Prefazione a Cura Del Prof. Ernesto Milano
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Ernesto Milano
Erbari e scienza botanica - Il codice alfa. m . 5. 9 = Est. 28 Herbolaire o Grant
herbier - l’illustrazione botanica attraverso i secoli nei suoi valori botanici escientifci
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L’autore ringrazia la Dott.ssa Paola di Pietro e la Dott.ssa Milena Ricci per la valida
collaborazione.
Rivolge altresi un particolare affettuoso ringraziamento alle Signore Cosetta Borsari e Rosetta
Geremia per la preziosa, fattiva collaborazione offerta per la digitazione dei testi, per le ricerche
Bibliografche e per la correzione delle Bozze.
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Erbari e scienza botanica
Percorso storico
Al ne di comprendere chiaramente il signicato del termine “erbario” pare necessario
afdarsi alle linee di una macrostoria che, attraverso un percorso evolutivo, partedall’antichità per giungere ai giorni nostri.
È una storia affascinante che si dipana dai tempi più antichi, allorché Babilonesi, Egiziani
e Greci cominciano i primi studi delle piante che sfociano nelle pregevoli annotazioni di
Aristotele, Teofrasto e Dioscoride, anche se l’associazione uomo-pianta ha origini ben più
remote, risalendo all’uomo neolitico che, vissuto in Medio Oriente circa 10.000 anni fa, scopre
che alcune erbe possono essere raccolte e che i loro semi piantati danno raccolti più copiosi
nelle stagioni successive, mentre si fa strada una crescente quanto empirica intuizione delle
virtù terapeutiche delle piante. Un tangibile riscontro ci viene dall’osservazione delle società
primitive ancora esistenti associata alle risultanze astrologiche degli antichi insediamenti
umani. Usi e comportamenti di quelle società ci testimoniano che la scienza delle piante e
la conoscenza delle loro proprietà trovano fondamento nella naturale considerazione che
esse stanno alla base della piramide alimentare degli esseri viventi e che sono state sempre
indispensabili all’uomo, non solo perché alcune specie gli forniscono cibo, ma perché gli
procurano vesti, armi, strumenti, tinture, medicine e mezzi per ripararsi, originando così la
“toterapia”.
Nelle terramare di Parma, Varese, Monsedori e, recentemente, di Montale e nelle palatte
di Casale, si sono rinvenuti semi di chenopodio, di sambuco, di papavero e di altre piante
che certo non erano usate come alimento, ma, con tutta probabilità, venivano impiegate
come farmaco.
Certamente è ancora innitamente lontana la botanica, dall’etimo greco βοtànε, cioè
erbari, pascolo e, per estensione, pianta, intesa come parte della biologia che comprende
lo studio del regno vegetale, vivente o fossile, o, più correttamente, denominata tologia,
derivante dal greco φutòv cioè pianta. Per migliaia di anni la botanica rimarrà l’unico campo
dello scibile intorno al quale l’uomo avrà idee vaghe e imprecise. Basti pensare che, ancora
all’inizio del secolo XVIII la botanica, vista come scienza che presiede alla catalogazione e
alla classicazione delle piante, verrà denita, in un testo latino dell’epoca, come “un ramo
della scienza grazie al quale è possibile elencare facilmente e rapidamente un grandissimo
numero di piante”.
Focalizzando l’interesse sul termine di erbario, rileviamo che nel mondo antico con tale
termine si intendeva un libro che elencava, descriveva e rafgurava le piante, accordando
la preferenza a quelle dotate di proprietà medicinali. Infatti, se inizialmente la scopertadelle proprietà curative delle piante è un fatto istintivo e casuale, dal momento che l’uomo
primitivo, all’alba della sua vita raziocinante trova gradualmente nella pianta il cibo e la
medicina come conseguenza dell’empirica osservazione degli aspetti positivi e negativi,
come portato di una conoscenza più profonda, stabilisce un approccio sempre più razionale
con il mondo vegetale.
In virtù di ciò, sulla scorta della sua esperienza e di quella di altri esseri viventi, ivi
compresi gli stessi animali in grado di distinguere istintivamente le piante velenose da
quelle con proprietà curative, imparò a riconoscere le sostanze utili come alimento, quelle
tossiche, quelle utili ad alleviare sistemi patologici elementari quali dolori, emorragie,
insonnia, e quelle in grado di creare sensazioni voluttuarie quali euforia, allucinazioni,
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aggressività.
Dalla trasmissione orale delle conoscenze acquisite, l’uomo, piegando quel mondo ai
suoi studi e alle sue cure, ma subendo sempre il particolare fascino di una materia che è
all’origine e sullo sfondo della sua evoluzione, passa alla trasmissione scritta, nobilitata e
arricchita sempre di più dalle immagini più o meno veridiche, ma ovviamente efcaci, delle
piante descritte, corredate dall’indicazione delle rispettive proprietà curative.
In Oriente, circa 10.000 anni fa, si origina uno studio della botanica strettamente legato
ad un interesse medico e si articola un avvincente percorso che si snoda già vari millenni
prima di Cristo, dall’India, dalla Cina e poi dall’Egitto, dall’Assiria e dalla Babilonia,
attraverso documenti che descrivono droghe e piante medicamentose.
Dall’India e in genere dall’Oriente, la sapienza delle piante che guariscono raggiunse il
civilissimo Egitto dove duemila anni prima di Cristo si faceva grande uso di droghe vegetali,
la cui preparazione era afdata, di solito, ai sacerdoti che confezionavano preparati vari e
distillavano pozioni, recitando formule magiche, preghiere e scongiuri.
Un documento di questo tipo, è rappresentato dal papiro di Ebers dal nome
dell’archeologo che lo scoprì, risalente al 1700 a. C., che riporta nomi di piante curative
e delle relative ricette, anche molto complesse, a base di miele, resina, olio, farina, mirra
e incenso.
Altrettanto interessante è l’erboristeria dei Babilonesi che conoscevano oltre mille specie
di medicinali minuziosamente descritte in tavolette redatte in caratteri cuneiformi, con la
descrizione delle malattie che potevano essere curate con l’una o l’altra pianta.
Presso tutta l'antichità greco-romana l'osservazione e lo studio del mondo vegetale
continua ad avere quel carattere puramente applicativo che ne aveva caratterizzato la
nascita, e dall'esame dei testi a noi pervenuti, emerge con chiarezza sia il ruolo ausiliario
che la disciplina riveste rispetto ad attività pratiche come l'agricoltura e la farmacologia, sia
l'inesistenza della gura del botanico "puro", dal momento che chi si occupa di botanica è prima di tutto un medico, un autore di trattati di agricoltura, un enciclopedista, mosso dal
desiderio di conoscere lo scibile del suo tempo.
Anche se le notizie tramandateci da più lontana data, sull'interesse per certe piante
medicinali, vengono dall'antica Cina e dall'antico Egitto e si confondono con la storia della
stregoneria e dell'empirismo, in quanto le piante e le erbe dalle quali si traevano droghe,
erano gravate di superstizioni e leggende che sarebbero durate no a tutto il Medioevo ed
il Rinascimento, in realtà sono i Greci, presso i quali i medici "rhizotomoi", secondo un
termine attribuito a Sofocle, che signica raccoglitori di radici e quindi, estensivamente, di
piante, sono circondati da grande rispetto, a portare per primi ad alto livello, con preziosi
scritti, le conoscenze in materia. Ciò avviene grazie ad Ippocrate di Cos, maestro di medicinain Atene e in Tessaglia dal 460 a. C. al 3701, vissuto no a tarda età, ed ai suoi discepoli, in
un insieme di opere giunte a noi come Corpus Hippocraticum che si può considerare quasi
un trattato di botanica ofcinale che classica, per la prima volta, organicamente, trecento
specie di piante medicinali, traendone ricette e indicando i metodi di dosaggio, gettando le
basi di un’inuenza che avrebbe toccato il mondo romano e parte di quello medievale.
In una lettera di Ippocrate diretta a Crateva, considerata però apocrifa, ma comunque
interessante, essendo coeva all’epoca in cui Ippocrate visse, troviamo dopo l'affermazione
"Scio te, o amice, optimum radicisecam esse...", un invito a mandargli subito le erbe, che
egli raccoglierà e che devono servire per curare Democrito impazzito. L'autore della lettera
1 v.: J. JACQUES, Ippocrate, Torino, 1994
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sostiene di darsi di lui perché "instrutto della natura" e conoscitore di tutti i vegetali e
medicamenti, gli raccomanda di raccogliere le erbe montane e degli alti colli che sono più
solide e più acri di quelle che vivono in luoghi acquitrinosi e ciò per il freddo, per la densità
della terra e l'umidità dell'aria; gli chiede di raccogliere anche tutte le erbe che vivono negli
stagni, nelle paludi, nei umi e nelle fontane che sono più deboli e sciolte, ma anche più
dolci; inne gli dà istruzioni per la spedizione dei farmaci suddetti. I medicamenti uidi
o liquidi si inviino in vasi vitrei; le foglie, i ori e le radici in vasi di terra nuovi e ben
chiusi afnché queste droghe, esposte all'aria, non perdano le loro caratteristiche proprietà.
L'autore di questa interessante lettera dice pure a Crateva che egli sarebbe ben fortunato se
potesse, "erborizzando, rinvenire la pianta atta a guarire l'amara avarizia e a medicare coi
mali del corpo anche tutte le infermità dell'animo umano"!
Se non possiamo ritenere che la medicina ippocratica abbia ottenuto rilevanti successi
nei riguardi dei principali quadri patologici che si presentavano, è certo tuttavia che essa
è stata capace di migliorare le condizioni di vita, igieniche e sanitarie dei suoi pazienti, da
un punto di vista psicologico oltre che dietetico. In tal senso la medicina ippocratica ha
costituito per lunghi secoli, a partire da Platone che nel suo Fedro (270 a. C.) evidenzia
come il metodo del medico di Cos sia nalizzato alla conoscenza del corpo in connessione
con la natura del tutto, un modello di riferimento sia metodologico che deontologico
derivante dal prezioso patrimonio di esperienza chimica e di sforzi terapeutici depositato
nelle opere che compongono il Corpus, e che, accanto a notizie di divertenti ingenuità,
riportano indicazioni terapeutiche di sorprendente attualità.
Altre notizie più incerte si hanno anche di un manuale di erboristeria che sembra essere
stato realizzato dal medico greco Diocle di Karystos vissuto ad Atene nel IV secolo a. C.,
allorché Eschilo nel suo Prometeo incatenato ci ricorda che "l'uomo ignaro dei medicamenti
[…] non un farmaco avea prima che io mostrassi a lui le miscele delle erbe assai benigne".
La ricostruzione delle sue dottrine, più che ai pochi frammenti dei suoi scritti in linguaattica, è dovuta alle numerose citazioni dei tardi scrittori di medicina, specialmente Galeno,
Celio Aureliano e Sorano. Charles Singer 2 sostiene che il più antico erbario di lingua greca
che noi conosciamo è quello di Diocle (c.350 a.C.).
Aristotele (384-324 a. C.), allievo di Platone e frequentatore della sua Accademia,
istitutore di Alessandro Magno e fondatore del Liceo, fu il primo grande organizzatore del
sapere ivi compreso quello biologico, che egli compie da grande osservatore della natura,
tanto da essere preso a modello della Scolastica per il suo metodo di indagine e divenire
un’actoritas nel campo delle scienze, oltre che della metasica e della cosmologia. La
sua grandiosa opera losoca e scientica che segna il punto a cui fa capo il movimento
scientico e speculativo di oltre due secoli della cultura greca, si ritrova in numerose fontimanoscritte, tra le quali, per l’argomento che in questa sede ci interessa, il Parigino 1853 del sec. XII che include i Parva naturalia e la Metasica, oltre che in una innumerevole
mole di studi e saggi, tra i quali quello specico di George Pouchet3.
Secondo Eliano, tiene anche bottega di erboristeria ove vende le sue erbe e dà consigli ai
malati, studia le piante sotto l'aspetto prevalentemente losoco per comprenderne l'essenza
e il signicato, procedendo sulla base del confronto con il mondo animale e considerando,
sulla scorta del pensiero di Anassagora, le piante derivate da piccoli animali divenuti apodi
e radicatisi nel terreno.
2 C. SINGER , The herbal in antiquity, in “Journal of Hellenic Studies”, v. 47 (1927), p. 523 G. POUCHET, La biologie aristotelique, Parigi 1885
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Il losofo Teofrasto, nato ad Efeso nel 371 a. C. e morto ad Atene nel 287, accentrando
l'indirizzo naturalistico della Scuola, compie studi sulle piante mirati soprattutto sulla
botanica in quanto tale, piuttosto che sulla sua connessione con la medicina. Per tale ragione
le sue opere sulla storia delle piante descritte, partendo dalla reale osservazione di quelle
presenti nel famoso giardino botanico di Atene, istituito a scopo di studio dal suo maestro
Aristotele, e sulle cause dei processi vegetali, possono essere considerate i trattati scientici
ante litteram di botanica, essendo state gettate le basi, nel contesto più propriamente
speculativo, per lo sviluppo della botanica come scienza autonoma, che egli denisce come
la scienza che studia la forma, la riproduzione e il comportamento delle piante.
La sua De historia plantarum, in nove libri, elabora una vera e propria classicazione, di
circa cinquantuno piante, dividendole in alberi, frutici, suffrutici, erbe. Nel IX libro classica,
per la prima volta nell’antichità, droghe e medicinali con il loro valore terapeutico.
Nella sua Delle cause delle piante, in sei libri, descrive la generazione spontanea e la
vegetazione delle piante per cause esterne. Entrambe le opere costituiscono il più rilevante
contributo allo studio della botanica nell’antichità4 al quale la letteratura naturalistica si
ispirerà per molti secoli, no al Medioevo, e che nel sec. XIII verrà ripreso da Alberto
Magno.
Degno di essere ricordato è un altro medico greco, Serapione, vissuto tra il III ed il II
secolo a. C., ad Alessandria, dove viene fondata una "scuola empirica" di medicina basata
sull'esperienza pratica, e sull’osservazione diretta, in contrasto con ogni dogmatismo
preconcetto, ivi compreso quello del Corpus Hippocraticum.
Il greco Crateva, medico di Mitridate VI, re del Ponto, anch’egli “rhizotomoi”, esperto
ed appassionato di veleni e di antidoti, realizza invece agli inizi del I secolo a. C. un vero
e proprio erbario illustrato, di cui darà poi notizia anche Plinio il Vecchio, cioè un testo
corredato da una serie di immagini di erbe, molto accurate, con indicazione del nome
della pianta, delle sue caratteristiche, delle sue virtù. Le illustrazioni sembra siano stateripetutamente copiate dai trattatisti posteriori, quali Dionisio e Meteodoro, e pare abbiano
fornito anche il modello al celebre codice costantinopolitano di Dioscoride. Il codice
illustrato da Crateva risulta essere certamente esistito a Bisanzio sino al secolo XVI.
Queste opere dei cosiddetti "rhizotomoi" sono oggi perdute e l'esperienza dell'antichità
in fatto di piante medicinali, prescindendo dalla parte che, conservata dagli autori islamici,
è stata successivamente ritradotta dai testi arabi, ha attraversato il Medioevo soprattutto con
le opere, più o meno rimaneggiate, di Apuleio e Dioscoride.
Il corpus della ricerca ofcinale, compiuta dai Greci, amplia le proprie conoscenze
a seguito della conquista di Alessandro Magno, che porta al contatto con le più antiche
tradizioni orientali in materia.Lo stesso Alessandro Magno, come ricorda il medico lionnese Champier Symphorien
(1471-1539)5, erborizzava e, con un'erba da lui rinvenuta, aveva curato Tolomeo e i soldati
feriti nella battaglia.
Le più antiche tavole di erbario giunte no a noi sono fornite da due frammenti di un
erbario del V secolo il cosiddetto Johnson Papyrus, rinvenuti da J. de M.Johnson nel 1904
mentre lavorava ad Antino in Egitto ed ora conservati al Wellcome Institute of the History of
Medicine di Londra6, databili intorno al 400 d. C. e contenenti le gure dipinte in maniera
4 THEOFRASTUS, De historia et causis plantarum, in inglese, Cambridge Mass. 1976
5 C. SYMPHORIEN, Medicinale bellum inter Galenum et Aristotelem gestum [… ], Lione, 15166 Jonshon Papyrus, Welcome Library, London, ms. 5753; v. anche A. PAVORD, The naming of names: in
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molto realistica di due piante con relativa didascalia descrittiva e terapeutica. Tuttavia
l'autentico pilastro, che successivamente riscuoterà grande successo e fornirà le basi a tutta
la medicina botanica medievale, come attestano l'ampia diffusione di manoscritti e le nuove
traduzioni, è il De Materia medica, il più antico manoscritto illustrato contenente un erbario
tuttora conservato. Composto a Costantinopoli nel I secolo d. C., ne è autore un medico
greco che esercitava a Roma, vissuto al tempo di Nerone nel I secolo dell'Era volgare e
contemporaneo di Plinio il Vecchio, Pedanio Dioscoride, cilicio di Anazarbe presso Tarso
che, dopo aver viaggiato in Siria, nell'Africa Settentrionale, in Spagna, in Gallia ed in Italia,
osservando le piante e raccogliendo informazioni sulle specie medicinali, ci ha lasciato
questo vasto trattato di farmacologia in cinque libri, dei quali, parte del secondo, il terzo
ed il quarto trattano delle piante medicinali, mentre un sesto libro, dedicato ai veleni, è
considerato apocrifo. Le specie trattate sono circa seicento, classicate per la prima volta
non in ordine alfabetico, ma divise in gruppi secondo le afnità e i caratteri comuni, e di
ciascuna di esse l'autore dà, oltre al nome usuale, i sinonimi, la descrizione dei caratteri
fondati sia sulle parti vegetative che sul ore e sui frutti, le proprietà medicinali e le dosi
di impiego, in un miscuglio di superstizione e di pseudo medicina, commiste a convinzioni
losoche, magiche e astrologiche.
Il trattato, che può essere considerato la colonna portante della farmacopea occidentale,
e si rifà ad un archetipo del III-IV secolo a. C., annovera tra i suoi modelli letterari ed
iconograci lo stesso Crateva. Molto usato nell'antichità, commentato n dal IV secolo da
Oribasio, medico di Giuliano l'Apostata, poi nel IX secolo da Serapione, medico arabo,
questo libro, non pervenutoci nella versione originale, ha avuto diffusione negli ultimi
secoli dell'impero, mediante numerose copie manoscritte, delle quali alcune sono giunte
no a noi, importanti, specie le più antiche, anche per le illustrazioni, perché dimostrano il
grado di conoscenze botaniche raggiunto e la capacità o meno degli artisti di correggere il
modello facendo ricorso alla natura.Celebre fra tutti è il manoscritto a noi pervenuto come Codex Vindobonensis del
512 d. C., eseguito per l'imperatrice Giuliana Anicia a Costantinopoli e conservato alla
Nationalbibliothek di Vienna7, detto "Costantinopolitanus" e ornato di numerose gure
fedelmente rispondenti agli originali, ma anche di composizioni allegoriche. Il codice ci
riporta inoltre varie sembianze di Dioscoride, tra le quali quella in cui appare seduto su
uno sgabello nell'atto di ricevere da Auresis, personicazione della scoperta intesa nel
senso del rinvenimento, una radice di mandragora, mentre un cane, per effetto prodigioso
di questa erba cade riverso su se stesso e muore. Da questo manoscritto, nel quale l'autore
servendosi di illustrazioni di piante miniate tratte da altri codici e quindi non originali, ha
illustrato organicamente i tre regni della natura sotto l'aspetto medico-terapeutico, prendedirettamente spunto ed origine tutta un'intera letteratura ispirata alle medesime nalità,
nei due loni orientale e occidentale e poiché Dioscoride, tradotto ben presto in arabo,
serve da modello e da fonte d'informazione a numerosi autori. Dell'opera enciclopedica di
Dioscoride, che risulterà il migliore trattato di botanica che godrà di grande autorità per tutto
il Medioevo e no a quasi il secolo XVI, offrendo l’immagine di una scienza che ricerca
rimedi per il corpo ammalato, ma guarda con grande attenzione alla cura del corpo sano,
search of order in the world of plants, New York, 2005, p. 78
7 DIOSCORIDE, De materia medica, 512c., Vienna Osterreichische Nationalbibliotek, Med.Gr.1; v. anche il
facsimile: DIOSCURIDES, Codex Aniciae Iulianae picturis illustratus nunc Vindobonensis Med. gr. 1 phototypiceeditus, Lugduni Batavorum 1906, 2 voll.
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esistono infatti alcuni codici in greco, pregevoli copie dell’originale. Tra di questi, oltre al
già ricordato cimelio di Vienna i più noti sono quello della Biblioteca Nazionale di Napoli,8 che direttamente o indirettamente, fu utilizzata anche da Cassiodoro nel periodo in cui
preparava i suoi monaci nel monastero di Vivarium in Calabria, della Biblioteca Apostolica
Vaticana, copia eseguita dal cardinale Ruteno, futuro cardinale Bessarione,9 della Pierpont
Morgan Library di New York 10 copia prodotta a Costantinopoli al tempo della rinascenza
macedone tratta dal grande codice di Giuliana Anicia.
Da tale copia ne fu tratta un’altra, forse un secolo e mezzo più tardi, che si trova oggi
nel Monastero della Grande Laura del Monte Athos. Altre copie illustrate del De materia
medica, anche se non così sontuose come le precedenti, circolavano in tutto l’Impero
Bizantino. Di esse alla Bibliothéque Nationale di Parigi si conserva una copia probabilmente
preparata in laboratorio siriaco nel IX secolo, certamente copiata da qualche esemplare
greco più antico.
Un altro erbario bizantino derivato dal grande erbario di Giuliana Anicia è conservato alla
Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Padova, probabilmente copiato a Costantinopoli
alla metà del ‘300 nel monastero di Giovanni Battista Prodromo, su richiesta di un umanista
occidentale.11
Altre copie del codice di Giuliana Anicia, la cui fama si era diffusa sempre più, si trovano
in Inghilterra al Museo di Storia Naturale di Londra e nella Biblioteca di Cambridge, e in
Italia alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.
In effetti la tradizione dioscoridea è stata talmente potente da avere condizionato tutti gli
erbari bizantini in modo determinante anche quelli che sembrano derivare dalla tradizione
iconograca degli Pseudo Apulei latini.
Sono anche da ricordare i codici longobardi del IX secolo, delle Biblioteche di
Montecassino e di Monaco che si avvalgono però di illustrazioni più piccole e meno felici,
quelli latini di Parigi, Torino e Londra e inne i codici in arabo dei quali il più bello eimportante, risalente al 1224 d. C., è quello conservato alla Biblioteca di Top Kapi Saray di
Istanbul. Uno Pseudo-Dioscoride, dell’XI secolo, pure illustrato, appartiene alla Biblioteca
Statale di Lucca ed è stato studiato e minuziosamente descritto da Pietro Giacosa.
Considerata l'autorità acquisita dal libro, esso esemplica ormai assai bene la tradizione
dell'illustrazione dell'erbario, fungendo da ponte di collegamento tra l'antichità e il
Medioevo.
Gli ampi consensi riscossi dall’opera di Dioscoride per tutto il Medioevo, sono
testimoniati anche dal fatto che Dante lo inserisca tra la “losoca famiglia” nel limbo: “E
vidi il buon accoglitor del quale Dioscoride dico12” e godrà di tale fortuna tanto da essere
correntemente usata ancora nel sec. XVIII.
8 DIOSCORIDE, De materia medica (codex neapolitanus), VII sec., Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms ex-Vind.
Gr. 1; v. anche il facsimile di questo manoscritto commentato da Guglielmo Cavallo ed edito a Roma dalla
Salerno Editrice nel 1991
9 DIOSCORIDES, De materia medica, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, ms. greco latino Vat. Chigi 53 ( F. VII. 159); v. anche il facsimile El Dioscorides grecolatino del Papa Aljandro VII , Madrid, 2001, 2 voll.
10 PEDANII DIOSCORIDES A NAZARBEI, De materia medica libri VII ..., v. anche il facsimile edito a Parigi nel 1935
in 2 voll.
11 DIOSCORIDE, De materia medica, Padova, Biblioteca del Seminario Arcivescovile, Cod. greco 194; v. anche
E. MIONI, Un ignoto Dioscoride miniato (il cod. greco 194 del Seminario di Padova), in: Libri e stampatori in
Padova. Miscellanea di studi in onore di G.Bellini, Padova, 1959, pp. 345-37612 D. ALIGHIERI, Divina Commedia. Inferno IV , 139-140
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Da ricordare che Pier Andrea Mattioli pubblicherà un commentario dell’opera in italiano
nel 154413 e successivamente nel 1554 la prima versione in latino14.
Nel VI secolo Cassiodoro consiglia ai Monaci che non conoscono bene il greco, di
ricorrere al " Herbarium Dioscoridis qui herbas agrorum mirabili proprietate disseruit
atque depinxit ". Il codice dunque sta perdendo a quell'epoca i suoi scopi pratici per divenire
quasi un testo "letterario", anche se nel XV secolo viene ancora usato negli ospedali.
Dioscoride, come già detto, esercitò l’arte medica in quella città nel primi secolo
dopo Cristo, quasi a dimostrare che in Roma si esercitava una medicina di derivazione
prevalentemente greca.
Fino a quel tempo, in realtà, la salute era afdata ad un gran numero di divinità racimolate
da tutte le civiltà dove l’impero esercitava la sua inuenza, ma esisteva anche una sorta
di “medicina domestica” dove il paterfamilias era a conoscenza dei rimedi tramandati
di generazione in generazione. Un’arte medico-pratica schiettamente latina, che trovò
la massima espressione nell’opera del vecchio Catone Censore, la quale traeva i propri
insegnamenti esclusivamente dalla natura servendosi di empirici e di “uomini curanti”.
Con l’inltrazione della cultura greca e con l’afnamento dei costumi, questa rigidezza,
strettamente legata alla romanità più tradizionale, venne ad afevolirsi e i medici greci
alessandrini, dapprima schiavi o liberti e poi liberi, cominciarono ad esercitare ufcialmente
la medicina, fondando delle vere e proprie scuole tutte di impostazione greca.
Così anche a Roma orirono i cosiddetti rhizotomoi, specialisti nella ricerca delle radici
medicamentose, che, aiutati dai loro erbolai, cercatori d’erbe, allestivano vere e proprie
farmacie, le Tabernae medicinae, dove si offriva ciò che di meglio si poteva reperire nel
mercato delle droghe di tutto il mondo. Nasceva anche la gura del Pharmacotriba, che
non esercitava affatto la medicina, ma si limitava a vendere le sostanze medicamentose
semplici e a realizzare le ricette dei medicamenti composti prescritti dai medici.
Era un mondo variopinto di rimedi terapeutici di ogni sorta, ricavati sia dal mondovegetale che da quello animale e minerale, del quale la testimonianza più signicativa è
l’importante ed enciclopedica opera di Plinio il Vecchio, vissuto dal 23 al 79 d. C.
La sua monumentale Naturalis Historia, per quanto criticata, perché considerata di
carattere prettamente compilatorio e priva di spirito critico, è il risultato della consultazione
di 146 scrittori romani e 327 stranieri e abbraccia le conoscenze di più di 2000 opere in
gran parte ora perdute. Una fonte importante, anche se non sempre sicura, delle conoscenze
geograche, zoologiche, botaniche, farmacologiche e anche cosmetiche degli antichi.
Contemporanei, ma di importanza minore per la storia della botanica, sono due autori
sul versante romano, Plinio il Vecchio e Scribonio Largo. Il primo, vissuto dal 23 al 79
d. C. è autore di quella Naturalis Historia, i cui ultimi XVII libri sono dedicati alle virtùdelle piante, delle pietre e degli animali, giustamente denita "il grande libro scritto dalla
tradizione naturalistica greco-latina", ancora oggi fondamentale per farci apprendere le
conoscenze farmacologiche degli antichi15.
