suo padre, il vecchioAnchise, e dove cercarlo se non in quello che a quei tempi era considerato ilParadiso, ovvero nei Campi Elisi? Lì infatti lo trovano, in fondo a una valle.Anchise, quando vide Enea venirgli incontro sul prato, protese commossoentrambe le mani, mentre copiose lacrime gli sgorgavano dagli occhi.«Alfine giungesti, figlio mio, e la pietà per ilpadre vinse la durezza delcammino!» «Quante volte» gli risponde Enea «il tuo ricordo mi spinse ascendere in questo luogo. Fa' adesso che io ti possa abbracciare, o padre, enon sottrarti alla stretta!» Così dicendo, rigava il viso di copioso pianto, eper tre volte cercò di abbracciarlo, e per tre volte il fantasma gli sfuggìdalle mani. Anchise a questo punto mostra al figlio le anime non ancora natee tra di esse indica quelle che nasceranno dal suo sangue. Inizia così unaspecie di passerella dei personaggi storici di Roma.Uno dietro l'altro il lettore si vede sfilare davanti una decina dicondottieri. Anchise gli mostra Silvio, l'ultimo dei figli che avrà conLavinia, per poi proseguire con Procra,Capi, Numitore e con un altro Silvio. Cita quindi Romolo e i suoi discendenti.

«Or volgi qui i tuoi occhi, o Enea, e guarda la gente romana: quello è Cesaree quella la stirpe di Jiulio che nascerà sotto la volta del cielo, e quello èCesare Augusto, ilfiglio del Divo, chefarà rivivere nuovamente il secolod'oro nei campi, un tempo dominati da Saturno. Augusto estenderà l'ImperoRomano sui Garamanti, sugli Indi e sulla terra che giace oltre le stelle.»Con questa rassegna di duci, il poeta rinunzia alla commozione dell'incontrotra il padre e il figlio. D'altra parte, però, bisogna pure capirlo: ilpoverino da poco si è visto sequestrare le proprietà che aveva nei pressi diMantova (lo Stato gliele aveva tolte per assegnarle ai veterani dellabattaglia di Filippi) e solo un appoggio dell'imperatore avrebbe potutofargliele restituire. Come non cedere alla tentazione di una bella sviolinata?

Orfeo

Orfeo è il primo cantautore di cui si ha notizia nella storiadell'umanità, e non poteva non esserlo dal momento che era figlio di Apollo,il Dio della Musica, e di Calliope, la Musa del Canto. Quando Orfeo simetteva a suonare accadevano cose incredibili: gli uccelli si fermavano inaria come elicotteri, fino a creargli intorno alla testa una specie diaureola, i pesci affioravano dalle acque e sporgevano il capo per megliosentire i suoi versi, gli alberi cercavano di avvicinarsi. comPatibilmentealla lunghezza delle radici, e perfino le montagne lo seguivano passo dopopasso.Ma qual era il suo repertorio? In pratica solo canzoni d'amore, ancheperché Orpheus Euridicem ninpham amavit, ovvero amava una ninfa di nomeEuridice. Purtroppo però non era il solo ad amarla:un altro corteggiatore, il truce Aristeo, anche lui figlio di Apollo, ambivaalla mano della ninfa. E quest'ultimo era uno che con le donne andava per lespicce: se una fanciulla gli piaceva un pochino, non stava lì a perdere tempocon le poesie, ma subito le saltava addosso.Un giorno in cui la bella Euridice stava facendosi il bagno, nuda in unlaghetto, accadde il fattaccio.Silenzio, udite: fu un pastore, figliuolo d'Apollo, chiamato Aristeo, costuiamò con sì sfrenato ardore Euridice, che moglie fu di Orfeo, che seguendolaun giorno per amore fu cagion del suo caso acerbo e reo:perché, fuggendo lei vicina all'acque, una biscia la punse e morta giacque.Insomma Euridice, nella sua fuga persottrarsi alle grinfie del bruto, aveva pestato una vipera venendone poimorsicata. Di chi la colpa? Dell'inseguitore o della fuggitiva? A sentireOvidio, tutta dell'uomo, secondo il Poliziano invece anche Aristeo erainnocente, in quanto innamorato. Si dice anzi che, correndo correndo, leabbia detto:Non mi fuggir donzella, che io ti son tanto amico e che più t'amo che la vitae il core.Ascolta, o ninfa bella, ascolta quel che io dico, non fuggir, ninfa, chi tiporta amore.Euridice però, innamorato o non innamorato che fosse, non lo volle nemmenosentire, e finì col rimetterci la pelle. Un pastore allora si assunse ilcompito d'informare Orfeo.Crudel novella io ti porto, Orfeo, che tua ninfa bellissima è defunta.Ella fuggiva l'amante Aristeo, ma quando fu sovra la riva giunta, da unserpente velenoso e reo, che era tra le erbe e i fior, nel piè fu punta:e fu tanto possente e crudo il morso che a un tratto finì la vita e il corso.Figuriamoci Orfeo. Dapprima pianse disperato, poi compose in onore delladefunta una decina di canzoni, facendo piangere per l'occasione anche ileoni, le montagne e le querce. Una volta, però, esauritosi il pianto, glivenne un'idea.«Gesù, Gesù!» esclamò (ovviamente non disse «Gesù, Gesù» ma fa lo stesso).«Se finora, con la sola forza del canto, sono riuscito a conquistare tutta lanatura, monti e boschi compresi, perché non tentare anche con gli Dei degliInferi? Vuoi vedere che, cantando cantando, riesco a commuoverli e a farmi

restituire Euridice?» Detto fatto, trova in fondo a una caverna un cunicoloche si inabissa nelle viscere della terra e ci s'infila dentro. Scende giù dibrutto, finché non si trova la via sbarrata da un fiume: è lo Stige, il fiumetorbido che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. E qui, come èovvio, s'imbatte in Caronte, il «nocchier della livida palude», tanto percitare anche Dante. Caronte, si sa, è un vecchio sporco e maleodoranteche non solo fa remare le anime dei morti, ma pretende pure di essere pagato.(I Greci usavano mettere una monetina tra i denti dei defunti, proprio perconsentire loro di pagare il pedaggio a Caronte.) Ebbene Caron, dimonio congli occhi di bragia, non appena sente Orfeo cantare, non capisce più nulla,e, non solo lo accompagna gratis sull'altra riva (remando lui), ma lo segueanche per un pezzetto di strada con il volto estasiato.Il secondo incontro che farà è quello con Cerbero, il cane a tre teste chenon lascia entrare i vivi e non lascia uscire i morti. Per la descrizione diCerbero, comunque, mi rimetto di nuovo al Divino Poeta. Cerbero, fiera crudelee diversa, con tre gole caninamente latra sopra la gente che quivi è sommersa.Li occhi ha vermigli, la barba lunga e atra, e il ventre largo, e unghiate lemani:Graffia li spiriti, scuoia e disquatra.Ma anche Cerbero viene ammansito dallabellezza del canto: guaisce un pochino e gli si accuccia ai piedi. Daquell'istante tutto l'Oltretomba sembra bloccarsi per ascoltare Orfeo.Cessano i tormenti dei dannati: Tantalo non ha più né sete né fame. La ruotadi fuoco a cui è legato Issione si ferma. Sisifo si riposa accanto al masso.Le aquile di Tizio smettono di rosicchiargli il fegato. E così via. Ma nonbasta: tutte le anime dei defunti accorrono a migliaia dai più remoti angolidel mondo delle tenebre.Tenui ombre provenienti dall'Erebo fondo, immagini opache, ormai senza luce,attratti dal suo canto terreno, fitti a migliaia, come uccelli che sirifugiono tra le foglie, per sfuggire alla fredda pioggia, o alla sera che liha sorpresi sui monti.Madri, uomini, corpi di eroi generosi, bambini, vergini morte senza averconosciuto l'amore, e giovani arsi sui roghi sotto gli occhi dei padri.La bellezza di questi versi è tale che misembra doveroso, nei riguardi di Virgilio che li ha scritti, riportarli quidi seguito in lingua originale.At cantu commotae Erebi de sedibus imis umbrae ibant tenues simulacraque lucecarentum, quam multa in foliis avium se milia condunt, vesper ubi authibernus agit de montibus imber, matres atque viri defunctaque corpora vitamagnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae impositique rogis iuvenes anteora parentum.E finalmente Orfeo finisce davanti al trono degli Dei degli Inferi, Ade ePersefone. Sempre suonando, il nostro cantautore chiede la grazia. Ed ecco,parola più parola meno, il testo della canzone:O regnator di tutte quelle genti c'hanno perduto la superna luce, udite lacagion dei miei lamenti.Pietoso Amor dei nostri passi è duce:non per Cerber legar fei questa via, ma solamente per la donna mia.Una serpe tra i fior nascosta e l'erba mi tolse la mia donna, anzi il miocore, ond'io meno la vita in pena acerba, né posso più resistere al dolore.Ma se memoria alcuna in voi vi serba del vostro celebrato antico amore, se lavecchia rapina in mente avete, Euridice mia bella mi rendete.Ma gli Dei tentennano, non sono ancoradel tutto convinti di poter infrangere le regole. Orfeo allora prova asostenere la tesi secondo la quale la fanciulla non avrebbe ancora finito divivere i suoi ustos annos, ovvero gli anni che le spettavano di diritto, echiede una proroga.Per questi luoghi pieni di terrore, per questo Caos immane, per questo vastoregno del silenzio, vi prego:tornate a tessere la trama degli anni, troppo presto troncati di Euridice.Tutti gli esseri, dopo la breve sosta del vivere, faranno capo a voi.Chi prima, chi dopo, tutti tendiamo verso una sola sede, giacché questa è lanostra definitiva dimora, e giacché voi reggete il regno del genere umano chemai vedrà fine.

Anch'ella, quando avrà compiuto il suo tempo, e avrà vissuto i suoi giustianni, sarà vostra di diritto.Io vi chiedo un prestito al posto di un dono. Se poi i fati mi rifiuterannola grazia, allora, di certo, non avrò più voglia di tornare, e in quel caso,gioite pure per la morte di entrambi.Ade a questo punto si commuove e consente aOrfeo di portarsi via Euridice, a patto però che non la guardi mai in visofinché si trova nel suo regno.Io te la rendo, ma con queste leggi:che lei ti segua per la ceca via ma che tu mai la sua faccia non veggi finchétra i vivi pervenuta sia!Questa del non guardare in viso le animedei morti doveva essere una legge inviolabile del mondo degli Inferi: ancheOrfeo, mentre canta e chiede la grazia ad Ade e Persefone, evita di guardarli.Comincia così la risalita: davanti c'è Orfeo che suona la lira, seguito apochi passi da Euridice tutta avvolta in un velo bianco, e infine, a chiuderela sfilata, Ermes, il Dio controllore, colui che dovrà testimoniare che i duenon si sono mai guardati.«Carpitur acclivis per muta silentia trames, arduus, obscurus, caliginedensus opaca»che tradotto in italiano vuol dire:s'inerpicarono ovattati nel silenzio per un sentiero arduo, buio edenso di opaca caligine.All'inizio Orfeo è perplesso: non è affatto sicuro che Euridice lo stiaseguendo. In effetti, non sente nulla che si muova alle sue spalle, non unrumore di passi, non un respiro... niente. E se lo avessero preso in giro? Ese gli avessero detto che lei lo avrebbe seguito solo per convincerlo atornare sulla terra? Poi pensa: è ovvio che non sento nulla: i morti nonfanno rumore. Vorrebbe voltarsi, ma non osa... Su questo fatto del voltarsi,poi, Ade e Persefone avevano molto insistito: «Bada che se ti volti, leisparisce per sempre!». Ed ecco che, tutto ad un tratto, sente la sua voce:una vocina flebile, sottile come un lamento... Euridice lo tenta: lo imploraperché si volti...«Amore mio, perché non ti volti? Sono diventata cosi brutta che non mi vuoipiù guardare? O forse non mi vuoi più bene?» «No, non mi debbo voltare,»grida Orfeo «questa non è Euridice. Questi sono gli Dei degli Inferi che mivogliono mettere alla prova!» E lei insiste: «Amore mio, ho freddo:abbracciami come facevi un tempo. Ho tanta voglia delle tue carezze».Orfeo resiste, e finalmente esce all'aperto. Non appena avverte sul viso ilcalore del sole si volta, ma la sua Euridice, purtroppo, non è ancora «deltutto» uscita dal cunicolo... per pochi centimetri è da considerarsi ancoranell'Ade. Stando cosi le cose, la fanciulla viene di nuovo inghiottita dalletenebre e sparisce per sempre.Pare che si fosse attardata perché le faceva male la caviglia, quella morsadal serpente.Così gettata al vento la fatica, infranta la legge del tiranno spietato, trevolte si udì un fragore nelle paludi dell'Averno.Prima di dissolversi, Euridice ha il tempo di gridare:«Ahimè, Orfeo, chi ci ha perduti?:Senza pietà il Fato già mi chiama e un sonno di morte vela gli occhi mieismarriti.E ora addio: intorno mi assorbe una notte fonda, e ormai non tua, a te tendole mie inerte mani.» Così disse, e d'improvviso svanì in un profondo nulla,come fumo che si dissolve nella brezza d'aria.Persa per la seconda volta Euridice, Orfeo, disperato, si rifugia nel canto.Con ogni probabilità è proprio con lui che nasce il proverbio «canta che tipassa». Così, comunque, la pensa Ovidio, che nei Tristia suggerisce il cantocome unico rimedio che talora ci resta per alleviare i mali del mondo.Se i miei libri avranno, come certo avranno, alcuni difetti, tu, o lettore,scusali, se non altro per le circostanze in cui furono scritti. Ero esule ecercavo sollievo (non la gloria) in modo che la mente potesse distrarsi dallesue sventure. Questa è la ragione per cui in genere si canta anche se sihanno le catene nei piedi. Canta il condannato mentre scava la terra, e conuna rozza melodia mitiga la sua fatica; canta il rematore mentre, puntando i

