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Prefazione

Una delle pagine più belle della storia patria, fatta d’ atti di eroismo e di dimostrazioni di incommensurabile generosità, è stata senza dubbio quella dell’epopea garibaldina, in cui persone orgogliose e passionali, nobili e fiere, hanno versato il proprio sangue per il sol fatto di dover fondare un’Italia unita.

Anche Caraffa ha saputo contribuire alle battaglie per l’unificazione della Nazione prima, e per le guerre d’indipendenza e di salvaguardia dei confini poi, con uomini di ogni ceto che hanno dato dimostrazione di coraggio e di fedeltà.

La figura de! Maggior LUIGI COMI, garibaldino ed ufficiale dell’esercito piemontese, celebre in tutt’Italia, s’incastona meritatamente tra quelle di altri personaggi del nostro Risorgimento, rendendo un’incommensurabile onore alla storia di Caraffa, di cui è sicuramente uno dei figli leali e degni di stima.

Ma una Personalità cosi forte e determinata, cosi carismatica ed affascinante deve aver seminato passioni e rivalità se è vero, com’ è vero, che questo valoroso ufficiale, di cui storia e tempo hanno reso giustizia, è stato per lunga data trascurato dai suoi stessi Concittadini, poco attenti alla ricostruzione del passato e accecati da un personalismo senza raziocinio e fede.

Al fine di non perdere irrimediabilmente un importante capitolo del passato che deve essere apprezzato con forte spirito d’identità, un’Amministrazione Comunale attenta e sensibile alla propria storia, ha avvertito l’esigenza di mettere in luce e far conoscere ai posteri uno degli uomini più illustri di Caraffa dedicandogli il seguente testo, un busto bronzeo e l’intestazione della Piazza adiacente la casa di famiglia.

Il riconoscimento dei menti del Maggior LUIGI COMI, scrittore e poeta, Sindaco del nostro paese nel 1892, personaggio di elevata statura morale ed intellettuale, insignito della medaglia d’argento al valor militare, è da considerare irrinunciabile e tale da rendere tangibile alla realtà esterna il retroterra storico e culturale della nostra comunità.

Questo testo, compendio degli scritti dell’insigne concittadino, scrupolosamente conservati dalla sua famiglia la cui casa rappresenta di per se un sito museale, e che costituisce la congiunzione mirabile di accadimenti remoti e memoria familiare, leggenda e tradizione, colma un vuoto nella storia di Caraffa di cui l’Amministrazione comunale, avviando un’opera di recupero culturale, si è fatta da qualche tempo tutrice.

Un doveroso ringraziamento va rivolto a chi, come l’arch. Luigi Comi, ha voluto che tali memorie e scritti non restassero nel chiuso della propria abitazione quali intimi ricordi, ma fossero diffusi a beneficio di tutta la comunità, facendo in modo che gli eventi di un casato o un antico avvenimento possano assumere un’importanza fondamentale per la conoscenza e la custodia della nostra storia.

La stima che rivolgiamo alla memoria del Maggiore Comi è ancora di più supportata dal suo precoce interesse nei confronti del mantenimento delle tradizioni, dimostrato dall’incarico affidatogli nel Consiglio albanese d’ Italia, affine all’attenzione da Noi riservata per le problematiche relative alla salvaguardia delle nostre radici etniche.

Personalmente convinto che l’arma migliore contro il degrado civile e sociale sia la cultura e che il depauperamento della civiltà avviene con la rinuncia all’appartenenza, come Primo cittadino di Caraffa ritengo non più rinviabile l’appuntamento di ciascuno con la

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propria continuità e considero prioritario perseguire il riscatto della nostra identità attraverso il recupero delle tracce del passato, e di chi ha saputo renderlo glorioso.

Il Sindaco Arch. Attilio MAZZEI

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Presentazione

Tra realtà e fantasia

L’impressione che il personaggio di una foto ha destato Nell’animo e nella mente di un ragazzino fino a tutt’oggi

Vi era, su un tavolino del soggiorno, una foto raffigurante un uomo, ritto su una collinetta di sabbia, vestito di un abbigliamento strano che più in là negli anni avrei definito come quello di un cacciatore di bufali o di una guida di un reparto cavalleggeri canadesi in lotta contro i pellirossi, o di un esploratore di terre orientali indossato, però, da una figura non più giovane ma ardito e forte, che guardava dinanzi a sé, come se fosse attirato da qualcosa nell’ orizzonte del cielo e che egli fissamente osservava.

La figura, l’abbigliamento, b sguardo, attiravano quel ragazzetto, che ogni volta che passava da quel tavolino si fermava, come se fosse attratto da una calamita e alla mamma che lo sorprendeva in quell’atteggiamento, le domandava: ma chi è, e la mamma rispondeva: è lo zio Maggiore.

Quell’espressione a poco a poco mi fu congeniale, dato che di tanto in tanto, oltre ai nonni, a casa venivano a far visita congiunti e conoscenti della famiglia: il dott Antonio Peta dalla fluida bianca barba, il farmacista Pietro Comi loquace, il canonico Comi benevolo, l’insegnante Luigi Comi erudito; oltre le ordinarie conversazioni di fatti e notizie del paese davanti ad una buona tazza di caffé o ad un amaro, nel vedere la foto di quel personaggio, ognuno di essi si intratteneva in piacevoli aneddoti che interessavano la persona: l’essere stato seminarista, l’essere stato garibaldino e ancora Maggiore dell’esercito piemontese, le vicende del risorgimento, ecc. e nell’esprimere poi i fatti del personaggio, anziché proferire il nome dicevano: lo zio Maggiore. Anche la gente del paese che veniva in città per sbrigare affari o per portare notizie dei parenti, nel vedere quella foto esclamava: è lo zio Maggiore!, per cui fosse o non fosse zio, per tutti era lo zio Maggiore.

Quando cominciai a frequentare le scuole elementari e studiavo la storia, risentivo dal maestro episodi che si collegavano con quelli del conversare dei parenti e che riguardavano il risorgimento italiano, con i nomi di Ciro Menotti, gli eroi di Curtatone e Montanara, di Florestano e Guglielmo Pepe, dei fratelli Bandiera, di Cavour, di Vittorio Emanuele II e di Giuseppe Garibaldi, allora mi sembrava che in mezzo ad alcuni di quegli avvenimenti risaltasse la figura di quel seminarista garibaldino che ognuno indicava col nome di: lo zio Maggiore. Quello che mi meravigliava maggiormente era che ognuno non determinasse mai il nome e cognome del personaggio ma hi indicava sempre allo stesso modo: lo zio Maggiore.

Tale espressione mi spronava a comprendere il perché, ed esso avvenne un bel giorno, quando mia madre mi disse che saremmo andati a trovare i nonni a Caraffa: la mia gioia fu incontenibile.

Il paese era piccolo, aveva case basse tranne qualcuna, la gente era semplice e parlava una lingua diversa da quella della città, le donne vestivano in costume, gli uomini per la maggior parte lavoravano i campi, si avviavano la mattina presto e ritornavano la sera al tramonto, le donne eccetto le maestre elementari che provenivano da altri paesi, accudivano alle faccende domestiche e ad allevare i figli, ma non mancavano di aiutare gli uomini nella stagione del raccolto e quando le necessità lo richiedevano.

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Mi piaceva in quel paese vagare per l’abitato, ove le persone che incontravo, soprattutto le donne che stavano vicino alla porta di casa, mi chiedevano notizie su mia madre e mia zia e qualcuna mandava loro i saluti perché era stata compagna di scuola, qualcuna mi dava un biscotto caldo appena sfornato, qualche altra una carezza, tutte esternavano una grande affettuosità.

Nella piazzetta ove trascorrevano le ore gli anziani vi era un’osteria, qualcuno mi avvicinava prendendomi per mano o mi chiamava e mi offriva una gazzosella, bevanda tipica di quel tempo, qualche altro mi conduceva sotto una delle facciate della casa dei miei nonni ove all’altezza dei balconi si trovava un marmo nel quale figuravano dei versi del Maggiore Comi e me ne spiegavano il contenuto. Quel condurmi per osservare quel marmo, non era prerogativa che era data a noi cuginetti ma anche a forestieri, perché non essendovi altro da mostrare, quel marmo diventava quasi un’attrazione turistica per tutti.

Il bello è che quei versi che vi figuravano erano conosciuti a memoria dagli abitanti del paese, diventando così un “habitus” per ogni cittadino, un qualcosa che stava al cuore di tutti, per cui il personaggio Maggiore Comi si era collocato nell’animo della cittadinanza e la cittadinanza nello spirito del personaggio, un connubio tra individuo e comunità assimilato in modo spontaneo per divenire un tutt’uno.

Quel vecchio garibaldino aveva l’ammirazione di tutta la popolazione, ammirazione tuttavia che potrebbe non attirare simpatia, perché l’ammirazione può essere diretta anche per un re, un presidente, un governatore, capaci di portare il proprio paese ad un elevato progresso ma non sempre simpatici a tutti i cittadini perché magari il comportamento civile potrebbe non essere condiviso dalla popolazione, per il carattere scostante o poco umano, per cui la simpatia è qualcosa di innato, un qualcosa di spontaneo che si traduce non per conquista, per vicende politiche ecc. ma per l’umana condotta.

E quel vecchio militare di carriera metteva sempre in luce il suo comportamento generoso e di grande sensibilità: aiutava i deboli, rispettava i vecchi, conciliava chi litigava, dava consigli a chi glieli chiedeva, aiutava per quanto possibile chi ne aveva bisogno, rispettava le leggi, combatteva l’ipocrisia, gli speculatori, i falsi credenti, amava la verità, la libertà, ciò che era sacro, rispecchiando fedelmente gli usi e i costumi degli avi. Se alla fine della sua carriera, di rientro nel suo paese, subì come ogni essere umano qualche pettegolezzo su ipotetiche credenze anticlericali, egli troncò il tutto sul nascere con una lettera ad un vecchio parroco del suo tempo.