Altro contemporaneo di Dioscoride che vive a Roma è Scribonio Largo, medico della
corte di Claudio, che scrive un libro intitolato Compositiones medicinales, dedicato alle
13 P. A. MATTIOLI, I discorsi nei sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, Della materia medicinale, Venezia,
1544
14 Lo stesso, Commentarii in sex libros Pedacii Dioscoridis Anazarbei De materia medica, Venezia, 1555
15 Sull’opera di Plinio vedi: PLINIO IL VECCHIO, Herbarius Mainz , Mainz 1484; lo stesso, Hortus sanitatis Moguntiae, Mainz 1491; lo stesso, Historia Naturalis, Parigi, 1950
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piante medicinali, molte delle quali erano nuove, essendo state da lui trovate nella spedizione
in Bretagna, al seguito dell'Imperatore.
Di origine greca nato il 131 d. C. a Pergamo, ma vissuto a Roma dall’anno 162 come
medico dell'Imperatore Marco Aurelio e del glio Commodo, dove muore nell'anno 210,
è invece il celebre Galeno, autore di numerosissimi libri che riguardano idrolati, elisir,
sciroppi, passate, i cosiddetti “preparati galenici” che consistono nell'estrazione e nella
manipolazione dei principi attivi di determinate piante esclusivamente ad opera dei
farmacisti.
Galeno loda molto gli erboristi dei suoi tempi ed egli stesso, nei suoi tardi anni, si diletta
ad erborizzare nei dintorni di Roma. Le sue opere più importanti delle 108 a noi pervenute,
parte nella stesura originale greca, parte nella traduzione araba sono il Methodus medendi,
opera in quattordici libri che riassume il sistema galenico e per lungo tempo costituì il testo
fondamentale dell’insegnamento medico, e l’ Arsmedica. La sua opera sarà pubblicata in
latino a Venezia, in due volumi, nel 1490, e successivamente in greco nel 1525, in cinque
volumi, da Aldo Manuzio.
Alcuni erbari latini presentano accanto all'immancabile opera di Dioscoride, il testo
di un altro erbario anch'esso latino, l'Herbarius Apulei Platonici quem accepit a Chirone
centauro magistro Achillis, descrizione di piante fatta da Lucio Apuleio, soprannominato
Platonico, vissuto nel IV secolo dell'Era cristiana, detto anche “Pseudo Apuleio” per
distinguerlo dall'omonimo del II secolo, autore dell' Asino d'oro.
Il trattato, di cui esistono codici a Leida e a Londra, è costituito di 130 capitoli, ciascuno
dei quali contiene la descrizione di una pianta e l'indicazione delle sue qualità terapeutiche,
i diversi nomi sotto i quali essa è conosciuta ed il suo uso. Anche questo manoscritto, che
in verità è abbastanza modesto, anche se avrà vastissima fortuna in area occidentale, è stato
compilato rielaborando fonti greche anteriori e con gure derivanti dall'opera di Crateva e
Kurt Sprengel16 riferisce che il Vossio possedeva un esemplare dell' Herbarium di Apuleiocopiato nell'XI secolo ed ornato di gure. Sembra che un'edizione accresciuta del trattato
di Apuleio sia circolata nel Medioevo e che da essa siano stati ricavati i dati contenuti
nel ricettario del sec. XI scoperto da Pietro Giacosa nell'Archivio Capitolare di Ivrea,
mentre Jean Baptiste Saint-Lager 17 ha dimostrato quanto copiosamente vi abbiano attinto
i compilatori di opere farmacologiche tra le quali una delle più note, verso la ne del IX
secolo è il De Virtutibus herbarum, noto poemetto attribuito a Macer Floridus identicabile
probabilmente, con il poeta e naturalista romano Aemilius Licinius Macer vissuto dall’85
al 15 a. C. Di tale codice ci è pervenuto un esemplare, eseguito in Italia Meridionale o
in Spagna, che risale con molte probabilità al VI-VII secolo e che oggi è conservato a
Leida18
.Sul versante orientale dove tutti i medici arabi coltivano con amore l'erboristeria, è da
ricordare il medico arabo Cristiano Mesue, detto Giovanni, nato a Ninive nel 776 e morto
a Bagdad nell'885, che si impone all'attenzione degli Europei per molti secoli con i suoi
trattati tramandati attraverso i loro titoli: Le grandi pandette della medicina e la Farmacopea
generale, opere delle quali vennero pubblicate numerose traduzioni latine, specie a Venezia
16 K. SPRENGEL, Historia rei herbariae, Amsterdam, 1807
17 JJ. B. SAINT-LAGER , Histoire des herbiers, Paris, 1885. Lo stesso, Recherches sur les anciens herbaria,
Paris, 188618 Leida,Leida, Bibliotheek der Rijksuniversiteit , ms. Voss. Lat. Q. 9.
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(1471) e a Lione (1478)19.
Ancora più celebre di lui, principe del mondo medico arabo, è il grande scienziato e
losofo, medico, botanico e sico persiano Ibn Sina, l'esponente arabo più conosciuto e
famoso nel mondo occidentale considerato da molti “il padre della medicina moderna”, a noi
noto con il nome di Avicenna, nato ad Afshanah presso Bukhara nel 980, morto ad Hamadhan
(Iran) nel 1037 e autore di circa 450 libri, tra cui l'opera sua più importante tradotta in latino
nel sec. XII da Gerardo da Cremona con il nome di Liber canonis medicinae20. Attraverso
tale traduzione a partire dal 1200, tramite la Scuola Medica Salernitana, rimase, per circa
600 anni, il codice più autorevole della medicina pratica e della farmacologia, studiato e
commentato nelle facoltà mediche di Bologna e Montpellier. Essa è espressione di quella
scienza araba, che, con grande capacità di sintesi, prende il meglio delle culture con le
quali viene a contatto, e che considera la botanica come scienza ausiliaria della medicina
e della farmacopea, conferendole un'impronta pratica e utilitaristica che sarà superata solo
col prodigioso risveglio della ragione scientica dell'Occidente rinascimentale. Il grande
Avicenna, secondo Richard Pultney21, erborizza nella Sogdiana e nella Bactriana e dipinge
anche le piante raccolte per farle conoscere ai suoi allievi.
Successivamente è Ibn Beithar medico e botanico ispano-arabo, morto nel 1216, che
erborizza nelle campagne di Siviglia, poi viaggia in Siria ed in Egitto, diviene direttore
dell’orto botanico di Damasco, e scrive il suo famoso libro Kitàb almofrédat , meritandosi il
nome di Aschab, cioè principe degli erboristi, che attraverso i suoi studi arriva a conoscere
più di 200 nuove specie, tanto da essere denito il “Dioscoride spagnolo” del XIII secolo.
E’ da sottolineare che, tutti i trattati di materia medica dell'età antica e medievale, basati
come sono sull'impiego di sostanze naturali quali piante, animali e minerali, si avvicinano
in misura più o meno marcata al "genere" dell'erbario, al punto che tra i due tipi di opera è
difcile tracciare un conne preciso.
E’ ancora da ricordare che il Medioevo è il tempo in cui Alberto Magno scrive il suo De Virtutibus herbarum e Santa Ildegonda detta il De Signis bonitatis herbarum22, mentre
Carlo Magno coltiva in un giardino le piante medicinali.
Sono questi gli erbari maggiormente usati nel Medioevo, sia per i riferimenti letterari, sia
nella pratica quotidiana, in particolare nei centri monastici dove il persistere e il perpetuarsi
della cultura scritta e la conservazione dei testi antichi si accompagnano ad una particolare
attenzione prestata agli aspetti tecnici della farmacologia e soprattutto alla manipolazione
delle erbe.
Certamente ciascuno di essi ha avuto un ruolo ben preciso per quanto riguarda i dati
trasmessi dall'antichità classica mediante opere più o meno rimaneggiate, dalla medicina
araba e dai risultati della cultura dei Semplici più usuali continuata per tradizione. Ciascunoservirà da cerniera e avrà importanza per compilazioni successive rimaste celebri come
espansione della scienza medica ed agraria dell'ultimo Medioevo: basti pensare allo Speculum
majus quadruplex di Vincent de Beauvais, (1244-1259); all'Opus ruralium commodorum,
19 Del Mesue si conserva XIV, presso la Biblioteca Nazionale di Roma, il ms.: Vitt. Em. 218. Liber de
consolatione medicinarum simplicium, del sec. XIV
20 Un manoscritto dell’opera è conservato a Londra presso l’Heritage Centre, ms. 385. Una delle prime
stampe dell’opera venne eseguita a Padova, nel 1479 con il titolo Canones medicinae.
21 R. PULTNEY, A brief botanical and medical history in: “Jstor: philosoph ical transaction” vol. 50 (1757-
1758), pp. 62-88
22 L’opera è conosciuta attraverso l’edizione edita da Bevilacqua a Venezia nel 1499 con il tirolo Herbarius seu De virtutibus Herbarum, e le successive edizioni di Anversa del 1502 e di Rouen del 1505.
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libri duodecim, del bolognese Pietro de' Crescenzi, (1230-1320); all’Opus Pandectarum
medicinae23 , trattato scientico sulle erbe e sul loro utilizzo in campo medico, del medico
Matteo Silvatico (1285-1342)24 che operò nell’ambito della Scuola Medica Salernitana
effettuando i suoi studi nell’antico orto botanico nel quale sorge il Giardino della Minerva
a Salerno, ed inne alle altre grandi raccolte, quali il Grant Herbier en françoys o l' Hortus
sanitatis.
Infatti, pur nella limitatezza degli studi che caratterizza il Medioevo, il culto per le
proprietà medicinali delle piante sopravvive nei monasteri benedettini, che, nell'osservanza
della Regola di S. Benedetto, danno la precedenza agli ammalati, creando gli " ospitium" nelle vicinanze dei monasteri e le "ofcine" che dapprima artigianali, si trasformano in
vere e proprie "farmacie" ed attingono il loro sapere dagli " scriptoria" . In essi, oltre ai
testi della cultura classica, si trascrivono anche gli erbari medicinali antichi compresi il
Corpus Hippocraticum, la Medicina di Plinio nonché le opere di Dioscoride e di Galeno,
ed in tutti è radicata la convinzione che le erbe medicinali siano un dono della divinità. E’
lo stesso concetto che ritroviamo come una costante nei popoli antichi: così per gli Indiani
sono i Gandharvas gli spiriti benevoli che custodiscono le piante ofcinali; per gli Egiziani
è il dio Thot che naviga in una barca carica di radici e di erbe medicinali; per i Greci ed i
Romani dio della medicina è Apollo del quale Ovidio dice: "Inventum medicinae meum est
et herbarum subiecta est potentia nobis".
Famosi sono i monasteri dell'Italia Meridionale, che divengono gelosi custodi degli erbari
ed hanno il gran merito di custodire il sapere del passato in preziose traduzioni dal greco,
dal latino e dall'arabo, oltre a tenere in vita la coltivazione di tante specie di erbe medicinali
da loro effettuata accanto alla "spezieria" nei "giardini dei semplici"25. Questi, precursori
dei celebri orti botanici, che in Italia26, a cominciare da Pisa e Padova, così come in molte
Università d'Europa, verranno istituiti nei secoli XVI e XVII, si rendono necessari per avere
la disponibilità di molte piante medicinali durante i lunghi assedi, le rapine, le occupazionimilitari, le pestilenze, le carestie. L'aggettivo sostantivato "semplice" sta ad indicare nel
linguaggio medico del tempo un medicamento non articialmente composto, ma che si
somministra così come viene fornito dalla natura, in contrapposizione alle composizioni
medicinali che possono essere composte di più "semplici".
Proprio a S.Benedetto di Capua viene eseguito all'inizio del sec. X uno Pseudo-Apuleio27 ed ancora un altro manoscritto dell'opera di Apuleio.28
E’ opportuno sottolineare che, durante il periodo romanico, allorché, con il dissolversi
del feudalesimo, risorgono le energie nazionali in rapporto con le contingenze storiche e i
23 L’opera fu tradotta in francese nel 1373 su ordine del re di Francia Carlo V, fu pubblicata in latino con iltitolo: Petri de Crescentiis, civis Bononiensis opus ruralium commodorum, Augsbourg, 1471, seguita dalla
prima edizione italiana di Firenze del 1470 e dalle successive di Strasburgo del 1486 e di Vicenza del 1490.
24 L’opera, il cui manoscritto è conservato a Roma nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Ms. Vat. Lat. 13010),
fu stampata per la prima volta a Napoli nel 1474 con il titolo di Opus Pandectarum, con la dedica di Angelo
di Sepino, medico di Aragona re di Napoli, a riprova della stima per l’opera a quel tempo.
25 Sull’argomento v.: E. MILANO, In foliis folia. Giardini e orti botanici, secondo volume, Modena 1995, pp.
11-100; v. anche: J. SERAPION, De simplicium medicamentorum historia, Venezia, 1552; N. B. MONARDES, De
simplicibus medicamentis, Antwerpen, 1574
26 V. A. CHIARUGI, Le date di fondazione dei primi orti botanici del mondo, Firenze, 1953; P. MEDA, Guida
agli orti botanici, Milano, 1984; Lo stesso, Orti botanici delle Università italiane, Napoli, 1965.
27 Ora conservato alla Biblioteca di Montecassino, codex Cassinensis 97 .
28 Conservato alla Biblioteca Laurenziana di Firenze Plut. 73. 41. La prima opera a stampa dell’ Herbarium viene eseguita a Roma, nel 1481.
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frazionati aspetti politici della penisola e con un'etica che considera la terra quale luogo di
passaggio verso l'eterno, il linguaggio neolatino è " sermo illustris", lingua dotta che serve
da contemperamento fra questa e il " sermo vulgaris": unione fra le due parlate in contatti più
o meno diretti col mondo bizantino orientale e con quello d'Oltralpe. Pertanto con l’avvento
della lingua neolatina che certamente contribuisce alla diffusione dei testi, attraverso i libri
sacri e qualche manoscritto profano, eseguiti negli " scriptoria" dei monasteri, ricostruiamo
le vicende, che qui ci interessano, degli erbari e delle relative miniature che ci consentono
una parallela chiave di lettura.
Inoltre è da ricordare che, grazie al merito dei monasteri, gli erbari bizantini e meridionali
conoscono una grande diffusione specie in Gran Bretagna, dove proprio lo Pseudo-Apuleio viene tradotto in anglosassone intorno al 1000, avvalendosi per le piante illustrative, in
coerenza con la vocazione astratta della miniatura insulare, di immagini stilizzate tanto da
rendere la pianta quasi irriconoscibile. Lo stesso Apuleio conosce in Inghilterra numerose
altre trascrizioni, una del 1050 circa, forse la più illustre della serie, conservata alla British
Library29, alla quale seguono quella eseguita a Canterbury intorno al 1070-1110 ed ora
conservata alla Bodleian Library di Oxford30, dove pure si trova un altro esemplare molto
più realistico realizzato a Bury St.Edmunds verso il 1120.
In una stesura risalente ai secoli XI-XII è molto conosciuto anche il già ricordato De
viribus herbarum, attribuito al poeta latino Aemilius Macer, amico di Tibullo, Ovidio o
Virgilio, che in esametri latini, da notizie delle droghe no ad allora conosciute, e mette
in luce anche con erudita conoscenza, le loro proprietà medicamentose. E’ stato anche
ipotizzato che il nome di "Macer Floridus" o "Aemilius Licinius Macer" costituisca lo
pseudonimo di un autore medievale, vissuto nella prima metà del sec. XI, il medico Oddone
di Meung o Odo Magdunensis. La prima stampa dell'opera avviene a Napoli nel 1477, e un
esemplare a stampa, edito a Ginevra nel 1500 circa, è conservato alla Biblioteca Estense
Universitaria di Modena31.Anche se le immagini di piante nei trattati di medicina e toterapia del passato, trascritte
negli "scriptoria", tratte dai prototipi ricopiati sia pure miniate o acquerellate, sono spesso
appiattite e prive di somiglianza, spicca tra tutte quella misteriosa e affascinante della
mandragora nello stereotipo illustrativo che la vuole con una testa fatta di foglie, mentre le
radici assumono la forma di un corpo umano. Non si può non ricordare a tale proposito che,
per conferire maggiore attrattiva a questa letteratura, vi si inseriscono gli elementi magici e
preternaturali quali inussi astrali sulle erbe, animalizzazioni di esse, virtù magiche. Si dà
così vita ad una letteratura medico-magica, e sono soprattutto gli erbari a fornire argomenti
al meraviglioso e a segnalare le loro virtù, una delle quali è la "segnatura" secondo la quale
le piante, che per taluni aspetti sici, o di colore o di forma, ricordano in qualche modol'organo malato, e sono utili a guarirlo. Così l'erba polmonaria, che aveva questo nome per
la forma delle sue foglie che ricordano vagamente un polmone, viene usata per curare le
malattie di quell’organo.
Nel corso del Medioevo la tradizione manoscritta degli erbari pare svilupparsi secondo
due direttive principali: da un lato quelli realizzati nel Nord Europa, che sempre più astratti
29 APULEIO PLATONICO, Herbarium, 1050 c., Londra, British Library, Ms. Cotton, Vitellius c. III.
30 Lo stesso, Herbarium, sec. XII, 1120, Oxford, Bodleian Library, ms. Bodley. I. 30; v. anche la prima
opera a stampa: Herbarium Apulei Platonici, Roma, 1481; F. W. T. HUNGER , The Herbal of Pseudo Apuleius,
Leiden, 1935
31 MACER FLORIDUS, De viribus herbarum, Ginevra, c.1500. Ancora un’edizione a stampa è quella di Veneziadel 1506.
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e stilizzati, si esauriscono nel rimando letterario e si allontanano sempre più dall'originario
scopo descrittivo di illustrazione e identicazione delle piante; dall'altro quelli realizzati
in Italia Meridionale, dove, grazie al contatto con la produzione scientica araba, si va
denendo il carattere precipuo degli erbari come strumenti pratici di lavoro.
Dai contatti con il Monastero di Montecassino, proprio tra il 1100 ed il 1200, epoca in
cui i monaci cominciano ad esercitare la professione medica al di fuori delle abazie e dei
monasteri, si originano fuori dai conventi orenti scuole di medicina e chirurgia, tra le quali
la scuola di chirurgia oftalmica di Preci in Umbria, nei pressi dell'abbazia di Sant'Eutizio e
la più celebre Scuola Salernitana32. Quest’ultima, anche se si ignora l’esatta data della sua
nascita, ha il merito di essere la prima e più antica istituzione dell’Europa occidentale per
l’insegnamento della medicina e delle arti ad essa afni e, cosa più importante per il futuro
della scienza europea, è il primo esempio di sincretismo tra il pensiero scientico occidentale
di origini greco-latine e quello orientale, facendo uscire la medicina dal grossolano
empirismo, avviandola verso una dimensione scientica, con la prima sua produzione
che risale al secolo XI e che trae origine dalla tradizione classica e tardo antica basata
sulla conoscenza di alcuni trattati pratici e farmacologici di Galeno, sulle opere di Plinio,
Dioscoride, Celio Aureliano, Teodoro Prisciano, Paolo di Egina e Alessandro di Tralles.
Tale patrimonio culturale del passato viene sistematicamente ordinato in trattati compilativi
che rispondono ad un'esigenza didattica di trasmissione delle conoscenze mediche e che
rivelano uno spiccato interesse più per la pratica medica che per i problemi teorici generali,
facendo vivere alla medicina, alla farmacia e alla toterapia il loro momento di massimo
fulgore.
Sembra che già nell'XI secolo si proceda alla compilazione di un Erbario della Scuola
diffusasi in Europa. Particolare impulso al sorgere della Scuola verrà dato dalle nuove
cognizioni del sec. XII, allorché essa, impostata inizialmente sugli autori greci-latini, viene
integrata con le conoscenze arabe, quando si diffonde al tempo dell'abate Desiderio, l'operadi Costantino Africano, un dotto saraceno fattosi cristiano e poi monaco, primo divulgatore
in Occidente della scienza medica ebraica e islamica che egli ha tradotto dall'arabo, avendo
avuto familiarità in Oriente con le opere di Mesue, di Serapione e del contemporaneo
Avicenna. La Scuola risente dell'inusso costantiniano, soprattutto in campo farmacologico,
in quanto la traduzione del Kitob-al-Maliki di Ali-ibn-Abbas, uno dei più importanti trattati
di medicina araba, arricchisce i prontuari di rimedi salernitani di una vasta gamma di
32 S. DE R ENZI, Storia documentata della Scuola Medica di Salerno, Napoli, 1851; B. LAWN, I quesiti
salernitani. Introduzione alla storia della letteratura problematica medica e scientica nel Medioevo e nel
Rinascimento, Cava dei Tirreni, 1969; A. SINNO, Sintesi storica della Scuola Salernitana, Salerno, 1942; P.O. K RISTELLER , La Scuola Medica di Salerno secondo ricerche e scoperte recenti, Salerno, 1980; La scuola
Medica Salernitana. Storia, immagini, manoscritti dall’XI al XIII secolo a cura di Maria Pasca, Salerno,
1988; A. BECCARIA, I codici di medicina del periodo presalernitano, Roma, 1956; P. O. K RISTELLER , Nuove
fonti per la medicina salernitana del sec. XII , in: “Rassegna Storica Salernitana”, XVIII, (1957), pp. 61-
75; Regimen Sanitatis sive Scholae Salernitanae de conservanda hona valetudine praecepta, a cura di J.
Ackermann, Stendal, 1790; K. SUDHOFF, Zum Regimen Sanitatis Salernitanum in: “Archiv für Geschichte der
Medizin”, VII (1914), pp. 360-362; VIII (1915), pp. 292-293; X (1917), pp. 91-101; Regimen Sanitatis. Flos
medicinae scholae Salerni, a cura di A. Sinno, Salerno, 1941; Collectio salernitana ossia documenti inediti
e trattati di medicina appartenuti alla scuola medica salernitana… pubblicati a cura di Salvatore De Renzi
…[riproduzione anastatica del 1853] Bologna, 5 voll., Tomo V, pp. 4-6. Un riscontro di tali precetti dettati
con riferimento ai mesi dell’anno troviamo anche in un: Conservandae bonae valetudinis praecepta longe
saluberrima … per Iohannem Curionem… ita nunc denuo, mutatis et recisis nonnullis, ac in numeris ferme sublatis mendis, recognita et repurgata, ut novum opus iure videri possit, Francoforte, 1573, cc. 277v.-278v.
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prescrizioni no ad allora sconosciute. Il Liber Aureus di Giovanni Afacio, discepolo di
Costantino e suo principale divulgatore, è il primo esempio della produzione di manuali di
patologie e terapie che si sviluppa da allora in poi e che si concreterà più tardi, nei Secoli
XV-XVI, nell'edizione di un gruppo di testi classici sotto il nome di Articella, che costituirà
la base di studio della medicina no al sec. XVIII.
I maestri salernitani, come i monaci cassinesi, sono profondi conoscitori del mondo
vegetale ed abili nella manipolazione delle erbe. Questa loro esperienza si manifesta
nell'elaborazione di trattati in cui i semplici vengono scienticamente indagati e classicati
in base alle loro proprietà medicamentose, diversamente combinati e dosati secondo le varie
applicazioni terapeutiche: Dynamidia, Antidotaria, Tabellae, hanno lo scopo di rendere
agevole e chiara la pratica applicazione dei rimedi.
Proprio nel momento di maggior splendore della Scuola, che ormai era famosa in tutta
Europa e che vedeva accorrere non solo studiosi, ma anche illustri regnanti, come ad
esempio il Re d’Inghilterra Edoardo III, allo scopo di curare le proprie infermità, nasce
l'opera più importante ed imponente conosciuta della Scuola Salernitana, il Regimen
sanitatis salernitanum o Regola della sanità, in versi latini attribuita in alcune edizioni
antiche ad Arnaldo da Villanova, medico catalano ritenuto da alcuni la più eccelsa gura in
campo medico e scientico del Medioevo che descrive circa novanta specie di piante aventi
potere terapeutico.
L’opera, che avrà all’epoca della stampa notevole fortuna, è un insieme di aforismi
e di precetti di carattere prevalentemente igienici, dettati probabilmente da vari medici
susseguitisi nella Scuola.
Tuttavia l'opera fondamentale della botanica medicinale medievale è il De simplici medicina, più tardi conosciuta come Circa instans dall'incipit del testo o, più suggestivamente,
come Secreta Salernitana. Scritta tra il 1130 ed il 1160 dal maestro Matteo Plateario,
che vi appone la rma, l'opera può essere considerata un dizionario, che, avvalendosidi una dettagliata descrizione di circa cinquecento piante, ne determina le varie specie,
analizzandone le parti, dalla foglia, al ore, al frutto, ai semi, alla corteccia, al legno, alla
radice, identicandone alcune no ad allora sconosciute e denendo per ognuna l'origine
geograca, la denominazione greca e latina, la varietà e sosticazioni e le loro proprietà
terapeutiche, e quindi l'uso e la posologia.
Il testo originario dell'opera, che secondo Jules Camus si basa sul Dioscoride fuso dopo
il IV secolo con quello dello Pseudo-Apuleio, conosciuto no al secolo scorso soltanto
nella ridotta versione a stampa del 1488, si è potuto ricostruire grazie alla collazione di due
magnici esemplari del XV secolo, conservati presso la Biblioteca Estense Universitaria di
Modena, rispettivamente un manoscritto in lingua latina il Tractatus de herbis, ms.lat.993,e uno in lingua francese, è l’ Herbolaire ms. Estero 28.
Il Circa instans che ha eco vastissima, pur continuando a circolare a lungo senza corredo
iconograco, che evidentemente si stenta a trovare in forme adeguate alla modernità del
testo, costituisce un prototipo per tutto il lone di enciclopedie di storia naturale applicata o
enciclopedie di semplici e delle loro virtù, di quei Secreta Salernitana che hanno conosciuto
esemplari illustrati solo nel XIV secolo, ricevendo dagli studiosi il riconoscimento della
capacità di correggere la tradizione iconograca delle opere precedenti nei casi di disegni
non corrispondenti al dato naturale. Ciò comporta l'affermarsi di un nuovo spirito critico,
anche se non ci troviamo di fronte a veri "ritratti" di piante, ma piuttosto ad una mediazione
fra le esigenze del rispetto dei modelli classici e gli intenti di viva osservazione della realtà,e le scene proposte da allora negli erbari, relativamente alla raccolta delle piante e alle loro
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modalità d'uso, vanno interpretate in quella direzione.
La più nota di queste enciclopedie è il ms. 459 della Casanatense, la preziosissima,
principesca Historia plantarum che nel 1912 Elena Berti Toesca attribuisce a più artisti
lombardi, fra i quali Giovannino de' Grassi, vedendone i rapporti con i Tacuina sanitatis e con i disegni di animali del Tacuino di Bergamo. La studiosa contraddice pertanto la tesi
dello Scholosser il quale nel 1895 ha pubblicato il Tacuinum sanitatis di Liegi come opera
veronese, trovando sostenitori su tale tesi in Schboner nel 1895, nel Delisle nel 1896, nel
Fogolari nel 1905 e nel Muñoz nel 1908, mentre sempre sulla tesi veneta, ma padovana,
hanno insistito la Kurth nel 1912, il Monteuffel nel 1913, il Carbonelli nel 1918 e più
cautamente il Coletti nel 1947. Berti Toesca ha invece trovato buoni sostenitori della tesi
lombarda in D'Ancona nel 1925, nel Van Marle nel 1926, nel Van Schenedel nel 1938, nel
Serra nel 1940, nel Marabottini nel 1950, nel Samek-Ludovici nel 1952 e nel Salmi nel
1955.
Nonostante la notorietà ed il fervore che caratterizza in tutto il Medioevo la Scuola
Medica Salernitana, che tuttavia comincia lentamente a decadere dopo che nel 1244 si fonda
l'Università di Napoli, la botanica, pur essendosi liberata da alcune scorie medievali, non
riesce a decollare come scienza a sé e rimane ancora "ancella" della medicina, per cui gli
Erbari e i Ricettari che trattano delle piante ofcinali, no a tutto il secolo XVI verteranno
in materia esclusivamente o prevalentemente medica. Infatti l'uomo, ancora assorbito da
esigenze religiose e metasiche, non riesce a dedicare molto spazio alla scienza.
