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Storie dall’arte – Polis www.scritturacome.com • [email protected] 1 Polis "La condizione umana viene definita tramite l'enigma e il simulacro che sono i corollari di questi fatti vitali: istinto sessuale, coscienza della morte, malinconia fisica generata dalla nozione di spazio-tempo." (S. Dalì: Declaration of the independence of the imagination and of man's right to his own madness.) La calotta del mondo era infuocata dal sole che, allo zenith, irradiava il suolo ammantato da nere scaglie di lava. Un fruscio lieve disturbava appena il silenzio incombente.

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Polis

"La condizione umana viene definita

tramite l'enigma e il simulacro che sono

i corollari di questi fatti vitali:

istinto sessuale, coscienza della morte,

malinconia fisica generata dalla nozione

di spazio-tempo."

(S. Dalì: Declaration of the independence

of the imagination and of man's right to

his own madness.)

La calotta del mondo era infuocata dal

sole che, allo zenith, irradiava il suolo

ammantato da nere scaglie di lava. Un

fruscio lieve disturbava appena il

silenzio incombente.

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Una mano, scura e rugosa come corteccia

d'albero, spuntava fra i drappi rossi

della veste di uno dei tre uomini, e

teneva una corona le cui perle venivano

respinte dal pollice unghiuto, una alla

volta, a contare cento passi. E così per

altri cento e cento ancora senza che

null'altro, oltre alla paziente cantilena

intonata dai tre uomini potesse fornire,

con la sua posizione, alcuna informazione

sul loro andare.

Quando le ombre dei tre saggi

cominciarono a disfarsi sul terreno per

inseguirne, ondulanti e silenziose, il

cammino, il più vecchio parlò: "Fra tre

grani vedremo la torre. Poi ci verranno a

prendere”.

Così fu. Presto, infatti, apparve

all'orizzonte un bagliore e poco dopo un

discoide che, ronzando a pochi metri da

terra, andava oscurando il suolo di un

enorme ombra grigia. Non appena questa

lambì i tre uomini, il velivolo rallentò

tanto da fermarsi. Dalla superficie

inferiore si staccò un portello che,

rimanendo agganciato per un lato, si

allungò silenzioso per permettere loro di

salire a bordo, uno dopo l'altro. Quindi,

recuperata quella sorta di palancola, la

navicella ripartì per dove era venuta.

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Vista dal cielo la torre brillava come un

diamante. Aveva la forma di una guglia e

sovrastava, prepotente e oscena, la

roccaforte avvolta da un'elica di mura

color del deserto. Nell’ultimo giro di

merli era racchiusa una piattaforma che,

oltre a contenere la base di quel

gigantesco cono d'acciaio, fungeva

all’occorrenza da avioporto. E lì, dopo

neanche un grano, atterrò il discoide.

Ad accogliere i tre saggi c'era il

premier, accompagnato dal guardasigilli.

Appena li videro i governanti si

profusero in inchini colmi di sacra

deferenza poi, come se nessuno li stesse

più osservando, si scambiarono gesti e

parole concitate, quasi che il loro

incontro concludesse un'attesa

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accompagnata da grande trepidazione.

Quindi si ricomposero, uno accanto

all’altro, in silenzio.

Mentre la navicella decollava per sparire

all'orizzonte, una nota prolungata

annunciò l'inizio della cerimonia. A quel

suono i tre uomini si prostrarono al

suolo con le braccia allargate e il palmo

delle mani aperto e poggiato per terra,

macchiando il terreno col colore delle

proprie sagome rese vaghe e incerte dal

vento della sera.

Da una porta, alla base della torre, uscì

un efebo vestito di verde, che sotto lo

sguardo vigile del premier, azionò una

piccola scatola nera che portava in mano.

A quel gesto una gigantesca ala d'oro

orientata verso est si levò, lungo una

linea immaginaria, fino al vertice della

guglia. Solo allora i saggi si alzarono

e, a due a due, si baciarono tre volte

mentre l'efebo consegnava quella sorta di

telecomando al guardasigilli.

Dalla stessa porta uscirono a passo di

corsa quattro trombettieri che dopo

essersi disposti due per parte iniziarono

a suonare: al palazzo del governo tutto

era pronto per il solenne giuramento. Il

premier varcò la soglia seguito dai

sapienti e dal guardasigilli.

