POESIA ITALIANA - unisi.it · de le soglie della persona per guadagna-re, apocalitticamente,...

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semicerchio 128 Poesia italiana rivista di poesia comparata X X X-XXXI 2004 POESIA ITALIANA a cura di Fabio Zinelli AA.VV., Altri Salmi, a cura di MA- RIA GERVASIO e LUCA EGIDI, Bolo- gna, Gallo&Calzati Editore (Collana di Poesia Forestiera Bologna) 2004, pp. 142 + STEFANO MASSARI, Salmo del- l’Attesa, VHS. Il sistema della parola corredata dal- l’immagine, a complemento delle parole per dire forte ciò che è necessario, è stru- mento editoriale non nuovo. L’intreccio mediologico è felice nell’efficacia espres- siva benché al contempo amara nel senso di cui dà conto. I due modi si coniugano egregiamente e convergono a uno stesso stupore indignato al cospetto delle repli- che illimitate che l’uomo dà dello spetta- colo di sé su questo atomo opaco del male. Il Salmo dell’Attesa girato in tre frazioni da Stefano Massari è un cortome- traggio (20’) che del male ordisce una collezione di prove a carico e lo filma smangiando il fotogramma come sciolto da fiamme infernali in cui l’attore-uomo si aggira in tempi e luoghi diversi ma si- mili perso nella sua perversione preterin- tenzionale, dedito a sole azioni di distru- zione (a)progettuale. Ed è questo senso di primitivismo umano a segnare la poesia diversamente salmodiante di questo libro legato al corto di Massari. Il quale libro è un documento. Contiene uno degli ultimi contributi della poetessa Giovanna Sicari morta l’ultimo giorno dello scorso anno: il suo salmo Osanna della distanza (an- che in Epoca Immobile, Jaca Book, libro tanto atteso dalla Sicari e di pochissimo postumo) è un inno vibrante di pena e al- legria: allude vertiginosamente alla mor- te, e ne ride o meglio la irride. Invoca il perdono per i reiterati peccati (sarebbe meglio dire: i reati) dell’umanità contro l’amore e per la nostra dote paradossale di produrre sciagure. Nell’Osanna trova voce limpida il grido rotto della creatura. In questa chiave trova udienza una sorta di Spoon River pescarese intonato da Anna Cascella (Salmo della Lontananza) in lotta pacificata per la riconquista della propria identità completa. E nello stesso tempo è gridata l’invocazione, una vera e propria preghiera di morte, pronunciata da Salvatore Jemma, o il Sussurro bologne- se di Raffaello Baldini con sberleffo finale che smonta ogni residua (di)speranza. Su tutto aleggia e tuona il salmo a consunti- vo intonato da Roberto Roversi al Dicem- bre 2003, sdegno urlato da un ottuagena- rio ben vivo ai Masters of War che si ri- piega stanco e imbattuto, tuttora in attesa che, anche tardi, però alla fine faccia gior- no. E trovano un posto all’interno di que- sto coro sommesso e insistente di voci umane le sinestetiche prescrizioni detta- te da Bruno Brunini Dalla Parte Della Notte, il Salmo 151 (di Yusuf) di Giusep- pe Conte, e il recitativo di pasqua ebraica di Silvia Bre in cui il passaggio cruento dell’Angelo di Dio si traduce in canto lai- co e civile. È questa la notizia sull’esisten- te cui perviene questa croce di fiammelle vive che a turno salmodiano intonando il canto: tutto ciò che sfondava in uno spa- zio infinito predisposto per l’Uomo da Dio è aggiornato al sentimento sfinito del destino umano avvitato sui propri limiti sconfinati e definitivamente consegnato al dettato civile. Daniela Matronola ANTONELLA ANEDDA, Il catalogo della gioia, Roma, Donzelli 2003, pp. 115, A 11,00. Il Catalogo della gioia è un libro la cui struttura è raccolta entro il perimetro del- l’isola de La Maddalena, luogo in cui la memoria del soggetto si riflette nei fram- menti della concretezza dell’esistenza. Si tratta di un catalogo, un indice che com- bina e propone destini possibili che «chiunque, leggendo, può aggiungere o cancellare». Poesia combinatoria incardi- nata sull’istante della scrittura, in cui, nella mappatura che recupera quanto al- trimenti l’essere lascia scorrere, coincido- no passato e ricordo. La parola di Anto- nella Anedda è ungarettianamente scava- ta nell’abisso dell’attimo vivo, posta sul nudo candore della pagina, il cui corpo circonda, avvolge e, al tempo stesso, schiude al vibrante contatto con il meta- spazio della pareysoniana «spiritualità personale», della reattività dell’interno personologico all’esterno relazionale. Una scrittura la cui poetica risiede nel capire, per ricostruire il mosaico del- l’esperienza vitale, nel catalogare attra- verso un’architettura che è un labirinto geometrico di corrispondenze tra ciò che è di qua e ciò che è di là della scrittura. Lo stream of perceptions del soggetto è recensito fisicamente dalla penna, proce- dendo per ecfrasi, enumerando la «felici- tà terrena» associata al «soffio che fugge dalle labbra», alla «fiducia dei fiori che si flettono quando scende il sole» e del «fulmine» (Ivi, p. 55), nella condizione della maternità, come in Figlia (a mia fi- glia). Poesia scritta sulla «carnicità dello spirito», secondo Matteo Corrias, il cui stile è condizionato fisiologicamente, che possiede un ritmo pressante e irriducibi- le, fondato sulla dimensione esperienzia- le, sulla fisicità della parola. Il catalogo della gioia è suddiviso in alfabetiche sot- tounità: I, S, O, L, A, N, C, V, R, M, T, F, P, G e ciascuna di queste unità contiene uno o più pezzi poetici. Come appare chiaro, «le prime cinque iniziali di lette- ra del catalogo formano la parola: isola»; meno immediato, ma reso parimenti chia- ro dalla dichiarazione dell’autrice, il fat- to che «da là soffiano tutte le altre lette- re» (ibidem). Al principio di ciascuna se- zione del catalogo è posta una prosa pro- grammatica che introduce, usando le pa- role di Corrias, «alla sonorità fonetica del gruppo di poesie in essa contenute: sono- rità insieme spirituale e fonetica, nella

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POESIA ITALIANAa cura di Fabio Zinelli

AA.VV., Altri Salmi, a cura di MA-RIA GERVASIO e LUCA EGIDI, Bolo-gna, Gallo&Calzati Editore (Collana diPoesia Forestiera Bologna) 2004, pp. 142+ STEFANO MASSARI, Salmo del-l’Attesa, VHS.

Il sistema della parola corredata dal-l’immagine, a complemento delle paroleper dire forte ciò che è necessario, è stru-mento editoriale non nuovo. L’intrecciomediologico è felice nell’efficacia espres-siva benché al contempo amara nel sensodi cui dà conto. I due modi si coniuganoegregiamente e convergono a uno stessostupore indignato al cospetto delle repli-che illimitate che l’uomo dà dello spetta-colo di sé su questo atomo opaco delmale. Il Salmo dell’Attesa girato in trefrazioni da Stefano Massari è un cortome-traggio (20’) che del male ordisce unacollezione di prove a carico e lo filmasmangiando il fotogramma come scioltoda fiamme infernali in cui l’attore-uomosi aggira in tempi e luoghi diversi ma si-mili perso nella sua perversione preterin-tenzionale, dedito a sole azioni di distru-zione (a)progettuale. Ed è questo senso diprimitivismo umano a segnare la poesiadiversamente salmodiante di questo librolegato al corto di Massari. Il quale libro èun documento. Contiene uno degli ultimicontributi della poetessa Giovanna Sicarimorta l’ultimo giorno dello scorso anno:il suo salmo Osanna della distanza (an-che in Epoca Immobile, Jaca Book, librotanto atteso dalla Sicari e di pochissimopostumo) è un inno vibrante di pena e al-legria: allude vertiginosamente alla mor-te, e ne ride o meglio la irride. Invoca ilperdono per i reiterati peccati (sarebbemeglio dire: i reati) dell’umanità control’amore e per la nostra dote paradossaledi produrre sciagure. Nell’Osanna trovavoce limpida il grido rotto della creatura.In questa chiave trova udienza una sortadi Spoon River pescarese intonato daAnna Cascella (Salmo della Lontananza)in lotta pacificata per la riconquista dellapropria identità completa. E nello stessotempo è gridata l’invocazione, una vera epropria preghiera di morte, pronunciata daSalvatore Jemma, o il Sussurro bologne-

se di Raffaello Baldini con sberleffo finaleche smonta ogni residua (di)speranza. Sututto aleggia e tuona il salmo a consunti-vo intonato da Roberto Roversi al Dicem-bre 2003, sdegno urlato da un ottuagena-rio ben vivo ai Masters of War che si ri-piega stanco e imbattuto, tuttora in attesache, anche tardi, però alla fine faccia gior-no. E trovano un posto all’interno di que-sto coro sommesso e insistente di vociumane le sinestetiche prescrizioni detta-te da Bruno Brunini Dalla Parte DellaNotte, il Salmo 151 (di Yusuf) di Giusep-pe Conte, e il recitativo di pasqua ebraicadi Silvia Bre in cui il passaggio cruentodell’Angelo di Dio si traduce in canto lai-co e civile. È questa la notizia sull’esisten-te cui perviene questa croce di fiammellevive che a turno salmodiano intonando ilcanto: tutto ciò che sfondava in uno spa-zio infinito predisposto per l’Uomo daDio è aggiornato al sentimento sfinito deldestino umano avvitato sui propri limitisconfinati e definitivamente consegnato aldettato civile.

Daniela Matronola

ANTONELLA ANEDDA, Il catalogodella gioia, Roma, Donzelli 2003, pp.115, � 11,00.

Il Catalogo della gioia è un libro la cuistruttura è raccolta entro il perimetro del-l’isola de La Maddalena, luogo in cui la

memoria del soggetto si riflette nei fram-menti della concretezza dell’esistenza. Sitratta di un catalogo, un indice che com-bina e propone destini possibili che«chiunque, leggendo, può aggiungere ocancellare». Poesia combinatoria incardi-nata sull’istante della scrittura, in cui,nella mappatura che recupera quanto al-trimenti l’essere lascia scorrere, coincido-no passato e ricordo. La parola di Anto-nella Anedda è ungarettianamente scava-ta nell’abisso dell’attimo vivo, posta sulnudo candore della pagina, il cui corpocirconda, avvolge e, al tempo stesso,schiude al vibrante contatto con il meta-spazio della pareysoniana «spiritualitàpersonale», della reattività dell’internopersonologico all’esterno relazionale.Una scrittura la cui poetica risiede nelcapire, per ricostruire il mosaico del-l’esperienza vitale, nel catalogare attra-verso un’architettura che è un labirintogeometrico di corrispondenze tra ciò cheè di qua e ciò che è di là della scrittura.Lo stream of perceptions del soggetto èrecensito fisicamente dalla penna, proce-dendo per ecfrasi, enumerando la «felici-tà terrena» associata al «soffio che fuggedalle labbra», alla «fiducia dei fiori chesi flettono quando scende il sole» e del«fulmine» (Ivi, p. 55), nella condizionedella maternità, come in Figlia (a mia fi-glia). Poesia scritta sulla «carnicità dellospirito», secondo Matteo Corrias, il cuistile è condizionato fisiologicamente, chepossiede un ritmo pressante e irriducibi-le, fondato sulla dimensione esperienzia-le, sulla fisicità della parola. Il catalogodella gioia è suddiviso in alfabetiche sot-tounità: I, S, O, L, A, N, C, V, R, M, T, F,P, G e ciascuna di queste unità contieneuno o più pezzi poetici. Come apparechiaro, «le prime cinque iniziali di lette-ra del catalogo formano la parola: isola»;meno immediato, ma reso parimenti chia-ro dalla dichiarazione dell’autrice, il fat-to che «da là soffiano tutte le altre lette-re» (ibidem). Al principio di ciascuna se-zione del catalogo è posta una prosa pro-grammatica che introduce, usando le pa-role di Corrias, «alla sonorità fonetica delgruppo di poesie in essa contenute: sono-rità insieme spirituale e fonetica, nella