piedi, trascina contrOcorrente la barca, e canta ilpastore allorché, stanco eseduto su un sasso, si appoggia al bastone e rallegra le pecore al suonodella zampogna. E si dice che cantasse perfino Achille, desiderandodimenticare che gli era stata tolta Briseide, così come cantava Orfeo,attirando a sé le rocce e le selve, per lenire il dolore di aver perso perben due volte la sposa.Innumerevoli poeti, scrittori e musicisti si sonoispirati al mito di Orfeo. Gluck ne ha ricavato un'opera altamente suggestiva(come non ricordare la famosa aria: «Che farò senza Euridice, dove andròsenza il mio bene?»). In alcune versioni, Euridice segue muta Orfeo lungotutta la salita, in altre parla e lo tenta, in tutte però lui si gira primadel tempo. Diverso dagli altri, comunque, il modo con cui Reiner Maria Rilkeci racconta la reazione di Euridice:... ora seguiva il gesto di quel Dio turbato il passo dalle bende funebri,malcerta, mite nella sua pazienza.Era in se stessa come un alto augurio e non pensava all'uomo che era innanzi,non al cammino che saliva ai vivi.Ormai non era più la donna bionda che altre volte nei canti del poeta eraapparsa, non più profumo e isola dell'ampio letto e proprietà dell'uomo.E quando a un tratto il Dio la trattenne e con voce di dolorepronunciò le parole «Si è voltato», lei non comprese e disse piano: «Chi?».Insomma per Reiner Maria Rilke quando si muore, si muore, e ci si dimenticadi tutto. E forse è anche giusto che sia così per lenire se non altro ildolore di essere morti.Il dopo-Euridice è quanto mai burrascoso per Orfeo. Fedele alla memoriadell'amante morta, il poverino rifiuta qualsiasi compagnia femminile e sidedica esclusivamente ai ragazzi. A sentire Ovidio, anzi, sarebbe addiritturalui l'inventore della pederastia.Ai popoli di Tracia fu d'esempio nel deviare l'amor verso i fanciulli,cogliendone, prima della pubertà, la fulgida primavera e i primi fiori.L'aver rifiutato le donne, però, finì colcostargli la vita: un giorno, infatti, il poverino s'imbatté in un corteo diMenadi ubriache. Le sacerdotesse di Dioniso, prima cercarono di sedurlo, poi,offese dal suo netto rifiuto, lo presero, lo fecero a pezzi e ne gettarono lemembra nel fiume Ebro.Ecco quello che l'amor nostro disprezza!Oh sorelle, oh sorelle, diamogli la morte!Tu scaglia il tirso e tu quel ramo spezza, tu piglia il sasso, o il fuoco, egitta forte, tu corri e quella pianta lì scavezza.Oh, facciam che pena il tristo porte!Oh, caviamogli il cor dal petto fora!Mora lo scellerato, mora, mora!La testa di Orfeo, però, finì colcadere proprio sulla lira e col restare miracolosamente a galla. Si raccontaanche che durante il tragitto si mise a cantare:«Euridice» diceva. «O mia misera EuridicE!» E lungo il fiume le riveripetevano: «Euridice».Zeus, commosso dalla lacrimevole storia, posela testa di Orfeo in mezzo al cielo, nella costellazione della Lira, e ancoraoggi, si dice, che nelle notti stellate è possibile udire il suo cantod'amore.#Il mito di Protesilao

Cominciamo col dire che non si chiamava Protesilao, bensì Iolao. Il nomeProtesilao in greco voleva dire «primo fra tutti» e gli fu affibbiato solo amorte avvenuta, in quanto fu il primo guerriero a morire nella guerra diTroia.Quella di Protesilao, comunque, fu una vita difficile. Già per nascere avevaavuto i suoi bravi problemi: suo padre Ificlo, re di Filace, era rimasto alungo impotente, finché un medico-indovino di nome Melampo (famoso per la suacapacità di capire il linguaggio degli animali) non gli consigliò disacrificare due tori agli Dei. E fu proprio in quella occasione che il bravoMelampo riuscì a captare un breve scambio di battute tra due avvoltoi, che si

erano posati sulle carcasse delle vittime.«Chi ha sacrificato questi tori agli Dei?» chiese uno dei due avvoltoi.«E stato Ificlo, il re di Filace» rispose l'altro.«Che tu sappia, è vero che Ificlo non può aver figli?» «Sì, è vero, e io neconosco anche il motivo: un giorno suo padre Filaco, dopo aver immolato unariete sull'ara di Artemide, gettò a terra il coltello del sacrificio, eIficlo, che all'epoca era ancora un fanciullo, rimase molto turbato allavista del sangue. Il padre, allora, per nascondere la lama, conficcò ilcoltello in una quercia sacra, e questo offese la Dea, che inflisse a Ificlol'incapacità di generare.» Venuto a conoscenza del complesso di castrazioneche angustiava Ificlo, Melampo prese gli opportuni provvedimenti: come primacosa estrasse il coltello incriminato dalla quercia sacra, quindi ne asportòtutta la ruggine per poi farla bere al re, sciolta nel vino. Nacquero cosìdue bambini: Protesilao e Podarce, famoso quest'ultimo per la sua velocitànelle gare di corsa.Ma com'era Protesilao? Manco a dirlo, bellissimo, e in quanto tale avevafatto innamorare di sé Laodamia, splendida figlia del re Acasto edeccezionale scultrice. Purtroppo Acasto si era opposto fin dall'inizio almatrimonio: Protesilao, a suo dire, non era abbastanza ricco da poteraspirare alla mano di Laodamia. «Figlia mia bella,» aveva detto Acasto «tu ti devi convincere! Dal momentoche abbiamo urgente bisogno di stringere alleanze politiche, tu ti devisposare con il figlio di qualche re, e a me, a essere sinceri, questoProtesilao non sembra uno molto potente.» «Ma è anche lui figlio di un re!»protestò Laodamia, disperata. «Non sai forse che suo padre Ificlo regna sututta la città di Filace?» «Filace, bambina mia, non è una città, ma unvillaggio di pochissimi abitanti» precisò Acasto. «Non la puoi certoparagonare con la nostra Iolco! E poi non ha sbocchi a mare, insomma nonconta nulla.E se questo non bastasse, mettici pure che Ificlo è ancora molto giovane eche Protesilao corre il rischio di succedergli solo tra vent'anni.» Laodamiaa queste parole rimase malissimo, e stava quasi per fuggire a Filace, dal suoProtesilao, quando, all'improvviso, scoppiò la guerra di Troia.Ora dovete sapere che, alcuni anni prima, Acasto aveva fatto un solennegiuramento: quello di difendere, unitamente a tutti gli altri principi achei,l'onore di Elena, vita natural durante. Il fatto che il troiano Paridel'avesse rapita lo costringeva pertanto a partire subito per la guerra, e, aessere sinceri, non ne aveva alcuna voglia.«A me,» disse «delle corna di Menelao non importa assolutamente nulla. Io aTroia non ci vado!» «Ma non puoi fare questa brutta figura» lo rimproveraronoi suoi consiglieri. «Tu hai giurato! Hai detto che avresti inviato a Troiaquaranta navi nere, comandate da un guerriero di sangue reale!Ora, tu figli maschi non ne hai, hai solo una figlia femmina, e per di piùnubile... Chi vuoi che le possa comandare queste quaranta navi?» A questeparole, il viso di Acasto s'illuminò:«Un momento...» esclamò. «Mi è venuta un'idea!» E mandò a chiamare Protesilao.Il giovanotto giunse di corsa e si sentì chiedere:«Protesilà, tu vuoi sempre bene a Laodamia?».«Certo che le voglio bene!» rispose il ragazzo, conil cuore che gli saltava nel petto, un po' per la domanda, e un po' per lacorsa.«E io te la faccio sposare,» aggiunse Acasto, dandogli una pacca sullaspalla, «a patto però che te la sposi entro stasera.» «Entro stasera!?» «Sì,o Protesilao, giacché abbiamo pochissimo tempo a disposizione, sia per ilmatrimonio che per la prima notte. Il fatto è che domani mattina, dibuon'ora, mi devi condurre quaranta navi nere a Troia!» «Papà,» obiettò ilgiovane «ma io la casa non l'ho ancora pronta...» «Fesserie,» tagliò cortoAcasto «o te la sposi oggi o non te la sposi più! Vatti a preparare e nonperdere tempo.» Tutto fu organizzato secondo i voleri del re. Gli sposi,subito dopo il pranzo di nozze, si ritirarono in camera da letto, eProtesilao, alle prime luci dell'alba, si sentì chiamare a gran voce da unaraldo.«O Protesilao, principe di sangue reale e marito della figlia di Acasto, laflotta ti attende!» E il giovane partì.

Ovviamente Laodamia pianse calde lacrime, né più ne meno di come avrebbepianto qualsiasi altra sposa al suo posto. Questi, dopo qualche mese, i suoipensieri:Oggi i venti sono contrari e il mare è in tempesta, ma il giorno in cui milasciasti dov'erano i venti sfavorevoli e dov'era il mare avverso? Allora sìche i flutti avrebbero dovuto opporre resistenza ai remi!Solo così avrei avuto modo di baciarti più a lungo.Solo così avrei potuto farti più raccomandazioni. E invece quel vento inpoppa, tanto amato dai marinai, e tanto nemico del nostro amore, ti portò viada me per sempre. Tu ti sciogliesti dalle mie braccia, o Protesilao, e mentreio ancora mormoravo «addio», Borea tese le vele e ti trascinò lontano.Finché riuscii a vedere il tuo bel viso, mi piacque guardare, e quando nonvidipiù la tua figura, seguii le vele, e quando non vidi più le vele, guardaiil mare deserto. Poi, all'improvviso, mi si piegarono le ginocchia e caddisulla spiaggia.A stento il suocero Ificlo e il longevo Acasto mi rianimarono conl'acqua fredda del mare. Come mi tornò la coscienza, così mi tornò il dolored'averti perso. Ora non hopiù voglia difarmipettinare i capelli, né mipiaceindossare vesti dorate. Passo le giornate vagando di qua e di là, senza meta,in pratica dove mi spinge il delirio.Che maledetto tu sia, o Paride, figlio di Priamo, bello ai danni della tuastessa gente! E che maledetto tu sia, o Menelao, che per riportare a casa unasola donna, finirai colfarnepiangerepiù di mille! E che maledetti siano Ilio,Tenedo, Simoenta, Scamandro e Ida, tutti nomi che solo a sentirli pronunziarefanno venire addosso una gran paura! Ma più di tutti io temo un tale che sichiama Ettore; di lui Paride disse che ha la mano ferma e spietata. in ognimodo, amor mio, ti prego, da Ettore guardati! Che lo affronti pure Menelao seproprio lo desidera, ché almeno lui ha un motivo per farlo: è a Menelao,infatti, e non a te, che è stata rapita la moglie. Che gli altri, insomma,facciano la guerra, e che Protesilao faccia l'amore! (Sulla nave ammiraglia, oltre a Protesilao, viaggiava anche un altro ospiteillustre: il piè veloce AChille, il più forte dei guerrieri achei.Al suo arrivo la nave fu accolta dalla più gigantesca pietrata che la storiaricordi: i Troiani, schierati a migliaia lungo le spiagge, scaricarono sugliinvasori una tempesta di selci, di frecce e di maleparole.Il primo a ritenersi offeso, ovviamente, fu Achille:l'eroe al grido di «Maledetti figli di Ilio» stava lì lì per saltare dallanave, quando fu bloccato dalla madre Tetide. E qui bisogna aprire unaparentesi, e spiegare cosa ci facesse una mamma su una nave da guerra achea.L'invisibile Dea, avendo saputo da Apollo che il primo a sbarcaresarebbe stato anche il primo a morire, si era piazzata opportunamente allespalle del figlio, pronta a intervenire al minimo pericolo; e difatti, comesi accorse che l'eroe stava per saltare, con una mano lo trattenneafferrandogli la cintura, con l'altra dette una spintarella a Protesilao.Risultato finale: il povero marito di Laodamia finì giusto sulla spada diEttore e rese l'anima agli Dei prima ancora, si potrebbe dire, di toccare ilsuolo troiano. Ed ecco come Omero ci descrive il balzo di Protesilao:Primo ei balzossi dalle navi, e primo cadde, trafitto dal dardanio ferro.Balzossi un corno, preciso io, perché se non fossestato per la spintarella di Tetide, lui col cavolo che sarebbe balzato.Laggiù, intanto, a Filace, c'era chi si struggeva dal dolore.E la moglie in Filace, derelitta, le belle gote lacerava, e tutta vedova delsuo re, piangea la casa.Se Laodamia si disperava, Protesilao, sebbene morto, era addiritturafuribondo! Troppo crudeli erano stati gli Dei! E d'altra parte, come darglitorto? Aveva desiderato una donna per tutta la vita: a un certo punto, chissàcome, era riuscito a convincere il padre di lei a dargliela in sposa, e dopoaverla avuta per una notte soltanto (dicesi una), che succede? Viene uccisoproprio quando sta per mettere piede sul suolo nemico, senza aver combattutonemmeno un giorno! E no: quello che è troppo, è troppo! E pensare che lamoglie, poche ore prima della partenza, lo aveva messo in guardia dallosbarcare per primo, ammonendolo: «Sors quoque nescioquem fato designatiniquo, qui primus Danaum Troada tangat humum», ovvero...«Mi hanno riferito che il Fato condannerà a morte chi per primo toccherà