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La sala del giudizio era rettangolare,

rigorosamente orientata secondo i punti

cardinali. Tappeti verdi disegnavano per

terra una croce rivolta verso nord dove

era stato alloggiato il trono del

premier, sublime e imponente presenza in

un aula disadorna di orpelli e simulacri.

Era inserito nel fianco destro di una

enorme scultura raffigurante un elefante

di bronzo con le gambe scheletriche,

formate ciascuna da tre tibie filiformi e

rugose, terminanti con zoccoli da

cavallo. L'elefante, con la proboscide

alzata e la coda svolazzante, portava sul

dorso un obelisco di marmo dorato

sorretto da una sella che accompagnava il

fianco del pachiderma a guisa di

alloggiamento per la regale seduta.

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Il premier entrò dalla porta a nord e, al

suo apparire, le persone sedute nel coro

alloggiato ai lati dell'entrata si

alzarono in piedi. Regalmente egli

percorse tutta l’aula fino a raggiungere

la parete di fondo, dove era ad

attenderlo il guardasigilli con altri

componenti del governo. Piegò appena il

capo in segno di assenso e di saluto, poi

si sedette con accanto il ministro e gli

altri dignitari.

Per tre secondi echeggiò una sirena

bitonale, poi di nuovo fu silenzio. Un

uomo entrò dalla porta ovest. Con

incedere goffo e nervoso si portò fino a

metà del braccio principale della croce

e, dopo essersi inchinato alle

rappresentanze del governo tutto, prese

posto su un piccolo e rozzo scanno dietro

una balaustra alloggiata sulla parete a

sinistra del trono. Subito dopo dalla

porta est entrarono i saggi, lentamente,

molto lentamente. Il loro incedere era

cadenzato da una litania intonata

sottovoce dai presenti. Si disposero uno

accanto all'altro perpendicolarmente

all'asse principale dell'aula, rivolti

verso il trono. L'aria già cominciava a

profumare di incenso quando il premier si

alzò e batté le mani tre volte.

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Tre figure femminili uscirono dal retro

del trono per andare incontro ai tre

uomini. Erano identiche, indistinguibili.

Avevano il capo coperto di bianco, come

la tuta che inguainava i loro corpi. Si

muovevano all'unisono, un unico

fotogramma riproposto tre volte. Sul

braccio destro piegato portavano teli

bianchi e cordoni.

Il pubblico continuava a intonare la

stessa litania che all'entrata delle

donne, aveva assunto un timbro più sonoro

e ora un ritmo più incalzante.

I tre saggi, deposte a terra le proprie

vesti indossarono i teli portati dalle

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donne fermandoli in vita con i cordoni.

Poi unirono fra loro i palmi delle mani

rivolgendoli dapprima verso l'alto, poi

verso il basso, assumendo la posizione

della spada. In quell’istante il pubblico

tacque e i tre cominciarono a recitare la

formula.

"Il silenzio del deserto ha dato voce

alla nostra coscienza, il sole ha seccato

i nostri pregiudizi, il sonno toglierà

peso alle nostra membra. Siamo stati

chiamati per giudicare. Lo faremo."

Si girarono verso l'uomo che dallo scanno

si levò in piedi, si portò davanti alla

balaustra e chinò la testa con le mani

giunte verso il basso.

Solo il più vecchio riprese a parlare.

"Ci presentiamo nella nostra umiltà. Se

sarà ritenuto colpevole, nessun’arma,

oltre la ragione, sarà usata contro di

lui. Se sarà innocente nessun premio

oltre all'assenso sarà concesso. Domani

avrà luogo il giudizio. Il rito prevede

che l’accusato debba alloggiare in una

stanza da solo, guardato a vista da un

replicante clonato a tale scopo, senza

alcuna possibilità di comunicare.

All'alba ucciderà il suo guardiano e lo

depositerà sull'ara allestita al centro

dell'aula per bruciarlo. Poi, se non

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intenderà avvalersi di un difensore potrà

parlare."

"Così sarà fatto", tuonò il premier.