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quale si restituisce alla percezione quan-to essa aveva consegnato alla parola. Equesto era chiaro (anche e soprattutto per-ché dichiarato), nel programma della giàcitata sottounità F del catalogo: «F. È lalettera della felicità terrena del soffio chefugge dalle labbra...»: felicità di madre, siè detto, e insieme soffio fonatorio, spea-ch act orolaringale, quindi semiotico».Come di fisicità si tratta nell’insistenzasul suono della o, fisicità della suggestio-ne viscerale ed olfattiva creata dal dire,dal dire quanto è detto: e la poesia sche-data entro la sezione è titolata, non a caso,Odori. Verificabile per ciascuna sottouni-tà, questa circolarità di percezione riposanella carne della voce, della mano che siabbassa sul piano, del sibilo del cuore nelsonno, delle viscere, del respiro, del-l’amore, del pianto, del dolore. Si trattadi un libro di ‘carne’, di ‘carni’, dovel’isola, La Maddalena, diventa archetipi-camente l’hortus conclusus entro il qua-le, nell’esegesi di Corrias, «chi catalogaosserva, trasceglie, trasfigura». Nel cor-po dell’isola si inscrivono luci, oggetti,odori, situazioni atmosferiche, scene quo-tidiane; proprio questo presente di cosepercepite attiva il ricordo, che associa etrasforma sguardi, sensazioni, tele, che«trasmutando tramanda» (Ivi, p. 51). Dal-l’isola soffia il resto catalogo, che all’isolaritorna. L’ultima sezione del libro s’inti-tola, infatti, Maddalena; tra i due estremidel recinto, l’isola verbale e formale (gra-fico-fonetica) del principio e l’isola rea-le, si situa il cuore del libro, la massaframmentaria dell’opera, caleidoscopica-mente svincolata da ogni statica tropico-linguistica (l’isola / I S O L A), e discipli-nata dalla forza contenitiva dei due poliestremi Il catalogo della gioia e Madda-lena. Il centro del libro è Frammenti, incui, per Corrias, «‘il male di vivere’ schiu-de le soglie della persona per guadagna-re, apocalitticamente, l’alterità cosmica(tra la tragedia di San Giuliano di Pugliae il crollo delle Twin Towers)». La zonadi maggior peso è decentrata verso la fine,nella sezione Senza vento: non di una purariflessione sulla poesia si tratta, ma di uncoinvolgimento di questa nel circolo del-la scrittura, secondo una genesi autono-ma, stavolta anaerobica: l’assenza di ven-to in questa regione dell’opera si riveladunque essere una precisa scelta strategi-ca che riannoda vissuto e scrittura (poeti-ca) sulla pagina. La parola mostra solocome la si possa piegare, ma a costo dipercepire sconforto e umiliazione. Cata-

logare la gioia con la poesia significa al-lora cogliere della gioia quanto la poesiaè in grado di cogliere dell’essere perce-pito, riattivato tramite il ricordo e affida-to al vento del verbo.

Tommaso Lisa

PIER LUIGI BACCHINI, Cerchid’acqua, Milano, Garzanti 2003, pp. 118,� 9,50.

Conclusasi la stagione delle libere pas-seggiate di Scritture vegetali, condotte aerborare e ad appuntarsi in versi lunghinuove scoperte e inusitati incontri, l’haiku– cerchio d’acqua che per gradi si dilatain moltitudini, ma rimane, comunque,forma chiusa – segna per Bacchini il mo-mento del ritorno in un mondo delimita-to, rientro ai giardini del verso breve (daicui innesti talvolta germogliano con pu-dore classiche misure endecasillabiche),dove in perfetto rigoglio e tra olezzi sot-tili spuntano carnose creature dai nomipoco usati. Sophòre dai lunghi corimbi,pallide magnolie, flessili glicini, giacintigiovinetti, tumide peonie, gli emerocalli,terreni fratelli degli infernali asfòdeli, fre-sche e inodori, le sfere delle ortensie, igigli, trombe dorate e lampade dei morti,la tifa, fallica spiga eretta, la tuia, trali-gnante cipresso che spezza le pietre deisepolcri, quasi a farne uscire ante giudi-zio i corpi dei risorti... Con l’alternarsi difioriture e lente cadute di petali avvizziti,il verziere diviene quasi un micro-«siste-ma solare», dove ai tramonti e ai levamen-ti degli astri corrispondono le cicliche fasivegetative delle piante. Sempre la vitaappare sorgere come fenice da morte: cosìil «rugoso, inferto, olmo» rimette le suegemme, «vecchione» pascoliano che sirinverzica in butti novelli, così da un «granpianto» traggono linfa i tronchi virenti del«pianoro», mentre il sole, «oltremontano,o gassoso», pietosamente scalda e conso-la «questa d’erbe famiglia» e di «vivi».Due note chiare e argute, a dirci, dove sia-mo: in un giardino d’Oriente, tra le pic-cole aiuole di Cio-Cio-San, la cui rama-glia ischeletrita dai mille tintinni s’intrec-cia, però, fino a divenire inestricabile tra-ma, con i lillà già dipinti alla maniera di«paravento» di un luogo dannunziano:l’hortulus e le stanze solitarie di Villalil-la. L’estenuante cobbola dell’usignolodell’Innocente, che sembra raggiungerecompiutezza nel sorgere del rorido Luci-fero, qui si riduce a un doppio timbro

musicale: «Timpano / un archetto / – poila luna», non più che perfetto appunto discena pucciniana. Resta da osservare lospecioso rapporto dell’essere percettivoper eccellenza, il poeta, e la realtà signi-ficata per sensi che lo circonda, motivometapoetico di alcuni capitoli. Nel mini-mo sistema dell’haiku anche la scelta deltitolo è fondamentale momento diegetico.Bacchini ne sfrutta tutta la posizione dirilievo ad anticipare quanto narrato nelbreve giro dei versi, così come a riferirela concatenazione analogica che ha inge-nerato la lirica. Persiane estive, si intito-la il capitolo di cui sono protagoniste lefiglie dell’aria, questo poiché i battentichiusi (impedimento che ottundendo lavista affina l’udito, divenendo così occa-sione di poesia) filtrano i suoni dell’esta-te, quel «seghettato» canto di cicale, a lorovolta dette «membrane percussive», cherimanda all’immagine del sistema bina-rio buio-luce creato dalle barre delle im-poste. In tutto ciò, a proemio dell’opera,una dichiarazione sulla consapevolezzadella propria natura di poeta, consistentenel sentirsi strumento, e non strumentista,tramite cui risuona la voce delle cose. Seun vento continuo scuote la valle e traedalle fronzute rame arpeggi eolii, anchel’orecchio del poeta, «valva plurimillena-ria», rimbomba e propaga la voce poten-te di questo spirito selvaggio, umile sistroumano, la cui poesia non è frutto d’altocesello, ma indotta melodia del mondo.Torna al ricordo ancora una pagina del-l’Innocente: passò stagione in cui il «rom-bo che pare che sia in fondo a certe con-chiglie sinuose» fu riconosciuto quale«rumore delle proprie vene»; oggi, al con-trario, l’unico sentiero percorribile perfare poesia è quello che conduce a farsiritorto fossile marino, dove riecheggino isuoni degli evi, versi che magari, cosìspirati, il poeta neppure si prenda la bri-ga di notare, riconosciuto l’atto del ‘signi-ficar per verba’ qual unico momento atti-vo, pure non più dovuto.

Francesca Latini

MARIA ANGELA BEDINI, La linguadi Dio, Torino, Einaudi 2003, pp. 145, �12,00.

La poesia religiosa conosce da sempreil tormento della ricerca della parola, losforzo terribile di toccare l’indicibile, ri-solto per forza di metafore o per vertigi-ne di astrazione. Lo stesso nucleo ispira-

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tivo è al centro del bel libro di Maria An-gela Bedini, ma con un lieve eppure de-cisivo spostamento di fuoco, dal dopo alprima, dall’oggetto al mezzo espressivo.La lingua di Dio che dà il titolo al poe-metto è infatti il premio di una lotta sfi-brante, la meta di una quête lunga un cen-tinaio di pagine e parecchie centinaia diversi, il precipitato di un magma analogi-co spesso di difficile e probabilmente inu-tile decrittazione (un esempio: «beviamole porte per l’osso / dell’inverno scivola-to sulla testa»), soverchiante, stordente,rivendicato spavaldamente nell’Epilogocontro tutti i ‘grugniti’ dei recensori(«‘Ossimori, insensatezze’, grugnì il re-censore») con ormai matura consapevo-lezza di scrittore e al contempo con evan-gelica spietatezza (Neque mittatis marga-ritas vestras ante porcos). La lingua in cuiparla Dio (ma parla, Dio?) è insieme lalingua in cui si parla, o si tenta di parlare,di Dio, superando pericoli, impasse, sa-crosante diffidenze (poiché, come ammo-nisce il Salmista citato in epigrafe alla pri-ma parte, l’empio «Ha d’incanti e tranel-li la bocca piena, / cela sotto la lingua di-struzioni»; e «che al mio palato la linguas’impicchi», è lo scongiuro, ancora con leparole del Salmista, che apre la secondaparte). La conquista di questa lingua ma-tura attraverso l’attesa, nell’attraversa-mento delle stagioni che saranno anche esoprattutto stagioni del cuore ma hannouna loro tangibilissima concretezza, scan-sa la trappola della memoria, la presadolciastra del passato, si affaccenda inces-santemente, Marta e Maria insieme, tracarta bianca e inchiostro (quanto inchio-stro, fogli, matite, quaderni in queste pa-gine), si puntella provvisoriamente conuna personale costellazione di riferimen-ti culturali (tra Lewis Carroll, Andersen,Dickinson) che diventano fantasmi, vocidi un surreale convegno evocate con i loronomi (Alice, ma anche la regina delle nevie naturalmente Emily, che scandisce al-cuni memorabili versi nella memorabiletraduzione di Margherita Guidacci) nelmetaletterario Interludio, che separa laprima e la seconda parte del poemetto, enell’Epilogo; fino, sempre nell’Epilogo,all’approdo prevedibile («Gesù stracciò ilnome, s’accovacciò sul palmo della lin-gua, / il nome lo infilzò dentro il costa-to»), fino alla litania, al balbettio erotico-mistico («Gesù infossato nelle membra, /tuttobello di dolore, / tuttodolente di bel-lezza»). L’unione con l’amato si compie

dunque nel finale annullamento di ognibarriera tra l’io e la parola scritta, dispera-tamente invocato fin dal principio («miamateria chiamata da un volere / dirigi undesiderio schianta lo specchio / in cui ildentro si depone / uccidi dunque i tuoifuori»), come anche, forse, nella rinunciaalla intenzionale poeticità della scritturapoetica; dopo che per tante, troppe pagine«in sere capitali allo sgomento / in quellesere danneggiate / dalla chincaglieria disguardi / il libro subissava di schiamazzi /la carta impallidiva come un uomo / senzasguardi ma lui restava lui / e io rimango io».

Elena Parrini

MARIO BENEDETTI, Umana gloria,Milano, Mondadori (Lo specchio), 2004,pp. 124, � 9,40.

«O anima! Non sono poesia le lettereche pianto come chiodi, ma il bianco cherimane sulla carta». Queste parole di PaulClaudel possono essere utilizzate comechiave per entrare nei testi raccolti inUmana Gloria. Non si tratta di un’indi-cazione di forma, quanto di un invito adaccostare con grazia e leggerezza gli in-numerevoli silenzi che fanno da contrap-punto alle parole, ospitandole e comple-tandole, del libro con cui Mario Benedet-ti ha finalmente presentato il proprio la-voro al grande pubblico della poesia de-stando un’attenzione destinata a durare. Èsempre possibile cercare echi e remine-scenze per inscrivere un autore in grigliedeterminate e si potranno anche qui rin-venire le tracce di una tradizione che ade-risce all’asse Petrarca-Leopardi-Sereni,ma in questo poeta schivo la trama inter-testuale si dà più che altro nella modalitàdel riferimento indiretto, della discretarielaborazione, sintomo di un’assimilazio-ne profonda più che della necessità diesporre le proprie coordinate culturali. Èinvece nei silenzi che giace la moltitudi-ne di significati sorgivi che va colta, ametafora della teoria del tempo che vie-ne formandosi nella lettura. Perché il tem-po è il tema centrale del libro, e ne è lamateria. Dal dolcissimo epicedio di aper-tura e lungo tutto l’arco delle otto sezionidi cui è composta la raccolta, si articolauna ricerca di pienezza intesa come im-possibile ricongiungimento tra presente epassato; dicotomia, questa, foriera di al-tre apparenti contrapposizioni (e in parti-colare quella geografica tra città e cam-

pagna) che hanno il loro equivalente emo-tivo nella tensione tra una genuina voca-zione al desiderio di farsi cantore di oregaie («Io vorrei tanti colori, sognare unafesta, / scrivere di noi solo favole», Levecchie donne...) e i frantumi di un pre-sente che sembra non accettare interferen-ze al di fuori di quelle insorgenze memo-riali che costituiscono il tessuto connetti-vo del libro. Ma Benedetti sa che la per-dita si articola sempre su un doppio bina-rio, dove all’impossibilità del ritorno a unpassato scomparso si affianca quell’altralacerazione data dalla nostalgia del nonprovato (Unico sogno); il senso delle coseva quindi cercato nelle storie che esse rac-contano, e ciò sembra essere il cuore pul-sante che richiede e al contempo provocal’esplosione di epifanie di Umana gloria.È così che gli oggetti, i fenomeni, la na-tura stessa, sono sempre colti nelle riper-cussioni che hanno sull’uomo: «Il coloredelle barche / cerca di costruire le sue ra-gioni anche per me che soltanto le guar-do» (Brest). Ed ecco ricomparire la neces-sità dell’altro, il senso che si mostra solonel completamento con ciò che è dato inabsentia, e da qui la necessità di saperlegger i silenzi. Ma il percorso possibilesin qui accennato non dà ragione dellarealtà formale della scrittura, la cui com-ponente più caratteristica è quella del pie-no raggiungimento di una voce carisma-tica e riconoscibile, adulta e dimessa, ingrado di suonare marce solenni senza al-terigia o cadenza marziale: riducendo alminimo il ventaglio terminologico, dila-tando il verso fino alla flessibilità dellaprosa, Benedetti punta sull’incisività delmovimento sintattico. Si tratta di una scel-ta non di comodo, dove la rinuncia allaricchezza lessicale della lingua poetica –e con essa alle via di fuga conseguenti auna concezione anche impercettibilmen-te ornamentale della poesia – comporta unrigore compositivo di più difficile mante-nimento. Da qui la disomogeneità dei te-sti, che a tratti pagano un appannamentodelle proprie intime ragioni dando l’im-pressione di un’urgenza eccessivamentediluita. Ciò accade in specie quando l’in-sistente sovrapposizione tra passato e pre-sente determina una sorta di anchilosidell’apparato percettivo che può persinoimpedire di cogliere il reale, continua-mente costretto a cedere il passo all’im-magine altra, come in un gioco di statuedi vetro in cui della figura in primo pianonon si cogliessero i lineamenti e si perce-