l'ilio suolo. O infelice quella sposa che sarà la prima a piangere il maritoperduto!Che delle mille prue dei Danai la tua possa essere la millesima a solcare leaffollate acque, e che tu possa scendere per ultimo, o mio dolce amore, dallanera nave!» Più chiaro di così! EppureProtesilao c'era cascato lo stesso: ma con chi prendersela? Con Elena cheaveva scatenato la guerra? O con Paride che l'aveva rapita? O con Menelao cheaveva voluto vendicarsi? O con l'Ananke (il Destino) che regolava le azionidei mortali? Luciano di Samosata, nei suoi Dialoghi dei morti, affronta ilproblema e s'immagina un Protesilao furibondo che gira in lungo e in largol'Oltretomba alla ricerca di Elena:«O Protesilao,» lo bloccò Eaco «ho sentito dire che vuoi strozzare Elena. Maperché detesti tanto la bella figlia di Tindaro?» «Perché è sua la colpa seoggi son qui, in questo triste mondo di morti» rispose l'eroe. «Fu perdifendere il suo onore che lasciai incompiuta una casa, e vedova una giovanee ardente sposa.» «Ma allora» obiettò giustamente Eaco «prenditela conMenelao! Fu lui a trascinare noi Achei a Troia, e solo per riprendersi unadonna, una soltanto.» «Dici il giusto, o Eaco,» esclamò Protesilao, dopoaverci riflettuto, «è lui il vero colpevole» «Io, colpevole?» protestòMenelao. «No di certo Epiù giusto, invece, che tu ritorca le tue ire su Paride,giacché fu lui, contro ogni legge morale, a rapirmi la moglie il giornostesso in cui lo accolsi come ospite. E lui quindi, e non Elena, chemeriterebbe di essere strangolato, e non solo da te, o Protesilao, ma datutti i Greci e i barbari che perirono per colpa sua!» «Sì, penso proprio chetu abbia ragione./» ammise Protesilao, e subito si volse verso Paride: «A noidue, ora, o violatore di letti altrui: di certo adesso non mi potraisfuggire».«Sei ingiusto, o Protesilao, a prendertela con me» gli rispose pacatamenteParide. «Io, se ci pensi bene, sono uno che ti somiglia: sono un innamorato!Il mio delitto è stato quello d'innamorarmi di una donna, così come, a suotempo, tu ti sei innamorato di Laodamia. La colpa allora, a ben guardare, nonè mia ma dell'Amore, che come ben sai è un sentimento involontario, perchégenerato da un Dio che ci trascina dove lui ha già deciso!» «Ah, se potessiavere Amore fra le mani: di certo lo strozzerei» urlò Protesilao.«No che non lo strozzeresti, e ti spiego subito il perché,» lo contraddìEaco «perché lui non avrebbe difficoltà ad ammettere di essere stato la causadel tuo innamoramento. Rifiuterebbe, però, sdegnato la responsabilità dellatua morte. Non dimenticarti, infatti, o Protesilao, che fosti tu a lanciarticome un pazzo, primo fra tutti, sulle opposte schiere;eppure eri consapevole d'aver lasciato in patria una giovane donna! La veritàè che in quel momento ti attraeva più la gloria che la sposa lontana.» «Io ilprimo a lanciarmi? Giammai!» protestò Protesilao. «Fu il Fato a stabilirechefossi il primo a toccare l'ilio suolo: cos'altro avrei potuto fare, se nonubbidire?» «E allora perché te la prendi con questi poveretti?Cerca il Fato piuttosto, e strozzalo.»

L'ingiustizia patita spinse sia Laodamia che Protesilao a protestare con gliDei. Lei si gettò ai piedi di una statua di Persefone e le disse:«O Dea dell'estrema casa, tu che ben sai quanto dolore rechi la lontananzadella persona amata, al punto tale che tuttora dividi il tempo tuo tra ilmarito affettuoso e la piangente madre, fa' che io possa rivedere ancora unavolta il mio amato bene.Una sola volta egli mi ebbe, e una volta sola ancora oggi ti chiedo.» Lui,invece, trovandosi negli Inferi, volle contattare di persona Ade e Persefone.Ed è sempre Luciano di Samosata che ci riporta, pari pari, il dialogo.«O re, o nostro Zeus,» iniziò a dire Protesilao «e tu, o figlia di Demetra,non sdegnate la mia preghiera d'amore.» «Cosa vorresti da noi?» gli chieseAde. «E chi sei?» «Sono Protesilao, figlio di Ificlo filacio, il guerrieroacheo che morì per primo sulle spiagge di Troia.Vi chiedo di lasciarmi tornare in vita per pochissimo tempo.» «Tutti quelliche vengono qui esprimono questo desiderio, o Protesilao, ma nessuno di essilo soddisfa.» «Io non sto chiedendo di vivere ancora, o signore degli Inferi,ma di rivedere ancora una volta, una volta sola, la mia giovane sposa. Lalasciai nel talamo, fresca fresca, per imbarcarmi sulla nera nave in partenza

per Troia. Qui giunto, ero appena sbarcato che fui trafitto da Ettore, ilfiglio di Priamo. Oh me misero! Ancora oggi mi struggo d'amore e vorreirivederla, anche solo per un attimo, per poi tornarmene quaggiù rassegnato.»«Come fai a ricordarti di lei?» Gli chiese Ade,incuriosito. «Non hai forse bevuto l'acqua del Lete?» «Sì, l'ho bevuta, emolta, ma la mia passione ha prevalso sul suo potere!» «Resta pur qui, oProtesilao. Prima o poi anche la tua bella sposa scenderà in questi luoghi, ein quell'occasione la potrai rivedere.» «L'attesa però, o Ade, sarebbeinsopportabile: se tu sei stato anche una sola volta innamorato, saprai benecosa vuol dire amare.» «Ma a cosa ti gioverebbe vivere un sol giorno accantoa lei, perpoi tornare quaggiù con rinnovato dolore?» replicò giustamente Ade.«La persuaderei ad accompagnarmi, e tu, invece di uno, avresti due morti.»«Ciò non è lecito,» rispose Ade «non è mai avvenuto.» «Non è vero, non èvero» obiettò Protesilao. «Per la medesima ragione concedesti a Orfeo diportarsi via Euridice, e consegnasti a Ercole la mia congiunta Alcesti,facendo loro la grazia.» «E vorresti comparire, brutto come sei, ridotto a unteschio orribile, innanzi alla tua sposa? Di certo la poverina non tiriconoscerebbe: si prenderebbe solo un grande spavento e scapperebbe vialontano.E tu avresti fatto tutta quella strada per niente.» «Se è per questo, maritomio, il rimedio esiste» lo interruppe Persefone. «Da' ordine a Ermes ditoccarlo con la verga non appena raggiungerà la luce, e Protesilao tornerà aessere bello e giovane come quandO entrò la prima volta nel talamo.» «Beh, seè d'accordo anche Persefone, che costui sia riportato di sopra e rifattonovello sposo. Ricordati, però, o Protesilao, che ti viene concesso solo ungiorno!»Anzi, solo tre ore, a sentire imitologi. E così accadde che una notte, mentre Laodamia era a letto, insonne,e ricordava lo sposo perduto, ecco apparire Protesilao.L'eroe indossava ancora le armi con le quali era morto, e un filo di sanguegli colava dalla gola.«Tu qui, mio sposo!>, esclamò Laodamia.«Sì, o Laodamia, e ardo all'idea di riaverti tra le assetate braccia. Mabando ai convenevoli: solo tre ore ci concessero gli Dei, e or non vorrei chele tue frasi d'amore, seppur gradite, rubassero il tempo alle carezze audaci»Protesilao, insomma, era impaziente: si accorse che il tempo volava e avrebbevoluto impiegare tutte le tre ore che gli erano state concesse in un intensorapporto d'amore. Ma Laodamia, inaspettatamente, lo rifiutò. Tre ore non lesembrarono una gran cosa, specialmente se messe al confronto con l'immensitàdei suoi desideri, e allora chiese allo sposo la cortesia di restareimmobile, nell'atteggiamento di chi sta abbracciando una donna, in modo dapoterlo ritrarre in una statua di cera.«Quest'immagine, credimi,» gli disse Laodamia «è più di quanto non sembri:potrò dirle ogni giorno tutte le tenerezze che voglio, le dolci parole d'amoreche in genere si dicono gli amanti, e potrò abbracciarla per farmiabbracciare da lei. Me la stringerò al petto, proprio come se fosse un veromarito, e gemerò con essa, fingendo che mi possa rispondere.»Da quel giorno Laodamia presel'abitudine di vivere tra le braccia della statua: ci s'infilava dentro, e lacopriva di baci. Il padre, non vedendola più in giro per casa, la fece spiareda un servo, e quando questi ritornò dicendo: «Sire, tua figlia vive giorno enotte abbracciata a uno sconosciuto», dette ordine perché sfondassero laporta della stanza da letto e gli portassero, mani e piedi legati, l'amantemisterioso.Una volta scoperta la pietosa finzione, Acasto, ritenendo la figlia uscita disenno, fece gettare la statua di Protesilao nell'olio bollente; ma Laodamia,non appena vide il viso del suo amato sciogliersi nel calderone, vi si gettòanche lei.Racconta Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale, che Protesilao fusepolto in Tracia, nel Chersoneso, e che accanto alla tomba nacquero alcuniolmi maestosi i cui rami erano sempre fioriti, d'estate e d'inverno, aeccezione di quelli più alti che guardavano Troia, e che non fiorirono mai.#L'asino d'oro.

