Prefazione a Cura Del Prof. Ernesto Milano

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Ernesto Milano Erbari e scienza botanica - Il codice alfa. m . 5. 9 = Est. 28  Herbolair e o Grant herbier - l’illustrazione botanica attraverso i secoli nei suoi valori botanici e scientifci

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Erbari e scienza botanica - Il codice alfa. m . 5. 9 = Est. 28 Herbolaire o Grant

herbier - l’illustrazione botanica attraverso i secoli nei suoi valori botanici escientifci

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L’autore ringrazia la Dott.ssa Paola di Pietro e la Dott.ssa Milena Ricci per la valida

collaborazione.

Rivolge altresi un particolare affettuoso ringraziamento alle Signore Cosetta Borsari e Rosetta

Geremia per la preziosa, fattiva collaborazione offerta per la digitazione dei testi, per le ricerche

Bibliografche e per la correzione delle Bozze.

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Erbari e scienza botanica

Percorso storico

Al ne di comprendere chiaramente il signicato del termine “erbario” pare necessario

afdarsi alle linee di una macrostoria che, attraverso un percorso evolutivo, partedall’antichità per giungere ai giorni nostri.

È una storia affascinante che si dipana dai tempi più antichi, allorché Babilonesi, Egiziani

e Greci cominciano i primi studi delle piante che sfociano nelle pregevoli annotazioni di

Aristotele, Teofrasto e Dioscoride, anche se l’associazione uomo-pianta ha origini ben più

remote, risalendo all’uomo neolitico che, vissuto in Medio Oriente circa 10.000 anni fa, scopre

che alcune erbe possono essere raccolte e che i loro semi piantati danno raccolti più copiosi

nelle stagioni successive, mentre si fa strada una crescente quanto empirica intuizione delle

virtù terapeutiche delle piante. Un tangibile riscontro ci viene dall’osservazione delle società

 primitive ancora esistenti associata alle risultanze astrologiche degli antichi insediamenti

umani. Usi e comportamenti di quelle società ci testimoniano che la scienza delle piante e

la conoscenza delle loro proprietà trovano fondamento nella naturale considerazione che

esse stanno alla base della piramide alimentare degli esseri viventi e che sono state sempre

indispensabili all’uomo, non solo perché alcune specie gli forniscono cibo, ma perché gli

 procurano vesti, armi, strumenti, tinture, medicine e mezzi per ripararsi, originando così la

“toterapia”.

 Nelle terramare di Parma, Varese, Monsedori e, recentemente, di Montale e nelle palatte

di Casale, si sono rinvenuti semi di chenopodio, di sambuco, di papavero e di altre piante

che certo non erano usate come alimento, ma, con tutta probabilità, venivano impiegate

come farmaco.

Certamente è ancora innitamente lontana la botanica, dall’etimo greco  βοtànε, cioè

erbari, pascolo e, per estensione, pianta, intesa come parte della biologia che comprende

lo studio del regno vegetale, vivente o fossile, o, più correttamente, denominata tologia,

derivante dal greco φutòv cioè pianta. Per migliaia di anni la botanica rimarrà l’unico campo

dello scibile intorno al quale l’uomo avrà idee vaghe e imprecise. Basti pensare che, ancora

all’inizio del secolo XVIII la botanica, vista come scienza che presiede alla catalogazione e

alla classicazione delle piante, verrà denita, in un testo latino dell’epoca, come “un ramo

della scienza grazie al quale è possibile elencare facilmente e rapidamente un grandissimo

numero di piante”.

Focalizzando l’interesse sul termine di erbario, rileviamo che nel mondo antico con tale

termine si intendeva un libro che elencava, descriveva e rafgurava le piante, accordando

la preferenza a quelle dotate di proprietà medicinali. Infatti, se inizialmente la scopertadelle proprietà curative delle piante è un fatto istintivo e casuale, dal momento che l’uomo

 primitivo, all’alba della sua vita raziocinante trova gradualmente nella pianta il cibo e la

medicina come conseguenza dell’empirica osservazione degli aspetti positivi e negativi,

come portato di una conoscenza più profonda, stabilisce un approccio sempre più razionale

con il mondo vegetale.

In virtù di ciò, sulla scorta della sua esperienza e di quella di altri esseri viventi, ivi

compresi gli stessi animali in grado di distinguere istintivamente le piante velenose da

quelle con proprietà curative, imparò a riconoscere le sostanze utili come alimento, quelle

tossiche, quelle utili ad alleviare sistemi patologici elementari quali dolori, emorragie,

insonnia, e quelle in grado di creare sensazioni voluttuarie quali euforia, allucinazioni,

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aggressività.

Dalla trasmissione orale delle conoscenze acquisite, l’uomo, piegando quel mondo ai

suoi studi e alle sue cure, ma subendo sempre il particolare fascino di una materia che è

all’origine e sullo sfondo della sua evoluzione, passa alla trasmissione scritta, nobilitata e

arricchita sempre di più dalle immagini più o meno veridiche, ma ovviamente efcaci, delle

 piante descritte, corredate dall’indicazione delle rispettive proprietà curative.

In Oriente, circa 10.000 anni fa, si origina uno studio della botanica strettamente legato

ad un interesse medico e si articola un avvincente percorso che si snoda già vari millenni

 prima di Cristo, dall’India, dalla Cina e poi dall’Egitto, dall’Assiria e dalla Babilonia,

attraverso documenti che descrivono droghe e piante medicamentose.

Dall’India e in genere dall’Oriente, la sapienza delle piante che guariscono raggiunse il

civilissimo Egitto dove duemila anni prima di Cristo si faceva grande uso di droghe vegetali,

la cui preparazione era afdata, di solito, ai sacerdoti che confezionavano preparati vari e

distillavano pozioni, recitando formule magiche, preghiere e scongiuri.

Un documento di questo tipo, è rappresentato dal  papiro di Ebers  dal nome

dell’archeologo che lo scoprì, risalente al 1700 a. C., che riporta nomi di piante curative

e delle relative ricette, anche molto complesse, a base di miele, resina, olio, farina, mirra

e incenso.

Altrettanto interessante è l’erboristeria dei Babilonesi che conoscevano oltre mille specie

di medicinali minuziosamente descritte in tavolette redatte in caratteri cuneiformi, con la

descrizione delle malattie che potevano essere curate con l’una o l’altra pianta.

Presso tutta l'antichità greco-romana l'osservazione e lo studio del mondo vegetale

continua ad avere quel carattere puramente applicativo che ne aveva caratterizzato la

nascita, e dall'esame dei testi a noi pervenuti, emerge con chiarezza sia il ruolo ausiliario

che la disciplina riveste rispetto ad attività pratiche come l'agricoltura e la farmacologia, sia

l'inesistenza della gura del botanico "puro", dal momento che chi si occupa di botanica è prima di tutto un medico, un autore di trattati di agricoltura, un enciclopedista, mosso dal

desiderio di conoscere lo scibile del suo tempo.

Anche se le notizie tramandateci da più lontana data, sull'interesse per certe piante

medicinali, vengono dall'antica Cina e dall'antico Egitto e si confondono con la storia della

stregoneria e dell'empirismo, in quanto le piante e le erbe dalle quali si traevano droghe,

erano gravate di superstizioni e leggende che sarebbero durate no a tutto il Medioevo ed

il Rinascimento, in realtà sono i Greci, presso i quali i medici "rhizotomoi", secondo un

termine attribuito a Sofocle, che signica raccoglitori di radici e quindi, estensivamente, di

 piante, sono circondati da grande rispetto, a portare per primi ad alto livello, con preziosi

scritti, le conoscenze in materia. Ciò avviene grazie ad Ippocrate di Cos, maestro di medicinain Atene e in Tessaglia dal 460 a. C. al 3701, vissuto no a tarda età, ed ai suoi discepoli, in

un insieme di opere giunte a noi come Corpus Hippocraticum che si può considerare quasi

un trattato di botanica ofcinale che classica, per la prima volta, organicamente, trecento

specie di piante medicinali, traendone ricette e indicando i metodi di dosaggio, gettando le

 basi di un’inuenza che avrebbe toccato il mondo romano e parte di quello medievale.

In una lettera di Ippocrate diretta a Crateva, considerata però apocrifa, ma comunque

interessante, essendo coeva all’epoca in cui Ippocrate visse, troviamo dopo l'affermazione

"Scio te, o amice, optimum radicisecam esse...", un invito a mandargli subito le erbe, che

egli raccoglierà e che devono servire per curare Democrito impazzito. L'autore della lettera

1 v.: J. JACQUES, Ippocrate, Torino, 1994

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sostiene di darsi di lui perché "instrutto della natura" e conoscitore di tutti i vegetali e

medicamenti, gli raccomanda di raccogliere le erbe montane e degli alti colli che sono più

solide e più acri di quelle che vivono in luoghi acquitrinosi e ciò per il freddo, per la densità

della terra e l'umidità dell'aria; gli chiede di raccogliere anche tutte le erbe che vivono negli

stagni, nelle paludi, nei umi e nelle fontane che sono più deboli e sciolte, ma anche più

dolci; inne gli dà istruzioni per la spedizione dei farmaci suddetti. I medicamenti uidi

o liquidi si inviino in vasi vitrei; le foglie, i ori e le radici in vasi di terra nuovi e ben

chiusi afnché queste droghe, esposte all'aria, non perdano le loro caratteristiche proprietà.

L'autore di questa interessante lettera dice pure a Crateva che egli sarebbe ben fortunato se

 potesse, "erborizzando, rinvenire la pianta atta a guarire l'amara avarizia e a medicare coi

mali del corpo anche tutte le infermità dell'animo umano"!

Se non possiamo ritenere che la medicina ippocratica abbia ottenuto rilevanti successi

nei riguardi dei principali quadri patologici che si presentavano, è certo tuttavia che essa

è stata capace di migliorare le condizioni di vita, igieniche e sanitarie dei suoi pazienti, da

un punto di vista psicologico oltre che dietetico. In tal senso la medicina ippocratica ha

costituito per lunghi secoli, a partire da Platone che nel suo  Fedro (270 a. C.) evidenzia

come il metodo del medico di Cos sia nalizzato alla conoscenza del corpo in connessione

con la natura del tutto, un modello di riferimento sia metodologico che deontologico

derivante dal prezioso patrimonio di esperienza chimica e di sforzi terapeutici depositato

nelle opere che compongono il Corpus, e che, accanto a notizie di divertenti ingenuità,

riportano indicazioni terapeutiche di sorprendente attualità.

Altre notizie più incerte si hanno anche di un manuale di erboristeria che sembra essere

stato realizzato dal medico greco Diocle di Karystos vissuto ad Atene nel IV secolo a. C.,

allorché Eschilo nel suo Prometeo incatenato ci ricorda che "l'uomo ignaro dei medicamenti

[…] non un farmaco avea prima che io mostrassi a lui le miscele delle erbe assai benigne".

La ricostruzione delle sue dottrine, più che ai pochi frammenti dei suoi scritti in linguaattica, è dovuta alle numerose citazioni dei tardi scrittori di medicina, specialmente Galeno,

Celio Aureliano e Sorano. Charles Singer 2 sostiene che il più antico erbario di lingua greca

che noi conosciamo è quello di Diocle (c.350 a.C.).

Aristotele (384-324 a. C.), allievo di Platone e frequentatore della sua  Accademia,

istitutore di Alessandro Magno e fondatore del Liceo, fu il primo grande organizzatore del

sapere ivi compreso quello biologico, che egli compie da grande osservatore della natura,

tanto da essere preso a modello della Scolastica per il suo metodo di indagine e divenire

un’actoritas  nel campo delle scienze, oltre che della metasica e della cosmologia. La

sua grandiosa opera losoca e scientica che segna il punto a cui fa capo il movimento

scientico e speculativo di oltre due secoli della cultura greca, si ritrova in numerose fontimanoscritte, tra le quali, per l’argomento che in questa sede ci interessa, il  Parigino 1853 del sec. XII che include i  Parva naturalia e la  Metasica, oltre che in una innumerevole

mole di studi e saggi, tra i quali quello specico di George Pouchet3.

Secondo Eliano, tiene anche bottega di erboristeria ove vende le sue erbe e dà consigli ai

malati, studia le piante sotto l'aspetto prevalentemente losoco per comprenderne l'essenza

e il signicato, procedendo sulla base del confronto con il mondo animale e considerando,

sulla scorta del pensiero di Anassagora, le piante derivate da piccoli animali divenuti apodi

e radicatisi nel terreno.

2 C. SINGER , The herbal in antiquity, in “Journal of Hellenic Studies”, v. 47 (1927), p. 523 G. POUCHET, La biologie aristotelique, Parigi 1885

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Il losofo Teofrasto, nato ad Efeso nel 371 a. C. e morto ad Atene nel 287, accentrando

l'indirizzo naturalistico della Scuola, compie studi sulle piante mirati soprattutto sulla

 botanica in quanto tale, piuttosto che sulla sua connessione con la medicina. Per tale ragione

le sue opere sulla storia delle piante descritte, partendo dalla reale osservazione di quelle

 presenti nel famoso giardino botanico di Atene, istituito a scopo di studio dal suo maestro

Aristotele, e sulle cause dei processi vegetali, possono essere considerate i trattati scientici

ante litteram  di botanica, essendo state gettate le basi, nel contesto più propriamente

speculativo, per lo sviluppo della botanica come scienza autonoma, che egli denisce come

la scienza che studia la forma, la riproduzione e il comportamento delle piante.

La sua De historia plantarum, in nove libri, elabora una vera e propria classicazione, di

circa cinquantuno piante, dividendole in alberi, frutici, suffrutici, erbe. Nel IX libro classica,

 per la prima volta nell’antichità, droghe e medicinali con il loro valore terapeutico.

 Nella sua  Delle cause delle piante, in sei libri, descrive la generazione spontanea e la

vegetazione delle piante per cause esterne. Entrambe le opere costituiscono il più rilevante

contributo allo studio della botanica nell’antichità4 al quale la letteratura naturalistica si

ispirerà per molti secoli, no al Medioevo, e che nel sec. XIII verrà ripreso da Alberto

Magno.

Degno di essere ricordato è un altro medico greco, Serapione, vissuto tra il III ed il II

secolo a. C., ad Alessandria, dove viene fondata una "scuola empirica" di medicina basata

sull'esperienza pratica, e sull’osservazione diretta, in contrasto con ogni dogmatismo

 preconcetto, ivi compreso quello del Corpus Hippocraticum.

Il greco Crateva, medico di Mitridate VI, re del Ponto, anch’egli “rhizotomoi”, esperto

ed appassionato di veleni e di antidoti, realizza invece agli inizi del I secolo a. C. un vero

e proprio erbario illustrato, di cui darà poi notizia anche Plinio il Vecchio, cioè un testo

corredato da una serie di immagini di erbe, molto accurate, con indicazione del nome

della pianta, delle sue caratteristiche, delle sue virtù. Le illustrazioni sembra siano stateripetutamente copiate dai trattatisti posteriori, quali Dionisio e Meteodoro, e pare abbiano

fornito anche il modello al celebre codice costantinopolitano di Dioscoride. Il codice

illustrato da Crateva risulta essere certamente esistito a Bisanzio sino al secolo XVI.

Queste opere dei cosiddetti "rhizotomoi" sono oggi perdute e l'esperienza dell'antichità

in fatto di piante medicinali, prescindendo dalla parte che, conservata dagli autori islamici,

è stata successivamente ritradotta dai testi arabi, ha attraversato il Medioevo soprattutto con

le opere, più o meno rimaneggiate, di Apuleio e Dioscoride.

Il corpus della ricerca ofcinale, compiuta dai Greci, amplia le proprie conoscenze

a seguito della conquista di Alessandro Magno, che porta al contatto con le più antiche

tradizioni orientali in materia.Lo stesso Alessandro Magno, come ricorda il medico lionnese Champier Symphorien

(1471-1539)5, erborizzava e, con un'erba da lui rinvenuta, aveva curato Tolomeo e i soldati

feriti nella battaglia.

Le più antiche tavole di erbario giunte no a noi sono fornite da due frammenti di un

erbario del V secolo il cosiddetto Johnson Papyrus, rinvenuti da J. de M.Johnson nel 1904

mentre lavorava ad Antino in Egitto ed ora conservati al Wellcome Institute of the History of

Medicine di Londra6, databili intorno al 400 d. C. e contenenti le gure dipinte in maniera

4 THEOFRASTUS, De historia et causis plantarum, in inglese, Cambridge Mass. 1976

5 C. SYMPHORIEN, Medicinale bellum inter Galenum et Aristotelem gestum [… ], Lione, 15166  Jonshon Papyrus, Welcome Library, London, ms. 5753; v. anche A. PAVORD, The naming of names: in

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molto realistica di due piante con relativa didascalia descrittiva e terapeutica. Tuttavia

l'autentico pilastro, che successivamente riscuoterà grande successo e fornirà le basi a tutta

la medicina botanica medievale, come attestano l'ampia diffusione di manoscritti e le nuove

traduzioni, è il De Materia medica, il più antico manoscritto illustrato contenente un erbario

tuttora conservato. Composto a Costantinopoli nel I secolo d. C., ne è autore un medico

greco che esercitava a Roma, vissuto al tempo di Nerone nel I secolo dell'Era volgare e

contemporaneo di Plinio il Vecchio, Pedanio Dioscoride, cilicio di Anazarbe presso Tarso

che, dopo aver viaggiato in Siria, nell'Africa Settentrionale, in Spagna, in Gallia ed in Italia,

osservando le piante e raccogliendo informazioni sulle specie medicinali, ci ha lasciato

questo vasto trattato di farmacologia in cinque libri, dei quali, parte del secondo, il terzo

ed il quarto trattano delle piante medicinali, mentre un sesto libro, dedicato ai veleni, è

considerato apocrifo. Le specie trattate sono circa seicento, classicate per la prima volta

non in ordine alfabetico, ma divise in gruppi secondo le afnità e i caratteri comuni, e di

ciascuna di esse l'autore dà, oltre al nome usuale, i sinonimi, la descrizione dei caratteri

fondati sia sulle parti vegetative che sul ore e sui frutti, le proprietà medicinali e le dosi

di impiego, in un miscuglio di superstizione e di pseudo medicina, commiste a convinzioni

losoche, magiche e astrologiche.

Il trattato, che può essere considerato la colonna portante della farmacopea occidentale,

e si rifà ad un archetipo del III-IV secolo a. C., annovera tra i suoi modelli letterari ed

iconograci lo stesso Crateva. Molto usato nell'antichità, commentato n dal IV secolo da

Oribasio, medico di Giuliano l'Apostata, poi nel IX secolo da Serapione, medico arabo,

questo libro, non pervenutoci nella versione originale, ha avuto diffusione negli ultimi

secoli dell'impero, mediante numerose copie manoscritte, delle quali alcune sono giunte

no a noi, importanti, specie le più antiche, anche per le illustrazioni, perché dimostrano il

grado di conoscenze botaniche raggiunto e la capacità o meno degli artisti di correggere il

modello facendo ricorso alla natura.Celebre fra tutti è il manoscritto a noi pervenuto come Codex Vindobonensis  del

512 d. C., eseguito per l'imperatrice Giuliana Anicia a Costantinopoli e conservato alla

 Nationalbibliothek di Vienna7, detto "Costantinopolitanus" e ornato di numerose gure

fedelmente rispondenti agli originali, ma anche di composizioni allegoriche. Il codice ci

riporta inoltre varie sembianze di Dioscoride, tra le quali quella in cui appare seduto su

uno sgabello nell'atto di ricevere da Auresis, personicazione della scoperta intesa nel

senso del rinvenimento, una radice di mandragora, mentre un cane, per effetto prodigioso

di questa erba cade riverso su se stesso e muore. Da questo manoscritto, nel quale l'autore

servendosi di illustrazioni di piante miniate tratte da altri codici e quindi non originali, ha

illustrato organicamente i tre regni della natura sotto l'aspetto medico-terapeutico, prendedirettamente spunto ed origine tutta un'intera letteratura ispirata alle medesime nalità,

nei due loni orientale e occidentale e poiché Dioscoride, tradotto ben presto in arabo,

serve da modello e da fonte d'informazione a numerosi autori. Dell'opera enciclopedica di

Dioscoride, che risulterà il migliore trattato di botanica che godrà di grande autorità per tutto

il Medioevo e no a quasi il secolo XVI, offrendo l’immagine di una scienza che ricerca

rimedi per il corpo ammalato, ma guarda con grande attenzione alla cura del corpo sano,

 search of order in the world of plants, New York, 2005, p. 78

7 DIOSCORIDE,  De materia medica, 512c., Vienna Osterreichische Nationalbibliotek,  Med.Gr.1; v. anche il

facsimile: DIOSCURIDES, Codex Aniciae Iulianae picturis illustratus nunc Vindobonensis Med. gr. 1 phototypiceeditus, Lugduni Batavorum 1906, 2 voll.

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esistono infatti alcuni codici in greco, pregevoli copie dell’originale. Tra di questi, oltre al

già ricordato cimelio di Vienna i più noti sono quello della Biblioteca Nazionale di Napoli,8 che direttamente o indirettamente, fu utilizzata anche da Cassiodoro nel periodo in cui

 preparava i suoi monaci nel monastero di Vivarium in Calabria, della Biblioteca Apostolica

Vaticana, copia eseguita dal cardinale Ruteno, futuro cardinale Bessarione,9 della Pierpont

Morgan Library di New York 10 copia prodotta a Costantinopoli al tempo della rinascenza

macedone tratta dal grande codice di Giuliana Anicia.

Da tale copia ne fu tratta un’altra, forse un secolo e mezzo più tardi, che si trova oggi

nel Monastero della Grande Laura del Monte Athos. Altre copie illustrate del De materia

medica, anche se non così sontuose come le precedenti, circolavano in tutto l’Impero

Bizantino. Di esse alla Bibliothéque Nationale di Parigi si conserva una copia probabilmente

 preparata in laboratorio siriaco nel IX secolo, certamente copiata da qualche esemplare

greco più antico.

Un altro erbario bizantino derivato dal grande erbario di Giuliana Anicia è conservato alla

Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Padova, probabilmente copiato a Costantinopoli

alla metà del ‘300 nel monastero di Giovanni Battista Prodromo, su richiesta di un umanista

occidentale.11

Altre copie del codice di Giuliana Anicia, la cui fama si era diffusa sempre più, si trovano

in Inghilterra al Museo di Storia Naturale di Londra e nella Biblioteca di Cambridge, e in

Italia alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.

In effetti la tradizione dioscoridea è stata talmente potente da avere condizionato tutti gli

erbari bizantini in modo determinante anche quelli che sembrano derivare dalla tradizione

iconograca degli Pseudo Apulei latini.

Sono anche da ricordare i codici longobardi del IX secolo, delle Biblioteche di

Montecassino e di Monaco che si avvalgono però di illustrazioni più piccole e meno felici,

quelli latini di Parigi, Torino e Londra e inne i codici in arabo dei quali il più bello eimportante, risalente al 1224 d. C., è quello conservato alla Biblioteca di Top Kapi Saray di

Istanbul. Uno Pseudo-Dioscoride, dell’XI secolo, pure illustrato, appartiene alla Biblioteca

Statale di Lucca ed è stato studiato e minuziosamente descritto da Pietro Giacosa.

Considerata l'autorità acquisita dal libro, esso esemplica ormai assai bene la tradizione

dell'illustrazione dell'erbario, fungendo da ponte di collegamento tra l'antichità e il

Medioevo.

Gli ampi consensi riscossi dall’opera di Dioscoride per tutto il Medioevo, sono

testimoniati anche dal fatto che Dante lo inserisca tra la “losoca famiglia” nel limbo: “E

vidi il buon accoglitor del quale Dioscoride dico12” e godrà di tale fortuna tanto da essere

correntemente usata ancora nel sec. XVIII.

8 DIOSCORIDE, De materia medica (codex neapolitanus), VII sec., Napoli, Biblioteca Nazionale,  Ms ex-Vind.

Gr. 1; v. anche il facsimile di questo manoscritto commentato da Guglielmo Cavallo ed edito a Roma dalla

Salerno Editrice nel 1991

9 DIOSCORIDES, De materia medica, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, ms. greco latino Vat. Chigi 53 ( F. VII. 159); v. anche il facsimile El Dioscorides grecolatino del Papa Aljandro VII , Madrid, 2001, 2 voll.

10 PEDANII DIOSCORIDES A NAZARBEI, De materia medica libri VII ..., v. anche il facsimile edito a Parigi nel 1935

in 2 voll.

11 DIOSCORIDE, De materia medica, Padova, Biblioteca del Seminario Arcivescovile, Cod. greco 194; v. anche

E. MIONI, Un ignoto Dioscoride miniato (il cod. greco 194 del Seminario di Padova), in: Libri e stampatori in

 Padova. Miscellanea di studi in onore di G.Bellini, Padova, 1959, pp. 345-37612 D. ALIGHIERI, Divina Commedia. Inferno IV , 139-140

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Da ricordare che Pier Andrea Mattioli pubblicherà un commentario dell’opera in italiano

nel 154413 e successivamente nel 1554 la prima versione in latino14.

 Nel VI secolo Cassiodoro consiglia ai Monaci che non conoscono bene il greco, di

ricorrere al " Herbarium Dioscoridis qui herbas agrorum mirabili proprietate disseruit

atque depinxit ". Il codice dunque sta perdendo a quell'epoca i suoi scopi pratici per divenire

quasi un testo "letterario", anche se nel XV secolo viene ancora usato negli ospedali.

Dioscoride, come già detto, esercitò l’arte medica in quella città nel primi secolo

dopo Cristo, quasi a dimostrare che in Roma si esercitava una medicina di derivazione

 prevalentemente greca.

Fino a quel tempo, in realtà, la salute era afdata ad un gran numero di divinità racimolate

da tutte le civiltà dove l’impero esercitava la sua inuenza, ma esisteva anche una sorta

di “medicina domestica” dove il  paterfamilias  era a conoscenza dei rimedi tramandati

di generazione in generazione. Un’arte medico-pratica schiettamente latina, che trovò

la massima espressione nell’opera del vecchio Catone Censore, la quale traeva i propri

insegnamenti esclusivamente dalla natura servendosi di empirici e di “uomini curanti”.

Con l’inltrazione della cultura greca e con l’afnamento dei costumi, questa rigidezza,

strettamente legata alla romanità più tradizionale, venne ad afevolirsi e i medici greci

alessandrini, dapprima schiavi o liberti e poi liberi, cominciarono ad esercitare ufcialmente

la medicina, fondando delle vere e proprie scuole tutte di impostazione greca.

Così anche a Roma orirono i cosiddetti rhizotomoi, specialisti nella ricerca delle radici

medicamentose, che, aiutati dai loro erbolai, cercatori d’erbe, allestivano vere e proprie

farmacie, le Tabernae medicinae, dove si offriva ciò che di meglio si poteva reperire nel

mercato delle droghe di tutto il mondo. Nasceva anche la gura del  Pharmacotriba, che

non esercitava affatto la medicina, ma si limitava a vendere le sostanze medicamentose

semplici e a realizzare le ricette dei medicamenti composti prescritti dai medici.

Era un mondo variopinto di rimedi terapeutici di ogni sorta, ricavati sia dal mondovegetale che da quello animale e minerale, del quale la testimonianza più signicativa è

l’importante ed enciclopedica opera di Plinio il Vecchio, vissuto dal 23 al 79 d. C.

La sua monumentale  Naturalis Historia, per quanto criticata, perché considerata di

carattere prettamente compilatorio e priva di spirito critico, è il risultato della consultazione

di 146 scrittori romani e 327 stranieri e abbraccia le conoscenze di più di 2000 opere in

gran parte ora perdute. Una fonte importante, anche se non sempre sicura, delle conoscenze

geograche, zoologiche, botaniche, farmacologiche e anche cosmetiche degli antichi.

Contemporanei, ma di importanza minore per la storia della botanica, sono due autori

sul versante romano, Plinio il Vecchio e Scribonio Largo. Il primo, vissuto dal 23 al 79

d. C. è autore di quella Naturalis Historia, i cui ultimi XVII libri sono dedicati alle virtùdelle piante, delle pietre e degli animali, giustamente denita "il grande libro scritto dalla

tradizione naturalistica greco-latina", ancora oggi fondamentale per farci apprendere le

conoscenze farmacologiche degli antichi15.