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pisse solamente la forma di ciò che le stadietro: è la memoria invasiva, il letargodi talpe che fa sì che «si può stare maleper un profumo ancora tutto da spiegare»(Giorno di festa). Meglio allora le raretestimonianze di presenza, gli indizi sco-perti di una pace possibile, concentratinella quinta sezione dal significativo titoloQualcuno guarderà il bene: «si vedonocolline, un’allegria da ogni parte. / Si stacome a volte si è pensato di potere stare»(Quadri). L’occorrenza rivelatrice del sin-tagma che funge da titolo la si ha nell’ul-tima poesia della sezione Sassi, posti dierbe, resti, dove a Umana gloria si accom-pagna un povera che è misura della pro-fonda compassione che pervade ogni pa-rola di questo poeta divenendone, da ca-ratteristica esistenziale, la principale ci-fra stilistica; ancora una volta l’equilibriosi sposta su ciò che manca, sulle parolenon (ancora) dette. «Povera umana gloria/ quali parole abbiamo ancora per noi?»

Lorenzo Flabbi

ELISA BIAGINI, L’ospite, Torino,Einaudi 2004, pp. 136, � 12,00.

«Voglio far parte d’altro non di me, /dimenticare gli angoli, le forme / staccar-mi le mani / un colpo secco. / Un percor-so nuovo, sa di foglie marce / mi vuoledivorare, digerire: / sondo col piede e af-fondo, / abbandono anche i denti, casca-no intorno come semi / e i capelli pesantie lanosi. Non sono segni per trovarmi: seli mangia la terra. / Persa nel verde, di-ventata un tronco». Questo testo, che haper tema il desiderio del soggetto di par-tecipare ad altro, altro vegetale, ricusa lapercezione geometrica dello spazio el’acuzie dei ricordi («dimenticare gli an-goli»); ricusa la potenzialità d’azione del-le mani che il soggetto vuole staccarsi dinetto; i cammini sono insidiosi ed hannoqualità biologica, con quelle «foglie mar-ce» in procinto di divorare e digerire. Ilrapporto tra soggetto e terreno è esplora-tivo: il piede affonda nella terra comenell’acqua. L’io fisico si sgretola in unadismissione di sé: i denti cascano comesemi, e come semi cascano i capelli. Que-sti frammenti di corpo non sono tracce perritrovare il cammino: li inghiotte la terrasenza che nulla sia dato ipotizzare sullaloro fertilità; una cosa è certa: questi seminon aiuteranno i piccoli eroi delle fiabe,gli scaltri Pollicino o Hansel e Gretel, chéqui per eroi di fiabe non c’è spazio. Del

fiabesco mancano non solo i personaggie le possibili soluzioni, anche i toni: tuttoè irrevocabile, l’esser «persa nel verde»,diventar tronco che ha tutto della disuma-nizzazione e nulla della sensualità dell’es-ser fatta «virente» di un’antica Ermione.La compenetrazione vegetale-animaledell’io non è confortante né evocativa,forse perché pare una singolare quantoconsumata digestione. La poesia è statascritta prima del 1993, quando Elisa Bia-gini esordiva con Questi nodi, raccolta chel’editrice fiorentina Gazebo volle pubbli-care assai «meritoriamente», come ebbea dire più tardi Francesco Stella presen-tando l’autrice nel Sesto quaderno italia-no curato da Buffoni. Da subito, questapoesia ha posto come temi fondanti l’io –un io non pago di sé, della propria uma-nità – e una cifra stilistica fortemente or-ganica, biologica. Sulla strada de L’ospi-te, la Biagini aveva poi affidato a unaplaquette compiutissima, Uova (Genova,Zona 1999), i nuclei poetici a maggiorecaratura emotiva e rappresentativa: la pel-le-involucro, confine e limite, organo sen-sibilissimo e «buccia di pianeta» cheespone il corpo; esso stesso in pericolod’implosione, a rischio di «cadere in me,in quel / livido che è // il mio stomaco»;l’oggettualità figurativa di versi scortica-ti nella tensione interno/esterno («è comeguardare la mia spina dorsale / attraversoun oblò»). Densissimo è in Uova il pro-blema identitario, il rapporto del sé conun sé diverso nella corporeità della lingua,rapporto biograficamente sperimentato inun lungo soggiorno statunitense, tra l’io-in-lingua-italiana e l’io-in-lingua-inglese:«Ho scritto di me in altra lingua / e so-gnato doppiata / pesato in modo diverso,altre molecole / e la distanza non è mai lastessa». Legata a quest’indice di poeticache è la continua tentazione di altro pati-ta dall’io, è anche la ‘sostanziale’ assimi-lazione, reciproca, prevaricante, tra ciboe corpo, coazione all’assunzione e dige-stione di molecole di alterità: «You wroteme in the food, / and now they carry mein the supermarket: / I can read my palmslike nutrition facts», di cui un’eco italia-na nell’Ospite: «Mi hai scritta col tuocibo: / ero ogni voce dentro lo scontrino /[...] // ero materia ancora, // (e ancora oggi/ ogni volta, / mi vedo a pezzi, nel super-mercato)». In questo sinistro Happy mealla consustanzialità tra corpo e alimento,che denuncia, politicamente, quella tracorpo e merce, apre una delle plaghe fon-de dell’Ospite: il corpo-da-mangiare, il

nutrito in identificativa qualità di nutri-mento. È il corpo scritto forzosamente eritualmente dall’altro, dall’Ospite, colcibo. Il corpo-che-mangia è anche corpo-da-mangiare, secondo un rapporto di re-ciproco cannibalismo, in odore di autofa-gia. Così lascia intendere una delle dueepigrafi al libro, quella da Langston Hu-ghes, invito ad affondare i denti nel cuo-re: «Bite into the sandwich of your heart».Il corpo-cibo smaschera una reificazione;lo stesso fronteggiarsi interpersonale èrapporto ‘cosale’. Il rapporto di ospitali-tà denunciato dalla genettiana ‘soglia deltesto’ è reciprocamente inquieto e teso,l’ospite è «terribile», secondo i due versidi Anna Achmatova, che costituisconol’altra epigrafe al volume: «E tu, l’ospiteterribile lasciasti entrare / e con lei, fac-cia a faccia, rimanesti». Tale ospitalitàscopre trabocchetti tremendi nel vis-à-vispoetico tra l’io e il tu chiamati a non co-municanti conversari. Il codice qui, piùche linguistico, appare corporeo e alimen-tare. È attraverso la gestione di cibo ecorpo proprio e altrui che il tu ospite sve-la i suoi assilli. Nella struttura dialogicaguadagna la scena la rappresentazione diuna morte: è la storia, il processo dell’ela-borazione preventiva di un lutto. Lutto an-ticipato e privo di cordoglio, la funzioneattiva e passiva di ospite non è ancoravenuta meno, la pervicacia della catenaalimentare-affettiva non è stata superata,e l’esito è un inquietante stravolgimentofiabesco: «Nonna, mano di lupo, / apri /la tua voce, apri / la mia gola per / riem-pirmi anche meglio / di cibo». La morte ela sistemazione del corpo sono atti coniu-gati al futuro: «le ossa torneranno in unascatola / forse quella che usi per i fili / o ibiscotti, / oppure in una scatola da scarpe/ numero 37, / per le ossa corte e le verte-bre: / [...] o ci farò orecchini da usare tut-ti i giorni / e averti accanto ai denti». Lavicinanza non pacificata tra denti proprie ossa altrui, amuleto di un’aggressivitàpregressa, può sconfinare nel bisogno diassunzione del corpo dell’altro per elimi-narlo digerendolo, dargli biologica sepol-tura che ne cancelli (metabolizzi) residuie tracce: «per far pulito / e presto, ti /mangerò, // ti scomparirò / come la riganera / della vasca, per / riportarmi al / sem-pre bianco». Ma se manca ancora il luttodell’Ospite, se, cioè, il dialogico tu per-sonaggio femminile e familiare vive tut-tora, c’è però la morte di un centro sensi-bile del soggetto poetico: la tentata sop-pressione di una realtà emotiva e affetti-

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va dovuta all’invasione che l’ospite hacompiuto nei territori interiori del sogget-to. Invasione scarnificante, che cerca ditessere a proprio arbitrio i fili del mate-riale genetico: il tu, la figura dell’altracontinuamente convocata sulla pagina, ha‘lavorato’ il soggetto in modo da vedernel’interno: «mi hai fatta / a maglia, / per /questo il mio biancore, il / non reggermiin / piedi, no anemia: // per vedermi me-glio / dentro, per entrarmi, / attraversoqueste maglie / troppo larghe». Dunque,il lutto è già avvenuto, è l’abuso compiu-to sul soggetto poetico, abuso espresso avolte con la metafora di strumenti sadici– «Non tieni più ago in mano, formerestiil tracciato del mio cuore» – eppure con-sueti, proprio a rappresentare la compres-sione nel quotidiano, la minuzia di gestiripetitivi e preordinati secondo il disegnostabilito dalla ‘ricamatrice’. E sempre allacoazione del quotidiano appartengono glioggetti che anticipano la proiezione im-maginativa della morte: «andrai coi / piattirotti / nella cassa e / le tazze, spezzate /come te [...]». Tanta è l’insistenza con cuil’io interpella l’altro, quanta l’assolutez-za con cui è negata ogni risposta. Entrole mura di quella vita-prigione casalinga,hortus conclusus paradossale, locus innulla amoenus, regna l’incomunicabilità.Elisa Biagini muove dalla fenomenologiadelle cose e dei rapporti umani senza fer-marcisi, cammina entro il perimetro del-la domesticità, della cucina, delle singo-le stoviglie, senza cercare equilibri né ri-spondenze. Piuttosto, il quotidiano offresimilitudini e metafore non dimesse, madure, scalpellate, inesorabili come senten-ze o agghiaccianti per i loro risvolti ma-cabri, similitudini e metafore di un’impla-cabile oggettualità figurativa: «si sfilanovia i nervi / come i gambi del sedano»; «seti apro la / scatola del / cranio come / acercare dei / fili da / rammendo»; «hai gliocchi / gocciolati / nell’acqua / dei piatti,occhiali grandi ormai / come scodelle»;«mi specchio nel / tuo cuore di / zuppie-ra». Un ordito fitto che ha punti di lucecruda nella banale opacità degli oggettiimplicati: ad ogni pezzo di corpo corri-sponde una cosa, o un vegetale. La sedi-mentazione di similitudini e metafore siaddensa esemplarmente in un testo cheinscena la reciproca diffidenza e la media-zione oggettuale per la quale, soltanto,può passare la relazione interpersonale,scheletrica come quella di aguzzi buratti-ni fatti in casa: «Noi ci tocchiamo / conle forchette dei // bracci-rami nostri / ta-