Ciò che gli era stato mal attribuito, fu la cittadinanza stessa a capovolgere a suo favore, accordandogli stima illimitata grazie alle sue umane azioni, de! resto nessuno a casa propria fu mai esente da pettegolezzi, nemmeno Cristo ne fu esente.

Per cui se ancora oggi il Consiglio comunale di Caraffa vuole ricordarlo è perché ancora una volta il Maggiore Comi risulta agli occhi di tutte le persone stimabile, sia per la sua condotta militare, quanto per quella civile. Sarebbe ancora più bello se la fantasia di quel ragazzetto, ormai anziano, potesse realizzarsi avendo visto nello sguardo acuto di quel personaggio ritto sulla collinetta di s reale portante la bandiera d’Albania, per posarla di fianco al vessillo italiano, per ridestare alla comunità di quel paese e ai giovani soprattutto, 1’ entusiasmo per la patria degli avi, il valore della loro lingua e delle tradizioni che formano il tesoro di ogni paese e soprattutto per rinnovare il ricordo di quell’eroe nazionale: “Scanderberg”.

Perdonate l’entusiasmo che fin da piccino ho sentito verso quell’uomo, lo zio Maggiore, e verso la comunità tutta di Caraffa, infiammato dall’entusiasmo che mia madre e mia zia mi hanno trasmesso e ricambiando col cuore alle affettuosità che mi sono state sempre rivolte.

Prof Vincenzo Platy

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Note Biografiche

Magg. Comi Cav. Luigi

Fotografia in uniforme con medagliere da sinistra: med. per la Liberazione di Roma

med. per l'Unità d'Italia. Croce d'Oro per anzianità di servizio med. D’Argento campagna dell’Italia Meridionale 1860

Croce di Cavaliere, med. Guerre per l’Indipendenza e l’Unità d’Italia

Luigi Corni di Pietro e di Teresa Donato, nacque a Caraffa di Catanzaro il 23 luglio 1838. La famiglia avrebbe gradito avviarlo alla vita sacerdotale e a 15 anni lo iscrisse al seminario arcivescovile di Catanzaro ove fu apprezzato per il suo carattere gioviale e la sveglia intelligenza. Prese senza esami gli ordini minori, fu esentato dal pagamento della retta stabilita e nominato prefetto, gli affidarono la supplenza nell'insegnamento della geografia. Predilesse lo studio della storia greca, della storia romana c della storia d'Italia. Per il suo carattere cordiale era ben voluto dai compagni e bene accolto dagli insegnanti che lo rifornivano di libri e giornali. Seguiva così le vicende legate ai tentativi di unificare l'Italia dopo i movimenti del 1848 e 49, fu vivamente toccato dalla sorte capitata ai fratelli Emilio e Attilio Bandiera e da quella, non meno disgraziata, capitata a Nicotera e Pisacane.

Sensibile al pensiero di Giuseppe Mazzini ed all’ azione di Giuseppe Garibaldi, covava in cuor suo il desiderio di partecipare personalmente agli esaltanti avvenimenti nazionali, confortato dall'entusiasmo che manifestavano alcuni suoi fedeli compagni di seminario.

La notizia dello sbarco di Garibaldi a Marsala, l'avvicinarsi dei garibaldini al continente, gli fecero balenare l'idea di fuggire dal seminario per arruolarsi volontario al seguito dell'eroe

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leggendario. Manifestò tale intenzione al suo allievo ed amico F. Barone che era al corrente, tramite il

genitore, dei movimenti rivoltosi in provincia di Catanzaro, con lui decise la fuga dal seminario la sera del 27 agosto 1860, per arruolarsi alla colonna degli insorti di Sambiase, Cortale, Maida, Feroleto, Nicastro ecc. comandata dal Gen. Francesco Stocco.

Quella sera per intercessione dell'amico di famiglia D. Natale Volta, assieme all' amico Barone fu ospitato a casa del barone Farao a Maida, ove l'indomani sarebbe arrivato l'eroe dei due mondi. Furono presentati a Garibaldi il quale si complimentò e li affidò al Gen. Cosenz che li assegnò a1l'8° Compagnia del 30 Reggimento.

Partecipò a tutte le battaglie comandate dal Gen. Garibaldi e fu presente all'incontro a Teano con Vittorio Emanuele II, si distinse per condotta e coraggio e fu insignito della medaglia d'argento al valor militare.

Conclusasi la campagna d'Italia scelse di rimanere sotto le armi a disposizione del governo e fu destinato ad Asti dove rimase dal21 febbraio al 27 marzo 1862, quindi fu assegnato al Regg. Granatieri a Lucca e poi a Napoli. Nel 1862 fu inviato a Milano e poi a Gorgonzola ove rimase fino al 1864. Nel 1865 a Napoli rivide il Ten. Colonnello Caravà del 5° Regg. Granatieri, che aveva conosciuto il 28 agosto 1860 a Maida quale Magg. della Divisione Cosenz e così con il Caravà iniziò un rapporto di fedele collaborazione, prima da sott'ufficiale poi da ufficiale e infine da amico, testimoniato da numerose lettere custodite dalla famiglia Corni.

Fu aiutante di campo di Vittorio Emanuele II, il quale nel dicembre del 1848, esule ad Alessandria di Egitto, lo ricordò al dott. Maggiorino Peta, direttore dell'ospedale italiano, che lo assistette negli ultimi giorni di vita. Conobbe tutti i personaggi calabresi del risorgimento: i Gen. Stocco. Cosenz e Sirtori, molti ufficiali arbёresh di Cosenza come il Col. Giuseppe Pace che comandò il primo Regg. dei volontari cosentini che si portarono a Volturno, Luigi Settembrini, Antonio Greco, Alessandro Procida, Francesco Fera, Francesco Sprovieri, Achille Fazzari, Assanti Pepe.

Il Magg. Luigi Comi, volontario garibaldino e poi valido ufficiale dell'esercito piemontese, dopo un trentennio di servizio militare, tornò a Caraffa ove si prodigò a favore dei familiari, in particolare dei nipoti, fra i quali il farmacista Pietro Corni, il dott. Antonio Peta ed il prof. Luigi Corni. Significativa la lettera che il cugino Ten. Girolamo Corni, caduto a Dogali il 3 febbraio 1887, med. d'Oro al valor militare, gli scrisse in risposta a quella mandatagli dal Magg. Comi con la quale cercava di dissuaderlo di partire per l'Africa.

"Mi pare che tu fai con me come quei vecchi libertini che dopo avere fatto in gioventù ogn' erba fascio, si atteggiano poi con gli altri. a moralisti ed a maestri. Tu nel 1860 hai gettato al diavolo tutti i libri. di notte tempo sei fuggito dal seminario, per andare con Garibaldi.

A Caiazzo, a Volturno e a Caserta Vecchia ti sei sfogato a menar le mani coi napoletani. in particolari occasioni ti sei sbizzarrito coi briganti. Nel 1869 approfittando della paterna benevolenza del tuo Col. Caravà hai trovato il modo di dare qualche botta a Monterotondo e a Mentana anche ai papalini e ai francesi. Hai sul petto una bellissima medaglia al valor militare. ed io? .. io ancora non ho fatto niente.

Io sono ancora un povero Tenente per esame e ti pare che ciò possa bastare all'amor proprio di un soldato?"

Luigi Comii nel 1892 fu Sindaco di Caraffa, curò il rimboschimento ed il consolidamento dei terreni su cui sorge l'abitato, fu pure un valido scrittore e poeta in vernacolo albanese e in lingua italiana.

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Nel 1904 su invito del Gen. Ricciotti Garibaldi fece parte del Consiglio Albanese d'Italia, che aveva lo scopo di procedere ad una seria organizzazione fra gli italo-albanesi. Onorò con le opere e con l'ingegno il suo paese natio, mori all’età di 78 anni, il 15 settembre 1916.

Arch. Luigi Comi

Foto Maggiore Luigi Comi (archivio di famiglia)

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Racconti

Il cinquantesimo anniversario Della mia fuga dal Seminario

e del mio arruolamento da soldato sotto Garibaldi

All'età di 72 anni suonati, e alla distanza di mezzo secolo, dacchè giovinetto presi una decisione, forse la più importante della mia vita, non potevo credere che nella mia mente, ormai quasi ottusa e sbiadita dal tempo e dall' età, avessero potuto in questi giorni accumularsi tanti ricordi e tante reminiscenze.

E' indubitato, che i fatti, anche di poco rilievo e pochissima importanza che avvengono nei primordi della vita, colpiscono la mente e restano impressi indelebilmente nella nostra memoria.

Io sebbene chiuso nel Seminario, sebbene il regime per l'istruzione e per l'educazione, era circoscritto in un ambiente molto ristretto e quasi completamente c1australe che non ci permetteva quasi alcuna relazione con chi era estraneo allo stabilimento, pure per la mia vicenda speciale, per il mio sviluppo fisico molto precoce e vantaggioso e per la mia indole tutt'altro che sommessa e rassegnata ai doveri dell'abito che indossavo. ero oggetto di una sorveglianza speciale da pane del Vescovo (Mons. Raffaele De Franco) e del Rettore (canonico Filippo Masciari), ero pure oggetto di simpatia e di una confidenza speciale da pane dei professori e dei parenti degli allievi che erano ammessi allo stabilimento.

Tra gli studi a me prediletti era la storia e la geografia, la storia greca la storia romana e la storia d'Italia, la vita degli uomini illustri, di Cesare,di Annibale, e di Napoleone, mi entusiasmavano.

I professori: Angelantonio, Scambelluri, Serravalle, Vitale, Catanzaro, Betocchi, vedendomi tanto sveglio e piuttosto intelligente, mi trattavano con una certa confidenza e spesso mi fornivano dei giornali e mi portavano dei libri, che nel Seminario erano proibiti.