Altro contemporaneo di Dioscoride che vive a Roma è Scribonio Largo, medico della

corte di Claudio, che scrive un libro intitolato Compositiones medicinales, dedicato alle

13 P. A. MATTIOLI, I discorsi nei sei libri di Pedacio Dioscoride  Anazarbeo, Della materia medicinale, Venezia,

1544

14 Lo stesso, Commentarii in sex libros Pedacii Dioscoridis Anazarbei De materia medica, Venezia, 1555

15 Sull’opera di Plinio vedi: PLINIO IL VECCHIO,  Herbarius Mainz , Mainz 1484; lo stesso,  Hortus sanitatis Moguntiae, Mainz 1491; lo stesso, Historia Naturalis, Parigi, 1950

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 piante medicinali, molte delle quali erano nuove, essendo state da lui trovate nella spedizione

in Bretagna, al seguito dell'Imperatore.

Di origine greca nato il 131 d. C. a Pergamo, ma vissuto a Roma dall’anno 162 come

medico dell'Imperatore Marco Aurelio e del glio Commodo, dove muore nell'anno 210,

è invece il celebre Galeno, autore di numerosissimi libri che riguardano idrolati, elisir,

sciroppi, passate, i cosiddetti “preparati galenici” che consistono nell'estrazione e nella

manipolazione dei principi attivi di determinate piante esclusivamente ad opera dei

farmacisti.

Galeno loda molto gli erboristi dei suoi tempi ed egli stesso, nei suoi tardi anni, si diletta

ad erborizzare nei dintorni di Roma. Le sue opere più importanti delle 108 a noi pervenute,

 parte nella stesura originale greca, parte nella traduzione araba sono il Methodus medendi,

opera in quattordici libri che riassume il sistema galenico e per lungo tempo costituì il testo

fondamentale dell’insegnamento medico, e l’ Arsmedica. La sua opera sarà pubblicata in

latino a Venezia, in due volumi, nel 1490, e successivamente in greco nel 1525, in cinque

volumi, da Aldo Manuzio.

Alcuni erbari latini presentano accanto all'immancabile opera di Dioscoride, il testo

di un altro erbario anch'esso latino, l'Herbarius Apulei Platonici quem accepit a Chirone

centauro magistro Achillis, descrizione di piante fatta da Lucio Apuleio, soprannominato

Platonico, vissuto nel IV secolo dell'Era cristiana, detto anche “Pseudo Apuleio” per

distinguerlo dall'omonimo del II secolo, autore dell' Asino d'oro.

Il trattato, di cui esistono codici a Leida e a Londra, è costituito di 130 capitoli, ciascuno

dei quali contiene la descrizione di una pianta e l'indicazione delle sue qualità terapeutiche,

i diversi nomi sotto i quali essa è conosciuta ed il suo uso. Anche questo manoscritto, che

in verità è abbastanza modesto, anche se avrà vastissima fortuna in area occidentale, è stato

compilato rielaborando fonti greche anteriori e con gure derivanti dall'opera di Crateva e

Kurt Sprengel16 riferisce che il Vossio possedeva un esemplare dell' Herbarium di Apuleiocopiato nell'XI secolo ed ornato di gure. Sembra che un'edizione accresciuta del trattato

di Apuleio sia circolata nel Medioevo e che da essa siano stati ricavati i dati contenuti

nel ricettario del sec. XI scoperto da Pietro Giacosa nell'Archivio Capitolare di Ivrea,

mentre Jean Baptiste Saint-Lager 17 ha dimostrato quanto copiosamente vi abbiano attinto

i compilatori di opere farmacologiche tra le quali una delle più note, verso la ne del IX

secolo è il De Virtutibus herbarum, noto poemetto attribuito a Macer Floridus identicabile

 probabilmente, con il poeta e naturalista romano Aemilius Licinius Macer vissuto dall’85

al 15 a. C. Di tale codice ci è pervenuto un esemplare, eseguito in Italia Meridionale o

in Spagna, che risale con molte probabilità al VI-VII secolo e che oggi è conservato a

Leida18

.Sul versante orientale dove tutti i medici arabi coltivano con amore l'erboristeria, è da

ricordare il medico arabo Cristiano Mesue, detto Giovanni, nato a Ninive nel 776 e morto

a Bagdad nell'885, che si impone all'attenzione degli Europei per molti secoli con i suoi

trattati tramandati attraverso i loro titoli: Le grandi pandette della medicina e la Farmacopea

 generale, opere delle quali vennero pubblicate numerose traduzioni latine, specie a Venezia

16 K. SPRENGEL, Historia rei herbariae, Amsterdam, 1807

17 JJ. B. SAINT-LAGER ,  Histoire des herbiers, Paris, 1885. Lo stesso,  Recherches sur les anciens herbaria,

Paris, 188618 Leida,Leida, Bibliotheek der Rijksuniversiteit , ms. Voss. Lat. Q. 9.

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(1471) e a Lione (1478)19.

Ancora più celebre di lui, principe del mondo medico arabo, è il grande scienziato e

losofo, medico, botanico e sico persiano Ibn Sina, l'esponente arabo più conosciuto e

famoso nel mondo occidentale considerato da molti “il padre della medicina moderna”, a noi

noto con il nome di Avicenna, nato ad Afshanah presso Bukhara nel 980, morto ad Hamadhan

(Iran) nel 1037 e autore di circa 450 libri, tra cui l'opera sua più importante tradotta in latino

nel sec. XII da Gerardo da Cremona con il nome di  Liber canonis medicinae20. Attraverso

tale traduzione a partire dal 1200, tramite la Scuola Medica Salernitana, rimase, per circa

600 anni, il codice più autorevole della medicina pratica e della farmacologia, studiato e

commentato nelle facoltà mediche di Bologna e Montpellier.  Essa è espressione di quella

scienza araba, che, con grande capacità di sintesi, prende il meglio delle culture con le

quali viene a contatto, e che considera la botanica come scienza ausiliaria della medicina

e della farmacopea, conferendole un'impronta pratica e utilitaristica che sarà superata solo

col prodigioso risveglio della ragione scientica dell'Occidente rinascimentale. Il grande

Avicenna, secondo Richard Pultney21, erborizza nella Sogdiana e nella Bactriana e dipinge

anche le piante raccolte per farle conoscere ai suoi allievi.

Successivamente è Ibn Beithar medico e botanico ispano-arabo, morto nel 1216, che

erborizza nelle campagne di Siviglia, poi viaggia in Siria ed in Egitto, diviene direttore

dell’orto botanico di Damasco, e scrive il suo famoso libro Kitàb almofrédat , meritandosi il

nome di Aschab, cioè principe degli erboristi, che attraverso i suoi studi arriva a conoscere

 più di 200 nuove specie, tanto da essere denito il “Dioscoride spagnolo” del XIII secolo.

E’ da sottolineare che, tutti i trattati di materia medica dell'età antica e medievale, basati

come sono sull'impiego di sostanze naturali quali piante, animali e minerali, si avvicinano

in misura più o meno marcata al "genere" dell'erbario, al punto che tra i due tipi di opera è

difcile tracciare un conne preciso.

E’ ancora da ricordare che il Medioevo è il tempo in cui Alberto Magno scrive il suo De Virtutibus herbarum e Santa Ildegonda detta il De Signis bonitatis herbarum22, mentre

Carlo Magno coltiva in un giardino le piante medicinali.

Sono questi gli erbari maggiormente usati nel Medioevo, sia per i riferimenti letterari, sia

nella pratica quotidiana, in particolare nei centri monastici dove il persistere e il perpetuarsi

della cultura scritta e la conservazione dei testi antichi si accompagnano ad una particolare

attenzione prestata agli aspetti tecnici della farmacologia e soprattutto alla manipolazione

delle erbe.

Certamente ciascuno di essi ha avuto un ruolo ben preciso per quanto riguarda i dati

trasmessi dall'antichità classica mediante opere più o meno rimaneggiate, dalla medicina

araba e dai risultati della cultura dei Semplici più usuali continuata per tradizione. Ciascunoservirà da cerniera e avrà importanza per compilazioni successive rimaste celebri come

espansione della scienza medica ed agraria dell'ultimo Medioevo: basti pensare allo Speculum

majus quadruplex di Vincent de Beauvais, (1244-1259); all'Opus ruralium commodorum,

19 Del Mesue si conserva XIV, presso la Biblioteca Nazionale di Roma, il ms.: Vitt. Em. 218.  Liber de

consolatione medicinarum simplicium, del sec. XIV

20 Un manoscritto dell’opera è conservato a Londra presso l’Heritage Centre, ms. 385.  Una delle prime

stampe dell’opera venne eseguita a Padova, nel 1479 con il titolo Canones medicinae.

21 R. PULTNEY,  A brief botanical and medical history in: “Jstor: philosoph ical transaction” vol. 50 (1757-

1758), pp. 62-88

22 L’opera è conosciuta attraverso l’edizione edita da Bevilacqua a Venezia nel 1499 con il tirolo Herbarius seu De virtutibus Herbarum, e le successive edizioni di Anversa del 1502 e di Rouen del 1505.

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libri duodecim, del bolognese Pietro de' Crescenzi, (1230-1320); all’Opus  Pandectarum

medicinae23 , trattato scientico sulle erbe e sul loro utilizzo in campo medico, del medico

Matteo Silvatico (1285-1342)24  che operò nell’ambito della Scuola Medica Salernitana

effettuando i suoi studi nell’antico orto botanico nel quale sorge il Giardino della Minerva

a Salerno, ed inne alle altre grandi raccolte, quali il Grant Herbier en françoys o l' Hortus

 sanitatis.

Infatti, pur nella limitatezza degli studi che caratterizza il Medioevo, il culto per le

 proprietà medicinali delle piante sopravvive nei monasteri benedettini, che, nell'osservanza

della Regola di S. Benedetto, danno la precedenza agli ammalati, creando gli " ospitium"  nelle vicinanze dei monasteri e le "ofcine" che dapprima artigianali, si trasformano in

vere e proprie "farmacie" ed attingono il loro sapere dagli "  scriptoria" . In essi, oltre ai

testi della cultura classica, si trascrivono anche gli erbari medicinali antichi compresi il

Corpus Hippocraticum, la Medicina di Plinio nonché le opere di Dioscoride e di Galeno,

ed in tutti è radicata la convinzione che le erbe medicinali siano un dono della divinità. E’

lo stesso concetto che ritroviamo come una costante nei popoli antichi: così per gli Indiani

sono i Gandharvas gli spiriti benevoli che custodiscono le piante ofcinali; per gli Egiziani

è il dio Thot che naviga in una barca carica di radici e di erbe medicinali; per i Greci ed i

Romani dio della medicina è Apollo del quale Ovidio dice: "Inventum medicinae meum est

et herbarum subiecta est potentia nobis".

Famosi sono i monasteri dell'Italia Meridionale, che divengono gelosi custodi degli erbari

ed hanno il gran merito di custodire il sapere del passato in preziose traduzioni dal greco,

dal latino e dall'arabo, oltre a tenere in vita la coltivazione di tante specie di erbe medicinali

da loro effettuata accanto alla "spezieria" nei "giardini dei semplici"25. Questi, precursori

dei celebri orti botanici, che in Italia26, a cominciare da Pisa e Padova, così come in molte

Università d'Europa, verranno istituiti nei secoli XVI e XVII, si rendono necessari per avere

la disponibilità di molte piante medicinali durante i lunghi assedi, le rapine, le occupazionimilitari, le pestilenze, le carestie. L'aggettivo sostantivato "semplice" sta ad indicare nel

linguaggio medico del tempo un medicamento non articialmente composto, ma che si

somministra così come viene fornito dalla natura, in contrapposizione alle composizioni

medicinali che possono essere composte di più "semplici".

Proprio a S.Benedetto di Capua viene eseguito all'inizio del sec. X uno Pseudo-Apuleio27  ed ancora un altro manoscritto dell'opera di Apuleio.28

E’ opportuno sottolineare che, durante il periodo romanico, allorché, con il dissolversi

del feudalesimo, risorgono le energie nazionali in rapporto con le contingenze storiche e i

23 L’opera fu tradotta in francese nel 1373 su ordine del re di Francia Carlo V, fu pubblicata in latino con iltitolo: Petri de Crescentiis, civis Bononiensis opus ruralium commodorum, Augsbourg, 1471, seguita dalla

 prima edizione italiana di Firenze del 1470 e dalle successive di Strasburgo del 1486 e di Vicenza del 1490.

24 L’opera, il cui manoscritto è conservato a Roma nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Ms. Vat. Lat. 13010),

fu stampata per la prima volta a Napoli nel 1474 con il titolo di Opus Pandectarum, con la dedica di Angelo

di Sepino, medico di Aragona re di Napoli, a riprova della stima per l’opera a quel tempo.

25 Sull’argomento v.: E. MILANO, In foliis folia. Giardini e orti botanici, secondo volume, Modena 1995, pp.

11-100; v. anche: J. SERAPION, De simplicium medicamentorum historia, Venezia, 1552; N. B. MONARDES, De

 simplicibus medicamentis, Antwerpen, 1574

26 V. A. CHIARUGI, Le date di fondazione dei primi orti botanici del mondo, Firenze, 1953; P. MEDA, Guida

agli orti botanici, Milano, 1984; Lo stesso, Orti botanici delle Università italiane, Napoli, 1965.

27 Ora conservato alla Biblioteca di Montecassino, codex Cassinensis 97 .

28 Conservato alla Biblioteca Laurenziana di Firenze Plut. 73. 41. La prima opera a stampa dell’ Herbarium viene eseguita a Roma, nel 1481.

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frazionati aspetti politici della penisola e con un'etica che considera la terra quale luogo di

 passaggio verso l'eterno, il linguaggio neolatino è " sermo illustris", lingua dotta che serve

da contemperamento fra questa e il " sermo vulgaris": unione fra le due parlate in contatti più

o meno diretti col mondo bizantino orientale e con quello d'Oltralpe. Pertanto con l’avvento

della lingua neolatina che certamente contribuisce alla diffusione dei testi, attraverso i libri

sacri e qualche manoscritto profano, eseguiti negli " scriptoria" dei monasteri, ricostruiamo

le vicende, che qui ci interessano, degli erbari e delle relative miniature che ci consentono

una parallela chiave di lettura.

Inoltre è da ricordare che, grazie al merito dei monasteri, gli erbari bizantini e meridionali

conoscono una grande diffusione specie in Gran Bretagna, dove proprio lo Pseudo-Apuleio viene tradotto in anglosassone intorno al 1000, avvalendosi per le piante illustrative, in

coerenza con la vocazione astratta della miniatura insulare, di immagini stilizzate tanto da

rendere la pianta quasi irriconoscibile. Lo stesso Apuleio conosce in Inghilterra numerose

altre trascrizioni, una del 1050 circa, forse la più illustre della serie, conservata alla British

Library29, alla quale seguono quella eseguita a Canterbury intorno al 1070-1110 ed ora

conservata alla Bodleian Library di Oxford30, dove pure si trova un altro esemplare molto

 più realistico realizzato a Bury St.Edmunds verso il 1120.

In una stesura risalente ai secoli XI-XII è molto conosciuto anche il già ricordato  De

viribus herbarum, attribuito al poeta latino Aemilius Macer, amico di Tibullo, Ovidio o

Virgilio, che in esametri latini, da notizie delle droghe no ad allora conosciute, e mette

in luce anche con erudita conoscenza, le loro proprietà medicamentose. E’ stato anche

ipotizzato che il nome di "Macer Floridus" o "Aemilius Licinius Macer" costituisca lo

 pseudonimo di un autore medievale, vissuto nella prima metà del sec. XI, il medico Oddone

di Meung o Odo Magdunensis. La prima stampa dell'opera avviene a Napoli nel 1477, e un

esemplare a stampa, edito a Ginevra nel 1500 circa, è conservato alla Biblioteca Estense

Universitaria di Modena31.Anche se le immagini di piante nei trattati di medicina e toterapia del passato, trascritte

negli "scriptoria", tratte dai prototipi ricopiati sia pure miniate o acquerellate, sono spesso

appiattite e prive di somiglianza, spicca tra tutte quella misteriosa e affascinante della

mandragora nello stereotipo illustrativo che la vuole con una testa fatta di foglie, mentre le

radici assumono la forma di un corpo umano. Non si può non ricordare a tale proposito che,

 per conferire maggiore attrattiva a questa letteratura, vi si inseriscono gli elementi magici e

 preternaturali quali inussi astrali sulle erbe, animalizzazioni di esse, virtù magiche. Si dà

così vita ad una letteratura medico-magica, e sono soprattutto gli erbari a fornire argomenti

al meraviglioso e a segnalare le loro virtù, una delle quali è la "segnatura" secondo la quale

le piante, che per taluni aspetti sici, o di colore o di forma, ricordano in qualche modol'organo malato, e sono utili a guarirlo. Così l'erba polmonaria, che aveva questo nome per

la forma delle sue foglie che ricordano vagamente un polmone, viene usata per curare le

malattie di quell’organo.

 Nel corso del Medioevo la tradizione manoscritta degli erbari pare svilupparsi secondo

due direttive principali: da un lato quelli realizzati nel Nord Europa, che sempre più astratti

29 APULEIO PLATONICO, Herbarium, 1050 c., Londra, British Library, Ms. Cotton, Vitellius c. III.

30 Lo stesso,  Herbarium, sec. XII, 1120, Oxford, Bodleian Library, ms. Bodley. I. 30; v. anche la prima

opera a stampa: Herbarium Apulei Platonici, Roma, 1481; F. W. T. HUNGER , The Herbal of Pseudo Apuleius,

Leiden, 1935

31 MACER  FLORIDUS, De viribus herbarum, Ginevra, c.1500. Ancora un’edizione a stampa è quella di Veneziadel 1506.

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e stilizzati, si esauriscono nel rimando letterario e si allontanano sempre più dall'originario

scopo descrittivo di illustrazione e identicazione delle piante; dall'altro quelli realizzati

in Italia Meridionale, dove, grazie al contatto con la produzione scientica araba, si va

denendo il carattere precipuo degli erbari come strumenti pratici di lavoro.

Dai contatti con il Monastero di Montecassino, proprio tra il 1100 ed il 1200, epoca in

cui i monaci cominciano ad esercitare la professione medica al di fuori delle abazie e dei

monasteri, si originano fuori dai conventi orenti scuole di medicina e chirurgia, tra le quali

la scuola di chirurgia oftalmica di Preci in Umbria, nei pressi dell'abbazia di Sant'Eutizio e

la più celebre Scuola Salernitana32. Quest’ultima, anche se si ignora l’esatta data della sua

nascita, ha il merito di essere la prima e più antica istituzione dell’Europa occidentale per

l’insegnamento della medicina e delle arti ad essa afni e, cosa più importante per il futuro

della scienza europea, è il primo esempio di sincretismo tra il pensiero scientico occidentale

di origini greco-latine e quello orientale, facendo uscire la medicina dal grossolano

empirismo, avviandola verso una dimensione scientica, con la prima sua produzione

che risale al secolo XI e che trae origine dalla tradizione classica e tardo antica basata

sulla conoscenza di alcuni trattati pratici e farmacologici di Galeno, sulle opere di Plinio,

Dioscoride, Celio Aureliano, Teodoro Prisciano, Paolo di Egina e Alessandro di Tralles.

Tale patrimonio culturale del passato viene sistematicamente ordinato in trattati compilativi

che rispondono ad un'esigenza didattica di trasmissione delle conoscenze mediche e che

rivelano uno spiccato interesse più per la pratica medica che per i problemi teorici generali,

facendo vivere alla medicina, alla farmacia e alla toterapia il loro momento di massimo

fulgore.

Sembra che già nell'XI secolo si proceda alla compilazione di un Erbario della Scuola

diffusasi in Europa. Particolare impulso al sorgere della Scuola verrà dato dalle nuove

cognizioni del sec. XII, allorché essa, impostata inizialmente sugli autori greci-latini, viene

integrata con le conoscenze arabe, quando si diffonde al tempo dell'abate Desiderio, l'operadi Costantino Africano, un dotto saraceno fattosi cristiano e poi monaco, primo divulgatore

in Occidente della scienza medica ebraica e islamica che egli ha tradotto dall'arabo, avendo

avuto familiarità in Oriente con le opere di Mesue, di Serapione e del contemporaneo

Avicenna. La Scuola risente dell'inusso costantiniano, soprattutto in campo farmacologico,

in quanto la traduzione del Kitob-al-Maliki di Ali-ibn-Abbas, uno dei più importanti trattati

di medicina araba, arricchisce i prontuari di rimedi salernitani di una vasta gamma di

32 S. DE  R ENZI,  Storia documentata della Scuola Medica di Salerno, Napoli, 1851; B. LAWN,  I quesiti

 salernitani. Introduzione alla storia della letteratura problematica medica e scientica nel Medioevo e nel

 Rinascimento, Cava dei Tirreni, 1969; A. SINNO, Sintesi storica della Scuola Salernitana, Salerno, 1942; P.O. K RISTELLER , La Scuola Medica di Salerno secondo ricerche e scoperte recenti, Salerno, 1980; La scuola

 Medica Salernitana. Storia, immagini, manoscritti dall’XI al XIII secolo  a cura di Maria Pasca, Salerno,

1988; A. BECCARIA,  I codici di medicina del periodo presalernitano, Roma, 1956; P. O. K RISTELLER , Nuove

 fonti per la medicina salernitana del sec. XII , in: “Rassegna Storica Salernitana”, XVIII, (1957), pp. 61-

75;  Regimen Sanitatis sive Scholae Salernitanae de conservanda hona valetudine praecepta, a cura di J.

Ackermann, Stendal, 1790; K. SUDHOFF, Zum Regimen Sanitatis Salernitanum in: “Archiv für Geschichte der

Medizin”, VII (1914), pp. 360-362; VIII (1915), pp. 292-293; X (1917), pp. 91-101;  Regimen Sanitatis. Flos

medicinae scholae Salerni, a cura di A. Sinno, Salerno, 1941; Collectio salernitana ossia documenti inediti

e trattati di medicina appartenuti alla scuola medica salernitana… pubblicati a cura di Salvatore De Renzi

…[riproduzione anastatica del 1853] Bologna, 5 voll., Tomo V, pp. 4-6. Un riscontro di tali precetti dettati

con riferimento ai mesi dell’anno troviamo anche in un: Conservandae bonae valetudinis praecepta longe

 saluberrima … per Iohannem Curionem… ita nunc denuo, mutatis et recisis nonnullis, ac in numeris ferme sublatis mendis, recognita et repurgata, ut novum opus iure videri possit, Francoforte, 1573, cc. 277v.-278v.

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 prescrizioni no ad allora sconosciute. Il Liber Aureus di Giovanni Afacio, discepolo di

Costantino e suo principale divulgatore, è il primo esempio della produzione di manuali di

 patologie e terapie che si sviluppa da allora in poi e che si concreterà più tardi, nei Secoli

XV-XVI, nell'edizione di un gruppo di testi classici sotto il nome di Articella, che costituirà

la base di studio della medicina no al sec. XVIII.

I maestri salernitani, come i monaci cassinesi, sono profondi conoscitori del mondo

vegetale ed abili nella manipolazione delle erbe. Questa loro esperienza si manifesta

nell'elaborazione di trattati in cui i semplici vengono scienticamente indagati e classicati

in base alle loro proprietà medicamentose, diversamente combinati e dosati secondo le varie

applicazioni terapeutiche:  Dynamidia,  Antidotaria, Tabellae, hanno lo scopo di rendere

agevole e chiara la pratica applicazione dei rimedi.

Proprio nel momento di maggior splendore della Scuola, che ormai era famosa in tutta

Europa e che vedeva accorrere non solo studiosi, ma anche illustri regnanti, come ad

esempio il Re d’Inghilterra Edoardo III, allo scopo di curare le proprie infermità, nasce

l'opera più importante ed imponente conosciuta della Scuola Salernitana, il  Regimen

 sanitatis salernitanum  o  Regola della sanità, in versi latini attribuita in alcune edizioni

antiche ad Arnaldo da Villanova, medico catalano ritenuto da alcuni la più eccelsa gura in

campo medico e scientico del Medioevo che descrive circa novanta specie di piante aventi

 potere terapeutico.

L’opera, che avrà all’epoca della stampa notevole fortuna, è un insieme di aforismi

e di precetti di carattere prevalentemente igienici, dettati probabilmente da vari medici

susseguitisi nella Scuola.

Tuttavia l'opera fondamentale della botanica medicinale medievale è il  De simplici medicina, più tardi conosciuta come Circa instans dall'incipit del testo o, più suggestivamente,

come Secreta Salernitana. Scritta tra il 1130 ed il 1160 dal maestro Matteo Plateario,

che vi appone la rma, l'opera può essere considerata un dizionario, che, avvalendosidi una dettagliata descrizione di circa cinquecento piante, ne determina le varie specie,

analizzandone le parti, dalla foglia, al ore, al frutto, ai semi, alla corteccia, al legno, alla

radice, identicandone alcune no ad allora sconosciute e denendo per ognuna l'origine

geograca, la denominazione greca e latina, la varietà e sosticazioni e le loro proprietà

terapeutiche, e quindi l'uso e la posologia.

Il testo originario dell'opera, che secondo Jules Camus si basa sul Dioscoride fuso dopo

il IV secolo con quello dello  Pseudo-Apuleio, conosciuto no al secolo scorso soltanto

nella ridotta versione a stampa del 1488, si è potuto ricostruire grazie alla collazione di due

magnici esemplari del XV secolo, conservati presso la Biblioteca Estense Universitaria di

Modena, rispettivamente un manoscritto in lingua latina il Tractatus de herbis, ms.lat.993,e uno in lingua francese, è l’ Herbolaire ms. Estero 28.

Il Circa instans che ha eco vastissima, pur continuando a circolare a lungo senza corredo

iconograco, che evidentemente si stenta a trovare in forme adeguate alla modernità del

testo, costituisce un prototipo per tutto il lone di enciclopedie di storia naturale applicata o

enciclopedie di semplici e delle loro virtù, di quei Secreta Salernitana che hanno conosciuto

esemplari illustrati solo nel XIV secolo, ricevendo dagli studiosi il riconoscimento della

capacità di correggere la tradizione iconograca delle opere precedenti nei casi di disegni

non corrispondenti al dato naturale. Ciò comporta l'affermarsi di un nuovo spirito critico,

anche se non ci troviamo di fronte a veri "ritratti" di piante, ma piuttosto ad una mediazione

fra le esigenze del rispetto dei modelli classici e gli intenti di viva osservazione della realtà,e le scene proposte da allora negli erbari, relativamente alla raccolta delle piante e alle loro

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modalità d'uso, vanno interpretate in quella direzione.

La più nota di queste enciclopedie è il ms. 459  della Casanatense, la preziosissima,

 principesca  Historia plantarum che nel 1912 Elena Berti Toesca attribuisce a più artisti

lombardi, fra i quali Giovannino de' Grassi, vedendone i rapporti con i Tacuina sanitatis e con i disegni di animali del Tacuino di Bergamo. La studiosa contraddice pertanto la tesi

dello Scholosser il quale nel 1895 ha pubblicato il Tacuinum sanitatis di Liegi come opera

veronese, trovando sostenitori su tale tesi in Schboner nel 1895, nel Delisle nel 1896, nel

Fogolari nel 1905 e nel Muñoz nel 1908, mentre sempre sulla tesi veneta, ma padovana,

hanno insistito la Kurth nel 1912, il Monteuffel nel 1913, il Carbonelli nel 1918 e più

cautamente il Coletti nel 1947. Berti Toesca ha invece trovato buoni sostenitori della tesi

lombarda in D'Ancona nel 1925, nel Van Marle nel 1926, nel Van Schenedel nel 1938, nel

Serra nel 1940, nel Marabottini nel 1950, nel Samek-Ludovici nel 1952 e nel Salmi nel

1955.