gliati, // allineati come / tovaglioli, // ciaccarezziamo / con delle presine». Lecose della minorità quotidiana sono gliunici strumenti di una interrelazione per-sonale – sia essa sadica, sado-masochista,rivendicativa o solo appena tentata – co-munque disseccata, tragicamente prosciu-gata d’umori e di liquor. Dove dominal’incomunicabilità, l’esistenza, miniatu-rizzata, può ridursi emblematicamente apresine, orli, piani dei tavoli, zuppiere. Suquesta negata dinamica della comunica-zione si esercita uno sguardo autoptico:rivolto su di sé e sui corpi della morte.D’altro canto, autopticamente, Elisa Bia-gini si era espressa nei testi accolti nelSesto quaderno italiano e con espressio-nistica inclinazione titolati Morgue, lette-raria risposta alla omonima serie fotogra-fica di Andres Serrano, versificate iconedi pietosi reperti d’obitorio, nelle qualil’autrice aveva saggiato la propria capa-cità di fare ascesi del pathos. Di contener-lo raggrumandolo in metafore rapprese,fino al «cuore di buio» che sigillava laraccolta. Ora, nell’Ospite, in versi dalladisposizione affilata, brevi ma capaci difare «tagli lunghi», tagli fatti con i «foglidi carta o fili d’erba» che appena li toc-chi «è sùbito sangue»; in versi che scar-nificano e sospendono anche un articolo,una preposizione o un apostrofo in fine diverso, ha luogo un voluto impoverimen-to, essiccamento del lessico, una sua pro-fana reclusione claustrale. E davvero an-gusto è il recinto – irreligioso tèmenos –casalingo e gastronomico che segna il ter-reno su cui la «Nonna, mano / di lupo»,sacerdotessa tremenda, esercita la sua vio-lenza di nutrice. Questa scrittura, che sem-bra freddare il rancore, mostra di aver alungo ruminato la lezione della poesiafemminile americana – quella di SylviaPlath e di Anne Sexton tra le prime – so-prattutto per il legame insolvibile tra let-tura dei corpi e affondo nell’interiorità, traregistrazione/interpretazione dello statofisico ed esibizione metaforica e non diuno stato (disagio) psicologico. L’emoti-vità si sveste del carattere passionato perconcretizzarsi in pezzi di corpo e in uten-sili e per farsi meglio ghermire nella suacompattezza. Lo stare in equilibrio suversi che sono lame d’immagini, il porta-re allo scoperto la tensione interpersona-le, lo sgranare in relitti calcinati un corpoormai post-umano, il muoversi ossessivoentro i confini di una cucina o di una bara– «e quando ti sarai / spenta di fiamme, /in una scatola che / non ti è cucina» –, o

di una casa che è già sepolcro – «in quel-la / scatola di casa / già una bara» – sonoelementi che rendono questa una poesiadegli orli. Una poesia che mentre esplorale bordure sottili della biancheria di casariesce a correre ai confini, una poesia chetende i confini. Che lavora con fili prescel-ti dalla trama: separa le fibre e quelle piùdolenti tira tanto da far arricciare il tes-suto. È un lavoro che, sfrangiando i mar-gini, permette di individuare i fili che deb-bono essere portati allo scoperto e messiin luce. È un tirare le conseguenze cercan-done le proiezioni scheletriche che abita-no il profondo. Rimestando una materiavegetale e corporea minutamente parcel-lizzata, in una sorta di lucreziana dissipa-zione. I suoi corpi sono sempre smembratie asciutti: niente fluidi, ma minime por-zioni di corpo – unghie, denti, rotule, ver-tebre e ossa disarticolate, l’oscurità livi-da dello stomaco, la superficie della pel-le –. Sono pezzi bianchi e splendenti, duri:da sgranare. Bianchi come calcinati. Ab-baglianti e assottigliati come troppo can-deggiati. Il suo procedere poetico muovesecondo una poetica della sottrazione odella rimanenza. Ciò che resta, autonomoe definito come nella perfezione di uncalcareo orlo-contenitore d’uovo, si potràconservare in una cassetta qualsiasi: den-ti e vertebre andranno, a portata di mano,nella scatola dei fili o dei biscotti, o ci sifaranno orecchini da far tintinnare vicinoalle mascelle per ricordare l’avvenutadamnatio. Oppure, ciò che resta potrà es-sere offerto, menu esclusivo ed obbliga-to, e crudele sublime sepoltura, ad un di-sfacimento che è necrofila autofagia, pu-nitivo, definitivo e nudo pasto di sé.

Cecilia Bello Minciacchi

ROBERTO CARIFI, Il gelo e la luce,Firenze, Le Lettere 2003, pp.75, � 11,00.

Il discorso poetico di Carifi sceglie dasempre la pronuncia alta e ambiziosa dellarelazione con l’assoluto, coerente conl’heideggeriano binomio di poesia e veri-tà dell’essere. Sottratta a ogni minimali-smo della comunicazione e dell’uso quo-tidiano, caricata di una cifra di oscura sa-cralità, la parola poetica in Carifi sembraavere il compito indifferibile di alluderea un’oltranza mai interamente nominabi-le. Al lettore che, ammirato dalla limpi-dezza espressiva e dalla coerenza simbo-lica di questo universo poetico, tenti disintonizzarsi con la sua interrogazione

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dell’assoluto, Il gelo e la luce oppone peròun carattere arduo e introverso, lontano daogni compiacimento, esibendo quasi lestimmate di un discorso iniziatico sul sen-so della poesia e dell’esistenza: una ser-rata tensione interpretativa giocata sulparadosso e sull’ossimoro («il muso acer-bo del passato / dentro i tuoi occhi rossidi memoria»; «sorda come la luce che siscioglie in neve / quando ritorni tenera allafonte»); un paesaggio allegorico di figu-re e luoghi tipici della poesia ontologica(il custode, la sentinella, la tessitrice, lasoglia, la porta, il confine); la rigorosaformulazione di aree semantiche ‘arche-tipiche’ (alla «chiusura» rimanda adesempio la ricorrente area semantica delgelo-pietra-notte-morte); una dizione sec-ca e dichiarativa, mai sfrangiata in enjam-bements, che concilia un’apodittica tona-lità di oscura certezza con l’ambiguità deisuoi contenuti. Ma nell’ultima sezione dellibro, Luci e preghiere, il volto un po’ al-gido e pretestuoso di questa sacrale oscu-rità sembra sciogliersi (come il gelo inluce, appunto) in un serrato e commossocolloquio tra l’io e l’assoluto che, conaccenti di una nuova e felice autenticità,rivela l’indistricabile legame tra ricercadell’io, di Dio, della parola, del Nihil: «Ecome il fiore abbandonato e nudo / senzaperché nell’abbandono / e come l’acquache nulla chiede al mare, / Dio delle cosemute e delle cose buone, / Dio dell’amo-re che non afferra, / della stella accesa edella stella morta, / Dio del pianto e dellaluce, / senza nome e in ogni nome amato/ lasciami come un fiore abbandonato /senza perché nell’abbandono». Cosicchéqueste ultime, intensissime poesie sem-brano illuminare non solo il dittico – ilgelo e la luce – che titola il testo, ma l’in-tera poetica di Carifi, che flette la parola

in preghiera, formula antica e perfettadella ricerca di armonia cosmica, «perchénon c’è preghiera che non sia / voce dalnulla al Nulla».

Caterina Verbaro

TIZIANA CERA ROSCO, Il sanguetrattenere, Borgomanero (NO), Edizio-ni Atelier 2003, pp. 48, s.i.p.

Molti i pregi di questa piccola ma or-ganica raccolta. Una poesia intensa e con-trastata, davvero ‘di spirito e carne’ (pernon citare le abusate categorie di ‘sacro’e ‘profano’, tormento ed estasi, eros epathos...); in cui colpisce l’elemento del-la libido sia verso la vita e la creazione,che verso l’annullamento liberatorio delsé. Il rilievo dato al sangue – simbolopolisemantico per eccellenza – alle varieparti anatomiche e in genere alla corpo-reità della dimensione fisica è pregnante(un’attenzione che sembrerebbe confer-mata anche dal titolo della prima pubbli-cazione dell’autrice, Calco dei tuoi arti):la poesia di Cera Rosco è innanzitutto nel-la forza che entra nelle membra, le fa agi-re. Ma non si tratta del fatto che sia lacarne a prevalere sullo spirito o vicever-sa: piuttosto, nella dialettica degli oppo-sti, è la carne a tendere verso uno spiritoche amandola la sfugge, in un continuodesiderio di chi non può appartenerci to-talmente, come la Maddalena ‘frenata’ nelsuo slancio di amore verso Cristo. Unatensione che si risolve in una liturgia sen-suale e sessuale, che vede i ruoli di unalei e di un lui calarsi nel contrasto insa-nabile tra sessi, in eterna ma mai sconta-ta lotta (ben dichiarata da un «Facciamomessa», che suona come invito erotico-catartico). La celebrazione del rito del-l’amore si fa così celebrazione eucaristi-ca, quasi misterica, in profonda e doloro-sissima comunione nel corpo («una feri-ta chiara e ben curata / tra il mio corpo eil tuo»). Infatti il tema romantico del-l’Amore – anche umano – come vera Pas-sione, è reso ‘attuale’ dallo stemperarsi inversi di fisicità piena, ricchi di verbi eimmagini, di gruppi consonantici forti(con, ad esempio, il ritornare insistito dilettere ‘dure’, come la gutturale sorda, ovocali ‘drammatiche’, come la a: «dalcavo cola polpa cruda controluce»). Neo-logismi, fusioni esasperanti («la bellez-zamiele»; «lo voglio inspessire questo qua-dro / – marmopuledro la tua telapetto – ...»;«lascia cainizzare i verbi»), echi e remi-

niscenze dalle Scritture, ‘profanate’ in uncontesto squisitamente affettivo e terreno(«l’inguine che fora il tuo costato», «lamia bocca ha sete / della linfa segreta deiviventi»), interrogative ‘assolute’ («do-v’era il limite preciso della limpidezza diDio? / Dov’ero io?») contribuiscono allaresa espressiva, anzi espressionistica, diuna pena antica, e forse meritata, un do-lore che si rinnova nel giorno, nei giorni,nel tempo: una Domenica che è piuttostoun Venerdì Santo, che prolunga la Passio-ne fino ad un moderno affresco di Eccefoemina, nella donazione completa mamai perfetta di sé, sacrificio dissacrante.Allo stesso tempo, la bellezza di versipregevolmente ‘alti’ («– con quell’assio-ma nello sguardo / mi farai luce? / un-guento per il dio? –»; «Ti guardo dallevetrate / da dietro la sepoltura // autenti-ca, come uno scarto / come un lungo la-voro d’esperienze») e versi di esistenzia-le ispirata forza, ‘religiosamente’ umana(«La luce non è presto. / la luce non èappena stata. // Senza abbagli / lievitanoi chiodi del mio male»; «Ché ti ho vistoCristo in questo corpo / la sindone duradei capelli sciolti / tesseva il tuo viso le-gato alla mia nuca. // – C’era saliva nelnome che mi hai dato?»). Verosimilmen-te segni, questi, di un amore per la poe-sia della ‘frattura’, di tutti i tempi (so-prattutto al femminile): la poesia amoro-sa ed erotica, religiosa, visionaria e mi-stica, in una tradizione perfettamente rein-terpretata.

Caterina Bigazzi

ANNALISA COMES, Ouvrage dedame, Firenze, Gazebo Edizioni 2004,pp. 44, s.i.p.

Interessante fin dal titolo, questa sillo-ge della poetessa-performer-traduttrice,allieva fiorentino-romana di Amelia Ros-selli. Un titolo scelto in accezione pole-mica – venivano così designate, spiega lacitazione d’apertura da Simone de Beau-voir, le opere delle donne che scrivevanorestando nel proprio piccolo mondo pri-vato, per passatempo – a cui fa in effettiriscontro, lungo l’arco della silloge, unritornante raffronto tra il rapporto prodot-to poetico/attività femminili, esperienzacombattuta e sofferta, emancipazionesempre mancante di risolutive sicurezze,e forse per questo più orgogliosamente daimparare, da conquistare. «Eppure io ti hoinsegnato / a portare questo lungo coltel-

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lo / nella notte / tra le pareti di libri / leparole che sanno intessere / punto a cro-ce / qui nello sguardo / più strettamen-te...»: la scrittura ha una sua dimensioneartigianale, come il ricamo, la tessitura ol’acquerello; nella fattispecie, una suadose d’esercizio, di databile (e presumi-bilmente ironica) ‘taccuinità’: «i versisono versi / e la lingua mente o brucia / enon sa promettere / che un fascio di eser-cizi / nel quaderno verdesalvia / milleno-vecentonovantanove». Perciò, se è veroche per un destino ingrato la pratica dellascrittura è destinata a convivere con quelladei doveri domestici, a condividere il tem-po con l’amore e gli affetti, contrastati,mai scontati («la mia origine è pigra / e iltempo che scorre / la scrittura, che piegal’anima / ne offre corona / e il resto allatua presenza...», «sono il commiato / e ilcantuccio per nascondermi, / per fingeregli affetti / gli oggetti che sono in ginoc-chio / e l’ordine dell’aldiqua / non l’agodella bilancia, / non il conto della spesa /le sporte residue...»); se i versi sono bre-vi (e spesso le poesie sono fatte di una solafrase), quasi rubati al resto del giorno, aigesti di quotidiana dedizione, è pur sem-pre nella poesia che l’autrice – e la donna –trova veramente, più che la celebre ‘stan-za tutta per sé’, riscossa senza trionfo, sestessa, prima di tutto, comunque fedele alsuo «compito di abbellire l’anima».

Caterina Bigazzi

GIANNI D’ELIA, Bassa stagione,Torino, Einaudi 2003, pp. 120, � 12,00.