Anche gure di rilievo del XIII secolo come Alberto di Lauingen, divenuto Alberto Magno
dopo la sua morte, e che nella sua cultura enciclopedica include anche le scienze naturali
e la medicina, o come Pietro d'Abano, losofo, astrologo e soprattutto medico scolastico
con inuenze arabe il cui Trattato dei veleni e un testo riguardante le erbe aromatiche
o comuni, sono conservati in manoscritti del sec. XV alla Biblioteca dell'Archiginnasio
di Bologna, non riescono a liberarsi completamente dalle pastoie medievali, fatte di pregiudizi, superstizioni, di una ridda di angeli, folletti, demoni, animali e di caratteristici
poteri magici attribuiti gratuitamente alle piante. A quelle anzi rimangono ancora legati, pur
congurandosi come gli arteci di quegli insegnamenti ai quali attingeranno autori che dal
Rinascimento e no al Settecento scriveranno sulla materia, riportando quei principi e quelle
cognizioni che molto spesso vanno a coincidere con quelle della moderna erboristeria, che
troverà spazio graduale allorché la scienza, assumendo gradualmente valore in prestigiose
Università, incomincerà a progredire sia sul piano della ricerca scientica che su quello
della sperimentazione.
Storia a sé sembrano avere quel gruppo di manoscritti che sono conosciuti come Tacuina
sanitatis, curiose trattazioni che hanno una notevole diffusione a partire dal secolo XIV.Sostanzialmente sono ricettari di norme di facile igiene, atte a curare e a mantenere la
salute per mezzo dell'uso igienico delle erbe, dei cibi e dei metalli, tipico prodotto dell'Italia
settentrionale e più precisamente dell'illustrazione lombarda, "destinati alla pura gioia
degli occhi e ad una costosissima lettura domestica nalizzata ad elementari conoscenze
di igiene alimentare…". Sono quindi manuali per condurre una vita sana che in qualche
modo si possono far rientrare nel "genere" degli erbari, anche se diversa è l'impostazione di
fondo. Essi rappresentano il frutto del recupero della scienza medica degli antichi favorito
dagli Arabi durante i secoli XIII e XIV. Non risulta che esistano manoscritti compilati dagli
Arabi su tale argomento, ma certo ad essi si possono attribuire quelle tavole sinottiche degli
elementi che possono inuire sulla conservazione della salute e si riallacciano probabilmenteall'opera del medico arabo Ibn Botlan, vissuto nel sec. XI ed autore di un'operetta Taqwin,
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Esso costituisce la fonte per molte illustrazioni dell'Erbario attribuito per molto tempo
a Benedetto Riinio, eseguito nel 1419 ed a lungo è stato ritenuto il primo erbario, dopo
l'età classica, con immagini tratte direttamente dalla natura. Il manoscritto cartaceo, oggi
conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia42 e che viene ora più correttamente attribuito
per il testo a Nicolò Roccabonella e per le illustrazioni al veneziano Andrea Amadio, ha
un'iconograa molto più ricca e vasta del Serapion, offrendo un più ampio repertorio di
piante.
Un altro manoscritto quattrocentesco è conservato alla Biblioteca dipartimentale di
botanica dell'Università di Firenze43, appartenuto probabilmente ad un medico e da lui
usato nel primo trentennio del '400, derivato dall'ambiente culturale della scuola salernitana
e collocabile facilmente per la sua iconograa nell'area lombardo-veneta. Il manoscritto,
studiato ed edito da Stefania Ragazzini44, viene posto dalla studiosa in relazione con la
tradizione iconograca dei manoscritti erbari 459 della Casanatense, Sloane 4016 della
British Library, Masson 116 della Bibliothèque de l'Ecôle des Beaux Arts di Parigi, Ad. 23 della Bodleian Library di Oxford, 1591 del Museo Civico di Trento, 211 della Biblioteca
Universitaria di Pavia, 18 di Fermo e con il 604 di Padova, concludendo che gli erbari di
Pavia e di Fermo "sono di tradizione pressoché identica al codice di Firenze".
Con l’avvento della cultura rinascimentale, l'uomo si pone al centro dell'Universo e lo
domina con la sua nuova forma mentis e con le sue iniziative, conquistando con le sue idee
e la sua cultura tutti i settori della vita sociale e delle scienze, tra le quali la botanica che sta
assurgendo ormai a scienza autonoma rispetto alla medicina.
Gli erbari sono redatti in modo differente rispetto al passato risultando riccamente
illustrati con immagini che tralasciano ormai la rafgurazione delle piante sotto forma di
uomini o di animali offrendo una rappresentazione più vicina all'ambiente naturale.
La prima vera ricerca scientica che prende le mosse dalle università rinascimentali
incomincia a dare importanza agli erbari, considerati via via che si arricchiscono di nozionie di illustrazioni, veri e propri trattati di medicina, ed addirittura vengono trascritti per conto
delle Corporazioni dei Medici e degli Speziali. Tuttavia il passato non è stato cancellato
del tutto e, qua e là, nel nuovo che avanza, accanto a felici intuizioni che ancora oggi sono
ritenute valide, si afanca una certa superstizione, formule magiche e addirittura stregonerie
per preparare i farmaci. Nel contempo, con l'attenzione dedicata agli studi botanici, gli
studiosi, superando le no allora dogmatiche affermazioni di Crateva, di Teofrasto, di
Ippocrate, di Dioscoride o Apuleio, si orientano verso una conoscenza sempre più profonda
e capillare e dirigono le loro ricerche anche verso gli estratti vegetali.
Col passare del tempo il crescere del numero degli erbari manoscritti, sempre
più abbondantemente illustrati al ne di migliorare lo scopo pratico applicativo e diriconoscimento a scopo curativo, vanno a coincidere con l'inizio della stampa dovuta alla
grande intuizione gutenberghiana.
Infatti, allorché con la nascita della stampa prende forza l'ala possente attraverso la
quale il pensiero spazierà per tutta la terra, dando vita al primo pilastro della graduale
globalizzazione della cultura, e dai torchi tedeschi, italiani e poi da quelli di tutta Europa,
42 Venezia, Biblioteca Marciana, Liber de simplicibus Benedicti Riini medici et philosophi veneti, Lat. VI.
59 = 2548
43 Firenze, Università-Biblioteca dipartimentale di botanica, Codice erbario, ms. 106
44 S. R AGAZZINI, Un erbario del XV secolo. Il ms. 106 della Biblioteca di botanica dell’Università di Firenze,Firenze, 1983.
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cominciano ad uscire impressioni multiple della medesima pagina e del medesimo libro che
rendono ormai inutile e sorpassata la pure meritoria opera degli " scriptoria" e dei copisti,
no ad allora indispensabili per la produzione di manoscritti, anche la tradizione manoscritta
degli erbari viene convogliata verso la stampa e si dà il via, negli ultimi trent'anni del
Quattrocento, ad una ricca produzione di erbari prodotti in più copie, con i caratteri mobili,
con le conseguenze divulgative e con i rimarchevoli vantaggi che sono propri del fenomeno
della stampa in tutti i campi del sapere.
Il genere botanico, come altri, conosce un momento di autentica oritura, aiutato, sotto
l'aspetto illustrativo, dalla xilograa applicata alla stampa che aiuta a riprodurre e a proporre
immagini di piante, a scopo non decorativo, ma semplicemente in funzione esplicativa del
testo.
Si avviano così lentamente a decadenza, di pari passo con l'afevolirsi del genere miniato
che procede malinconicamente verso un lento esaurimento e quindi verso un’inevitabile
scomparsa, anche se per alcuni anni i due generi avranno vita parallela ma sempre più
diversicata, le immagini di piante e soprattutto di ori e frutti che, del tutto ni a se
stessi, con pura funzione decorativa e spesso senza alcuna didascalia, hanno inondato intere
pagine di codici, costituendo uno dei soggetti che alla miniatura ha offerto colori, spunti,
suggestioni.
Vi è da osservare che l'invenzione della stampa e la quasi contemporanea applicazione
della xilograa all'illustrazione delle piante descritte, non solo estendono in modo eccezionale
la conoscenza delle piante medicinali, ma determinano addirittura l'emancipazione della
botanica sistematica, come scienza distinta, dello studio pratico, farmacologico e tecnico,
dei Semplici. La larga diffusione delle descrizioni illustrate provoca infatti una più intensa
ricerca delle specie descritte dai classici e contemporaneamente la codicazione di quelle
entrate in uso nel corso del Medioevo, per suggerimento dell'esperienza popolare, o
importate per le loro qualità medicinali riconosciute dalle popolazioni del luogo d'origine,con le guerre, con i commerci e con i viaggi, a partire dal secolo XIV, si erano spinti verso
mete più lontane, facendo conoscere nuovi prodotti dopo ogni spedizione.
Inoltre si va constatando la presenza di specie congeneri a quelle usate a scopo medicinale
sino all'antichità classica, che vegetano in Paesi diversi da quelli di provenienza dei Semplici
noti, e la conseguente opportunità di sperimentare l'efcacia terapeutica di quelle forme
afni appena conosciute.
Poco durevole, ma efcace per le conseguenze che comporta sul piano illustrativo, è
la particolare raccolta di gure botaniche conosciute come " Ectypa plantarum", ottenute
premendo le piante sulla carta o su altro materiale, dopo averle cosparse di nerofumo. Esse
lasciano così sulla materia adoperata l'esatta impronta del fusto, del ore, delle foglie edelle nervature. Tale procedimento impressorio, che testimonia l’esigenza della botanica di
aderire sempre più alla realtà, sostituendo anche la tecnica dell’esecuzione a mano libera
usata tra la ne del Quattrocento ed i primi decenni del Cinquecento, porterà un grande
rinnovamento nella tecnica incisoria, precedendo, afnando e favorendo la rappresentazione
xilograca che si basa sul medesimo principio. Lo stesso Aldrovandi, anche quando gli
erbari secchi avranno soppiantato quelli ad impressione, si servirà ancora di quella tecnica,
tanto che fra i suoi manoscritti, ed in particolare nel Ms. Aldrovandiano 136 della Biblioteca
Universitaria di Bologna, ritroviamo la procedura per ottenere "l'impronta diretta", appresa
dallo speziale orentino Romolo Rosselli.
Tale procedimento al tempo stesso, si avvicina molto, per realismo, alle raccolte di piante secche che, dando origine a nuovo metodo di studiare la botanica, porrà in essere
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l’“hortus siccus”, l’“hortus vivus” o l’“hortus hyemalis” nel quale le piante disseccate,
complete di radici, fusto, foglie, rami e ori per le piante erbacee, foglie, rami e ori per
le piante arbustive, verranno ordinate in base ad un determinato criterio di classicazione
indispensabile per lo studio sistematico della botanica, affermando un nuovo modo di
concepire questa materia, pur non raggiungendo la chiarezza e la fedeltà che si otterrà più
tardi con lo studio effettuabile dal vivo negli orti botanici.
Nell’“hortus siccus” ciascun esemplare verrà ssato opportunamente su di un foglio
contraddistinto da una scheda che porterà il nome scientico della pianta, località e data
della raccolta, natura del terreno, nome del raccoglitore e le altre notizie ritenute utili. I
fogli singoli verranno poi riuniti in fascicoli ordinati in base al sistema di classicazione
adottato.
I sintomi e le ragioni di tale inversione sono da ritrovare nella cultura umanistica che
esorterà a studiare le piante non solo sui libri, ma anche direttamente in campagna, nel loro
habitat naturale, prima, nel migliore dei casi, solamente descritto attraverso l'illustrazione.
Ne è testimonianza la lettera che l'umanista Pandolfo Collenuccio da Pesaro scriverà al
Poliziano inviandogli e invitandolo a visionare due piante secche raccolte nel suo viaggio
in Tirolo, fatto nel 1493, che si trovano descritte e gurate nei libri in maniera poco chiara.
Anche se il Poliziano, risponderà che gli studiosi ai quali ha sottoposto la questione non
hanno accolto con entusiasmo questo nuovo modo di fare comunicazione scientica, come
è destino di tutto ciò che è nuovo, che trova sempre come reazione immediata dei detrattori
attaccati alla tradizione, il nuovo modo di concepire e realizzare gli erbari, anche se ciò non
avverrà in maniera rettilinea ed uniforme, nirà per afancare ed avere una vita parallela
con il metodo gurativo accompagnato da un testo che lo illustra, seguito per secoli.
Il primo vero erbario secco a noi pervenuto è quello offertoci da Luca Ghini, lettore dei
Semplici medicinali, cattedra istituita proprio nel sec. XVI col nome di Lectura Simplicium,
all'Università di Bologna, dal 1534 al 1544 e di Pisa dal 1544 al 1556. Egli, dopo avereraccolto diversi erbari che distribuirà agli studiosi, nel 1543, unitamente al suo allievo
Gherardo Cibo, raccoglierà la prima collezione di piante secche a scopo di studio e che
organizzerà con metodo scientico. Il Ghini, maestro di Andrea Cesalpino e di Ulisse
Aldrovandi, insegnerà per primo ai numerosi allievi che afuiscono anche dall'estero,
alla sua Scuola, a conservare "per disseccamento" le piante medicinali coltivate nell'Orto
botanico di Pisa da lui istituito, insieme a quelli di Bologna e di Firenze, ed oggetto delle
sue lezioni. Da alcune lettere scritte da Luca Ghini ad Ulisse Aldrovandi nel dicembre
del 1552 e nell'ottobre del 1553, risulta che quel celebre medico possedeva un erbario,
cospicuo per quei tempi, dal momento che aveva disponibili "300 sorte d'erbe secche"
da spedire allo scolaro prediletto. I Codici aldrovandiani della Biblioteca Universitaria diBologna realizzati nel 1554 da Ulisse Aldrovandi in 16 volumi contenenti circa 4760 piante
incollate su 4117 fogli, contengono i Placiti del Ghini, nei quali si puntualizza su alcuni
semplici descritti da Pietro Andrea Mattioli e da altri illustri botanici.
Tale pratica, estesa ben presto anche ai campioni dei Semplici raccolti direttamente in
natura, si diffonderà rapidamente in Italia e fuori, nel corso del Cinquecento e, rendendo lo
scambio molto più facile ed economico rispetto alla stampa, segnerà un nuovo corso nella
storia degli erbari, determinando una enorme diffusione delle conoscenze botaniche.
Del resto il numero sempre crescente di piante che si andranno raccogliendo in tutta
l'Europa e in seguito delle grandi scoperte geograche, a partire dal sec. XVI, anche nei
Paesi del Nuovo Mondo, non può più trovare un valido riscontro ed essere soddisfatto daisistemi di "classicazione a scopo speciale".
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Inoltre si prospetterà la necessità di pervenire con nuovi criteri ad un'identicazione
obiettiva di esemplari della medesima specie, ma di provenienza diversa e con insignicanti
differenze morfologiche che potrà portare a considerarle addirittura specie diverse.
L'erbario così concepito servirà dunque a stimolare lo spirito di osservazione degli studenti,
permettendo loro di trarne riessioni utili sia dal punto di vista della conoscenza, sia da
quello dei rapporti di afnità tra i vari esemplari, le loro caratteristiche, la loro struttura, alla
luce di quelle concezioni di origine aristotelica che gli studiosi, a quel tempo, riporteranno
via via all'attualità.
Il primo libro a stampa di cui abbiamo notizia che tratta argomenti botanici, farà la
sua comparsa nel 1470 a Basilea, col titolo di Liber de proprietatibus rerum. Ne è autore
il losofo francescano Bartolomeo Anglico che dedica il libro XVII alla elencazione
descrittiva di un gran numero di piante ed alberi, con l'indicazione delle qualità terapeutiche
di ciascuna di esse.
Poco dopo ad Augusta, nel 1475, apparirà la stampa dell'opera di Konrad von
Megenberg, Das Buch der Natur , il libro della natura, composta intorno al 1350. E' un
libro di importanza basilare nella storia della botanica in quanto le illustrazioni xilograche
di piante in esso contenute non hanno più soltanto funzione decorativa, ma sono nalizzate
all'accompagnamento e all'esplicazione del testo.
Inizierà così, in particolare in Germania, dove trovano un mercato facile e continuo, una
produzione notevole di erbari a stampa, che si susseguiranno a ritmo sempre più serrato:
alle prime edizioni delle più importanti opere di botanica antica e medievale, come il Plinio
del 1469, il Macer Floridus del 1477, il Dioscoride del 1478, l'Alberto Magno anch'esso del
1478, il Teofrasto del 1483, si afancheranno le stampe dell' Herbarium Apulei Platonici,
nelle edizioni di Roma 1480 e 1483-84, e di Passau 1485 e 1486.
Particolare interesse riveste l'edizione romana dell'Apuleio del 1489, pubblicata da
Giovanni Filippo da Lignamine col titolo di Liber de herbis sive de nominibus ac virtutibusherbarum, conservato nella Biblioteca di Cassino ed ornato di disegni di piante a penna.
L'opera in un'altra edizione del 1483-84 dedicata a Giuliano della Rovere, è tratta da un
manoscritto del X secolo, l'Herbarium cum guris edito a Magonza da Pietro Schoeffer nel
1484 ed ornato di rozze gure a tratto, riproduce una compilazione delle opere dei principali
farmacologi cristiani ed arabi del Medioevo, con particolare riferimento alle Pandectae di
Matteo Silvatico.
Un discorso a parte merita il Promptuarium medicinae del padovano Giacomo Dondi
pubblicato a Venezia nel 1481, la cui opera composta nel 1355 e cominciata come
Herbolario vulgare è ritenuta in un primo momento da Jean Baptista Saint-Lager 45, come
matrice dell' Herbario, del Grant Herbier en francoys, dell' Herbolario volgare, e dell' Hortus sanitatis, rispetto al quale avrebbero costituito delle varianti.
In realtà lo stesso autore46, nella sua Recherches sur les Ancien Herbaria ammette che da
un esame approfondito l'opera del Dondi è "un catalogo di Semplici classicati sulla base
delle loro virtù terapeutiche e che non contiene alcuna descrizione". Seguiranno l' Herbarius edito anch'esso a Magonza nel 1485, il Tractatus de virtutibus herbarum edito a Vicenza nel
1491, che riproduce la compilazione più nota in Italia come Aggregator simplicium attribuita
ad Arnaldo di Villanova, ma più probabilmente dovuta al padovano Giacomo Dondi, edita
ripetutamente sul nire del '400 e, nella sua forma migliore, in questa edizione vicentina;
45 J. B. SAIN-LAGER , Histoire des herbiers, cit.46 Lo stesso,Lo stesso, Recherches sur les Ancien Herbaria, cit.
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l' Hortus sanitatis edito a Magonza nel 1491 da Jacob Meydenbach, prima edizione a stampa
di questa opera che conoscerà più edizioni nel corso del secolo successivo, ricchissima di
immagini xilograche più o meno rozze, ma efcaci; e il Tractatus de virtutibus herbarum pubblicato a Venezia nel 1499 ed in varie altre edizioni che chiuderanno la produzione
incunabulistica in materia. E' da sottolineare soprattutto che, come risultato dell'attivissimo
lavoro di revisione e di traduzione eseguito dai nostri umanisti nel corso del secolo XV, si
affermerà soprattutto il valore assolutamente predominante del trattato di materia medica di
Dioscoride, sfrondato dalle interpolazioni ed alterazioni operatevi nel Medioevo dagli autori
sia cristiani che musulmani. L'edizione principe del testo greco apparsa a Venezia nel 1499
per i tipi di Aldo Manuzio e le successive edizioni e traduzioni nei commenti di Ermolao
Barbaro, Marcello Virgilio Adriani, Jean Ruel ed altri, prepareranno intanto la comparsa del
famoso commentario di Pietro Andrea Mattioli che, attraverso una sessantina di edizioni
latine, italiane e di traduzioni nelle principali lingue europee, oscurerà tutti i precedenti
trattati, ed anche grazie alle eccellenti illustrazioni che corredano le sue principali edizioni,
rappresenterà no alla ne del sec. XVII, uno dei trattati fondamentali, non solo per i
farmacologi, ma anche per i botanici sistematici.
E' certo che in queste stampe, al rigore umanistico che è particolarmente attento ai testi
ed alla loro rigorosa interpretazione, si afancheranno, per esigenza comunicativa, che si
avvale di un linguaggio scientico non consolidato ed ancora incerto, la forza delle immagini
le quali, attraverso un sistema rappresentativo adeguato, renderanno sufcientemente
comprensibili le ricerche dei naturalisti.
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Il codice α. M. 5. 9 = est. 28 Herbolaire o Grant Herbier
Nel nucleo di codici in lingua francese che la Biblioteca Estense Universitaria conserva,
si segnala, per l’affascinante argomento affrontato e per la ricchezza di miniature, il
manoscritto (α. M. 5. 9 = Est. 28) contenente un Herbolaire o Grant Herbier . E’ il titolod’insieme che lo individua e che compendia la materia di cui tratta, meglio esplicitata dalla
sia pur breve descrizione contenuta nel catalogo manoscritto redatto da Carlo Ciocchi e da
Antonio Lombardi47, sotto la direzione del bibliotecario gesuita Girolamo Tiraboschi, negli
ultimi anni del Settecento, e ancora in uso per le ricerche sul fondo antico dei manoscritti
della Biblioteca.
Al n. XXVIII dei codici esteri, dopo l’attuale collocazione (α. M. 5. 9) e quella precedente
più antica (olim XII. K. 16) si legge infatti:
“DE URFE’.
Dictionarium Gallicum herbarium cum herbis elegantissime expressis, litterisque
versicoloribus, auroque ut plurimum intextis. In quo herbarium virtutes, atque ut in extremo
opere dicitur secreta salernitana continentur .
Codex membran., in fol°, sec. XIV, (sec. XV)”, Notazione quest’ultima aggiuntaXIV, (sec. XV)”, Notazione quest’ultima aggiunta
posteriormente sulla scorta di elementi successivamente acclarati.
A parte due gravi imprecisioni riguardanti, come vedremo, sia l’autore che la datazione,
la notizia catalograca sta ad indicare la presenza in Biblioteca, già alla ne del sec. XVIII,
di tale cimelio, considerato dagli studiosi una pietra miliare e una fonte ineludibile per lo
studio della botanica medicinale, unitamente ad un altro codice estense, il latino 993 (α.
L. 9. 28) le cui antiche collocazioni (V. G. 14 e XII. K. 19), in specie l’ultima, in ordine di
tempo, rivelano la vicinanza, per l’afnità della materia trattata, con l’est. 28, (XII. K. 16)
negli scaffali della Biblioteca Ducale.
L’ Herbolaire, pur indicato costantemente come proveniente dall’antico fondo estense,non è facilmente identicabile nei più antichi inventari della Biblioteca, anche se quello
redatto dal maestro di Ludovico Muratori, Benedetto Bacchini nel 169748 sembra rivelare
una verosimile afnità attraverso l’indicazione al n. 466: “Monsieur d’Urfé simplicista in
francese, gurato, in 4°, pergam.”.
Il riferimento al D’Urfé trova riscontro nell’annotazione di mano diversa, con grandi
caratteri maiuscoli, che potrebbe essere verosimilmente una nota di possesso posta in
basso sul primo risguardo “livre des simples A Mons.r Durfe” e ancora più in basso “Il
Semplicista”.
Il Bacchini potrebbe avere scambiato il D’Urfé per l’autore o comunque averlo preso
come punto di riferimento, come parola signicativa per identicare l’erbario.Quella che nora è stata unanimemente ritenuta una seconda nota di possesso riguardante
un altro francese “Johan Deboys” è presente nell’ultima carta, in basso, dopo l’explicit, ma,
come vedremo, è molto probabile che si tratti di una sottoscrizione autografa.
Il periodo preciso in cui il manoscritto perviene ai fondi della Biblioteca non è comunque
identicabile, poiché né l’inventario di Niccolò III risalente al 1436, né quello di Borso
47 C. CIOCCHI-A. LOMBARDI, Manuscriptorum codicum bibliothecae Atestiae catalogus in quinque partes
tributus, Vol. 2 ,, ms. in folio, sec. XVIII, Modena, BEU, Cat. 9. 1-2
48 B. BACCHINI, Registro de’ manoscritti della Biblioteca del Ser.mo Sig. Duca di Modena, sec. XVII, (1697)
v. 1, ms., in folio, (originale in ASMO. La copia presente in Biblioteca Estense Universitaria porta la data del30.12.1756).
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risalente al 1467, né quello di Ercole I d’Este risalente al 1495, né ancora quello di Alfonso
II, del 1598, portano traccia dell’ Herbolaire. E’ da sottolineare però che troviamo, anche
se privi di elementi certi, per un’identicazione, un “libro signato de sovra Circa instans”
e un “Tachuino de la sanità in medexema” nell’inventario di Niccolò III e un “Tacuynus
sanitatis” nell’inventario di Borso, al quale Giovanni Cadomosto da Lodi dedica nel 1471
un Libro de componere herbe et fructi ricchissimo di miniature ora conservato a Parigi
tra i manoscritti italiani (M. 1108-1109) della Biblioteca Nazionale di Francia, e inne un
“ Proprietas herbarum” nell’inventario di Ercole I.
Nonostante la mancanza di una sostanziosa documentazione, sappiamo però che gli
Estensi nutrivano un vivo interesse sia per la botanica pura e semplice, sia per quella
medicinale rapportata al potere terapeutico delle piante, e gli studi in materia hanno provato
la presenza di un certo numero di giardini dei semplici a Ferrara.
Scrive Kurt Sprengel nel 180749 che il celebre ferrarese Antonio Musa Brasavola, medico
di Alfonso I, duca di Ferrara “Herbarium ipse collegit ditissimum”. Il fatto che il Brasavola
avesse un giardino botanico è comprovato da altri studi più recenti tra i quali quelli di
Edmondo Brighenti50 tra il 1942 e il 1950 e di Gina Luzzato51 nel 1951.
Lo stesso Brasavola ci dà testimonianza dell’esistenza di quel giardino in un suo libro
edito nel 153652 a proposito di una promessa fattagli dal duca Alfonso, in virtù della quale,
se fosse guarito dalla malattia di cui era afitto, gli avrebbe “decretato un grande giardino”
ed avrebbe mandato “a suo comodo dei messi con l’incarico di portare erbe non esistenti a
Ferrara”.
Lo Sprengel53 ricorda che il Duca istituì un Giardino Botanico nell’isola del Po
identicabile con il Belvedere e aggiunge “Il Duca regalò al Brasavola del terreno dove
parimenti fu installato un giardino botanico”.
Antonio Frizzi54 nel 1847 ricorda che Antonio Brasavola ebbe un orto di semplici “a cui
aggiunse pregio Ercole Duca, col provvederlo di piante esotiche in abbondanza”.Lo stesso Brasavola55 scrive due libri sui semplici e sui preparati galenici. Giova anche
ricordare, a proposito dell’interesse degli Estensi, la composizione in tale periodo di un
catalogo del tutto particolare, un erbario, di autore anonimo, conservato all’Archivio di
Stato di Modena, costituito da esemplari di erbe medicinali dissecate e incollate ai fogli, con
una selezione di 182 piante, in sostanza quello che viene denito un “ Hortus siccus”56.