 Nonostante la notorietà ed il fervore che caratterizza in tutto il Medioevo la Scuola

Medica Salernitana, che tuttavia comincia lentamente a decadere dopo che nel 1244 si fonda

l'Università di Napoli, la botanica, pur essendosi liberata da alcune scorie medievali, non

riesce a decollare come scienza a sé e rimane ancora "ancella" della medicina, per cui gli

Erbari e i Ricettari che trattano delle piante ofcinali, no a tutto il secolo XVI verteranno

in materia esclusivamente o prevalentemente medica. Infatti l'uomo, ancora assorbito da

esigenze religiose e metasiche, non riesce a dedicare molto spazio alla scienza.

Anche gure di rilievo del XIII secolo come Alberto di Lauingen, divenuto Alberto Magno

dopo la sua morte, e che nella sua cultura enciclopedica include anche le scienze naturali

e la medicina, o come Pietro d'Abano, losofo, astrologo e soprattutto medico scolastico

con inuenze arabe il cui Trattato dei veleni  e un testo riguardante le erbe aromatiche

o comuni, sono conservati in manoscritti del sec. XV alla Biblioteca dell'Archiginnasio

di Bologna, non riescono a liberarsi completamente dalle pastoie medievali, fatte di pregiudizi, superstizioni, di una ridda di angeli, folletti, demoni, animali e di caratteristici

 poteri magici attribuiti gratuitamente alle piante. A quelle anzi rimangono ancora legati, pur

congurandosi come gli arteci di quegli insegnamenti ai quali attingeranno autori che dal

Rinascimento e no al Settecento scriveranno sulla materia, riportando quei principi e quelle

cognizioni che molto spesso vanno a coincidere con quelle della moderna erboristeria, che

troverà spazio graduale allorché la scienza, assumendo gradualmente valore in prestigiose

Università, incomincerà a progredire sia sul piano della ricerca scientica che su quello

della sperimentazione.

Storia a sé sembrano avere quel gruppo di manoscritti che sono conosciuti come Tacuina

 sanitatis, curiose trattazioni che hanno una notevole diffusione a partire dal secolo XIV.Sostanzialmente sono ricettari di norme di facile igiene, atte a curare e a mantenere la

salute per mezzo dell'uso igienico delle erbe, dei cibi e dei metalli, tipico prodotto dell'Italia

settentrionale e più precisamente dell'illustrazione lombarda, "destinati alla pura gioia

degli occhi e ad una costosissima lettura domestica nalizzata ad elementari conoscenze

di igiene alimentare…". Sono quindi manuali per condurre una vita sana che in qualche

modo si possono far rientrare nel "genere" degli erbari, anche se diversa è l'impostazione di

fondo. Essi rappresentano il frutto del recupero della scienza medica degli antichi favorito

dagli Arabi durante i secoli XIII e XIV. Non risulta che esistano manoscritti compilati dagli

Arabi su tale argomento, ma certo ad essi si possono attribuire quelle tavole sinottiche degli

elementi che possono inuire sulla conservazione della salute e si riallacciano probabilmenteall'opera del medico arabo Ibn Botlan, vissuto nel sec. XI ed autore di un'operetta Taqwin,

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Esso costituisce la fonte per molte illustrazioni dell'Erbario attribuito per molto tempo

a Benedetto Riinio, eseguito nel 1419 ed a lungo è stato ritenuto il primo erbario, dopo

l'età classica, con immagini tratte direttamente dalla natura. Il manoscritto cartaceo, oggi

conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia42 e che viene ora più correttamente attribuito

 per il testo a Nicolò Roccabonella e per le illustrazioni al veneziano Andrea Amadio, ha

un'iconograa molto più ricca e vasta del Serapion, offrendo un più ampio repertorio di

 piante.

Un altro manoscritto quattrocentesco è conservato alla Biblioteca dipartimentale di

 botanica dell'Università di Firenze43, appartenuto probabilmente ad un medico e da lui

usato nel primo trentennio del '400, derivato dall'ambiente culturale della scuola salernitana

e collocabile facilmente per la sua iconograa nell'area lombardo-veneta. Il manoscritto,

studiato ed edito da Stefania Ragazzini44, viene posto dalla studiosa in relazione con la

tradizione iconograca dei manoscritti  erbari 459 della Casanatense, Sloane 4016   della

British Library, Masson 116  della Bibliothèque de l'Ecôle des Beaux Arts di Parigi, Ad. 23 della Bodleian Library di Oxford, 1591 del Museo Civico di Trento, 211 della Biblioteca

Universitaria di Pavia, 18 di Fermo e con il 604 di Padova, concludendo che gli erbari di

Pavia e di Fermo "sono di tradizione pressoché identica al codice di Firenze".

Con l’avvento della cultura rinascimentale, l'uomo si pone al centro dell'Universo e lo

domina con la sua nuova forma mentis e con le sue iniziative, conquistando con le sue idee

e la sua cultura tutti i settori della vita sociale e delle scienze, tra le quali la botanica che sta

assurgendo ormai a scienza autonoma rispetto alla medicina.

Gli erbari sono redatti in modo differente rispetto al passato risultando riccamente

illustrati con immagini che tralasciano ormai la rafgurazione delle piante sotto forma di

uomini o di animali offrendo una rappresentazione più vicina all'ambiente naturale.

La prima vera ricerca scientica che prende le mosse dalle università rinascimentali

incomincia a dare importanza agli erbari, considerati via via che si arricchiscono di nozionie di illustrazioni, veri e propri trattati di medicina, ed addirittura vengono trascritti per conto

delle Corporazioni dei Medici e degli Speziali. Tuttavia il passato non è stato cancellato

del tutto e, qua e là, nel nuovo che avanza, accanto a felici intuizioni che ancora oggi sono

ritenute valide, si afanca una certa superstizione, formule magiche e addirittura stregonerie

 per preparare i farmaci. Nel contempo, con l'attenzione dedicata agli studi botanici, gli

studiosi, superando le no allora dogmatiche affermazioni di Crateva, di Teofrasto, di

Ippocrate, di Dioscoride o Apuleio, si orientano verso una conoscenza sempre più profonda

e capillare e dirigono le loro ricerche anche verso gli estratti vegetali.

Col passare del tempo il crescere del numero degli erbari manoscritti, sempre

 più abbondantemente illustrati al ne di migliorare lo scopo pratico applicativo e diriconoscimento a scopo curativo, vanno a coincidere con l'inizio della stampa dovuta alla

grande intuizione gutenberghiana.

Infatti, allorché con la nascita della stampa prende forza l'ala possente attraverso la

quale il pensiero spazierà per tutta la terra, dando vita al primo pilastro della graduale

globalizzazione della cultura, e dai torchi tedeschi, italiani e poi da quelli di tutta Europa,

42 Venezia, Biblioteca Marciana,  Liber de simplicibus Benedicti Riini medici et philosophi veneti,  Lat. VI.

59 = 2548

43 Firenze, Università-Biblioteca dipartimentale di botanica, Codice erbario, ms. 106 

44 S. R AGAZZINI, Un erbario del XV secolo. Il ms. 106 della Biblioteca di botanica dell’Università di Firenze,Firenze, 1983.

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cominciano ad uscire impressioni multiple della medesima pagina e del medesimo libro che

rendono ormai inutile e sorpassata la pure meritoria opera degli " scriptoria" e dei copisti,

no ad allora indispensabili per la produzione di manoscritti, anche la tradizione manoscritta

degli erbari viene convogliata verso la stampa e si dà il via, negli ultimi trent'anni del

Quattrocento, ad una ricca produzione di erbari prodotti in più copie, con i caratteri mobili,

con le conseguenze divulgative e con i rimarchevoli vantaggi che sono propri del fenomeno

della stampa in tutti i campi del sapere.

Il genere botanico, come altri, conosce un momento di autentica oritura, aiutato, sotto

l'aspetto illustrativo, dalla xilograa applicata alla stampa che aiuta a riprodurre e a proporre

immagini di piante, a scopo non decorativo, ma semplicemente in funzione esplicativa del

testo.

Si avviano così lentamente a decadenza, di pari passo con l'afevolirsi del genere miniato

che procede malinconicamente verso un lento esaurimento e quindi verso un’inevitabile

scomparsa, anche se per alcuni anni i due generi avranno vita parallela ma sempre più

diversicata, le immagini di piante e soprattutto di ori e frutti che, del tutto ni a se

stessi, con pura funzione decorativa e spesso senza alcuna didascalia, hanno inondato intere

 pagine di codici, costituendo uno dei soggetti che alla miniatura ha offerto colori, spunti,

suggestioni.

Vi è da osservare che l'invenzione della stampa e la quasi contemporanea applicazione

della xilograa all'illustrazione delle piante descritte, non solo estendono in modo eccezionale

la conoscenza delle piante medicinali, ma determinano addirittura l'emancipazione della

 botanica sistematica, come scienza distinta, dello studio pratico, farmacologico e tecnico,

dei Semplici. La larga diffusione delle descrizioni illustrate provoca infatti una più intensa

ricerca delle specie descritte dai classici e contemporaneamente la codicazione di quelle

entrate in uso nel corso del Medioevo, per suggerimento dell'esperienza popolare, o

importate per le loro qualità medicinali riconosciute dalle popolazioni del luogo d'origine,con le guerre, con i commerci e con i viaggi, a partire dal secolo XIV, si erano spinti verso

mete più lontane, facendo conoscere nuovi prodotti dopo ogni spedizione.

Inoltre si va constatando la presenza di specie congeneri a quelle usate a scopo medicinale

sino all'antichità classica, che vegetano in Paesi diversi da quelli di provenienza dei Semplici

noti, e la conseguente opportunità di sperimentare l'efcacia terapeutica di quelle forme

afni appena conosciute.

Poco durevole, ma efcace per le conseguenze che comporta sul piano illustrativo, è

la particolare raccolta di gure botaniche conosciute come " Ectypa plantarum", ottenute

 premendo le piante sulla carta o su altro materiale, dopo averle cosparse di nerofumo. Esse

lasciano così sulla materia adoperata l'esatta impronta del fusto, del ore, delle foglie edelle nervature. Tale procedimento impressorio, che testimonia l’esigenza della botanica di

aderire sempre più alla realtà, sostituendo anche la tecnica dell’esecuzione a mano libera

usata tra la ne del Quattrocento ed i primi decenni del Cinquecento, porterà un grande

rinnovamento nella tecnica incisoria, precedendo, afnando e favorendo la rappresentazione

xilograca che si basa sul medesimo principio. Lo stesso Aldrovandi, anche quando gli

erbari secchi avranno soppiantato quelli ad impressione, si servirà ancora di quella tecnica,

tanto che fra i suoi manoscritti, ed in particolare nel Ms. Aldrovandiano 136  della Biblioteca

Universitaria di Bologna, ritroviamo la procedura per ottenere "l'impronta diretta", appresa

dallo speziale orentino Romolo Rosselli.

Tale procedimento al tempo stesso, si avvicina molto, per realismo, alle raccolte di piante secche che, dando origine a nuovo metodo di studiare la botanica, porrà in essere

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l’“hortus siccus”, l’“hortus vivus” o l’“hortus hyemalis” nel quale le piante disseccate,

complete di radici, fusto, foglie, rami e ori per le piante erbacee, foglie, rami e ori per

le piante arbustive, verranno ordinate in base ad un determinato criterio di classicazione

indispensabile per lo studio sistematico della botanica, affermando un nuovo modo di

concepire questa materia, pur non raggiungendo la chiarezza e la fedeltà che si otterrà più

tardi con lo studio effettuabile dal vivo negli orti botanici.

 Nell’“hortus siccus” ciascun esemplare verrà ssato opportunamente su di un foglio

contraddistinto da una scheda che porterà il nome scientico della pianta, località e data

della raccolta, natura del terreno, nome del raccoglitore e le altre notizie ritenute utili. I

fogli singoli verranno poi riuniti in fascicoli ordinati in base al sistema di classicazione

adottato.

I sintomi e le ragioni di tale inversione sono da ritrovare nella cultura umanistica che

esorterà a studiare le piante non solo sui libri, ma anche direttamente in campagna, nel loro

habitat naturale, prima, nel migliore dei casi, solamente descritto attraverso l'illustrazione.

 Ne è testimonianza la lettera che l'umanista Pandolfo Collenuccio da Pesaro scriverà al

Poliziano inviandogli e invitandolo a visionare due piante secche raccolte nel suo viaggio

in Tirolo, fatto nel 1493, che si trovano descritte e gurate nei libri in maniera poco chiara.

Anche se il Poliziano, risponderà che gli studiosi ai quali ha sottoposto la questione non

hanno accolto con entusiasmo questo nuovo modo di fare comunicazione scientica, come

è destino di tutto ciò che è nuovo, che trova sempre come reazione immediata dei detrattori

attaccati alla tradizione, il nuovo modo di concepire e realizzare gli erbari, anche se ciò non

avverrà in maniera rettilinea ed uniforme, nirà per afancare ed avere una vita parallela

con il metodo gurativo accompagnato da un testo che lo illustra, seguito per secoli.

Il primo vero erbario secco a noi pervenuto è quello offertoci da Luca Ghini, lettore dei

Semplici medicinali, cattedra istituita proprio nel sec. XVI col nome di Lectura Simplicium,

all'Università di Bologna, dal 1534 al 1544 e di Pisa dal 1544 al 1556. Egli, dopo avereraccolto diversi erbari che distribuirà agli studiosi, nel 1543, unitamente al suo allievo

Gherardo Cibo, raccoglierà la prima collezione di piante secche a scopo di studio e che

organizzerà con metodo scientico. Il Ghini, maestro di Andrea Cesalpino e di Ulisse

Aldrovandi, insegnerà per primo ai numerosi allievi che afuiscono anche dall'estero,

alla sua Scuola, a conservare "per disseccamento" le piante medicinali coltivate nell'Orto

 botanico di Pisa da lui istituito, insieme a quelli di Bologna e di Firenze, ed oggetto delle

sue lezioni. Da alcune lettere scritte da Luca Ghini ad Ulisse Aldrovandi nel dicembre

del 1552 e nell'ottobre del 1553, risulta che quel celebre medico possedeva un erbario,

cospicuo per quei tempi, dal momento che aveva disponibili "300 sorte d'erbe secche"

da spedire allo scolaro prediletto. I Codici aldrovandiani della Biblioteca Universitaria diBologna realizzati nel 1554 da Ulisse Aldrovandi in 16 volumi contenenti circa 4760 piante

incollate su 4117 fogli, contengono i Placiti del Ghini, nei quali si puntualizza su alcuni

semplici descritti da Pietro Andrea Mattioli e da altri illustri botanici.

Tale pratica, estesa ben presto anche ai campioni dei Semplici raccolti direttamente in

natura, si diffonderà rapidamente in Italia e fuori, nel corso del Cinquecento e, rendendo lo

scambio molto più facile ed economico rispetto alla stampa, segnerà un nuovo corso nella

storia degli erbari, determinando una enorme diffusione delle conoscenze botaniche.

Del resto il numero sempre crescente di piante che si andranno raccogliendo in tutta

l'Europa e in seguito delle grandi scoperte geograche, a partire dal sec. XVI, anche nei

Paesi del Nuovo Mondo, non può più trovare un valido riscontro ed essere soddisfatto daisistemi di "classicazione a scopo speciale".

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Inoltre si prospetterà la necessità di pervenire con nuovi criteri ad un'identicazione

obiettiva di esemplari della medesima specie, ma di provenienza diversa e con insignicanti

differenze morfologiche che potrà portare a considerarle addirittura specie diverse.

L'erbario così concepito servirà dunque a stimolare lo spirito di osservazione degli studenti,

 permettendo loro di trarne riessioni utili sia dal punto di vista della conoscenza, sia da

quello dei rapporti di afnità tra i vari esemplari, le loro caratteristiche, la loro struttura, alla

luce di quelle concezioni di origine aristotelica che gli studiosi, a quel tempo, riporteranno

via via all'attualità.

Il primo libro a stampa di cui abbiamo notizia che tratta argomenti botanici, farà la

sua comparsa nel 1470 a Basilea, col titolo di Liber de proprietatibus rerum. Ne è autore

il losofo francescano Bartolomeo Anglico che dedica il libro XVII alla elencazione

descrittiva di un gran numero di piante ed alberi, con l'indicazione delle qualità terapeutiche

di ciascuna di esse.

Poco dopo ad Augusta, nel 1475, apparirà la stampa dell'opera di Konrad von

Megenberg, Das Buch der Natur , il libro della natura, composta intorno al 1350. E' un

libro di importanza basilare nella storia della botanica in quanto le illustrazioni xilograche

di piante in esso contenute non hanno più soltanto funzione decorativa, ma sono nalizzate

all'accompagnamento e all'esplicazione del testo.

Inizierà così, in particolare in Germania, dove trovano un mercato facile e continuo, una

 produzione notevole di erbari a stampa, che si susseguiranno a ritmo sempre più serrato:

alle prime edizioni delle più importanti opere di botanica antica e medievale, come il Plinio

del 1469, il Macer Floridus del 1477, il Dioscoride del 1478, l'Alberto Magno anch'esso del

1478, il Teofrasto del 1483, si afancheranno le stampe dell' Herbarium Apulei Platonici,

nelle edizioni di Roma 1480 e 1483-84, e di Passau 1485 e 1486.

Particolare interesse riveste l'edizione romana dell'Apuleio del 1489, pubblicata da

Giovanni Filippo da Lignamine col titolo di Liber de herbis sive de nominibus ac virtutibusherbarum, conservato nella Biblioteca di Cassino ed ornato di disegni di piante a penna.

L'opera in un'altra edizione del 1483-84 dedicata a Giuliano della Rovere, è tratta da un

manoscritto del X secolo, l'Herbarium cum  guris edito a Magonza da Pietro Schoeffer nel

1484 ed ornato di rozze gure a tratto, riproduce una compilazione delle opere dei principali

farmacologi cristiani ed arabi del Medioevo, con particolare riferimento alle Pandectae di

Matteo Silvatico.

Un discorso a parte merita il  Promptuarium medicinae del padovano Giacomo Dondi

 pubblicato a Venezia nel 1481, la cui opera composta nel 1355 e cominciata come

 Herbolario vulgare è ritenuta in un primo momento da Jean Baptista Saint-Lager 45, come

matrice dell' Herbario, del Grant Herbier en francoys, dell' Herbolario volgare, e dell' Hortus sanitatis, rispetto al quale avrebbero costituito delle varianti.

In realtà lo stesso autore46, nella sua Recherches sur les Ancien Herbaria ammette che da

un esame approfondito l'opera del Dondi è "un catalogo di Semplici classicati sulla base

delle loro virtù terapeutiche e che non contiene alcuna descrizione". Seguiranno l' Herbarius edito anch'esso a Magonza nel 1485, il Tractatus de virtutibus herbarum edito a Vicenza nel

1491, che riproduce la compilazione più nota in Italia come Aggregator simplicium attribuita

ad Arnaldo di Villanova, ma più probabilmente dovuta al padovano Giacomo Dondi, edita

ripetutamente sul nire del '400 e, nella sua forma migliore, in questa edizione vicentina;

45 J. B. SAIN-LAGER , Histoire des herbiers, cit.46 Lo stesso,Lo stesso, Recherches sur les Ancien Herbaria, cit.

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l' Hortus sanitatis edito a Magonza nel 1491 da Jacob Meydenbach, prima edizione a stampa

di questa opera che conoscerà più edizioni nel corso del secolo successivo, ricchissima di

immagini xilograche più o meno rozze, ma efcaci; e il Tractatus de virtutibus herbarum  pubblicato a Venezia nel 1499 ed in varie altre edizioni che chiuderanno la produzione

incunabulistica in materia. E' da sottolineare soprattutto che, come risultato dell'attivissimo

lavoro di revisione e di traduzione eseguito dai nostri umanisti nel corso del secolo XV, si

affermerà soprattutto il valore assolutamente predominante del trattato di materia medica di

Dioscoride, sfrondato dalle interpolazioni ed alterazioni operatevi nel Medioevo dagli autori

sia cristiani che musulmani. L'edizione principe del testo greco apparsa a Venezia nel 1499

 per i tipi di Aldo Manuzio e le successive edizioni e traduzioni nei commenti di Ermolao

Barbaro, Marcello Virgilio Adriani, Jean Ruel ed altri, prepareranno intanto la comparsa del

famoso commentario di Pietro Andrea Mattioli che, attraverso una sessantina di edizioni

latine, italiane e di traduzioni nelle principali lingue europee, oscurerà tutti i precedenti

trattati, ed anche grazie alle eccellenti illustrazioni che corredano le sue principali edizioni,

rappresenterà no alla ne del sec. XVII, uno dei trattati fondamentali, non solo per i

farmacologi, ma anche per i botanici sistematici.

E' certo che in queste stampe, al rigore umanistico che è particolarmente attento ai testi

ed alla loro rigorosa interpretazione, si afancheranno, per esigenza comunicativa, che si

avvale di un linguaggio scientico non consolidato ed ancora incerto, la forza delle immagini

le quali, attraverso un sistema rappresentativo adeguato, renderanno sufcientemente

comprensibili le ricerche dei naturalisti.

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Il codice α. M. 5. 9 = est. 28 Herbolaire o Grant Herbier

 Nel nucleo di codici in lingua francese che la Biblioteca Estense Universitaria conserva,

si segnala, per l’affascinante argomento affrontato e per la ricchezza di miniature, il

manoscritto (α. M. 5. 9 = Est. 28) contenente un Herbolaire o Grant Herbier . E’ il titolod’insieme che lo individua e che compendia la materia di cui tratta, meglio esplicitata dalla

sia pur breve descrizione contenuta nel catalogo manoscritto redatto da Carlo Ciocchi e da

Antonio Lombardi47, sotto la direzione del bibliotecario gesuita Girolamo Tiraboschi, negli

ultimi anni del Settecento, e ancora in uso per le ricerche sul fondo antico dei manoscritti

della Biblioteca.

Al n. XXVIII  dei codici esteri, dopo l’attuale collocazione (α. M. 5. 9) e quella precedente

 più antica (olim XII. K. 16) si legge infatti:

“DE URFE’.

 Dictionarium Gallicum herbarium cum herbis elegantissime expressis, litterisque

versicoloribus, auroque ut plurimum intextis. In quo herbarium virtutes, atque ut in extremo

opere dicitur secreta salernitana continentur .

Codex membran., in fol°, sec. XIV, (sec. XV)”, Notazione quest’ultima aggiuntaXIV, (sec. XV)”, Notazione quest’ultima aggiunta

 posteriormente sulla scorta di elementi successivamente acclarati.

A parte due gravi imprecisioni riguardanti, come vedremo, sia l’autore che la datazione,

la notizia catalograca sta ad indicare la presenza in Biblioteca, già alla ne del sec. XVIII,

di tale cimelio, considerato dagli studiosi una pietra miliare e una fonte ineludibile per lo

studio della botanica medicinale, unitamente ad un altro codice estense, il latino 993 (α.

L. 9. 28) le cui antiche collocazioni (V. G. 14 e XII. K. 19), in specie l’ultima, in ordine di

tempo, rivelano la vicinanza, per l’afnità della materia trattata, con l’est. 28, (XII. K. 16)

negli scaffali della Biblioteca Ducale.

L’ Herbolaire, pur indicato costantemente come proveniente dall’antico fondo estense,non è facilmente identicabile nei più antichi inventari della Biblioteca, anche se quello

redatto dal maestro di Ludovico Muratori, Benedetto Bacchini nel 169748 sembra rivelare

una verosimile afnità attraverso l’indicazione al n. 466: “Monsieur d’Urfé simplicista in

francese, gurato, in 4°, pergam.”.

Il riferimento al D’Urfé trova riscontro nell’annotazione di mano diversa, con grandi

caratteri maiuscoli, che potrebbe essere verosimilmente una nota di possesso posta in

 basso sul primo risguardo “livre des simples A Mons.r Durfe” e ancora più in basso “Il

Semplicista”.

Il Bacchini potrebbe avere scambiato il D’Urfé per l’autore o comunque averlo preso

come punto di riferimento, come parola signicativa per identicare l’erbario.Quella che nora è stata unanimemente ritenuta una seconda nota di possesso riguardante

un altro francese “Johan Deboys” è presente nell’ultima carta, in basso, dopo l’explicit, ma,

come vedremo, è molto probabile che si tratti di una sottoscrizione autografa.

Il periodo preciso in cui il manoscritto perviene ai fondi della Biblioteca non è comunque

identicabile, poiché né l’inventario di Niccolò III risalente al 1436, né quello di Borso

47 C. CIOCCHI-A. LOMBARDI,  Manuscriptorum codicum bibliothecae Atestiae catalogus in quinque partes

tributus, Vol. 2 ,, ms. in folio, sec. XVIII, Modena, BEU, Cat. 9. 1-2

48 B. BACCHINI, Registro de’ manoscritti della Biblioteca del Ser.mo Sig. Duca di Modena, sec. XVII, (1697)

v. 1, ms., in folio, (originale in ASMO. La copia presente in Biblioteca Estense Universitaria porta la data del30.12.1756).

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risalente al 1467, né quello di Ercole I d’Este risalente al 1495, né ancora quello di Alfonso

II, del 1598, portano traccia dell’ Herbolaire. E’ da sottolineare però che troviamo, anche

se privi di elementi certi, per un’identicazione, un “libro signato de sovra Circa instans”

e un “Tachuino de la sanità in medexema” nell’inventario di Niccolò III e un “Tacuynus

 sanitatis” nell’inventario di Borso, al quale Giovanni Cadomosto da Lodi dedica nel 1471

un  Libro de componere herbe et fructi  ricchissimo di miniature ora conservato a Parigi

tra i manoscritti italiani (M. 1108-1109) della Biblioteca Nazionale di Francia, e inne un

“ Proprietas herbarum” nell’inventario di Ercole I.

 Nonostante la mancanza di una sostanziosa documentazione, sappiamo però che gli

Estensi nutrivano un vivo interesse sia per la botanica pura e semplice, sia per quella

medicinale rapportata al potere terapeutico delle piante, e gli studi in materia hanno provato

la presenza di un certo numero di giardini dei semplici a Ferrara.

Scrive Kurt Sprengel nel 180749 che il celebre ferrarese Antonio Musa Brasavola, medico

di Alfonso I, duca di Ferrara “Herbarium ipse collegit ditissimum”. Il fatto che il Brasavola

avesse un giardino botanico è comprovato da altri studi più recenti tra i quali quelli di

Edmondo Brighenti50 tra il 1942 e il 1950 e di Gina Luzzato51 nel 1951.

Lo stesso Brasavola ci dà testimonianza dell’esistenza di quel giardino in un suo libro

edito nel 153652 a proposito di una promessa fattagli dal duca Alfonso, in virtù della quale,

se fosse guarito dalla malattia di cui era afitto, gli avrebbe “decretato un grande giardino”

ed avrebbe mandato “a suo comodo dei messi con l’incarico di portare erbe non esistenti a

Ferrara”.

Lo Sprengel53  ricorda che il Duca istituì un Giardino Botanico nell’isola del Po

identicabile con il Belvedere e aggiunge “Il Duca regalò al Brasavola del terreno dove

 parimenti fu installato un giardino botanico”.

Antonio Frizzi54 nel 1847 ricorda che Antonio Brasavola ebbe un orto di semplici “a cui

aggiunse pregio Ercole Duca, col provvederlo di piante esotiche in abbondanza”.Lo stesso Brasavola55 scrive due libri sui semplici e sui preparati galenici. Giova anche

ricordare, a proposito dell’interesse degli Estensi, la composizione in tale periodo di un

catalogo del tutto particolare, un erbario, di autore anonimo, conservato all’Archivio di

Stato di Modena, costituito da esemplari di erbe medicinali dissecate e incollate ai fogli, con

una selezione di 182 piante, in sostanza quello che viene denito un “ Hortus siccus”56.