Sequenze della Bassa stagione «ai bor-di del millennio», nella forma, endecasil-

labi riuniti in terzine, del «poema a dia-rio» che era del precedente volume einau-diano di D’Elia, Sulla riva dell’epoca(2000). Elegia di fine estate sulla rivieramarchigiana e mala tempora della storiad’«Itaglia», «bassa stagione» dei destiniindividuali e collettivi si intrecciano se-condo la linea ideologica e poetica Leo-pardi-Pasolini, la linea della dicotomia, edell’oscuro nesso, natura/storia, corpo/coscienza, dando vita a una ginestra chesomiglia infatti al primaverile glicine pa-soliniano: «Ma nella notte marchigiana,cova / ancora, a marzo, perché a maggioesploda, / l’antica ginestra leopardiana,nuova... ». Pasolini, evocato nelle sequen-ze conclusive, è presente in tutto il libro,non soltanto per eco e citazioni (una frale tante: «le T bianche su fondo nero deiTabacchi», che rinvia a Poesia in formadi rosa, La ricerca di una casa: «Ed eccoun ‘Tabacchi’, ecco un ‘Pane e pasta’... »),ma come un accento, come un vero e pro-prio habitus stilistico del quale D’Eliasembra appropriarsi per un personale cul-to, come se di Pasolini intendesse perpe-tuare la voce. Ma è un Pasolini senza feb-bre, crepuscolare, «lontano dai sessi soli-tari e ossessi, / ma anche dalla passionedell’ammanco», che di natura contemplala «meraviglia»: «natura, transumana li-berazione», più della perenne agonia. Nontanto la lama tagliente del pensiero e nem-meno l’ebbro abisso del corpo, quantopiuttosto l’obiettivo posato sulla realtà, ilpiacere di vedere e la sua risoluzione inparole, la descrizione, personale cifra diquesta poesia. D’Elia descrive col virtuo-sismo di un secentista il catalogo delleforme di natura: «negli anfratti d’ombre // lucide d’alghe verdi e cozze nere, / doveil granchio zampetta anchilosato / risalen-do lo scoglio abbarbicato // sopra le spe-cie parassite in schiere / incollate al cal-care come gomme / del naturale prodigioche avviene; // valve d’ostriche, conchi-glie, lumache, / o il piccolo paguro che vain fretta»; l’«odorosa metamorfosi»:«ogni pomodoro fatto a pezzi, ogni / pe-perone, ogni patata, carota, / mezzalunadi cipolla, ha lo speciale // suo segno nel-l’odore e nel colore / del frammento del-la cosa iniziale / che frigge e cuoce comeun tritume astrale... ». Ma ciò che piùconta è fissare in icona verbale il «nuovodella storia in corso», le immagini delpresente. Ed ecco che nel libro nulla man-ca del tragico tritume della cronaca: unpensiero su Craxi ad Hammamet e «ilquarto / posto di Irvine al Gran Premio del

Belgio», «Ulivo e Movimenti in giroton-do» e «un bel Pancho toscano», la mortedi Edoardo Agnelli e il Grande Fratellotelevisivo, e ancora Sofri, «la faccia diBriatore», la rima «Bin Laden» / «l’Ade»,e «schiere di Costanzi», «la gang dei ber-luscones», ecc. ecc. Ma nelle sequenzeculminanti D’Elia misura le sue terzinecon lo spettacolo più riuscito e, dicono,più gravido di conseguenze «in corso»:Ground Zero (in rima con «andare ingiro», richiamato in apertura e in coper-tina), mette tutta quanta in versi la video-cassetta dell’11 settembre. Questa che sivuole poetica della realtà e della vita ha isuoi interni testuali, immagini: «Come uncoltello, nell’orgoglioso panetto / del grat-tacielo, l’aereo, nel burro / di cristalloce-mento, assassinava infedeli», che discen-dono dalla retorica giornalistica: «E l’ae-reo s’è infilato nella seconda torre comeun coltello che si infila dentro un panettodi burro. [...] La prima è implosa, ha in-ghiottito se stessa. La seconda s’è fusa, s’èsciolta. Per il calore s’è sciolta propriocome un panetto di burro messo sul fuo-co» (O. Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, in«Corriere della Sera», 29 settembre2001). Si sente la mancanza, in questo li-bro di D’Elia, del Pasolini ultimo di Tra-sumanar e organizzar (una via nuovadopo la fase «ingiallita» delle sequenze aterzine definitivamente chiusa da Poesiain forma di rosa) e dell’Abiura dalla «Tri-logia della vita» (e di Salò), dell’«abiura»contro il potere che usa le immagini, laretorica. Clausole da sottoscrivere ma unpoco ‘facili’ come questa di D’Elia:«obliata è la santa anarchia del diverso //che s’oppone al mondo così com’è stato /pensato da qualche bastardo del passa-to...», non sono riconducibili alla radica-lità «che Pasolini addita... »: «Poiché leistituzioni sono commoventi: e gli uomi-ni» (L’enigma di Pio XII), «Destra divinache è dentro di noi, nel sonno» (Saluto eaugurio).

Giacomo Iori

GABRIEL DEL SARTO, I viali, Bor-gomanero (NO), Edizioni Atelier 2002,pp. 96, s.i.p.

I viali: punto di osservazione privilegia-to, ma anche una dimensione personale,intima. Strade di viaggi che in fondo nonpartono, poesia dello stare: «Senza frettai viaggi si possono fare / bellissimi ancheseduti / davanti al portone di casa». Una

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raccolta, dunque, fatta di atmosfere dome-stiche (la calma degli interni, la colazio-ne, l’attesa di un figlio, i preparativi...) edi ‘stagioni’ (l’avvento del Natale, Pasqua,la fine dell’estate o l’inverno e il succe-dersi dei mesi sui colli, o nella natia Ron-chi), ma anche di contrasti acquerellati trai due aspetti («Radiosa, quest’ora, / e vio-lenta di luce / [...] – piuttosto / la mia tri-stezza cresce, tristezza casalinga»). Il bi-sogno naturale è quello del ‘tu’ a cui ri-volgersi, frequente, per cercare talvolta lacomplicità del lettore («No, ti dico, è dav-vero questo lo scandalo / della vita...»), oaltre volte per prendere un distacco ama-ro, come lo è il passare del tempo senzache la salvezza accada davvero. Da quil’andamento prevalentemente discorsivo;e l’uso di versi lunghi, o versi che spez-zano la sintassi della frase, non riesce afrenare lo scorrere facile del pensiero, informe assodate («un vento tenue respiro /verso la morte», «nell’immobile gemitodelle cose», «l’inarrestabile desiderio»).Eppure, talvolta, la sobrietà prelude all’ar-rivo della gnome finale: qualche poesiacomincia in tono volutamente dimesso perrivelare poi alla fine una saggezza dal tonomaturo, inaspettato, almeno per un giova-ne poeta, e un po’ tesa. Se ne evince unlessico di quotidianità e insieme contem-plazione: nella dimensione dell’autorepossono con naturalezza convivereespressioni come «Questo mese si mettebene», «Dalle suore / ci andavo anch’io afare il mare», «La spesa, / bollette nonpagate», «con la partita IVA in tasca», eintuizioni del tipo «Le mie dispersioni /mi perdono, non favoriscono», «oltre lafrontiera rimane solo una canzone di uncoraggio / superiore – / nel cuore bellez-za non cumulabile», o anche «trascorsemattine invernali tese di estetica limpidez-za / provvisoria». Insomma, ci si imbattein oggetti comuni visti e intravisti maanche termini più generici e concettiastratti come destino, contemplazione,dolcezza, nostalgia, tenerezza, passione.Ma più che nelle parole, sembra che lapoesia di Del Sarto viva – e riesca –nellostretto connubio di memoria e osservazio-ne, dentro ‘viali’ da comunicare, che nondevono restare vuoti, per «ritrovare / qual-cosa, un dialogo perso coi vivi / o un sor-riso fra di noi, oltre la tempesta...»; inpoesia, perché «Lungo i viali – accadeanche ad altri / in altri luoghi – mi appaio-no, / come in un sogno ad occhi aperti, /più chiare le forme dei ricordi».

Caterina Bigazzi

IVANO FERRARI, Macello, Torino,Einaudi 2004, pp. 88, � 11,00.

Dopo La franca sostanza del degrado,la raccolta del 1999 che lo aveva segna-lato come poeta crudo e sincero, capacedi sprofondare nella descrizione dellacontraddittoria incomprensibilità del pre-sente (la ‘franchezza’ essendo la caratte-ristica del degrado ma anche il suo aspet-to meno ‘nascosto’ ed enigmatico), Fer-rari torna ai suoi temi di esordio. Macel-lo, infatti, era il titolo della più contrattasilloge di versi pubblicati nella raccoltaantologica Nuovi poeti italiani 4 (uscitasempre presso Einaudi nel 1995) e rappre-senta l’evocazione più intima e l’image-ry fondamentale della sua proposta poe-tica. «Omicidi instancabili / tra incenso ecarogne barattate / con l’attesa corruzio-ne dei sogni, / mentre evaporo (grassag-gio) / cedo le parole: / dimostratemi la miamorte / che conosca ciò per cui vivere»:il mondo si configura come l’enorme saladi un macello pubblico (luogo che Ferra-ri conosce per avervi lavorato per qualchetempo, a Mantova), dove le morti si sus-seguono scandite dal passaggio incessantedel tempo che monotono si sussegue in unpaesaggio che non conosce che sangue edolore. In questo ambiente asettico e spa-ventoso (che tra lager, manicomio e pri-gione mima la ‘scena primaria’ del Nove-cento e la sua atroce pienezza di morte)le ‘vittime sacrificali’ vanno al macellosenza una divinità cui fare riferimento.Non più spoglie opime in attesa di grati-ficare il dio della propria devozione, mablocchi di carne destinati a scomparirenelle fabbriche del consumo generale dimassa; i buoi e le vacche che compaionoe scompaiono, vengono macellati e tra-sformati in anonime porzioni per il mer-cato, rappresentano la dimensione ‘natu-rale’, ontologica dell’Essere storico. Adesse non viene rivolto che lo sguardo del-l’indifferenza e il loro passaggio sulla ter-ra non è che il tragitto tra la stalla e lascarica elettrica che le tramortisce confi-gurandole come cosa, pura oggettivitàdestinata a scomparire. Non sappiamo seMacello sia allegoresi del presente piut-tosto che sua metaforizzazione (comeGiuseppe Genna vorrebbe dimostrare, inun testo leggibile solo sul web, attraver-so una ricerca sulle fonti ed i temi dellaraccolta), ma sicuramente in esso il per-corso della poesia è confitto interamentenella sua rarefatta matericità: i corpi sonoastrazioni pure (almeno quanto – se non

di più – le convenzioni poetiche che pre-siedono alla scrittura della raccolta).«Sventrate intere famiglie / oggi / lunedìdi intensa macellazione. / Una vacca hapartorito un vitello / negli occhi la pauradi nascere / il foro in mezzo il nostro con-tributo / a tranquillizzarlo»: nella pianarievocazione-attualizzazione della morte,gli occhi glauchi del vitellino nato-mortosi configurano come sostanza ‘affranca-ta’, liberata da giudizi morali, campo neu-tro dello scontro tra vita e morte: la ‘pa-cificazione’ attraverso lo sgozzamento ela macellazione impedisce ogni interventoattivo dell’attore-autore sulla scena ren-dendolo puro testimone. La poesia è rati-fica ascetica e purificatrice della morte,inevitabile quanto la vita – se ad entram-be non si sfugge, protestare contro di esse(sembra sostenere Ferrari) non serve chead aggravarne la funesta perentorietà.«Ficco dita nelle narici dure / del torodecapitato / cerco intimità e pensiero / inquel vigore moncato / quando potrei ave-re colme / le mani di mammelle»: il toro(simbolo di continuità tra passato e pre-sente, tra il mito e la descrizione dellaStoria, tra la reggia di Cnosso e il talisma-no picassiano di Guernica) è un feticcioal quale attingere un vigore sperato e ri-chiesto e che però risulta moncato (neo-logismo che unifica probabilmente le pa-role ‘monco’ e ‘mancato’) nonostante laforza del ‘pensiero’ che dovrebbe alimen-tarlo in quanto risulterà alla fine privatodella tenerezza e della fecondità delle‘mammelle’ che producono e diffondonoil latte della vita. Sulla scena (apparente-mente sigillata dall’assenza di speranza)della Morte-in-Vita della possibile allego-ria di Ferrari, si aprono talvolta delle brec-ce beanti di possibilità di vita ‘diverse’:«Tra il fecaio / e l’inceneritore / cresconodei fiori / margherite evacuate dalla terra/ soffioni che sembrano sputi / papaverinotevolmente pallidi». Questi fiori resi-stono e perseverano, nonostante la loroassoluta precarietà, in una condizione divita che li colloca in un territorio ostile,rinnovando la loro fragile esistenza in unadimensione di derisoria transitorietà. Re-sistono anche al ‘disdicevole odore dellamorte’ (per dirla con l’Auden di Spagna1937); la dimensione scatologica di granparte della poesia di Ferrari non sembracancellarne e impedirne la creatività: «Lamerda è colorata / creativa / gratificante(ogni tre ventroni un carretto) / è rumo-rosa, suadente, intrigante / gelida / quan-do si ammucchia ostinata nelle grate del-

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lo scarico / è docile, è fieno dei ricordid’infanzia / (la vuotiamo in una vasca dicemento) / [...] la merda (la grande vascava svuotata ogni tanto) / protegge la miaintimità e la vostra / svestita / da qualsia-si pregiudizio». Nella sua non-pregiudi-zialità e nella sua docilità espressiva, que-sto ‘elogio della merda’ è una vera e pro-pria dichiarazione di poetica: è la sua di-mensione ‘umana, troppo umana’ che pas-sa per la catarsi della scrittura.