In tal modo io cercavo di tenermi al corrente sugli avvenimenti che si svolgevano in Italia, sui risultati della guerra del 1859, di quanto si era tentato nel 1848 e ' 49, di quanto si sperava e si voleva fare, per la riunione in uno, di tutti gli stati in cui era divisa l'Italia. Il tentativo disgraziato dei fratelli Emilio e Attilio Bandiera e quello non meno disgraziato di Nicotera e di Pisacane, la propaganda di Giuseppe Mazzini, la vita avventurosa di Garibaldi, tutto questo aveva quasi esaltato il mio carattere. Il Vescovo e il Rettore si erano avveduti del risveglio in me avvenuto, e nella speranza di riuscire a piegarmi al desiderio di mio padre, che per gli interessi di famiglia voleva ad ogni costo che io abbracciassi la carriera ecclesiastica, senza sostenere i necessari esami, mi fecero prendere gli ordini minori, mi nominarono prefetto, mi dispensarono dal pagamento della retta stabilita, mi fecero supplente per l'insegnamento della geografia c mi promisero formalmente che appena prete, mi avrebbero nominato canonico della cattedrale e nominato maestro titolare per l'insegnamento della geografia e della storia, nello stesso Seminario.

Ma per la ripugnanza che in me esercitava la vita sacerdotale, e per l'attrazione che io invece sentivo per la carriera militare, malgrado gli imbarazzi, le difficoltà in mezzo a cui mi

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trovavo e il desiderio di potermi rendere utile alla famiglia, decisi di deporre l'idea di farmi sacerdote. Abbandonata quell’idea qual'era la via, che io potevo e dovevo prendere per procurarmi una posizione e per assicurarmi l'esistenza?

Per secondare le mie tendenze quasi naturali e per guadagnarmi un posto senza titoli scolastici ed accademici, non mi restava che mettere a profitto la mia speciale attitudine fisica e dedicarmi alla vita militare. Senza obblighi di leva, non mi restava che aspettare gli avvenimenti e fortunatamente gli avvenimenti si maturarono per l'unità della patria e quasi favorirono le mie aspirazioni. Lo sbarco di Garibaldi a Marsala, le sue vittorie quasi miracolose in Sicilia, il suo avvicinarsi a tappe forzate verso il continente, fecero formare il mio piano: fuggire dal Seminario e arruolarmi volontario con l'eroe leggendario .

Coadiuvato dal cugino Giuseppe Comi fu Francesco e dall'amico Salvatore Talamo, feci preparare di nascosto, e naturalmente all'insaputa dei superiori, gli abiti occorrenti (dal sarto Francesco Giorgini) e non solo per me ma per parecchi altri allievi, i quali informati segretamente delle mie intenzioni, dichiararono di voler condividere la mia sorte. Fioravante Barone di Catanzaro, Raffaele Pingitore di Carlopoli, Santo Carruba di Melissa, Flaminio Costa di S.Floro, Francesco Bonifacio di Spezzano Albanese, ed altri, furono del numero. Con i primi di agosto cominciarono i preparativi, il sarto Giorgini terminava di confezionare gli abiti, e sotto il mantello me li portava, io con la libertà che godevo trovavo il modo di prenderli e depositarli in una cassa sotto il letto di Barone.

Le vacanze scolastiche, permettendoci di uscire due volte al giorno, mi consentivano di incontrare degli amici con i quali ci riunivamo fuori dalla città. Il dottore Peppino Guarna presomi a ben volere, quasi ogni sera col pretesto di rivedere il figlio sottoposto ai miei ordini, mi informava minutamente dell'andamento delle cose e dei preparativi che il comitato rivoluzionario di Catanzaro faceva per abbattere il governo dei borboni e proclamare l'Italia unita con Vittorio Emanuele.

Io col suo mezzo, avevo fatto la proposta di iniziare nel caso la rivoluzione, con la ribellione del Seminario, tale ribellione si doveva effettuare facendo introdurre delle armi e degli armati, di notte tempo e dalla parte posteriore del Seminario (segando e levando una delle inferriate delle finestre) sequestrare i superiori, chiudere tutti gli allievi, ragazzi e inabili alle armi in una o due camerate, barricare la porta principale, fornire i balconi di materassi e appostarvi dietro armati di fucile, suonare la campana a stormo e con grida e fucilate, richiamare la poca guarnigione sullo spiano che resta tra il Vescovato e il Seminario, far chiudere con gente armata, i tre sbocchi che danno accesso allo spiano, e a quel punto intima-re la resa della truppa che chiusa in quello spiano o avrebbe dovuto cedere o essere sacrificata.

Tale progetto, nel complesso era stato accettato ma secondo le istituzioni già impartite da Garibaldi e dal comitato centrale dell'Italia meridionale (possibilmente nelle province) si doveva eseguire l'abbattimento del governo borbonico e proclamare il nuovo governo, senza spargimento di sangue. Nel frattempo un tale sacerdote Mungo, che da breve tempo era stato chiamato in funzione di prefetto e di maestro nel Seminario, insospettito dagli incontri frequenti tra me e il dottore Guarna, seppe agire con tale arte gesuita, da carpirmi una parte dei segreti e conoscere una parte delle mie intenzioni, rivelando al Vescovo quanto era riuscito a sapere. Fortuna per me che l'incalzare degli avvenimenti, teneva il Vescovo e tutte le altre autorità con le mani legate, altrimenti chissà quali misure sarebbero state prese a mio carico, al dottore Guarna fu proibito di venire al Seminario, ed egli per tale proibizione ritirò il figlio dall'istituto, con biglietti segreti, egli però seguitava a tenermi al corrente degli avvenimenti e tra l'altro mi informava che la mattina del 27 agosto dai paesi del circondariato di Crotone, doveva giungere a Catanzaro un forte nucleo di rivoltosi, che unito ad un reparto già in formazione a Catanzaro, doveva procedere verso la "stretta Veraldi" per mettersi sotto gli ordini del Generale Stocco e unirsi agli altri insorti della provincia incontrando poi Garibaldi e tentare l'arresto di una divisione di circa diecimila uomini dell'esercito borbonico,

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perduta la speranza di campeggiare in Calabria e di arrestare i progressi di Garibaldi, cercava di marciare verso Napoli per unirsi al resto dell'esercito napoletano. La certezza di questa notizia, mi spinse ad affrettare i preparativi della fuga, per me e per altri quattro o cinque, erano già pronti gli abiti ad eccezione di qualche cappello o berretto.

La mattina del 27 agosto avendo già preso le vacanze siamo usciti a passeggio, alla mia camerata è stata destinata la strada di S. Leonardo, io cercai di ritardare il mio rientro al Seminario, prolungando sotto la mia responsabilità la passeggiata verso l'interno della città, verso S.Rocco, qui si incontrò la compagnia degli insorti provenienti da Crotone, tale incontro tra allievi del seminario e insorti pare sia stato il segnale della rivolta, improvvisamente gli insorti gridarono -viva l'Italia- e tutti risposero -e abbasso i borboni-, a quel grido lungi dal restare sorpresi e impressionati o impacciati e sbalorditi, io per primo e con me tutti gli allievi, abbiamo fatto eco ripetendo -viva l'Italia abbasso i borboni- e per dare più forza alle grida io lancio il mio cappello in aria e con me Anselmo Lorecchio di Pallagoria, Michele Vitale di Maida e qualche altro, fecero lo stesso.

In un momento centinaia e centinaia di catanzaresi si uniscono agli insorti, si formò così una massa imponente che ha proceduto sempre gridando sino alla piazza principale e alla prefettura, in pochi minuti tutti gli stemmi borbonici furono abbattuti, i carabinieri e la truppa intontiti, restarono silenziosi senza fiatare, senza neppure accennare di reagire. lo riordinato i miei allievi al quanto sbalorditi e raccolti i cappelli pesti e polverosi, per la via più breve, da S. Rocchello e chiesa del Rosario, sono rientrato al Seminario.

Il Rettore nel vedermi mi è venuto incontro con fiero cipiglio, doman-dandomi -come? anche voi avete preso parte alla rivolta? ... - io senza alcuna esitanza gli ho risposto -in mezzo a quella baraonda non ho potuto fare a meno, ho dovuto fare come facevano tutti gli altri -ed egli- adesso vedremo se non avete potuto fare a meno-. Intanto nel Seminario, fulmineamente si è saputo ogni cosa e tutti ripetevano - la camerata del prefetto Corni ha iniziato la rivoluzione- un fermento generale aveva invaso gli allievi e aveva allarmato i superiori, i quali pur volendo prendere qualche provvedimento verso di me, non si arrischiarono di agire, gli avvenimenti non glielo permettevano.

La giornata si è passata in continua preoccupazione, io però ho capito che da parte mia non bisognava esitare un momento, con una certa preoccupazione parlai subito con gli altri allievi che avevano dichiarato di volermi seguire in qualunque decisione avrei preso, ma con rammarico ho potuto accorgermi che nonostante l'entusiasmo che in tutti aveva destato la parte da me presa nell'inizio della rivolta da Catanzaro, pure l'invito di approntarsi per fuggire al più presto, suscitava in loro un vero imbarazzo, una vera perplessità, il solo Barone, mi rispose risoluto -io sono pronto a tutto-.

Venuta l'ora della passeggiata vespertina, si discusse dei superiori, se in vista degli avvenimenti verificatosi, si doveva far uscire a passeggio anche quella sera gli allievi, e tanto per non eccitare soverchiamente gli animi, si è deciso di seguire il costume degli altri giorni, e siamo usciti. lo regolai la passeggiata della mia camerata, in modo da incontrarci nel ritorno, con la colonna degli insorti, che la sera stessa, sotto gli ordini del Magg. Raffaele Colacione doveva al più presto raggiungere il resto degli insorti, al ponte del "calderaio" o "stretta Veraldi" dove si stavano radunando per mettersi alle dipendenze del Generale Francesco Stocco. A quella vista volevo distaccarmi dai compagni e unirmi agli insorti, ma riflettendo che l'abito talare non era il più adatto alla marcia, mentre gli abiti da borghese (di velluto) erano già pronti nel Seminario, affrettai il ritorno nell'istituto.