La presenza certa in Biblioteca può essere invece stabilita attraverso un elemento esterno

del codice, la legatura cosiddetta “tiraboschiana” eseguita appunto sotto la Direzione di

Girolamo Tiraboschi, nella seconda metà del sec. XVIII, a partire dal 1772, data quindi da

considerare post quem, anno in cui il presidente Fabrizi, inviando la relazione sui lavori

49 K. SPRENGEL, Historia rei herbarie, Amsterdam, 1807

50 E. BRIGHENTI, Botanici e studi botanici a Ferrara nella metà del secolo XV alla ne del XVI , Ferrara, s. d.

[1942-1950]

51 G. LUZZATO, Orti botanici privati, orto botanico e semplicisti all’epoca dei duchi d’Este a Ferrara, in “Atti

dell’Accademia delle Scienze di Ferrara”, 28 (1951), pp. 101-148

52 A. M. BRASAVOLA, Examen omnium simplicium, Lyon, 1536

53 K. SPRENGEL, Op. cit.,

54 A. FRIZZI, Memorie per la storia di Ferrara, Ferrara, 1847-48

55 A. M. BRASAVOLA, Examen omnium simplicium, cit.; Lo stesso, Index refertissimus in omnes Galeni libros,

Venezia, 1577

56 ASMO, Erbario Ducale Estense del secolo XVI   sul ne. Questo Hortus siccus fu studiato da J. CAMUS e

da O. PENZIG nel loro saggio: Illustrazione del Ducale Erbario Estense conservato nel R. Archivio di Stato in Modena, Modena, 1885.

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della biblioteca per il 1771, proponeva, a nome del Tiraboschi, una nuova legatura in

vacchetta dei manoscritti antichi “che pel decorso dei tempi si trovano sfasciati o prossimi

a sfasciarsi”57. Nel 1775 erano già rilegati 478 codici, come emerge dalla relazione dello

stesso Fabrizi per l’anno 1774.

Con tale epocale rinnovamento al quale andranno incontro le legature dei codici più

importanti, con evidenti irreparabili perdite per la conservazione degli antichi manufatti, fu

riservato ai manoscritti un trattamento particolare come quello dei fregi in oro sui piatti e

sul dorso, con doppia cornice a secco con motivi che sono tipici del ‘700.

In merito a tale operazione occorre sottolineare che al contrario di Antonio Lombardi, il

quale segnala che nel 1755 i codici più prestigiosi furono “superbamente rilegati … e così

l’esterno ornamento corrisponde assai bene all’interna magnicenza di questi monumenti

della Estense grandezza”58, fa tuttavia giustamente e saggiamente rilevare Giuseppe

Fumagalli59 che “a quei degnissimi bibliotecari non passò neppure per il capo il pensiero

che tale corrispondenza si sarebbe avuta assai meglio conservando e restaurando le legature

originali! […]. Queste preziose e artistiche legature … furono completamente distrutte

appunto nel periodo della direzione del Tiraboschi”.

Attualmente la robusta legatura in bazzana cartonata dell’ Herbolaire, elemento esterno

di tale manufatto, chiaramente identicabile in quell’operazione settecentesca, risulta in

 buono stato di conservazione, anche se la bazzana rossa iniziale ha assunto una colorazione

 più sbiadita e tende al rosso-bruno, nei due piatti caratterizzati da risguardi a secco e nel

dorso, a causa dei danni provocati nel tempo dalla luce.

Sul dorso i 6 nervi in capra allumata sono ben evidenziati dal rilievo che essi provocano

sulla pelle e dal doppio letto in oro che incornicia la nervatura stessa.

In alto, in oro, è impresso il titolo, rispondente a quello riportato dal catalogo del Ciocchi

e che testimonia ulteriormente come la legatura sia da rapportare alla ne del sec. XVIII:

“ Dictjonar   gallicum Hrbarum (sic)”.In basso, sempre impresso in oro, che mostra i segni del tempo, lo stemma estense

inquartato.

Il capitello passante all’esterno, sia superiore che inferiore, è in lo grezzo e rosato ed è

in discrete condizioni.

L’unghiatura dei piatti è leggermente consumata per l’abrasione della pelle dovuta allo

sfregamento sul palchetto.

La controguardia posteriore presenta una tarlatura al piede e all’angolo destro.

Passando alla descrizione interna del manoscritto, si nota anzitutto che il supporto

scrittorio è costituito da una pergamena ben curata e sottile tanto da creare trasparenze per

le gure miniate poste sia sul recto che sul verso delle singole carte, il che fa pensare adun’opera approntata per un qualche personaggio e non per mere ragioni di studio.

Il manufatto, contenente il testo dall’incipit  all’explicit , è composto di 170 carte, più un

foglio di guardia iniziale e uno nale. La numerazione a matita in numeri arabi è recente

ed è posta sul margine inferiore sinistro del recto di ciascuna carta. Le due carte di guardia

libere sono numerate rispettivamente con un “I” romano, mentre una seconda carta iniziale

57 ASMO, Carte del Consiglio di Economia, 1772

58 A. LOMBARDI, Storia della Biblioteca Estense dalla sua origine no all’anno 1847  [proseguita da Carlo

Borghi no all’anno 1869], BEUMo, ms.It.1433=α.F.3.10, Sec.XIX, c.24v.

59 G. FUMAGALLI, L’arte della legatura alla corte degli Estensi, a Ferrara e a Modena, dal sec. XV al XIX ,Firenze, 1913, pp. LVII-LVIII

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risulta con il recto incollato sul piatto interno della legatura anteriore e una seconda carta

nale mostra il verso incollato anch’esso sul piatto interno della legatura posteriore.

Le colonne in totale sono 680, quelle composte interamente di testo sono 310, quelle che

 portano il testo unitamente a miniature di varia grandezza sono 370.

Sul margine alto della carta incollata sul piatto anteriore è posta la più recente collocazione

a matita “alfa. M. 5. 9 (E. 28)”, mentre al centro, in alto, della carta incollata sul piatto

 posteriore è posto un cartiglio, l’ex libris del codice che riporta tre collocazioni: “Ms. XI.

B. 20; XII. K. 16; E. 28 alfa. M. 5. 9”. Le prime due, a inchiostro, sono cancellate da tratti

di penna, evidentemente per dare spazio e credibilità all’ultima delle tre.

Sul margine inferiore sinistro del recto della carta di guardia anteriore è posto il vecchio

timbro a inchiostro rosso della Biblioteca “BE” inscritto in un piccolo rettangolo di mm. 170

x 100. Il timbro è ripetuto sul margine inferiore destro della prima carta del testo, al centro

del margine inferiore dell’ultima carta del testo e ancora al centro del margine inferiore del

verso della carta di guardia, che riportano appunti e ricette scritte posteriormente da mano

diversa di quella che ha vergato il codice.

Lo specchio della pagina è costituito dalla rigatura a piombo che delimita due colonne,

ciascuna delle quali ha 43 linee sia che riporti un testo pieno, sia che esso sia intervallato da

miniature, sullo sfondo delle quali è comunque ben visibile la rigatura, il che testimonia che

il copista procedeva prima di tutto alla rigatura e poi disponeva il testo lasciando lo spazio

 per l’intervento del miniatore.

La scrittura bastarda con cui il testo è vergato, derivata dalla corsiva gotica, con inuenza

della cancelleresca italiana, è quella usata in Francia nei sec. XV e XVI. I numerosi segni

di abbreviazione che la caratterizzano e la stessa morfologia dei caratteri bastardi rendono

oggettivamente ostica la lettura del testo, e in particolare di quello posto sulle due carte di

guardia, che riportano appunti e ricette scritte posteriormente da mano diversa di quella del

testo del codice.Il manoscritto è riccamente miniato60 come dimostrano le 391 gure delle quali la parte

maggiore, 355, riguarda l’illustrazione di piante, ori, radici con immagini che documentano

il testo, mentre solo 26 riguardano animali o minerali e 10 le scene miniate.

Il codice, privo di frontespizio e pertanto “acefalo”, ha inizio con l’ incipit  che a c.1r.,

nella colonna di sinistra, con una grande “E” miniata, recita: “ En ceste présente besoigne

c’est nostre propos et entencion de traiter des simples médicines…”, cioè a dire: “Nella

 presente occorrenza è nostro proposito e intenzione trattare delle medicine semplici…”, per

 poi spiegare “ed è opportuno sapere che la medicina viene denita semplice in quanto essa è

come la natura l’ha prodotta e formata”. Dunque una dichiarazione d’intenti e un chiarimento

circa la materia oggetto della trattazione che però non fornisce alcuna indicazione circal’autore del testo o il miniatore, per cui il manoscritto sarebbe da considerare adespoto. C’èC’è

tuttavia da osservare che dopo l’explicit  “ Et pour éviter prolixité, cy est la n de ce livre,

en quel sont contenus les secrés de Salerne. Explicit  Explicit ”, segue una rma autografa, quella di

Jehan Duboys in grandi caratteri corsivi. Tale elemento farebbe cadere l’ipotesi avanzata

con una assoluta certezza da Jules Camus, il quale nel 1886 pubblica un corposo saggio

nel quale esamina i rapporti intercorrenti tra i due erbari estensi e il testo del Circa Istans e del Grant Herbier  en Françoys, e, per quanto riguarda l’explicit  del manoscritto francese

estense, scrive: “Sotto, nel margine, trovasi scritto da mano meno antica, un altro nome di

60 v. sull’argomento la trattazione specica, in questo stesso commentario, sul capitolo riguardantel’illustrazione degli erbari e l’esegesi artistica del codice.

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 possessore “Jean Deboys”61, ipotesi poi avvalorata da tutti coloro che nel sec. XX si sono

interessati ed hanno scritto sul codice “ E. 28”.

Se però partiamo dal presupposto che quella nale è una sottoscrizione autografa, come

sembra verosimile, pur divergendo nella forma dai classici colophon  presenti in molti

manoscritti, c’è da pensare che il Duboys sia il copista del codice per il quale non compie

 però una mera operazione di copiatura, ma, pur non potendo stabilire con un certo grado

di certezza che egli stesso sia il raccoglitore o l’epitomatore del “Circa instans” o del

“Grant Herbier ”, come dimostrano alcuni accenni all’autore presenti via via nel testo,

egli interviene in vari punti con considerazioni personali tendenti ad integrare il testo e

quindi potremo considerarlo un autore con responsabilità di secondo grado rispetto al testo

complessivo. Ne sono esempi probanti le citazioni con integrazioni dell’estensore:

questo libro “Ce livre n’en dit point ses vertuz ” 151v., 164r.

l’autore del testo orig. l’acter qui st ce livre en mist en pain…” (modalità terapeutica) 164r.

 

E altri esempi ci vengono dal frequente richiamo all’autore o agli autori:

l’autore “l’acteur”, “cest acteur”  65v., 121v., 127v., 130r., 134v., 136r.

questo autore “selon ce que cest acteur” 65v., 121v., 127v., 130r.

l’autore “je pleutaire ay veu par expérience” - “la quelle chose je dy estre possible” -

  “je loue que …” 7r., 162v., 170v.

autori “les acteurs, “lesles atteurs”, 4v., 10v., 23v., 24v., 30v., 56v., 58r., 85r., 94r.

  “aucuns acteurs, ung acteur” 96v., 97r., 98r., 108v., 114r., 146v., 149r.

autori di medicina “acteurs de médicine”, 97r.

gli antichi “les anciens”, “aucuns anciens ont dit”  1v., 46r., 69v., 98v., 110r., 115v., 162v.

Inoltre la conferma che il testo dell’erbario sia una sorta di  summa  dei saperi in

materia noti all’epoca, ci viene da una continua quanto scrupolosa citazione delle fonti

con l’esplicitazione dei nomi dei vari maestri che hanno fatto la storia dell’erboristeria

medicinale:

Asclepio (Esculapio) “ung autre maistre nommé”  56v.

Aristotele “selon que dit Aristote” ; “dit Aristote ou livre du régime des princes” 101v.,

164r. , 168v.

  “  En dit Aristote que…”

Avicenna “Avicenne dit”  56r.

61 J. CAMUS,  L’opera salernitana, “Circa instans” ed il testo primitivo del “Grant Herbier en Françoys” secondo due codici del sec. XV conservati nella Regia Biblioteca Estense, Modena, 1886, p. 57

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Costantino Constantin  2v., 10v., 36r., 40v., 41r., 51r., 66v., 123v.,

  124r., 124v., 130r., 147r., 154r, 157v.124r., 124v., 130r., 147r., 154r, 157v.

Dioscoride “maistre Dyascorides” 12v., 24r., 24v., 35r., 51v., 56v, 70v., 72v., 73r.,

  77v., 79r., 81r., 81v., 96v., 97v., 100v., 107v., 116v.,

  120r., 128r., 128v., 130r., 137r, 137v., 149r., 149v.,

150r., 152r., 156r., 158r., 158v., 161v., 162v., 165v.

farmacisti “les appoticaires font”  38r., 127r.

Galeno Galien 2v., 13r., 21v., 48v., 51v., 72r., 77r., 91v., 126v.,

128v., 130v., 137r., 147v., 156r., 168r., 169r.

Ippocrate “Ypocras, vel deus est” (164v.) 33r., 33v., 50v., 51v., 79r., 160r., 164v.

Isacco Ysaac 13v., 21v., 31v, 50r., 51v., 56r., 78v., 97v., 98v.,

  100r., 103r., 120r., 126v., 136r., 137r., 141v., 144v.,

  159v., 162v., 170r.

Macer  Macer 12v., 14v., 15v., 31r., 46r., 54r., 102r., 107v., 135r.

maestri vari “les maistres” 61v.

maestro, il (Macer) “le Maistre dit…”  15r.

medici “ les médicins”; “aucuns médicins usent”  62r., 82v., 93r, 164r.

Mitridate “la recepte du Métridat le grant”  160r.

Omero “selon que dit Homer, ung maistre qui dit, ung homme appellé Mercure la

trouva” 92v. 

Pietro “ung nommé Pierret” 70v.

Plinio “un docteur appellé Plinius” 54r.

sapienti vari “moult de saiges” 20r., 31r.

sperimentatori vari “aucuns expérimenteurs”  58r., 59v.

Tacuin “ung acteur appellé Tacuint”  159v.

Plateaire, maestro di Salerno

“Plateaire: ce fut ung maistre de Salerne”  40v.

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Salerno: le donne “les femmes de Salerne” 29v., 35v., 36r., 40v., 95r., 131r., 135r.,135v., 147r.,

149r.

Salerno: vari “ceulx de Salerne”; “cy est la n de ce livre, en quel sont contenus les secrés

de Salerne” 136v., 170v.

Sono inne testimonianze della Summa creata dall’estensore le citazioni di testi e di

formule:

libri vari “aucuns livres” 7r., 149v.

« Antidataria » “Antidotaire”, “Entidotaire”  10v., 86v., 110r., 111v., 144v.

“Passionare” “livre appellé “Passionare”  144v.

 precisazioni “choses…” 166r. (sub Triticum)

 preghiere, versi  prières, oraisons, vers  25v., 36r., 36v., 54r., 66v., 139r.

Tutti questi elementi, che attribuiscono evidentemente una qualche responsabilità

dell’opera a Jehan Duboys, fanno emergere la completa inesattezza dell’indicazione

contenuta nel catalogo settecentesco del Bacchini e del Ciocchi che l’attribuivano al “De

Urfe”.

Il Camus nel suo saggio ottocentesco62 segnala infatti che “[…] le suddette indicazioni

racchiudono alcune inesattezze, che forse costituiscono una delle cause per le quali i due

codici hanno potuto sfuggire alle pazienti e minute indagini fatte dal De Renzi, dal Puccinotti

e da altri nelle biblioteche italiane”.

Una di queste inesattezze è anche l’indicazione del Bacchini e del Ciocchi-Lombardi

circa l’epoca in cui il codice fu composto: “sec. XIV”, datazione evidentemente erronea già

corretta nel 1833 in un successivo catalogo della Biblioteca Estense63.

Anche se non è possibile stabilire una datazione certa tuttavia, partendo dalle osservazioni

del Camus64, che raffronta i due erbari estensi, dal momento che quello latino, il Tractatus

de herbis  lat. 983, erroneamente attribuito a Dioscoride, porta nell’explicit   la datazione

del 1458, mentre l’ Herbolaire francese ( Est. 28) non datato e meno ricco, sia per quanto

riguarda il contenuto che l’aspetto iconograco, ipotizzando una derivazione del codice

francese da quello latino, sembra verosimile poter affermare che la stesura dell’ Herbolaire sia da collocare in un tempo successivo, sia pure di poco, rispetto al primo, e quindi intorno

al 1470 o poco oltre.

Gli altri studiosi che hanno considerato il problema della datazione dell’ Est. 28 si sono

fermati alla generica proposta di datazione al sec. XV, mentre, Lucia Tongiorni Tomasi 65 mettendo a confronto i due codici estensi, dopo avere osservato che l’ Herbolaire è ascritto

62 Lo stesso, L’opera salernitana “Circa instans”, cit., p. 55

63 Conspectus codicum linguarum exterarum, Cat. mss, 1833

64 Lo stesso, L’opera salernitana “Circa instans”…, cit., pp. 55 e segg.

65 L. TONGIORGI  TOMASI,  Dalla “medicina verde” al naturalismo: l’immagine botanica e zoologica neimanoscritti e nei primi testi a stampa sul nire del ‘400 in: Immagine e natura, Modena, 1984, p. 37

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nel catalogo di manoscritti estensi “erroneamente al secolo precedente”, scrive: “Il primo

redatto e dipinto nel 1458, è infatti frutto della collazione di svariati testi medico-scientici,

tra cui passi di Avicenna, di Rhazes e di un Circa Instans salernitano, mentre il secondo,

anch’esso ascrivibile alla seconda metà del XV secolo, dipende in gran parte dal primo, sia

dal punto di vista testuale sia per l’apparato iconograco […]”.

Ma il problema della datazione non è l’unico che nasce dal confronto dei due cimeli,

a partire dall’interesse derivante dallo studio del Camus che li aveva portati nel 1886 alla

conoscenza e all’attenzione della comunità scientica.

Il Camus aveva ipotizzato, attraverso una dettagliata collazione, che il ms. lat. 993,

descritto nel catalogo settecentesco della Biblioteca Estense sotto il nome di “Dioscorides,

ritenuto l’autore come Discorides, Tractatus de herbis, cum Platonis, Galieni et Macri

hujusmodi a Barth. Mundsens. Codex membranaceo, cum guris coloribus depictis, in fol°,

saec. XV” corredato dall’indicazione delle sue antiche collocazioni (V. G. 14) e (XII. K.

19), e che nel suo incipit  recita: “Circa instans negocium in simplicibus medicinis nostrum

versatur propositum”, costituisce la versione più vicina e originale no allora nota del Circa

 Instans salernitano, e che l’ Herbolaire ne sia una diretta derivazione di poco posteriore al

1458.

Se percorriamo le vicende del codice francese sotto il determinante aspetto della

conoscenza e quindi degli studi e degli adempimenti che lo hanno riguardato, dal momento

della sua messa a fuoco, confortati anche dalla consultazione dello schedone interno che

accompagna ciascun manoscritto e che aiuta molto spesso a focalizzare le tappe signicative

del codice attraverso le annotazioni, compiute di volta in volta, dei nomi di coloro che lo

hanno esaminato, studiato, chiesto il microlm o la riproduzione fotograca delle miniature,

troviamo dei riscontri interessanti.

 Non a caso il primo di quell’elenco, è proprio Jules Camus “professore di Parigi” che

 per il suo studio dell’ Herbolaire effettua dal 6 marzo 1886 all’ottobre del 1888 ben quattroconsultazioni dirette in Biblioteca Estense, facilitate dalla sua presenza a Modena in quanto

“professore della R. Scuola Militare di Modena”. Al tempo la Biblioteca Estense sta per

trasferirsi nell’attuale sede del Palazzo dei Musei, ma i manoscritti sono ancora alloggiati

nel Palazzo Ducale, sede di quella Scuola, e quindi a disposizione per una comoda

consultazione. Sono gli anni in cui lo studioso sta preparando un saggio sui codici francesi

conservati dalla Biblioteca, che infatti vede la luce nel 188966.

In questa pubblicazione, al n. 28 egli annota il codice  XII. K. 16  sotto il  De Urfe, che

 però sottolinea essere uno dei possessori del codice e non l’autore, così come quel “Jehan

Duboys” che “trovasi sull’ultimo foglio” e che il Camus interpreta come un’annotazione

“con carattere posteriore a quella del manoscritto” e non come la rma autografa di chisottoscrive l’opera. Il codice, egli sostiene, “porge la traduzione francese anonima di uno

dei più importanti libri di medicina nel medioevo il quale era disegnato colle prime parole

del suo prologo “Circa instans” e che venne attribuito ad un Plateario, medico della scuola

di Salerno”, e aggiunge che “la Biblioteca Estense possiede di quest’opera latina una copia

manoscritta riccamente miniata, segnata XII. K. 19, la quale venne eseguita in Francia nel

secolo XV” citando a riprova l’explicit  di tale codice che dichiara essere stato scritto “a

Bourg” da un “petit Pelous” nell’anno “1458”67.

Delle consultazioni del codice latino Tractatus herbarum da parte del Camus, proprio nelle

66 J. CAMUS, I codici francesi della regia Biblioteca Estense, Modena, 188967 Ibidem, cit., pp. 22-23.

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stesse date del codice francese e con un’appendice nel gennaio 1891, esiste la prova nello

schedone che accompagna quel manoscritto, segnalato sotto il nome di “Dioscorides”.

E’ da notare che entrambi i manoscritti consultati portano ancora la collocazione XII. K.

16 e XII. K. 19 e non quella con l’alfa che sarà assegnata da lì a poco nella nuova sede del

Palazzo dei Musei.

Dei due codici il Camus si era già interessato, pubblicando nel 1886 l’ampio saggio che

li aveva messo a confronto con un’analisi lologica puntuale68.

Jean-Baptiste Saint-Lager 69 si era dichiarato d’accordo con il Camus, in una ricerca edita

qualche mese dopo, ma nel medesimo anno dell’opera del suo contemporaneo.

Frank J. Anderson,70 dopo circa un secolo, contesterà la tesi del Camus, ma se ancora

rimane incerta e controversa la derivazione del testo del Lat. 993 e di conseguenza dell’est.

28, pare incontrovertibile lo stretto legame, pur con le differenze segnalate, tra i due codici

e il loro rapporto di interrelazione appare sotto vari aspetti convincente anche se il loro

approdo alla Biblioteca di Modena avviene in modi diversi, con una notevole discrasia

temporale, attraverso un tanto strano quanto miracoloso riavvicinamento: il Tractatus de

 Herbis giunge a Modena attraverso l’eredità ricevuta dagli Estensi nel 1817 con la Raccolta

Tommaso Obizzi del Catajo, mentre, l’Herbolaire appartiene all’Antico Fondo Estense dal

quale probabilmente non si è mai allontanato segnalando la sua presenza certa, come già

evidenziato, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.

Se ammettiamo il rapporto intercorrente tra i due cimeli, dovremo ancora una volta

considerare quanto sia vago, indeterminabile e imprevedibile il destino delle cose e quindi

anche di quelle cose mobili cui si ascrivono documenti, manoscritti e libri, cioè gli strumenti

di studio e di ricerca che danno vita alla nostra Cultura.

Dopo questo notevole interesse di ne Ottocento, per i due codici estensi cala un lungo

silenzio appena interrotto da Domenico Fava, Direttore della Biblioteca Estense negli

anni ‘20 del secolo XX, che nel suo studio sulla Biblioteca71 li cita rispettivamente come“Dioscoride Tractatus de herbis [Lat. 993 = alfa. L. 9. 28]” ed “ Herbolaire o Grand Herbier  [Estero 28 = alfa. M. 5. 9]”, senza alcun apporto di novità, se non quello della nuova

collocazione assegnata nella nuova sede, e la segnalazione che il codice Lat. 993 giunse in

Biblioteca con la raccolta dei 328 codici del Cataio dati in eredità ad Ercole III da parte di

Tommaso Obizzi e incorporato nella sezione dei manoscritti della Biblioteca per volere di

Francesco IV nell’anno 1817. “Il Dioscoride del sec. XV” è citato dal Fava tra i “superbi

documenti di miniatura francesi” che facevano parte della Raccolta Obizzi72.

Scorrendo lo schedone dell’ Herbolaire dobbiamo arrivare all’ottobre 1949 per trovare

un esame del codice effettuato da Kurt Weismann dell’Università di Princeton; e ancora un

esame delle miniature dalla Bibliotecaria orentina Anna Omodeo nel dicembre 1959.

68 Lo stesso,  L’opera salernitana “Circa instans”…, cit, in: “Memorie della Regia Accademia di Scienze

Lettere ed Arti in Modena”, S.II, v. IV, pp. 49-199. Tale memoria venne recensita in “Romania”, XVI (1887),Tale memoria venne recensita in “Romania”, XVI (1887),

 pp. 589-597; “Revue critique d’histoire et de littérature XXII (1888), pp. 349-353; «Archiv der Pharmacie»,

 bd. XXV, Helft 15 (1887); « Revue de la Société française de Botanique », v. V (1888), pp. 207-212.

69 J.B. SAINT-LAGER ,  Recherches sur le Anciens Herbaria, Paris, 1886 dello stesso v. anche  Histoires des

 Herbiers, Paris, 1885.

70 F. J. A NDERSON, An illustrated history of herbals, New York, 1977, pp. 100-105.

71 D. FAVA, La Biblioteca Estense nel suo sviluppo storico, Modena, 1925, p. 275 n. 101 e 102. Per la fonte

v.: ASMO, Archivio Ducale Segreto, 1796-1803, B. 30, Recapiti riguardanti l’eredità Obizzi, inventario degli

effetti riguardanti l’eredità Obizzi. Sui rapporti degli Obizzi con gli Estensi, v. Gli Estensi e il Catajo, Milano,

2007.72 Ibidem, cit., p. 206

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Intanto qualche anno prima, nel 1950, in un suo saggio, Otto Pächt73, mettendo in dubbio

a distanza di più di 60 anni, la tesi del Camus, avanza la tesi che il manoscritto estense 993 sia derivato non dal “Circa istans” ma circa centocinquanta anni dopo la sua composizione,

dal mss.  Egerton  747   con testo latino, dell’inizio del sec. XIV, conservato alla British

Library, il più precoce testo della famiglia salernitana corredato da illustrazioni che lo

studioso riconduce, basandosi sullo stile delle bordature e delle miniature, con il consenso

successivo di Bernhard Deghenhart e Annegrit Schmitt74, alla prima metà del Trecento,

in area meridionale, e più precisamente al centro di Salerno, sensibile all’inuenza araba,

il cui ruolo risulta fondamentale per gli studi medici, diffusi come Secreta salernitana o

“Circa Instans”.

Continuando ancora l’esame delle consultazioni effettuate, segue ancora una collezione

delle miniature e una richiesta di microlm effettuati nel luglio 1963 e nell’aprile 1964 da

Felix Bauman dell’Università Statale di Zurigo.

 Nel 1965 viene registrato il prestito del microlm positivo alla Biblioteca Nazionale di

Berna.

Una riproduzione in microlm viene effettuata nel maggio 1973 dallo Studio Fotograco

Orlandini di Modena su richiesta di Luisa Cogliati Arano75 tramite la Casa Editrice Electa

di Milano. E’ proprio questa Casa editrice che in quell’anno pubblica il secondo volume

dell’opera sui manoscritti miniati della Biblioteca Estense curata da Domenico Fava e da

Mario Salmi con l’intervento di Emma Pirani che ha ripreso e completato lo studio dopo la

morte del Fava, includendo ed esaminando sia il codice francese (est. 28) che quello latino

(lat. 993)76, ma senza apporti degni di novità.

Un’altra riproduzione in microlm viene richiesta nell’aprile 1975 dalla Bibliotheque

Royale Albert I di Bruxelles, e alcuni fotocolor di diversa carta vengono eseguiti a scopo

editoriale nel 1976 e nel 1977 per conto dell’Istituto Geograco De Agostini di Novara.

 Nel settembre 1979 Zoltàn Kàdàr dell’Università di Budapest, esamina il codice e lostesso fa nell’ottobre 1980 e nel maggio 1981 la bibliotecaria imolese Marina Baruzzi

Montanari la quale richiede il microlm di alcune carte.

Ancora nell’ottobre 1981 è il docente universitario svizzero Rudolf Bolliger ad esaminare

l’ Herbolaire a scopo di studio, operazione identica a quella che sarà effettuata nel luglio

1983 da Nella Maria Pasquinucci dell’Università di Pisa.