Giuseppe Panella

ERMANNO GUANTINI, Variazioni,con un disegno di Paola Ricci, postfazio-ne di Massimo Sannelli, Verona, CierreGrafica (Collana «Via Herákleia», n. 20),2003, pp. 48.

Già dai primi tre versi di questa raccoltad’esordio di Ermanno Guantini (di cuioccorre ricordare il recente ebook Puraquiete ritrae, in www.lettoricreativi.com)è dichiarata l’area di senso dell’azionepoetica: il tema amoroso: «sfiorare la tuapelle, al gioco / consonante degli aman-ti». Non inganni l’aspetto ‘leggero’ del-l’incipit. Questa di Guantini è – comesuggerisce la densa postfazione di Mas-simo Sannelli – una delle non rare raccoltedi quei poetae novi ai quali ascrivere lacostruzione di un vero e proprio trobarclus. (Con coscienza agíto, pur senza pro-grammi o programmazioni à la Oulipo). Illibro spende tutto l’arco delle mutazionie dei giochi sonori entro quella che dire-sti davvero area (o alone) di senso, più chetema organizzato in frasi o testualizzatoin cifra incisa stabilmente. È l’alternatocondensarsi e dissiparsi dell’alone amo-roso a sorprendere il lettore, più che unanarrazione o una vena epigrammatica. Èpoi percettibile un doppio e unitario re-gistro di forme, nella ricerca di Guantini.Forse non è un caso che la raccolta si di-vida in due sezioni: Variazioni, di novepoesie; e la più ampia Senza altri nomi,costituita da tre sequenze rispettivamen-te di sette, cinque e nove poesie. Ebbene,il doppio registro corrisponde da un latoa retorica e lessico sceltissimi, quasi (pa-rodicamente?) ‘nobili’, con costrutti disorprendente e voluto e divertito anacro-nismo (da Novecento ermetico o pre-er-metico: «contenzioso d’imminente / di-scesa», «collo reclino», «la neve trasmu-ta la pelle», «un’icona mutila di sensi»,«saviezza d’incensi»; bella l’anfibologia«detriti eletti»); e dall’altro a una anti-

retorica della elencazione, del calembour,dell’infinita assonanza, della vertiginebarocca di ritmi: «estimi // industriali.folaghe / si alzano al volo, duri / nelladepressione / parco; operai»; o «un’arsu-ra / che sa d’una resa, / dovuta alla rima /delle cose. oggi / arabesca, fina // la tualagrima» (dove «lagrima» è daccapo ar-caismo). Non è immaginabile separare il‘colto’ «arabesca» dalla trama che ne rac-coglie il suono: «resa», «rima», «cose»,«fina». Ecco perché il registro stilisticova, allo stesso tempo, definito doppio eunitario: è realizzata senza scosse unacoesione e coerenza di ‘alto’ (inversionie lessici primonovecenteschi) e ‘ricerca’(meccanismi delle avanguardie del secon-do Novecento, e vocabolario tecnico). Perquanto riguarda la inusualità delle tarsiedi Guantini («cesure / come assenzi, / esti-mi»; «tra le mani, pastelli / benservito: /e opache») un autore di ipotizzabile rife-rimento è forse Milo De Angelis. Mentreper un certo uso e ritmo dell’elencare, eper l’occorrenza del «noi» e di altri feno-meni di ‘creazione di identità’ tramitesemantizzazione di singole parti gramma-ticali (il «che», l’«in»: pensiamo all’inci-pit di una poesia come quella a p. 29: «checadon late / fise nel brillio, / atri che cigiocavamo / ben riposti, posti in cieli / ecicli, in cadenze / e pose. // in propositi enenie; scie / l’occhi chiose. muse») sentoparticolarmente opportuno pensare al-l’opera di Giuliano Mesa (in primis I loroscritti, Quasar, Roma 1992), poeta sicura-mente letto e apprezzato da Guantini. Ciòdetto, è altrettanto necessario sottolinea-re come la capacità di tarsia che l’autoremette in campo non è pura sommatoria dielementi ‘appresi’ (da un Novecento-oriz-zonte) bensì identità, stile individuale eindividuabile. A riprova, si legga la bellapoesia di p. 24 (dall’incipit memorabile:«a suono: nel danno, dicevi»), dove laproduzione di senso è affidata alla sapien-za delle rime.

Marco Giovenale

MIA LECOMTE, Autobiografie nonvissute, con una nota di Predrag Mat-vejeviæ, Lecce, Manni 2004, pp. 67, �10,00.

Milanese di nascita e romana d’elezio-ne, Mia Lecomte frequenta da critica iterritorî sdoganati della letteratura com-parata e in specie della letteratura italia-na della migrazione, industriosa promo-

trice delle nuove realtà italofone dellapoesia. Da poetessa, Mia Lecomte intes-se un paesaggio in bilico («sdrucciola avolte / obliquo alla cima») tra la precisio-ne dell’elemento fisico e toponomastico(esemplari i componimenti della secondae più recente sezione – Metamorfosi En-gadinesi (2002-2003) – della raccolta) el’intercettazione dell’«altrove nello stes-so istante»: «C’è sempre un’altra giorna-ta. / L’orso fermo sulla fontana, / siedequieto da qualche parte / lontano dallafontana, / altrove nello stesso istante / l’or-so quieto sulla fontana / siede fermo daqualche parte / lontano dalla fontana. / Ec’è questa fontana e / anche l’altra fonta-na / col suo orso più fermo / e lo stesso alsuo posto, più quieto». In linea con il sen-so del luogo mobile e poliedrico delleesperienze postermetiche (il senso, preci-sa Roberto Galaverni in Dopo la poesia,di un «qui a cui si sovrappongono o su cuisi proiettano altri orientamenti e altreluci»), le Autobiografie non vissute alte-rano sagome e profili attraverso le ipote-si associative della percezione: «ma nonil bianco che credi, / che dietro di sé sem-bra neve / o è neve rotonda e sciupata, /non è bianco come quella balena / la ba-lena prigioniera del bianco / ma ricordala sua smorfia distesa / nel profilo sbiadi-to di un uomo / il suo bianco certamenteinesatto, / non il bianco della bestia checredi, / ma l’idea che di lei ti sei fatta /giusto in margine / a quell’uomo percaso». Sono ipotesi mentali di attesa e dinostalgia, di desiderio e di rimpianto,oniriche e fiabesche talora (la passataesperienza di autrice di testi per l’infan-zia riscorre intera nella lirica Fiaba, nel-le sue invenzioni leggere di principi az-zurri e concubini magici, nel «bisogno /

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quand’è più fondo al fondo / di farli rima-nere»), acuminate nella tensione tra «l’ap-partenenza / e la perdita» sempre: «Allargo del mio naufragio. / Dal giorno chemi è venuta a salvare. / Sagoma ancora /simbolo e ipotesi / del navigare. / Tenutaal largo del mio naufragio. / Da me.»Oggetti, ambienti e corpi cedono ad unosguardo paziente («senza fretta dilagare /la pazienza del ghiacciaio / di era in era»)e assimilatore («Questa Roma di luce /sguardo e schermo / in scacchiera / a ri-flettergli l’ala / miserevole e cruda / tuttapiaghe da sotto, / piccolissime piume /sillabate nel petto / intagliate soltanto / damatite appuntite»), generoso di rifrazionisentimentali (‘sentimentale’ era il ‘Breveatlante’ delle Geometrie reversibili, laprima raccolta della Lecomte) e semprerecettivo alla «eco a caduta dal passato»che «balena in incaglio sul futuro»: «Eallora / di nuovo tutti i tuoi addii / ad an-ticipare gli addii / la tua nostalgia del fu-turo / ad anticipare il futuro / nato di nuo-vo / con una vita conclusa / che avevi giàvissuto / e ricominci ora a rimpiangere».Conducono le deflessioni di senso delleAutobiografie non vissute non clamoroseinfrazioni di lingua e di stile ma morbideimposizioni di contiguità tra pieni e vuo-ti, scarti e repliche: «Vita è quello che ri-mane / quando si è perduto tutto. / È ilcane a tre zampe / tutte e tre dritte e forti/ e una quarta strappata dall’inguine, / èla quarta zampa del cane / che nessun al-tro cane ha voluto / e non smette di pian-gere l’inguine / e tutte e tre quelle altre,dritte e forti». L’iterazione di parole o dinessi dalla semantica aspra, creaturale;l’espansione modulare del nodo poetico;la ripresa a distanza, quasi in riemersio-ne carsica, di un’immagine sono figure – associative, coesive – di ricomposizionedelle distanze. Poesia che «ad un’apparen-te distanza» pare sostituire – lo formulabenissimo Predrag Matvejevi� – «un gio-co di incidenze eminentemente intime,corporali, calde», la poesia della Lecomteè nel fondo ‘poesia dell’altro’, che è si-gnificant other nelle liriche erotiche del-la terza sezione, Periodo ipotetico (2002);è compagno (perduto) di poesia nella se-rie ispirata dal poeta Dario (Bellezza sipresume) che apre l’ultima e più antica(1996-1997) sezione, Litania del perdu-to; è ‘fratello’ nei tanti risvolti evangelicie scritturali amplificati da Scritture («E ilverbo si fece carne / si fece carne lieve /luogo cuore» ma poi in torsione: «E ilverbo si disfece nella carne / si disfece il

verbo grave / nodo luogo / occhi mani /acque ferme, amare acque») e dal Paterche, assommando etica e poetica, suggellala raccolta: «Padre, insegnami ad amare /solo quello che mi è dato da amare / undesiderio senza pugni serrati / ma con ledita socchiuse / per far scorrere il mon-do». Eros («erotismo sottile, tanto raffi-nato quanto sorprendente» è sempre Ma-tvejeviæ a scrivere) ma anche, direi,l’amore estroverso dell’agape, della cari-tà d’ascolto del vissuto e del non vissuto:«Aiutami ad ascoltare senza tutto il ter-rore / il lamento della vita non mia / ilsilenzio incessante e discreto / del tuoamore da sempre per sempre».

Federica Capoferri

PIERRE LEPORI, Qualunque sia ilnome, prefazione di Fabio Pusterla, Bel-linzona, Casagrande 2003, pp. 126, �

15,00.

Per accedere alla seconda raccolta pub-blicata dal poeta luganese (n. 1968), èutile ripartire da quel Canto oscuro e po-litico che ha visto la luce nel Settimo qua-derno di poesia italiana curato da FrancoBuffoni (Milano, 2001), e che il criticoproponeva di considerare come riuscitaouverture a un opera, di fatto, in largaparte già scritta, ma ancora in attesa chel’autore, impegnato sul doppio fronte diteatro e giornalismo, si accettasse comepoeta. L’ambizioso ossimoro del titolo/programma (comprendente la «rivoltacontro me stesso» e il progetto di «dina-mitare i padri») esprimeva uno slanciovitale ‘autentico’ non completamente im-mune dal rischio di ‘sovraesposizione’ pereccesso di detriti prometeici. La contro-parte era affidata a un manipolo di poesiein cui il racconto dei giorni si dava neitermini di un disegno nitido in cui «tuttoè traslucido e perso». Il grido della rivol-ta è ora ritrovato sulla scena del monolo-go ‘civile’, in particolare nella sezioneFratelli II (Il senso della battaglia). Mamentre l’invettiva assesta colpi di buonaefficacia dal ventre del corteo in rotta dicollisione con «legioni di preti e morali-sti, di medici / e saggi consigli», e peraccedere al quale bisogna «sfregare / peranni e notti la politura degli insulti», ladissonanza introdotta dalla ripresa delrefrain ungarettiano («Quale diversità /per noi, / fratelli? [...] il reggimento delnegare / prende voce di corteo»), sembracostituire alla lunga più un limite opera-

tivo (anche se non inutile, forse anche piùfacilmente sdoganabile perché in bocca diun rappresentante di un’‘italianità altra’?)che una vera e propria uscita dal proble-ma stilistico e rappresentativo posto dalgenere della poesia ‘civile’. L’obiezione,legata a un problema di registro, potreb-be essere accademica. Si vuol dire chel’opzione lirica delinea comunque il con-torno di un canzoniere (anche se ideolo-gicamente negato, vedi la citazione daPavese: «singole poesie e canzoniere nonsaranno un’autobiografia ma un giudi-zio») e che questo ‘tiene’ meglio quando,invece di forzare lo spazio lirico in dire-zione della parola scenica, assorbe (masarebbe meglio dire espone le proprievenature ‘per incastro’, come uno stratominerale, vedi l’attacco: «Lungo la vallepotresti / aggrapparti all’idea ch’è la roc-cia a parlare», in consonanza con la poe-tica del ticinese Pusterla che firma la pre-fazione del libro), nel circuito linguisticodel testo lirico ‘di tradizione’, i traumi egli urti del presente. Insomma, su premes-se liriche, se è vero che «gridare dentronon è / gridare per tutti», il ‘grido da den-tro’ consegna più volte un poeta di sicurointeresse quando la lotta delle generazio-ni («perché ogni generazione è un cate-naccio»), e l’accadere della violenza – con la sua figura intrinseca, la sterilità –fosse anche soltanto per eco ‘privato’ dellaviolenza della storia, avviene nel chiusoteatro del testo che ha nell’io dell’autorela prima condizione di ascolto, dove èpossibile «piantare un grido / esattamen-te al centro del gorgo come un ramo», al«lato caldo della luce».