La favola di Amore e Psiche ci viene raccontata daApuleio, uno scrittore africano del II secolo dopo Cristo, mezzo erudito emezzo mago, nel suo capolavoro, Le metamorfosi (più noto forse come L'asinod'oro), un romanzo di avventure la cui lettura non mi stancherò mai diconsigliare agli appassionati del genere fantasy.Per coloro che non ne sapessero nulla, proverò a raccontarlo per sommi capi.Il protagonista del romanzo si chiama Lucio; è un giovanotto di buonafamiglia in cerca di emozioni. Sperando di trovarle in Tessaglia, una terra dimaghi e fattucchiere, arriva a Ipata, il capoluogo della regione. Ed ecco lesue prime impressioni:«In questa città tutto mi sembra assurdo, irreale, come se un infaustoincantesimo si fosse impadronito di ogni cosa: i sassi in cui inciamposembrano esseri pietrificati, gli uccelli che sento cantare uominipiumificati, gli alberi che circondano le mura individui a loro voltatrasformati in uomini fronduti, e perfinO le acque danno l'impressione diessere sgorgate da creature umane. Mi guardo intorno, stupito, e mi aspettoche da un momento all'altro anche le statue si mettano a camminare, o lefigure degli affreschi a parlare, o gli animali a profetare.»Lucio finisce con l'essere ospitato da un certoMilone, un vecchio usuraio, sposato e senza figli.Unica persona allegra della famiglia, una servetta, l'appetitosa Fotide. Ilgiovane ha appena saputo dai vicini che la moglie dell'usuraio, la misteriosaPanfile, è una strega.«Evoca i morti, muta il corso degli astri, piega alle sue voglie gli Dei erende docili gli elementi della natura. Un giorno l'abbiamo udita minacciareperfino il sole! E già, perché aveva ritardato troppo il tramonto,impedendole d'iniziare i suoi incantesimi.» Lucio siripromette di mantenere le distanze dalla padrona di casa e di rifarsi con laserva che dal canto suo si rivela molto disponibile. E un giorno che nonc'era nessuno in casa, ecco che se la ritrova innanzi, accanto ai fornelli,più bella e provocante che mai.«Indossava una candida tunichetta di lino, fermata in alto da una cinturarosso vivo, e mentre, con le sue manine, faceva saltare il tegame, tutto ilcorpo le vibrava nel medesimo tempo. Restai stupefatto da questa visione e mis'irrigidì anche un arnese che fino a quel momento era rimasto in riposo.Sta lontano dal miofornellino, ragazzo, mi disse la ragazza "se non ti vuoifar male! Sappi che se appena me lo tocchi ti sentiraibruciare fin dentro le ossa, e a quel punto solo io, e nessun altro, potràvenirti in aiuto!" Ma io non resistetti alla tortura della provocazione e labaciai ardentemente sul collo, giusto all'attaccatura dei capelli. Poil'abbracciai con tutta la foga dei miei giovani anni e lei mi corrispose conuguale ardore, e gareggiò a lungo con me in ogni possibile libidine, cercandocon la sua lingua profumata di nettare di incontrare golosamente la mia.Una volta amoreggiato con la servetta, Lucio, curiosocom'era, cominciò a farle delle domande sulla padrona: «Ma è vero che è unastrega? E che cosa fa di tanto strano? E a che ora compie i suoiincantesimi?».«E così una notte mi condusse lei stessa, in punta di piedi, senza rumore, inuna stanzetta all'ultimo piano in cima alla casa, e mi fece spiare attraversola fessura di una porta.Vidi Panfile togliersi di dosso tutti i vestiti, quindi aprire uno scrignoche conteneva tanti vasetti. Ne prese uno, gli tolse il tappo e ne estrasseun unguento che poi si spalmò con cura per tutto il corpo, dalle unghie deipiedi fino alla cima dei capelli. Le sue membra allora cominciarono avibrare, le sue braccia a ondeggiare lentamente nell'aria, ed ecco spuntarleaddosso morbide piume, e poi ancora piume più robuste, e vidi il suo nasoindurirsi, e poi mutarsi in becco, e le sue unghie diventare artigli. Panfilesi era trasformata in gufo: emise un acuto stridio e prese il volo fuoridella finestra.» Lucio si stropicciò gli occhi,incredulo. Un attimo dopo cominciò a tormentare Fotide perché gli procurassel'unguento magico: anche lui voleva diventare un uccello! Ah, poter volare,sorvolare la città, poter entrare in tutte le case e poi tornare indietro per

riprendere le antiche sembianze! Fotide acconsentì: purtroppo, però, nellafretta finì col prendere un vasetto per un altro.«Come l'ebbi tra le mani, prima lo baciai, poi mi liberai dei vestiti, einfine immersi due dita, avidamente, nell'unguento, per poi spalmarmelo benbene per tutto il corpo, così come avevo visto fare alla strega Panfile. Aquelpunto cominciai anche ad agitare le braccia, su e giù come fanno gliuccelli, senza però ottenere alcun risultato pratico: le penne non spuntavanoe non spuntavano nemmeno le piume; piuttosto i peli del corpo erano diventatiispidi come setole, e la mia pelle, così delicata, cominciava a diventar duracome il cuoio. In fondo alla schiena poi mi era spuntata un'enorme coda. Ilviso infine mi s'era allungato, le narici allargate e le orecchie diventatesmisuratamente lunghe e pelose. Insomma, non c'era nulla in quella orribilemetamorfosi di cui avrei potuto menar vanto, se non fosse stato per il mioarnese, divenuto all'improvviso lunghissimo.» Resosiconto di essersi trasformato in asino, il povero Lucio cominciò a piangere,anzi a ragliare, ma Fotide riuscì presto a consolarlo.«Non ti preoccupare, amor mio,» gli disse «domani mattina di buon'ora, tidarò da mangiare una rosa, e vedrai che tutto tornerà come prima.Anche la mia padrona mangia le rose quando torna dai suoiviaggi, e ogni volta ridiventa donna. Per il momento ti sistemo nella stallalà insieme al tuo cavallo e agli altri animali.» Sennonché, durante la notte,un gruppo di banditi, sfondata la porta d'ingresso, forzò con una scure ilnascondiglio dove Milone teneva nascoste tutte le sue ricchezze, e nel girodi pochi minuti i briganti riuscirono a riempire d'oro e d'argento diversisacchi; il carico però si rivelò ben presto cosi pesante che i malviventi sividero costretti a rubare anche il cavallo e i due asini (Lucio compreso) chestavano nella stalla.Durante il tragitto dalla casa di Milone al covo dei banditi, l'asino Luciosi beccò tante di quelle legnate, ma tante di quelle legnate, che a un certopunto invocò la morte. A ogni buon conto, una volta giunto a destinazione,assistè alle varie riunioni dei briganti e ai loro litigi feroci per ladivisione del bottino. Tra le tante cose che vide in quei giorni, ci fu ancheuna fanciulla bellissima che era stata appena rapita a scopo d'estorsione. Laragazza, in attesa che i suoi genitori pagassero il riscatto, piangevadisperata, e il capo dei banditi, non sapendo più che fare per calmarla,l'affidò a una vecchia che da sola faceva da serva a tutti quei briganti.Costei, resa gobba dagli anni e dagli acciacchi, prese le mani dellafanciulla tra le sue dita gialle e scheletriche, e le disse: «Se mi promettidi non piangere, bimba mia, ti racconterò una bella storia...».La favola di Amore e PsicheC'erano una volta un re e una regina che avevanotre figlie molto belle. Le due più grandi, però, seppure avvenenti,rientravano nella normalità, la terza, invece, la più piccola, era cosìincredibilmente bella da non poter essere descritta con parole umane. Molticittadini, infatti, e molti stranieri, avendo sentito parlare della suaeccezionale bellezza, accorrevano in gran numero soltanto per vederla, e avederla restavano attoniti e le lanciavano baci.Tutta quest'ammirazione, però, dette molto fastidio a Venere,e, a essere sinceri, non le si poteva nemmeno dar torto: la Dea dellaBellezza fino a prova contraria era lei, e pertanto qualsiasi altrapretendente al titolo, per di più di razza mortale, cioè inferiore, andavaeliminata immediatamente.«E maipossibile che io, l'antica madre della natura, l'origine stessa deglielementi, sia costretta a dividere gli onori dovuti alla mia maestà con unaragazzotta, e a veder profanato nei cieli il nome mio?Invano allora il pastore troiano preferì me alle altre Dee! Giuro chechiunque sia questa sciagurata, non potrà godersi a lungo le lodi che mi hausurpato, e farò in modo che s'abbia subito a pentire di tanta illecitabellezza!» Detto fatto, un bel giorno convocò suo figlioAmore e gli disse: «Senti, ragazzo mio: qui c'è una stupida che va dicendo ingiro di essere più bella di tua madre! Si chiama Psiche. Tu ora, da bravofigliuolo, me la colpisci con una delle tue frecce inesorabili e me la faiinnamorare di un mostro orrendo; così un'altra volta impara a fare lasmorfiosa!».

Il fatto è che la povera Psiche, pur essendo da tutticonsiderata bellissima, non aveva ancora trovato uno straccio di fidanzato.Le sorelle si erano felicemente accasate con due re stranieri (un po'anzianotti in verità, ma abbastanza ricchi) e lei niente. I genitori eranoalquanto preoccupati.«Vuoi vedere» dicevano «che tutta questa bellezza, invece di aiutarla, hafinito con lo spaventare i pretendenti!» E allora il padre, preoccupato perla grande infelicità della figlia, e sospettando un qualche odio da partedegli Dei, andò lui stesso a Mileto per interrogare l'antichissimo oracolo diApollo. Ed ecco quel che il Dio gli ordinò:Conduci tua figlia, o re, in cima a un altissimo monte, e vestila d'oro ed'argento per un luttuoso matrimonio.Non aspettarh uno sposo cresciuto da stirpe mortale, ma un fiero mostroviviparo che svolazza alato nei cieli.Un mostro? A forma di serpente? E perché mai?Immaginiamoci la reazione di Psiche.«O povera me!» urlò piangendo. «O quanto avrei preferito essere nata brutta edeforme, piuttosto che andare incontro a un così crudele destino!» La volontàdegli Dei però andava rispettata, e Psiche, volente o nolente, fuaccompagnata in cima a una montagna da un corteo di amici e parenti, tuttivestiti a lutto, e lì lasciata sola in attesa del mostro.Quand'ecco che a un tratto un leggero zefiro le mosse il vestito, le gonfiòla gonna e la sollevò dal suolo, ma con grazia, per poi trasportarla lungo ifianchi scoscesi della montagna e, sempre con dolcezza, depositarla a vallesul grembo di un prato coperto di fiori. Psiche, unavolta rimessi i piedi a terra, si guardò intorno e vide di fronte a lei unareggia tutta d'oro e d'argento. Questa, pensò, non può essere che una dimoracostruita dagli Dei: troppo belle erano le sue mura, troppo imponenti i suoiportali, troppo alte le sue torri. E anche l'interno del palazzo era degno diun Dio: fin dall'ingresso, ad esempio, si intravedeva un susseguirsi disaloni, l'uno più stupefacente dell'altro, soffitti in avorio e legno dicedro, pavimenti in marmo e pietre preziose, pareti d'oro massiccio e viadicendo. Insomma il meglio del meglio che ci si possa immaginare in fatto dicase!La fanciulla attraversò le diverse sale come un automa: un po' eraterrorizzata da quanto le era accaduto, e un po' si sentiva attratta da tuttele ricchezze che la circondavano. Quand'ecco che, all'improvviso, sentì dellevoci:«Benvenuta, o Psiche. Non ti meravigliare delle ricchezze che vedi: tuttoquello che ti sta intorno è tuo. Va' pure nella tua camera da letto e riposa.Quando infine lo vorrai, ordinaci pure un bagno.Noi, di cui senti solo le voci, saremo le tue fedeli ancelle e ti serviremocon la massima dedizione.Una volta poi che avrai terminato le cure del tuo corpo,ti prepareremo un banchetto regale.»Beh, superato il primo impatto con la nuova realtà, Psichecominciò ad abituarsi alla casa. Tutto era splendido, luccicante e inperfetto ordine; e ovemai avesse avuto bisogno di qualcosa, che so...un unguento... una bevanda... bastava chiederlo alle voci, che subitoubbidivano.Insomma, per farla breve, che cos'era successo?Null'altro che questo: il Dio Amore, nel prendere la freccia che avrebbedovuto far innamorare Psiche del mostro, si era inavvertitamente ferito, equindi si era innamorato lui della fanciulla. A questo punto, per goderselain santa pace, si era costruito un pied-à-terre incantato, in modo chenessuno al mondo (e soprattutto sua madre) lo venisse a sapere.Nel frattempo, però, Psiche si era lasciata prendere di nuovo dal panico: intutta la casa non aveva trovato una sola lampada, o torcia o candela, chepotesse illuminare la sua stanza. Inutilmente ne aveva chiesta una alle voci.«Il nostro padrone» avevano risposto le voci «non ama essere visto. Perciòarriverà solo a notte fonda ed entrerà lieve come una brezza nella tuastanza. Tu preparagli il letto e aspettalo con fiducia!» «Non vuole che loveda perché è un mostro!» pensò Psiche e si mise a piangere.Nel buio più fitto uno strano rumore le giunse alle orecchie. Ella era sola