Sempre nel luglio 1983 e ancora nel settembre 1984 è Lucia Tomasi Tongiorgi

dell’Università di Pisa a compiere un accurato esame del codice. E’ il momento in cui la

Biblioteca Estense allestisce la mostra “Immagine e natura”77 e la studiosa che fa parte del

Comitato di coordinamento della manifestazione, partecipa alla pubblicazione e la correda

con alcuni saggi, dei quali uno78

 prende anche in considerazione l’ Herbolaire e il Tractatus

73 O. PÄCHT, Early Italian Nature Studies and the Early Calendar Landscape, in “Journal of the Warburg and

Cortauld Institutes”, XIII (1950), pp. 13-47.

74 B. DEGENHART-A. SCHMITT, Corpus der italianichen zeichnunghen, Berlin, 1980, II, 2

75 L. COGLIATI ARANO, Tacuinum sanitatis, Milano, 1979; la stessa,  Bestiari e erbari dal manoscritto alla

 stampa in: La stampa e la divulgazione delle immagini e degli stili , a cura di H. ZERNER ,  Atti del XXIV

congresso internazionale di Storia dell’arte, Bologna, 1979, pp. 17-22

76 D. FAVA-M. SALMI,  I manoscritti miniati della Biblioteca Estense di Modena, secondo volume, Milano,

1973, pp. 128-142.

77 v. catalogo della mostra: Immagine e natura. L’immagine naturalistica nei codici e libri a stampa delle

 Biblioteche Estense e Universitaria. Secoli XV-XVII , Modena, 1984

78 L. TOMASI  TONGIORGI,  Dalla “medicina verde” al naturalismo: l’immagine botanica e zoologica neimanoscritti e nei primi testi a stampa sul nire del ‘400 in: Immagine e natura, cit., pp. 33-52

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de Herbis soprattutto dal punto di vista iconograco e ne propone due relative schede.

Pare giusto ricordare che qualche anno prima, nel 1977, con l’avanzare delle conoscenze

e degli studi, ancora una volta il Camus, come già accennato, viene messo in discussione da

Frank J. Anderson79, il quale sostiene, con una serie di prove convincenti, che il ms. latino

993 non è la versione originale del “Circa Instans”.

La Biblioteca Estense, nel tratteggiare la sua storia e quella dei suoi fondi in una

 pubblicazione edita nel 1987 dall’editore Nardini di Firenze, nella collana riguardante

“Le grandi biblioteche d’Italia”, ha incluso due brevi schede riguardanti l’ Herbolaire e il

Tractatus de Herbis80.

La notorietà dell’ Herbolaire e del Tractatus herbarum,  come conseguenza diretta

degli studi compiuti, portano i due codici in prestito per l’esposizione della mostra “La

scuola medica Salernitana, manoscritti, storia e immagini tra XI e XII secolo”, Salerno,

7.10.1988-8.12.198881.

Le altre consultazioni che, scorrendo lo schedone dell’ Est. 28, troviamo registrate,

evidenziano la notorietà ormai acclarata del codice, ma non la presenza comunque nalizzata

a pubblicazioni degne di nota, ma si può notare che il codice viene consultato da persone di

varia cultura ed estrazione che vanno dai botanici, ai farmacisti, agli storici dell’arte, agli

estetisti, agli studenti, quasi sempre con la richiesta di riproduzione di immagini destinate

a soddisfare i rispettivi interessi.

L’interesse suscitato attraverso gli studi e gli approfondimenti sui due grandi cimeli

estensi e, di conseguenza sulla materia, ha portato nel 1994 all’organizzazione a Modena,

 presso la Biblioetca Estense Universitaria della mostra “In foliis folia. Erbari nelle carte

estensi” che ha riscosso un notevole successo, e che è stata corredata da un’omonima

 pubblicazione82 nella quale si è dato rilievo anche ai due codici  E. 28  e lat. 993, anche

attraverso l’ampia scheda, “Erbari estensi”, redatta da Paola Di Pietro.

Continuando nell’esame interno del codice, come appare chiaramente dal prospetto cheriporta la fascicolazione delle 170 carte complessive dell’ Herbolaire,

Fasc.1 quaderno (cc.1-8)

Fasc.2 quaderno (cc.9-14)

Fasc.3 quaderno (cc.15-22)

Fasc.4 quaderno (cc.23-30)

Fasc.5 quaderno (cc.31-38)

Fasc.6 quaderno (cc.39-46)

Fasc.7 ternione (cc.47-52) [ma binione per asportazione di un bifoglio confermato dalla

lacuna del testo tra le cc.49 e 50]Fasc.8 quaderno (cc.53-60)

Fasc.9 quaderno (cc.61-68)

Fasc.10 ternione (cc.69-74)

Fasc.11 quaderno (cc.75-82)

Fasc.12 ternione (cc.83-88)

79 F. J. A NDERSON, An illustrated History of the Herbals, cit.

80 E. MILANO, Biblioteca Estense Modena, Firenze 1987, pp. 98-99

81 La Scuola medica salernitana: storia, immagini, manoscritti dall'XI al XIII secolo, a cura di Maria Pasca,

Salerno, 1987.82 E. MILANO, In foliis folia. Erbari nelle carte estensi, Modena, 1994, pp. 62-64 e 75-88

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Fasc.13 quaderno (cc.89-96)

Fasc.14 quaderno (cc.97-104)

Fasc.15 ternione (cc.105-110)

Fasc.16 quaderno (cc.111-118)

Fasc.17 quaderno (cc.119-126)

Fasc.18 quaderno (cc.127-134)

Fasc.19 quaderno (cc.135-142)

Fasc.20 quaderno (cc.143-150)

Fasc.21 ternione (cc.151-156)

Fasc.22 quaderno (cc.157-164)

Fasc.23 ternione (cc.165-170)

il manufatto è composto da 17 quaderni o quaternioni e da 6 ternioni, più due bifogli, uno

iniziale e uno nale che costituiscono la controguardia e la guardia e, come già segnalato

a suo tempo dal Camus,83 “sfortunatamente questo codice manca di una decina di fogli, i

quali furono strappati isolatamente in diversi luoghi, prima della legatura”.

Infatti dall’esame puntuale delle carte del testo84 risultano purtroppo delle lacune testuali

dovute alla criminale asportazione di alcune carte del codice, avvenute in tempi remoti,

 probabilmente durante la peregrinazione dei manoscritti estensi seguita alla devoluzione di

Ferrara del 1598, e alla conseguente venuta a Modena dove non avevano un alloggio unico

e sicuro, e comunque prima della legatura effettuata ai tempi del Tiraboschi. Infatti, dopo

quella legatura, non risultano elementi che possono giusticare un’asportazione, come

l’allentamento della cucitura o tracce di pergamena strappata. La numerazione delle carte e

matita è infatti avvenuta sul manoscritto così come si presenta attualmente.

Le interruzioni sono evidenti:

dopo c.49v.:

courges sauvaiges, la quelle huile est faite de huille de courge qui est appellé sividis [c.50r.]

[……..d ] escripte ne soufst soit doublée. En èvres très agues soit donnée celle En èvres très agues soit donnée celle (Manca il

seguito del testo tra la parte nale di “catapucia” e la parte iniziale di “courge”)

dopo c.85v.:

 purgier, principalment le eume et puis après le humeur colérique et le humeur  [c.86r.]

[………..] jus getté dedens le trou de la stule y fait aide merveilleuse et la netye (Mancail seguito del testo, relativo ai capitoli “golgemma” e “gélesie”, elenco della lettera H e

 probabile inizio di capitolo).

dopo c.153v.:

83 J. CAMUS, L’opera salernitana “Circa Instans”…, cit., p. 57

84 Ricognizione effettuata di concerto con il Dott. Giuseppe Trenti che ha effettuato la trascrizione del testo

riportata in questo stesso commentario, con la Dott.ssa Milena Ricci, responsabile della tutela presso la

Biblioteca Estense Universitaria, e sentito il Sig. Pierangelo Faggioli incaricato della rilegatura del codicesuccessivamente alla sua riproduzione fotograca nalizzata alla produzione del facsimile.

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Spodium c’est os de éléphant brulé. Il est froit ou second dégré et sec ou tiers. Le éléphant  [c.154r.] […………..].

 Ial armoniac est chault et sec ou quart dégré.  L’en l’appelle armoniac pour ce qu’il  (Manca il seguito del testo relativo ai capitoli da “stanium” a “saxifrage”)

dopo c.167 :

mis sus. Item, pour oster verrues ou poreaux soient les mains lavées de l’eaue des feules :

dient aucunns que cest  [c.168r.] […………..].

Uva, grape […………..] nourrist encore mieulx.

Ceste grappe meure est composée  (Manca il seguito del testo, relativo ai capitoli da

“viticelle” a vilulidis” e prima parte di “uva”).

La certezza di tale asportazione si ha confrontando la fascicolazione laddove si può

rilevare che, proprio in corrispondenza delle lacune testuali dovute ad asportazione di

qualche carta, si hanno dei ternioni rispetto ai quaternioni che caratterizzano l’impostazione

della materia scrittoria in fascicoli di quattro fogli di pergamena e quindi di 8 carte.

Il testo del ms. est. 28 distribuito nelle 680 colonne complessive che lo compongono,

organizzato, così come quello del lat. 993, secondo la lettera iniziale della pianta, senza

tenere ovviamente conto del “De” che, quasi sempre, introduce le varie piante nell’elenco

generale che precede l’illustrazione analitica anticipata da un’illustrazione e che, per quanto

riguarda i vegetali, fornisce il termine latino, la descrizione botanica, l’habitat  di origine,

l’ambiente e l’uso rapportato ai principi attivi di ciascun vegetale e alle sue proprietà

chimiche.

Tutti i nomi sono organizzati in sequenza nei cosiddetti “capitoli”, denominazione che

deriva dal termine usato nello stesso codice (v. chappitre c.44v.), nel quale però l’ordinealfabetico non è mantenuto nel loro interno85.

I capitoli che illustrano le singole piante, i minerali e gli animali, sono 405 rispetto ai

480 del lat. 993, e sono preceduti da raggruppamenti, in tutto 17, rispondenti ad altrettante

lettere dalla A alla Z. Manca la lettera Q per l’assenza di piante con tali iniziali, mentre per

la lettera Z, iniziale con la quale sono presenti 4 piante, manca l’elenco. Le lettere I, J, Y,

sono raggruppate in un unico elenco, così come le lettere U e V.

Manca l’elenco della lettera H a causa delle lacune testuali sopra evidenziate.

La sequenza delle piante è la seguente:

AVVERTENZE:

• Le carte contrassegnate da un asterisco si riferiscono a minerali o a materiali o

sostanze similari, comunque diverse dalle piante (n. 35)

• Le carte contrassegnate da un tondo si riferiscono a gure di animali (n. 7)

• I nomi delle piante, ordinati secondo la loro sequenza nelle varie carte, sono

85 L’ordine alfabetico è strettamente osservato nella sezione curata da Roberta Baroni con l’esame botanico

e chimico specico dei singoli vegetali, ivi compresi quelli menzionati nel testo, ma che non hannoun’illustrazione a corredo. V. tale sezione in questo stesso facsimile.

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indicati con la loro traduzione o individuazione italiana, tranne i casi in cui non è stato

 possibile procedere alla relativa identicazione botanica.

 • I numeri romani che accompagnano le carte indicano le colonne presenti nel

recto e nel verso delle carte.

c.1v. II Pianta di aloe (aloen; aloe vera, barbadensis)

c.3r. I Raccolta dell’aloe (ling aloen) da parte di un uomo che con una rete cattura

i piccoli tronchi trasportati dalle acque di un ume

c.3v. II Raccolta dell’oro (or ; aurum) da parte di un uomo che con un piccone scava

la roccia e ne stacca delle pepite

c.4r. II Coppa contenente argento vivo (argent vil )

c.4v. II Pianta di asaro (ase puante; asarum baccara, asarum europaeum)

c.5r. II Alberello di vitice (agno casto, agnus castus, vitex agnus castus) con piccole

 bacche marroni

c.5v. II Raccolta dell’allume da parte di un uomo che con un piccone spacca una

roccia.

c.6r. II Pianta di sedano (ache; apium graveolens) con orellini gialli

c.7r. II Pianta di sedano palustre (ache ranin; apium raninum) con orellini gialli

a mazzetti

c.7v. I

c.7v. II

Piante di sedano emorroidario o sardonia (ache des émorroides; apium

emorroydarum) con orellini gialli

c.8r. I * Amido (amidum) a pezzetti entro un cesto

c.8r. II * Raccolta dell’antimonio (antinonium) da parte di un uomo che scava una

roccia con un piccone

c.8v. I Alberello di acacia (acacia sspp.) con piccole bacche viola scuro

c.9r. I Pianta di agarica (agaricus,  polyporus ofcinalis) con funghi che crescono

dalle sue radici

c.9v. I Pianticella di aneto  (anet; anethum graveolens) con orellini gialli a

mazzetti

c.10r. I Pianta di asfodelo  (affrodillum; asfhodelus albus) con grosse radici

 bulbose

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c.10r. II Due pianticelle di aglio (ail ; allium sativum) di cui una orita

c.11r. I Pianta di acoro (calamus aromatique; acorus calamus) con grossa radice a

rizoma

c.11v. II * Due pezzi di ammoniaca (armoniac)

c.12r. I Pianticella di anice  (anis;  pimpinella anisum) con orellini gialli a

mazzetti

c.12r. II Pianticella di assenzio (alvisne; artemisia absinthium) con orellini gialli

a grappolo

c.13r. I Pianta di anacardio (anacardi; anacardium occidentalis)

c.13r. II Albero di mandorlo dolce  (amandes dolci;  prunus dulcis) con drupe

marroni

c.13v. II Albero di mandorlo amaro (amandes amères; prunus dulcis) con drupe

c.14r. II Pianticella di aristolochia clematide (aristolgia; aristolochia clematis) con

orellini giallo pallido

c.14v. I Pianticella di aristolochia lunga  (aristolge; aristolochia longa) con

orellini gialli

c.14v. I-

II °

Capodoglio dal cui stomaco si estraeva l’ambra grigia

c.15r. II Pianta di artemisia (armoise; arthemisia)

c.16r. II/1 Pianta di assenzio ( Alvisne, artemisia absinthium) con ori color arancio di

forma sferica

c.16r. II/2 Pianticella di assenzio selvatico  (artemisia vulgaris) con orellini giallo

 pallido

c.16v. * Aceto (vinaigre) entro un’anfora con anse

c.17r. II Pianticella di alcanna (alcanna tinctoria)

c.17v. II * Estrazione dell’oro  (auri pigmentum) da parte di un uomo che con una

zappa attacca una roccia e ne ricava piccole pepite

c.18r. II * Due pezzi di asfalto o bitume (asphaltum seu bitumen)

c.18v. II Pianticella di acanto  (acantum  o branca ursina; acanthus mollis) con

orellini gialli a grappolo

c.19r. I Pianticella di adianto (adyanthos)

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c.19v. I Pianticella di agrimonia (aigrimonnie, acrimonia eupatoria)

c.20r. I Pianticella orita di ambrosia (apollinaire; o erba vaccina) con boccioli di

ori rosa

 c.20r. II Pianticella di altea (althaea ofcinalis) con boccioli verdi chiusi

c.20v. II/1 Pianticella di asfodelo (affrodillum; asphodelus albus)

c.20v. II/2 Pianticella di ambrosia  (apollinaire; ambrosia  sspp) con ori verdi

 palmati

c.21r. I Pianticella di asaro (asara baccara;asarum europaeum)

c.21v. I Pianticella di atreplice (arroche, atriplex; atriplex hortense)

c.21v. II Pianticella orita di rosa selvatica o rosa canina (anthera) con ori rossi,

gialli al centro

c.22r. I Pianticella di aconito anthora (aconitum anthora)

c.22r. II Due pianticelle di avena (avena sativa)

c.22v. I Pianticella di ameo (ameos, sison amemum) con orellini gialli a raggiera

c.23r. I/1 Pianticella di Cardamomo verde (cardamomum, elettaria cardamomum)

con inorescenza a grappolo

c.23r. I/2 Pianticella di alleluia  o pandicuculo  (alleluya, acitosella, oseille oxalis,

acetosella) con grossa radice a zizoma

c.23r. II Pianticella di acetosa (oxalis pes-caprae) con ore rosso su stelo centrale

c.23v. I Pianta di nocciolo avellana (corylus avellana) con frutto nocciola

c.25r. II * Raccolta del bolo (bolus) da parte di un uomo che scava il terreno con una

vanga

c.25v. II Pianta di melograno  (mala granata;  punica granatum) con ori rossi acampanula

c.26r. II Pianticella di borragine (borraches, borago ofcinalis) con orellini viola

c.26v. II Pianta di bancia ( pavaie) con orellini gialli a mazzetti

c.27r. I * Borace (borax) attaccato al fusto di un alberello

c.27v. I Pianticella di erba betanica ( stachys ofcinalis) con ori rosei-porporini

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c.29r. II * Gomma di bernix, che essuda da una pianta

c.29v. I Pianticella di acanto o branca ursina (acanthus mollis)

c.29v. II Alberello di berberi  o crespino con ori rossi a campanula

c.30r. I * Tre conchiglie (belliculi marini)

c.30r. II Pianta di bistorta ( polygonum bistorta) con grosse radici marrone scuro e

ori chiusi di colore verde

c.30v. I Pianta di cotone bombax con ori rosa non ancora schiusi.

c.30v. II Pianta di buglossa o lingua di bue (buglosse) con orellini violacei

c.31r. I * Burro (butirum, beurre) entro un vaso con manico

c.31v. II Pianta di verbena (berbena verbena ofcinalis) con orellini viola a

campanula

c.32v. I Pianta di britannica (britanica herba) Romice acquatico o erba britannica (brionia critica)

c.32v. II Pianta di borsa del pastore  (borse a pasteur , capsella bursa pastoris)

Romice acquatico

c.33r. I Pianticella di brionia britannica o vitalba ( Brionie Bryonia cretica) con

 bacche rosse e grossa radice

c.33v. II Pianticella di bédegar o spinalba con bacche rosse

c.34r. II Pianticelle orita di bardana maggiore (bardana lapaceola, arctium lappa)

con piccoli ori verdi spinosi

c.34v. I Pianta di bosso (buxus)

c.34v. II Pianta di pungitopo (brusc, ruscus aculeatus) con bacche rosse

c.35r. I Pianta di bieta (bleta, beta vulgaris)

c.35r. II * Quattro corni ossei  (blarte bisancie) tratti dall’ “occhio di un pesce che

somiglia al miace”

c.35v. II Tre pianticelle di ciclamino (ciclamen; cyclamen hederifolium) con grossi

tuberi come radici

c.36r. II * Due pezzi di canfora (cainfre; cinnamomum camphora)

c.37r. I Albero di coloquintide (colloquintide) con frutti peponodi violacei

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c.37v. II Pianta da cassia (cassia stula) con frutti leguminosi pendenti

c.38r. II Tre pianticelle di cuscuta (couscuede, cuscuta europaea) con orellini viola

e gialli

c.38v. I Pianta di cardamono verde  (cardamonum, elettaria cardamonum) con bacche verdi

c.39r. I Cerusa (ceruse) o for di piombo entro un sacco

c.39v. I Pianta di cappero (cappare; capparis spinosa)

c.40r. II Pianticella di calamento (calament; calamintha nepeta)

c.40v..II Pianticella di centaurea (centoire, centaurea cyanus)

c.41v. I Pianta di cassia lignea (cinnamomum zeylanicum, xilocassia, cinnamomum

cassia)

c.42r. I ° Castoro dorato con coda a forma di pesce

c.43r. I Pianta di pepe (cubèbe) con frutto

c.43r. II Due pianticelle di capelvenere  (capilli Veneris, adiantum capillus-

Veneris)

c.43v. I Pianta di cipresso (cipres, cipressus sempervirens) con bacche

c.44v. I Due pianticelle di camedrio  (camedreos; teucrium chamaedrys) con

orellini rossi non dischiusi

c.45r. I Pianticella di ajuga artritica (ajuga camaepitheos) con orellini azzurri

c.45v. I Pianticella di cumino dei prati (carvi, carum carvi)

c.45v. II Pianta di cumino romano (comnin cuminum cyminum) con orellini giallo

arancio

c.46r. II Pianta di cicuta (conium maculatum) con orellini giallo-verde

c.46v. II Pianticella di croco (crocus, saffran, crocus sativus) con grande radice e

ori azzurri con stami rossi

c.47r. II Pianticella di zafferano  da giardino o croco (crocus ortensis) con ori dai

 petali rossi

c.47v. I Tre pianticelle di cuperus (cyperus) con ori a stelle rosso bruno

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c.48r. I Pianticelle di acoro (calamus aromatique; acorus calamus) con grandissima

radice a rizoma

c.48v. I * Ramo di corallo rosso (corail ; corallus)

c.49r. II Pianticella di catapuzia (catapucia; euphorbia lathyris; ricinus communis)

c.50v. I Pianticella di cetriolo (cocumeres, citrules, cucumis  satives)

c.50v. II Pianta di arancio citrules con frutti gialli

c.51r. I Pianticella di calidonia (cèlidonies; chelidonium majus)

c.51v. I Pianticella di coriandolo (coriandre, coriandrum sativum) con orellini

gialli a mazzetti

c.52r. I Pianticella di cavolo (caules choux; brassica)

c.52r. II * Due pezzi di calce (chaux, calx)

c.52v. I Pianticella di cerfoglio (cerfueil , anthriseus cerefolium)

c.53r. I Pianticella di canapa  (chanvre,  cannabis sativa) con piccole bacche

 bianche

c.53r. II Pianta di cameleonta bianca (caméléonte, cameleonta alba) con ori rosso

violaceo

c.53v. I Pianta camomilla o camaleunta nera (camaleunta nigra) con ori dagli

stami rossi

 c.53v. II Due pianticelle di camomilla romana (camomille; chamaemolum nobile)

con orellini bianchi e corallo arancio

c.54v. I Pianticelle di ceci (chiches, eiur arietinum) con frutti pendenti

c.55v. I Albero di castagno (castanee, castaignes; castanea sativa) con ricci

c.56r. I Pianticella di cotula fetida (anthemis cotula) con orellini bianchi e corollagialla

c.56r. II Pianticella d i cotiledone  o ombelico di Venere  (cotilidon; cotyledon,

umbilicus Veneris)

c.56v. I Bulbo di  cipolla  (ougnon ou cibole; allium cepa) germinato con foglie

lanceolate

c.57v. I Pianticella di cornucunia (culcasia mannii)

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c.57v. II Pianta di canna  (canelle cinnamomum) con grande radice a rizoma, v.

anche: zucchero (zuccara)

c.58r. II Pianta di calendula ( soucicle;calendula ofcinalis) con grandi ori gialli

c.58v. I Pianticella di ceterac o anice ( pimpinella anisum)

c.58v. II Pianta di candelaria (candelière) con grandi radici bulbose e orellini di

colore blu intenso

c.59r. I Pianta di consolida maggiore (consolida maior; symphytum ofcinale) con

ori rosa

c.59r. II/1 Pianticella di consolida media (ajuga pyramidalis; consolida regalis)

c.59r. II/2 Pianticella di consolida minore (consolida minor )

c.59v. I Pianta di cotonaria (lychis coronaria)

c.60r. I Pianticella di celidonia maschio  (cèlidonie; chelidonium majus) con

orellini gialli a mazzetto

c.60r. II Albero di ciliegia cerasa con frutti ( prunus avium)

c.60v. II Pianta di capruggine (capragine;  galega ofcinalis) con orellini viola

 c.61r. I Pianticella di caprifoglio  (caprifolium; lonicera caprifolium) con grandi

ori bianco giallastri

c.61r. II Pianta di dyagredium o barba volpina (dyagréde)

c.62v. I * Resina di dragagante  (dragagant;  dragagantum) gomma che stilla dal

tronco di un albero

c.63v. I Pianta di carota (daucus carota) con ori dal pistillo rosso

c.64r. I Tre blocchi di draganto o vetriolo (dragagant )

c.64v. I Pianticella di dittamo (diptamus; dictamus albus) con orellini bianchi

c.65r. I Pianticella di deronici ( potentilla)

c.65r. II Palma da datteri (datteri; dactili, phoneix dactylifera) con frutti a grandi

grappoli

c.65v. I Pianta di invidia (envidia) o scarola con orellini gialli

c.66r. II Albero di epitimo (epithime, epithimus) con fusto verde

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c.66v. II Pianta di enula (canna) con orellini bianchi dalla corolla gialla

c.67r. I Albero di euforbia esula con gomma gialla stillante dal tronco marrone

c.68r. I Pianticella di agrimonia (aigrimonnie; acrimonia eupatorica) con grosse

spighe verdi

c.68r. II Albero di emblica  (embliques;  emblica ofcinalis) con bacche brune

allungate

c.68v. I Erba epatica (epatique trinité; hepatica nobilis) con grandi foglie carnose

c.69r. I Pianta di cocomero asinino  o cocomero selvatico  (elactere; ecballium

elaterium) con orellini gialli

c.69v. I Pianta di elleboro (eleboire; helleborus niger ) con grandi radici a ombrello

c.70r. II Pianta con foglie verdi a girandola non identicata dal punto di vista

 botanico

c.70v. I Pianticella di euforbia esula (esula; euphorbia esula)

c.71r. I Pianticella di erica (tetrahit ; erica tetralix)

c.71r. II * Tre pezzetti di ematite 

c.71v. II Pianta di sambuco  ( sambaucus yebles ebulus;  sambucus ebulus) con

orellini viola scuro a mazzetti

c.72r. I Pianta di fumaria  ( fumus terre;  fumaria ofcinalis) o erba acetina  con

orellini rossi a grappoli

c.72v. II Pianta di valeriana fu (valériane; valeriana ofcinale)

c.73r. I Pianta di flipendula o erba peperina ( spirea ulmaria) con radici bulbose

c.73v. I Albero di frassino (manna; fraximus excelsior ) con funghi alla radice

c.73v. II Pianta di fnocchietto selvatico  ( foeniculum vulgare) con inorescenza aombrella

c.74r. II Pianticella di feno greco (trigonella, foenum- graecum)

c.74v. I Piantina di felce maschio ( les, fouigier mascle) con grande radice

c.75r. I Piantina di fragola  ( fragaria,  fragaria vesca) con ori bianchi e frutti

rossi

c.75r. II Pianta orita di fstularia (calendula aegyptiaca) con orellini gialli

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c.75v. I Albero di fusaggine  ( fusalo,  fusam euonymus europaeus) con orellini

rosso scuro

c.75v. II Piantina di fagioli ( faseoli, phaseolus vulgaris) con baccelli

c.76r. I Piantina di cavolo lupo ( faciens vidua)

c.76r. II Piantina di fava lupina  ( faba inversa) con piccoli ori gialli

rotondeggianti

c.76v. I Pianta di fava grassa ( faba grassa, sedum maximum) con grandi radici

c.76v. II Pianta di fava comune  ( fabe communes;  vicia faba) con ori bianchi e

violacei e baccelli

c.77v. II Tre funghi violacei su un prato verde

c.78r. II Fiorita di ferula (ase puante; ferula assa-fetida) con ori gialli

c.78v. I Piantina di felce maschio ( les, fougier mascle, dryoptenis lix-mas) (v.