Fabio Zinelli

GIULIANO MESA, Nuvola neve.Nove nuvole in forma di versi, Napoli,Edizioni d’if, «Gli armadilli blu», 2003,pp. 139, � 10,90.

La poesia di Giuliano Mesa si è datadue possibilità coesistenti e contempora-nee, che potrebbero essere la nuova for-ma dell’oscillazione antica tra trobar leue trobar clus: in Mesa, mím�sis (Nuvolaneve, ora, e prima il poemetto extravagan-te Da recitare nei giorni di festa e gli scrit-ti per Tiresia, con la musica di Di Scipio)e non mím�sis (tutto ciò che sta nella ri-cerca dei loro – non miei – scritti e in granparte dei Quattro quaderni del 2000: dovei Passaggi sono anche imitazioni/narra-zioni, a conferma della coesistenza delle

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due possibilità). È troppo facile dire chela riproduzione o la non riproduzione del-la realtà ha a che fare con un desiderio dipolitica, accettato, represso o sublimato.La questione può essere meno semplice:per esempio, bisognerebbe verificare se lariduzione della mím�sis è in rapporto conuna soggettività più marcata (che non vuoldire soggettività dell’individuo G.M.: èsempre questione di altri scriventi e dei«loro scritti»). La poesia realistica, com-plementare, si carica di dati precisi, masembra impersonale. Se «il mondo è pie-no di occhi» (Quattro quaderni), l’iden-tificazione di quegli occhi con un io è unerrore; se l’io non è – come non è – tuttoil mondo, il suo sguardo non sarà – nonpotrà essere – né mondiale né assoluto.L’abitudine di identificare strettamentel’altro con il (solo) lettore impedisce disuperare l’apparenza: anche lo scrittore èaltro, soprattutto quando si impegna nel-l’organizzazione delle proprie forme, invista di un libro (un percorso) di poesia.Gli archetipi critici ci sono già: «Kunstschafft Ich-Ferne» (Celan, Der Meridian),«Nur wahre Hände schreiben wahre Ge-dichte. Ich sehe keinen prinzipiellen Un-terschied zwischen Händedruck und Ge-dicht» (Briefe an Hans Bender), e soprat-tutto il secondo frammento dovrebbe es-sere preso come segno di un’agápe me-tafisica, oltre il senso comune: basti pen-sare a chi lo pronuncia. C’è la distanza esi dà la stretta di mano, in modo apparen-temente ossimorico; e nella lettera a Ben-der la critica di un poiein astratto che«aveva, con tutte le sue attinenze vicine elontane, tutt’altro significato che nel con-testo attuale» (trad. di Bevilacqua). Nu-vola neve esce come libro «per bambini»,o «per ragazzi, poi per giovani, poi perchissà chi...». (così deve essere; nel 1940Pavese scriveva a Gertrude Stein, ringra-ziandola per The World is Round: «Ofcourse, like all children-books, it is forgrown up people»). Mesa scrive in limi-ne: «La domanda per chi scrivo? non èriuscita a imporsi. È una domanda che unoscrittore non dovrebbe porsi mai. Ponen-dosela, pone se stesso in una condizionedi docenza. O di comunicazione. E sotto-pone il lettore». Non si tratta tanto di unlibro sulle nuvole – instabili, vaghe, in-formi («una non è mai una, mai uguale, /non è mai detta l’ultima parola / per direalla nuvola il suo nome») – ma sulla me-trica (sulle metriche, se «gli schemi sonoargini, che possono delimitare solo este-riormente il fluire ritmico... molti metri-

cologi, prima di contare le sillabe, dovreb-bero ascoltare un po’ di free jazz)». Piùesattamente: sulla funzione metrica diogni parola, in vista di un organismo com-posito e free («...batti e ribatti, tàta ta-tàta... / Dico che ha vinto, il cucco, maancora non lo so...»; i «tatà tatà dentro lestrofe, i versi, le parole...»). Solo la com-petenza tecnica, quando arriva al non plusultra, può destrutturare se stessa per rige-nerarsi, come ricerca delle altre tecniche(e per inciso: è necessario e urgente unostudio sulla fortuna e il ruolo pratico de-gli Spazi metrici di Rosselli nella poesiadegli altri). Purché l’orecchio non man-chi, quindi; ma intorno a Mesa sembra divedere una lunga, e anche vergognosa,mancanza di orecchio. In generale, chi hastudiato tutto può permettersi di non es-sere più niente, e di semplificare al mas-simo, oscillando tra lingua chiusa e lin-gua aperta; chi sa e sa fare poco, sa e safare solo quel poco – e «sottopone il let-tore».

Massimo Sannelli

GIAMPIERO NERI, Armi e mestieri,Milano, Mondadori 2004, pp. 63, � 9,40.

Il nuovo libro di Giampiero Neri inglo-ba una precedente plaquette, Erbario configure (Lietocolle, 2000), disseminando-ne però alcuni testi tra la prima sezione,Persona seconda, e la terza, Botaniche, ecollocandone la centrale Sequenza a for-mare la chiave di volta della nuova rac-colta insieme alla contigua sezione Fina-le, anch’essa già pubblicata (Dialogolibri,2002). La complicata manovra rappresen-ta un segno di discontinuità significativorispetto all’ultima silloge mondadorianadi Neri, Teatro naturale (1998), che riu-nificava le uscite precedenti allineandolecome capitoli di un unico libro; né, certo,importa soltanto ai fini della burocraticaregistrazione del critico o del recensore.Il ripensamento della propria poesia, dicui si fa implicitamente la storia nel mo-mento in cui se ne confeziona ex novol’abito pubblico, sembra infatti qui rispec-chiare il progressivo ridursi della distan-za difensiva posta tra sé e il passato, trasé e il mondo (le «spine» della Opuntia,pianta tenace e combattiva ma a rischiodi ingiallimento per sovrabbondanza d’ac-qua – facile paradosso per chi dal caso odall’«immaginario occhio di Dio» è statocomandato a mettere radici e resistere inun deserto dei tartari, tra «sabbia e ven-

to» – che occupa la sezione Botaniche),l’incipiente, impercettibile incrinarsi del-l’oggettività enunciativa del frammento,ora più frequentemente screziato da ac-centi meditativi che fanno da controcan-to ad antiche voci ora rimodulate, a pre-senze ricorrenti nuovamente inquadrate esvelate: così nel terzo quadro di Sequen-za lo «scrittore di provincia» che, «cercan-do la verità nel paradosso», «guardava /alla figura di Giuda», progettando un’ope-ra teatrale, precisa i contorni dello «scrit-tore di provincia» della prosa VII di Li-ceo, che «si dedicava a ricerche di inte-resse storico, ma non aveva abbandonatoi vecchi progetti letterari», e che alloraleggeva del «valoroso Casca», traditore esconfitto anche lui, come Giuda (la gene-rale sconfitta della cultura sarà poi regi-strata una volta per tutte, mutuando unaproverbiale chiosa manzoniana a propo-sito di una «famosa biblioteca» ormai«dispersa», in Finale); mentre in Armi emestieri, la sezione finale che dà il titoloal volume, acquista una collocazione spa-zio-temporale, rassegnandosi alla narra-zione e alla storia («In quelle nebbie, unamattina di novembre / aveva visto l’ami-co di suo padre / davanti alla scalinata delTerragni. / Nell’abbracciarlo, la biciclet-ta era caduta a terra, / ‘doveva essere l’ul-timo’ / era stato il suo necrologio») il ge-sto dell’«amico di mio padre» che, «la-sciato cadere la bicicletta / sulla strada»,lasciava cadere anche un commento so-speso («‘se tutto doveva finire’, mi avevadetto / abbracciandomi...») in Altri viag-gi, la sezione che chiudeva Teatro natu-rale. Con il ‘suono’ inconfondibile disempre, dunque, con minime ma decisi-ve sfasature narrative, di un dramma per-sonale e storico - l’uccisione del padre daparte di un gruppo di partigiani, la guerracivile - di una tragedia senza urla fin quimoltiplicata e rifratta in frammenti dispecchio (commenti, flash atemporali,immagini), per una preventiva presa d’attodell’insostenibilità epistemologica ed eti-ca di un unico punto di vista, certo, maforse anche perché, come recita una mas-sima celebre, né la morte né il sole si pos-sono fissare a lungo in faccia, si tentaadesso una ricostruzione, un primo, prov-visorio riordino; ma «Di quel teatro al-l’aperto / delle sue figure disperse» è or-mai difficile «ritrovare i fili», e la sezio-ne Finale, che di questo percorso memo-riale costituisce, come già si è detto, laseconda stazione, si chiude su una strazia-ta nota ungarettiana, rimodulata e anzi

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capovolta ma ancora riconoscibile («Diquelle vaghe ombre / dei nomi cui corri-spondevano / il tempo cancellava la me-moria. / Come sassi lanciati sull’acqua /che affondano dopo breve corsa / le figu-re si allontanavano / svanivano nell’ariatrasparente»), come a voler dire che èquasi troppo tardi. Resta che questa poe-sia pone non apertamente, ma chiaramen-te alcuni interrogativi, lascia intravedere,in misura fin qui inedita, una «penosametamorfosi» (Non un lento abbandono,in Botaniche), socchiude la porta di unacasa interiore i cui fantasmi sono ora, perconcessione o abdicazione del proprieta-rio, riconoscibili e provvisti di un’identi-tà non solo figurale (la bambina Elena cheabita e alla quale è dedicato uno dei testidi Sequenza è, chiarisce l’autore in notainfrangendo dall’interno anche l’estrema,fragilissima barriera dello pseudonimo,«mia sorella Elena Pontiggia»). Giusto,dunque, che l’immagine della casa di fa-miglia suggelli, in versi increspati da unacommozione appena trattenuta, la rubri-cazione conclusiva dell’inevitabilità del-la storia, quella di tutti e quella di ognu-no, e dell’inutilità di ogni fuga: «Il gran-de terrazzo al primo piano era vuoto, / lacasa sembrava disabitata / deserta di quel-le care ombre / che il tempo aveva can-cellato».

Elena Parrini

NEIL NOVELLO, Rosa meridiana,Novi Ligure, Joker 2004, pp. 46, � 8,00(www.edizionijoker.com).