La presenza certa in Biblioteca può essere invece stabilita attraverso un elemento esterno
del codice, la legatura cosiddetta “tiraboschiana” eseguita appunto sotto la Direzione di
Girolamo Tiraboschi, nella seconda metà del sec. XVIII, a partire dal 1772, data quindi da
considerare post quem, anno in cui il presidente Fabrizi, inviando la relazione sui lavori
49 K. SPRENGEL, Historia rei herbarie, Amsterdam, 1807
50 E. BRIGHENTI, Botanici e studi botanici a Ferrara nella metà del secolo XV alla ne del XVI , Ferrara, s. d.
[1942-1950]
51 G. LUZZATO, Orti botanici privati, orto botanico e semplicisti all’epoca dei duchi d’Este a Ferrara, in “Atti
dell’Accademia delle Scienze di Ferrara”, 28 (1951), pp. 101-148
52 A. M. BRASAVOLA, Examen omnium simplicium, Lyon, 1536
53 K. SPRENGEL, Op. cit.,
54 A. FRIZZI, Memorie per la storia di Ferrara, Ferrara, 1847-48
55 A. M. BRASAVOLA, Examen omnium simplicium, cit.; Lo stesso, Index refertissimus in omnes Galeni libros,
Venezia, 1577
56 ASMO, Erbario Ducale Estense del secolo XVI sul ne. Questo Hortus siccus fu studiato da J. CAMUS e
da O. PENZIG nel loro saggio: Illustrazione del Ducale Erbario Estense conservato nel R. Archivio di Stato in Modena, Modena, 1885.
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della biblioteca per il 1771, proponeva, a nome del Tiraboschi, una nuova legatura in
vacchetta dei manoscritti antichi “che pel decorso dei tempi si trovano sfasciati o prossimi
a sfasciarsi”57. Nel 1775 erano già rilegati 478 codici, come emerge dalla relazione dello
stesso Fabrizi per l’anno 1774.
Con tale epocale rinnovamento al quale andranno incontro le legature dei codici più
importanti, con evidenti irreparabili perdite per la conservazione degli antichi manufatti, fu
riservato ai manoscritti un trattamento particolare come quello dei fregi in oro sui piatti e
sul dorso, con doppia cornice a secco con motivi che sono tipici del ‘700.
In merito a tale operazione occorre sottolineare che al contrario di Antonio Lombardi, il
quale segnala che nel 1755 i codici più prestigiosi furono “superbamente rilegati … e così
l’esterno ornamento corrisponde assai bene all’interna magnicenza di questi monumenti
della Estense grandezza”58, fa tuttavia giustamente e saggiamente rilevare Giuseppe
Fumagalli59 che “a quei degnissimi bibliotecari non passò neppure per il capo il pensiero
che tale corrispondenza si sarebbe avuta assai meglio conservando e restaurando le legature
originali! […]. Queste preziose e artistiche legature … furono completamente distrutte
appunto nel periodo della direzione del Tiraboschi”.
Attualmente la robusta legatura in bazzana cartonata dell’ Herbolaire, elemento esterno
di tale manufatto, chiaramente identicabile in quell’operazione settecentesca, risulta in
buono stato di conservazione, anche se la bazzana rossa iniziale ha assunto una colorazione
più sbiadita e tende al rosso-bruno, nei due piatti caratterizzati da risguardi a secco e nel
dorso, a causa dei danni provocati nel tempo dalla luce.
Sul dorso i 6 nervi in capra allumata sono ben evidenziati dal rilievo che essi provocano
sulla pelle e dal doppio letto in oro che incornicia la nervatura stessa.
In alto, in oro, è impresso il titolo, rispondente a quello riportato dal catalogo del Ciocchi
e che testimonia ulteriormente come la legatura sia da rapportare alla ne del sec. XVIII:
“ Dictjonar gallicum Hrbarum (sic)”.In basso, sempre impresso in oro, che mostra i segni del tempo, lo stemma estense
inquartato.
Il capitello passante all’esterno, sia superiore che inferiore, è in lo grezzo e rosato ed è
in discrete condizioni.
L’unghiatura dei piatti è leggermente consumata per l’abrasione della pelle dovuta allo
sfregamento sul palchetto.
La controguardia posteriore presenta una tarlatura al piede e all’angolo destro.
Passando alla descrizione interna del manoscritto, si nota anzitutto che il supporto
scrittorio è costituito da una pergamena ben curata e sottile tanto da creare trasparenze per
le gure miniate poste sia sul recto che sul verso delle singole carte, il che fa pensare adun’opera approntata per un qualche personaggio e non per mere ragioni di studio.
Il manufatto, contenente il testo dall’incipit all’explicit , è composto di 170 carte, più un
foglio di guardia iniziale e uno nale. La numerazione a matita in numeri arabi è recente
ed è posta sul margine inferiore sinistro del recto di ciascuna carta. Le due carte di guardia
libere sono numerate rispettivamente con un “I” romano, mentre una seconda carta iniziale
57 ASMO, Carte del Consiglio di Economia, 1772
58 A. LOMBARDI, Storia della Biblioteca Estense dalla sua origine no all’anno 1847 [proseguita da Carlo
Borghi no all’anno 1869], BEUMo, ms.It.1433=α.F.3.10, Sec.XIX, c.24v.
59 G. FUMAGALLI, L’arte della legatura alla corte degli Estensi, a Ferrara e a Modena, dal sec. XV al XIX ,Firenze, 1913, pp. LVII-LVIII
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risulta con il recto incollato sul piatto interno della legatura anteriore e una seconda carta
nale mostra il verso incollato anch’esso sul piatto interno della legatura posteriore.
Le colonne in totale sono 680, quelle composte interamente di testo sono 310, quelle che
portano il testo unitamente a miniature di varia grandezza sono 370.
Sul margine alto della carta incollata sul piatto anteriore è posta la più recente collocazione
a matita “alfa. M. 5. 9 (E. 28)”, mentre al centro, in alto, della carta incollata sul piatto
posteriore è posto un cartiglio, l’ex libris del codice che riporta tre collocazioni: “Ms. XI.
B. 20; XII. K. 16; E. 28 alfa. M. 5. 9”. Le prime due, a inchiostro, sono cancellate da tratti
di penna, evidentemente per dare spazio e credibilità all’ultima delle tre.
Sul margine inferiore sinistro del recto della carta di guardia anteriore è posto il vecchio
timbro a inchiostro rosso della Biblioteca “BE” inscritto in un piccolo rettangolo di mm. 170
x 100. Il timbro è ripetuto sul margine inferiore destro della prima carta del testo, al centro
del margine inferiore dell’ultima carta del testo e ancora al centro del margine inferiore del
verso della carta di guardia, che riportano appunti e ricette scritte posteriormente da mano
diversa di quella che ha vergato il codice.
Lo specchio della pagina è costituito dalla rigatura a piombo che delimita due colonne,
ciascuna delle quali ha 43 linee sia che riporti un testo pieno, sia che esso sia intervallato da
miniature, sullo sfondo delle quali è comunque ben visibile la rigatura, il che testimonia che
il copista procedeva prima di tutto alla rigatura e poi disponeva il testo lasciando lo spazio
per l’intervento del miniatore.
La scrittura bastarda con cui il testo è vergato, derivata dalla corsiva gotica, con inuenza
della cancelleresca italiana, è quella usata in Francia nei sec. XV e XVI. I numerosi segni
di abbreviazione che la caratterizzano e la stessa morfologia dei caratteri bastardi rendono
oggettivamente ostica la lettura del testo, e in particolare di quello posto sulle due carte di
guardia, che riportano appunti e ricette scritte posteriormente da mano diversa di quella del
testo del codice.Il manoscritto è riccamente miniato60 come dimostrano le 391 gure delle quali la parte
maggiore, 355, riguarda l’illustrazione di piante, ori, radici con immagini che documentano
il testo, mentre solo 26 riguardano animali o minerali e 10 le scene miniate.
Il codice, privo di frontespizio e pertanto “acefalo”, ha inizio con l’ incipit che a c.1r.,
nella colonna di sinistra, con una grande “E” miniata, recita: “ En ceste présente besoigne
c’est nostre propos et entencion de traiter des simples médicines…”, cioè a dire: “Nella
presente occorrenza è nostro proposito e intenzione trattare delle medicine semplici…”, per
poi spiegare “ed è opportuno sapere che la medicina viene denita semplice in quanto essa è
come la natura l’ha prodotta e formata”. Dunque una dichiarazione d’intenti e un chiarimento
circa la materia oggetto della trattazione che però non fornisce alcuna indicazione circal’autore del testo o il miniatore, per cui il manoscritto sarebbe da considerare adespoto. C’èC’è
tuttavia da osservare che dopo l’explicit “ Et pour éviter prolixité, cy est la n de ce livre,
en quel sont contenus les secrés de Salerne. Explicit Explicit ”, segue una rma autografa, quella di
Jehan Duboys in grandi caratteri corsivi. Tale elemento farebbe cadere l’ipotesi avanzata
con una assoluta certezza da Jules Camus, il quale nel 1886 pubblica un corposo saggio
nel quale esamina i rapporti intercorrenti tra i due erbari estensi e il testo del Circa Istans e del Grant Herbier en Françoys, e, per quanto riguarda l’explicit del manoscritto francese
estense, scrive: “Sotto, nel margine, trovasi scritto da mano meno antica, un altro nome di
60 v. sull’argomento la trattazione specica, in questo stesso commentario, sul capitolo riguardantel’illustrazione degli erbari e l’esegesi artistica del codice.
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possessore “Jean Deboys”61, ipotesi poi avvalorata da tutti coloro che nel sec. XX si sono
interessati ed hanno scritto sul codice “ E. 28”.
Se però partiamo dal presupposto che quella nale è una sottoscrizione autografa, come
sembra verosimile, pur divergendo nella forma dai classici colophon presenti in molti
manoscritti, c’è da pensare che il Duboys sia il copista del codice per il quale non compie
però una mera operazione di copiatura, ma, pur non potendo stabilire con un certo grado
di certezza che egli stesso sia il raccoglitore o l’epitomatore del “Circa instans” o del
“Grant Herbier ”, come dimostrano alcuni accenni all’autore presenti via via nel testo,
egli interviene in vari punti con considerazioni personali tendenti ad integrare il testo e
quindi potremo considerarlo un autore con responsabilità di secondo grado rispetto al testo
complessivo. Ne sono esempi probanti le citazioni con integrazioni dell’estensore:
questo libro “Ce livre n’en dit point ses vertuz ” 151v., 164r.
l’autore del testo orig. l’acter qui st ce livre en mist en pain…” (modalità terapeutica) 164r.
E altri esempi ci vengono dal frequente richiamo all’autore o agli autori:
l’autore “l’acteur”, “cest acteur” 65v., 121v., 127v., 130r., 134v., 136r.
questo autore “selon ce que cest acteur” 65v., 121v., 127v., 130r.
l’autore “je pleutaire ay veu par expérience” - “la quelle chose je dy estre possible” -
“je loue que …” 7r., 162v., 170v.
autori “les acteurs, “lesles atteurs”, 4v., 10v., 23v., 24v., 30v., 56v., 58r., 85r., 94r.
“aucuns acteurs, ung acteur” 96v., 97r., 98r., 108v., 114r., 146v., 149r.
autori di medicina “acteurs de médicine”, 97r.
gli antichi “les anciens”, “aucuns anciens ont dit” 1v., 46r., 69v., 98v., 110r., 115v., 162v.
Inoltre la conferma che il testo dell’erbario sia una sorta di summa dei saperi in
materia noti all’epoca, ci viene da una continua quanto scrupolosa citazione delle fonti
con l’esplicitazione dei nomi dei vari maestri che hanno fatto la storia dell’erboristeria
medicinale:
Asclepio (Esculapio) “ung autre maistre nommé” 56v.
Aristotele “selon que dit Aristote” ; “dit Aristote ou livre du régime des princes” 101v.,
164r. , 168v.
“ En dit Aristote que…”
Avicenna “Avicenne dit” 56r.
61 J. CAMUS, L’opera salernitana, “Circa instans” ed il testo primitivo del “Grant Herbier en Françoys” secondo due codici del sec. XV conservati nella Regia Biblioteca Estense, Modena, 1886, p. 57
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Costantino Constantin 2v., 10v., 36r., 40v., 41r., 51r., 66v., 123v.,
124r., 124v., 130r., 147r., 154r, 157v.124r., 124v., 130r., 147r., 154r, 157v.
Dioscoride “maistre Dyascorides” 12v., 24r., 24v., 35r., 51v., 56v, 70v., 72v., 73r.,
77v., 79r., 81r., 81v., 96v., 97v., 100v., 107v., 116v.,
120r., 128r., 128v., 130r., 137r, 137v., 149r., 149v.,
150r., 152r., 156r., 158r., 158v., 161v., 162v., 165v.
farmacisti “les appoticaires font” 38r., 127r.
Galeno Galien 2v., 13r., 21v., 48v., 51v., 72r., 77r., 91v., 126v.,
128v., 130v., 137r., 147v., 156r., 168r., 169r.
Ippocrate “Ypocras, vel deus est” (164v.) 33r., 33v., 50v., 51v., 79r., 160r., 164v.
Isacco Ysaac 13v., 21v., 31v, 50r., 51v., 56r., 78v., 97v., 98v.,
100r., 103r., 120r., 126v., 136r., 137r., 141v., 144v.,
159v., 162v., 170r.
Macer Macer 12v., 14v., 15v., 31r., 46r., 54r., 102r., 107v., 135r.
maestri vari “les maistres” 61v.
maestro, il (Macer) “le Maistre dit…” 15r.
medici “ les médicins”; “aucuns médicins usent” 62r., 82v., 93r, 164r.
Mitridate “la recepte du Métridat le grant” 160r.
Omero “selon que dit Homer, ung maistre qui dit, ung homme appellé Mercure la
trouva” 92v.
Pietro “ung nommé Pierret” 70v.
Plinio “un docteur appellé Plinius” 54r.
sapienti vari “moult de saiges” 20r., 31r.
sperimentatori vari “aucuns expérimenteurs” 58r., 59v.
Tacuin “ung acteur appellé Tacuint” 159v.
Plateaire, maestro di Salerno
“Plateaire: ce fut ung maistre de Salerne” 40v.
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Salerno: le donne “les femmes de Salerne” 29v., 35v., 36r., 40v., 95r., 131r., 135r.,135v., 147r.,
149r.
Salerno: vari “ceulx de Salerne”; “cy est la n de ce livre, en quel sont contenus les secrés
de Salerne” 136v., 170v.
Sono inne testimonianze della Summa creata dall’estensore le citazioni di testi e di
formule:
libri vari “aucuns livres” 7r., 149v.
« Antidataria » “Antidotaire”, “Entidotaire” 10v., 86v., 110r., 111v., 144v.
“Passionare” “livre appellé “Passionare” 144v.
precisazioni “choses…” 166r. (sub Triticum)
preghiere, versi prières, oraisons, vers 25v., 36r., 36v., 54r., 66v., 139r.
Tutti questi elementi, che attribuiscono evidentemente una qualche responsabilità
dell’opera a Jehan Duboys, fanno emergere la completa inesattezza dell’indicazione
contenuta nel catalogo settecentesco del Bacchini e del Ciocchi che l’attribuivano al “De
Urfe”.
Il Camus nel suo saggio ottocentesco62 segnala infatti che “[…] le suddette indicazioni
racchiudono alcune inesattezze, che forse costituiscono una delle cause per le quali i due
codici hanno potuto sfuggire alle pazienti e minute indagini fatte dal De Renzi, dal Puccinotti
e da altri nelle biblioteche italiane”.
Una di queste inesattezze è anche l’indicazione del Bacchini e del Ciocchi-Lombardi
circa l’epoca in cui il codice fu composto: “sec. XIV”, datazione evidentemente erronea già
corretta nel 1833 in un successivo catalogo della Biblioteca Estense63.
Anche se non è possibile stabilire una datazione certa tuttavia, partendo dalle osservazioni
del Camus64, che raffronta i due erbari estensi, dal momento che quello latino, il Tractatus
de herbis lat. 983, erroneamente attribuito a Dioscoride, porta nell’explicit la datazione
del 1458, mentre l’ Herbolaire francese ( Est. 28) non datato e meno ricco, sia per quanto
riguarda il contenuto che l’aspetto iconograco, ipotizzando una derivazione del codice
francese da quello latino, sembra verosimile poter affermare che la stesura dell’ Herbolaire sia da collocare in un tempo successivo, sia pure di poco, rispetto al primo, e quindi intorno
al 1470 o poco oltre.
Gli altri studiosi che hanno considerato il problema della datazione dell’ Est. 28 si sono
fermati alla generica proposta di datazione al sec. XV, mentre, Lucia Tongiorni Tomasi 65 mettendo a confronto i due codici estensi, dopo avere osservato che l’ Herbolaire è ascritto
62 Lo stesso, L’opera salernitana “Circa instans”, cit., p. 55
63 Conspectus codicum linguarum exterarum, Cat. mss, 1833
64 Lo stesso, L’opera salernitana “Circa instans”…, cit., pp. 55 e segg.
65 L. TONGIORGI TOMASI, Dalla “medicina verde” al naturalismo: l’immagine botanica e zoologica neimanoscritti e nei primi testi a stampa sul nire del ‘400 in: Immagine e natura, Modena, 1984, p. 37
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nel catalogo di manoscritti estensi “erroneamente al secolo precedente”, scrive: “Il primo
redatto e dipinto nel 1458, è infatti frutto della collazione di svariati testi medico-scientici,
tra cui passi di Avicenna, di Rhazes e di un Circa Instans salernitano, mentre il secondo,
anch’esso ascrivibile alla seconda metà del XV secolo, dipende in gran parte dal primo, sia
dal punto di vista testuale sia per l’apparato iconograco […]”.
Ma il problema della datazione non è l’unico che nasce dal confronto dei due cimeli,
a partire dall’interesse derivante dallo studio del Camus che li aveva portati nel 1886 alla
conoscenza e all’attenzione della comunità scientica.
Il Camus aveva ipotizzato, attraverso una dettagliata collazione, che il ms. lat. 993,
descritto nel catalogo settecentesco della Biblioteca Estense sotto il nome di “Dioscorides,
ritenuto l’autore come Discorides, Tractatus de herbis, cum Platonis, Galieni et Macri
hujusmodi a Barth. Mundsens. Codex membranaceo, cum guris coloribus depictis, in fol°,
saec. XV” corredato dall’indicazione delle sue antiche collocazioni (V. G. 14) e (XII. K.
19), e che nel suo incipit recita: “Circa instans negocium in simplicibus medicinis nostrum
versatur propositum”, costituisce la versione più vicina e originale no allora nota del Circa
Instans salernitano, e che l’ Herbolaire ne sia una diretta derivazione di poco posteriore al
1458.
Se percorriamo le vicende del codice francese sotto il determinante aspetto della
conoscenza e quindi degli studi e degli adempimenti che lo hanno riguardato, dal momento
della sua messa a fuoco, confortati anche dalla consultazione dello schedone interno che
accompagna ciascun manoscritto e che aiuta molto spesso a focalizzare le tappe signicative
del codice attraverso le annotazioni, compiute di volta in volta, dei nomi di coloro che lo
hanno esaminato, studiato, chiesto il microlm o la riproduzione fotograca delle miniature,
troviamo dei riscontri interessanti.
Non a caso il primo di quell’elenco, è proprio Jules Camus “professore di Parigi” che
per il suo studio dell’ Herbolaire effettua dal 6 marzo 1886 all’ottobre del 1888 ben quattroconsultazioni dirette in Biblioteca Estense, facilitate dalla sua presenza a Modena in quanto
“professore della R. Scuola Militare di Modena”. Al tempo la Biblioteca Estense sta per
trasferirsi nell’attuale sede del Palazzo dei Musei, ma i manoscritti sono ancora alloggiati
nel Palazzo Ducale, sede di quella Scuola, e quindi a disposizione per una comoda
consultazione. Sono gli anni in cui lo studioso sta preparando un saggio sui codici francesi
conservati dalla Biblioteca, che infatti vede la luce nel 188966.
In questa pubblicazione, al n. 28 egli annota il codice XII. K. 16 sotto il De Urfe, che
però sottolinea essere uno dei possessori del codice e non l’autore, così come quel “Jehan
Duboys” che “trovasi sull’ultimo foglio” e che il Camus interpreta come un’annotazione
“con carattere posteriore a quella del manoscritto” e non come la rma autografa di chisottoscrive l’opera. Il codice, egli sostiene, “porge la traduzione francese anonima di uno
dei più importanti libri di medicina nel medioevo il quale era disegnato colle prime parole
del suo prologo “Circa instans” e che venne attribuito ad un Plateario, medico della scuola
di Salerno”, e aggiunge che “la Biblioteca Estense possiede di quest’opera latina una copia
manoscritta riccamente miniata, segnata XII. K. 19, la quale venne eseguita in Francia nel
secolo XV” citando a riprova l’explicit di tale codice che dichiara essere stato scritto “a
Bourg” da un “petit Pelous” nell’anno “1458”67.
Delle consultazioni del codice latino Tractatus herbarum da parte del Camus, proprio nelle
66 J. CAMUS, I codici francesi della regia Biblioteca Estense, Modena, 188967 Ibidem, cit., pp. 22-23.
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stesse date del codice francese e con un’appendice nel gennaio 1891, esiste la prova nello
schedone che accompagna quel manoscritto, segnalato sotto il nome di “Dioscorides”.
E’ da notare che entrambi i manoscritti consultati portano ancora la collocazione XII. K.
16 e XII. K. 19 e non quella con l’alfa che sarà assegnata da lì a poco nella nuova sede del
Palazzo dei Musei.
Dei due codici il Camus si era già interessato, pubblicando nel 1886 l’ampio saggio che
li aveva messo a confronto con un’analisi lologica puntuale68.
Jean-Baptiste Saint-Lager 69 si era dichiarato d’accordo con il Camus, in una ricerca edita
qualche mese dopo, ma nel medesimo anno dell’opera del suo contemporaneo.
Frank J. Anderson,70 dopo circa un secolo, contesterà la tesi del Camus, ma se ancora
rimane incerta e controversa la derivazione del testo del Lat. 993 e di conseguenza dell’est.
28, pare incontrovertibile lo stretto legame, pur con le differenze segnalate, tra i due codici
e il loro rapporto di interrelazione appare sotto vari aspetti convincente anche se il loro
approdo alla Biblioteca di Modena avviene in modi diversi, con una notevole discrasia
temporale, attraverso un tanto strano quanto miracoloso riavvicinamento: il Tractatus de
Herbis giunge a Modena attraverso l’eredità ricevuta dagli Estensi nel 1817 con la Raccolta
Tommaso Obizzi del Catajo, mentre, l’Herbolaire appartiene all’Antico Fondo Estense dal
quale probabilmente non si è mai allontanato segnalando la sua presenza certa, come già
evidenziato, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.
Se ammettiamo il rapporto intercorrente tra i due cimeli, dovremo ancora una volta
considerare quanto sia vago, indeterminabile e imprevedibile il destino delle cose e quindi
anche di quelle cose mobili cui si ascrivono documenti, manoscritti e libri, cioè gli strumenti
di studio e di ricerca che danno vita alla nostra Cultura.
Dopo questo notevole interesse di ne Ottocento, per i due codici estensi cala un lungo
silenzio appena interrotto da Domenico Fava, Direttore della Biblioteca Estense negli
anni ‘20 del secolo XX, che nel suo studio sulla Biblioteca71 li cita rispettivamente come“Dioscoride Tractatus de herbis [Lat. 993 = alfa. L. 9. 28]” ed “ Herbolaire o Grand Herbier [Estero 28 = alfa. M. 5. 9]”, senza alcun apporto di novità, se non quello della nuova
collocazione assegnata nella nuova sede, e la segnalazione che il codice Lat. 993 giunse in
Biblioteca con la raccolta dei 328 codici del Cataio dati in eredità ad Ercole III da parte di
Tommaso Obizzi e incorporato nella sezione dei manoscritti della Biblioteca per volere di
Francesco IV nell’anno 1817. “Il Dioscoride del sec. XV” è citato dal Fava tra i “superbi
documenti di miniatura francesi” che facevano parte della Raccolta Obizzi72.
Scorrendo lo schedone dell’ Herbolaire dobbiamo arrivare all’ottobre 1949 per trovare
un esame del codice effettuato da Kurt Weismann dell’Università di Princeton; e ancora un
esame delle miniature dalla Bibliotecaria orentina Anna Omodeo nel dicembre 1959.
68 Lo stesso, L’opera salernitana “Circa instans”…, cit, in: “Memorie della Regia Accademia di Scienze
Lettere ed Arti in Modena”, S.II, v. IV, pp. 49-199. Tale memoria venne recensita in “Romania”, XVI (1887),Tale memoria venne recensita in “Romania”, XVI (1887),
pp. 589-597; “Revue critique d’histoire et de littérature XXII (1888), pp. 349-353; «Archiv der Pharmacie»,
bd. XXV, Helft 15 (1887); « Revue de la Société française de Botanique », v. V (1888), pp. 207-212.
69 J.B. SAINT-LAGER , Recherches sur le Anciens Herbaria, Paris, 1886 dello stesso v. anche Histoires des
Herbiers, Paris, 1885.
70 F. J. A NDERSON, An illustrated history of herbals, New York, 1977, pp. 100-105.
71 D. FAVA, La Biblioteca Estense nel suo sviluppo storico, Modena, 1925, p. 275 n. 101 e 102. Per la fonte
v.: ASMO, Archivio Ducale Segreto, 1796-1803, B. 30, Recapiti riguardanti l’eredità Obizzi, inventario degli
effetti riguardanti l’eredità Obizzi. Sui rapporti degli Obizzi con gli Estensi, v. Gli Estensi e il Catajo, Milano,
2007.72 Ibidem, cit., p. 206
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Intanto qualche anno prima, nel 1950, in un suo saggio, Otto Pächt73, mettendo in dubbio
a distanza di più di 60 anni, la tesi del Camus, avanza la tesi che il manoscritto estense 993 sia derivato non dal “Circa istans” ma circa centocinquanta anni dopo la sua composizione,
dal mss. Egerton 747 con testo latino, dell’inizio del sec. XIV, conservato alla British
Library, il più precoce testo della famiglia salernitana corredato da illustrazioni che lo
studioso riconduce, basandosi sullo stile delle bordature e delle miniature, con il consenso
successivo di Bernhard Deghenhart e Annegrit Schmitt74, alla prima metà del Trecento,
in area meridionale, e più precisamente al centro di Salerno, sensibile all’inuenza araba,
il cui ruolo risulta fondamentale per gli studi medici, diffusi come Secreta salernitana o
“Circa Instans”.
Continuando ancora l’esame delle consultazioni effettuate, segue ancora una collezione
delle miniature e una richiesta di microlm effettuati nel luglio 1963 e nell’aprile 1964 da
Felix Bauman dell’Università Statale di Zurigo.
Nel 1965 viene registrato il prestito del microlm positivo alla Biblioteca Nazionale di
Berna.
Una riproduzione in microlm viene effettuata nel maggio 1973 dallo Studio Fotograco
Orlandini di Modena su richiesta di Luisa Cogliati Arano75 tramite la Casa Editrice Electa
di Milano. E’ proprio questa Casa editrice che in quell’anno pubblica il secondo volume
dell’opera sui manoscritti miniati della Biblioteca Estense curata da Domenico Fava e da
Mario Salmi con l’intervento di Emma Pirani che ha ripreso e completato lo studio dopo la
morte del Fava, includendo ed esaminando sia il codice francese (est. 28) che quello latino
(lat. 993)76, ma senza apporti degni di novità.
Un’altra riproduzione in microlm viene richiesta nell’aprile 1975 dalla Bibliotheque
Royale Albert I di Bruxelles, e alcuni fotocolor di diversa carta vengono eseguiti a scopo
editoriale nel 1976 e nel 1977 per conto dell’Istituto Geograco De Agostini di Novara.
Nel settembre 1979 Zoltàn Kàdàr dell’Università di Budapest, esamina il codice e lostesso fa nell’ottobre 1980 e nel maggio 1981 la bibliotecaria imolese Marina Baruzzi
Montanari la quale richiede il microlm di alcune carte.
Ancora nell’ottobre 1981 è il docente universitario svizzero Rudolf Bolliger ad esaminare
l’ Herbolaire a scopo di studio, operazione identica a quella che sarà effettuata nel luglio
1983 da Nella Maria Pasquinucci dell’Università di Pisa.