Rientrato, aspettai che suonasse il segnale dello studio poiché ognuno si ritirasse nelle rispettive camere e appena vidi i miei allievi seduti attorno ai tavoli e il corridoio principale ricalcato nel solito silenzio serale e libero dai superiori, mi portai al camerino dove era il letto dell'allievo Barone, socchiusa la porta ci siamo svestiti degli abiti da chierici e abbiamo indossato gli abiti borghesi.

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Senza esitare ci siamo presentati alla porta dell'istituto già chiusa, il portinaio un vecchio sugli ottant'anni (un certo zio Domenico) ci si para davanti e ci guarda per riconoscerei, ma prima che ciò avvenisse con una spinta lo allontanai dalla porta e apertala abbiamo preso il largo.

Poco discosto abbiamo trovato che ci aspettavano, perchè avvisati già prima di rientrare dalla passeggiata nel Seminario, il cugino Giuseppe Comi e l'amico Salvatore Talamo e dato a questi il denaro occorrente, lo abbiamo mandato a comprarci due cappelli. Dopo pochi minuti i berretti (rossi) sono venuti e dato loro un abbraccio siamo andati di corsa per la contrada "cocole", ci siamo diretti verso l'uscita occidentale della città, donde mezzora prima era uscita la colonna degli insorti.

La marcia degli insorti per riordinarsi, appena uscita la colonna dalla città, aveva subito del ritardo e la sua testa era appena al ponte della "fiumarella" quando noi abbiamo raggiunto la coda. Riconosciuti subito da parecchi catanzaresi che si trovavano alla coda (Luigi Franco, Peppino Bianco, Luigi Masciari, ecc.) in tutta la colonna la notizia della nostra fuga dal Seminario si è sparsa immediatamente e ha suscitato molta impressione, tutti si fermano per applaudirei e per gridare -evviva il seminario evviva D. Luigi Comi- lo stesso comandante Raffaele Colacione è venuto a stringerei la mano, e a lamentarsi perchè essendo egli venuto il mattino dello stesso giorno, nel Seminario a congedarsi dai suoi due figli, Luigi e Ignazio, io non lo avevo avvertito, onde egli avrebbe potuto prepararmi le armi a me occorrenti, ma Peppino Bianco essendo provveduto contemporaneamente di fucile e sciabola, cedette a me il fucile, armato e quindi orgoglioso ormai di vedermi libero, mandato un sospirone dal fondo del mio cuore, mi posi a marcia con gli altri per Tiriolo.

Tra i nuovi compagni c'era chi sinceramente approvava e applaudiva il mio operato, chi si meravigliava del mio repentino cambiamento da chierico ad insorto, chi conoscendo le condizioni speciali della mia famiglia, moderatamente mi faceva osservare che con quella fuga avevo dato un grave schianto al cuore di mio padre e di tutti i miei parenti che in me riponevano le speranze di un avvenire migliore. Ma io fatta estrazione delle mie tendenze militari e dell'effetto che avevano suscitato nel mio cuore, le speranze per la ricostituzione della patria, non potevo tacere il dissidio sorto da qualche anno tra me e mio padre, che ad ogni costo voleva avviarmi alla carriera ecclesiastica. Intanto, la marcia lungo la via di Tiriolo, procedeva, sebbene a rilento ma regolarmente, si discorreva, si chiacchierava, si cantava, ma la nota più saliente e più sensibili per tutti, erano le vittorie di Garibaldi, erano i nuovi orizzonti che si erano aperti sulla nuova costituzione e indipendenza dell'Italia.

Giunti al ponte sul Corace, le nuove scarpe che io avevo calzato nel fuggire dal Seminario, cominciavano a escoriarmi e ad indolenzirmi i piedi, malgrado il forte desiderio che mi animava nel non mostrare debolezze di sorta, non potevo fare a meno di zoppicare, Luigi Franco (fu Gaetano) che, a cavallo, camminava al mio fianco, se ne accorse C con una gentilezza fraterna, mi offrì il suo cavallo, ed io pur non volendo lasciare lui a piedi, esposto come ero ad un disagio accettai.

Giungemmo così, a notte avanzata a Tiriolo, ognuno alla meglio scelse un giaciglio lungo le strade e le case fabbricate sulla costa della montagna, per passarvi la notte, ma digiuni come eravamo, il sonno invece di avvicinarsi si allontanava, per lo stimolo della fame e per la durezza del giaciglio non potemmo chiudere occhio, le botteghe erano chiuse e forse anche esaurite per l'arrivo di tanta gente, Luigi Franco ci propone di andare presso una famiglia (Marsico) credo sua amica, per mangiare qualche cosa, vi andammo e mangiammo dell'insalata e del salame, nel tornare al posto di prima abbiamo avvertito una forte scossa di terremoto, ci siamo poi coricati sulla strada affianco al muro del palazzo del principe di Tiriolo, ci veniva davanti ad una certa distanza la posizione di Caraffa, la sua vista mi commosse, riflettendo che forse a quell'ora sarebbe stato spedito a casa mia qualche corriere annunciante la mia fuga dal Seminario, pensavo, quanta sorpresa, quanto dolore e quante

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lacrime avrebbe provocato, specialmente nelle mie sorelle, quella notizia, piansi anch'io di commozione finché il sonno non mi vinse. La mattina seguente, per tempo, prendemmo la marcia per la "stretta Veraldi", ma raffreddati si i piedi, il dolore divenne più intenso ed io vicino a Marcellinara non potevo andare più avanti, Luigi Franco aveva rimandato il cavallo a Catanzaro e così poco discosto da questo paese, dovetti fermarmi c attendere il passaggio di qualche carro, carrozza, o altro mezzo di locomozione, finalmente giunse da Tiriolo un mulo carico con quattro otri di olio diretto a Pizzo, tanto pregai e scongiurai il conducente, da indurlo a permettermi di sedermi sul basto tra le otri, pel compenso di lire 3.00.

Pochi minuti dopo ci venne incontro una persona con la camicia rossa, che, tutto scalmanato annuncia l'avanzata dei napoletani, contro di noi, verso Catanzaro.

Quella notizia produsse uno scompiglio generale, la colonna si è scompigliata quasi completamente, e senza comando e senza ordine ognuno a modo suo, chi dentro una fossa chi dietro una quercia, chi dietro un olivo, chi dietro un argine qualunque, presero posizione di combattimento, io sceso dal mulo, caricai il mio fucile e vicino al mulo e al mulattiere stavo perplesso, in attesa di veder spuntare la colonna napoletana, ma dopo alcune spiegazioni scambiatesi tra il comandante Colacione ed il cavaliere, si è venuti a sapere che i napoletani si trovavano ancora tra Monteleone e Maida, quindi ben lontani da noi e da Catanzaro.

Si è saputo pure che il cavaliere era un caporale, un certo Rossi, già appartenente alla guarnigione di Catanzaro e che disertato dal suo reggimento, con una camicia rossa si dava l'aria di garibaldino. Al primo annuncio dell' avvicinarsi dei napoletani, appena scesi dal mio mulo caricai la doppietta e nell'orgasmo che mi aveva, credo, suscitato quella notizia, mi avvidi che il fucile era già carico, me ne accorsi soltanto quando andai a mettere le capsule sui luminelli, poco pratico degli inconvenienti che potevano derivare da ciò, comunicai ogni cosa al padrone del fucile (Peppino Bianchi) il quale per prevenire ed evitare qualunque pericolo di scoppio, trovò il modo di far esplodere il colpo, mettendosi con il corpo al riparo, dietro una pianta di olivo. Verso le nove siamo giunti al "Calderaio" e ci siamo uniti sull' altopiano prospiciente il ponte, a tutti gli altri insorti dei paesi vicini (di Cortale, Maida, Feroleto, Nicastro, Sambiase, ecc.) comandati dal generale Francesco Stocco, molti di Catanzaro che avevano preceduto la nostra colonna, si trovavano già sul posto e vennero ad incontrarci e stringerci, tra gli altri vi era pure Filippo Susanna, il quale riconoscendomi si offri subito a presentarmi al generale Stacco, il generale mi accolse molto bene ma la buona accoglienza si ridusse a parole, mi domandò se sapevo cavalcare per mettermi nel caso nella guida di Garibaldi e del suo Capo di Stato Maggiore Generale Sirtori, ma tale domanda per chi già sapeva che io ero stato chiuso nel Seminario non poteva avere alcun senso pratico, potevo io essere pratico a cavalcare se non ero stato mai vicino ai cavalli?

Ma la circostanza che già mi premeva e mi incalzava, era il bisogno di cambiare la calzatura, con quelle scarpe che mi avevano già escoriato i piedi, non potevo più muovermi. ero costretto a star seduto, né a mio credere potevo buttar via quelle che avevo. per comperarne un altro paio nuovo. in quelle condizioni dove potevo trovare un altro paio adatte ai miei piedi? A pochi passi distante da me vi era un capraio, che guardava il suo gregge, aveva un paio di scarpe vecchie, rattoppate e sgangherate, alla vista di quelle calzature mi balenò l'idea di cambiarle con le mie, avvicinatomi al capraio chiesi se voleva fare il cambio. egli non credendo a quella proposta, senza pretendere un adeguato compenso, mi rispose che non aveva neppure un soldo da restituirmi. ma quando capì che io gli offrivo le mie senza compenso di sorta. egli con tutta sollecitudine si tolse le sue e presesi le mie si allontanò immediatamente da quel posto tenendosele fra le mani, io calzate quelle pantofole di nuovo genere, mi sono sentito fisicamente e moralmente risollevato, trovai il modo, ad uso ebrei, di legarle e assicurarle con un pezzo di spago. al malleolo e alle gambe per impedire che, alzando il piede per camminare, mi cadessero.

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Quell'altipiano era pieno di armati, ad ogni momento nuovi drappelli sopraggiungevano dai paesi circostanti. ad ingrossare il numero degli insorti. Verso mezzogiorno si cominciarono a vedere degli espressi a cavallo. che provenienti dalla strada di Monteleone, portavano dispacci e plichi, al Generale Stocco.