nel suo pudore di vergine e cominciò a tremare. Ed ecco che l'invisibile sposoentrò nel suo letto e la fece sua. Ebbene, incredibile adirsi, il mostro non sembrava affatto un mostro; anzi, seppure al buio, altatto sembrava bellissimo! La sua pelle era vellutata come una pesca, i suoiriccioli morbidi come quelli di un bambino, e le sue labbra tenere e ardenti.Psiche se ne innamorò subito pazzamente, e durante il giorno non vedeva l'orache giungesse il tramonto per poterlo di nuovo abbracciare. La sua felicitàsarebbe stata completa se solo avesse potuto tranquillizzare la famiglia che,a quel punto, di sicuro la credeva morta.«Ti scongiuro, o mio adorato amore,» diceva al suo invisibile sposo «se soloti è possibile, conduci qui, a palazzo, le mie sorelle: fa' che possanovedere con i loro stessi occhi fino a che punto sono fortunata! Consentimi didividere con loro la mia felicità.» Ma Amore la mise in guardia contro questaeventualità.«Ricordati, o Psiche,» le disse «che la felicità non è divisibile: l'unicomodo di conservarla è quello di non farla mai conoscere a nessuno!» Ma Psichecontinuò a insistere.«Morirei cento volte piuttosto che perdere i tuoi dolcissimi amplessi!Chiunque tu sia, lo sai che t'amo. Ma ti prego, tesoro, concedimi quest'ultimagrazia: fa' che il tuo fedele Zefiro trasporti qui le mie sorelle, così comefece con me il giorno in cui salii in cima alla montagna.» E per convincerlolo baciò di più di quanto non facesse di solito, e gli sussurrò parolinedolci, e gli si strinse addosso con tutto il corpo, e loattirò a sé dicendogli: «O mio dolce sposo di miele, o tenera anima della tuaPsiche!».A quel punto Amore, vinto da quelle dolci lusinghe, benché a malincuoreacconsentì e le promise che avrebbe ordinato a Zefiro di condurre le sorelleal palazzo. Immaginiamoci la felicità di Psiche quando videarrivare le sorelle: come promesso, Amore aveva inviato Zefiro in cima allamontagna perché le sollevasse con dolcezza e le depositasse in fondo allavalle. Una volta al palazzo, Psiche le accompagnò in giro per le sale eregalò loro alcuni bracciali, poi parlò in modo entusiasta del marito. Siscusò di non poterlo presentare, poiché era dovuto uscire per lavoro; a ognimodo, ci tenne a precisare, il suo bel maritino tornava a casa tutte lenotti, magari solo per poche ore, ma sempre più affettuoso.All'inizio le sorelle si commossero anche loro, poi l'invidia prese ilsopravvento e cominciarono a imprecare.«Cieca, crudele e ingiusta Fortuna come hai potuto volere che tre sorelle,nate dagli stessi genitori, avesserO una sorte così diversa l'una dall'altra?A noi, che pur siamo le maggiori, hai destinato due mariti stranieri che citrattano come schiave, mentre a lei, l'ultima della famiglia, tutte lericchezze e forse un Dio per marito!» Ma quel che piùpreoccupava le sorelle non era tanto l'evidente felicità di Psiche, quanto lapossibilità che un domani potesse avere come figlio un Dio, se non diventareuna Dea lei stessa. Psiche, infatti, in un momento di debolezza, avevaconfidato loro che era in attesa di un bambino e che si aspettava grandi cosedal nascituro. «Una che ha come serve delle voci,» diceva la maggiore «unache comanda ai venti, è chiaro che punta molto in alto e che prima o poifinirà col diventare una divinità. E io invece, infelice, che ho per maritouno più vecchio di mio padre, pelato come una zucca, brutto e avaro al puntoda tenere tutta la roba di casa sotto chiave!» L'altra lefaceva eco: «Eallora cosa dovrei dire io che sono costretta a sopportare un marito storpioche non è in grado nemmeno di soddisfare le mie voglie! Sono sempre lìafargli massaggi, a sfregargli le membra deformi e a preparargli impiastripuzzolenti: queste non sono premure di mogli ma fatiche di schiave! E leiinvece? Tesori da ogni parte che non sa nemmeno dove metterli e un marito, adetta sua, giovane e bello! Ma ti sei resa conto con quanta superbia ci hatrattato? E con quale arroganza? Tutto quell'esibire ricchezze per poiregalarci due cosine da nulla! Senti quel che ti dico: non sonopiù io se nonla butto giù dal piedistallo! Innanzitutto non dobbiamo mostrare a nessuno iregali che ci ha dato, nemmeno ai nostri genitori, e poi non dobbiamoraccontare che è viva e felice. La felicità non esiste, se non c'è qualcunoche la conosce./».Ma Psiche era stata così felice della visita delle sorelle

che supplicò ancora una volta Amore perché le facesse tornare.«Bada,» l'avvertì Amore «che loro faranno di tutto per rovinare la tuafelicità: ti porranno mille domande, ti chiederanno chetipo sono, ti convinceranno a guardarmi in viso e a quel punto mi perderai.Sappi, o Psiche, che non è possibile guardare in faccia l'amore: se appenaappena lo vedi, anche solo per un attimo, lui sparisce per sempre!» Tuttoinutile: Psiche insisté tanto che Amore ordinò di nuovo a Zefiro di recarsiin cima alla rupe.«Gettatevi giù con fiducia» disse Zefiro alle sorelle e loro prontamenteubbidirono.Per la seconda volta il fedele vento le portò al palazzo.Psiche le fece subito accomodare perché si riposassero dalle fatiche delviaggio, poi preparò loro un bel bagno caldo, e infine le rifocillò conpietanze e intingoli prelibati. Quindi comandò alla cetra di vibrare e lacetra vibrò, alflauto di suonare e ilflauto suonò, al coro di cantare e ilcoro cantò. Ma quel soave canto non fu sufficiente a cancellare, e nemmeno adattenuare, l'invidia delle sorelle. Le due perfide riuscirono a portare ildiscorso sul tema che volevano affrontare, e le chiesero come fosse in realtàquesto marito, da quale città venisse e da quale famiglia.Le pressioni furono tali e tante che a un certo punto Psiche non ce la fecepiù e ammise che lei, in verità, suo marito non lo aveva mai visto, giacchélui arrivava al palazzo solo di notte e nel buio più assoluto. Non l'avessemai detto: le due megere si misero subito a piangere.Si schiacciarono bene bene gli occhi per spremere qualche lacrima, dopo diche una delle due rivolse a Psiche queste parole:«Povera te che non sai nemmeno a quali pericoli vai incontro! Ma per fortunatua, ci siamo noi qui a difenderti: abbiamo saputo con sicurezza chequell'essere immondo che viene ogni notte nel tuo letto non è un uomo, bensìun orribile drago col collo rigonfio di veleno e con enormi fauci al postodella bocca. Sappi inoltre che ci sono molti contadini della zona e anchealcuni cacciatori che lo hanno visto in faccia. Ebbene costoro hanno dettoche è un essere orrendo a vedersi! E non basta: dicono anche che è solitoingrassare le sue vittime con succose vivande per poi divorarle non appenahanno raggiunto il giusto peso. Ricordati quello che disse l'oracolo diApollo: Psiche dovrà accoppiarsi con un mostro.»Inutilmente Psiche obiettò che quanto meno al tatto il suo amore non sembravaaffatto un mostro.«Anzi» aggiunse «a me sembra tenerissimo!» Ma a forza d'insistere, le duemegere riuscirono a convincerla, e dopo averle dato una spada e una lampadale dissero:«Questa notte, non appena avrà preso sonno, tu guardalo ben bene in faccia:se è bello, come dici, allora amalo più di prima. Se è un mostro, invece,come diciamo noi, prima che ti possa far male, staccagli la testa con questaspada!» Purtroppo, l'unico difetto di Psiche era la curiosità. Lei era piùche sicura che il suo uomo fosse bellissimo: lo sentiva, lo intuiva...Eppure, come resistere alla voglia di vederlo dal momento che non l'aveva maivisto nemmeno una volta? Del resto, si disse, che faccio di male se lo vedoper un attimino solo? E quella notte, priusque VeneriSproelus velitatus (dopo aver combattuto le battaglie di Venere), quando sentìche il suo respiro si era fatto più regolare, accese la lampada e lo guardòestasiata: era molto più bello di quanto lo avesse immaginato!Non appena il cerchio della luce rischiarò il talamo, ecco che vide la belvapiù dolce di tutte le belve.E ammirò la divina chioma, madida di ambrosia, il collo bianco come il lattee le labbra rosse come la porpora, e le ciocche dei capelli leggiadramenteinanellate che gli ricadevano sulle spalle e al cui sfolgorante baglioreimpallidiva la fiamma stessa della lanterna. E dietro le sue spalle, fulgidee rugiadose scintillavano due ali bianche le cui piume, seppure immobili,avevano di tanto in tanto leggeri fremiti come se fossero attraversate daimprovvisi brividi d'amore. Vinta da tanta bellezza,Psiche si chinò per dargli un bacio, ma, così facendo, finì per inclinare lalampada che aveva nella mano destra, facendo cadere una goccia d'oliobollente sulla spalla d'Amore.O audace e sfrontata lanterna, o indegna intermediaria d'amore, tu osasti

bruciare il Dio di ogni fuoco, tu che di certo sei stata inventata da unamante che voleva protrarre anche di notte il suo piacere!A quel bruciore il Dio si destò: vide tradita la sua fiducia e senza proferirparola s'innalzò in volo. Ma Psiche riuscì ugualmente ad afferrarsi a unagamba, e così, misera cosa aggrappata al suo amore, lo seguì, sospesa nelvuoto, finché le forze non l'abbandonarono. A quel punto Amore non la volleabbandonare senza almeno chiarire il perché sarebbe sparito per sempre, evolò su un cipresso vicino a lei, dall'alto del quale, commosso, le disse:«O povera e ingenua Psiche, anch'io ho disubbidito agli ordini di mia madreVenere che ti voleva vedere schiava di uomo meschino. Forse ho agito controppa leggerezza, si dà il fatto che mi son ferito da solo e che ho finitoper invaghirmi di te. Anche tu, però, hai sbagliato: hai creduto che io fossiun mostro e volevi tagliarmi la testa, proprio quella testa dove, invece,brillano due occhi innamorati di te!».E volò via.Psiche, prostrata al suolo, lo seguì finché non lo perse di vista.Amore, pur perdonando Psiche, o quanto meno giustificandola, comeprima cosa volle vendicarsi delle sorelle di lei, e dopo aver messo in giro lavoce di voler cambiare moglie, le convocò, separatamente, in cima allamontagna, quindi disse a ognuna di loro che avrebbe voluto sposarla e leconvinse a lasciarsi cadere nel vuoto. Questa volta, però, non ordinò aZefiro di sostenerle, e le due sciagurate si sfracellarono al suolo.Psiche nel frattempo si mise a girare il mondo in lungo e in largo allaricerca del suo perduto amore:andava nei templi dedicati alla Dea della Bellezza e qui chiedeva ai fedeli:«Avete visto un ragazzo bellissimo con i riccioli d'oro e le ali d'argento?Si chiama Amore. E il figlio di Venere... E mio marito e mi ha abbandonata...vi prego aiutatemi!» Ma Amore non poteva sentirla: per il bruciorecagionatogli dalla goccia d'olio bollente (e dalladelusione) si era rinchiuso nella stanza da letto di sua madre e si rifiutavapersino di andare in giro a fare innamorare i mortali. Allora il gabbiano, ilcandido uccello che vola sull'onda del mare, raggiunse Venere che stavanuotando nel profondo Oceano e le disse:«Tutti i mortali sparlano di te e della tua famiglia, o Divina! Dicono chesulla terra non c'èpiù nessuno che s'innamora perché tu te ne stai invacanza, qui nel lontano Oceano, e tuo figlio piange a causa di unasgualdrinella! Non c'è più voluttà nel mondo, né bellezza, né desiderio, etutto è diventato rozzo, brutto e trascurato! Niente matrimoni, folli amori edolci amicizie, ma solo un immenso dilagare d'immoralità e di squallidirapporti!» «E chi è mai questa sgualdrinella che se la fa con miofiglio?»chiese Venere stupita. «Eforse una ninfa? O una Musa? O una delle Ore? O unadelle Grazie?» «In verità non la conosco bene,» rispose il gabbiano «so soloche si chiama Psiche.» «Psiche?!» urlò allora Venere. «Ancora lei! Quellasfrontata che voleva usurpare il mio titolo! Ah, ma questa volta non selapassa liscia!» Per prima cosa, Venere rinchiuse Amore inuna cella d'oro onde impedirgli di correre in aiuto di Psiche Quindi loaccusò di malvagità e lo minacciò che se non avesse smesso, subito, dipensare a quella lì, lei lo avrebbe sostituito con un altro figlio, magariadottivo, al quale avrebbe consegnato anche il suo arco e le sue frecce.Infine emise un bando per catturare la fanciulla:«Chiunque porterà Psiche, mani e piedi legati, riceverà in premio da Venerein persona sette dolcissimi baci di cui uno, prelibatissimo, con la lingua inbocca.» In proposito, onde difendermi da eventuali accuse di volgarità epeggio ancora di umorismo, eccovi l'esatta citazione latina tratta dalleMetamorfosi di Apuleio: «Et unum, blandientis, adpulsu linguae longemellitum». Il bando fu affidato a Mercurio ed ebbe unenorme successo: tutti i mortali avrebbero voluto catturarla. A riuscirciperò non fu un uomo, ma una donna, un'ancella di Venere chiamataConsuetudine. Costei, non appena vide una fanciulla bellissima piangere adirotto, le chiese se per caso si chiamasse Psiche e, avutane conferma, latrascinò per i capelli davanti alla Dea.«Eccoti finalmente, sgualdrinella!» invèì la Dea.«Ti sei degnata ordunque di venire a conoscere tua suocera! O sei qui soloper vedere tuo marito che soffre a causa delle ustioni che gli hai inflitto?»