Sempre nel luglio 1983 e ancora nel settembre 1984 è Lucia Tomasi Tongiorgi
dell’Università di Pisa a compiere un accurato esame del codice. E’ il momento in cui la
Biblioteca Estense allestisce la mostra “Immagine e natura”77 e la studiosa che fa parte del
Comitato di coordinamento della manifestazione, partecipa alla pubblicazione e la correda
con alcuni saggi, dei quali uno78
prende anche in considerazione l’ Herbolaire e il Tractatus
73 O. PÄCHT, Early Italian Nature Studies and the Early Calendar Landscape, in “Journal of the Warburg and
Cortauld Institutes”, XIII (1950), pp. 13-47.
74 B. DEGENHART-A. SCHMITT, Corpus der italianichen zeichnunghen, Berlin, 1980, II, 2
75 L. COGLIATI ARANO, Tacuinum sanitatis, Milano, 1979; la stessa, Bestiari e erbari dal manoscritto alla
stampa in: La stampa e la divulgazione delle immagini e degli stili , a cura di H. ZERNER , Atti del XXIV
congresso internazionale di Storia dell’arte, Bologna, 1979, pp. 17-22
76 D. FAVA-M. SALMI, I manoscritti miniati della Biblioteca Estense di Modena, secondo volume, Milano,
1973, pp. 128-142.
77 v. catalogo della mostra: Immagine e natura. L’immagine naturalistica nei codici e libri a stampa delle
Biblioteche Estense e Universitaria. Secoli XV-XVII , Modena, 1984
78 L. TOMASI TONGIORGI, Dalla “medicina verde” al naturalismo: l’immagine botanica e zoologica neimanoscritti e nei primi testi a stampa sul nire del ‘400 in: Immagine e natura, cit., pp. 33-52
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de Herbis soprattutto dal punto di vista iconograco e ne propone due relative schede.
Pare giusto ricordare che qualche anno prima, nel 1977, con l’avanzare delle conoscenze
e degli studi, ancora una volta il Camus, come già accennato, viene messo in discussione da
Frank J. Anderson79, il quale sostiene, con una serie di prove convincenti, che il ms. latino
993 non è la versione originale del “Circa Instans”.
La Biblioteca Estense, nel tratteggiare la sua storia e quella dei suoi fondi in una
pubblicazione edita nel 1987 dall’editore Nardini di Firenze, nella collana riguardante
“Le grandi biblioteche d’Italia”, ha incluso due brevi schede riguardanti l’ Herbolaire e il
Tractatus de Herbis80.
La notorietà dell’ Herbolaire e del Tractatus herbarum, come conseguenza diretta
degli studi compiuti, portano i due codici in prestito per l’esposizione della mostra “La
scuola medica Salernitana, manoscritti, storia e immagini tra XI e XII secolo”, Salerno,
7.10.1988-8.12.198881.
Le altre consultazioni che, scorrendo lo schedone dell’ Est. 28, troviamo registrate,
evidenziano la notorietà ormai acclarata del codice, ma non la presenza comunque nalizzata
a pubblicazioni degne di nota, ma si può notare che il codice viene consultato da persone di
varia cultura ed estrazione che vanno dai botanici, ai farmacisti, agli storici dell’arte, agli
estetisti, agli studenti, quasi sempre con la richiesta di riproduzione di immagini destinate
a soddisfare i rispettivi interessi.
L’interesse suscitato attraverso gli studi e gli approfondimenti sui due grandi cimeli
estensi e, di conseguenza sulla materia, ha portato nel 1994 all’organizzazione a Modena,
presso la Biblioetca Estense Universitaria della mostra “In foliis folia. Erbari nelle carte
estensi” che ha riscosso un notevole successo, e che è stata corredata da un’omonima
pubblicazione82 nella quale si è dato rilievo anche ai due codici E. 28 e lat. 993, anche
attraverso l’ampia scheda, “Erbari estensi”, redatta da Paola Di Pietro.
Continuando nell’esame interno del codice, come appare chiaramente dal prospetto cheriporta la fascicolazione delle 170 carte complessive dell’ Herbolaire,
Fasc.1 quaderno (cc.1-8)
Fasc.2 quaderno (cc.9-14)
Fasc.3 quaderno (cc.15-22)
Fasc.4 quaderno (cc.23-30)
Fasc.5 quaderno (cc.31-38)
Fasc.6 quaderno (cc.39-46)
Fasc.7 ternione (cc.47-52) [ma binione per asportazione di un bifoglio confermato dalla
lacuna del testo tra le cc.49 e 50]Fasc.8 quaderno (cc.53-60)
Fasc.9 quaderno (cc.61-68)
Fasc.10 ternione (cc.69-74)
Fasc.11 quaderno (cc.75-82)
Fasc.12 ternione (cc.83-88)
79 F. J. A NDERSON, An illustrated History of the Herbals, cit.
80 E. MILANO, Biblioteca Estense Modena, Firenze 1987, pp. 98-99
81 La Scuola medica salernitana: storia, immagini, manoscritti dall'XI al XIII secolo, a cura di Maria Pasca,
Salerno, 1987.82 E. MILANO, In foliis folia. Erbari nelle carte estensi, Modena, 1994, pp. 62-64 e 75-88
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Fasc.13 quaderno (cc.89-96)
Fasc.14 quaderno (cc.97-104)
Fasc.15 ternione (cc.105-110)
Fasc.16 quaderno (cc.111-118)
Fasc.17 quaderno (cc.119-126)
Fasc.18 quaderno (cc.127-134)
Fasc.19 quaderno (cc.135-142)
Fasc.20 quaderno (cc.143-150)
Fasc.21 ternione (cc.151-156)
Fasc.22 quaderno (cc.157-164)
Fasc.23 ternione (cc.165-170)
il manufatto è composto da 17 quaderni o quaternioni e da 6 ternioni, più due bifogli, uno
iniziale e uno nale che costituiscono la controguardia e la guardia e, come già segnalato
a suo tempo dal Camus,83 “sfortunatamente questo codice manca di una decina di fogli, i
quali furono strappati isolatamente in diversi luoghi, prima della legatura”.
Infatti dall’esame puntuale delle carte del testo84 risultano purtroppo delle lacune testuali
dovute alla criminale asportazione di alcune carte del codice, avvenute in tempi remoti,
probabilmente durante la peregrinazione dei manoscritti estensi seguita alla devoluzione di
Ferrara del 1598, e alla conseguente venuta a Modena dove non avevano un alloggio unico
e sicuro, e comunque prima della legatura effettuata ai tempi del Tiraboschi. Infatti, dopo
quella legatura, non risultano elementi che possono giusticare un’asportazione, come
l’allentamento della cucitura o tracce di pergamena strappata. La numerazione delle carte e
matita è infatti avvenuta sul manoscritto così come si presenta attualmente.
Le interruzioni sono evidenti:
dopo c.49v.:
courges sauvaiges, la quelle huile est faite de huille de courge qui est appellé sividis [c.50r.]
[……..d ] escripte ne soufst soit doublée. En èvres très agues soit donnée celle En èvres très agues soit donnée celle (Manca il
seguito del testo tra la parte nale di “catapucia” e la parte iniziale di “courge”)
dopo c.85v.:
purgier, principalment le eume et puis après le humeur colérique et le humeur [c.86r.]
[………..] jus getté dedens le trou de la stule y fait aide merveilleuse et la netye (Mancail seguito del testo, relativo ai capitoli “golgemma” e “gélesie”, elenco della lettera H e
probabile inizio di capitolo).
dopo c.153v.:
83 J. CAMUS, L’opera salernitana “Circa Instans”…, cit., p. 57
84 Ricognizione effettuata di concerto con il Dott. Giuseppe Trenti che ha effettuato la trascrizione del testo
riportata in questo stesso commentario, con la Dott.ssa Milena Ricci, responsabile della tutela presso la
Biblioteca Estense Universitaria, e sentito il Sig. Pierangelo Faggioli incaricato della rilegatura del codicesuccessivamente alla sua riproduzione fotograca nalizzata alla produzione del facsimile.
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Spodium c’est os de éléphant brulé. Il est froit ou second dégré et sec ou tiers. Le éléphant [c.154r.] […………..].
Ial armoniac est chault et sec ou quart dégré. L’en l’appelle armoniac pour ce qu’il (Manca il seguito del testo relativo ai capitoli da “stanium” a “saxifrage”)
dopo c.167 :
mis sus. Item, pour oster verrues ou poreaux soient les mains lavées de l’eaue des feules :
dient aucunns que cest [c.168r.] […………..].
Uva, grape […………..] nourrist encore mieulx.
Ceste grappe meure est composée (Manca il seguito del testo, relativo ai capitoli da
“viticelle” a vilulidis” e prima parte di “uva”).
La certezza di tale asportazione si ha confrontando la fascicolazione laddove si può
rilevare che, proprio in corrispondenza delle lacune testuali dovute ad asportazione di
qualche carta, si hanno dei ternioni rispetto ai quaternioni che caratterizzano l’impostazione
della materia scrittoria in fascicoli di quattro fogli di pergamena e quindi di 8 carte.
Il testo del ms. est. 28 distribuito nelle 680 colonne complessive che lo compongono,
organizzato, così come quello del lat. 993, secondo la lettera iniziale della pianta, senza
tenere ovviamente conto del “De” che, quasi sempre, introduce le varie piante nell’elenco
generale che precede l’illustrazione analitica anticipata da un’illustrazione e che, per quanto
riguarda i vegetali, fornisce il termine latino, la descrizione botanica, l’habitat di origine,
l’ambiente e l’uso rapportato ai principi attivi di ciascun vegetale e alle sue proprietà
chimiche.
Tutti i nomi sono organizzati in sequenza nei cosiddetti “capitoli”, denominazione che
deriva dal termine usato nello stesso codice (v. chappitre c.44v.), nel quale però l’ordinealfabetico non è mantenuto nel loro interno85.
I capitoli che illustrano le singole piante, i minerali e gli animali, sono 405 rispetto ai
480 del lat. 993, e sono preceduti da raggruppamenti, in tutto 17, rispondenti ad altrettante
lettere dalla A alla Z. Manca la lettera Q per l’assenza di piante con tali iniziali, mentre per
la lettera Z, iniziale con la quale sono presenti 4 piante, manca l’elenco. Le lettere I, J, Y,
sono raggruppate in un unico elenco, così come le lettere U e V.
Manca l’elenco della lettera H a causa delle lacune testuali sopra evidenziate.
La sequenza delle piante è la seguente:
AVVERTENZE:
• Le carte contrassegnate da un asterisco si riferiscono a minerali o a materiali o
sostanze similari, comunque diverse dalle piante (n. 35)
• Le carte contrassegnate da un tondo si riferiscono a gure di animali (n. 7)
• I nomi delle piante, ordinati secondo la loro sequenza nelle varie carte, sono
85 L’ordine alfabetico è strettamente osservato nella sezione curata da Roberta Baroni con l’esame botanico
e chimico specico dei singoli vegetali, ivi compresi quelli menzionati nel testo, ma che non hannoun’illustrazione a corredo. V. tale sezione in questo stesso facsimile.
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indicati con la loro traduzione o individuazione italiana, tranne i casi in cui non è stato
possibile procedere alla relativa identicazione botanica.
• I numeri romani che accompagnano le carte indicano le colonne presenti nel
recto e nel verso delle carte.
c.1v. II Pianta di aloe (aloen; aloe vera, barbadensis)
c.3r. I Raccolta dell’aloe (ling aloen) da parte di un uomo che con una rete cattura
i piccoli tronchi trasportati dalle acque di un ume
c.3v. II Raccolta dell’oro (or ; aurum) da parte di un uomo che con un piccone scava
la roccia e ne stacca delle pepite
c.4r. II Coppa contenente argento vivo (argent vil )
c.4v. II Pianta di asaro (ase puante; asarum baccara, asarum europaeum)
c.5r. II Alberello di vitice (agno casto, agnus castus, vitex agnus castus) con piccole
bacche marroni
c.5v. II Raccolta dell’allume da parte di un uomo che con un piccone spacca una
roccia.
c.6r. II Pianta di sedano (ache; apium graveolens) con orellini gialli
c.7r. II Pianta di sedano palustre (ache ranin; apium raninum) con orellini gialli
a mazzetti
c.7v. I
c.7v. II
Piante di sedano emorroidario o sardonia (ache des émorroides; apium
emorroydarum) con orellini gialli
c.8r. I * Amido (amidum) a pezzetti entro un cesto
c.8r. II * Raccolta dell’antimonio (antinonium) da parte di un uomo che scava una
roccia con un piccone
c.8v. I Alberello di acacia (acacia sspp.) con piccole bacche viola scuro
c.9r. I Pianta di agarica (agaricus, polyporus ofcinalis) con funghi che crescono
dalle sue radici
c.9v. I Pianticella di aneto (anet; anethum graveolens) con orellini gialli a
mazzetti
c.10r. I Pianta di asfodelo (affrodillum; asfhodelus albus) con grosse radici
bulbose
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c.10r. II Due pianticelle di aglio (ail ; allium sativum) di cui una orita
c.11r. I Pianta di acoro (calamus aromatique; acorus calamus) con grossa radice a
rizoma
c.11v. II * Due pezzi di ammoniaca (armoniac)
c.12r. I Pianticella di anice (anis; pimpinella anisum) con orellini gialli a
mazzetti
c.12r. II Pianticella di assenzio (alvisne; artemisia absinthium) con orellini gialli
a grappolo
c.13r. I Pianta di anacardio (anacardi; anacardium occidentalis)
c.13r. II Albero di mandorlo dolce (amandes dolci; prunus dulcis) con drupe
marroni
c.13v. II Albero di mandorlo amaro (amandes amères; prunus dulcis) con drupe
c.14r. II Pianticella di aristolochia clematide (aristolgia; aristolochia clematis) con
orellini giallo pallido
c.14v. I Pianticella di aristolochia lunga (aristolge; aristolochia longa) con
orellini gialli
c.14v. I-
II °
Capodoglio dal cui stomaco si estraeva l’ambra grigia
c.15r. II Pianta di artemisia (armoise; arthemisia)
c.16r. II/1 Pianta di assenzio ( Alvisne, artemisia absinthium) con ori color arancio di
forma sferica
c.16r. II/2 Pianticella di assenzio selvatico (artemisia vulgaris) con orellini giallo
pallido
c.16v. * Aceto (vinaigre) entro un’anfora con anse
c.17r. II Pianticella di alcanna (alcanna tinctoria)
c.17v. II * Estrazione dell’oro (auri pigmentum) da parte di un uomo che con una
zappa attacca una roccia e ne ricava piccole pepite
c.18r. II * Due pezzi di asfalto o bitume (asphaltum seu bitumen)
c.18v. II Pianticella di acanto (acantum o branca ursina; acanthus mollis) con
orellini gialli a grappolo
c.19r. I Pianticella di adianto (adyanthos)
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c.19v. I Pianticella di agrimonia (aigrimonnie, acrimonia eupatoria)
c.20r. I Pianticella orita di ambrosia (apollinaire; o erba vaccina) con boccioli di
ori rosa
c.20r. II Pianticella di altea (althaea ofcinalis) con boccioli verdi chiusi
c.20v. II/1 Pianticella di asfodelo (affrodillum; asphodelus albus)
c.20v. II/2 Pianticella di ambrosia (apollinaire; ambrosia sspp) con ori verdi
palmati
c.21r. I Pianticella di asaro (asara baccara;asarum europaeum)
c.21v. I Pianticella di atreplice (arroche, atriplex; atriplex hortense)
c.21v. II Pianticella orita di rosa selvatica o rosa canina (anthera) con ori rossi,
gialli al centro
c.22r. I Pianticella di aconito anthora (aconitum anthora)
c.22r. II Due pianticelle di avena (avena sativa)
c.22v. I Pianticella di ameo (ameos, sison amemum) con orellini gialli a raggiera
c.23r. I/1 Pianticella di Cardamomo verde (cardamomum, elettaria cardamomum)
con inorescenza a grappolo
c.23r. I/2 Pianticella di alleluia o pandicuculo (alleluya, acitosella, oseille oxalis,
acetosella) con grossa radice a zizoma
c.23r. II Pianticella di acetosa (oxalis pes-caprae) con ore rosso su stelo centrale
c.23v. I Pianta di nocciolo avellana (corylus avellana) con frutto nocciola
c.25r. II * Raccolta del bolo (bolus) da parte di un uomo che scava il terreno con una
vanga
c.25v. II Pianta di melograno (mala granata; punica granatum) con ori rossi acampanula
c.26r. II Pianticella di borragine (borraches, borago ofcinalis) con orellini viola
c.26v. II Pianta di bancia ( pavaie) con orellini gialli a mazzetti
c.27r. I * Borace (borax) attaccato al fusto di un alberello
c.27v. I Pianticella di erba betanica ( stachys ofcinalis) con ori rosei-porporini
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c.29r. II * Gomma di bernix, che essuda da una pianta
c.29v. I Pianticella di acanto o branca ursina (acanthus mollis)
c.29v. II Alberello di berberi o crespino con ori rossi a campanula
c.30r. I * Tre conchiglie (belliculi marini)
c.30r. II Pianta di bistorta ( polygonum bistorta) con grosse radici marrone scuro e
ori chiusi di colore verde
c.30v. I Pianta di cotone bombax con ori rosa non ancora schiusi.
c.30v. II Pianta di buglossa o lingua di bue (buglosse) con orellini violacei
c.31r. I * Burro (butirum, beurre) entro un vaso con manico
c.31v. II Pianta di verbena (berbena verbena ofcinalis) con orellini viola a
campanula
c.32v. I Pianta di britannica (britanica herba) Romice acquatico o erba britannica (brionia critica)
c.32v. II Pianta di borsa del pastore (borse a pasteur , capsella bursa pastoris)
Romice acquatico
c.33r. I Pianticella di brionia britannica o vitalba ( Brionie Bryonia cretica) con
bacche rosse e grossa radice
c.33v. II Pianticella di bédegar o spinalba con bacche rosse
c.34r. II Pianticelle orita di bardana maggiore (bardana lapaceola, arctium lappa)
con piccoli ori verdi spinosi
c.34v. I Pianta di bosso (buxus)
c.34v. II Pianta di pungitopo (brusc, ruscus aculeatus) con bacche rosse
c.35r. I Pianta di bieta (bleta, beta vulgaris)
c.35r. II * Quattro corni ossei (blarte bisancie) tratti dall’ “occhio di un pesce che
somiglia al miace”
c.35v. II Tre pianticelle di ciclamino (ciclamen; cyclamen hederifolium) con grossi
tuberi come radici
c.36r. II * Due pezzi di canfora (cainfre; cinnamomum camphora)
c.37r. I Albero di coloquintide (colloquintide) con frutti peponodi violacei
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c.37v. II Pianta da cassia (cassia stula) con frutti leguminosi pendenti
c.38r. II Tre pianticelle di cuscuta (couscuede, cuscuta europaea) con orellini viola
e gialli
c.38v. I Pianta di cardamono verde (cardamonum, elettaria cardamonum) con bacche verdi
c.39r. I Cerusa (ceruse) o for di piombo entro un sacco
c.39v. I Pianta di cappero (cappare; capparis spinosa)
c.40r. II Pianticella di calamento (calament; calamintha nepeta)
c.40v..II Pianticella di centaurea (centoire, centaurea cyanus)
c.41v. I Pianta di cassia lignea (cinnamomum zeylanicum, xilocassia, cinnamomum
cassia)
c.42r. I ° Castoro dorato con coda a forma di pesce
c.43r. I Pianta di pepe (cubèbe) con frutto
c.43r. II Due pianticelle di capelvenere (capilli Veneris, adiantum capillus-
Veneris)
c.43v. I Pianta di cipresso (cipres, cipressus sempervirens) con bacche
c.44v. I Due pianticelle di camedrio (camedreos; teucrium chamaedrys) con
orellini rossi non dischiusi
c.45r. I Pianticella di ajuga artritica (ajuga camaepitheos) con orellini azzurri
c.45v. I Pianticella di cumino dei prati (carvi, carum carvi)
c.45v. II Pianta di cumino romano (comnin cuminum cyminum) con orellini giallo
arancio
c.46r. II Pianta di cicuta (conium maculatum) con orellini giallo-verde
c.46v. II Pianticella di croco (crocus, saffran, crocus sativus) con grande radice e
ori azzurri con stami rossi
c.47r. II Pianticella di zafferano da giardino o croco (crocus ortensis) con ori dai
petali rossi
c.47v. I Tre pianticelle di cuperus (cyperus) con ori a stelle rosso bruno
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c.48r. I Pianticelle di acoro (calamus aromatique; acorus calamus) con grandissima
radice a rizoma
c.48v. I * Ramo di corallo rosso (corail ; corallus)
c.49r. II Pianticella di catapuzia (catapucia; euphorbia lathyris; ricinus communis)
c.50v. I Pianticella di cetriolo (cocumeres, citrules, cucumis satives)
c.50v. II Pianta di arancio citrules con frutti gialli
c.51r. I Pianticella di calidonia (cèlidonies; chelidonium majus)
c.51v. I Pianticella di coriandolo (coriandre, coriandrum sativum) con orellini
gialli a mazzetti
c.52r. I Pianticella di cavolo (caules choux; brassica)
c.52r. II * Due pezzi di calce (chaux, calx)
c.52v. I Pianticella di cerfoglio (cerfueil , anthriseus cerefolium)
c.53r. I Pianticella di canapa (chanvre, cannabis sativa) con piccole bacche
bianche
c.53r. II Pianta di cameleonta bianca (caméléonte, cameleonta alba) con ori rosso
violaceo
c.53v. I Pianta camomilla o camaleunta nera (camaleunta nigra) con ori dagli
stami rossi
c.53v. II Due pianticelle di camomilla romana (camomille; chamaemolum nobile)
con orellini bianchi e corallo arancio
c.54v. I Pianticelle di ceci (chiches, eiur arietinum) con frutti pendenti
c.55v. I Albero di castagno (castanee, castaignes; castanea sativa) con ricci
c.56r. I Pianticella di cotula fetida (anthemis cotula) con orellini bianchi e corollagialla
c.56r. II Pianticella d i cotiledone o ombelico di Venere (cotilidon; cotyledon,
umbilicus Veneris)
c.56v. I Bulbo di cipolla (ougnon ou cibole; allium cepa) germinato con foglie
lanceolate
c.57v. I Pianticella di cornucunia (culcasia mannii)
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c.57v. II Pianta di canna (canelle cinnamomum) con grande radice a rizoma, v.
anche: zucchero (zuccara)
c.58r. II Pianta di calendula ( soucicle;calendula ofcinalis) con grandi ori gialli
c.58v. I Pianticella di ceterac o anice ( pimpinella anisum)
c.58v. II Pianta di candelaria (candelière) con grandi radici bulbose e orellini di
colore blu intenso
c.59r. I Pianta di consolida maggiore (consolida maior; symphytum ofcinale) con
ori rosa
c.59r. II/1 Pianticella di consolida media (ajuga pyramidalis; consolida regalis)
c.59r. II/2 Pianticella di consolida minore (consolida minor )
c.59v. I Pianta di cotonaria (lychis coronaria)
c.60r. I Pianticella di celidonia maschio (cèlidonie; chelidonium majus) con
orellini gialli a mazzetto
c.60r. II Albero di ciliegia cerasa con frutti ( prunus avium)
c.60v. II Pianta di capruggine (capragine; galega ofcinalis) con orellini viola
c.61r. I Pianticella di caprifoglio (caprifolium; lonicera caprifolium) con grandi
ori bianco giallastri
c.61r. II Pianta di dyagredium o barba volpina (dyagréde)
c.62v. I * Resina di dragagante (dragagant; dragagantum) gomma che stilla dal
tronco di un albero
c.63v. I Pianta di carota (daucus carota) con ori dal pistillo rosso
c.64r. I Tre blocchi di draganto o vetriolo (dragagant )
c.64v. I Pianticella di dittamo (diptamus; dictamus albus) con orellini bianchi
c.65r. I Pianticella di deronici ( potentilla)
c.65r. II Palma da datteri (datteri; dactili, phoneix dactylifera) con frutti a grandi
grappoli
c.65v. I Pianta di invidia (envidia) o scarola con orellini gialli
c.66r. II Albero di epitimo (epithime, epithimus) con fusto verde
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c.66v. II Pianta di enula (canna) con orellini bianchi dalla corolla gialla
c.67r. I Albero di euforbia esula con gomma gialla stillante dal tronco marrone
c.68r. I Pianticella di agrimonia (aigrimonnie; acrimonia eupatorica) con grosse
spighe verdi
c.68r. II Albero di emblica (embliques; emblica ofcinalis) con bacche brune
allungate
c.68v. I Erba epatica (epatique trinité; hepatica nobilis) con grandi foglie carnose
c.69r. I Pianta di cocomero asinino o cocomero selvatico (elactere; ecballium
elaterium) con orellini gialli
c.69v. I Pianta di elleboro (eleboire; helleborus niger ) con grandi radici a ombrello
c.70r. II Pianta con foglie verdi a girandola non identicata dal punto di vista
botanico
c.70v. I Pianticella di euforbia esula (esula; euphorbia esula)
c.71r. I Pianticella di erica (tetrahit ; erica tetralix)
c.71r. II * Tre pezzetti di ematite
c.71v. II Pianta di sambuco ( sambaucus yebles ebulus; sambucus ebulus) con
orellini viola scuro a mazzetti
c.72r. I Pianta di fumaria ( fumus terre; fumaria ofcinalis) o erba acetina con
orellini rossi a grappoli
c.72v. II Pianta di valeriana fu (valériane; valeriana ofcinale)
c.73r. I Pianta di flipendula o erba peperina ( spirea ulmaria) con radici bulbose
c.73v. I Albero di frassino (manna; fraximus excelsior ) con funghi alla radice
c.73v. II Pianta di fnocchietto selvatico ( foeniculum vulgare) con inorescenza aombrella
c.74r. II Pianticella di feno greco (trigonella, foenum- graecum)
c.74v. I Piantina di felce maschio ( les, fouigier mascle) con grande radice
c.75r. I Piantina di fragola ( fragaria, fragaria vesca) con ori bianchi e frutti
rossi
c.75r. II Pianta orita di fstularia (calendula aegyptiaca) con orellini gialli
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c.75v. I Albero di fusaggine ( fusalo, fusam euonymus europaeus) con orellini
rosso scuro
c.75v. II Piantina di fagioli ( faseoli, phaseolus vulgaris) con baccelli
c.76r. I Piantina di cavolo lupo ( faciens vidua)
c.76r. II Piantina di fava lupina ( faba inversa) con piccoli ori gialli
rotondeggianti
c.76v. I Pianta di fava grassa ( faba grassa, sedum maximum) con grandi radici
c.76v. II Pianta di fava comune ( fabe communes; vicia faba) con ori bianchi e
violacei e baccelli
c.77v. II Tre funghi violacei su un prato verde
c.78r. II Fiorita di ferula (ase puante; ferula assa-fetida) con ori gialli
c.78v. I Piantina di felce maschio ( les, fougier mascle, dryoptenis lix-mas) (v.