Si è saputo che una grossa colonna di truppa napoletana, di 1O o 12 mila uomini, stavano per arrivare al "fondaco del Giudice" e quindi alla posizione da noi occupata, si parlava e si discuteva sul modo da tenere e sulle disposizioni da prendere per impedire il passaggio di quella colonna dal ponte e dalla stretta sottostante e obbligarla a desistere dalla sua marcia verso Catanzaro. o più probabilmente dal suo intento di procedere verso Cosenza e verso Napoli. per unirsi al resto dell'esercito napoletano.

I reparti degli insorti coronavano le falde dell'altipiano, con concentramento maggiore verso il ponte e con una certa riserva al centro dell'altipiano. Più volte tra me e me, mi domandai negli anni seguenti, potevamo noi veramente arrestare il cammino di quella colonna di 1O mila uomini provvista di cannoni e di cavalleria? Se l'artiglieria borbonica si fosse collocata sulla posizione opposta alla nostra e avesse diretto contro di noi le sue granate e forse anche ]a sua mitraglia, potevamo, malamente armati di fucili come eravamo, restare su quella posizione e impedire ai borboni il libero cammino?

Fortunatamente per noi, verso mezzogiorno, dopo un lungo via vai di staffette, si presenta al generale stocco un parlamentare (con bandiera bianca) e subito dopo si è saputo che i borboni potevano passare senza ostacolo dal ponte, avendo avuto i] permesso da] generale Garibaldi, pochi minuti dopo, infatti, si è vista comparire ]a testa della colonna borbonica sulla "via del Pizzo" colonna che sotto gli occhi nostri si è defilata diretta a Tiriolo verso Cosenza e Napoli. Ne] pomeriggio si è dato l'ordine ad una parte degli insorti, di spostarsi verso Maida, ed io non so per quale motivo fui incaricato di supplire a Luigi Caliò di Catanzaro, nel trasporto della bandiera del battaglione, comandato dal maggiore Colacione. La bandiera piuttosto grande con un'asta sproporzionatamente lunga, sbattuta e agitata da un vento impetuoso e con i piedi ancora indolenziti, mi è riuscita piuttosto fastidiosa, ma la preferenza datami e la distinzione usata verso di me, mi imponevano una completa rassegnazione e ubbidienza all'ordine onorifico ricevuto.

Arrivai a Maida in non buone condizioni, depositai non ricordo dove la bandiera e andai a cercare sollievo in casa dell'amico Fabiano Fabiani, qui fui accolto molto bene e vi trascorsi tutta la notte.

La mattina seguente si annunciò l'imminente arrivo di Garibaldi, nella città e dintorni vi era un vero formicolio di gente armata, in mezzo alla quale vi incontrai Antonio Iacia, Giovanni Corni e Francesco Grande e qualche altro di Caraffa, essi provarono una vera sorpresa ne] vedermi a Maida e non sapevano persuadersi come io avessi potuto buttar via, l'abito da chierico, fuggire da] Seminario e rompere improvvisamente in quel modo con mio padre, con tutta ]a famiglia.

Essi prevedendo le conseguenze della mia fuga e lo schianto che la notizia avrebbe provocato tra i miei parenti, mi pregarono di tornare in famiglia ma difronte alla mia risolutezza non insistettero. Verso le 8/9 antimeridiane, giunse Garibaldi, la sua vista produsse in tutti un vero delirio, quella figura severa ed imponente di nuovo nazareno, e quell'abito tanto semplice e caratteristico (un cappello quasi alla calabrese, una camicia rossa, un paio di pantaloni ad uso militare, ed un fazzoletto pure rosso legato ai due angoli e svolazzante intorno al collo) facevano un'impressione che non si potrà mai dimenticare. Egli fu ospitato in casa del barone Feraut, io conoscendo la parentela esistente fra il suddetto barone e l'amico di mia famiglia D. Natale Volta, mi presento a quest'ultimo, il quale sebbene sorpreso e addolorato per ]a mia fuga dal Seminario, e per lo squilibrio che avrebbe prodotto tale mia decisione nella mia famiglia, dopo qualche rimarco piuttosto severo, non esitò ad accompagnarmi dal barone.

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Garibaldi stava seduto ad un tavolo sorbendo una tazza di caffé inzuppandovi qualche biscotto, il barone Faraut fattosi a lui davanti, -Generale- disse -permettete che io vi presenti questi due giovanotti, che fuggiti avanti ieri sera dal seminario di Catanzaro, desiderano arruolarsi sotto i suoi ordini?- Il generale fissa me e il mio compagno Francesco Barone, -hanno fatto bene- ha detto, -molto bene di abbandonare i preti, i preti sono nemici della patria, e hanno l'anima nera come la veste che indossano, e ora che vogliono fare?- e noi a lui -i volontari nel suo esercito per prendere parte anche noi, alla redenzione del nostro paese- bravo- egli ha soggiunto -e io li manderò sotto gli ordini di uno dei miei più valorosi generali, il generale Cosenz, ch'è loro compaesano.-.

Ha fatto scrivere un biglietto lo ha dato ad un aiutante di campo, il tenente di cavalleria (Conte Giuseppe Lodocorschi, polacco) e questi ci ha accompagnati con grande pazienza, presso il suddetto generale. Nel cercare insieme al tenente il Generale Cosenz, mi sono imbattuto al sig. Carlo Sorrentino (ufficiale disertore dei granatieri napoletani) mio amico furiere De Nigro Eduardo, anche lui disertore napoletano, con Carlo Gallo mio ex compagno di seminario (nipote del deputato Doria) con Peppino Torchia di Miglierino, e tutti sono venuti con me e con Barone ad arruolarsi. Dopo mezzora eravamo già vestiti da garibaldini, il nostro nome fu scritto nei ruoli del 3° reggimento della divisione Cosenz, comandato da un ex ufficiale austriaco, Tenente Colonnello Gaetano Albuzi di Milano, io Barone e il furiere De Nigro, fummo assegnati all'8° compagnia e in essa abbiamo fatto la campagna del 1860.

Ritratto di Giuseppe Garibaldi riportato su un portasigari

appartenuto al Magg. Luigi Comi (arch. Priv. Famiglia Comi)

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La presa di Monterotondo 25 ottobre 1867

Provvisto di un cavallo del plotone del Reggimento Savoia Cavalleria, giunsi a Monterondo, nel corpo di Garibaldi. Mio arresto perchè creduto spia papalina. Incontro col Maggiore Burrivaschi (già garibaldina da! /866 e poi Maggiore di cavalleria nell'esercito regolare) ordina la mia liberazione. Accompagnato presso il Generale Garibaldi. dietro il quartiere di S. Francesco ricovero dei feriti garibaldini. Davanti la porta di 5.RoCCQ, io, il Generale, padre Punta/ea (ex monaco in Palermo poi cappellano e seguace di Garibaldi) il conte Luigi Piancini, Cencio valdesi e l'aiutante del Generale, mi credono Capitano, pur essendo vestito in borghese come io ero. Lagnanze del Generale, per la scarsezza di mezzi e specialmente di viveri per i volontari .. Vino eccellente, trovato la mattina, nella cantina del parroco di Monterotondo, unico ristoro della giornata. Padre Pantaleo offre al Generale un pane fresco, pregandolo di mangiarlo perchè digiuno dal giorno avanti, il Generale dicendo che i soldati avevano più bisogno di lui, lo rompe, ne tiene per se un pezzo, e il resto lo offre ai volontari che ci erano vicino. I volontari avidi, e affamati accettano l'offerta e in gran numero protendono le braccia, Pantaleo li riprende, il Generale li scusa e racconta che durante la guerra nell'America meridionale, una volta restò tre giorni senza assaggiare cibo di sorta.

Preparativi per incendiare e distruggere la porta di S. Rocco dove erano rinchiusi e asserragliati i papalini (per la maggior parte francesi di Antibe), vengono avvicinate fascine di legno e di zolfo, Menotti Garibaldi mette intanto in batteria due spingarde ad una certa distanza davanti alla porta. Di quando in quando arriva qualche fucilata dall'interno di Monterotondo. Alle 21.00 circa si da fuoco al materiale addossato alla porta, il fuoco si sviluppa rapidamente, i papalini dalle mura e dai fabbricati soprastanti, aprono il fuoco della fucileria contro i volontari, dovunque credono ch' essi si trovino, servendosi della luce che produceva l'incendio della porta. lo, avuto per favore, il fucile di un volontario, rispondo a molte fucilate che provenivano da un caseggiato molto alto, nell'interno di Monterotondo.

Le spingarde aiutavano l'azione del fuoco. Verso mezzanotte la porta è quasi completamente smantellata e distrutta, verso l'una, abbassata un po’ la brace accumulata si nella porta, il Generale dà l'ordine di procedere all'assalto, ordina di non sparare ma di fare uso del calcio del fucile verso quei mercenari. lo chiedo al Generale il permesso di unirmi al battaglione comandato da Cencio Caldesi (di Bologna) per prendere parte all'assalto, il Generale mi risponde -faccia pure-.

Restituito il fucile al volontario che momentaneamente me lo aveva favorito, restai completamente disarmato, non potendo trovare un'arma qualsiasi, mi munisco di un palo di vigna e con esso mi metto al fianco del Maggiore Caldesi. Ci avvicinammo alla porta, ma per la quantità della brace ancora esistente e pel numero di fucilate che dall'interno infilavano e dominavano l'entrata, abbiamo dovuto sostare, ma, agglomeratosi tutti i volontari ai due lati della porta, da tutti si è gridato -avanti, avanti- e quelli di dietro spingendo quelli che si trovavano avanti, si è fatto irruzione dentro la città.

Molti restano feriti ed alcuni ustionati, io approfittando degli stivali, malgrado fossi spinto verso il centro dagli altri che si trovavano ai lati della porta, con un salto guadagnai nel buio, l'angolo morto di una barricata costruita di botti e di carri, poco discosto dalla porta, quasi per sbarrare la porta stessa dall'interno della città.