74v. I)

c.78v. II Albero di fco ( cus carica) con frutti verdi

c.79v. II Albero di garofano  ( garioli, giroe; dianthus caryophyillus) con ori

violacei

c.80v. I Pianta di genziana ( gentiane, gentiana verna) con grosse radici

c.80v. II Alberello di galanga (alpinia ofcinarum) con grande radice

c.81r. II Alberello di galbano ( galbane; ferula galbanifera) con ori giallo bruno a

ombrella molto simile alla piantina di ferula a c.78r II

c.82v.. I Piantina di garioflata o ambretta ( gariolé) con orellini verdi

c.82v. II Piantina di garofanina ( git ) con orellini violacei

c.83r. I Piantina orita di migliarino ( grénul granum solis) con orillini gialli

c.83r. II Pianta di gallitrico ( gallitric;  salvia horminum) con ori verdi a

campanula

c.83v. I Albero di querciasene (quercus) con ghiande (glans)

c.84r. II Piantina di ginestra minore ( genestelle; genista tinctoria)

c.84v. I Piantina orita di ginestra ( geneste) con orellini gialli papillonacei

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c.84v. II Piantina di gramigna (agropyron repens)

c.85r. II Pianta di giras con quattro foglie rossicce che spuntano da una grossa radice

rizomatosa

c.86r. I Piantina orita di cardo asinino (camaleonta nigra ; cirsium lanceolatum)

c.86v. I Piantina di heripillos o herpillo (heripille)

c.86v. II Piantina di erba acetosa incenso (herbe d’ancens)

c.87r. I Piantina di tanaceto (herbe sainte Marie, tanacetum vulgare)

c.87r. II Piantina di erba artritica (iva artritici; herbe paralisie) con orellini verdi

a calice

c.87v. I Pianta di giusquiamo ( jusquiame) con ori verdi a calice

c.88r. I Piantina di issopo grande (y sope grande; hypssopus ofcinalis)

c.88r. II Piantina di issopo piccolo ( ysope petit )

c.88v. II Pianta di aro (iarno) con grandi ori rossi

c.89r. II Pianta di iris (ireos, iris germanica) o giaggiolo con ori viola

c.89v. II Pianta di rosa canina con fungo ipoquestidos intorno alle radici e orellini bianchi

c.90r. II Alberello di ginepro  o arterade  ( jenièvre, jenivre) con piccole bacche

 brune

c.90v. II Pianta di iperico ( ypericon) o “erba di S. Giovanni” con orellini giallo-

arancio

c.91r. I Pianta di issopiro ( yppirium isopyrum thalictroides) con grossa radice

c.91r. II Piantina di vite selvatica o vite agreste (inantes, lambrusce; vitis ssp.)

c.91v. I Piantina di indaco (indace; isatis tinctoria) con orellini gialli a grappolo

 c.91v. II Pianta orita di poligono jua ( yue; polygonum cuspidatum, chrisanthemum)

con orellini giallo arancio

c.92r. II Pianta di incensaria ( pulicaria dysenterica) con ori gialli semiaperti

c.92v. I Pianta di ramulea ( jerubule) grossa cipolla verde con cinque foglie

lanceolate

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c.92v. II Pianta di inniolum album  (iumolum) grossa cipolla bruna con sei foglie

lanceolate

c.93r. I * Ambra gialla che stilla dal tronco di un albero

c.93r. II * Grande pezzo di lapdane (laudane, gomma)

c.94r. I * Grande pietra di lapislazzolo  ( pierre de lazur ) di colore azzurro venato

d’oro

c.94v. II Pianta di giglio (lis; lilium candidum) con ore e radice a cipolla

c.95v. I Alberello di lingua di uccello ( poligonia) con bacche verdi allungate

c.95v. II Alberello di linothis o alcantus con inorescenze verdi

c.96r. II Pianta di lipacium (doque)

c.97r. II Pianta di lattuga (laitue)

c.97v. I Pianta di lattuga selvatica (laitue sauvaige; lactuca virosa)

c.98r. II Pianta di lupino (lupins; lupinus albus) con baccelli

 c.98v. II Alberello di alloro (laurier , laurus nobilis) con piccole bacche verdi

c.99v. I Alberello di lentisco (lentiste; pistacia lentiscus)

c.99v. II Pianta di lenticchie (lentilles; ervum lens)

c.100v. II Pianta di laureola (laureole) con piccole bacche scure

c.101r. II Pianta di levisticus  (lunesche) o sedano di monte con ori giallo bruno

c.101v. I * Piccolo pezzo di pietra magnetica (lapis magnetis)di colore azzurro scuro

c.101v. II * Piccoli pezzi di pietra indica (lapis agalpis) di colore grigio e di pietra

lincia (lapis lincis) di colore rosso cupo

c.102r. I * Piccoli pezzi di pietra d’armenia di colore grigio; di pietra di spugna (lapis spangie) di colore rossastro; di lichedemonis (lapis demonis) o pietra

del demonio di colore azzurro scuro

 c.102r. II Piantina di loglio

c.102v. I Piantina di luppolo (lupul e, humulus lupulus) con ori verdastri

c.102v. II Pianta orita di piede di leone (leucopedion)

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c.103r. I Pianta di lattuga selvatica (laitue sauvaige) v. 97 v. I

c.103r. II Due pianticelle di lino ( semence de lin; linum usitatissimum) con orellini

viola

c.103v. I Due pianticelle di linaria (linaire vulgaris) con orellini gialli

c.103v. II Piantine appena germinate di lenticchie (lentilles; ervum lens) v. 99 v. II

c.104r. II Pianta di lingua di cane ( plantago lanceolata; eynoglossum ofcinale) con

orellini rosso violacei e frutti violacei

c.104r. II/2 Pianta di lingua ircina o lingua di becco con ori rossi chiusi tra le foglie

c.104v. I * Piccoli pezzi di lacca di  colore rosso bruno

c.104v. I/2 Pianta di plantago lanceolata o lanceola

c.104v. II Pianta di lattuga leporina (laitue à lièvre) con orellini gialli e seme

c.105r. I Pianta di lapaccio (lape) con bacche verdi spinose

c.105r. II Albero di mirto  (myrte; myrtus communis) con piccole bacche verde

scuro

c.106r. II Pianta di meliloto (mellilot ; melilotus ofcinalis)

c.106v. I Pianta di malva comune (maulve) con orellini rosa-violacei

 c.107r. I Pianta di malva visco (maulve sauvaige; malva viscus)

c.107r. II Pianta di malva domestica  (mauve de jardin; malva ortensis) con ori

rosa-violaceo

c.107v. II * Tre piccoli pezzi di mastice color giallo oro, secreto dai canali resiniferi di

pistacia lentiscus

c.108r. I * Munnia in un sacello per ricordare la “ polvere di munnia”, una specie dispezia che si trova nelle sepolture dei morti trattati con balsamo e mirra

c.108v. II * Mandragora in forma di donna tra le radici di un piccolo albero di quercia

con ghiande

c.109r. II Piantine di erba meu  o mieu  con piccoli ori a mazzetti giallo arancio

riferibile all’assenzio (artemisia abisinthium)

c.109v. I Alberello di melo cotogno (mala citonia; pommes de coing ) con frutti di

colore giallo

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c.110v. I Alberello di melograno (mala granata; pomme de grenate)

c.111r. I ° Alveare  (miel)  appoggiato su un tavolo con grosse api  svolazzanti per

riferirsi al miele e alle sue proprietà

c.111v. I Alberello di melograno (mala granata; punica granatum) vedi c.110 v. Ima con frutti dai colori più caldi.

c.112r. I Alberello di melo malus o melo selvatico con frutti giallo limone

c.112v. I Pianta di marrubio (marrubium, marrubium vulgare)

c.113r. I ° Due capre muschiate (musc) per ricordare il muschio che si raduna in una

cavità nell’inguine dell’animale dove sono presenti speciali ghiandole, per

 poi separarsi dall’animale quando è maturo. Sul prato si nota questa sostanza

in una specie di palla avvolta dal pelo di tale specie di caprone indiano.

c. 113v. II Tre frutti di mirabolano,  albero che cresce in India (forse  prunus

cerasifera)

c.115r. I Due ori marroni di macis, scorza che avvolge la noce moscata

c.115r. II * Tre piccoli pezzi di mirra  (mirra, mierre) gommoresina ottenuta dalla

 pianta Balsamo dendron, praticando incisioni sul fusto

c.115v. II Piantina di miglio (milet ; panicum miliaceum) con spighe mature

c.116r. II Piantina di maggiorana (maiorana; origanum majorana) entro un vaso

c.116v. I Pianticella di melissa (mellisse, melissa ofcinalis)

c.116v. II Piantina di more con frutti a stadi diversi di maturazione

c.117v. I Piantina di madreselva (matrisilve; lonicera caprifolium) o caprifoglio

c.117v. II Piantina di prezzemolo macedonico (macidonie, persil macidonicum)

c.118r. I Pianta di morso del diavolo ( succuse; succisa pratensis)

c.118r. II Pianta di moscatella (muscata; herbe muscate; adoxa moschatellina) con

orellini verdi

c.118v. I Pianta di moscatella piccola (muscatela petite; salvia sclarea)

c.118v. II Pianta di millefoglio (millefeuil ; achillea millefolium)

c.119r. I Due muses o “mele del paradiso”, rotondeggianti e di colore rosato

c.119r. II Pianta di melanzane (melanges) con grossi frutti giallo-violaceo

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c.119v. I Pianta di melone turbich (melons poupons; cucumis melo o popone)

c.120r. II Pianta di nasturzio ( sènacions, cresson nasturcium; lepidium sativum)

c.120v. II Pianta di nasturzio agreste (cresson sauvaige)

c.121r. II Pianta di nannufero (nènufar; nufar luteum) o ninfea con grossa radice e

ori giallo arancio

c.121v. I Alberello di noce moscata (noix muguete; myristica fragrans)

c.122r. I Alberello di noce delle Indie (noix de Inde; adhatoda vasica) con frutti

molto grandi di colore marrone scuro

c.122r. II Alberello di noce scia o sciatica (noix sciarce)

c. 123r. I Albero di noce vomica (noix vomique; strychnos vomica)

c.123r. II Piantina di noiele con orellini verdi a calice

c.123v. II/1 Pianta di narciso (narcisce; narcissu poeticus) con grosso bulbo verde

c.123v. II/2 Alberello di nespolo comune  (nesles; nespilus germanica) con frutti di

colore marrone chiaro

c.124r. I Piantina di basilico (osimum; ocimum basilicum)

c.124v. II Pianta di oppoponace erba cost (opoponax) con ori violacei

c.125v. I Pianta di origano (origane; origanum vulgare)

c.126r. I Albero di tamarindo (oxisenice) con i frutti

c.127r. I ° Cervo dalle lunghe corna accovacciato su un prato per richiamare l’osso del

cuore di cervo (os du cueur du cerf )

c.127r. II ° Seppia per richiamare l’osso di seppia (os de séche)

c.127v. I *  Incenso (olibane) che è la resina che si trova sul tronco e sui rami di un

albero che cresce vicino Alessandria

c.128r. I Albero di olivo (olives; alea europaea) con i frutti

c.129r. I Pianta di oleandro (oléandre olixantrum; nerium oleander )

c.129r. II Piantina di otriago con foglie verdi palmate e piccoli orellini rossi

c.129v. I Alberello di piretro ( pirétre; chrysanthemum cinerariaefolium)

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c.129v. II Pianta del pepe cubebe ( poivre; piper cubeba) con i frutti Vedi anche c.43r

I

c.130v. I Pianta di peonia  ( pèonie; paeonia ofcinalis) con un ore rosso cupo e

grosse radici

c.130v. II Piantina di papavero ( pavot; papaver ) con ore bianco

c.131r. I Piantina di papavero nero ( pavot)

c.131r. II Piantina di papavero rosso ( pavot ) con ore

c.131v. I Piantina difnocchio porcino ( pencedanum, fenoil a pourceaux; pencedanum ofcinalis)

c.131v. II Piantina di prezzemolo ( persil; petroselinum sativum) con ori violacei

c.132r. I Pianta di pulicaria  ( pollicaire; pulicaria dissenterica) con ori gialli

semiaperti

c.132r. II Albero con pigne e pinoli ( pins pignons)

c.132v. II Albero di prugno ( prunes; pruni, prunus) con frutti maturi di colore rosso

violaceo

c.133r. II Piantina di psillio  ( psilium; plantago psillium) con grossi frutti verdi

giallastri

c.133v. II Pianta di polipodio ( polipode; polypodium vulgare) o felce dolce con grossa

radice a rizoma

 c.134r. II * Piccola pietra dalla quale scaturisce il petroleum o olio di pietra (oil de

 pierre)

c.134v. II Pianta di parietaria ( plaitane) o “erba vetriola”

c.135r. I Pianta di porcellana o andragis o cappara

c.135v. I Pianta di serpillo ( serpillum heripillos, polieul, tymus serpillum)

c.135v. II Albero di pero ( poires; pyrus communis) con frutti maturi

c.136r. I Albero di cedro  con i grossi frutti pomi cetrini, cedri  ( pomme citrine,

citrus medica)

c.136v. I Tralcio di vite con grappoli di uva nera per richiamare l’uva passa ( passules,

uves passès)

c.136v. II Alberello di polio ( polium; teucrium polium) con frutti verdi

c.137r. II Piantina di erba plantagine ( plantain; plantago maior )

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c.137v. II Pianta di erba plantagine minore  ( plantain petit, lancellée; plantago

minor )

c.138v. I Piantina di panico ( panie panicum ; panicum italicum) con sphige mature

c.138v. II Piantina di potentilla déronice  ( penthaphilon  ;  potentilla reptans) conorellini gialli

c.139r. II Pianta di  poligonia (langue de passeret ) con foglioline verdi di forma

allungata

c.139v. I Pianta di politrico ( politac; polytricum) con radice a bulbo e foglie simili

a felci

c.139v. II Pianta di primula ( primerolle; primula veris)

c.140r. I Pianta di asparago  ( palacium leporis, palais, au lièvre; asparagusofcinalis) con bacche rosse e grande radice a rizoma

c.140r. II/1 Pianta di polmonaria  ( pulmonaire; pulmonaria ofcinalis) con grandi

foglie verdi maculate di bianco

c.140r. II/2 Pianta di persicaria ( persicaire) con orellini rossi a grappolo

c.140v. I Pianta di paracelle o erba basilico con grandi radici gialle squamose

c.140v. II Pianta di pinpinella ( pipemelle) con bacche verdi punteggiate di nero

c.141r. I Pianta di pelosella ( pilloselle) con orellini gialli

c.141r. II/1 Pianta di pervinca ( provinca, pervence; vinea minor ) con orellini viola

c.141r. II/2 Pianta di palma christi con orellini rosa e radice a forma di mano

c.141v. I Albero di pesco ( peches; prunus persica) con frutti verdi

c.142r. I Pianta di erba palée con lunghe foglie verdi lanceolate

c.142r. II Pianta di piede colombino  ( pié de coulon pes columbinus) con radici attone

c.142v. I Pianta di porro ( poreau; allium porrum) con piccole radici a barbe

c.143r. I Pianticella di rosa (rose; rosa canina) con ore rosso

c.144v. II Pianta di radice o “ramolaccio” (rafane; armoracia rusticana) con grossa

radice a ttone

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c.145r. II Pianta di rabarbaro  (reubarbe; rheum palmatum) con grosse radici

trilobate

c.145v. II Pianta di robbia (rubea; rubia tinctorum)

c.146r. I Pianta di ruta (rue; ruta graveolens) con orellini giallo arancio

c.147r. II Pianta di rodalde con grandi foglie verdi e stelo centrale

c.147v. I Tre pianticelle di riso (riz ; oryza sativa) con grandi spighe verdi punteggiate

di giallo tenue

c.148r. I Pianta di robeglia (robellie) con orellini rossi

c.148r. II/I Pianta di rapa selvatica (rapistre) con orellini gialli

c.148r. II/2 Pianta di rapa  (rave) con grandi foglie verdi e grossa radice a ttone di

colore giallo pallido

c.148v. II Alberello di spino nardo ( spicnard ) con foglie verdi trilobate

c.149v. I Pianta di erba morella o salastro (morelle striginum) con bacche verdi

c.149v. II Pianta di solastro rustico  (morelle, mortelle, alkatienge, solastrum) con

ori rossi

c.150r. II Piantina di semprevivo (tojours vive semprevivum; sempervivum tectorum)

con piccola radice a ttone e foglie verdi allungate

c.150v. II * Raccolta dello zolfo  ( souffre) da parte di un uomo che scava il terreno

roccioso con la zappa

c.151r. II/1 Pianta di silero montano ( siseleos o siler montainin) con ori rosati

c.151r. II/2 Pianta di saponaria ( savonnaire; saponaria ofcinalis) con orellini rossi

c.151v.. I * Sangue di drago ( sanc de dragon; dracena draco) resina di colore rosso

che stilla dai rami di un albero

c.151v II Pianta di squinanto o “erba di cammello” con sottili foglie lanceolate

c.152r. I Pianta di senape bianca ( seneve; sinapis alba) con orellini gialli

c.152v. I * Sarcocolla ( sarcocole; phoena sarcocolla) resina gialla che si ottiene dal

lattice di un albero esotico, la phoena sarcocolla

c.152v. II Pianta di stecade ( sticados citrin; sticados citrinum) o “barba di giove”,

con ori giallo-limone

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c.153r. I Pianta di stecade arabica ( sticados arabic) con orellini rossi

c.153r. II Pianta di satirio ( satyricon; serapias cordigera) o “giglio di prato” con

ori rosa

c.153v. I Pianta di cicoria ( sponsa solis) o radicchio di prato con orellini azzurri

c.153v. II/1 Pianta di scrofularia ( scrophularia; scrophularia canina) con radici bulbose

e piccole foglioline rotonde

c.153v. II/2°  Elefante  su un prato per richiamare lo spodium  cioè l’osso di elefante

 bruciato

c.154r. II Pianta di sisimbro ( sisimbrium) con foglioline sfrangiate verde scuro

c.154v. I Pianta di salvia ( sauge; salvia ofcinalis) con foglie verdi a mazzetto

c.154v. II Pianta di scaliosa ( scabieuse;  succisa pratensis) con orellini azzurri-

violacei

c.155r. II Pianta di nasturzio ( sènacions nasturcium) o crescione inglese (cresson;

lepidium  sativum) con foglie verdi di varia grandezza, vedi anche c.120r II

c.155v. I Piantina di serpentina  ( serpentine) o colubrina  o cardo benedetto con

fusto verde e frutto con semi

c.155v. II Albero di salice ( saulx; salix alba) con tronco marrone chiaro

c.156r. I Pianta di senna ( seu) con mazzetti di ori viola scuro

c.156v. I Due piantine di scilla ( squille) o cipolla nerina con grande radice a bulbo

con barbe

c.157r. II Alberello di sommaco ( sumac) con orellini rossi a grappoli

 c.157v. I Pianta di stafsagria  ( staphizagre; delphinium staphysagria) con bacche

spinose

c.157v. II Albero di sandalo ( sandale, sandres; sandalo, santalum album) con foglieverdi a girandola

c.158r. II Pianta di senna ( seu) con grandi bacche grigiastre

c.158v. II Pianticelle di santo reggia  ( satureja hortensis) con rami a candelabro e

 piccole foglioline

c.159r. I Piantina di sanguinaria ( paronychia argentea, geranium sanguineum)

con inorescenze giallo arancio

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c.159r. II Pianta di scolopandria ( scolopendre) con grandi foglie allungate striate di

rosso

c.159v. I/1 Pianticella di soldanea (calystegia soldanella) con foglie ovali con una

macula scura al centro

c.159v. I/2 Piantina di spinacio (espinoche spinarchia oleracea) con orellini azzurri

c.159v. II Pianta di sicla o blitin con le larghe foglie venate di giallo

c.160r. I Pianta di scalogno ( scalognium, allium ascolonicum) con grosso bulbo con

 barbe

c.160r. II Pianta di spargula (ruelle; spargula arvensis) con piccoli orellini verdi

c.160v. I/1 Pianta di valeriana ( silfu, valériane; valeriana ofcinale) con orellini

giallo-arancio

c.160v. I/2 Pianta di sambuco  ( sambueus ebulus, yebles ebulus) con ori bianchi a

campanula

c.160v. II Alberello di spina santa (espine benoite; paliurus spina Christi) con fusto

marrone e foglioline allungate

c.161r. I Pianta di sebestenio ( sebester secacul ) con frutti di colore azzurro simili a

 prugne

c.161r. II Quattro pianticelle di salmenca o  spigo celtico ( salmea, salmea scadens),

rappresentate da grosse spighe brune sotto un albero

c.161v. II/1 Due ramoscelli di sigillo di santa Maria  ( sigillum sancte, polygonatum)

con ori bianchi a campanula e grossa radice

c.161v. II/2 Piantina di sorbastella con foglioline sfrangiate

c.162r. I Alberello di sorbo domestico ( sorbes, sorbus domestica) con frutti pendenti

color marrone

c.162v. I Pianta di sesamo ( sisame, sesanum indicum) con spighe formate da grossi

grani di colore giallo

c.163r. II Alberello di tamerice  (tamarist, tamarix gallica)  con piccole foglie a

ventaglio

c.163v. I Piantina di tetrahit con orellini rossi

c.163v. II Due piantine di titimal (anabule; euphorbia elioscopica) con foglie su vari

 piani

c.164r. I Alberello di turbich con grosse radici

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c.164r. II Piantina di tapsia (tapse; thapsia garganica) con orellini verdi

c.164v. II Pianta di tapsia barbata  (tapsus barbatus, thapsia villosa) con orellini

giallo-bruno sullo stelo centrale, circondata da grandi foglie

c.165r. I * Raccolta di trementina  (térébentine) da parte di un uomo che con duemestoli raccoglie in un barile la resina che cola dal tronco di un albero

c.165r. II Piantina di tribolo marino (chardon marin tribulus marinus) con ori verdi

semichiusi

c.165v. I Pianticella di erba trinità con foglie trilobate

c.165v. II Pianta di tormentilla ( potentilla erecta) con orellini gialli

c.166r. I Pianticella di trifoglio (trèe; trifholium) con foglioline trilobate

c.166v. II Piantina di viole (violette de mars, viola odorata) con orellini viola

c.167r. II * Edifcio con nestre ad arco in ognuna delle quali è posto un vaso di vetro

 per richiamere il vetro (voirre, verre)

c.167v. I Pianta di  verga del pastore  (verge à pasteur; virga pastoris; dipsacus

 fullonum) o cardo selvatico con tre ori a bulbo spinoso

c.168 v. II Pianta di clematide (vitalba vitis alba; clematis vitalba) con lungo tralcio

centrale

c.169r. II Tre pianticelle di zenzero ( zizinber ;  zingiber ofcinale) poste sopra una

grossa radice a rizoma pluriarticolata

v.169v. II Due piantine di zedoar con grosse radici gialle con barbe

c.169v. II/2 Tre pianticelle di zizzania (lolium temulentum) con spighe verdi centrali

c.170r. II Pianta di zucchero  ( zuccara;  saccharum ofcinarum) con ori azzurri a

spiga.

Dall’esame del testo si rilevano:

 a) Alcune correzioni originali che il copista e l’estensore ha introdotto nel testo, per

quanto sostanzialmente corretto, dovute a errori di lettura o a ripensamento

c.67r. si corregge “ pour ce” con “ purge”

c.69r. “mis ensemble” con “mis en pouldre”

c.72v. “toujours” con “torsion”

c.81 “bistoire” eliminato, viene introdotto più avanti

c.87v. eliminato “celuy où est la doileur ”

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c.95r. “ jours” corretto con “ foiz ”

c.128r. “ parfaitement ” cassato con tratto di penna rossa

c.136v. “estomac” sostituito erroneamente con “ poitrine”

c.141v. “trenchés” sostituito con “tranchés”, “ garder ” sostituito con

“ prendre”

c.163r. “ airant ” sostituito con “blanche”

c.166v. “ for ” corretto in “ froment ”

c.168r. ripetuto per svista “l’estomac vuit tant de humeurs comme de autres

viandes”

  b) Una variante sotto l’aspetto lessicale

“ Pouldre” (polvere) inizia a c.27r. e nisce a c.117v.

“ Poudre” inizia a c.36v. no a c.117v. in alternanaza prevalente con “pouldre”,

 poi rimane come forma unica.

c) le parti del corpo che vengono via via menzionate:

 pis (mammella)

 penillière (pube)

haie du dos (ala della spalla)

boyaux (de haelt , de bas) (intestino alto, intestino basso)

estomac (stomaco)

rate (milza)

 foye (fegato)

rains (reni)cueur  (cuore)

 poulmon (polmone)

membres du pis (pene)

membres espirituaulx (parti spirituali)

membres nutritifs (parti nutrizionali)

nombril  (ombelico)

vessie (vescica)

conduio du corps (condotti del corpo)

conduis de urine (condotti urinari)

 génitaires (genitali)

d) gli strumenti che vengono usati:

 pessaire (pessario)

clistère (clistere)

 suppositoire (supposta)

tente (tenda, padiglione)

emplastre (impiastro)

électuaire (elettuàrio)

décoction (decotto)

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e) le malattie e indisposizioni più ricorrenti, utili a comprendere lo stato delle conoscenze

mediche medievali:

humeurs (colérique, melancolique) (umori; collerici; melanconici)

empeschement de urine  ( strangurie, dissurrie) impedimento dell’urina

strangièria

opilacion de la rate (oppilazione della milza)

opilacion du foye (oppilazione del fegato)

opilacion de la vessie (oppilazione della vescica)

durté de la rate (indurimento della milza)

épilence (epilessia)

tranchoison du ventre (blocco intestinale)

 pamoison (svenimento o sincope)

 eurs retenues (verginità)

morsure des bestes venimenses (morso di animali velenosi)

morsure de chien enraigé (morso di cane arrabbiato)

chaudes apostumes (ascessi sanguinanti)

 ux de ventre (diarrea)

 ux de ventre a sanc (diarrea a sangue)

vers du ventre (intorno alla pancia)

vers des oreilles (intorno alle orecchie)

estoupement de voyes (impedimento della voce, perdita della voce)

 podagre (podagra)

 goute (gotta)

rieume (reuma)

 feblesse du cerveau (debolezza del cervello) feblesse du cueur  (debolezza di cuore)

empeschemento de oye (impedimento della vista)

 pourriture de gencives (guasto delle gengive)

 jaenice (itterizia)

 us de sane du nes (epistassi)

roigne (rogna)

 paralisie ou percussion  (de la langue, des outres membres) (paralisi o

 percussione della lingua, delle altre parti del corpo)

douleur du ventre appellé collique (mal di pancia denita colica)

taches des faces aux fennes (chiazze sul viso delle donne macchie) ydropisie appelée leucouumonce (idropisia sottocutanea)

teigne (tigna)

douler du ventre appellée passion ylinque (mal di pancia chiamato patimento

iliaco)

verrues on poreaux (verruca o porro)

Per quanto riguarda le erbe e le piante usate delle quali l’Herbolaire segnala le singole

 proprietà curative, scorrendo l’elenco, accanto ad alcune meno note, troviamo quelle ancora

in uso nella nostra cucina, come la salvia, la carota, l’alloro, il prezzemolo, la cipolla, il

radicchio lo scalogno, il nocchio. Il basilico, il sedano, la carota, il timo, la lattuga, l’anice,la bietola, il rosmarino, la noce moscata, lo zafferano, il cardo, il cavolo, l’avena, i capperi,

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gli asparagi, la camomilla, la scarola, l’anice, l’erba cipollina, il fagiolo, i ceci, la menta, la

lattuga, le lenticchie, i funghi, il riso, i datteri, il lupino, la maggiorana, l’origano, il porro,

la ruta, lo zafferano, la rapa, il rabarbaro, la cicoria, gli spinaci, i chiodi di garofano, le fave,

i lupini, il pepe, lo zenzero e lo zucchero.

Troviamo anche piante più che note come il co, il mandorlo, l’olivo, il castagno, il

 pesco, l’albero di amarene, il ciliegio, l’albicocco, il nespolo, il melograno, il tamarindo,

il nocciolo, l’acacia, la quercia, il cedro, il melo, il ginepro, il melone, il prugno, il sorbo,

il pero, la vite, il cocomero, la fragola, l’uva. Ma troviamo anche fori molto noti quali la

rosa, la viola, l’anemone, l’asfodelo, l’edera, il geranio, la margherita, l’ibisco, il ciclamino,

la calendula, il caprifoglio, il garofano, la ginestra, l’iris, il giglio, il narciso, la peonia, la

clematide, il nasturzio.

Vi sono poi elencati vari minerali o materiali o sostanze similari, quali l’oro, l’argento,

l’amido, l’ammoniaca, l’asfalto, il bolo, il borace, i corni ossei di un pesce, dell’elefante o

del cervo, la canfora, il ore di piombo il corallo rosso, il vetriolo, l’ambra, la lapdane, il

lapislazzolo, la pietra magnetica, la pietra d’armenia, la pietra lincia, la lacca, il mastice, il

muschio, la mirra, l’osso di seppia, il petrolio, la sarcolla, la trementina, il vetro.