74v. I)
c.78v. II Albero di fco ( cus carica) con frutti verdi
c.79v. II Albero di garofano ( garioli, giroe; dianthus caryophyillus) con ori
violacei
c.80v. I Pianta di genziana ( gentiane, gentiana verna) con grosse radici
c.80v. II Alberello di galanga (alpinia ofcinarum) con grande radice
c.81r. II Alberello di galbano ( galbane; ferula galbanifera) con ori giallo bruno a
ombrella molto simile alla piantina di ferula a c.78r II
c.82v.. I Piantina di garioflata o ambretta ( gariolé) con orellini verdi
c.82v. II Piantina di garofanina ( git ) con orellini violacei
c.83r. I Piantina orita di migliarino ( grénul granum solis) con orillini gialli
c.83r. II Pianta di gallitrico ( gallitric; salvia horminum) con ori verdi a
campanula
c.83v. I Albero di querciasene (quercus) con ghiande (glans)
c.84r. II Piantina di ginestra minore ( genestelle; genista tinctoria)
c.84v. I Piantina orita di ginestra ( geneste) con orellini gialli papillonacei
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c.84v. II Piantina di gramigna (agropyron repens)
c.85r. II Pianta di giras con quattro foglie rossicce che spuntano da una grossa radice
rizomatosa
c.86r. I Piantina orita di cardo asinino (camaleonta nigra ; cirsium lanceolatum)
c.86v. I Piantina di heripillos o herpillo (heripille)
c.86v. II Piantina di erba acetosa incenso (herbe d’ancens)
c.87r. I Piantina di tanaceto (herbe sainte Marie, tanacetum vulgare)
c.87r. II Piantina di erba artritica (iva artritici; herbe paralisie) con orellini verdi
a calice
c.87v. I Pianta di giusquiamo ( jusquiame) con ori verdi a calice
c.88r. I Piantina di issopo grande (y sope grande; hypssopus ofcinalis)
c.88r. II Piantina di issopo piccolo ( ysope petit )
c.88v. II Pianta di aro (iarno) con grandi ori rossi
c.89r. II Pianta di iris (ireos, iris germanica) o giaggiolo con ori viola
c.89v. II Pianta di rosa canina con fungo ipoquestidos intorno alle radici e orellini bianchi
c.90r. II Alberello di ginepro o arterade ( jenièvre, jenivre) con piccole bacche
brune
c.90v. II Pianta di iperico ( ypericon) o “erba di S. Giovanni” con orellini giallo-
arancio
c.91r. I Pianta di issopiro ( yppirium isopyrum thalictroides) con grossa radice
c.91r. II Piantina di vite selvatica o vite agreste (inantes, lambrusce; vitis ssp.)
c.91v. I Piantina di indaco (indace; isatis tinctoria) con orellini gialli a grappolo
c.91v. II Pianta orita di poligono jua ( yue; polygonum cuspidatum, chrisanthemum)
con orellini giallo arancio
c.92r. II Pianta di incensaria ( pulicaria dysenterica) con ori gialli semiaperti
c.92v. I Pianta di ramulea ( jerubule) grossa cipolla verde con cinque foglie
lanceolate
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c.92v. II Pianta di inniolum album (iumolum) grossa cipolla bruna con sei foglie
lanceolate
c.93r. I * Ambra gialla che stilla dal tronco di un albero
c.93r. II * Grande pezzo di lapdane (laudane, gomma)
c.94r. I * Grande pietra di lapislazzolo ( pierre de lazur ) di colore azzurro venato
d’oro
c.94v. II Pianta di giglio (lis; lilium candidum) con ore e radice a cipolla
c.95v. I Alberello di lingua di uccello ( poligonia) con bacche verdi allungate
c.95v. II Alberello di linothis o alcantus con inorescenze verdi
c.96r. II Pianta di lipacium (doque)
c.97r. II Pianta di lattuga (laitue)
c.97v. I Pianta di lattuga selvatica (laitue sauvaige; lactuca virosa)
c.98r. II Pianta di lupino (lupins; lupinus albus) con baccelli
c.98v. II Alberello di alloro (laurier , laurus nobilis) con piccole bacche verdi
c.99v. I Alberello di lentisco (lentiste; pistacia lentiscus)
c.99v. II Pianta di lenticchie (lentilles; ervum lens)
c.100v. II Pianta di laureola (laureole) con piccole bacche scure
c.101r. II Pianta di levisticus (lunesche) o sedano di monte con ori giallo bruno
c.101v. I * Piccolo pezzo di pietra magnetica (lapis magnetis)di colore azzurro scuro
c.101v. II * Piccoli pezzi di pietra indica (lapis agalpis) di colore grigio e di pietra
lincia (lapis lincis) di colore rosso cupo
c.102r. I * Piccoli pezzi di pietra d’armenia di colore grigio; di pietra di spugna (lapis spangie) di colore rossastro; di lichedemonis (lapis demonis) o pietra
del demonio di colore azzurro scuro
c.102r. II Piantina di loglio
c.102v. I Piantina di luppolo (lupul e, humulus lupulus) con ori verdastri
c.102v. II Pianta orita di piede di leone (leucopedion)
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c.103r. I Pianta di lattuga selvatica (laitue sauvaige) v. 97 v. I
c.103r. II Due pianticelle di lino ( semence de lin; linum usitatissimum) con orellini
viola
c.103v. I Due pianticelle di linaria (linaire vulgaris) con orellini gialli
c.103v. II Piantine appena germinate di lenticchie (lentilles; ervum lens) v. 99 v. II
c.104r. II Pianta di lingua di cane ( plantago lanceolata; eynoglossum ofcinale) con
orellini rosso violacei e frutti violacei
c.104r. II/2 Pianta di lingua ircina o lingua di becco con ori rossi chiusi tra le foglie
c.104v. I * Piccoli pezzi di lacca di colore rosso bruno
c.104v. I/2 Pianta di plantago lanceolata o lanceola
c.104v. II Pianta di lattuga leporina (laitue à lièvre) con orellini gialli e seme
c.105r. I Pianta di lapaccio (lape) con bacche verdi spinose
c.105r. II Albero di mirto (myrte; myrtus communis) con piccole bacche verde
scuro
c.106r. II Pianta di meliloto (mellilot ; melilotus ofcinalis)
c.106v. I Pianta di malva comune (maulve) con orellini rosa-violacei
c.107r. I Pianta di malva visco (maulve sauvaige; malva viscus)
c.107r. II Pianta di malva domestica (mauve de jardin; malva ortensis) con ori
rosa-violaceo
c.107v. II * Tre piccoli pezzi di mastice color giallo oro, secreto dai canali resiniferi di
pistacia lentiscus
c.108r. I * Munnia in un sacello per ricordare la “ polvere di munnia”, una specie dispezia che si trova nelle sepolture dei morti trattati con balsamo e mirra
c.108v. II * Mandragora in forma di donna tra le radici di un piccolo albero di quercia
con ghiande
c.109r. II Piantine di erba meu o mieu con piccoli ori a mazzetti giallo arancio
riferibile all’assenzio (artemisia abisinthium)
c.109v. I Alberello di melo cotogno (mala citonia; pommes de coing ) con frutti di
colore giallo
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c.110v. I Alberello di melograno (mala granata; pomme de grenate)
c.111r. I ° Alveare (miel) appoggiato su un tavolo con grosse api svolazzanti per
riferirsi al miele e alle sue proprietà
c.111v. I Alberello di melograno (mala granata; punica granatum) vedi c.110 v. Ima con frutti dai colori più caldi.
c.112r. I Alberello di melo malus o melo selvatico con frutti giallo limone
c.112v. I Pianta di marrubio (marrubium, marrubium vulgare)
c.113r. I ° Due capre muschiate (musc) per ricordare il muschio che si raduna in una
cavità nell’inguine dell’animale dove sono presenti speciali ghiandole, per
poi separarsi dall’animale quando è maturo. Sul prato si nota questa sostanza
in una specie di palla avvolta dal pelo di tale specie di caprone indiano.
c. 113v. II Tre frutti di mirabolano, albero che cresce in India (forse prunus
cerasifera)
c.115r. I Due ori marroni di macis, scorza che avvolge la noce moscata
c.115r. II * Tre piccoli pezzi di mirra (mirra, mierre) gommoresina ottenuta dalla
pianta Balsamo dendron, praticando incisioni sul fusto
c.115v. II Piantina di miglio (milet ; panicum miliaceum) con spighe mature
c.116r. II Piantina di maggiorana (maiorana; origanum majorana) entro un vaso
c.116v. I Pianticella di melissa (mellisse, melissa ofcinalis)
c.116v. II Piantina di more con frutti a stadi diversi di maturazione
c.117v. I Piantina di madreselva (matrisilve; lonicera caprifolium) o caprifoglio
c.117v. II Piantina di prezzemolo macedonico (macidonie, persil macidonicum)
c.118r. I Pianta di morso del diavolo ( succuse; succisa pratensis)
c.118r. II Pianta di moscatella (muscata; herbe muscate; adoxa moschatellina) con
orellini verdi
c.118v. I Pianta di moscatella piccola (muscatela petite; salvia sclarea)
c.118v. II Pianta di millefoglio (millefeuil ; achillea millefolium)
c.119r. I Due muses o “mele del paradiso”, rotondeggianti e di colore rosato
c.119r. II Pianta di melanzane (melanges) con grossi frutti giallo-violaceo
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c.119v. I Pianta di melone turbich (melons poupons; cucumis melo o popone)
c.120r. II Pianta di nasturzio ( sènacions, cresson nasturcium; lepidium sativum)
c.120v. II Pianta di nasturzio agreste (cresson sauvaige)
c.121r. II Pianta di nannufero (nènufar; nufar luteum) o ninfea con grossa radice e
ori giallo arancio
c.121v. I Alberello di noce moscata (noix muguete; myristica fragrans)
c.122r. I Alberello di noce delle Indie (noix de Inde; adhatoda vasica) con frutti
molto grandi di colore marrone scuro
c.122r. II Alberello di noce scia o sciatica (noix sciarce)
c. 123r. I Albero di noce vomica (noix vomique; strychnos vomica)
c.123r. II Piantina di noiele con orellini verdi a calice
c.123v. II/1 Pianta di narciso (narcisce; narcissu poeticus) con grosso bulbo verde
c.123v. II/2 Alberello di nespolo comune (nesles; nespilus germanica) con frutti di
colore marrone chiaro
c.124r. I Piantina di basilico (osimum; ocimum basilicum)
c.124v. II Pianta di oppoponace erba cost (opoponax) con ori violacei
c.125v. I Pianta di origano (origane; origanum vulgare)
c.126r. I Albero di tamarindo (oxisenice) con i frutti
c.127r. I ° Cervo dalle lunghe corna accovacciato su un prato per richiamare l’osso del
cuore di cervo (os du cueur du cerf )
c.127r. II ° Seppia per richiamare l’osso di seppia (os de séche)
c.127v. I * Incenso (olibane) che è la resina che si trova sul tronco e sui rami di un
albero che cresce vicino Alessandria
c.128r. I Albero di olivo (olives; alea europaea) con i frutti
c.129r. I Pianta di oleandro (oléandre olixantrum; nerium oleander )
c.129r. II Piantina di otriago con foglie verdi palmate e piccoli orellini rossi
c.129v. I Alberello di piretro ( pirétre; chrysanthemum cinerariaefolium)
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c.129v. II Pianta del pepe cubebe ( poivre; piper cubeba) con i frutti Vedi anche c.43r
I
c.130v. I Pianta di peonia ( pèonie; paeonia ofcinalis) con un ore rosso cupo e
grosse radici
c.130v. II Piantina di papavero ( pavot; papaver ) con ore bianco
c.131r. I Piantina di papavero nero ( pavot)
c.131r. II Piantina di papavero rosso ( pavot ) con ore
c.131v. I Piantina difnocchio porcino ( pencedanum, fenoil a pourceaux; pencedanum ofcinalis)
c.131v. II Piantina di prezzemolo ( persil; petroselinum sativum) con ori violacei
c.132r. I Pianta di pulicaria ( pollicaire; pulicaria dissenterica) con ori gialli
semiaperti
c.132r. II Albero con pigne e pinoli ( pins pignons)
c.132v. II Albero di prugno ( prunes; pruni, prunus) con frutti maturi di colore rosso
violaceo
c.133r. II Piantina di psillio ( psilium; plantago psillium) con grossi frutti verdi
giallastri
c.133v. II Pianta di polipodio ( polipode; polypodium vulgare) o felce dolce con grossa
radice a rizoma
c.134r. II * Piccola pietra dalla quale scaturisce il petroleum o olio di pietra (oil de
pierre)
c.134v. II Pianta di parietaria ( plaitane) o “erba vetriola”
c.135r. I Pianta di porcellana o andragis o cappara
c.135v. I Pianta di serpillo ( serpillum heripillos, polieul, tymus serpillum)
c.135v. II Albero di pero ( poires; pyrus communis) con frutti maturi
c.136r. I Albero di cedro con i grossi frutti pomi cetrini, cedri ( pomme citrine,
citrus medica)
c.136v. I Tralcio di vite con grappoli di uva nera per richiamare l’uva passa ( passules,
uves passès)
c.136v. II Alberello di polio ( polium; teucrium polium) con frutti verdi
c.137r. II Piantina di erba plantagine ( plantain; plantago maior )
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c.137v. II Pianta di erba plantagine minore ( plantain petit, lancellée; plantago
minor )
c.138v. I Piantina di panico ( panie panicum ; panicum italicum) con sphige mature
c.138v. II Piantina di potentilla déronice ( penthaphilon ; potentilla reptans) conorellini gialli
c.139r. II Pianta di poligonia (langue de passeret ) con foglioline verdi di forma
allungata
c.139v. I Pianta di politrico ( politac; polytricum) con radice a bulbo e foglie simili
a felci
c.139v. II Pianta di primula ( primerolle; primula veris)
c.140r. I Pianta di asparago ( palacium leporis, palais, au lièvre; asparagusofcinalis) con bacche rosse e grande radice a rizoma
c.140r. II/1 Pianta di polmonaria ( pulmonaire; pulmonaria ofcinalis) con grandi
foglie verdi maculate di bianco
c.140r. II/2 Pianta di persicaria ( persicaire) con orellini rossi a grappolo
c.140v. I Pianta di paracelle o erba basilico con grandi radici gialle squamose
c.140v. II Pianta di pinpinella ( pipemelle) con bacche verdi punteggiate di nero
c.141r. I Pianta di pelosella ( pilloselle) con orellini gialli
c.141r. II/1 Pianta di pervinca ( provinca, pervence; vinea minor ) con orellini viola
c.141r. II/2 Pianta di palma christi con orellini rosa e radice a forma di mano
c.141v. I Albero di pesco ( peches; prunus persica) con frutti verdi
c.142r. I Pianta di erba palée con lunghe foglie verdi lanceolate
c.142r. II Pianta di piede colombino ( pié de coulon pes columbinus) con radici attone
c.142v. I Pianta di porro ( poreau; allium porrum) con piccole radici a barbe
c.143r. I Pianticella di rosa (rose; rosa canina) con ore rosso
c.144v. II Pianta di radice o “ramolaccio” (rafane; armoracia rusticana) con grossa
radice a ttone
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c.145r. II Pianta di rabarbaro (reubarbe; rheum palmatum) con grosse radici
trilobate
c.145v. II Pianta di robbia (rubea; rubia tinctorum)
c.146r. I Pianta di ruta (rue; ruta graveolens) con orellini giallo arancio
c.147r. II Pianta di rodalde con grandi foglie verdi e stelo centrale
c.147v. I Tre pianticelle di riso (riz ; oryza sativa) con grandi spighe verdi punteggiate
di giallo tenue
c.148r. I Pianta di robeglia (robellie) con orellini rossi
c.148r. II/I Pianta di rapa selvatica (rapistre) con orellini gialli
c.148r. II/2 Pianta di rapa (rave) con grandi foglie verdi e grossa radice a ttone di
colore giallo pallido
c.148v. II Alberello di spino nardo ( spicnard ) con foglie verdi trilobate
c.149v. I Pianta di erba morella o salastro (morelle striginum) con bacche verdi
c.149v. II Pianta di solastro rustico (morelle, mortelle, alkatienge, solastrum) con
ori rossi
c.150r. II Piantina di semprevivo (tojours vive semprevivum; sempervivum tectorum)
con piccola radice a ttone e foglie verdi allungate
c.150v. II * Raccolta dello zolfo ( souffre) da parte di un uomo che scava il terreno
roccioso con la zappa
c.151r. II/1 Pianta di silero montano ( siseleos o siler montainin) con ori rosati
c.151r. II/2 Pianta di saponaria ( savonnaire; saponaria ofcinalis) con orellini rossi
c.151v.. I * Sangue di drago ( sanc de dragon; dracena draco) resina di colore rosso
che stilla dai rami di un albero
c.151v II Pianta di squinanto o “erba di cammello” con sottili foglie lanceolate
c.152r. I Pianta di senape bianca ( seneve; sinapis alba) con orellini gialli
c.152v. I * Sarcocolla ( sarcocole; phoena sarcocolla) resina gialla che si ottiene dal
lattice di un albero esotico, la phoena sarcocolla
c.152v. II Pianta di stecade ( sticados citrin; sticados citrinum) o “barba di giove”,
con ori giallo-limone
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c.153r. I Pianta di stecade arabica ( sticados arabic) con orellini rossi
c.153r. II Pianta di satirio ( satyricon; serapias cordigera) o “giglio di prato” con
ori rosa
c.153v. I Pianta di cicoria ( sponsa solis) o radicchio di prato con orellini azzurri
c.153v. II/1 Pianta di scrofularia ( scrophularia; scrophularia canina) con radici bulbose
e piccole foglioline rotonde
c.153v. II/2° Elefante su un prato per richiamare lo spodium cioè l’osso di elefante
bruciato
c.154r. II Pianta di sisimbro ( sisimbrium) con foglioline sfrangiate verde scuro
c.154v. I Pianta di salvia ( sauge; salvia ofcinalis) con foglie verdi a mazzetto
c.154v. II Pianta di scaliosa ( scabieuse; succisa pratensis) con orellini azzurri-
violacei
c.155r. II Pianta di nasturzio ( sènacions nasturcium) o crescione inglese (cresson;
lepidium sativum) con foglie verdi di varia grandezza, vedi anche c.120r II
c.155v. I Piantina di serpentina ( serpentine) o colubrina o cardo benedetto con
fusto verde e frutto con semi
c.155v. II Albero di salice ( saulx; salix alba) con tronco marrone chiaro
c.156r. I Pianta di senna ( seu) con mazzetti di ori viola scuro
c.156v. I Due piantine di scilla ( squille) o cipolla nerina con grande radice a bulbo
con barbe
c.157r. II Alberello di sommaco ( sumac) con orellini rossi a grappoli
c.157v. I Pianta di stafsagria ( staphizagre; delphinium staphysagria) con bacche
spinose
c.157v. II Albero di sandalo ( sandale, sandres; sandalo, santalum album) con foglieverdi a girandola
c.158r. II Pianta di senna ( seu) con grandi bacche grigiastre
c.158v. II Pianticelle di santo reggia ( satureja hortensis) con rami a candelabro e
piccole foglioline
c.159r. I Piantina di sanguinaria ( paronychia argentea, geranium sanguineum)
con inorescenze giallo arancio
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c.159r. II Pianta di scolopandria ( scolopendre) con grandi foglie allungate striate di
rosso
c.159v. I/1 Pianticella di soldanea (calystegia soldanella) con foglie ovali con una
macula scura al centro
c.159v. I/2 Piantina di spinacio (espinoche spinarchia oleracea) con orellini azzurri
c.159v. II Pianta di sicla o blitin con le larghe foglie venate di giallo
c.160r. I Pianta di scalogno ( scalognium, allium ascolonicum) con grosso bulbo con
barbe
c.160r. II Pianta di spargula (ruelle; spargula arvensis) con piccoli orellini verdi
c.160v. I/1 Pianta di valeriana ( silfu, valériane; valeriana ofcinale) con orellini
giallo-arancio
c.160v. I/2 Pianta di sambuco ( sambueus ebulus, yebles ebulus) con ori bianchi a
campanula
c.160v. II Alberello di spina santa (espine benoite; paliurus spina Christi) con fusto
marrone e foglioline allungate
c.161r. I Pianta di sebestenio ( sebester secacul ) con frutti di colore azzurro simili a
prugne
c.161r. II Quattro pianticelle di salmenca o spigo celtico ( salmea, salmea scadens),
rappresentate da grosse spighe brune sotto un albero
c.161v. II/1 Due ramoscelli di sigillo di santa Maria ( sigillum sancte, polygonatum)
con ori bianchi a campanula e grossa radice
c.161v. II/2 Piantina di sorbastella con foglioline sfrangiate
c.162r. I Alberello di sorbo domestico ( sorbes, sorbus domestica) con frutti pendenti
color marrone
c.162v. I Pianta di sesamo ( sisame, sesanum indicum) con spighe formate da grossi
grani di colore giallo
c.163r. II Alberello di tamerice (tamarist, tamarix gallica) con piccole foglie a
ventaglio
c.163v. I Piantina di tetrahit con orellini rossi
c.163v. II Due piantine di titimal (anabule; euphorbia elioscopica) con foglie su vari
piani
c.164r. I Alberello di turbich con grosse radici
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c.164r. II Piantina di tapsia (tapse; thapsia garganica) con orellini verdi
c.164v. II Pianta di tapsia barbata (tapsus barbatus, thapsia villosa) con orellini
giallo-bruno sullo stelo centrale, circondata da grandi foglie
c.165r. I * Raccolta di trementina (térébentine) da parte di un uomo che con duemestoli raccoglie in un barile la resina che cola dal tronco di un albero
c.165r. II Piantina di tribolo marino (chardon marin tribulus marinus) con ori verdi
semichiusi
c.165v. I Pianticella di erba trinità con foglie trilobate
c.165v. II Pianta di tormentilla ( potentilla erecta) con orellini gialli
c.166r. I Pianticella di trifoglio (trèe; trifholium) con foglioline trilobate
c.166v. II Piantina di viole (violette de mars, viola odorata) con orellini viola
c.167r. II * Edifcio con nestre ad arco in ognuna delle quali è posto un vaso di vetro
per richiamere il vetro (voirre, verre)
c.167v. I Pianta di verga del pastore (verge à pasteur; virga pastoris; dipsacus
fullonum) o cardo selvatico con tre ori a bulbo spinoso
c.168 v. II Pianta di clematide (vitalba vitis alba; clematis vitalba) con lungo tralcio
centrale
c.169r. II Tre pianticelle di zenzero ( zizinber ; zingiber ofcinale) poste sopra una
grossa radice a rizoma pluriarticolata
v.169v. II Due piantine di zedoar con grosse radici gialle con barbe
c.169v. II/2 Tre pianticelle di zizzania (lolium temulentum) con spighe verdi centrali
c.170r. II Pianta di zucchero ( zuccara; saccharum ofcinarum) con ori azzurri a
spiga.
Dall’esame del testo si rilevano:
a) Alcune correzioni originali che il copista e l’estensore ha introdotto nel testo, per
quanto sostanzialmente corretto, dovute a errori di lettura o a ripensamento
c.67r. si corregge “ pour ce” con “ purge”
c.69r. “mis ensemble” con “mis en pouldre”
c.72v. “toujours” con “torsion”
c.81 “bistoire” eliminato, viene introdotto più avanti
c.87v. eliminato “celuy où est la doileur ”
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c.95r. “ jours” corretto con “ foiz ”
c.128r. “ parfaitement ” cassato con tratto di penna rossa
c.136v. “estomac” sostituito erroneamente con “ poitrine”
c.141v. “trenchés” sostituito con “tranchés”, “ garder ” sostituito con
“ prendre”
c.163r. “ airant ” sostituito con “blanche”
c.166v. “ for ” corretto in “ froment ”
c.168r. ripetuto per svista “l’estomac vuit tant de humeurs comme de autres
viandes”
b) Una variante sotto l’aspetto lessicale
“ Pouldre” (polvere) inizia a c.27r. e nisce a c.117v.
“ Poudre” inizia a c.36v. no a c.117v. in alternanaza prevalente con “pouldre”,
poi rimane come forma unica.
c) le parti del corpo che vengono via via menzionate:
pis (mammella)
penillière (pube)
haie du dos (ala della spalla)
boyaux (de haelt , de bas) (intestino alto, intestino basso)
estomac (stomaco)
rate (milza)
foye (fegato)
rains (reni)cueur (cuore)
poulmon (polmone)
membres du pis (pene)
membres espirituaulx (parti spirituali)
membres nutritifs (parti nutrizionali)
nombril (ombelico)
vessie (vescica)
conduio du corps (condotti del corpo)
conduis de urine (condotti urinari)
génitaires (genitali)
d) gli strumenti che vengono usati:
pessaire (pessario)
clistère (clistere)
suppositoire (supposta)
tente (tenda, padiglione)
emplastre (impiastro)
électuaire (elettuàrio)
décoction (decotto)
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e) le malattie e indisposizioni più ricorrenti, utili a comprendere lo stato delle conoscenze
mediche medievali:
humeurs (colérique, melancolique) (umori; collerici; melanconici)
empeschement de urine ( strangurie, dissurrie) impedimento dell’urina
strangièria
opilacion de la rate (oppilazione della milza)
opilacion du foye (oppilazione del fegato)
opilacion de la vessie (oppilazione della vescica)
durté de la rate (indurimento della milza)
épilence (epilessia)
tranchoison du ventre (blocco intestinale)
pamoison (svenimento o sincope)
eurs retenues (verginità)
morsure des bestes venimenses (morso di animali velenosi)
morsure de chien enraigé (morso di cane arrabbiato)
chaudes apostumes (ascessi sanguinanti)
ux de ventre (diarrea)
ux de ventre a sanc (diarrea a sangue)
vers du ventre (intorno alla pancia)
vers des oreilles (intorno alle orecchie)
estoupement de voyes (impedimento della voce, perdita della voce)
podagre (podagra)
goute (gotta)
rieume (reuma)
feblesse du cerveau (debolezza del cervello) feblesse du cueur (debolezza di cuore)
empeschemento de oye (impedimento della vista)
pourriture de gencives (guasto delle gengive)
jaenice (itterizia)
us de sane du nes (epistassi)
roigne (rogna)
paralisie ou percussion (de la langue, des outres membres) (paralisi o
percussione della lingua, delle altre parti del corpo)
douleur du ventre appellé collique (mal di pancia denita colica)
taches des faces aux fennes (chiazze sul viso delle donne macchie) ydropisie appelée leucouumonce (idropisia sottocutanea)
teigne (tigna)
douler du ventre appellée passion ylinque (mal di pancia chiamato patimento
iliaco)
verrues on poreaux (verruca o porro)
Per quanto riguarda le erbe e le piante usate delle quali l’Herbolaire segnala le singole
proprietà curative, scorrendo l’elenco, accanto ad alcune meno note, troviamo quelle ancora
in uso nella nostra cucina, come la salvia, la carota, l’alloro, il prezzemolo, la cipolla, il
radicchio lo scalogno, il nocchio. Il basilico, il sedano, la carota, il timo, la lattuga, l’anice,la bietola, il rosmarino, la noce moscata, lo zafferano, il cardo, il cavolo, l’avena, i capperi,
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gli asparagi, la camomilla, la scarola, l’anice, l’erba cipollina, il fagiolo, i ceci, la menta, la
lattuga, le lenticchie, i funghi, il riso, i datteri, il lupino, la maggiorana, l’origano, il porro,
la ruta, lo zafferano, la rapa, il rabarbaro, la cicoria, gli spinaci, i chiodi di garofano, le fave,
i lupini, il pepe, lo zenzero e lo zucchero.
Troviamo anche piante più che note come il co, il mandorlo, l’olivo, il castagno, il
pesco, l’albero di amarene, il ciliegio, l’albicocco, il nespolo, il melograno, il tamarindo,
il nocciolo, l’acacia, la quercia, il cedro, il melo, il ginepro, il melone, il prugno, il sorbo,
il pero, la vite, il cocomero, la fragola, l’uva. Ma troviamo anche fori molto noti quali la
rosa, la viola, l’anemone, l’asfodelo, l’edera, il geranio, la margherita, l’ibisco, il ciclamino,
la calendula, il caprifoglio, il garofano, la ginestra, l’iris, il giglio, il narciso, la peonia, la
clematide, il nasturzio.
Vi sono poi elencati vari minerali o materiali o sostanze similari, quali l’oro, l’argento,
l’amido, l’ammoniaca, l’asfalto, il bolo, il borace, i corni ossei di un pesce, dell’elefante o
del cervo, la canfora, il ore di piombo il corallo rosso, il vetriolo, l’ambra, la lapdane, il
lapislazzolo, la pietra magnetica, la pietra d’armenia, la pietra lincia, la lacca, il mastice, il
muschio, la mirra, l’osso di seppia, il petrolio, la sarcolla, la trementina, il vetro.
Non deve certo sorprendere l’interesse per i minerali assieme a quello per le altre parti
della scienze della natura che era nato con la storia, per cui i riferimenti astrologici e divini,
combinati con osservazioni di proprietà siche percettibili quali la lucentezza, la trasparenza,
il colore, la durezza, la lavorabilità, hanno portato l’uomo ad attribuire ai prodotti minerali
poteri magici e anche curativi86.