Grida dei volontari -i lumi, i lumi- i papalini un po’ per volta si ritirano nel palazzo Piombino, gli abitanti per timore sono restii ad illuminare le finestre, i volontari irritati sfondano la porta di un caffé e lo invadono devastandolo, Menotti Garibaldi vi accorre chiamando in aiuto coloro che gli erano vicini e che lo riconoscono, io con lui dentro il caffé, a scacciare i volontari, uso del mio palo di vigna, Menotti Garibaldi mi osserva e mi dice -ma lei le dà per davvero-.

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Nel quartiere dei carabinieri, i papalini si arresero ai volontari. Mi si offre un cavallo, lo rifiuto a l'una e mezza, la città è quasi tutta in potere dei volontari, i papalini vengono circondati e isolati nel palazzo Piombino. Mio ritorno presso il Generale Garibaldi, lo trovo alla porta di Monterotondo, anziché dietro il convento di S. Francesco dove lo lasciai. Gli annuncio la presa della città e la ritirata dei papalini, asserragliati nel castello e nel palazzo Piombino, dalle cui aperture situate nei piani più alti, continuavano a tirare fucilate, ovunque possono. lo, pregato dall'aiutante di campo del generale, cerco di persuadere il Generale di ritirarsi O ad un angolo o all'altro della porta, per non restare inutilmente esposto alle fucilate. Circondatolo quattro o cinque, cerchiamo di garantirlo coi nostri corpi da qualche fucilata.

Mi congedo da lui per ritornare a Passo-Correse, il cavallo col quale da Passo-Corre se ero andato a Monterotondo, benché affidato alla custodia della sentinella (alla porta del convento dove erano ricoverati i feriti), era sparito, un individuo fingendosi padrone, lo aveva rilevato. Sulle indicazioni datemi, mi metto alle sue tracce, coll'aiuto della luna già uscita, raggiungo il cavallo e la persona che lo tirava, sulla via che da Monterotondo conduce verso Passo Correse. Senza titubanze di sorta, domando alla persona sconosciuta di chi era il cavallo e afferro il cavallo per la briglia, egli era armato e mi dice che il cavallo era del suo padrone, un ufficiale, credo da lui inventato, gli propongo di andare assieme dal suo padrone, egli si ferma e non vuole procedere oltre, tirando egli da una parte ed io dall'altra, si stacca una briglia, egli cerca di farsi forte con le armi, io gli serro la misura e non gli permetto di muoversi, né di usare le armi, fingo di tirare da sotto la giacca un'arma, egli abbandona il cavallo e bestemmiando mi lascia andare mentre egli ritornò sui suoi passi, io liberatomi alquanto, dall'incubo di una sorpresa, affretto il passo in direzione del Tevere che a breve distanza, sulla pianura serpeggiava come una striscia bianca in mezzo alla campagna romana. La strada del Tevere mi servì di guida per il ritorno, ignorando io la strada per Passo Correse. Mi metto a cavallo (il cavallo era del plotone del reggimento Savia Cavalleria, al comando del Tenente Coiana distaccato a Passo-Correse) e malgrado le briglie non funzionassero regolarmente pure cerco, come meglio posso, di allontanarmi da quel punto e di guadagnare la pianura. All'alba incontro un Sergente a cavallo, spedito dal mio Colonnello per la mia ricerca, proseguiamo assieme e a giorno arriviamo a Passo-Correse. Aspro rimprovero del mio Colonnello, per il ritardo frapposto al mio ritorno e per la mia pernottazione in territorio nemico, fuori dal reggimento.

Il 27 ottobre arrivò a Passo-Correse, un ufficiale garibaldino. Rivelazione al Colonnello della parte da me presa nell'attacco di Monterotondo.

Per aver disubbidito agli ordini del Colonnello, per il pericolo a cui mi esposi, nel fermarmi al corpo di Garibaldi, durante la notte dal 25 al 26 ottobre, e per aver voluto unirmi ai volontari, per combattere contro i papalini, fui mandato via per punizione dall'ufficio (segreteria della sottozona militare italiana di Passo-Correse).

Propagatosi nel reggimento, la voce della parte da me presa a Monterotondo, tutti provarono un'impressione favorevolissima verso di me, impressione che, accresciuta di giorno in giorno, convertì in ammirazione ciò che prima aveva costituito una colpa. Il Colonnello mi richiama in ufficio e mi dà, raddoppiata, la sua fiducia e la sua patema benevolenza.

Lettera del Maggiore Caldesi, colla quale elogiava il mio coraggio e la mia condotta, durante l'attacco di Monterotondo. Egli poi racconta al mio Colonnello, come io mi ero aggregato al suo battaglione e come mi ero comportato durante l'azione.

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Ritirata di Mentana 3 novembre 1967

Dopo 34 anni, dacchè avvenne il fatto d'anni e la ritirata di Mentana, non è tanto facile avere presente tutti gli episodi e i particolari di quel avvenimento; avvenimento, che se non fu importante per numero dei combattenti e per numero di morti, fu importante per lo scopo che si voleva raggiungere e le conseguenze che ne seguirono. Ma le bombe nell'orsini, che ho sempre dawl1lti agli occhi, sul mio tavolo, (bombe lasciate in deposito, insieme a molte altre, a Passo-Correse, dove io mi trovavo quale segretario (della sotto-zona militare, dei fratelli Giovanni ed Enrico Cairoli, il giorno avanti dell'eccidio di villa Glori) lo vista del revolver, regalatomi da uno dei pochi superstiti di quel episodio tragico e glorioso e il biglietto scritto di pugno dal Generale Garibaldi, al mio Colonnello Giorgio Caravà (comandante il 70 granatieri) qualche momento prima, di mettersi in marcia da Monterotondo, verso Mentana-Roma (1), mi hanno tenuto, quasi sempre, viva nella memoria quella ricordanza e mi hanno determinato a scrivere qualche nota.

Le condizioni speciali, in cui si trovavano i volontari nel 1867, accorsi, arruolati alla rinfusa. senza controllo di sorta; la prevalenza in essi. di un elemento scadente; il loro armamento con fucili, tutti ad avancarica. vecchi, guasti, di calibro diverso con scarse munizioni; la deficienza nell'istruzione militare e la mancanza di qualche coesione o affiatamento, tra i vari reparti. furono le cause per cui la loro azione risultò nel 1867 molto deficiente e per cui. a fronte di soldati istruiti. molto bene armali (i francesi erano tutti armati. del nuovo fucile a retrocarica, Chasepot) la loro resistenza fu minima e la loro disfatta fu molto facile. Garibaldi fuggendo da Caprera, deludendo le navi italiane destinate a sorvegliarlo, non entrava nell' Agro-Romano, che il 22 ottobre. Egli appena assunto il comando, aveva riconosciuto i difetti e la deficienza del suo piccolo esercito e al Colonnello conte Luigi Piancini. che lo incitava, dopo la presa di Monterotondo, di marciare sopra Roma, rispondeva: prima di muovermi, fa d'uopo riorganizzare, da capo, tutto il piccolo esercito.

Ciò indica chiaramente in quali condizioni si trovavano i volontari, ma non ammise indugi, perchè alla notizia dello sbarco dei francesi a Civitavecchia (sbarco avvenuto il 1O novembre) conveniva agire con la maggiore sollecitudine possibile e prima che essi gli si potessero presentare di fronte. Ma la speranza fu vana.

Oltre qualche avvisaglia nei giorni precedenti, il movimento dei volontari verso Roma, avvenne nelle prime ore del 3 novembre. Garibaldi aveva di mira di ricacciare i papalini dentro la città, ed aiutato da un movimento interno di quella popolazione, con un colpo di mano impadronirsi della città. Ma l'arrivo dei francesi, rese arditi i papalini che unitisi presero l'offensiva. L'incontro avvenne verso la mezza pomeridiana, e noi benché distanti, a Passo-Correse, verso l'una pomeridiana abbiamo sentito i primi rumori del cannone. Quel rumore, ci ha eccitato e preoccupato, coll'arrivo e l'intervento dei francesi, l'acquisto di Roma ci apparve subito incerto e molto contrastato.

Verso l'una e mezzo, giunge da noi una guida a cavallo, l'arrivo e la presenza di quella guida a Passo-Correse, per me restò sempre un mistero, mai ho potuto sapere se essa fosse fuggita dal luogo dell'azione, se sia stata spedita, per annunciare a noi l'incontro dei volontari coi papalini e coi francesi o se, come qualcuno ha voluto asserire, essa fosse stata spedita da Garibaldi, per chiedere l'intervento e quindi l'aiuto dell'Esercito Regolare. Subito dopo l'arrivo della guida, si sono cominciati a vedere, per la stessa via, arrivare dei volontari, dapprima isolati, poi indrappellati e in fine quasi a fila e a processione.

Quell'arrivo inaspettato, fu il preannuncio della disfatta, verso le ore due e mezzo i fuggitivi aumentarono a più di un migliaio e tenuto conto dell'ora in cui fu iniziato il combattimento e del tempo impiegato, si può arguire che la maggior parte dei volontari,

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cominciò a volger le spalle al nemico e sbandarsi, quasi all'inizio del combattimento. La ritirata fu quasi ininterrotta fino a sera e sull'imbrunire, al confine, si trovavano radunati circa quattromila volontari. Essi pretendevano di entrare nel territorio italiano, armati come si trovavano, ma ordini tassativi delle autorità superiori, impedivano tale passaggio ed essi contrariati ed indispettiti, anziché deporre ordinatamente le armi o consegnarle ad un grosso drappello di granatieri posto di guardia al ponte sul Farfa (piccolo torrente che separava il territorio italiano dall' Agro-Romano) o deporle senza risentimento a terra, buttavano giù le armi disordinatamente per la campagna, o nel torrente, cercando di renderle inservibili.

L'agglomeramento di tutta quella gente in quel punto del confine, senza ricoveri e senza viveri, il risentimento e l'irritazione naturale della sconfitta subita, la stanchezza del disagio a cui furono esposti per tutta la giornata e la fame che già li tormentava pel lungo digiuno patito e le difficoltà che incontravano per non poter, come volevano, raggiungere i loro paesi e rientrare dalle loro famiglie, rendevano quella gente quasi esasperata.