 Non deve certo sorprendere l’interesse per i minerali assieme a quello per le altre parti

della scienze della natura che era nato con la storia, per cui i riferimenti astrologici e divini,

combinati con osservazioni di proprietà siche percettibili quali la lucentezza, la trasparenza,

il colore, la durezza, la lavorabilità, hanno portato l’uomo ad attribuire ai prodotti minerali

 poteri magici e anche curativi86.

Parimenti non ci deve stupire la presenza nell’erbario, accanto alle sostanze vegetali, di

alcuni animali, quali l’elefante, il capodoglio, il cervo, la seppia, le api, le conchiglie, le

capre muschiate, in quanto semplici erano state considerate anche tante sostanze del mondo

animale alle quali venivano attribuite proprietà curative87 .

Di tutti questi elementi e da altri meno noti elencati nell’erbario, singolarmente o incombinazione tra loro, si traggono, secondo i dettami della Scuola medica salernitana e le

formule di un’antica alchimia che sfuma nel magico, i principi attivi necessari per la cura

e la salute del corpo.

A tal proposito non si possono non ribadire alcune curiosità  riguardanti l’uso delle

erbe:

 preghiere propiziatorie (cc.25v., 54r. e a c.139r.) in sospetto di sortilegio.

formula propiziatoria (c.36r.)

modi per prevedere la morte del paziente (c.32r., 54r., 140v.)

modi per mantenere l’allegria in un convito (c.31r., 32r.)

modi per assicurarsi l’amore o la simpatia di qualcuno (c.32r.)adagio sanitario in latino “l’emula campana rende il pericardio sano” (c.66v.)

versi latini di carattere medico: “ ysopus est erba purgans de pectore leuma.

 Ad pulmonis opus prestat medicamen ysopus”, cioè a dire che ysope è un’erba che elimina

la emma del petto e dalle membra e che fornisce rimedio e cura contro le malattie del

 polmone. (c.88r.).

 pratica ad amorem: “Per un uomo che è così preso e totalmente legato che

non può frequentare la sua donna quando è sposato, si cuocia questa erba (“piede di leone”)

86 v.sull’argomento T. ZULIAN, I semplici minerali, in: Di sana pianta. Erbari e taccuini di sanità, Modena, 1988,

 p. 15987 v. sull’argomento:M. R IPPA BONATI, I “semplici” animali. in: Di sana pianta. Erbari e taccuini di sanità, cit., p. 67; 72

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[...] in fase di luna calante [...] e in quell’acqua si lavi tutto il corpo fuori di casa davanti al

suo uscio [...], poi dopo il ritorno a casa non guardi affatto dietro di sé (c.103r.).

giudizio sulla mandragora: erba che per articio, “così come abbiamo appreso

e sentito dire da alcuni lavoratori de campi”, assume “forma umana” e che “la virtù di

raffreddore, restringere e di morticare e anche di addormentare e narcotizzare chi ne viene

unto completamente (c.108v.).

inganno del praticante a n di bene (c.134r., c.164r.)

un cibo si segnala per la sua particolarità che trova riferimento nel territorio

modenese nel quale se ne fa largo uso: i zipules cioè zeppola, frittella, ciambella), simili alle

crescenti o gnocco fritto modenese (c.170r.): “ Zipules ce sont frictures faites de farine avec

oile; c’est moult grosse viande pour ii causes, l’une pour la moiteur de l’oile, l’autre pour

la  gluieuseté de la farine, […], mais toutesfoiz a ceulx qui ont le foye ou la rate dangerenx

 si ne mangeussent point” ”zeppole sono le frittelle fatte di farina e di olio; sono di grande

nutrimento per due ragioni, l’una per l’umidità dell’olio, l’altra per la vischiosità della

farina […] ma tuttavia coloro che hanno il fegato o la milza in pericolo, non ne mangino”.

C’è ancora da osservare che ogni elemento viene valutato in gradi (dal primo al quarto)

di calore (caldo/freddo) o di umidità (secco/umido) e le malattie e le indisposizioni sono

causate dall’azione di umori caldi o freddi, secchi o umidi di varia natura (colerica,

melanconica, ecc.): «« que les elémens muent le dégré des choses ce nous est monstré par

l’action que les elémens font et moult de choses…aussi fault il dire que les choses chaudes

refroident par la nège et les froides eschauffent   par le feu » (c.166r.).

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L’Illustrazione botanica attraverso i secoli nei suoi valori botanici

e scientifci con particolare riguardo al Grant Herbier (est. 28 = α. M. 5. 9)

L'uomo, già dai tempi più remoti, e colpito dalla bellezza della natura, ha cercato di

carpire delle immagini e di tradurle poi, sui supporti più vari, per pure motivazioni artistiche,o per renderle leggibili nel tempo ad altri, assumendosi così l'onere di tramandarle a scopi

conoscitivi, non disgiunti, successivamente, da quelli scientici.

Sporadiche esili tracce di tali primitivi cimenti artistici esistono già nel paleolitico con

rappresentazioni di piante grafte sulle pareti delle caverne o su ossa, o a Cnosso su una

giara di terracotta decorata con tre palme, risalente al 1800 a. C., o a Creta, con un altro

vaso decorato con dei crochi risalente al 1550 a. C., presso gli Egiziani già nel 1450 a. C.

nel tempio di Tutmosi III, o ancora presso i Mesopotami ed i Greci, con una moneta che

 porta impressa una spiga di grano, ritrovata a Metaponto.

Alcuni resti di decorazioni pompeiane e vari racconti degli storici greci, su ori e frutti

rappresentati in modo tale da ingannare le api e gli uccelli, comprovano quanto gli antichi

fossero divenuti maestri nell'arte del disegno.

Tralasciando gli incontri occasionali sopra ricordati, nei quali le erbe e le piante vengono

usate con nalità puramente decorative ed artistiche, occorre tuttavia attendere che la

medicina si avvii verso una dimensione scientica e di conseguenza prepari la via verso gli

erbari.

Anche se il primo di questi, quello di Crateva, nel quale l’artista aveva dipinto le erbe

nei colori naturali, ha perduto le sue illustrazioni è tuttavia certo che, esse, pur attraverso la

lenta, ma continua degenerazione delle immagini avvenute nel corso delle continue copie

tratte da quell'opera, si sono conservate dal sesto secolo in avanti in molti manoscritti ed in

erbari a stampa.

Quando nel I secolo d. C. appaiono le due basilari opere botaniche dell'antichità, la

 Naturalis historia  di Plinio e il  De Materia Medica  di Dioscoride, si avvia con molta

 probabilità la vera e propria illustrazione botanica inserita negli Erbari.

Anche se non abbiamo il manoscritto originale del De Materia Medica, e non sappiamo

quindi se fu illustrato o meno, è giunto a noi quello splendido monumento di arte botanica

che è il grande codice di Dioscoride, confezionato a Costantinopoli e dedicato a Giuliana

Anicia nel 512 d. C., noto come Codex Vindobonensis. Tale opera dimostra uno standard

di eccellenza nei grandi disegni di piante acquerellati che, distribuiti in quasi quattrocento

 pagine, colpiscono per il loro fermo naturalismo sconosciuto all'arte bizantina di quel

 periodo e, rimasto insuperato per secoli, durante i quali la fortuna dell'illustrazione botanica

si rivela incerta e uttuante.Infatti l’osservazione per la natura che nell’antichità, specie nel periodo alessandrino,

stava alla base del cosiddetto disegno naturalistico, risalente all’illustrazione graca

naturalistica e anatomica della quale Aristotele è considerato l’iniziatore, seguito da Plinio

nel I secolo d. C., durante il Medioevo, per quasi un millennio, viene del tutto trascurata.

Ciò avviene, come rileva Claus Nissen88 “sotto l’inuenza concomitante della trascendenza

cristiana e del decorativismo germano-celta”.

Le illustrazioni degli erbari, così come dei bestiari e delle enciclopedie medievali, sono

 per lo più puri e semplici schemi formali, astrazioni con intenti di ornamentazione, spesso

88 C. NISSEN, Scientiche e meccaniche rafgurazioni.  Le gurazioni scientiche, voce dell’EnciclopediaUniversale dell’arte, XII vol., Venezia, 1964

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con signicato allegorico o araldico, quasi sempre senza precise connessioni con il testo.

D’altra parte se una pianta o un animale assurgono a simbolo di una virtù o di un vizio, che

importanza può avere una loro rappresentazione aderente alla natura e perché quindi non

 preferirgli una rafgurazione idealizzata più aderente allo scopo?

Le gure di piante e animali servono quindi non ad illustrare la natura, ma ad ornare i

testi, con i quali, come già detto, spesso non hanno connessione di alcun genere.

Quest’arte viene quasi del tutto trascurata durante il Medioevo, come appare dalle

miniature, spesso rozze, che si riscontrano nei manoscritti di quel tempo, da considerare

 più che altro ricettari visto lo stretto legame delle piante con la materia medica, delle cui

tradizioni essi si fanno portatori. Occorre infatti considerare che, di regola, l'illustrazione

degli erbari medievali è connata a rappresentare rafgurazione dei semplici e, solo in

 pochi casi, questa arida sequenza è interrotta dall'introduzione di gure di soggetti, piccole

scene che, per la maggior parte, descrivono la scoperta delle piante in forma mitologica o

aneddotica.

Inoltre i copisti e gli artisti che si cimentano nella riproduzione dell'archetipo, via via

non si dimostrano all'altezza e niscono con lo snaturare e alterare i disegni originali. Gli

scribi ed i miniatori medievali non intervengono soltanto come corruttori delle illustrazioni

e del testo, ma introducono delle vere e proprie innovazioni. Ciò come conseguenza diretta

del cambiamento radicale di atteggiamento verso la ricerca scientica che si compie nel

Medioevo, del quale si sono visti i primi annunci nello stesso Cassiodoro. Si determina

così la tendenza ad animare l'arida illustrazione scientica con vari espedienti, dal

carattere mostruoso attribuito ad alcune piante, alla loro metamorfosi decorativa. C'è però

da sottolineare che tale processo non è rettilineo e, lungo tutto il Medioevo, si possono

incontrare illustrazioni straordinariamente fedeli al modello antico.

Lo dimostrano chiaramente il Codex Neapolitanus, copia di un manoscritto greco del

Dioscoride che, pur corredato da disegni efcaci, non appare più all'altezza delVindobonensis,e il Dioscoride parigino del IX secolo che, pur di qualche interesse, perché riporta disegni

di piante di vari manoscritti, non esclusi quelli provenienti dal Codice Aniciano, sono

anch'essi di carattere inferiore.

La medesima cosa capita per gli erbari latini il cui prototipo sembra essere l' Apuleio

 Platonico o  Pseudo Apuleio, ove troviamo rappresentazioni di piante tratte dai prototipi

romani certamente alterate e stilizzate, ma che hanno il merito di fornire agli illustratori

immagini ed esempi per molte generazioni.

Infatti, insieme al Dioscoride tradotto in latino nella prima metà del VI Secolo, e ad

uno  Pseudo-Dioscoride denominato  De Herbis Feminis, formano il corpus principale di

conoscenze botaniche e forniscono il più consistente e credibile modello per l'illustrazionedelle piante durante l'oscuro periodo medievale.

Così è per l' Herbario  di Apuleio, tradotto in Anglosassone intorno all'anno Mille e

 presente alla British Library col codice Cotton Vitellius C. III , databile intorno alla metà

dell'undicesimo secolo, e nemente illustrato, come espressione di una scuola di illustrazione

 botanica che, introdotta dal Nord della Francia, si sviluppa in Inghilterra tra il decimo ed il

dodicesimo Secolo.

Interessante pure si mostra il manoscritto Bodley I 30 di Oxford, scritto e miniato intorno

all'anno 1120. Il naturalismo di alcune gure di piante, può essere qui spiegato con la

congettura che l'artista, abbandonando la vecchia abitudine di copiare, abbia scelto invece

di prendere a modello le stesse piante dal vero.Ma tali notevoli esempi non avranno seguito, in quanto questa scuola inglese viene

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soppiantata durante il dodicesimo secolo da un nuovo stile pittorico importato dalla

 Normandia. E’ stile romanico che, sorto su modelli romani sviliti durante il loro passaggio

attraverso il Nord Italia, si è evoluto nel Nord della Francia in pieno secolo decimo, avendo

come caratteristiche una simmetria ed un formalismo che portano l'illustrazione botanica ad

un astrattismo che rende irriconoscibile molte piante. Da ciò si può affermare che, all'inizio

del tredicesimo Secolo, l'illustrazione scientica botanica tocca in Occidente il suo punto

 più basso.

Questo lungo inverno si avvia lentamente verso la sua ne, attraverso vari sintomi di

rinascita che si avvertono nell'aria, a mano a mano che dalla mente dell'uomo medievale

svanisce la paura della natura e di nuovo nel mondo si diffonde il piacere per i suoi prati,

 per i suoi ori, per il canto degli uccelli: lo testimoniano i canti dei trovatori che esplicitano

tutta la loro gioia per i ori e per le piante, la preghiera di fraternità di S. Francesco verso

gli uomini e la natura con i suoi frutti, i suoi ori, le sue erbe.

A partire dal secolo XIII, qualche manoscritto italiano viene già illustrato in modo

naturalistico, come si rileva da un’ Arte venandi cum avibus, celebre trattato sulla falconeria

dell’imperatore Federico II e dall’ Agregà de Serapion composto a Padova intorno al

1400.

 Nel Trecento, l'epoca di Petrarca, Boccaccio e Chaucer, riscontriamo l'identico generoso

amore per la natura nei grandi pittori toscani, ma stranamente, di rado, riusciamo a

trovare nelle loro opere un ore il cui genere sia riconoscibile. Quasi solitario, un bianco

giglio rafgurato in un mosaico del battistero di Firenze, è rappresentato con la massima

espressività naturalistica.

L'invito di Cennino Cennini agli artisti del tardo Trecento a spargere un certo numero

di ori e di uccelli sui prati verdi, è la formula che i suoi contemporanei applicano per la

rappresentazione della primavera.

Intanto prosegue la tradizione dioscoridea, la quale, mentre nelle copie realizzate nelmondo greco si mantengono se non all'altezza, abbastanza vicine al realismo del modello

originale, come sembra provare un  Dioscoride  del primo Trecento conservato nella

Biblioteca del Seminario di Padova, dove le erbe e i ori sono ancora ben individuabili,

in Occidente nelle copie prodotte negli scriptoria benedettini come Montecassino o come

quelli sparsi un po' per tutta Europa, dall'Irlanda in giù, nei vari monasteri fondati da quei

monaci nel loro peregrinare, fuse con l'erbario dello Pseudo-Apuleio, le immagini appaiono

sempre più stilizzate e quasi bloccate in un rapido formalismo di maniera che spesso le

rende non chiaramente riferibili alla pianta che intendono rappresentare.

Da ricordare anche un  Erbolario, il Codice Palatino 586 , conservato alla Biblioteca

 Nazionale di Firenze, primo esempio miniato di quello che poi sarà il Tacuinum Sanitatis,con il testo esplicativo in lingua provenzale. Per quanto riguarda la sua illustrazione, secondo

Elena Berti Toesca89, in un saggio del 1937, ci troviamo davanti ad una chiara divisione tra

due miniatori che dimostrano stili diversi nelle illustrazioni dei vegetali. Infatti le foglie,

appaiono compresse come in un erbario, mentre gli alberi sono circondati da dame e da

scene di genere e fantastiche o con "drôleries" del genere più grottesco, e si rendono spesso

antropomorfe le radici delle piante che ammiccano, che fanno sberlef, sotto le sembianze

di vecchi maligni e ghignanti. Tuttavia, mentre il primo miniatore, nonostante la ricerca di

vivacità, mostra un'arte povera, fredda e stentata, tanto da far pensare che egli stia copiando

faticosamente o comunque rifacendo con mediocrità artistica quanto gli suggeriscono le

89 E. BERTI TOESCA, Un erbolario del ‘300, in: “La Bibliolia”, XXXIX (1937), pp. 341-353

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miniature di qualche prototipo che ha sottomano, il secondo invece che può essere preso ad

emblema più alto dell’illustrazione alto medievale, è molto più dotato. Anche se disegna

 piante e radici con teste umane, egli mostra piante, ori e steli che sembrano chiusi e stesi

tra i fogli di un erbario con precisa nezza, li rappresenta nella forma squisita e complessa

con tutto lo spirito dell'arte gotica, sospesa tra la natura e l'idealizzazione che anticipa

le vivaci pagine con le quali, qualche decennio più tardi, la miniatura italiana denirà i

Tacuina di Parigi, di Vienna e di Roma, veri e propri trattati di igiene intorno alle qualità

dei cibi, delle bevande, delle stagioni, delle intemperie e persino dei moti spirituali, al loro

effetto sul corpo umano e al modo di correggerlo e aiutarlo. In quelli troveremo miniature

intese ad illustrare la materia particolare alla quale il progetto di genere si riferisce, non più

le rappresentazioni schematiche quali si trovano in erbari e in trattati medici medievali, ma

ogni soggetto suggerisce al miniatore la rappresentazione di una scena di genere.

Comunque, solo quando il Trecento volge alla ne, assistiamo ad un affermarsi quasi

generalizzato e simultaneo del naturalismo nell'arte italiana, tedesca, amminga e francese,

anche se il primato, almeno in campo paesaggistico, sembra spettare ai miniaturisti franco-

 belgi, e le loro scoperte, passando dolcemente per le vecchie tradizionali vie, si divulgano

attraverso la Francia, l'Olanda, la Germania e, transitando da Trento e Verona, nel Nord

Italia.

In campo librario il naturalismo botanico afora ai primi del Trecento, prendendo le mosse

dall'illustrazione del Circa instans prodotto già nel dodicesimo Secolo dalla Scuola medica

salernitana, anche se solo alla ne di quel secolo si ha una vera e propria rafgurazione

 pittorica di erbe e ori, condotta con un'analisi accurata e con ricchezza di particolari che,

attraverso la delicatezza e la freschezza dei colori, ci dà immagini abbastanza realistiche.

 Ne sono esempi validissimi tre importanti erbari veneziani che, per il loro tentativo di

realizzare un'immagine botanica il più naturalistica possibile, anticipano di più di un secolo

il grande  Herbarum Vivae  Eicones  del Brunfels. Uno di essi è l' Erbario  realizzato perFrancesco II da Carrara che contiene un volgarizzamento del testo arabo di Serapione oggi

conservato alla British Library: le immagini naturalistiche di quel codice sono eseguite

da un maestro che sa rappresentare le erbe medicinali ed i ori con un forte realismo non

scevro da una nezza coloristica che trova riscontro nei maestri della pittura dell'epoca.

Per la prima volta dall'età ellenistica le piante si avvalgono di una rappresentazione

veridica, senza dare spazio ad idealizzazioni ed a stilizzazioni, per cui nulla sfugge a questa

descrizione minuziosa e precisa, addirittura evidenziando il recto ed il verso delle foglie per

coglierne le differenze, che rende possibile l'identicazione di tutte le piante rappresentate,

così come i frutti non sono più sull'albero come nei Tacuina, con un attenzione coloristica

straordinaria ed efcace, con risultati di notevole eleganza stilistica, che fanno di tale codiceuna vera e propria opera d'arte, al di là del suo valore scientico notevole, ma ridotto,

considerato il numero non elevato di piante descrittevi ed il testo piuttosto scarso.

Al contrario del Serapione, molto più ampio è il numero delle piante rappresentate

nel ricchissimo  Erbario  cartaceo ( Lat. VI, 59) dipinto a Venezia, per il medico Nicolò

Roccabonella, nella prima metà del sec. XV, verso il 1445-48, dal pittore miniatore Andrea

Amadio "pictor sublimis". E' un prezioso documento scientico nel quale, con un verismo

meno accentuato, attraverso immagini ravvicinate, e a volte quasi lenticolari, fresche e di

notevole sensibilità coloristica, l'Amadio dipinge i ori in rafgurazioni di una sorprendente

anticipatrice modernità, ed i frutti più svariati con una certa delicata evidenza.

Il terzo manoscritto di origine veneziana, ora conservato alla British Library, ( Add.41623), risalente ai primi anni del sec. XV è un Erbario certamente meno bello e importante

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del precedente, ma che dimostra come il Serapione non sia un fenomeno isolato. Esso

contiene interessanti esemplari di ora alpina e vi è compreso un edelweiss ed altri ori,

come il "lillium martagon", dipinto a gruppo nel quale alcuni elementi come il ore sono

 più che realistici, mentre le foglie si avvalgono delle solite insoddisfacenti immagini

convenzionali.

Tali esempi niscono per inuenzare anche la miniatura, cioè l'arte gurativa inserita in

un testo scritto seguendo certi canoni strutturali e stilistici enunciati nel De arte illuminandi di un anonimo trecentista90  che mette in moto un meccanismo mentale ed operativo

 profondamente diverso da quello che regola la pittura.

Il trattato insieme ad altri sulla tecnica della miniatura medievale, mette anche in

evidenza un altro particolare rapporto, per così dire interno ed intrinseco, che non appare

in supercie ma che esiste tra varie piante e ori, tra il libro e la miniatura n dall'antichità

e per tutto il Medioevo, in una, a volte, insospettabile quanto suggestiva commistione

alchemica che riguarda la preparazione dei colori, delle colle, delle penne, degli inchiostri e

 più tardi, della stessa carta allorché essa sostituirà la pergamena. Già nel trattato di Eraclio91 “ricettario” medievale, redatto forse da un monaco, alla ne del sec. X, in tre parti, il più

antico compendio pervenutoci pressochè integralmente, in materia di tecniche artistiche e

artigianali del medioevo, aforato nel XV secolo in un manoscritto parigino, insieme ad

altri trattati, troviamo le ricette per fare colori con secchi vegetali "quomodo ant diversi

colores de oribus campestribus...". Ma è proprio nel  De arte illuminandi che troviamo

tutta una serie di ricette le quali, partendo da Plinio e dai colori "necessari a miniare",

insegnano a prepararli nella loro varietà "dalle radici di Cuccuma" o dall'"erba dei Tintori",

"con i ori dei gigli azzurrini" o con "i grani gialli che si trovano in tempo di vendemmia

lungo le siepi delle vigne", o "con l'erba detta tornasole" e così via, per ottenere liquidi

alcalini d'uso come le varie "liscivie", nella preparazione delle quali entrano le ceneri delle

 piante, per estrarre i principi coloranti organici di diversi ori, legni o radici di pianteeuropee ed esotiche.

E' questo un passaggio importante e fondamentale che, oltre a legare la pittura e la

miniatura in un unicum inscindibile e spesso indistricabile, ci offre illustri esempi di codici

miniati con erbe, ori e frutta indiscutibilmente derivanti dall'illustrazione botanica, e

che non di rado risente, proprio alla ne del Trecento, di quel gotico internazionale che

originatosi in Borgogna, con la sua nuova coraggiosa gioia nella natura, trova il suo più

alto completamento nei freschi, splendenti paesaggi dei miniaturisti amminghi, mentre

in Italia, si afferma con Stefano da Verona o da “Zevio” (1374 dopo il 1438) il primo

vero esponente ed assertore in Verona dello stile neogotico di provenienza oltremontana

e di valore internazionale che, sceso per la Val d’Adige, diede all’Italia settentrionale una precoce e fuggevole primavera d’arte.

A questo punto l'illustrazione botanica assume una valenza bipolare e sia pure parallela,

diversicata e divaricata: infatti, mentre come vedremo, da un lato trova la sua collocazione

 più propria negli erbari manoscritti e nei tacuina dipinti, cioè nei cosiddetti "Orti picti", dove

l'immagine è chiaramente funzionale al testo, assumendosi il ruolo di chiarirne i contenuti

90 cfr. De arte illuminandi, e altri trattati sulla tecnica della miniatura medievale nell’edizione a stampa a cura

di Franco Brunello, Vicenza, 1975.

91 ERACLIO, De coloribus et artibus Romanorum, libri 3, in esametri latini, sec. X exeunte cfr. G. R OMANO,

 I colori e le arti dei  Romani e la compilazione pseudo-eracliana, Bologna, 1996; W. BLUNT, The art ofbotanical illustration, London, 1950

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ed al tempo stesso, di esplicitarli visivamente, dall'altro, per oltre un secolo, la natura offre

le sue immagini ed i suoi colori per la decorazione delle pagine membranacee o cartacee

dei codici, siano letterari o liturgici o scientici, con funzione esclusivamente estetica, ne

a se stessa. Così le piante, i ori, i frutti, i paesaggi, assumono una funzione di sfondo in

un contrasto gurativo e stilistico che fa perdere vigore e sfuma il valore semantico della

decorazione medievale con le sue immagini irrazionali ed importanti, per approdare via via

a pagine, nelle quali la miniatura, raggiunta la sua massima dignità, allentando i suoi vincoli

con la scrittura alla quale per secoli è stata intimamente congiunta, riesce a comunicare

la serenità e la conquista della bellezza propria dell'uomo rinascimentale, tralasciando le

sue doti di efcacia narrativa e quegli accorgimenti stilistici e compositivi che erano stati

concepiti per dare chiarezza alle immagini evocate dal testo.

Così la miniatura che nei secoli remoti, no alle soglie dell'età gotica, si è presentata

in formule canonizzate e calligrache, sia pure colme di alto fascino decorativo e in lenta

evoluzione, manifesta nell'età rinascimentale una sua autonoma e individuale originalità,

impensabile prima e quasi sempre denuncia la presenza di un artista creatore. Si dice che

essa diviene pittura, ma non come "corollario" dell'arte sorella maggiore che seguirebbe

obbediente e docile, ma spesso con l'autorità della "grande arte" e, solo nei casi meno

eccellenti e corsivi, come insostituibile testimonianza dello svolgersi della pittura.

Il primo esempio miniatorio illustre può considerarsi il Très riches Heures du duc de

 Berry92, eseguito tra il 1410 ed il 1416 da maestri amminghi per il Duca di Jean de Berry,

codice nel quale troviamo un bordo miniato con ori eseguiti naturalisticamente, anche se

l’opera appare, a quella data, tanto rara quanto fortemente anticipatrice. Presto però nelle

Fiandre, nel 1430, i fratelli Hubert e Jan Van Eyck dipingono dei gigli e degli iris su una

 pala dell'altare di Glent, cui seguiranno nel corso del secolo opere di Hans Memling e

Gerard David nelle quali gurano affascinanti ori selvatici. L'opera pittorica più veristica,

che rappresenta un fascio di iris, di gigli in un vaso e delle aquilegie in un bicchiere, èquella conservata agli Ufzi di Firenze, eseguita intorno al 1476 dal pittore ammingo

Hugo von de Goes93 (Gand 1440 - Auderghen 1482) con la competenza di un vero botanico

che anticipa il verismo cinquecentesco con colori vivi e splendenti.

Un ottimo esempio di tale tipo di opera si ha nella Legend of St.Hubert  conservata alla

 National Gallery di Londra.94 In Francia nei manoscritti della prima e seconda metà del Quattrocento, troviamo solo

occasionalmente decorazioni di ori lungo i margini che, sebbene composte in maniera

ornamentale hanno qualche pretesa di precisione botanica, ma tale cura è del tutto

eccezionale, poiché il gusto dell'epoca favorisce l'esecuzione di lavori pergamenacei con

edere infogliate e ori stilizzati. Tuttavia viene introdotta gradualmente, prima nei manoscrittiamminghi e poi in quelli di tutto il resto d'Europa, una intima osservazione della natura.

Sui bordi interamente incorniciati di colore uniforme o d'oro vi sono dipinti ori, insetti,

uccelli, tracciati con molto realismo e messi in rilievo da vigorose ombreggiature. Tale

stile decorativo che probabilmente si deve al genio del Libro d'Ore del cosiddetto "Master

of Mary of Burgundy", forse identicabile con Alexander Bening, culminerà verso la ne

del Quattrocento nella magnicenza del  Breviario Grimani95, dovuto all'abilità di artisti

92 Chantilly, Musée Condé,Chantilly, Musée Condé, ms.65

93 Trittico Portinari, Firenze, Galleria degli Ufzi, HUGO VAN DER  GOES.

94  Legend of Saint Hubert , Londra, National Gallery95 Breviarum secundum consuetudinem Romanae Curiae, Venezia, Biblioteca Marciana, cod. lat. I. 99 (= 2138). 