Un clone uscì dal retro del trono per

andare incontro all’imputato. Insieme si

spostarono al centro della sala, si

inchinarono prima verso il trono, poi

verso il pubblico e uscirono. Li

seguirono i tre saggi e a loro volta il

premier e il guardasigilli. Poi anche il

pubblico lasciò l’aula, mentre la luce

diventava sempre più fioca fino a far

buio.

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Dall'ara allestita al centro dell'aula si

levava ancora un filo di fumo, quando

l'uomo cominciò a parlare.

"Sono un fallito. Così avete detto. Lo

avete detto convinti, senza ombra di

dubbio. Sono lusingato dal vostro

giudizio. Ciò vuol dire che la mia indole

si è finalmente realizzata e la cosa mi

arreca un sottile piacere.

Voi sostenete che essere un fallito sia

una colpa, un atto contrario alla legge,

un reato, o forse solo un peccato, uno

sbaglio o un fallo, una negligenza che

determina effetti nocivi.

È possibile, signori, come è possibile

che i colpevoli siate Voi. I saggi

giudicheranno me per la mia natura, e voi

per le vostre leggi.

Voi sostenete che la mia sia una colpa

grave e ciò vi autorizza a rendermi

oggetto di vituperio e di ludibrio agli

occhi della gente che qui è accorsa per

vedere l'uomo umano, l'uomo fallace, il

mostro a due teste.

Voi non mi accusate di aver fallito, non

considerate colpa grave mancare un

bersaglio perché altri mille sono pronti

a colpire. Non è atto contrario alla

legge non riuscire a portare a termine

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un'impresa, qualcuno lo farà sfruttando

il lavoro già compiuto.

Mi accusate invece di essere un fallito

ossia una persona che nella vita non ha

mai concluso alcunché di buono o di

utile. Una sola cosa buona od utile

sarebbe bastata a scagionarmi dalle

vostre accuse. Il capo d’accusa è,

quindi, una precisa omissione. Affinché

io possa essere giudicato colpevole

occorrerà che voi dimostriate in quale

specifica circostanza io avrei dovuto

fare qualcosa di buono o utile, e

soprattutto cosa sarebbe stata da voi

giudicata buona e utile.

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Voi non mi avete accusato di ignavia, non

é il torpore morale che vi indigna. Voi

infatti assolvete gli ignavi. La loro

sostanziale incapacità di agire vi

rassicura e non vi impegna. Loro non

hanno bisogno di nemici per esservi

fedeli. Sono naturalmente dotati di

quella bontà intransitiva che li rende

trasparenti. Sono loro i buoni.

Io non sono stato accusato di non essere

buono, ma di non aver fatto qualcosa di

buono. Avendo l'uso della ragione e della

volontà, che peraltro mi dà il diritto a

difendermi da solo, avrei dovuto

decidere, a un certo punto della mia

vita, di fare qualcosa di buono o di

utile, cosa che sicuramente hanno fatto

tutte le persone che si stanno scagliando

contro di me.

Mi chiedo quale azione sarebbe stata da

Voi giudicata buona od utile. Avrei forse

dovuto cercarmi anch'io un nemico?

Qualunque battaglia avessi intrapreso mi

avrebbe assolto ai vostri occhi. Avrei

dovuto difendermi o attaccare, essere

detestabile o detestare, e questo secondo

voi è cosa buona e utile. Voi infatti

considerate nobile misurarsi in una

contesa per essere reputato il migliore

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rispetto a un canone da Voi stessi

stabilito, per meritare il premio offerto

dalla vostra benevolenza, maschera di un

potere esercitato con l'inganno. Ma è

stato proprio il vostro potere a

edificare la mia colpa. Sapete bene che

la vostra scelleratezza non avrebbe mai

potuto costituire modello ideale per

alcuno; avreste potuto darvi una veste di

onestà, proporvi come un valore, ma lo

avete sempre considerato dispendioso e

inutile. La gente non ama essere

depositaria di una virtù. È troppo

faticoso. Una sola cosa è in grado di

fare la gente: salvare la pelle. Solo per

questo sarebbe disposta ad armarsi tutta

insieme e a lottare contro chi mette in

discussione i suoi privilegi. E allora

tanto vale darle un nemico piuttosto che

un valore.