Sopraggiunta la notte, essi diedero fuoco a tutto il materiale di legname che trovavasi accatastato vicino al ponte appartenente all'amministrazione delle ferrovie, e quell'incendio durò quasi per tutta la notte illuminando sinistramente un lungo tratto di quella campagna.

Intorno alla stazione di Passo-Correse e alle pagliaie presenti vicino l'osteria, ronzavano, in cerca di un ricovero qualunque, Crispi, Agi, Bertani, Clemente, Corte, Luigi Piancini, padre Pantaleo, la contessa Martini della Torre, ed altri di cui ora non ricordo i nomi. Un po’ più tardi sopraggiungevano i figli di Garibaldi, Menotti e Ricciotti, con altri ufficiali garibaldini, mentre il Generale Garibaldi non fu visto, fino a tarda ora. Il Colonnello Caravà, preoccupato vivamente di una tale assenza, ne chiedeva conto a tutti quelli che incontrava e quando qualcuno di loro gli disse che il Generale si era ritirato ed era rimasto a Monterotondo e che pregato di dirigersi verso il confine, aveva risposto che preferiva piuttosto farsi seppellire tra le mura di quella città, non poté fare a meno di rivolgergli un aspro rimprovero, a tutti questi e in particolar modo ai figli di lui, per essersi portato, loro, in salvo e di avere abbandonato il Generale a Monterotondo, esposto al pericolo di essere attaccato e preso prigioniero dai papalini e dai francesi.

Un tal rimarco, giusto e meritato, indusse i figli di Garibaldi e qualche altro di riprendere la via di Monterotondo, ma dopo qualche chilometro di strada essi tornarono accompagnando il Generale che avevano incontrato a breve distanza, scortato da poche persone del suo seguito.

Egli, taciturno e silenzioso, benché invitato e pregato ripetutamente dal Colonnello Caravà, non volle entrare nel territorio italiano, nonostante il Colonnello assicurava che non vi erano ordini di sorta contro di lui. Smontato da cavallo alla porta della casina, che resta nel territorio pontificio a breve distanza dal ponte sul Farfa, salì sulle stanze superiori a vederlo e a guardarlo, gli si scorgeva nel viso l'irritazione e il dolore, che lo opprimevano e che dilaniavano l'animo suo. I1 Colonnello insieme a Crispi e a Corte, cercavano il modo per calmarlo, dichiarandogli che in guerra purtroppo si và incontro anche a dei rovesci, a un certo punto delle loro parole e delle loro osservazioni, egli con voce rauca e quasi strozzata dal dolore ha detto: «è la seconda volta, che nel difendere i sacrosanti diritti del nostro paese, mi è toccato di volgere le spalle ai francesi. /n trentadue anni dacchè faccio la guerra, non ho avuto mai sotto i miei ordini delle canaglie e dei vigliacchi come oggi, mai sono stato costretto ad una ritirata così umiliante e vergognosa, vigliacchi e canaglie di volontari ... »

Verso mezzanotte, diradatasi un po’ la gente, che si era riunita intorno al Generale, il Colonnello arguendo che il Generale si trovava a digiuno dal giorno precedente, mandò un granatiere del Tenente Luigi Sabrino, direttore della mensa degli ufficiali, dal cantiniere del reggimento, per cercare qualche cosa da fargli mangiare, dopo qualche minuto gli fu offerto un pezzo di arrosto, un po’ di formaggio un po’ di pane e mezza bottiglia di vino, la posizione in cui si trovava il reggimento, in mezzo a quella campagna e lontano dai paesi, non offriva

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niente di buono. Il Generale mangiò a stento qualche boccone, non volle assaggiare il vino e poi fu lasciato solo per riposare qualche ora, su un materasso, che si era mandato a prendere nel mio ufficio alla stazione della ferrovia.

Era quello il materasso che il Colonnello mi aveva fatto portare dal fornitore militare, nella stanzetta del capo stazione della ferrovia, destinato ad ufficio della sottozona e sul quale io dormivo, nelle poche ore che o di giorno o di notte, mi erano concesse di riposo.

Quella notte fu per noi altri dell' esercito una notte infernale, la riunione di tutti quei volontari e di tutti quei personaggi in mezzo a quella campagna, il via vai d'intorno alla piccola stazione, di tutti coloro che, dalla fame o dalla stanchezza, cercavano da mangiare e da dormire, il dubbio affacciatosi all'ultimora che i francesi volessero inseguire Garibaldi e i volontari anche all'interno del territorio italiano, la mancanza di mezzi nel far fronte ai bisogni del momento, la probabilità di qualche contesa e qualche urto tra i soldati e i volontari, la poca forza disponibile, ecc. ecc. rendevano oltremodo difficile e pericolosa quella situazione.

L'ufficio telegrafico, impiantatosi a nostra disposizione in una stanza della stazione, rimase aperto tutta la notte e il plotone del reggimento Savoia Cavalleria, comandato dal Tenente Coiana, a nostra disposizione per le staffette, tenne i cavalli insellati. Noi abbiamo passato la notte con le armi alla mano, pronti a qualunque evento, si spedirono telegrammi e staffette dappertutto per riunire a Passo-Correse, non solo la nostra brigata (7° e 8° granatieri) ma tutti gli altri distaccamenti di fanteria, artiglieria e cavalleria, che si trovavano scaglionati nei paesi della Sabina, si informò di ogni cosa il Comandante superiore delle truppe italiane a Civita Castellana (Generale Ricotti) e il Ministero, che allora trovavasi a Firenze, si domandò come dovevamo regolarci nel caso i francesi cercassero di passare il confine pontificio ed entrare nel territorio italiano, si chiese la spedizione a Passo-Correse di un treno, o due, per rinviare e smaltire nell'interno il gran numero di volontari quivi riuniti insieme al Generale Garibaldi e agli altri del suo seguito, e da quattro a cinquemila razioni di pane, di formaggio e di vino, per rinfocillare e calmare i volontari quasi affamati e indurii a prendere imharco nel treno o nei treni che avrebbero spedito .

La mattina, per tempo, del giorno 4 novembre, giunse a Passo-Correse il generale Scaletta comandante la Brigata Toscana il quale assunse il comando di tutte le truppe, durante la notte tutti i battaglioni e le compagnie di altri reggimenti si riunirono a Passo-Correse e arrivò pure un treno coi viveri richiesti. A giorno fatto si trovò il modo di riordinare come meglio si è potuto, i volontari, e per mezzo di ufficiali e sottufficiali del reggimento, di far loro somministrare una abbondante razione di pane e di formaggio ..

Verso le ore 11.00, formatosi un solo treno, abbastanza lungo, cominciò l'imbarco dei volontari ma le carrozze si rivelarono presto insufficienti, il desiderio della partenza però supplì alla deficienza del treno, in ogni carrozza anziché 40 individui, vi si accatastarono più di 100, molti per non restare colà, volevano prendere posto sopra la volta delle carrozze, col pericolo di qualche disgrazia, molti altri si adattarono nelle macchine coi macchinisti, altri in un carro bagagli e in un carro di scuderia. In due carrozze di prima e di seconda classe, presero posto il Generale Garibaldi, i suoi figli e il loro seguito con i personaggi e coi giornalisti italiani e forestieri, che, dopo il fatto d'armi di Monterotondo, erano accorsi nell'Agro-Romano. L'ultimo ad entrare nel territorio italiano, ad avvicinarsi c1audicante, al treno preparato davanti alla piccola stazione, ed a salvarsi, aiutato da uno dei figli fu il Generale Garibaldi, egli era sempre accigliato, muto e silenzioso, salitovi si affacciò dal finestrino e l'unica persona a cui mostrò un po’ della sua espansione, fu il Colonnello Caravà, gli stese la mano e per due volte gli disse: «grazie Colonnello, grazie ... »

Fu quella l'ultima volta in cui io vidi Garibaldi e che udii la sua parola subito dopo il treno si mosse, i volontari tutti, mandarono fuori un urrà .... Generale, non so se di rabbia, di piacere o di dolore e dopo qualche minuto si dileguò dalla nostra vista, fra le montagne della Sabina. (2)

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Caraffa di Catanzaro 5 maggio 1910 (l) Alla presa di Monterotondo, i due cannoni dei papalini caduti in mano di Garibaldi avevano quasi esaurito le munizioni, non restavano disponibili che 40 cariche. il Maggiore Guarnieri, spedito la mattina del 3 novembre al Colonnello Caravà, aveva l'incarico di trovare le munizioni adatte ai due cannoni. (incarico di cui è oggetto il biglietto autografo da me conservato). (2) lo stesso giorno (4 novembre 1867) furono emanati gli ordini e le disposizioni. pel ritiro delle truppe italiane dalla frontiera. Alla mia brigata fu destinata come nuova residenza la città di Arezzo, si raccolsero tutte le armi deposte e disseminate dai volontari nelle vicinanze del ponte sul Farfa. oltre i fucili in gran parte inservibili, si raccolse pure una cena quantità di daghe e di baionette, si prese in consegna uno dei due cannoni caduti nelle mani dei volontari a Monterotondo, l'altro è rimasto in mano dei francesi a Mentana. I fucili in numero di circa 40 mila, furono spediti insieme al cannone, all'esercito di Ancona. Tra tutti quei fucili trovai una carabina Eufield uguale a quella di cui ero armato io e tutto il mio reggimento (3° della Divisione Cosenz. brigata De Olhibitz) nella campagna del 1860, la vista di quell'arma produsse sull'animo mio, una cena impressione, come se avessi rivisto o trovato un vecchio amico perduto, credetti che per una strana combinazione, quella fosse la stessa carabina, che ebbi a compagna fedele durante quella battaglia, e con la quale combattendo mi meritai la medaglia d'argento al valor militare. Tenni con me quel fucile e portatolo dopo parecchi anni in famiglia, a Caraffa di Catanzaro, il mio vecchio amico Raffaele Valentini di Girifalco, attraverso le mie parole e i miei fatti, si attaccò a quell'arma con tanta affezione da indurmi a regalarglielo, egli lo adoperava quasi giornalmente per esercitarsi nel tiro, ma morto lui, non mi riuscì di sapere malgrado le ricerche fatte, dove fosse andato a finire.