Parimenti non ci deve stupire la presenza nell’erbario, accanto alle sostanze vegetali, di
alcuni animali, quali l’elefante, il capodoglio, il cervo, la seppia, le api, le conchiglie, le
capre muschiate, in quanto semplici erano state considerate anche tante sostanze del mondo
animale alle quali venivano attribuite proprietà curative87 .
Di tutti questi elementi e da altri meno noti elencati nell’erbario, singolarmente o incombinazione tra loro, si traggono, secondo i dettami della Scuola medica salernitana e le
formule di un’antica alchimia che sfuma nel magico, i principi attivi necessari per la cura
e la salute del corpo.
A tal proposito non si possono non ribadire alcune curiosità riguardanti l’uso delle
erbe:
preghiere propiziatorie (cc.25v., 54r. e a c.139r.) in sospetto di sortilegio.
formula propiziatoria (c.36r.)
modi per prevedere la morte del paziente (c.32r., 54r., 140v.)
modi per mantenere l’allegria in un convito (c.31r., 32r.)
modi per assicurarsi l’amore o la simpatia di qualcuno (c.32r.)adagio sanitario in latino “l’emula campana rende il pericardio sano” (c.66v.)
versi latini di carattere medico: “ ysopus est erba purgans de pectore leuma.
Ad pulmonis opus prestat medicamen ysopus”, cioè a dire che ysope è un’erba che elimina
la emma del petto e dalle membra e che fornisce rimedio e cura contro le malattie del
polmone. (c.88r.).
pratica ad amorem: “Per un uomo che è così preso e totalmente legato che
non può frequentare la sua donna quando è sposato, si cuocia questa erba (“piede di leone”)
86 v.sull’argomento T. ZULIAN, I semplici minerali, in: Di sana pianta. Erbari e taccuini di sanità, Modena, 1988,
p. 15987 v. sull’argomento:M. R IPPA BONATI, I “semplici” animali. in: Di sana pianta. Erbari e taccuini di sanità, cit., p. 67; 72
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[...] in fase di luna calante [...] e in quell’acqua si lavi tutto il corpo fuori di casa davanti al
suo uscio [...], poi dopo il ritorno a casa non guardi affatto dietro di sé (c.103r.).
giudizio sulla mandragora: erba che per articio, “così come abbiamo appreso
e sentito dire da alcuni lavoratori de campi”, assume “forma umana” e che “la virtù di
raffreddore, restringere e di morticare e anche di addormentare e narcotizzare chi ne viene
unto completamente (c.108v.).
inganno del praticante a n di bene (c.134r., c.164r.)
un cibo si segnala per la sua particolarità che trova riferimento nel territorio
modenese nel quale se ne fa largo uso: i zipules cioè zeppola, frittella, ciambella), simili alle
crescenti o gnocco fritto modenese (c.170r.): “ Zipules ce sont frictures faites de farine avec
oile; c’est moult grosse viande pour ii causes, l’une pour la moiteur de l’oile, l’autre pour
la gluieuseté de la farine, […], mais toutesfoiz a ceulx qui ont le foye ou la rate dangerenx
si ne mangeussent point” ”zeppole sono le frittelle fatte di farina e di olio; sono di grande
nutrimento per due ragioni, l’una per l’umidità dell’olio, l’altra per la vischiosità della
farina […] ma tuttavia coloro che hanno il fegato o la milza in pericolo, non ne mangino”.
C’è ancora da osservare che ogni elemento viene valutato in gradi (dal primo al quarto)
di calore (caldo/freddo) o di umidità (secco/umido) e le malattie e le indisposizioni sono
causate dall’azione di umori caldi o freddi, secchi o umidi di varia natura (colerica,
melanconica, ecc.): «« que les elémens muent le dégré des choses ce nous est monstré par
l’action que les elémens font et moult de choses…aussi fault il dire que les choses chaudes
refroident par la nège et les froides eschauffent par le feu » (c.166r.).
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L’Illustrazione botanica attraverso i secoli nei suoi valori botanici
e scientifci con particolare riguardo al Grant Herbier (est. 28 = α. M. 5. 9)
L'uomo, già dai tempi più remoti, e colpito dalla bellezza della natura, ha cercato di
carpire delle immagini e di tradurle poi, sui supporti più vari, per pure motivazioni artistiche,o per renderle leggibili nel tempo ad altri, assumendosi così l'onere di tramandarle a scopi
conoscitivi, non disgiunti, successivamente, da quelli scientici.
Sporadiche esili tracce di tali primitivi cimenti artistici esistono già nel paleolitico con
rappresentazioni di piante grafte sulle pareti delle caverne o su ossa, o a Cnosso su una
giara di terracotta decorata con tre palme, risalente al 1800 a. C., o a Creta, con un altro
vaso decorato con dei crochi risalente al 1550 a. C., presso gli Egiziani già nel 1450 a. C.
nel tempio di Tutmosi III, o ancora presso i Mesopotami ed i Greci, con una moneta che
porta impressa una spiga di grano, ritrovata a Metaponto.
Alcuni resti di decorazioni pompeiane e vari racconti degli storici greci, su ori e frutti
rappresentati in modo tale da ingannare le api e gli uccelli, comprovano quanto gli antichi
fossero divenuti maestri nell'arte del disegno.
Tralasciando gli incontri occasionali sopra ricordati, nei quali le erbe e le piante vengono
usate con nalità puramente decorative ed artistiche, occorre tuttavia attendere che la
medicina si avvii verso una dimensione scientica e di conseguenza prepari la via verso gli
erbari.
Anche se il primo di questi, quello di Crateva, nel quale l’artista aveva dipinto le erbe
nei colori naturali, ha perduto le sue illustrazioni è tuttavia certo che, esse, pur attraverso la
lenta, ma continua degenerazione delle immagini avvenute nel corso delle continue copie
tratte da quell'opera, si sono conservate dal sesto secolo in avanti in molti manoscritti ed in
erbari a stampa.
Quando nel I secolo d. C. appaiono le due basilari opere botaniche dell'antichità, la
Naturalis historia di Plinio e il De Materia Medica di Dioscoride, si avvia con molta
probabilità la vera e propria illustrazione botanica inserita negli Erbari.
Anche se non abbiamo il manoscritto originale del De Materia Medica, e non sappiamo
quindi se fu illustrato o meno, è giunto a noi quello splendido monumento di arte botanica
che è il grande codice di Dioscoride, confezionato a Costantinopoli e dedicato a Giuliana
Anicia nel 512 d. C., noto come Codex Vindobonensis. Tale opera dimostra uno standard
di eccellenza nei grandi disegni di piante acquerellati che, distribuiti in quasi quattrocento
pagine, colpiscono per il loro fermo naturalismo sconosciuto all'arte bizantina di quel
periodo e, rimasto insuperato per secoli, durante i quali la fortuna dell'illustrazione botanica
si rivela incerta e uttuante.Infatti l’osservazione per la natura che nell’antichità, specie nel periodo alessandrino,
stava alla base del cosiddetto disegno naturalistico, risalente all’illustrazione graca
naturalistica e anatomica della quale Aristotele è considerato l’iniziatore, seguito da Plinio
nel I secolo d. C., durante il Medioevo, per quasi un millennio, viene del tutto trascurata.
Ciò avviene, come rileva Claus Nissen88 “sotto l’inuenza concomitante della trascendenza
cristiana e del decorativismo germano-celta”.
Le illustrazioni degli erbari, così come dei bestiari e delle enciclopedie medievali, sono
per lo più puri e semplici schemi formali, astrazioni con intenti di ornamentazione, spesso
88 C. NISSEN, Scientiche e meccaniche rafgurazioni. Le gurazioni scientiche, voce dell’EnciclopediaUniversale dell’arte, XII vol., Venezia, 1964
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con signicato allegorico o araldico, quasi sempre senza precise connessioni con il testo.
D’altra parte se una pianta o un animale assurgono a simbolo di una virtù o di un vizio, che
importanza può avere una loro rappresentazione aderente alla natura e perché quindi non
preferirgli una rafgurazione idealizzata più aderente allo scopo?
Le gure di piante e animali servono quindi non ad illustrare la natura, ma ad ornare i
testi, con i quali, come già detto, spesso non hanno connessione di alcun genere.
Quest’arte viene quasi del tutto trascurata durante il Medioevo, come appare dalle
miniature, spesso rozze, che si riscontrano nei manoscritti di quel tempo, da considerare
più che altro ricettari visto lo stretto legame delle piante con la materia medica, delle cui
tradizioni essi si fanno portatori. Occorre infatti considerare che, di regola, l'illustrazione
degli erbari medievali è connata a rappresentare rafgurazione dei semplici e, solo in
pochi casi, questa arida sequenza è interrotta dall'introduzione di gure di soggetti, piccole
scene che, per la maggior parte, descrivono la scoperta delle piante in forma mitologica o
aneddotica.
Inoltre i copisti e gli artisti che si cimentano nella riproduzione dell'archetipo, via via
non si dimostrano all'altezza e niscono con lo snaturare e alterare i disegni originali. Gli
scribi ed i miniatori medievali non intervengono soltanto come corruttori delle illustrazioni
e del testo, ma introducono delle vere e proprie innovazioni. Ciò come conseguenza diretta
del cambiamento radicale di atteggiamento verso la ricerca scientica che si compie nel
Medioevo, del quale si sono visti i primi annunci nello stesso Cassiodoro. Si determina
così la tendenza ad animare l'arida illustrazione scientica con vari espedienti, dal
carattere mostruoso attribuito ad alcune piante, alla loro metamorfosi decorativa. C'è però
da sottolineare che tale processo non è rettilineo e, lungo tutto il Medioevo, si possono
incontrare illustrazioni straordinariamente fedeli al modello antico.
Lo dimostrano chiaramente il Codex Neapolitanus, copia di un manoscritto greco del
Dioscoride che, pur corredato da disegni efcaci, non appare più all'altezza delVindobonensis,e il Dioscoride parigino del IX secolo che, pur di qualche interesse, perché riporta disegni
di piante di vari manoscritti, non esclusi quelli provenienti dal Codice Aniciano, sono
anch'essi di carattere inferiore.
La medesima cosa capita per gli erbari latini il cui prototipo sembra essere l' Apuleio
Platonico o Pseudo Apuleio, ove troviamo rappresentazioni di piante tratte dai prototipi
romani certamente alterate e stilizzate, ma che hanno il merito di fornire agli illustratori
immagini ed esempi per molte generazioni.
Infatti, insieme al Dioscoride tradotto in latino nella prima metà del VI Secolo, e ad
uno Pseudo-Dioscoride denominato De Herbis Feminis, formano il corpus principale di
conoscenze botaniche e forniscono il più consistente e credibile modello per l'illustrazionedelle piante durante l'oscuro periodo medievale.
Così è per l' Herbario di Apuleio, tradotto in Anglosassone intorno all'anno Mille e
presente alla British Library col codice Cotton Vitellius C. III , databile intorno alla metà
dell'undicesimo secolo, e nemente illustrato, come espressione di una scuola di illustrazione
botanica che, introdotta dal Nord della Francia, si sviluppa in Inghilterra tra il decimo ed il
dodicesimo Secolo.
Interessante pure si mostra il manoscritto Bodley I 30 di Oxford, scritto e miniato intorno
all'anno 1120. Il naturalismo di alcune gure di piante, può essere qui spiegato con la
congettura che l'artista, abbandonando la vecchia abitudine di copiare, abbia scelto invece
di prendere a modello le stesse piante dal vero.Ma tali notevoli esempi non avranno seguito, in quanto questa scuola inglese viene
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soppiantata durante il dodicesimo secolo da un nuovo stile pittorico importato dalla
Normandia. E’ stile romanico che, sorto su modelli romani sviliti durante il loro passaggio
attraverso il Nord Italia, si è evoluto nel Nord della Francia in pieno secolo decimo, avendo
come caratteristiche una simmetria ed un formalismo che portano l'illustrazione botanica ad
un astrattismo che rende irriconoscibile molte piante. Da ciò si può affermare che, all'inizio
del tredicesimo Secolo, l'illustrazione scientica botanica tocca in Occidente il suo punto
più basso.
Questo lungo inverno si avvia lentamente verso la sua ne, attraverso vari sintomi di
rinascita che si avvertono nell'aria, a mano a mano che dalla mente dell'uomo medievale
svanisce la paura della natura e di nuovo nel mondo si diffonde il piacere per i suoi prati,
per i suoi ori, per il canto degli uccelli: lo testimoniano i canti dei trovatori che esplicitano
tutta la loro gioia per i ori e per le piante, la preghiera di fraternità di S. Francesco verso
gli uomini e la natura con i suoi frutti, i suoi ori, le sue erbe.
A partire dal secolo XIII, qualche manoscritto italiano viene già illustrato in modo
naturalistico, come si rileva da un’ Arte venandi cum avibus, celebre trattato sulla falconeria
dell’imperatore Federico II e dall’ Agregà de Serapion composto a Padova intorno al
1400.
Nel Trecento, l'epoca di Petrarca, Boccaccio e Chaucer, riscontriamo l'identico generoso
amore per la natura nei grandi pittori toscani, ma stranamente, di rado, riusciamo a
trovare nelle loro opere un ore il cui genere sia riconoscibile. Quasi solitario, un bianco
giglio rafgurato in un mosaico del battistero di Firenze, è rappresentato con la massima
espressività naturalistica.
L'invito di Cennino Cennini agli artisti del tardo Trecento a spargere un certo numero
di ori e di uccelli sui prati verdi, è la formula che i suoi contemporanei applicano per la
rappresentazione della primavera.
Intanto prosegue la tradizione dioscoridea, la quale, mentre nelle copie realizzate nelmondo greco si mantengono se non all'altezza, abbastanza vicine al realismo del modello
originale, come sembra provare un Dioscoride del primo Trecento conservato nella
Biblioteca del Seminario di Padova, dove le erbe e i ori sono ancora ben individuabili,
in Occidente nelle copie prodotte negli scriptoria benedettini come Montecassino o come
quelli sparsi un po' per tutta Europa, dall'Irlanda in giù, nei vari monasteri fondati da quei
monaci nel loro peregrinare, fuse con l'erbario dello Pseudo-Apuleio, le immagini appaiono
sempre più stilizzate e quasi bloccate in un rapido formalismo di maniera che spesso le
rende non chiaramente riferibili alla pianta che intendono rappresentare.
Da ricordare anche un Erbolario, il Codice Palatino 586 , conservato alla Biblioteca
Nazionale di Firenze, primo esempio miniato di quello che poi sarà il Tacuinum Sanitatis,con il testo esplicativo in lingua provenzale. Per quanto riguarda la sua illustrazione, secondo
Elena Berti Toesca89, in un saggio del 1937, ci troviamo davanti ad una chiara divisione tra
due miniatori che dimostrano stili diversi nelle illustrazioni dei vegetali. Infatti le foglie,
appaiono compresse come in un erbario, mentre gli alberi sono circondati da dame e da
scene di genere e fantastiche o con "drôleries" del genere più grottesco, e si rendono spesso
antropomorfe le radici delle piante che ammiccano, che fanno sberlef, sotto le sembianze
di vecchi maligni e ghignanti. Tuttavia, mentre il primo miniatore, nonostante la ricerca di
vivacità, mostra un'arte povera, fredda e stentata, tanto da far pensare che egli stia copiando
faticosamente o comunque rifacendo con mediocrità artistica quanto gli suggeriscono le
89 E. BERTI TOESCA, Un erbolario del ‘300, in: “La Bibliolia”, XXXIX (1937), pp. 341-353
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miniature di qualche prototipo che ha sottomano, il secondo invece che può essere preso ad
emblema più alto dell’illustrazione alto medievale, è molto più dotato. Anche se disegna
piante e radici con teste umane, egli mostra piante, ori e steli che sembrano chiusi e stesi
tra i fogli di un erbario con precisa nezza, li rappresenta nella forma squisita e complessa
con tutto lo spirito dell'arte gotica, sospesa tra la natura e l'idealizzazione che anticipa
le vivaci pagine con le quali, qualche decennio più tardi, la miniatura italiana denirà i
Tacuina di Parigi, di Vienna e di Roma, veri e propri trattati di igiene intorno alle qualità
dei cibi, delle bevande, delle stagioni, delle intemperie e persino dei moti spirituali, al loro
effetto sul corpo umano e al modo di correggerlo e aiutarlo. In quelli troveremo miniature
intese ad illustrare la materia particolare alla quale il progetto di genere si riferisce, non più
le rappresentazioni schematiche quali si trovano in erbari e in trattati medici medievali, ma
ogni soggetto suggerisce al miniatore la rappresentazione di una scena di genere.
Comunque, solo quando il Trecento volge alla ne, assistiamo ad un affermarsi quasi
generalizzato e simultaneo del naturalismo nell'arte italiana, tedesca, amminga e francese,
anche se il primato, almeno in campo paesaggistico, sembra spettare ai miniaturisti franco-
belgi, e le loro scoperte, passando dolcemente per le vecchie tradizionali vie, si divulgano
attraverso la Francia, l'Olanda, la Germania e, transitando da Trento e Verona, nel Nord
Italia.
In campo librario il naturalismo botanico afora ai primi del Trecento, prendendo le mosse
dall'illustrazione del Circa instans prodotto già nel dodicesimo Secolo dalla Scuola medica
salernitana, anche se solo alla ne di quel secolo si ha una vera e propria rafgurazione
pittorica di erbe e ori, condotta con un'analisi accurata e con ricchezza di particolari che,
attraverso la delicatezza e la freschezza dei colori, ci dà immagini abbastanza realistiche.
Ne sono esempi validissimi tre importanti erbari veneziani che, per il loro tentativo di
realizzare un'immagine botanica il più naturalistica possibile, anticipano di più di un secolo
il grande Herbarum Vivae Eicones del Brunfels. Uno di essi è l' Erbario realizzato perFrancesco II da Carrara che contiene un volgarizzamento del testo arabo di Serapione oggi
conservato alla British Library: le immagini naturalistiche di quel codice sono eseguite
da un maestro che sa rappresentare le erbe medicinali ed i ori con un forte realismo non
scevro da una nezza coloristica che trova riscontro nei maestri della pittura dell'epoca.
Per la prima volta dall'età ellenistica le piante si avvalgono di una rappresentazione
veridica, senza dare spazio ad idealizzazioni ed a stilizzazioni, per cui nulla sfugge a questa
descrizione minuziosa e precisa, addirittura evidenziando il recto ed il verso delle foglie per
coglierne le differenze, che rende possibile l'identicazione di tutte le piante rappresentate,
così come i frutti non sono più sull'albero come nei Tacuina, con un attenzione coloristica
straordinaria ed efcace, con risultati di notevole eleganza stilistica, che fanno di tale codiceuna vera e propria opera d'arte, al di là del suo valore scientico notevole, ma ridotto,
considerato il numero non elevato di piante descrittevi ed il testo piuttosto scarso.
Al contrario del Serapione, molto più ampio è il numero delle piante rappresentate
nel ricchissimo Erbario cartaceo ( Lat. VI, 59) dipinto a Venezia, per il medico Nicolò
Roccabonella, nella prima metà del sec. XV, verso il 1445-48, dal pittore miniatore Andrea
Amadio "pictor sublimis". E' un prezioso documento scientico nel quale, con un verismo
meno accentuato, attraverso immagini ravvicinate, e a volte quasi lenticolari, fresche e di
notevole sensibilità coloristica, l'Amadio dipinge i ori in rafgurazioni di una sorprendente
anticipatrice modernità, ed i frutti più svariati con una certa delicata evidenza.
Il terzo manoscritto di origine veneziana, ora conservato alla British Library, ( Add.41623), risalente ai primi anni del sec. XV è un Erbario certamente meno bello e importante
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del precedente, ma che dimostra come il Serapione non sia un fenomeno isolato. Esso
contiene interessanti esemplari di ora alpina e vi è compreso un edelweiss ed altri ori,
come il "lillium martagon", dipinto a gruppo nel quale alcuni elementi come il ore sono
più che realistici, mentre le foglie si avvalgono delle solite insoddisfacenti immagini
convenzionali.
Tali esempi niscono per inuenzare anche la miniatura, cioè l'arte gurativa inserita in
un testo scritto seguendo certi canoni strutturali e stilistici enunciati nel De arte illuminandi di un anonimo trecentista90 che mette in moto un meccanismo mentale ed operativo
profondamente diverso da quello che regola la pittura.
Il trattato insieme ad altri sulla tecnica della miniatura medievale, mette anche in
evidenza un altro particolare rapporto, per così dire interno ed intrinseco, che non appare
in supercie ma che esiste tra varie piante e ori, tra il libro e la miniatura n dall'antichità
e per tutto il Medioevo, in una, a volte, insospettabile quanto suggestiva commistione
alchemica che riguarda la preparazione dei colori, delle colle, delle penne, degli inchiostri e
più tardi, della stessa carta allorché essa sostituirà la pergamena. Già nel trattato di Eraclio91 “ricettario” medievale, redatto forse da un monaco, alla ne del sec. X, in tre parti, il più
antico compendio pervenutoci pressochè integralmente, in materia di tecniche artistiche e
artigianali del medioevo, aforato nel XV secolo in un manoscritto parigino, insieme ad
altri trattati, troviamo le ricette per fare colori con secchi vegetali "quomodo ant diversi
colores de oribus campestribus...". Ma è proprio nel De arte illuminandi che troviamo
tutta una serie di ricette le quali, partendo da Plinio e dai colori "necessari a miniare",
insegnano a prepararli nella loro varietà "dalle radici di Cuccuma" o dall'"erba dei Tintori",
"con i ori dei gigli azzurrini" o con "i grani gialli che si trovano in tempo di vendemmia
lungo le siepi delle vigne", o "con l'erba detta tornasole" e così via, per ottenere liquidi
alcalini d'uso come le varie "liscivie", nella preparazione delle quali entrano le ceneri delle
piante, per estrarre i principi coloranti organici di diversi ori, legni o radici di pianteeuropee ed esotiche.
E' questo un passaggio importante e fondamentale che, oltre a legare la pittura e la
miniatura in un unicum inscindibile e spesso indistricabile, ci offre illustri esempi di codici
miniati con erbe, ori e frutta indiscutibilmente derivanti dall'illustrazione botanica, e
che non di rado risente, proprio alla ne del Trecento, di quel gotico internazionale che
originatosi in Borgogna, con la sua nuova coraggiosa gioia nella natura, trova il suo più
alto completamento nei freschi, splendenti paesaggi dei miniaturisti amminghi, mentre
in Italia, si afferma con Stefano da Verona o da “Zevio” (1374 dopo il 1438) il primo
vero esponente ed assertore in Verona dello stile neogotico di provenienza oltremontana
e di valore internazionale che, sceso per la Val d’Adige, diede all’Italia settentrionale una precoce e fuggevole primavera d’arte.
A questo punto l'illustrazione botanica assume una valenza bipolare e sia pure parallela,
diversicata e divaricata: infatti, mentre come vedremo, da un lato trova la sua collocazione
più propria negli erbari manoscritti e nei tacuina dipinti, cioè nei cosiddetti "Orti picti", dove
l'immagine è chiaramente funzionale al testo, assumendosi il ruolo di chiarirne i contenuti
90 cfr. De arte illuminandi, e altri trattati sulla tecnica della miniatura medievale nell’edizione a stampa a cura
di Franco Brunello, Vicenza, 1975.
91 ERACLIO, De coloribus et artibus Romanorum, libri 3, in esametri latini, sec. X exeunte cfr. G. R OMANO,
I colori e le arti dei Romani e la compilazione pseudo-eracliana, Bologna, 1996; W. BLUNT, The art ofbotanical illustration, London, 1950
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ed al tempo stesso, di esplicitarli visivamente, dall'altro, per oltre un secolo, la natura offre
le sue immagini ed i suoi colori per la decorazione delle pagine membranacee o cartacee
dei codici, siano letterari o liturgici o scientici, con funzione esclusivamente estetica, ne
a se stessa. Così le piante, i ori, i frutti, i paesaggi, assumono una funzione di sfondo in
un contrasto gurativo e stilistico che fa perdere vigore e sfuma il valore semantico della
decorazione medievale con le sue immagini irrazionali ed importanti, per approdare via via
a pagine, nelle quali la miniatura, raggiunta la sua massima dignità, allentando i suoi vincoli
con la scrittura alla quale per secoli è stata intimamente congiunta, riesce a comunicare
la serenità e la conquista della bellezza propria dell'uomo rinascimentale, tralasciando le
sue doti di efcacia narrativa e quegli accorgimenti stilistici e compositivi che erano stati
concepiti per dare chiarezza alle immagini evocate dal testo.
Così la miniatura che nei secoli remoti, no alle soglie dell'età gotica, si è presentata
in formule canonizzate e calligrache, sia pure colme di alto fascino decorativo e in lenta
evoluzione, manifesta nell'età rinascimentale una sua autonoma e individuale originalità,
impensabile prima e quasi sempre denuncia la presenza di un artista creatore. Si dice che
essa diviene pittura, ma non come "corollario" dell'arte sorella maggiore che seguirebbe
obbediente e docile, ma spesso con l'autorità della "grande arte" e, solo nei casi meno
eccellenti e corsivi, come insostituibile testimonianza dello svolgersi della pittura.
Il primo esempio miniatorio illustre può considerarsi il Très riches Heures du duc de
Berry92, eseguito tra il 1410 ed il 1416 da maestri amminghi per il Duca di Jean de Berry,
codice nel quale troviamo un bordo miniato con ori eseguiti naturalisticamente, anche se
l’opera appare, a quella data, tanto rara quanto fortemente anticipatrice. Presto però nelle
Fiandre, nel 1430, i fratelli Hubert e Jan Van Eyck dipingono dei gigli e degli iris su una
pala dell'altare di Glent, cui seguiranno nel corso del secolo opere di Hans Memling e
Gerard David nelle quali gurano affascinanti ori selvatici. L'opera pittorica più veristica,
che rappresenta un fascio di iris, di gigli in un vaso e delle aquilegie in un bicchiere, èquella conservata agli Ufzi di Firenze, eseguita intorno al 1476 dal pittore ammingo
Hugo von de Goes93 (Gand 1440 - Auderghen 1482) con la competenza di un vero botanico
che anticipa il verismo cinquecentesco con colori vivi e splendenti.
Un ottimo esempio di tale tipo di opera si ha nella Legend of St.Hubert conservata alla
National Gallery di Londra.94 In Francia nei manoscritti della prima e seconda metà del Quattrocento, troviamo solo
occasionalmente decorazioni di ori lungo i margini che, sebbene composte in maniera
ornamentale hanno qualche pretesa di precisione botanica, ma tale cura è del tutto
eccezionale, poiché il gusto dell'epoca favorisce l'esecuzione di lavori pergamenacei con
edere infogliate e ori stilizzati. Tuttavia viene introdotta gradualmente, prima nei manoscrittiamminghi e poi in quelli di tutto il resto d'Europa, una intima osservazione della natura.
Sui bordi interamente incorniciati di colore uniforme o d'oro vi sono dipinti ori, insetti,
uccelli, tracciati con molto realismo e messi in rilievo da vigorose ombreggiature. Tale
stile decorativo che probabilmente si deve al genio del Libro d'Ore del cosiddetto "Master
of Mary of Burgundy", forse identicabile con Alexander Bening, culminerà verso la ne
del Quattrocento nella magnicenza del Breviario Grimani95, dovuto all'abilità di artisti
92 Chantilly, Musée Condé,Chantilly, Musée Condé, ms.65
93 Trittico Portinari, Firenze, Galleria degli Ufzi, HUGO VAN DER GOES.
94 Legend of Saint Hubert , Londra, National Gallery95 Breviarum secundum consuetudinem Romanae Curiae, Venezia, Biblioteca Marciana, cod. lat. I. 99 (= 2138).