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Eccovi serviti, signori. Sono io il

nemico. È mia la colpa dei mali di questa

città. Solo mia. Lasciate che i Vostri

sudditi si scaglino contro di me, sono io

il colpevole, non loro. Sono io la

salvezza. Nessuno di loro sarà più

infelice finché avrà un antagonista,

perché altro da sé occuperà i suoi

pensieri.

Senza di me il vostro potere non sarebbe

più credibile. Io sono il confine della

vostra perfezione. La forfora, la miopia,

le carni bianche e flaccide sono il

frutto della mia disobbedienza civile.

Non mi sono piegato ai prodigi della

vostra ricerca, mi rifiuto di utilizzare

gli strumenti della vostra tecnologia.

Ciò vi offende, ma é comunque strumentale

alla vostra egemonia. Io sono l'esempio

di quello che non si deve fare. Vi pare

poco? Sono io l'uomo mediocre, l'uomo che

non può e non vuole misurarsi. Io non

sono valutabile in termini di

coefficienti, indici o cifre, per questo

sono un fallito. È vero. Non ho comprato

figli belli e intelligenti. Per averli ho

inseminato una donna penetrandola con il

mio membro turgido, ho sentito il suo

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grido e il suo ansimare sotto di me. I

nostri corpi sfiniti e imbrattati di

liquidi si sono staccati e il suo ventre

é ingrossato fino a espellere come un

escremento nostro figlio fra sangue e

altri liquami. Nessuna provetta ha

mostrato ai vostri occhi il miracolo

della creazione. Nessuna teca di

cristallo ha cullato l'embrione perfetto

che sarebbe diventato ciò che il sistema

richiedeva.

Mio figlio é un agglomerato di cellule

senza scopo a cui, inutilmente, ho

insegnato a leggere e a scrivere.

Inutilmente perché, secondo Voi, il mondo

non ha bisogno della parola scritta né da

Voi né da altri prima di Voi. I computer

intendono la voce. I vostri ingegneri

hanno fatto miracoli in questo. Ogni

entità è in grado di emettere suoni che

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corrispondono a comandi. Le vostre banche

dati suppliscono ogni memoria umana, a

voi non serve conoscere. La vostra

identità è racchiusa nei chip delle

intelligenze artificiali, a voi non serve

coscienza. La vostra esistenza si

ripropone identica da secoli, rigidamente

controllata da elaboratori che

ottimizzano il rapporto fra costi ed

efficienza. Nessun rimpianto per una

entità rottamata, altre uguali

svolgeranno lo stesso ruolo, avranno le

stesse sembianze. Voi non conoscete né la

morte né il tempo, i vostri replicanti

non invecchiano, non si ammalano e non

muoiono. Nessuna emozione potrebbe mai

minacciare il vostro umore, perché nulla

costituisce evento che non sia già stato

previsto e programmato dai vostri

computer.

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Ma un tempo, quando morivano e scrivevano

libri sulla morte e sulla vita, gli

uomini si commuovevano e soffrivano.

Avevano forse un motivo per vivere e per

morire. Io sono l'ultimo di quegli

uomini, vivo e muoio come un fallito,

come uno che mai ha fatto nulla per

essere qualcosa di diverso da chi vive

elemosinando chip e raccontando alla

gente del tempo in cui esisteva il tempo,

che discreto leniva malinconie e

commozioni. Vivo delle parole che altri

hanno scritto e che so leggere e

interpretare. Di esse do sfoggio come

scimmia da circo a chi vuol vedere e

sentire l'uomo che parla, che racconta

storie di uomini che conoscevano la vita

tramite il sesso, e la morte, e il tempo,

che molle si adagiava sulla loro

esistenza. Io morirò senza cloni. Il

magma morbido delle mie membra si

dissolverà nel tempo come cera al sole e

la sabbia del deserto ne raccoglierà i

liquidi; e i vermi, bianchi e tutti

uguali come i vostri replicanti,

pulluleranno e nutriranno rettili e

rapaci. Il sole accoglierà la mia morte

come il gelo ha generato la vostra vita.

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Per voi non esiste morte e non esiste

tempo..."