Poi ordinò alle sue ancelle, Inquietudine e Tormento, di frustarla a sangue,e quando queste gliela restituirono pesta e piangente, scoppiò in una granderisata.«E inutile che cerchi di commuovermi con il tuo ventre rigonfio: sappi chenon sono affatto felice di diventare nonna, alla mia età, nelfiore deglianni». Quindi le si avventò contro e le fece a pezzi il vestito, perpoistrapparle i capelli e graffiarle il viso.Ma i guai per Psiche erano appenacominciati.Prima di ucciderla, Venere si volle divertire a torturarla.«Se vuoi rivedere Amore» le disse «devi affrontare quattro prove: quella deisemi, quella della lana d'oro, quella dell'acqua sacra e quella del vaso dellabellezza. Solo superandole tutte e quattro potrai riabbracciare mio figlio,altrimenti sarai punita con la morte!» Alla parola «morte», un brivido scossela povera Psiche: la speranza, però, di rivedere Amore le dette la forzanecessaria per ascoltare.«La prima prova» «Voglio mettere alla prova la tua abilità» disse Venere. ¨.Quiper terra c'è un mucchio di semi diversi, tutti mischiati: tu adesso me lisepari, chicco per chicco, e poi me li raggruppi in mucchi diversi secondo iltipo di semi. Io adesso debbo andare a una festa, al mio ritorno vogliotrovare il lavoro già finito!» Il mucchio era immenso:c'erano semi di grano, d'orzo, di papavero, e poi ceci, fave, lenticchie...insomma c'era di tutto. Psiche, avvilita, non ci provò nemmeno a separare ichicchi l'uno dall'altro.Come riuscirci entro mezzanotte? Forse nemmeno un mese le sarebbe bastato!Sennonché..... . una formichina, piccina piccina, ebbe pietà di lei e maledisse lacrudeltà della suocera. La bestiola corSe a perdifiato per i campi e chiamò araccolta migliaia e migliaia di sue compagne.«Abbiate pietà, o veloci figlie della madre terra: la sposa del Dio Amore èin pericolo di vita. Correte in suo aiuto!» A queste grida, tutte le figliedel popolo a sei zampe si precipitarono, una dietro l'altra, nel luogo dovesi disperava Psiche, e in men che non si dica divisero il cumulo di semi intanti mucchi separati.«la seconda prova»Quando Venere tornò dalla festa, tuttaprofumata e ingioiellata (forse anche un po' ubriaca), non credette ai suoiocchi.«Come hai fatto, maledetta? Qualcuno deve averti aiutato. Adesso però attentaalla seconda prova, e guai a te se non la superi!» Quindi, dopo averlegettato un pezzo di pane raffermo, aggiunse:«Vedi quel bosco laggiù, accanto alfiume, con i cespugli che si specchianonell'acqua? Ebbene, lì pascolano, incustodite, alcune splendide pecorelle dalvello d'oro. Voglio che tu mi vada a prendere un po' della loro lanapreziosa./» Psiche stava precipitandosi verso lepecorelle, quando una canna che cresceva lì accanto la fermò appena in tempo.«Dove vai fanciulla?» le chiese.«Vado a prendere un po' di lana da quelle pecorelle.»«Pecorelle!?» esclamò la canna. «Quelle sono belve terrificanti che tidilanierebbero con le loro corna acuminate. Non contaminare, o Psiche, con latua morte infelice le mie sacre acque. Sappi che finché il sole scotteràquelle che tu chiami pecorelle saranno sempre rabbiosamente feroci. Nont'accorgi con quale furore si scagliano contro i cespugli?Aspetta piuttosto che giunga la sera: solo allora, e senza alcun rischio,potrai raccogliere, scuotendo i rami, tutta la lana che vi è rimastaimpigliata.»Psiche ubbidì, e anche la seconda prova venne superata. MaVenere non si dette per vinta: non appena la vide con la lana la coprìd'ingiurie.«La terza prova» «Brutta sgualdrina, credi forse che io non sappia chi ti haaiutato? Ma adesso voglio mettere alla prova proprio il tuo coraggio: vediquel monte altissimo con le pareti a picco? Ebbene, in cima a quel monte c'èuna tetra sorgente dalla quale sgorgano le acque che poi andranno a ingrossarela palude stigia e il fiume Cocito. Arrampicati subito su quella vetta, lìdove sgorga la fonte sacra, e riempi quest'ampolla di vetro con la sua gelida

acqua!» Psiche partì di corsa con la certezza che suquelle pareti avrebbe chiuso la sua triste vita: troppo alta e troppo a piccoera la rupe per poterla conquistare con le nude mani. Perfino le acque chescendevano giù dalle balze (e che sapevano parlare) le consigliàrono di noncimentarsi in un'impresa così disperata. Fermati, o Psiche, che fai? Nont'azzardare ad arrampicarti lassù! Vuoi forse morire?!» Ma proprio mentrestava per iniziare la scalata ecco che un'aquila reale scese giù dal cielo ele strappò di mano l'ampolla di cristallo, per poi riportargliela, cinqueminuti dopo, colma di acqua sacra.«La quarta prova» Felice, con la sua ampollina, Psiche tornò da Venere. Manemmeno la vista dell'acqua sacra riuscì a placare l'animo esacerbato dellaDea.«Ormai mi sono convinta che tu sei una potente maga, o Psiche. Ma vediamo,bambolina mia [mea pupulal, se riesci a portare a termine anche la quartaprova. Prendi questo vaso e recati negli inferi, quindi consegnalo aProserpina e dille, da parte mia, queste parole: "Venere ti chiede di metterein questo vaso un po' della tua bellezza, giacché quella che lei aveva l'hadovuta consumare tutta per assistere il figlio suo malato". E bada a non faretardi perché devo truccarmi per andare a teatro.» Scenderenegli Inferi?! Questa sì che era un'impresa disperata! E anche volendo, sidisse Psiche come faccio a trovare la strada degl'Inferi? Altra idea non glivenne se non quella di suicidarsi. E stava quasi per buttarsi giù di sotto dauna rupe, quando una torre improvvisamente le comincia a parlare.Perché vuoi ucciderti, o Psiche, gettandoti nel vuoto?Arriveresti sì nel profondo Tartaro, ma non potresti più farne ritorno.Ascoltami invece: non lontano da qui c'è Lacedemone, la bella cittàdell'Acaia. Tu cerca il Tanaro e da quelle parti scoprirai un cunicolo che tiporterà dritta dritta nella reggia dell'Orco- Ma non andare in quelle tenebrea mani vuote! Porta con te due focacce mielate e mettiti in bocca duemonetine. Poi incontrerai un asinaio zoppo con un asino zoppo che ti chiederàaiuto: tu tira dritto e non tifermare. Quindi arriverai allo Stige, il fiumedei morti, e vedrai un vecchio sporco e avaro, chiamato Caronte, che nonappena ti vedrà salire sulla sua barca ti chiederà il prezzo del traghetto. Aquell'orrendo barcaiolo tu darai una delle due monetine. Quando sarai giustoa metà dello Stige, dalle acque limacciose affiorerà un vecchio che ti tenderàla sua putrida mano e ti chiederà di farlo salire sulla barca, ma tu nondargli retta. Poi incontrerai Cerbero, il cane a tre teste, e a lui getteraiuna delle duefocacce (l'altra, mi raccomando, conservala per il ritorno).Poi...» Poi, poi, poi... queste storie, lo si sa, nonfinivano mai, anche perché erano inventate apposta per addormentare ibambini. E così anche nella favola d'Amore e Psiche c'erano mille ostacoli dasuperare. La nostra eroina, comunque, riuscì a fare tutto per bene: si fececonsegnare il vaso con la pomata della bellezza, debitamente chiuso, e feceritorno sulla terra.Ormai più nulla si frapponeva al ricongiungimento con Amore. La stessa Venerele aveva detto: «Solo dopo che avrai superato le quattro prove ti faròrivedere mio figlio». E lei le prove le aveva superate tutte, dalla primaall'ultima! Purtroppo però, le fatiche a cui si era sottoposta l'avevanomolto sciupata: le sue vesti erano stracciate, il suo volto devastato daigraffi, i suoi capelli tutti sporchi per aver dovuto attraversare i fumidello Stige. Sarebbe bastata un pochino della pomata di Pro serpina, quellachiusa nel vasetto, per farla tornare più bella di prima. La torre però leaveva detto«Non aprire mai, o Psiche, per nessuna ragione quel vaso se nonvuoi morire!» Il vaso di Proserpina, infatti, conteneva un gas venefico cheprima faceva addormentare le persone che l'aspiravano, e poi le portavagradualmente alla morte. Venere contava proprio sul veleno per eliminarePsiche.«Una donna,» aveva pensato la Dea «per quanto bella, non resisterà mai allatentazione di esserlo ancora di più, soprattutto se ad attenderla c'è il suogrande amore!» E difatti Psiche, non appena restò sola, aprì il vasoinfernale per poter rubare un pochino di pomata...Ma nel vaso non c'era nulla, nessuna bellezza, solo un Sonnoprofondo, davverodegno dello Stige, che s'impadronì subito di Psiche, le si diffuse in tuttele membra e la fece stramazzare alsuolo. Ancora un attimo e sarebbe morta...

quando dal cielo, veloce come il baleno, giunse Amore. Il giovane alato erariuscito a fuggire dalla cella dove l'aveva imprigionato sua madre.Amore come prima cosa rinchiuse il Sonno nel vaso, quindipunse Psiche con una delle sue frecce affinché riaprisse gli occhi. Infine sela portò in cielo da Zeus, il padre degli Dei, che dette da berealla fanciulla un bicchiere colmo di ambrosia e le disse:«Bevi Psiche e diventa immortale! Amore non si potrà mai più sciogliere da tee sarete per sempre marito e moglie!» Ebbero una figlia acui dettero nome Voluttà e, ovviamente, vissero felici e contenti.La vecchia serva aveva appena terminato la fiaba, quando si rifecero vivi ibanditi. Erano reduci da una lucrosa rapina: alcuni di loro si lamentavano agran voce perché erano feriti, altri invece maledivano Giove, la montagna, lapioggia e gli aspri sentieri. A parte ciò, avevano bisogno subito di bestieda soma per trasportare il bottino, e quindi anche del nostro asino, che incasi del genere ci andava sempre di mezzo.La vita di Lucio continuò più o meno così, finché una sera, dopo la solitarazione di bastonate e un faticoso andirivieni con un carico pesantissimo,finì con l'azzopparsi. A quel punto i banditi decisero di ammazzarlo.«Per quanto tempo ancora dovremo dar da mangiare a questo asino zoppo emaledetto?» chiese uno dei banditi, e un altro rincarò la dose: «E lui che ciporta scalogna! Facciamogli fare questo ultimo trasporto e poi buttiamolo inun burrone: sarà un ottimo pasto per gli avvoltoi!».Lucio, però, pur essendo un asino, li udì distintamente, e si rese conto chealtro non gli restava che fuggire il più lontano possibile. Non appena vide ibriganti allontanarsi dal covo, dette uno strattone alla corda che lo tenevalegato alla greppia e con un calcio buttò giù la porta. La serva cercò disbarrargli il passo, ma la fanciulla, approfittando anche lei del trambustoche si era venuto a creare, la gettò per terra, rincorse l'asino e gli montòin groppa.«E io,» racconta Lucio «felice di essere riuscito a fuggire, correvo piùveloce di un cavallo di razza. A volte poi, con la scusa di dovermi leccarela pancia, piegavo indietro la testa e le baciavo ipiedini, nonostante lebotte che lei mi dava senza risparmio. Nel frattempo la sentivo sospirare: "ODei dell'Olimpo, soccorretemi! E tu, mio salvatore, se riuscirai a portarmi acasa, sana e salva, e a restituirmi ai miei genitori, ti coprirò di onori eti farò mangiare solo cibi prelibati! Quindi pettinerò questa tua bellacriniera e ti adornerò con i miei gioielli difanciulla!".»Purtroppo i banditi li riacciuffarono dopo poche ore, e per l'asino furonobotte da non credere. La sorte, però, non lo aveva abbandonato del tutto: ilfidanzato della fanciulla, fingendo di essere anche lui un brigante, entrò inconfidenza con i sequestratori e nel corso di una cena tra colleghi offrìloro un vino al quale aveva aggiunto un potente sonnifero.I banditi si addormentarono quasi di colpo, e all'alba si svegliarono tuttiin catene, per essere poi giustiziati da un boia, come d'altra parte avevanolargamente meritato.Da quel momento in poi per Lucio cominciò una vita quanto mai travagliata(ancora di più di quella che aveva finora vissuto). Cambiò, infatti, moltipadroni: finì nelle mani di alcuni imbroglioni che sispacciavano per sacerdoti della Dea Siria, poi fu venduto a un mugnaio,quindi a un ortolano, poi a un soldato e infine a due pasticceri. Tutti,nessuno escluso, lo presero a legnate.Mentre stava con i pasticceri, però, accadde un fatto curioso che impresseuna svolta radicale nella sua vita di asino: lasciato solo nel retrobottega,invece di mangiarsi il fieno nella greppia, cominciò a rimpinzarsi di dolci edi focacce. Notando le sparizioni, i due pasticceri, in un primo momento, siaccusarono l'un l'altro; poi, scoperto il vero autore dei furti, cominciaronoa raccontarlo in giro, e in men che non si dica, Lucio divenne un vero eproprio fenomeno da baraccone. I suoi padroni lo avevano ammaestrato apuntino (cosa, peraltro, abbastanza facile, dal momento che l'asino era pursempre un uomo) e così, attraverso opportuni segnali, riuscirono a farloassentire, negare, rispondere a cenni, ballare, sdraiarsi per terra e perfinosedersi su un triclinio per mangiare come un comune mortale. Una voltaaddestrato, lo vendettero a un ricco impresario che, tra le tante sueattività, organizzava spettacoli popolari con gladiatori, belve e curiosità