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della scuola di Bruges e Ghent, conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia. Ma troverà

riscontro anche nei manoscritti di Jean Bourdichon, dove le decorazioni marginali sono di

evidente concezione botanica. Se il più certo e noto manoscritto di Bourdichon è il Libro

d'Ore96 , preparato tra il 1500 ed il 1508 per Anna di Bretagna e conservato alla Bibliothèque

 Nationale di Parigi, dai bordi marginali decorati con piante e ori con immagini di

considerevole bellezza che danno luogo ad un "precoce orilegio", occorre però tenere

 presente che Bourdichon, con tutto il suo amore per la natura e per i ori è prima un artista

e poi un botanico, per cui non si pone in alcun modo il problema di modicare uno stelo o

una foglia per rendere più lieto il suo spazio pittorico, così come di piegare le bianche gocce

di rugiada o l'incarnato dei ori alle sue preferite ombreggiature blu.

A lui è stata attribuita, ma con molti dubbi di carattere temporale più che stilistico, la

miniatura de Le Petites prières de Renée de France97 , tipico esempio di fregi marginali con

foglie, ori, bacche, farfalle e bruchi, miniato per Renata di Valois, glia del Re di Francia

e moglie di Ercole II d'Este.

La miniatura è comunque francese, forse attribuibile a Jean Perreal, Godefroy o Jeannet

Clouet, glio di Jean Clouet, e comunque ad un artista che in ogni caso appartiene alla

tradizione del Bourdichon e risente dell'inuenza del Clouet, e che sa trattare con levità

negli ornati dei fregi i toni dell'attenta, fedele, obbiettiva riproduzione della natura che,

come abbiamo visto, è tanto cara ai amminghi.

Analogo discorso vale per altri tre codici, uno di miniatura franco-amminga e gli altri

due amminghi, conservati dalla Biblioteca Estense Universitaria di Modena. Il primo è

un Ofcium B. Mariae Virginis98 del XV secolo in bastarda francese, con molte pagine

che hanno il margine esterno decorato da fregi contenenti ori, bacche, foglie stilizzate in

colori vivaci che vanno dal verde al viola, dall'azzurro al rosso scarlatto, in uno stile che

ricorda il decoratore99 di un codice della Bibliothèque Royale di Bruxelles. Il secondo, è

un altro Ofcium  B. Mariae Virginis,100 in gotica rotonda, del XVI secolo ineunte, con modidecorativi e stile proprio dei amminghi che si riscontrano in ogni pagina con carattere

unitario molto alto, sia nell'esecuzione della gura, sia nelle pagine contornate da fregi

a fondo paglierino grigio o rosso, cosparsi di ori, fragole, farfalle, bruchi e chiocciole,

con iniziali in oro o argento formate da foglie d'acanto su fondo di vario colore. Il terzo,

anch'esso un Ofcium B.Mariae Virginis101  in gotica rotonda, pure del XVI Secolo, ha

molti fregi marginali miniati con il consueto verismo ammingo che, su un fondo oro

opaco inserisce ori, frutti, uccelli, farfalle ed altri insetti, con uno stile chiaro, luminoso e

trasparente che fa pensare ad Alexandre Bening, attivo a Gand e a Bruges tra il 1468 ed il

1518.

Lo stesso tema di miniatura oreale, del tutto nalizzata all'aspetto decorativo confunzione di sfondo e di ornamento, ed ancora più stilizzata, lo troviamo in un esempio tipico

della miniatura ferrarese della metà del Quattrocento che trova fertile humus nella corte

Estense, già da quando Pisanello, indirettamente legato a quel Michelino da Besozzo (1388-

1450) che, tra il primo ed il secondo decennio del Quattrocento dipinge un  Libro d'Ore102 

96 Parigi, Bibliothéque Nationale de France,Parigi, Bibliothéque Nationale de France, ms. lat. 9474.

97 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. lat. 614 = α. U .2 .28

98 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms .lat. 804 = α. G. 9. 16 

99 Bruxelles, Bibliothèque Royale,Bruxelles, Bibliothèque Royale, ms. 9510.

100 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. lat. 825 = α. H. 9. 11

101 Ibidem.Ibidem. ms. lat. 853. = α. G. 9. 26 102 New York, Pierpont Morgan Library, ms New York, Pierpont Morgan Library, ms. 994

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conservato alla Pierpont Morgan Library, nel quale i ori delle cornici sono realizzati con

stile perfetto e con un cromatismo molto vicino al reale, dipinge il ritratto di Lionello d'Este

che ha sullo sfondo un roseto rafgurato con sorprendente realismo, ed il ritratto di Ginevra

d'Este su un fondale di aquilegie e garofani rappresentati altrettanto realisticamente. Sono

di gusto pisanelliano i ori che Guglielmo Giraldi minia nell' Aulo Gellio103  conservato

alla Biblioteca Ambrosiana eseguito nel 1448, o i ori multicolori che Angelo da Siena,

il Maccagnino, dipinge per incarico di Leonello nello studiolo di Belore ai piedi della

Musa Melpomene. Lo stesso dicasi per i pittori dell'epoca di Borso che, a partire dal 1450,

completano le Muse dello studiolo dove dipingono rafnatissimi rami di rose non recise,

e gigli aventi anche quella valenza simbolica che sarà presente specialmente nei dipinti

religiosi di epoca rinascimentale, rafgurando lo stesso Borso con una delicata rosa in

mano e vanno ad inuenzare l'opera dei più illustri miniatori del principe, Taddeo Crivelli

e Franco Russi che stanno per mettere mano alla Bibbia.

La miniatura ferrarese sull’onda di stilemi orentini riconoscibili nei rami stilizzati, i

cosiddetti "racemi", intrecciati di foglie e ori, che si ripetono per le carte del manoscritto

con un ritmo che sembra noiosa iterazione, ma che è solo sequenza musicale, riesce a

raggiungere notevoli risultati, avvalendosi di artisti di primaria grandezza, inuenzati da

Pisanello e da Piero della Francesca, da Cosmè Tura, da Francesco del Cossa e da Ercole

De Roberti, e tale da essere perfettamente individuabile, nel suo trapasso dalla civiltà tardo

gotica a quella rinascimentale.

 Ne sono esempi prestigiosi, quanto emblematici, quattro famosi codici estensi.

Il primo è la famosa Biblia latina nota come Bibbia di Borso104, presa in considerazione

in tale contesto per fornire un esempio tipico di giardino rinascimentale, e quindi nell'altra

chiave di lettura dell'amore che lega gli Estensi alla natura, ma che potrebbe benissimo

servire da esempio in chiave iconologica per la decorazione oreale stilizzata, fatta

soprattutto di rose e serti o singole, che invade le 1200 pagine attraverso le quali principidei miniatori quali Taddeo Crivelli, Guglielmo Giraldi, Franco Russi, Marco dell'Avogaro

e tanti altri, hanno rappresentato uno dei capolavori o forse il capolavoro della miniatura di

tutti i tempi, nella quale le preziosità tardo-gotiche si trasformano in sontuose rafnatezze

rinascimentali.

Il secondo è il Missale Romanum105 conosciuto universalmente come Messale di Borso 

d'Este, essendo stato confezionato per tale personaggio. Il codice, uno dei più squisiti

monumenti della miniatura ferrarese per la fusione di spiriti gotici e rinascimentali, dalla

quale emerge una sensibilità cromatica lievitata dai pittori amminghi come Roger van der

Weyden e con le chiarità mattinali ispirate da Piero della Francesca. In tutte le 628 pagine

membranacee del codice traspare tutto il gusto per la bellezza tipica del Rinascimentoferrarese, che si estrinseca con tutto il suo fulgore cromatico

Un  terzo codice risalente ai primissimi anni del Cinquecento è un    Breviarium,

conosciuto come Breviario di Ercole I 106  per il quale fu composto e che con le sue 491 carte

splendidamente decorate, riprendendo quell'amore per la natura e per i ori che sembrava

essersi interrotto dopo il 1470 con la morte di Borso, è uno dei manoscritti della miniatura

ferrarese del periodo più tardo, che conosce già le sue più lontane proiezioni, così come

103 Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. SP. 10. 28.

104 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. lat. 422-423 = Ms. V. G. 12-13, 2 voll.

105 Ibidem, ms. lat. 239 =α. W. 5. 2106 Ibidem, ms. lat. 424 (= ms. V. G. 11)

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tutta questa forma d'arte come genere illustrativo, modicata e alterata da sopravvenuti

motivi amminghi e lombardi. Così Matteo da Milano, Tommaso da Modena ed un terzo

miniatore non identicato, danno vita, tra il 1502 ed il 1504, sia pure con disuguaglianze

stilistiche, ad un complesso di alto valore artistico che, offrendo l'epicedio della miniatura

 primo-rinascimentale di origine o almeno di gusto ferrarese, sa rivaleggiare con la Bibbia.

Agli stessi maestri è da attribuire un quarto codice, un Ofcium Beatae Mariae Virginis,

meglio noto come il Libro d'Ore di Alfonso I, oggi conservato in parte a Lisbona e in parte a

Zagabria107, nelle cornici del quale compaiono gli identici elementi naturalistici del Breviario con ori, foglie, frutti, del più fantasioso e moderno Matteo che abbandona i tradizionali

fregi a ligrana con foglie, ori stilizzati e bottoncini d'oro che, come già sottolineato,

caratterizzano tutta la miniatura ferrarese del Quattrocento, costituendo un'inconfondibile

quanto colorata griglia che racchiude le pagine dei codici o semplicemente ne adorna un

solo lato.

Mentre questi codici di lusso recepiscono, perpetuano e trasmettono, tra il Quattrocento

ed il Cinquecento, l'immagine naturalistica attraverso miniature di alto stile che spesso

hanno solo valenza artistica, ma che altre volte non tralasciano quella scientico-botanico,

rappresentata con un tale verismo che fa ipotizzare, non a torto, il cimento parallelo di alcuni

artisti anche nell'illustrazione di libri scientici, l'altro lone più propriamente scientico,

quello degli erbari e dei tacuini, trova sbocco, sulla via parallela, in opere che, se a volte

non possono essere denite miniate, hanno un altissimo valore artistico che nalizza quello

 perseguito dalla botanica.

Agli ultimi decenni del Secolo XIV ed ai primi anni del XV risalgono i tre Tacuini oggi

noti: i Tacuina Sanitatis di Vienna e di Parigi ed il Theatrum Sanitatis di Roma.

L'artista che più si avvicina per lo stile illustrativo a quello dei tre manoscritti, è

quel Giovannino de' Grassi, pittore e miniatore milanese che anticipa il Pisanello per la

rappresentazione naturalistica degli animali e che compie molti studi e rafgurazioni diori, come si evince da alcune pagine da lui miniate dell’ Historia Plautorum ms. 459

dalla Biblioteca Casanatense di Roma. Anche se la critica più recente, che fa capo a Pietro

Toesca108, attribuisce i caratteri distintivi alla scuola lombarda e più precisamente alla scuola

di Giovannino de' Grassi, di Franco e Filippo de' Veri, e di Anovelo da Imbonate, mentre

secondo Mario Salmi109 è riconoscibile la mano di Salomone de' Grassi, glio di Giovannino,

è possibile avanzare l'affascinante ipotesi di una derivazione dei tre manoscritti da un

unico archetipo costituito da un Taccuino di disegni dell'Accademia Carrara di Bergamo,

attribuito proprio a Giovannino de' Grassi e contenente gure e scene che potrebbero essere

studi preliminari per un Tacuinum Sanitatis.

Dei tre Tacuini il Theatrum Sanitatis Casanatense110

, che è vicino al viennese per leillustrazioni e al parigino per il testo, anche se sono da escludere dirette derivazioni, nelle

sue illustrazioni si rivela il più aderente al testo, e con la essenzialità delle sue immagini,

107 Lisbona, Museo Calouste Sarkis Gulbenchian; Zagabria, Galerija Strossmayerova. Olim: Modena

Biblioteca Estense Universitaria , ms. VI. D. 7 , segnatura che compare nell’ex libris del frammento conservato

a Lisbona. Del prestigioso ms. è stato pubblicato a Modena per Il Bulino edizioni d’arte, nell’anno 2002

un facsimile che raggruppa i due frammenti, corredato da un minuzioso commentario curato da Ernesto

Milano.

108 P. TOESCA,  La pittura e la miniatura nella Lombardia dai più antichi monumenti alla metà del Quattrocento,

2° edizione a cura di E. Castelnuovo, Milano, 1982.

109 M. SALMI, La miniatura italiana, Milano 1955.110 Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 4182, edito in facsimile a Modena, nell’anno 2004.

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che seguono la comune tradizione iconograca, evitando generalmente le aggiunte di

fantasia, il miniatore tralascia spesso la gura umana, che, dove appare, è rappresentata con

grande verità: slano così grandi alberi da frutto con frutti a volte sproporzionati rispetto

alle piante sulle quali sono rafgurati, piante fruttifere, erbe odorose e radici commestibili,

fra cui sono inseriti anche i ori, il tutto in un complesso pittorico certamente ancora molto

stilizzato, ma di indubbia efcacia.

I due grandi erbari conservati a Modena, il Tractatus de herbis (Circa instans) in latino del

1458 e l’ Herbolaire o Grant Herbier  in francese, databile anch’esso, come abbiamo visto,

nel secolo XV, e più precisamente intorno al 1470-80, costituiscono due tappe fondamentali

 per la scienza naturalistica in genere e per quella botanica in particolare, in quanto si

avvalgono di una notevole ricchezza di immagini delle quali moltissime rappresentano

 piante con foglie, ori e radici.

L’esame dei due prestigiosi esemplari rivela però delle differenze sul piano

iconograco.

 Nel manoscritto latino si riscontra una maggiore varietà di immagini, ma al tempo stesso

una più accentrata stilizzazione e schemi più arcaici, come le radici dei semplici circondate

da insetti o da serpenti, derivati, come già evidenziato, per lo stile delle miniature, secondo

l’acuta osservazione di Otto Päct, da quel ms. Egerton 747  della British Library che precede

il lat. 993 di quasi centocinquanta anni nell’area sud o centro Italia. Nel codice francese

invece, si riscontra una minore varietà, ma una maggiore libertà di schemi, e un maggiore

verismo ed una maggiore nezza di esecuzione e dei colori più vivi, anche se l’artista nelle

391 miniature che corredano il manoscritto, non è sempre fedele al testo, ma a volte, come

gli accade, ad esempio, per l’“ Indicus” (g. 299 c.91v. I) e l’“ Incensaria” (g. 202 c.92r. II),

rappresenta piante del tutto diverse da quelle descritte dall’autore del testo. Lucia Tongiorgi

Tomasi111 avanza la tesi, abbastanza vicina al vero, secondo la quale “le numerose miniature

che corredano questi due manoscritti estensi, occupandone limitate proporzioni della paginaall’inizio del soggetto trattato non possono essere considerate delle immagini “dal vero”:

esse sembrano piuttosto derivate da precedenti codici visivi anche se vi si riscontrano una

serie di particolari naturalisticamente corretti”.

L’ Herbolaire si avvale di immagini differenti sotto il rapporto artistico. Infatti l’anonimo

artista, che conduce le miniature con una trasparenza e leggerezza di tinte che ancora oggi

conservano nei colori brillanti una tangibile freschezza, eccelle in alcuni quadretti nei

quali è presente la gura umana, intenta a lavori riguardanti l’estrazione di alcuni metalli

o essenze, come quella a c.3r. I, rafgurante un uomo che con una rete raccoglie piccoli

tronchi di aloe trasportati dalle acque azzurrine di un ume che scende dai monti; come

quella, a c.8r. II, che rappresenta un uomo che con un piccone scava la roccia per raccoglierel’antimonio; come quella a c.17v. II, dove un uomo, con una tunica rossa e calzoni turchini,

zappa una parete gialla per scavare il pigmento aurifero; come quella a c.25r. II dove un

uomo scava con una vanga per la raccolta del bolo e la tunica celeste della gura umana

contrasta con il colore bruno rossiccio del terreno; e ancora come quella a c.165r. I dove

un uomo davanti a una pianta di tribolo marino raccoglie con due mestoli la gomma che

cola dal tronco dell’albero versandola in un barile. La miniatura posta a c.150v. II che

rappresenta un uomo che scava con una zappa per la raccolta dello zolfo, pare avvicinarsi

allo stile di Jean Colombe.

111 L. TONGIORGI TOMASI, Rafgurazione naturalistica e immagine artistica, in: Immagine e natura…cit., pp.157-165

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Minore efcacia dimostra l’artista nel rappresentare una mummia in una bara (c.108r.

I) o la famosa Mandragora, in forma di donna posta alla radice di una piccola quercia con

ghiande o, ancor peggio, nel disegno quasi infantile di un edicio (c.167r. II) disegnato per

richiamare il vetro attraverso i vasetti esposti sulle nestre.

Ancora meno efcace e quasi ingenuo risulta il miniatore nel rafgurare animali come

il capodoglio (c.14v.), il castoro dorato (c.42r.) con una coda a forma di pesce; le due capre

muschiate al pascolo (c.113r. II); l’elefante su un prato (c.152v.). La rafgurazione dei vari

animali è spesso imprecisa e quasi infantile, mentre la miniatura che rappresenta le api che

volano intorno ad un alveare posto su un tavolo (c.111r. I) risulta veristica e di una certa

efcacia, così come il cervo accovacciato su un prato (c.127r. I), o la seppia (c.127r. II).

La stessa inefcacia e puerilità nel disegno, che spesso non permette di identicare

sicuramente, a prima vista, ciò che è stato rappresentato, l’artista dimostra nella

rappresentazione dei minerali o delle sostanze. Così è per l’amido a pezzetti entro una

tinozza (c.8r. I); per l’aceto entro un panciuto vaso d’argento con anse (c.16v. I); per i due

 pezzetti di asfalto di colore grigio scuro (c.18r. II); per le tre conchiglie abbastanza veridiche

(c.30r. I); per l’improbabile vaso marrone scuro contenente burro giallastro (c.31r. II); per i

due informi pezzi di canfora (c.36r. II); per la cerusa o or di piombo contenuto in un sacco

aperto di forma trapezoidale (c.39r. I); per l’appiattito ramo di corallo rosso (c.49v. I); per

l’informe pezzo trapezoidale di lapdame o gomma (c.93r. II); per il grande e altrettanto

informe pezzo di lapislazzulo venato d’oro come se avvolto da una rete (c.94r. I); per i

 piccoli pezzi di pietra magnetica di color azzurro scuro, di pietra indica di color grigio e di

 pietra lincia di colore rossastro (c.101r. I e II); per i pezzetti di pietra d’armenia di colore

grigio, di pietra di spugna di colore rosso scuro; di “ Lichedemonis” o pietra del demonio di

colore nero azzurro (c.102r. ); per i pezzetti di lacca di colore rossastro e che richiamano per

forma i precedenti minerali (c.104v. I); per i tre pezzetti gialli di mastice, anch’essi identici

nelle forme agli altri minerali; per i tre pezzetti di mirra di colore giallo bruno (c.115r. II); per il petrolio che scaturisce da una pietra di colore bruno (124r. III).

Anche se il miniatore ha quasi sempre presente la realtà nella rappresentazione delle varie

 piante medicinali, disegnate e colorate a tempera a corredo del testo esplicativo, genere che

riesce a rappresentare in maniera senza dubbio più efcace, tuttavia tale preoccupazione

naturalistica nisce, in alcuni casi, per prevalere sugli intenti artistici, facendoci pensare a

volte alla mano di un principiante e, non di rado, anche se l’effetto coloristico giocato sulla

 prevalenza dei verdi più o meno scuri, sul giallo o sul rosa dei orellini, e sul marrone delle

radici e dei rizomi, rimane sempre più che valido, dal punto di vista estetico, cade in eccessiva

stilizzazione delle foglie e delle radici nello scarso rispetto delle proporzioni tra tronco,

rami, foglie e frutti e nella ripetitività di forme e di immagini, specie per quanto si riferisceall’apparato radicale delle varie piante, con le radici a volte tracciate grossolanamente, o

addirittura a forma di mano (c.141r. II 2), forme più arcaiche derivategli probabilmente

dalla tradizione classica.

L’unica vera miniatura, che richiama quella di codici rafnati, riguarda la lettera “E”

iniziale dell’incipit  che è miniata in oro su fondo oro brunito e decorata all’interno con

motivi vegetali tra i quali spiccano frutti rosa e rossi. Il fregio marginale che circonda

l’iniziale presenta un intreccio di foglie stilizzate di color oro e turchino.

Ma anche le altre iniziali di piccole dimensioni che corredano gli indici dei semplici

aventi la medesima iniziale e gli inizi dei singoli capitoli e paragra, diffuse per tutte le

carte sono miniate con una certa rafnatezza attraverso l’uso dell’oro e del turchino e sonocompletate da un lieve disegno di color rosso o nero nemente tratteggiati a penna.

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Il miniatore sa però trovare un’ottima vena creativa nella rappresentazione di alcune

 pianticelle per la delicatezza del disegno e dei colori e per la veridicità e la correttezza della

rappresentazione: è così per la piantina di ibisco (c.20r. I), di rosa selvatica (c.21v. II), di

nocciolo (c.23v. I), di borragine (c.26r. II), di calidamia (c.60r. I), di caprifoglio (c.61r. I),

di scarola (c.65v. I), di fragola (c.75r. I), di garofanina (c.82v. II), di migliarino (c.83r. I),

di iris (c.89r. I), di malva (c.106v. I), di origano (c.125v. I), di papavero rosso (c.131r. I), di

vite (c.136v. I), di rosa (c.143r. I), di viola (c.166v. II).

 Non di rado però l’iconograa mostra piante del tutto simili, come nella rappresentazione

della pianta di ferula (c.78r. II) e di quella di galbano (c.81r. II), della felce maschio (c.74v.

I e c.78v. I), se non uguali come per la pianta di melograno ripetuta a c.110v. I e a c.11v. I.

Il discorso degli erbari illustrati più o meno efcacemente con miniature, può includere

ancora il Libro de componere herbe et fructi... del secolo XV di Giovanni Cadamosto da

Lodi, conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi ( Ms.it.1108), si può classicare tra i

Tacuina con le sue immagini di piante preponderanti rispetto al testo che trovano riscontro

nella realtà e si allontanano dai modelli più arcaici e ripetuti per secoli. Pur eseguito con una

certa rafnatezza, dovuta anche al fatto di essere un esemplare di presentazione e proiettato

verso una più moderna iconograa, conserva ancora qualche caratteristica stilistica propria

del gotico internazionale e qualche residuo concettuale derivante dagli erbari medievali.

Del resto anche altri erbari dei secoli XV e XVI non sono riusciti a liberarsi pienamente

almeno per quel che attiene al testo di molte "ricette" da superstizioni e stregonerie,

anche se nella parte iconologica è andata scomparendo la rappresentazione di radici in

forma zoomorca e antropomorca propria della simbologia medievale. Lo dimostrano

tre esemplari inediti conservati a Firenze, databili tra Quattrocento e Cinquecento, il  Ms.

 Ashburn 731, il Ms. Redi 165 della Biblioteca Laurenziana ed il Ms. C/168 della Biblioteca

Marucelliana.

Mentre continua, anche se va esaurendosi, l'illustrazione degli erbari manoscritti, alcunidei quali come il  Ms. Redi 165, vengono ancora composti nel Cinquecento, la grande

intuizione gutenberghiana che cambierà la storia dell'umanità e della cultura, dopo i primi

timidi passi si è imposta immettendosi con prepotenza sui binari della storia.

Con i multipli a stampa si pensa anche a nuovi modi di duplicare le immagini, necessità

alla quale soccorre la tecnica xilograca, che ha già dato segnali della sua esistenza n

dai primi anni del Quattrocento con i libri Tabellari o libri blocco dell' Apocalisse o delle

 Bibliae Pauperum, per poi affermarsi in parallelo con il decollare della stampa.

E’ da sottolineare che, per quanto riguarda in particolare l'illustrazione botanica, la

xilograa trova un precedente nelle " Ectypa plantarum", cioè immagini ottenute anch'esse

con una tecnica impressoria alla quale si sottopongono le stesse piante, cospargendole dinerofumo perché lascino impressa la loro immagine speculare su fogli di carta umida.

Tuttavia la xilograa, nel dare supporto al testo con la linearità e l'essenzialità delle

sue immagini giocate nel contesto del bianco e del nero, non sempre riesce a recepire il

carattere di novità che abbiamo visto aforare ed affermarsi in alcuni erbari manoscritti.

Per questo motivo il nuovo modo di illustrare i libri, seguendo il destino di tutte le tecniche

evolutive che non sempre e comunque conoscono uno sviluppo lineare in relazione a quello

cronologicamente considerato, ha quasi una stasi e compie un passo indietro, afdandosi

ad immagini ormai quasi scomparse dei manoscritti coevi, più rigide, più schematiche. Ciò

anche a causa dell'essenzialità insita nella xilograa e della sia pure temporanea, perdita

del vantaggio del colore che ammorbidisce e sfuma le piante, i ori, le foglie e che vienea recuperare qualche volta con una colorazione manuale, ma sempre adeguata a valida, e,

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come conseguenza primaria, si allontanano da quel realismo al quale alcuni erbari si sono

già avvicinati da decenni, vanicando quasi i frutti del travaglio umanistico.

Dopo il Das Buch der Natur  di Konrad von Megenberg, che nel 1475 inaugura il lone

dei libri a stampa con xilograe nalizzate all'illustrazione del testo, e tante prime edizioni

delle più importanti opere di botanica antica e medievale, le xilograe spesso ingenue

e poco realistiche dell' Apuleius Platonicus del 1483-84, sembrano proprio dimostrare

l'arretratezza iconograca oltreché scientica, anche a causa di un modo ancora errato di

 porsi passivamente di fronte alle fonti medievali da recepire e rispettare nelle loro varie

forme ed estrinsecazioni.

Per rendersene conto basta guardare la rafgurazione antromorca della Mandragora,

mostruosamente umanizzata con radici alle parti terminali degli arti e con un cespo di

foglie al posto della testa. L'alone di mistero e di magia che circonda questa pianta, sia pure

ridimensionata ed attenuata col passare del tempo dalla diretta osservazione della natura e

dall'affermarsi della scienza come tale, continuerà a persistere per secoli come sembrano

 provare i disegni a penna, tempera ed acquerello del Catalogo del Museo Settaliano, che,

in pieno Seicento mostrerà di non essersi ancora liberato completamente del retaggio del

 passato.

Sono dello stesso tenore le illustrazioni dell' Herbarius  in latino pubblicato da Pietro

Scöffer nel 1484, riguardanti piante della ora tedesca che, sebbene non prive di un certo

fascino decorativo, sono molto simmetriche e spesso piccole rispetto alle leggende, mentre i

ori sono spesso di dimensioni esagerate e le radici, quando sono gurate, sono pienamente

convenzionali. I disegni, così come il testo, non hanno alcuna connessione con quello

dell'Apuleio, ma è evidente che entrambi non sono un diretto derivato della natura che ci

circonda. La stessa cosa può dirsi per l' Herbarius in tedesco che Scöffer pubblica un anno

dopo rispetto all' Herbarius in latino e che può essere considerato indiscutibilmente il più

splendido ed importante degli erbari incunabuli.L’ Hortus sanitatis  maguntino del 1491, con il suo corpus di 1073 xilograe di

varie dimensioni, sembra confermare tale tendenza e, mostrando caratteristiche più

medievaleggianti rispetto all' Herbarius  in tedesco che pure lo anticipa di sei anni, non

compie decisivi passi in avanti, presentando immagini botaniche, zoologiche, e di minerali

in parte rozzamente copiate in scala ridotta da quello germanico, ancorate ad un passato

che, per l'aspetto iconograco, si perpetuerà no a metà del Cinquecento.

Sembrano invece più rispondenti al reale, ancorché schematiche ed essenziali, le

xilograe che illustrano il De Virtutibus herbarum veneziano del 1499, dal momento che

una loro disamina consente di identicare con una certa attendibilità il corrispondente in

natura. Non si discostano dai consueti canoni molto stilizzati che appena rendono riconoscibili

le piante rappresentate, le pur nitide xilograe di piccolo formato racchiuse in riquadri che

ornano il De Viribus herbarum di Macer Floridus, denominato anche "Macro Floridio" o

"Macro dei ori" nell’edizione ginevrina del 1500.

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