Distolto da un inquietante brusio, l'uomo

smise di parlare e si voltò verso il

pubblico che, abbandonata la protervia

accusatrice, era preda di sgomento e

confusione. La gente parlottava, tremava,

si abbracciava, additava qualcuno e poi

guardava lontano. Indicava la corte e poi

si guardava intorno cercando conforto o

consensi. I saggi in piedi rivolgevano

inquieti lo sguardo prima al pubblico e

poi verso la corte che, numerosa, si

affollava intorno al trono.

Il suono di una sirena echeggiò

nell'aula, ma non riportò la calma.

Indignato per quella assurda circostanza

il premier si alzò di scatto e,

gesticolando nervosamente, cercò di farsi

strada fra i suoi ministri che ossequiosi

tentavano di rassicurarlo. Raggiunse i

tre saggi e a essi si rivolse con la

collera di chi è costretto a subire

l’altrui incapacità; la voce gli uscì dal

petto concitata e tremante e le parole

vaghe e confuse. Era la prima volta che

succedeva. Si era verificato un guasto

nei cloni. I loro occhi lacrimavano. I

loro corpi sussultavano. Piangevano. Si

commuovevano. C'era stato un guasto,

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catastrofico, epidemico. Un virus aveva

infettato i circuiti, o forse era stato

un sabotaggio. Gli ingegneri del gran

consiglio per la sicurezza sostenevano

che fino all'ultimo nanosecondo che aveva

preceduto la fuoriuscita di liquido dagli

occhi, nessuna variazione energetica era

stata riscontrata nei circuiti. Altra

energia, non registrabile dai loro

apparecchi, li aveva infettati. La

situazione era critica, molto critica e

al momento non si intravedevano né rimedi

né misure d’emergenza.

I cloni, come entità oniriche, presero a

vagare per l’aula emettendo suoni e

lamenti. Qualcuno di loro andava

ripetendo le parole dell’imputato e tutti

i presenti, compresi i dignitari,

parevano subire quell’inquinamento

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emotivo provocato chissà da cosa. E tutti

insieme, e con gli stessi gemiti,

andavano recitando la loro sofferenza.

"È venuto il tempo in cui non c'è più

tempo", disse uno di loro, mostrando le

sue mani che rapidamente diventavano

rugose e deformi "La mia vita la vivrò in

un minuto. Guardate la vita di un clone

malato, un clone malato di vita

condannato a morire." Poi si accasciò per

terra, continuando a invecchiare. Le sue

carni si rattrappirono, si mummificarono,

divennero polvere, poi più nulla. E altri

come lui, e altri ancora. L'imputato si

buttò in ginocchio e a mani giunte iniziò

a proferire parole sommessamente,

ondeggiando con il busto per assecondarne

il suono:

contro la semplicità per la complessità

contro l'uniformità per la

diversificazione

contro i collettivo per l'individuale

contro la politica per la metafisica

contro la natura per l'estetica

contro il progresso per l’eternità1

A quelle parole i tre saggi ripresero il

loro posto sugli scranni davanti

                                                                                                               1 Da Ramon Gomez de la Serna “Dalì” Arnoldo Mondadori Editore – La mia lotta, litania attribuita al pittore liberamente riportata

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all’imputato. Si raccolsero vicini, come

in preghiera, mentre i cloni ormai in

decomposizione, si spargevano per l’aula

accompagnati dal rimpianto di un

esistenza bruciata per un attimo di

libertà.

I pochi rimasti, o sopravvissuti, si

rifugiarono accanto all’elefante di

marmo. Più nessuno parlava, più nessuno

gemeva. Solo polvere e silenzio. I tre

saggi si levarono e uno dopo l'altro

percorsero a testa bassa l'aula per

raggiungere anch’essi la parete del

trono. Li si presero per mano allargando

le braccia. Il più vecchio parlò:

"Non è più tempo per il giudizio. Esso si

è compiuto a dispetto di ogni rito. Non è

più tempo della ragione. Questa ha ucciso

se stessa. È tempo di compassione. Sappia

ogni vivente che la salvezza dell'umanità

è la morte: salviamo l'uomo che muore."

P. S. Del premier nessuna traccia oltre

all’anello d'oro confuso in un mucchio di

polvere alle spalle del trono.