di ogni genere.A parte il successo come attore, Lucio fece innamorare di sé una nobildonnache, dietro lauto compenso, volle trascorrere una notte d'amore con lui.Sentiamo il racconto di quell'esperienza dalla stessa voce dell'asino:«Quella sera, dopo aver cenato a tavola con il mio nuovo padrone, trovainella stanza da letto una bella signora che mi aspettava: la novella Pasifaesmaniava all'idea di avere un rapporto d'amore con me!Quattro eunuchi ci prepararono il talamo: coprirono il pavimento con cuscinidi morbide piume, sui quali stesero una coperta di porpora di Tiro tuttaintessuta di fili d'oro, e sopra la coperta gettarono alcuni cusciniprofumati. Fatto ciò, tolsero il disturbo.Rimasti soli, la signora si mise completamente nuda, togliendosi anche lafascia di seta che le sosteneva il seno bellissimo. Quindi aprì un barattolodi stagno e ne estrasse un unguento profumato con il quale prima spalmò sestessa, da capo a piedi, e subito dopo me, e nelfarlo indugiò a lungo sul mionaso. Infine mi baciò appassionatamente. I suoi baci, però, non somigliavanoaffatto a quelli che in genere le puttane danno ai loro clienti nei bordelli,bensi erano dei veri e propri baci d'amore, intervallati da frasi dolcissimedel tipo "Ti amo", "Ti desidero", "Ti voglio bene", "Senza di te non potreivivere!", eccetera eccetera.» Il povero Lucio, da unaparte era lusingato da tutte queste attenzioni, dall'altra però era moltopreoccupato per il rapporto che lui, asino, avrebbe dovuto avere da lì a pococon la gentildonna.«Ahimè, pensai, tra poco farò scempio della signora e il marito, per punirmi,mi darà in pasto alle belve feroci. Con queste mie zampe ingombranti,infatti, come avrei potuto montare una signora tanto delicata? E con queglizoccoli duri come avrei potuto accarezzarne le tenere membra, bianche come illatte e dolci come il miele? Ma, soprattutto, comepoteva una donna, perquanto posseduta dalla smania di avermi, tam vastum genitale suspicere?Ebbene, non ci crederete: ma al grido di "Ti tengo, ti tengo, piccioncinomio!" mi mostrò subito quantO fossero infondate le miepreoccupazioni et prorsus totum recepit.» Il nuovo padronenon solo non si oppose agli strani aCcoppiamenti di Lucio, ma pensò bene ditrarne un vantaggio economico e organizzò una specie di spettacolo porno abeneficio delle masse.Non riuscendo, però, a convincere nessuna femmina del luogo ad accoppiarsicon l'asino (né tantomeno la nobildonna a esibirsi in pubblico), si feceassegnare dalle autorità carcerarie una detenuta, un'assassina per laprecisione, già condannata a morte. La disgraziata, in effetti, non peggioravamolto la sua situazione, dal momento che, asino o non asino, sarebbe statadata, comunque, in pasto alle belve.«Ma io, a parte la vergogna di dovermi accoppiare davanti a tutti (seppurenelle sembianze di un asino), e a parte la ripugnanza che provavo per quelladonna malvagia e criminale, ero anche torturato dalla paura che le belve,alle quali l'assassina era destinata subito dopo l'accoppiamento, avrebberofinito con lo sbranare anche me che invece ero del tutto innocente. Tuttopreso da questi timori, non appena mi accorsi che il guardiano si era un po'distratto, perché troppo impegnato a sistemare il nostro giaciglio d'amore,infilai di corsa la porta più vicina e mi misi a correre a perdifiato finchénon giunsi a Cencrea, una nobilissima città bagnata dal mare Egeo. Una voltain salvo, evitai di proposito il centro abitato e mi diressi verso laspiaggia, dove, dopo essermi sdraiato sulle morbide dune, scivolai in unpiacevole sonno.» Il sogno fu quanto mai risolutore. Luciovide emergere dal mare una figura splendida di donna con i capelli morbidi eondulati che le scendevano in disordine lungo le spalle: era Iside inpersona, la Dea venerata da tutti gli Egizi. Un disco piatto, simile allaluna, lucido come uno specchio, l'adornava nel bel mezzo della fronte.Indossava un vestito di lino sottile dai colori cangianti, ora biancoghiaccio, ora giallo croco, ora rosso fiamma. Ma quello che più stupiva erail suo manto nerissimo sul quale si vedevano luccicare decine e decine distelle.«Eccomi a te, o Lucio.» disse la Madre di tutte le cose. «Io sono venuta quiperché mi hai commosso con le tue mille sventure! E ora eccomi a te, benignae favorevole, nella mia qualità di signora degli elementi. Smetti pure di

lamentarti, o figlio, e caccia via per sempre il dolore, giacché oggi, peropera mia, è già sorto il sole della tua liberazione. Adesso, però, seguiattentamente le mie istruzioni. Domani, a Cencrea, è il giorno del mio culto:innumerevoli processioni attraverseranno la città da un capo all'altro.Durante la cerimonia il sacerdote, per mio suggerimento, porterà con sé unacorona di rose. Tu avvicinalo senza timore, come se volessi baciargli unamano, e mangia un paio di quelle rose. Vedrai che immediatamente ti sistaccherà da dosso la ruvida pelle dell'asino e tornerai a essere quello diprima: un giovane alto, bello e di grandi speranze.Ricordati, però, che da quel momento sarai costretto a consacrarti a me finoalla fine dei tuoi giorni.» Lucio seguì a puntino tutte leistruzioni, recuperò le fattezze umane e divenne un sacerdote d'Iside.#La sfortuna di essere belli

Essere troppo belli, a volte, può risultare altrettanto nefasto che esserebrutti. Basta pensare a Marilyn Monroe per rendersene conto. Volendo restare,però, nell'orticello mitologico, racconterò le tristi vicende di alcunigiovani famosi per la loro bellezza.

Il mito di Adone

Adone nacque dal rapporto incestuoso di sua madre Mirra con il nonno cinira.La vicenda è una di quelle storie scabrose che in genere vengono sussurratein famiglia quando i bambini sono già andati a letto, e che misero indifficoltà lo stesso Ovidio, nelle Metamorfosi.«La mia poesia narrerà cose terribili» avverte il poeta. «Allontanateviquindi, o figlie, e anche voi, padri, restate ilpiù lontano chepotete daimiei versi:nel caso poi che la storia vi seducesse, allora sospendete la stima che avetenei miei confronti, e rifiutatevi di credere anche a una sola parola di ciòche ho scritto, e se infine la riterrete vera, accettatene almeno il castigo.»Dopo questa abile premessa, destinata unicamente a evitare gli strali deicensori, Ovidio comincia a raccontare la storia di Mirra, una fanciulla ches'innamorò di suo padre cinira. A detta del poeta, la giovane eraperfettamente consapevole della sua colpa.«Ahimè, dove mi trascina il pensiero? Cosa sto facendo?» esclama la poverina.«Vi supplico, o Numi: opponetevi alla mia perversione, sempre chediperversionesitratti. Eppure, apensarcibene, tutti gli esseri viventi siaccoppiano senza problemi, né si ritiene immonda una giovenca solo perchéoffre il proprio dorso a chi l'ha generata, né la figlia del cavallo chesoggiace alpadre, né il capro che si congiunge alle femmine che ha procreato.O come vorrei fuggire lontano dalla patria per impedirmi di commettere unatale empietà!» Poi aggiunge:«O donna impudica: non t'accorgi che con i tuoi desideri stai gettandoscompiglio perfino nelle parole? Non ti rendi conto che, ovemai riuscissi neltuo intento, saresti chiamata la sorella di tuo figlio e la madre di tuofratello?» Tale era la disperazione di Mirra, che un giorno meditò ilsuicidio. Aveva già il cappio al collo, quando venne sorpresa dalla nutrice.Dopo averla a lungo interrogata, la vecchia riUscì a estorcerle unaconfessione, e a quel punto, pur di dissuaderla dai suoi propositi, lepromise un incontro d'amore col tánto agognato padre.Ora, siccome durante i festeggiamenti in onore di Cerere, la madre dellaragazza, tale Cencreide, aveva fatto un voto di castità che le impediva diandare a letto col marito, la nutrice propose all'anziano genitore cinira diaccoppiarsi con una giovane vergine. Unica condizione posta dalla giovane:quella di non farsi mai vedere.«Quanti anni ha questa vergine?» chiese Cinira.«Gli stessi di tua figlia Mirra» rispose la nutrice. Tutto andò secondo idesideri di Mirra: i due, padre e figlia, si accoppiarono per nove notti diseguito con reciproca soddisfazione.Accoglie il genitore nell'immondo letto la sua stessa carne, e chissà che neltrasporto amoroso, a causa della differenza d'età, lui non le abbia detto a uncerto punto «figlia» e che lei non gli abbia risposto, non volendo, «padre»,

affinché alla scelleratezza dell'unione non facessero difetto i veri nomi. Daltalamo incestuoso Mirra uscirà fecondata e per nove mesi porterà nell'uteromaledetto la grave colpa.Una notte, però, cinira, spinto dalla curiosità, prese un lume e guardò inviso la giovane amante.Quando s'accorse che si trattava di sua figlia, fuori di sé dalla rabbia,sguainò la spada e prese a inseguirla per tutta la casa e per i boschivicini, e stava quasi per raggiungerla, quando la poverina chiese aiuto agliDei.«O Numi, porgete ascolto a chi vi supplica: io so di essere in colpa, né misottraggo al duro castigo;ma affinché non contamini i vivi, vivendo, e non offenda i morti, morendo,cacciatemi, vi prego, da entrambi i regni e fate di me un'altra cosa, una cosache non sia né viva, né morta!» Gli Dei si commossero e la trasformarono inun albero. Malgrado la metamorfosi, però, i fendenti del padre continuarono acolpirla e da ogni ferita venne fuori una resina profumata, che per l'appuntofu chiamata «mirra».Al nono mese la corteccia si aprì del tutto e dette alla luce un bambino:Adone.Afrodite, incantata dal bel sembiante del neonato, di nascosto degli Dei, lochiuse in una cassa e lo consegnò a Persefone, la quale, appena l'ebbeveduto, decise in cuor suo che non l'avrebbe più restituito.Passarono gli anni e Adone diventò uno splendido giovane.Di lui, in pratica, s'innamorano tutte le donne:Segretamente scorre il tempo alato: nulla v'è di più rapido degli anni. Coluiche èfiglio di sua sorella e di suo nonno, colui chefino a pochi anniprimaera ancora in grembo a un albero, ora è diventato un bellissimo giovane, e fainnamorare di sé perfino Afrodite.L'idillio tra Adone e Afrodite esplose violento e scalzò dal cuore della Deal'altro amante, il nerboruto Ares, che ovviamente non era affatto contento dicome si erano messe le cose. La verità è che Adone era più bello, più tenero,più affettuoso di Ares, e, a parte Afrodite, un po' tutte le donne del mondogreco lo avevano eletto a loro favorito.Diciotto o diciannove anni ha quel giovane: non punge il suo bacio, bionde dilanugine sono ancora le labbra. Ma non si rallegri tanto Cipride, che anchenoi, non appena scenderà la rugiada, lo rapiremo per poi portarcelo dietro,lì dove le onde schiumano sulle rive, e dopo esserci sciolte le chiome efatte cadere le vesti, giù fino ai malleoli, a seno nudo intoneremo un acutocanto. Come detto, anche Persefone si era innamorata di Adone, e ben prestola disputa tra le due divinità divenne così aspra che giunse all'orecchio diZeus.Ora, se c'era una cosa che il Padre degli Dei non sopportava erano le beghefra le donne del suo entourage, e in particolare quelle per questioni dialcova: trascinato quindi, suo malgrado, in questa contesa tipicamentefemminile, lasciò che a giudicare fossero le Muse, le quali, a loro volta,decisero quanto segue:«Il giovane resterà quattro mesi con Afrodite, quattro con Persefone equattro con chi vuole lui!» Ma Afrodite non si accontentò dei quattro mesiche le erano stati assegnati, e quando si accorse che stavano per finire,indossò la famosa cintura della seduzione, quella che faceva innamorarechiunque la guardasse, e convinse Adone a passare con lei anche i quattromesi di sua pertinenza. Figuriamoci Persefone! Come una furia si recò da Arese gli raccontò l'ennesimo tradimento di Afrodite. Ares, allora, fuori di sédalla rabbia, si mutò in un gigantesco cinghiale e, durante una partita dicaccia, massacrò il rivale.Racconta il poeta Bione che Afrodite si disperò a lungo per la fine delgiovane amante. Quando lo vide cadere, esanime al suolo, con le membrasquartate, si chinò su di lui e pianse tante lacrime per quante gocce disangue vide uscire dal suo corpo. E mentre le lacrime, cadendo a terra, sitrasformavano in rose, le gocce del sangue di Adone, contemporaneamente, simutarono in fragili anemoni.Con Afrodite (si dice) piansero moltissime fanciulle. In quei giorni,infatti, furono visti lunghi cortei di donnevagare nei boschi, e per molti giorni, e molte notti si udirono canti funebri:

Muore il tenero Adone, o citerea:e come faremo noi a vivere?A lungo battetevi il petto, o fanciulle, e laceratevi le vesti.