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Questo è il biglietto scritto di pugno dal Generale Garibaldi

pochi minuti prima di mettersi in marcia da Monterotondo verso Mentana

e indirizzato al Colonnello Caravà,

sotto le cui dipendenze si trovava l'ufficiale Luigi Comi, e in ricordo e per l’amicizia che c'era con il suo Colonnello egli poté conservarlo.

(arch. priv famiglia Comi)

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Poesie e sonetti

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1) si allude a i predecessori o parenti già defunti.

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Domenico Arcuri di Pietro che dalla nasciita convisse con il Magg. Luigi Comi

da cui fu cresciuto ed educato come un figlio. Morì da Caporale il 18 luglio 1915 sul Carso.

(archivio priv. Famiglia Comi)

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Questa lettera rinvenuta dal furiere maggiore Trinchera durante una visita nel campo di battaglia a Dogali

dove persero lo vita 500 soldati italiani tra cui il Ten. Girolamo Comi fu recapitata al Cap. Luigi Comi il 25 marzo 1887

con una lettera in cui sono esposte le vicende che portarono a quel massacro. Sono ancora evidenti le macchie di sangue rimaste impresse

nella lettera che il Ten. Girolamo Comi aveva con se al momento del ferimento.

(arch. priv. Famiglia Comi)

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Documenti

Certificato

rilasciato al Sergente Comi Luigi per essersi distinto nel combattimento del 2 ott. 1860

Si certifica da me qui sottoscritto come il Sergente Corni Luigi nel combattimento del 2 ottobre 1860, oltre di essersi battuto con molto coraggio alla difesa e all'assalto di Casola, essendo stato affidato al Reggimento altra posizione da difendere, mentre nessuno ardiva di occupare il luogo assegnato per dove i borboni avanzandosi in gran numero, cercavano di prendere alle spalle i Bersaglieri e di entrare in Caserta, egli con grande audacia e intrepidezza, fu il primo a slanciarsi, invitando i compagni a seguirlo con l'esempio e con la parola, il che essendo stato eseguito, si riuscì sotto il mio comando non solo a difendere la posizione, ma a stringere talmente il nemico, da obbligarlo a deporre le armi.

S. Maria di Capua 6 ottobre 1860 Il Comandante la 7° compagnia

Francesco Martino

Comando della guardia nazionale di Caraffa

Certificato sulla condotta tenuta dal furiere Comi Luigi in un combattimento

contro i briganti

Avendo visto, che malgrado il rapporto fatto alle autorità di questa provincia, nessuna ricompensa fu accordata al furiere Corni Luigi del 70 Regg. Granatieri, di questo comune pel fatto d'armi, da lui principalmente sostenuto il giorno 4 aprile 1865 contro la banda di Correa composta da 22 briganti, noi spontaneamente e con soddisfazione gli rilasciamo il presente certificato:

Che trovandosi egli in licenza in questo comune, appena udito che la suddetta banda passava per questo territorio, fu il primo a prendere armi e correre contro la medesima.

Che mentre il resto della Guardia Nazionale del paese cercava di raggiungere la suddetta banda, egli spingendosi avanti, seguito da tre carabinieri che si trovavano per caso in paese e da due militari della suddetta guardia, egli con un coraggio straordinario attaccò i briganti di numero 22 di cui parte a cavallo e li obbligò ad una fuga precipitosa costringendoli a gettar via tutte le provviste, gran parte delle munizioni, alcuni pugnali, molti cappotti, cannocchiali, giubbe ed altro, consegnati poi all'autorità del rnandamento.

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Che malgrado il consiglio degli altri di non arrischiarsi troppo, egli li incalzò a fucilate per più di 20 miglia, esponendosi così da vicino al fuoco che gli facevano i briganti, da destare l'ammirazione di noi qui sottoscritti presenti al fatto e di quanti altri lo videro. Che onde poteri i attaccare più da presso, passò a guado con grave pericolo di sua vita, il fiume Amato, che a causa della piena e delle pietre che portava, poco mancò di travolgerlo nelle sue acque.

Fu attestato perciò di un fatto degno di ogni elogio e così onorevole pel furiere Corni Luigi, e per l'esercito di cui egli fa parte, noi gli rilasciamo il presente certificato.

Il Capitano della Guardia Nazionale di Caraffa Pasquale Donato Gennaro Sciumbata luogo tenente Raimondo Miceli sergente Gregorio Peta milite Tommaso Notaro Nicola Monteleone

Visto il Sindaco per la legalità delle firme

Gennaro Miceli

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7° Reggimento granatieri Deposito

Permanente n° 10

Ordine del giorno 16 giugno 1866

In seguito a proposta fattane dal Ministro della Guerra appoggiata ad autentici ed irrefragabili documenti, che stabiliscono il diritto, che col suo valore e col suo coraggio il Furiere d'amministrazione Corni Luigi di questo reggimento si era acquistato alla battaglia del Volturno al 1° ottobre 1860 pel conseguimento della medaglia d'argento al Valor Militare. Sua Maestà il Re si degnava di onorargli tale onorifico distintivo con relativo brevetto in data 6 corrente mese.

Il Maggiore Comandante sottoscritto è veramente lieto di poter portar a conoscenza del Corpo, una tale sovrana determinazione a favore di un così distinto militare e Sotto Ufficiale, quale si mostrò sempre e in ogni circostanza fra noi il Furiere Corni.

Il Maggiore Comandante firmato Silva

per copia conforme all'originale

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Da: “Relazione del Consiglio Albanesi D’Italia”

Il Generale Ricciotti Garibaldi nella sua qualità di delegato dalla Federazione Nazionale popolare «Pro Italia Irredente» per espresso mandato prendeva l'iniziativa per la costituzione di un Consiglio Albanese in Roma, con lo scopo di procedere ad una seria organizzazione fra gli italo-albanesi. Onde meglio raggiungere tal fine, il Generale Garibaldi incaricava con lettera in data 24 febbraio 1904 il sig. Manlio Bennici di recarsi espressamente a Napoli, con l'incarico di invitare gli illustrissimi signori avv. Placco Gennaro, avv. Lusi Gennaro, Kastriota Skanderberg, Giovanni marchese d'Auletta, Kastiota Skanderberg marchese Franceseo, Shirò prof. cav. avv. Giuseppe, sig. Attanasso Dramis, ad aderire all'iniziativa di un Consiglio albanese.

In seguito alle numerose risposte di adesione, il Generale Garibaldi invitava con una circolare in data del 18 marzo, gli aderenti, ad una riunione in sua casa via Foro Traiano 25 Roma.

Gli intervenuti dopo una breve discussione, accettarono ad unanimità di voti, la proposta del Generale Garibaldi e dichiararono costituito il Consiglio Albanese d'Italia, con sede in Roma e con il programma: l'Albania degli albanesi.

Il Generale Garibaldi venne acclamato presidente conferendogli il più ampio mandato di agire in nome del Consiglio, di mettersi in relazione con gli albanesi di Albania, e far tutto ciò che è possibile per indurre l'Italia ad aiutare le aspirazioni del popolo albanese.

Il Generale Garibaldi nell'interesse della causa albanese, dopo questa riunione, ha creduto bene di chiamare a far parte del Consiglio Albanese i signori:

ARGODISSA arco cav. Antonio CRISPI avv. Wladimiro CONFORTI prof. teologo Gerardo KASTRIOTA SKANDERBERG prf. Giorgio COMI maggiore Luigi IRIANI prof. Orazio presidente del Consiglio Albanesi di Buenos Ayres SCUTERI ing. Giuseppe presidente del Consiglio Albanesi di S. Paolo del Brasile TOCCI pubblicista Terenzio

e così il Consiglio Albanese d'Italia fu definitivamente composto. Il 30 marzo il Generale inviava una circolare ai più notevoli fra i nostri compatrioti invitandoli ad informare ciascuna colonia, invitando i sindaci e i consiglieri delegati delle Colonie a voler aderire al Consiglio Albanese d'Italia. A questo invito vi partecipò anche il Consiglio Comunale di Caraffa (Catanzaro) ab. 1363.

Lettera di Francesco Barone

Compagno di fuga dal Seminario di Catanzaro Questa la lettera in risposta ad una scrittagli dal Magg. Comi in cui chiedeva all’amico e compagno di Seminario, conferma su alcune vicende legate proprio a quelle ore successive alla fuga, per arruolarsi volontari con Garibaldi.

Catanzaro 16 settembre 1910 Carissimo Luigi

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Fui lietissimo nel ricevere i tuoi caratteri. Ecco le chieste notizie: Ho ricordato sempre che siamo fuggiti dal Seminario la sera del 27 agosto e ci siamo uniti con la Guardia Nazionale, arrivando al “calderaio” la mattina del 28 tra le ore 9 e le 10. La colonna borbonica passò dal calderaio nel giorno 28. Noi la sera andammo a Maida da Garibaldi, fummo a lui presentati e ci mandò da Cosenz. Lo stesso giorno 29 andammo a Tiriolo e vi pernottammo. Il mattino del 30 di buonissima ora partimmo per Soveria e vi arrivammo nelle ore antimeridiane. La colonna borbonica aveva già deposto le armi, ed il nostro Reggimento rimase tre giorni a Soveria per la custodia delle armi dei borboni. Dopo proseguimmo per Cosenza. Mi compiaccio che le tue condizioni di salute sono buone. La mia scrittura ti dice che la vista e la mano mi servono male. L’età non è gran cosa quando la salute è buona. Aggiungo per maggior chiarimenti: a Tiriolo fummo una sola volta col Reggimento, a Maida dormimmo una sola notte. La sera della partenza dal Seminario abbiamo fatto una breve sosta durante la notte sulla pubblica via., che mena al “calderaio”, in direzione di Tiriolo.

Michelino Vitale trovasi da un anno a Napoli con tutta la famiglia. Accetta una stretta di mano dal vecchio compagno ed amico

Francesco Barone

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