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della scuola di Bruges e Ghent, conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia. Ma troverà
riscontro anche nei manoscritti di Jean Bourdichon, dove le decorazioni marginali sono di
evidente concezione botanica. Se il più certo e noto manoscritto di Bourdichon è il Libro
d'Ore96 , preparato tra il 1500 ed il 1508 per Anna di Bretagna e conservato alla Bibliothèque
Nationale di Parigi, dai bordi marginali decorati con piante e ori con immagini di
considerevole bellezza che danno luogo ad un "precoce orilegio", occorre però tenere
presente che Bourdichon, con tutto il suo amore per la natura e per i ori è prima un artista
e poi un botanico, per cui non si pone in alcun modo il problema di modicare uno stelo o
una foglia per rendere più lieto il suo spazio pittorico, così come di piegare le bianche gocce
di rugiada o l'incarnato dei ori alle sue preferite ombreggiature blu.
A lui è stata attribuita, ma con molti dubbi di carattere temporale più che stilistico, la
miniatura de Le Petites prières de Renée de France97 , tipico esempio di fregi marginali con
foglie, ori, bacche, farfalle e bruchi, miniato per Renata di Valois, glia del Re di Francia
e moglie di Ercole II d'Este.
La miniatura è comunque francese, forse attribuibile a Jean Perreal, Godefroy o Jeannet
Clouet, glio di Jean Clouet, e comunque ad un artista che in ogni caso appartiene alla
tradizione del Bourdichon e risente dell'inuenza del Clouet, e che sa trattare con levità
negli ornati dei fregi i toni dell'attenta, fedele, obbiettiva riproduzione della natura che,
come abbiamo visto, è tanto cara ai amminghi.
Analogo discorso vale per altri tre codici, uno di miniatura franco-amminga e gli altri
due amminghi, conservati dalla Biblioteca Estense Universitaria di Modena. Il primo è
un Ofcium B. Mariae Virginis98 del XV secolo in bastarda francese, con molte pagine
che hanno il margine esterno decorato da fregi contenenti ori, bacche, foglie stilizzate in
colori vivaci che vanno dal verde al viola, dall'azzurro al rosso scarlatto, in uno stile che
ricorda il decoratore99 di un codice della Bibliothèque Royale di Bruxelles. Il secondo, è
un altro Ofcium B. Mariae Virginis,100 in gotica rotonda, del XVI secolo ineunte, con modidecorativi e stile proprio dei amminghi che si riscontrano in ogni pagina con carattere
unitario molto alto, sia nell'esecuzione della gura, sia nelle pagine contornate da fregi
a fondo paglierino grigio o rosso, cosparsi di ori, fragole, farfalle, bruchi e chiocciole,
con iniziali in oro o argento formate da foglie d'acanto su fondo di vario colore. Il terzo,
anch'esso un Ofcium B.Mariae Virginis101 in gotica rotonda, pure del XVI Secolo, ha
molti fregi marginali miniati con il consueto verismo ammingo che, su un fondo oro
opaco inserisce ori, frutti, uccelli, farfalle ed altri insetti, con uno stile chiaro, luminoso e
trasparente che fa pensare ad Alexandre Bening, attivo a Gand e a Bruges tra il 1468 ed il
1518.
Lo stesso tema di miniatura oreale, del tutto nalizzata all'aspetto decorativo confunzione di sfondo e di ornamento, ed ancora più stilizzata, lo troviamo in un esempio tipico
della miniatura ferrarese della metà del Quattrocento che trova fertile humus nella corte
Estense, già da quando Pisanello, indirettamente legato a quel Michelino da Besozzo (1388-
1450) che, tra il primo ed il secondo decennio del Quattrocento dipinge un Libro d'Ore102
96 Parigi, Bibliothéque Nationale de France,Parigi, Bibliothéque Nationale de France, ms. lat. 9474.
97 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. lat. 614 = α. U .2 .28
98 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms .lat. 804 = α. G. 9. 16
99 Bruxelles, Bibliothèque Royale,Bruxelles, Bibliothèque Royale, ms. 9510.
100 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. lat. 825 = α. H. 9. 11
101 Ibidem.Ibidem. ms. lat. 853. = α. G. 9. 26 102 New York, Pierpont Morgan Library, ms New York, Pierpont Morgan Library, ms. 994
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conservato alla Pierpont Morgan Library, nel quale i ori delle cornici sono realizzati con
stile perfetto e con un cromatismo molto vicino al reale, dipinge il ritratto di Lionello d'Este
che ha sullo sfondo un roseto rafgurato con sorprendente realismo, ed il ritratto di Ginevra
d'Este su un fondale di aquilegie e garofani rappresentati altrettanto realisticamente. Sono
di gusto pisanelliano i ori che Guglielmo Giraldi minia nell' Aulo Gellio103 conservato
alla Biblioteca Ambrosiana eseguito nel 1448, o i ori multicolori che Angelo da Siena,
il Maccagnino, dipinge per incarico di Leonello nello studiolo di Belore ai piedi della
Musa Melpomene. Lo stesso dicasi per i pittori dell'epoca di Borso che, a partire dal 1450,
completano le Muse dello studiolo dove dipingono rafnatissimi rami di rose non recise,
e gigli aventi anche quella valenza simbolica che sarà presente specialmente nei dipinti
religiosi di epoca rinascimentale, rafgurando lo stesso Borso con una delicata rosa in
mano e vanno ad inuenzare l'opera dei più illustri miniatori del principe, Taddeo Crivelli
e Franco Russi che stanno per mettere mano alla Bibbia.
La miniatura ferrarese sull’onda di stilemi orentini riconoscibili nei rami stilizzati, i
cosiddetti "racemi", intrecciati di foglie e ori, che si ripetono per le carte del manoscritto
con un ritmo che sembra noiosa iterazione, ma che è solo sequenza musicale, riesce a
raggiungere notevoli risultati, avvalendosi di artisti di primaria grandezza, inuenzati da
Pisanello e da Piero della Francesca, da Cosmè Tura, da Francesco del Cossa e da Ercole
De Roberti, e tale da essere perfettamente individuabile, nel suo trapasso dalla civiltà tardo
gotica a quella rinascimentale.
Ne sono esempi prestigiosi, quanto emblematici, quattro famosi codici estensi.
Il primo è la famosa Biblia latina nota come Bibbia di Borso104, presa in considerazione
in tale contesto per fornire un esempio tipico di giardino rinascimentale, e quindi nell'altra
chiave di lettura dell'amore che lega gli Estensi alla natura, ma che potrebbe benissimo
servire da esempio in chiave iconologica per la decorazione oreale stilizzata, fatta
soprattutto di rose e serti o singole, che invade le 1200 pagine attraverso le quali principidei miniatori quali Taddeo Crivelli, Guglielmo Giraldi, Franco Russi, Marco dell'Avogaro
e tanti altri, hanno rappresentato uno dei capolavori o forse il capolavoro della miniatura di
tutti i tempi, nella quale le preziosità tardo-gotiche si trasformano in sontuose rafnatezze
rinascimentali.
Il secondo è il Missale Romanum105 conosciuto universalmente come Messale di Borso
d'Este, essendo stato confezionato per tale personaggio. Il codice, uno dei più squisiti
monumenti della miniatura ferrarese per la fusione di spiriti gotici e rinascimentali, dalla
quale emerge una sensibilità cromatica lievitata dai pittori amminghi come Roger van der
Weyden e con le chiarità mattinali ispirate da Piero della Francesca. In tutte le 628 pagine
membranacee del codice traspare tutto il gusto per la bellezza tipica del Rinascimentoferrarese, che si estrinseca con tutto il suo fulgore cromatico
Un terzo codice risalente ai primissimi anni del Cinquecento è un Breviarium,
conosciuto come Breviario di Ercole I 106 per il quale fu composto e che con le sue 491 carte
splendidamente decorate, riprendendo quell'amore per la natura e per i ori che sembrava
essersi interrotto dopo il 1470 con la morte di Borso, è uno dei manoscritti della miniatura
ferrarese del periodo più tardo, che conosce già le sue più lontane proiezioni, così come
103 Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. SP. 10. 28.
104 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. lat. 422-423 = Ms. V. G. 12-13, 2 voll.
105 Ibidem, ms. lat. 239 =α. W. 5. 2106 Ibidem, ms. lat. 424 (= ms. V. G. 11)
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tutta questa forma d'arte come genere illustrativo, modicata e alterata da sopravvenuti
motivi amminghi e lombardi. Così Matteo da Milano, Tommaso da Modena ed un terzo
miniatore non identicato, danno vita, tra il 1502 ed il 1504, sia pure con disuguaglianze
stilistiche, ad un complesso di alto valore artistico che, offrendo l'epicedio della miniatura
primo-rinascimentale di origine o almeno di gusto ferrarese, sa rivaleggiare con la Bibbia.
Agli stessi maestri è da attribuire un quarto codice, un Ofcium Beatae Mariae Virginis,
meglio noto come il Libro d'Ore di Alfonso I, oggi conservato in parte a Lisbona e in parte a
Zagabria107, nelle cornici del quale compaiono gli identici elementi naturalistici del Breviario con ori, foglie, frutti, del più fantasioso e moderno Matteo che abbandona i tradizionali
fregi a ligrana con foglie, ori stilizzati e bottoncini d'oro che, come già sottolineato,
caratterizzano tutta la miniatura ferrarese del Quattrocento, costituendo un'inconfondibile
quanto colorata griglia che racchiude le pagine dei codici o semplicemente ne adorna un
solo lato.
Mentre questi codici di lusso recepiscono, perpetuano e trasmettono, tra il Quattrocento
ed il Cinquecento, l'immagine naturalistica attraverso miniature di alto stile che spesso
hanno solo valenza artistica, ma che altre volte non tralasciano quella scientico-botanico,
rappresentata con un tale verismo che fa ipotizzare, non a torto, il cimento parallelo di alcuni
artisti anche nell'illustrazione di libri scientici, l'altro lone più propriamente scientico,
quello degli erbari e dei tacuini, trova sbocco, sulla via parallela, in opere che, se a volte
non possono essere denite miniate, hanno un altissimo valore artistico che nalizza quello
perseguito dalla botanica.
Agli ultimi decenni del Secolo XIV ed ai primi anni del XV risalgono i tre Tacuini oggi
noti: i Tacuina Sanitatis di Vienna e di Parigi ed il Theatrum Sanitatis di Roma.
L'artista che più si avvicina per lo stile illustrativo a quello dei tre manoscritti, è
quel Giovannino de' Grassi, pittore e miniatore milanese che anticipa il Pisanello per la
rappresentazione naturalistica degli animali e che compie molti studi e rafgurazioni diori, come si evince da alcune pagine da lui miniate dell’ Historia Plautorum ms. 459
dalla Biblioteca Casanatense di Roma. Anche se la critica più recente, che fa capo a Pietro
Toesca108, attribuisce i caratteri distintivi alla scuola lombarda e più precisamente alla scuola
di Giovannino de' Grassi, di Franco e Filippo de' Veri, e di Anovelo da Imbonate, mentre
secondo Mario Salmi109 è riconoscibile la mano di Salomone de' Grassi, glio di Giovannino,
è possibile avanzare l'affascinante ipotesi di una derivazione dei tre manoscritti da un
unico archetipo costituito da un Taccuino di disegni dell'Accademia Carrara di Bergamo,
attribuito proprio a Giovannino de' Grassi e contenente gure e scene che potrebbero essere
studi preliminari per un Tacuinum Sanitatis.
Dei tre Tacuini il Theatrum Sanitatis Casanatense110
, che è vicino al viennese per leillustrazioni e al parigino per il testo, anche se sono da escludere dirette derivazioni, nelle
sue illustrazioni si rivela il più aderente al testo, e con la essenzialità delle sue immagini,
107 Lisbona, Museo Calouste Sarkis Gulbenchian; Zagabria, Galerija Strossmayerova. Olim: Modena
Biblioteca Estense Universitaria , ms. VI. D. 7 , segnatura che compare nell’ex libris del frammento conservato
a Lisbona. Del prestigioso ms. è stato pubblicato a Modena per Il Bulino edizioni d’arte, nell’anno 2002
un facsimile che raggruppa i due frammenti, corredato da un minuzioso commentario curato da Ernesto
Milano.
108 P. TOESCA, La pittura e la miniatura nella Lombardia dai più antichi monumenti alla metà del Quattrocento,
2° edizione a cura di E. Castelnuovo, Milano, 1982.
109 M. SALMI, La miniatura italiana, Milano 1955.110 Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 4182, edito in facsimile a Modena, nell’anno 2004.
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che seguono la comune tradizione iconograca, evitando generalmente le aggiunte di
fantasia, il miniatore tralascia spesso la gura umana, che, dove appare, è rappresentata con
grande verità: slano così grandi alberi da frutto con frutti a volte sproporzionati rispetto
alle piante sulle quali sono rafgurati, piante fruttifere, erbe odorose e radici commestibili,
fra cui sono inseriti anche i ori, il tutto in un complesso pittorico certamente ancora molto
stilizzato, ma di indubbia efcacia.
I due grandi erbari conservati a Modena, il Tractatus de herbis (Circa instans) in latino del
1458 e l’ Herbolaire o Grant Herbier in francese, databile anch’esso, come abbiamo visto,
nel secolo XV, e più precisamente intorno al 1470-80, costituiscono due tappe fondamentali
per la scienza naturalistica in genere e per quella botanica in particolare, in quanto si
avvalgono di una notevole ricchezza di immagini delle quali moltissime rappresentano
piante con foglie, ori e radici.
L’esame dei due prestigiosi esemplari rivela però delle differenze sul piano
iconograco.
Nel manoscritto latino si riscontra una maggiore varietà di immagini, ma al tempo stesso
una più accentrata stilizzazione e schemi più arcaici, come le radici dei semplici circondate
da insetti o da serpenti, derivati, come già evidenziato, per lo stile delle miniature, secondo
l’acuta osservazione di Otto Päct, da quel ms. Egerton 747 della British Library che precede
il lat. 993 di quasi centocinquanta anni nell’area sud o centro Italia. Nel codice francese
invece, si riscontra una minore varietà, ma una maggiore libertà di schemi, e un maggiore
verismo ed una maggiore nezza di esecuzione e dei colori più vivi, anche se l’artista nelle
391 miniature che corredano il manoscritto, non è sempre fedele al testo, ma a volte, come
gli accade, ad esempio, per l’“ Indicus” (g. 299 c.91v. I) e l’“ Incensaria” (g. 202 c.92r. II),
rappresenta piante del tutto diverse da quelle descritte dall’autore del testo. Lucia Tongiorgi
Tomasi111 avanza la tesi, abbastanza vicina al vero, secondo la quale “le numerose miniature
che corredano questi due manoscritti estensi, occupandone limitate proporzioni della paginaall’inizio del soggetto trattato non possono essere considerate delle immagini “dal vero”:
esse sembrano piuttosto derivate da precedenti codici visivi anche se vi si riscontrano una
serie di particolari naturalisticamente corretti”.
L’ Herbolaire si avvale di immagini differenti sotto il rapporto artistico. Infatti l’anonimo
artista, che conduce le miniature con una trasparenza e leggerezza di tinte che ancora oggi
conservano nei colori brillanti una tangibile freschezza, eccelle in alcuni quadretti nei
quali è presente la gura umana, intenta a lavori riguardanti l’estrazione di alcuni metalli
o essenze, come quella a c.3r. I, rafgurante un uomo che con una rete raccoglie piccoli
tronchi di aloe trasportati dalle acque azzurrine di un ume che scende dai monti; come
quella, a c.8r. II, che rappresenta un uomo che con un piccone scava la roccia per raccoglierel’antimonio; come quella a c.17v. II, dove un uomo, con una tunica rossa e calzoni turchini,
zappa una parete gialla per scavare il pigmento aurifero; come quella a c.25r. II dove un
uomo scava con una vanga per la raccolta del bolo e la tunica celeste della gura umana
contrasta con il colore bruno rossiccio del terreno; e ancora come quella a c.165r. I dove
un uomo davanti a una pianta di tribolo marino raccoglie con due mestoli la gomma che
cola dal tronco dell’albero versandola in un barile. La miniatura posta a c.150v. II che
rappresenta un uomo che scava con una zappa per la raccolta dello zolfo, pare avvicinarsi
allo stile di Jean Colombe.
111 L. TONGIORGI TOMASI, Rafgurazione naturalistica e immagine artistica, in: Immagine e natura…cit., pp.157-165
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Minore efcacia dimostra l’artista nel rappresentare una mummia in una bara (c.108r.
I) o la famosa Mandragora, in forma di donna posta alla radice di una piccola quercia con
ghiande o, ancor peggio, nel disegno quasi infantile di un edicio (c.167r. II) disegnato per
richiamare il vetro attraverso i vasetti esposti sulle nestre.
Ancora meno efcace e quasi ingenuo risulta il miniatore nel rafgurare animali come
il capodoglio (c.14v.), il castoro dorato (c.42r.) con una coda a forma di pesce; le due capre
muschiate al pascolo (c.113r. II); l’elefante su un prato (c.152v.). La rafgurazione dei vari
animali è spesso imprecisa e quasi infantile, mentre la miniatura che rappresenta le api che
volano intorno ad un alveare posto su un tavolo (c.111r. I) risulta veristica e di una certa
efcacia, così come il cervo accovacciato su un prato (c.127r. I), o la seppia (c.127r. II).
La stessa inefcacia e puerilità nel disegno, che spesso non permette di identicare
sicuramente, a prima vista, ciò che è stato rappresentato, l’artista dimostra nella
rappresentazione dei minerali o delle sostanze. Così è per l’amido a pezzetti entro una
tinozza (c.8r. I); per l’aceto entro un panciuto vaso d’argento con anse (c.16v. I); per i due
pezzetti di asfalto di colore grigio scuro (c.18r. II); per le tre conchiglie abbastanza veridiche
(c.30r. I); per l’improbabile vaso marrone scuro contenente burro giallastro (c.31r. II); per i
due informi pezzi di canfora (c.36r. II); per la cerusa o or di piombo contenuto in un sacco
aperto di forma trapezoidale (c.39r. I); per l’appiattito ramo di corallo rosso (c.49v. I); per
l’informe pezzo trapezoidale di lapdame o gomma (c.93r. II); per il grande e altrettanto
informe pezzo di lapislazzulo venato d’oro come se avvolto da una rete (c.94r. I); per i
piccoli pezzi di pietra magnetica di color azzurro scuro, di pietra indica di color grigio e di
pietra lincia di colore rossastro (c.101r. I e II); per i pezzetti di pietra d’armenia di colore
grigio, di pietra di spugna di colore rosso scuro; di “ Lichedemonis” o pietra del demonio di
colore nero azzurro (c.102r. ); per i pezzetti di lacca di colore rossastro e che richiamano per
forma i precedenti minerali (c.104v. I); per i tre pezzetti gialli di mastice, anch’essi identici
nelle forme agli altri minerali; per i tre pezzetti di mirra di colore giallo bruno (c.115r. II); per il petrolio che scaturisce da una pietra di colore bruno (124r. III).
Anche se il miniatore ha quasi sempre presente la realtà nella rappresentazione delle varie
piante medicinali, disegnate e colorate a tempera a corredo del testo esplicativo, genere che
riesce a rappresentare in maniera senza dubbio più efcace, tuttavia tale preoccupazione
naturalistica nisce, in alcuni casi, per prevalere sugli intenti artistici, facendoci pensare a
volte alla mano di un principiante e, non di rado, anche se l’effetto coloristico giocato sulla
prevalenza dei verdi più o meno scuri, sul giallo o sul rosa dei orellini, e sul marrone delle
radici e dei rizomi, rimane sempre più che valido, dal punto di vista estetico, cade in eccessiva
stilizzazione delle foglie e delle radici nello scarso rispetto delle proporzioni tra tronco,
rami, foglie e frutti e nella ripetitività di forme e di immagini, specie per quanto si riferisceall’apparato radicale delle varie piante, con le radici a volte tracciate grossolanamente, o
addirittura a forma di mano (c.141r. II 2), forme più arcaiche derivategli probabilmente
dalla tradizione classica.
L’unica vera miniatura, che richiama quella di codici rafnati, riguarda la lettera “E”
iniziale dell’incipit che è miniata in oro su fondo oro brunito e decorata all’interno con
motivi vegetali tra i quali spiccano frutti rosa e rossi. Il fregio marginale che circonda
l’iniziale presenta un intreccio di foglie stilizzate di color oro e turchino.
Ma anche le altre iniziali di piccole dimensioni che corredano gli indici dei semplici
aventi la medesima iniziale e gli inizi dei singoli capitoli e paragra, diffuse per tutte le
carte sono miniate con una certa rafnatezza attraverso l’uso dell’oro e del turchino e sonocompletate da un lieve disegno di color rosso o nero nemente tratteggiati a penna.
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Il miniatore sa però trovare un’ottima vena creativa nella rappresentazione di alcune
pianticelle per la delicatezza del disegno e dei colori e per la veridicità e la correttezza della
rappresentazione: è così per la piantina di ibisco (c.20r. I), di rosa selvatica (c.21v. II), di
nocciolo (c.23v. I), di borragine (c.26r. II), di calidamia (c.60r. I), di caprifoglio (c.61r. I),
di scarola (c.65v. I), di fragola (c.75r. I), di garofanina (c.82v. II), di migliarino (c.83r. I),
di iris (c.89r. I), di malva (c.106v. I), di origano (c.125v. I), di papavero rosso (c.131r. I), di
vite (c.136v. I), di rosa (c.143r. I), di viola (c.166v. II).
Non di rado però l’iconograa mostra piante del tutto simili, come nella rappresentazione
della pianta di ferula (c.78r. II) e di quella di galbano (c.81r. II), della felce maschio (c.74v.
I e c.78v. I), se non uguali come per la pianta di melograno ripetuta a c.110v. I e a c.11v. I.
Il discorso degli erbari illustrati più o meno efcacemente con miniature, può includere
ancora il Libro de componere herbe et fructi... del secolo XV di Giovanni Cadamosto da
Lodi, conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi ( Ms.it.1108), si può classicare tra i
Tacuina con le sue immagini di piante preponderanti rispetto al testo che trovano riscontro
nella realtà e si allontanano dai modelli più arcaici e ripetuti per secoli. Pur eseguito con una
certa rafnatezza, dovuta anche al fatto di essere un esemplare di presentazione e proiettato
verso una più moderna iconograa, conserva ancora qualche caratteristica stilistica propria
del gotico internazionale e qualche residuo concettuale derivante dagli erbari medievali.
Del resto anche altri erbari dei secoli XV e XVI non sono riusciti a liberarsi pienamente
almeno per quel che attiene al testo di molte "ricette" da superstizioni e stregonerie,
anche se nella parte iconologica è andata scomparendo la rappresentazione di radici in
forma zoomorca e antropomorca propria della simbologia medievale. Lo dimostrano
tre esemplari inediti conservati a Firenze, databili tra Quattrocento e Cinquecento, il Ms.
Ashburn 731, il Ms. Redi 165 della Biblioteca Laurenziana ed il Ms. C/168 della Biblioteca
Marucelliana.
Mentre continua, anche se va esaurendosi, l'illustrazione degli erbari manoscritti, alcunidei quali come il Ms. Redi 165, vengono ancora composti nel Cinquecento, la grande
intuizione gutenberghiana che cambierà la storia dell'umanità e della cultura, dopo i primi
timidi passi si è imposta immettendosi con prepotenza sui binari della storia.
Con i multipli a stampa si pensa anche a nuovi modi di duplicare le immagini, necessità
alla quale soccorre la tecnica xilograca, che ha già dato segnali della sua esistenza n
dai primi anni del Quattrocento con i libri Tabellari o libri blocco dell' Apocalisse o delle
Bibliae Pauperum, per poi affermarsi in parallelo con il decollare della stampa.
E’ da sottolineare che, per quanto riguarda in particolare l'illustrazione botanica, la
xilograa trova un precedente nelle " Ectypa plantarum", cioè immagini ottenute anch'esse
con una tecnica impressoria alla quale si sottopongono le stesse piante, cospargendole dinerofumo perché lascino impressa la loro immagine speculare su fogli di carta umida.
Tuttavia la xilograa, nel dare supporto al testo con la linearità e l'essenzialità delle
sue immagini giocate nel contesto del bianco e del nero, non sempre riesce a recepire il
carattere di novità che abbiamo visto aforare ed affermarsi in alcuni erbari manoscritti.
Per questo motivo il nuovo modo di illustrare i libri, seguendo il destino di tutte le tecniche
evolutive che non sempre e comunque conoscono uno sviluppo lineare in relazione a quello
cronologicamente considerato, ha quasi una stasi e compie un passo indietro, afdandosi
ad immagini ormai quasi scomparse dei manoscritti coevi, più rigide, più schematiche. Ciò
anche a causa dell'essenzialità insita nella xilograa e della sia pure temporanea, perdita
del vantaggio del colore che ammorbidisce e sfuma le piante, i ori, le foglie e che vienea recuperare qualche volta con una colorazione manuale, ma sempre adeguata a valida, e,
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come conseguenza primaria, si allontanano da quel realismo al quale alcuni erbari si sono
già avvicinati da decenni, vanicando quasi i frutti del travaglio umanistico.
Dopo il Das Buch der Natur di Konrad von Megenberg, che nel 1475 inaugura il lone
dei libri a stampa con xilograe nalizzate all'illustrazione del testo, e tante prime edizioni
delle più importanti opere di botanica antica e medievale, le xilograe spesso ingenue
e poco realistiche dell' Apuleius Platonicus del 1483-84, sembrano proprio dimostrare
l'arretratezza iconograca oltreché scientica, anche a causa di un modo ancora errato di
porsi passivamente di fronte alle fonti medievali da recepire e rispettare nelle loro varie
forme ed estrinsecazioni.
Per rendersene conto basta guardare la rafgurazione antromorca della Mandragora,
mostruosamente umanizzata con radici alle parti terminali degli arti e con un cespo di
foglie al posto della testa. L'alone di mistero e di magia che circonda questa pianta, sia pure
ridimensionata ed attenuata col passare del tempo dalla diretta osservazione della natura e
dall'affermarsi della scienza come tale, continuerà a persistere per secoli come sembrano
provare i disegni a penna, tempera ed acquerello del Catalogo del Museo Settaliano, che,
in pieno Seicento mostrerà di non essersi ancora liberato completamente del retaggio del
passato.
Sono dello stesso tenore le illustrazioni dell' Herbarius in latino pubblicato da Pietro
Scöffer nel 1484, riguardanti piante della ora tedesca che, sebbene non prive di un certo
fascino decorativo, sono molto simmetriche e spesso piccole rispetto alle leggende, mentre i
ori sono spesso di dimensioni esagerate e le radici, quando sono gurate, sono pienamente
convenzionali. I disegni, così come il testo, non hanno alcuna connessione con quello
dell'Apuleio, ma è evidente che entrambi non sono un diretto derivato della natura che ci
circonda. La stessa cosa può dirsi per l' Herbarius in tedesco che Scöffer pubblica un anno
dopo rispetto all' Herbarius in latino e che può essere considerato indiscutibilmente il più
splendido ed importante degli erbari incunabuli.L’ Hortus sanitatis maguntino del 1491, con il suo corpus di 1073 xilograe di
varie dimensioni, sembra confermare tale tendenza e, mostrando caratteristiche più
medievaleggianti rispetto all' Herbarius in tedesco che pure lo anticipa di sei anni, non
compie decisivi passi in avanti, presentando immagini botaniche, zoologiche, e di minerali
in parte rozzamente copiate in scala ridotta da quello germanico, ancorate ad un passato
che, per l'aspetto iconograco, si perpetuerà no a metà del Cinquecento.
Sembrano invece più rispondenti al reale, ancorché schematiche ed essenziali, le
xilograe che illustrano il De Virtutibus herbarum veneziano del 1499, dal momento che
una loro disamina consente di identicare con una certa attendibilità il corrispondente in
natura. Non si discostano dai consueti canoni molto stilizzati che appena rendono riconoscibili
le piante rappresentate, le pur nitide xilograe di piccolo formato racchiuse in riquadri che
ornano il De Viribus herbarum di Macer Floridus, denominato anche "Macro Floridio" o
"Macro dei ori" nell’edizione ginevrina del 1500.
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