Il mito di Titone.

Al bellissimo Titone andò anche peggio, se così si può dire. Il suo primoerrore fu quello di alzarsi troppo presto al mattino; d'altra parte faceva ilpescatore e svegliarsi di buon'ora era, per lui, un'abitudine quotidiana.Siccome tra le Dee dell'Olimpo la più mattiniera era, ovviamente, Eos, la Deadell'Aurora accadde che un bel giorno (ti vedo oggi, ti vedo domani...) labella Eos s'innamorò di Titone.Le Dee, all'epoca, erano non meno spregiudicate dei loro colleghi maschi;Eos, pertanto, senza starci troppo a pensare, rapì Titone e se lo portò inEtiopia.A Titone la Dea partorì Memnone armato di bronzo, re degli Etiopi, e il sireEmazione. La loro felicità sarebbe stata completa seentrambi fossero appartenuti alla stessa razza. Purtroppo per Titone, però,lei era un'immortale lui un povero pescatore che, seppure bellissimo, eracomunque destinato a morire. Eos, allora, pensò bene di rivolgersi in alto, esi avviò a chiedere a Zeus, dalle nere nubi che egli diventasse immortale epotesse vivere in eterno: e Zeus acconsentì con un cenno del capo, ed esaudìil suo desiderio.In verità, Zeus cercò di sconsigliarla in tutti modi:«Pensaci bene, o figlia d'Iperione» le disse. «Sei davvero sicura che quelloche desideri sia l'immortalità di Titone? Tu lo sai che, una volta concessauna grazia, non te ne potrò più concedere una seconda.» E lei rispose di sì,dimenticandosi di chiedere, insieme all'immortalità, anche l'eternagiovinezza.L'adorabile Aurora non pensò nella sua mente di chiedere anche la giovinezzae di tener lontana la rovinosa vecchiaia. E in verità, fino a quando eglirestò giovane, godette il suo amore presso le correnti dell'Oceano, aiconfini della terra; ma quando vide le prime ciocche bianche scendergli giùdal capo e dal nobile mento, dal suo letto si astenne.Insomma, la «concubina di Titone antico», come amava chiamarla Dante, nonappena lo vide invecchiare, lo mollò di brutto, e d'altra parte come darletorto? Titone ormai, almeno come amante, non valeva più nulla. «E a che servevivere» si chiedeva Mimnermo «quando non si è più capaci di fare l'amore?» Misia data la morte quando la gioia segreta, tenerissima, dei corpi allacciatinel letto non sarà più alla mia portata.Ah, come presto appassisce nell'uomo e nella donna il fiore della giovinezza!Una nube d'angoscia, senza tregua, ottenebra l'anima, allorquando si profilal'odiosa vecchiaia.A quale età bisogna considerarsi vecchi? In proposito Mimnermo, poeta grecodel VII secolo a.C., non ha dubbi:Destino di morte raggiungimi a sessant'anni, prima della malattia e primadella buia insonnia.In verità, sessant'anni a me sembrano pochini, perlomeno per quanto miriguarda. Pazienza per l'insonnia, dico io, ma ci sono tante altre gioie nellavita, per le quali vale la pena di vivere, al cui confronto il sesso diventaun optional: in particolar modo quando, con la terza età, la sensibilitàdell'uomo si modifica.Titone, comunque, aveva da un bel pezzo superato il secolo allorché Eos, lorinchiuse, definitivamente, in una cella sotterranea, per poi passargli ilcibo attraverso un buco praticato nella porta. In effetti lei non nesopportava più la vista e soprattutto l'odore:Titone, infatti, col passare degli anni, oltre a essersi accartocciato eraggrinzito, emanava anche un terribile puzzo di cadavere... insomma eradiventato una schifezza.Il disgraziato a questo punto avrebbe voluto morire, riposare in pace cometutti gli altri esseri umani. Ma inutilmente aveva cercato di por fine aisuoi giorni, o gettandosi giù da una rupe, o dandosi fuoco, o infilandosi inuna fossa piena di serpenti.Non c'era stato nulla da fare: si era ferito, ustionato, era stato morso dai

rettili, ma non era morto.Per forza: era immortale!Invecchiare e non morire mai.Questa fu la condanna che Zeus volle infliggere a Titone:una condanna più amara della stessa morte!

Il mito di Piramo e Tisbe

Tranne Adamo, che non avevanessuno al quale attingere, tutti gli altri autori, chi più, chi meno, hannocopiato da un predecessore. Magari senza volere, inconsciamente, ma hannocopiato. Uno dei più sfacciati in tal senso è stato vvilliam Shakespeare: lasua tragedia Romeo e Giulietta ripercorre, passo dopo passo, la triste storiadi Piramo e Tisbe, favola babilonese di due giovani innamorati, appartenentia due famiglie che si odiavano a morte.Piramo, juvenum pulcherrimus, e Tisbe, praelata puellis (lui, bellissimo trai giovani, lei, prescelta tra le fanciulle) abitavano nello stesso edificio.E fu proprio grazie a questa vicinanza che ebbero modo di conoscersi.All'inizio si guardarono da una finestra all'altra del cortile, pois'incontrarono per le scale, infine si dettero i primi baci e si amaronoteneramente, come da copione.Purtroppo, però, le loro famiglie si odiavano da sempre. Si trattava di odiiantichi, feroci, trasmessi di padre in figlio, consolidati nel tempo, le cuiragioni, a quel punto, sfuggivano agli stessi interessati.Una volta sorpresi a baciarsi, Piramo e Tisbe furono rinchiusi in duesgabuzzini nelle cantine del palazzo. Ciò nonostante, continuarono asussurrarsi frasi d'amore: la parete divisoria che separava i due sgabuzziniaveva una piccola crepa, una fessura invisibile a tutti fuorché ai dueinnamorati; ma per dirla con Ovidio: quid non sentit amor?, di che cosa nons'accorge l'amore?O parete invidiosa, essi dicevano, perché ti opponi a coloro che si amano?Pensa come sarebbe bello se ci offrissi una porta onde farci congiungere contutto il corpo, e se questo ti par troppo, cosa ti costerebbe aprirti unpochino, quel tanto da consentirci almeno un bacio? Ma adesso non vogliamoessere troppo ingrati: è certamente merito tuo se ci è stato concesso unpiccolo varco attraverso il quale far passare le nostre frasi d'amore.L'amore, insomma, non si può incatenare: lo dice anche una vecchia canzonenapoletana.E i due innamorati progettarono allora un piano per fuggire. Quando irispettivi carcerieri sarebbero venuti a portare loro la cena, li avrebberoaggrediti di sorpresa e imbavagliati. Per quanto riguarda Tisbe, la nutriceguardiana era una vecchietta mite, forse anche un po' ingenua; facilissimo,quindi, da immobilizzare e toglierle le chiavi. Per Piramo, invece, la fugaera ancora più semplice: si era messo d'accordo, corrompendolo, con ilcustode incaricato del turno di notte.I ragazzi si dettero appuntamento nel bosco di Nino, accanto a una fonte e aun albero di gelso dai frutti bianchi.Di soppiatto, al buio, esce di casa Tisbe: apre i battenti della porta dicasa con la massima cura per evitare di essere scoperta dai familiari. Lafanciulla ha il viso velato per non farsi riconoscere. Giunge alla fonte e sipone a sedere sotto l'albero convenuto. Vede la luna che si specchia nellafonte. Ma ecco apparire una leonessa: ha la bocca insanguinata per aver dapoco sbranato un vitello. Non appena Tisbe la scorge, con il cuore intumulto, si rifugia in un antro oscuro. Nel fuggire, però, si perde ilmantello.La leonessa, nel frattempo, dopo essersi abbeverata alla fonte, e primaancora di rientrare nel bosco, vede il mantello di Tisbe e lo lacera con labocca ancora sporca di sangue. Piramo arrivò in ritardo: per scappare, avevadovuto attendere l'arrivo del carceriere con il quale si era messo d'accordo.Giunse alla fonte mezz'ora dopo Tisbe; si guardò intorno, e scorse sottol'albero di gelso il mantello della fanciulla imbrattato di sangue. Accantoal mantello le orme di un leone.«Ahimè, cosa ho fatto! O sventurata: sono stato io a ucciderti amor mio! Tusaresti stata degna di vivere una vita lunghissima, e io, invece, ti ho

costretto a venir qui di notte, da sola, in un luogo pieno di rumorisinistri, enonhoavutonemmenol'accortezzadigiungere per primo! Ma adessobasta: la stessa notte vedrà la fine dei due amanti!» Ciò detto raccolse ilmantello, se lo porto alle labbra, lo baciò con passione e subito dopo sitrafisse con un corto pugnale. Il sangue di Piramo raggiunse le radici delgelso che da quel giorno mutò il colore dei suoi frutti, facendoli diventaretutti neri.- Ed ecco tornare Tisbe. La fanciulla ha ancora paura, nel contempo, però,non vuole deludere il suo amante. Lo cerca disperatamente con gli occhi ed èimpaziente di raccontargli i pericoli che ha evitato.Vede il gelso e non lo riconosce più percolpa dei frutti che hanno cambiatocolore; sta per andar via quando s'accorge che lì, steso a terra, c'è l'amorsuo.«O Piramo, quale triste Fato ti allontanò da me? O Piramo, rispondimi! E latua amatissima Tisbe che ti chiama.» Ma Piramo non rispose: ebbe appena iltempo di aprire gli occhi e di gettarle un ultimo sguardo.Tisbe, allora, lo baciò sulle labbra, quindi gli tolse il pugnale dal petto ese lo puntò sul seno.«La tua mano e l'amore che nutrivi per me, o Piramo, ti hanno perduto, maanch'io ho una mano ferma, anch'io ho un amore capace di uccidere! E tualbero, che adesso con le fronde copri il corpo suo straziato, e che tra pococoprirai quelli di entrambi, conserva i segni di questa triste storia,mantieni per sempre i tuoi frutti di color cupo, affinché siano confacenti apensieri di morte. E tu, padre mio, e tu, padre di lui, genitoriinfelicissimi, fate in modo che almeno nell'urna i nostri corpi giaccianoinsieme, l'uno accanto all'altro.» E così dicendo si trafisse con ilpugnale, ancor tiepido del sangue del suo amante sfortunato.Anche Giulietta trovò il suo Romeo che stava esalando l'ultimo respiro, anchelei lo baciò sulle labbra, anche lei si trafisse con uno spadino e anche lei,inginocchiata accanto al suo uomo, mormorò struggenti frasi d'amore. Devoperò correggere quanto ho detto prima: non fu certo Shakespeare a copiare daibabilonesi, bensì il Dio Amore a suggerire alle sue vittime le medesimefrasi, giacché, indipendentemente dal secolo in cui si vive, alla fin finegli innamorati si comportano sempre nello stesso modo. Possono essere ricchio poveri, viaggiare in tram o in aereo, parlarsi da un balcone all'altro ocol telefonino, essere immortalati da Shakespeare o dai baci Perugina, maprima o poi finiscono sempre col dirsi «ti amo».#Luciano De Crescenzo

ZEUSI MITI DELL'AMOREDisegni di Paola De Crescenzo e Raffaella Bacarelli<ARNOLDO MONDADORI EDITOREDello stesso autoreNella collezione I libri di Luciano De CrescenzoCosì parlò BellavistaRaffaeleZio CardellinoOi dialogoiStoria della filosofia greca - I presocraticiStoria della filosofia greca - Da Socrate in poiLa domenica del villaggioVita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimoElena, Elena amore mioNella collezione IllustratiLa Napoli di BellavistaNella collezione Oscar BestsellersCosì parlò BellavistaStoria della filosofia greca - I presocraticiStoria della filosofia greca - Da Socrate in poiOi dialogoiVita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimoNella collezione Oscar Narrativa

Zio Cardellino