Tracciando, a partire dal titolo, nelMeridiano di Celan la coordinata ‘topico/tropica’ dell’incontro con l’Altro nella lin-gua, Neil Novello ha voluto disegnare«qualcosa di circolare, che ritorna a sestesso attraverso entrambi i poli» (cosìappunto Celan, la cui ripresa, contro ilcorso della storia, del grido di «Viva ilre!» dalla bocca della Lucile Desmoulinsbüchneriana, fornisce il motto perfetto perogni sortita in dialetto). Al Sud della liri-ca troviamo i paesaggi calcinati («strati’mpucati», ‘strade infuocate’; «i juarni isalu», ‘i giorni di sale’), ma insieme not-turni con gelo, neve, nebbia, per il motoossimorico continuo delle metafore (lu-stru ara notta ‘Luce alla notte’; «cori inotto ’mmienzu u sulu», ‘cuore di nottein mezzo al sole’), ossimoro che azzera iquadranti nella tautologia: «Ma sicca ajumana sicca» (‘Ma secca la fiumana sec-

ca’); «Viva tu rusata neglia e viva» (‘Bevitu rosata nebbia e bevi’). Al Sud della lin-gua incontriamo serie compatte di arche-tipi folclorici (per es. il vecchio soldo disale alle labbra del morto in Camposan-to), veicolati da una lingua (un dialettoche, delle Tre Calabrie, esprime un tipodell’entroterra cosentino, il roggianese diRoggiano Gravina), che è di per sé un ser-batoio glottologico di arcaismi (per es.nella morfologia: la terza persona singo-lare con conservazione della denale fina-le, vestidi, ‘veste’, il condizionale, comespesso nel Sud, dal piuccheperfetto lati-no, ’nsunnera ‘sognerei’); e buona partedel fascino esercitato da Pierro su Conti-ni, non dimentichiamolo, è nell’esserePierro il poeta di quella che per i dialet-tologi è la ‘zona Lausberg’. Il fatto diNovello è il lutto per la madre che portail nome-senhal di Rosa, centro geometri-co del libro («Rosa i nua miridiana»,‘Rosa di noi meridiana’), in un dialogocontinuo con un nulla al di qua del nulla,il «Nenti i Rosa» (il ‘Nulla di Rosa’; l’ef-fetto è invasivo, attraversando la parola,specularmente, il nulla dei vivi, come nel‘solito’ Celan di Psalm: «Ein Nichts /waren wir, sind wir, werden / wir bleiben,blühend: / die Nichts-, die / Niemandsro-se», nel libro, appunto, della ‘rosa di nes-suno’). Il Santu nenti (‘Santo nulla’) as-sume simboli e nomi cristiani, in una fio-ritura di immagini il cui ‘fuoco’ si astutasolo in ceneri barocche (contrasta, sem-mai, il lutto ‘formale’ del sonetto: quat-tro volte ne è evocato lo ‘strofismo’, masenza rime e misure). Baroccamente sipuò invertire l’ordine logico delle azioni:«fiancu tu ara scarda» (‘fianco tu allascheggia’), «A vulì peddra i jidita juriscipiatali» (‘A volere pelle di dita infiorarepetali’), mentre ogni moto possibile difurore e ribellione si spegne control’astratto: «tu a vitticà u timpu» (‘tu a fru-stare il tempo’); «Va e scighi l’abbannu-nu» (‘vai e strappi l’abbandono’), «L’uoc-chio rumma nta specchiu disiartu» (‘l’oc-chio tuona in specchio deserto’). Suben-tra un sentimento di immobilità, riflesso,sul piano retorico, da frasi nominali (an-che di soli sostantivi «Aru scuornu a jac-ca aru viersu vasu.» ‘Allo scorno la feritaal verso bacio’. «Uocchi a frunta carna ntazanga» ‘Occhi la fronte carne al fango’),e nella sospensione ‘aspettuale’ legataall’utilizzo di gerundi in clausola, a chiu-sura di verso e di frase («Terra matri: rosai vita prigannu», ‘Terra madre: rosa di vitapregando.’; «Nu pujinu i jancu sulu / ghè

fuacu aru parmu, / culannu.», ‘Un pugnodi bianco sole / è fuoco al palmo, / colan-do.’). Si prolunga, insomma, nella sintas-si, quella «densità sonora» che «si chiu-de su se stessa [...] quasi a proteggere lavisione», secondo la formula con la qua-le Vitaniello Bonito (poeta a sua volta, inCampo degli orfani, Bologna, Book 2000,della storia del lutto materno), nella po-stfazione del libro, tocca dell’implicazio-ne affettiva legata alla scelta del dialetto.Il fatto di avere scelto il dialetto, poggiadunque sulla ‘finzione’ (ma è un pattodell’autore con se stesso) di non doverebattagliare per portare le cose alla lingua,né la lingua alle cose, essendo già le cosenella lingua. Il testo dialettale asciugatodi ogni venatura polifonica, è allora tuttoper la voce sola dell’autore. La ragioneultima del successo del libro è dunquenello scrivere a cielo aperto (a ferita aper-ta) nel cerchio vivo del suo chiuso mono-linguismo (sempre con Celan: «Al bilin-guismo in poesia io non credo. Doppiez-za di linguaggio – sì, questo esiste [...]Poesia ciò vuol dire, fatalmente, unicitàdella lingua»).

Fabio Zinelli

FABIO PUSTERLA, Folla sommersa,Milano, Marcos y Marcos 2004, pp. 176,� 13,50.

Cinque anni (1999-2003) ha impiega-to Fabio Pusterla a dissolvere il «grumodi parole», a «dar ordine al caos» dell’ul-tima raccolta, Folla sommersa, che sicompone di alcune plaquettes già prece-dentemente uscite in eleganti vesti illu-strate; lasso di tempo involutivo, non piùche scorcio di un secolo breve, violato,subitamente confermato nella sua conge-nita nequizia dai primi anni del terzo mil-lennio. Canto per una terra sconsolata;civil canto per cui «il poeta in quantopoeta» è chiamato a render testimonian-za di una storia iterata: l’imperituro abu-so dei salvati sui sommersi. Ed è la Sviz-zera ancora, patria montana, vallea allu-vionata, che inesorabilmente smotta mu-tando volto geologico nell’arco di balenicome d’evi, a ritagliarsi una parte specia-le, in figura dell’orbe intero, nel poema diPusterla, figlio non ingrato di un paese cheha da tempo abdicato perfino alla tradi-zionale sua livrea di ‘repubblica borghe-se’ rinfacciatale, passò stagione, da irri-ducibili coscritti – pure il grido in sestarima di un ignoto «schiavo prigione» s’al-

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za tuttora a condannare «libertà» che con-culca «uguaglianza» –; terra cresciuta,maturata, affrancatasi dai tratti di un’in-fanzia vichiana, dal bisogno di portareodio al comunista; non luogo di soggior-ni risananti, né conviviale ritrovo di ami-ci (sebbene sì Svizzera come terra del-l’eletta brigata di un maestro di lingua edi vita, Contini, o di colloqui poetici consodali – Orelli, Sinigaglia, Maria Corti,Emery, Snozzi, Patocchi –), ma speculo diun mondo corso da nuove guerre, da mi-grazioni nuove battuto. È, «questa» (e qui,nel deittico che addita a un ideale viatoril microcosmo montanino quale exem-plum-scempio, si risente la potenza allo-cutoria del linguaggio biblico, la forzasentenziosa di un Ungaretti alla ricercad’identità) la «terra di nessuno», collamateria, argilla, che nella sua malcertastabilità raffigura le variabili sorti di ungenere umano frombato in mezzo a tribolie robinie. Da quest’orto richiuso dove ilrovo è dappertutto, non «vigna del Signo-re», ma progressivo avanzare di tabe,echeggia da sempre un monito a chi traquesti bronchi si trovi inviluppato – «Ep-pure si doveva camminare» – rilievo checombina la favola di Renzo, del poverobaggiano in fuga, il suo «cammina, cam-mina» di Pollicino iniziato alla cognizio-ne del dolore (Promessi sposi, XVI), conl’imperativo ideologico dei secolari sfrut-tati. Andare, dunque, perché questa non èterra dove posare, ma di trapasso, dove «siva come» (e non «si sta come» – anchel’ungarettiana analogia che predica latransitoria natura dei mortali, arse fogliecaduche, è ‘corretta’ a dire ulteriormentela labilità dei giorni dell’uomo che comeombre declinano –) «superstiti e fuggia-schi». Zolle alpestri, che mai fomentaro-no brame di conquista – la lapide napole-onica del 1805 riferisce sì di un transitodi truppe per strade che dovevano essere«di speranza e di gloria», ma non più cheun passaggio: «hic» non «manebis opti-me» –. «Pensare altra meta», allora, me-nando «sulle spalle un fascio» antico di«improbabili speranze», incamminarsisempre, comunque, con la tenacia di una«salamandra nera», irriducibile bestiolache, venendo anch’ella «da un posto / sen-za ritorno, inghiottito», «cammina su stra-de piovose», «cammina nelle città, raden-do muri, elemosine». Nessuna realtà pos-siede la forza esemplificativa di questopiccolo cosmo alpino, nel deprecare lefragili stirpi dell’uomo, dove se i vetridelle venti case di Gondo – numerabili

come i pochi tetti di Rio Bo –, da un solosguardo abbracciate, a sera, agli obliquiraggi del sole, abbarbagliano secondo lepiù tradizionali note elegiache di un Gau-tier o di un Pascoli dipintori di paesaggisegantiniani, la quotidiana consuetudine,il fenomeno giornaliero può essere fatal-mente interrotto da una catastrofe impre-vista. Repentina, allora, la metamorfosidell’ambiente, che da montano e boschi-vo, tutto un declivio di velluto verde, ètravolto, spazzato, levigato, reso arido,uguale, indefinito e desolato aequor,un’uniformità sgomenta, dalla fiumanainarrestabile di un corso d’acqua ingros-sato. Sono, queste, le periodiche alluvio-ni che cancellano i borghi elvetici, le ef-fimere peste dell’uomo sulla terra; masono, questi, pure, i segni tangibili di al-tre meno evidenti cancellazioni fisiologi-che, le cicliche rimozioni della storia, che,ogni ottanta anni, dissipa la memoria delproprio passato. Per tale ragione il mon-do è comunque destinato a perdere il ri-cordo di Paul Hooghe, «l’ultimo lancierecaduto su nessuna spiaggia» (fratello disventura, seppur non morto in battaglia,del «primo caduto bocconi sulla spiaggianormanna» di altro conflitto universale, dialtro poeta lombardo), «sommerso» poi-ché inesorabilmente la storia abbisogna dispazio ed, imparziale, oblia gli iniquicome i giusti; difficile opporre un arginealla piena che dilaga e trascina via con séfatti e ricordi, ancor più arduo quando,sorto dal nulla, «un altro» si metta a gri-dare che «è stato un gioco / uno scherzet-to innocuo», negando «forche» e «fosse»del vergognoso regime fascista. Come laterra montana è esempio del lento scivo-lamento nel buio, così dall’atomo alpino,dalle sue semplici creature, deriva la ‘le-zione’ salvifica, che apprende all’uomo lasua perduta innocenza. E può essere ilvolo a freccia, o ascensionale degli airo-ni, a instillare un desiderio di elevazione,l’illimitata pietas di un bianco felino, ri-masto un’intera giornata presso il compa-gno massacrato sulla strada, a suscitarel’attenzione di due ragazzi appena spor-tisi alla vita, oppure l’alacre volontà deicastori, costruttori indefessi di dighe ab-battute dai torrenti, «modesta colonia» dianime belle mai sfiorate dal dubbio del-l’infinita vanità del mondo, a rianimarenell’uomo il connaturato ottimismo dellavolontà, così da spingerlo ad abbicare,altrove, su spiagge erose, ciottoli e ghia-ra, trasumanante fatica dispersa poi dal-l’onda. Dall’arcano regno animale, scen-

dono a notte, all’alba, magiche presenze,l’inquieto stambecco, che del suo transi-to lascia solo la labile traccia di un «pro-fumo selvaggio», un umile e bruno donodi sterco, e ingenera aspettative nella fer-vida immaginazione di un infante («E lopotrò vedere, carezzare sul muso?»), lagioia di un rito da compiere – porre lemani sulla bestia – per riceverne calore eoracoli, come già dai campani, dalle pu-pille delle capre «Dalpe», vedute con gliocchi creduli d’incanti, cantate con la li-rica lallazione della piccola Giovannadall’amico Orelli. Ma se perfetta imma-gine del ciclico dissolvimento è questofranare di fanghiglia, altra metafora riu-scita appare l’athanor di una storia barba-ra e brutale (Sul fondo della provetta):come al fondo di futuribili, genetici ma-tracci, in cui si sperimenta e si sconvolgel’ordine della vita, rimangono fecce eposature che non riescono a salire di gra-do, così sedimentati, a terra, di nuovo,ancora sommersi, restano tutti coloro che,«drosofile» di un’alchimia degli eventi,non sanno risalire i bordi di questi vasilutei in cui l’umanità è sepolta; tanti an-cora gli inabissati senza speranza: coloro«che battono strade più impervie», comeil «liceale annoiato» che disattende al suodovere di testimonianza, gli alpini del ’43,mandati senza possibilità di ritorno inRussia, «fuscelli» dispersi al vento dellaguerra e della propria ignoranza, non tut-tavia diversi dai loro eredi, contenti a un‘quia’ che non può più, non deve ormai,bastare; il decimo porco estromesso dalbranco, nondimeno come coloro che nonodono l’umano, troppo umano, grugnitodi questo. Come sperare aiuto in un mon-do dove «una» «ne basta» «di vite, a sfar-ne troppe», in questo rovesciato reame diEusebio? Pure, a qualcuno è dato trovareprovvidenziale rifugio nella terrena Gio-safat: a chi non si faccia «più illusioni»,a chi, come «gli stornelli di Berna», chepossono riparare nel timpano del duomoaffrescato con le storie del Giudizio uni-versale, così da sottrarsi all’infernale bu-fera (curioso il lapsus nella nota d’auto-re, per cui Pusterla muta l’identità dante-sca e peccaminosa degli alati in quella dievangelici passeri, i salvati di Matth. X,31, guarentigia di divina sollecitudine perl’uomo), si svesta di più opime forme, e,nella sua gracilità, approfitti dei pochisbrecchi («sbricchi» direbbe «la poveraPiera», nei suoi «anadrammi») dischiusinella maglia.

Francesca Latini

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ANDREA RAOS, Aspettami, dice,Roma, Pieraldo Editore 2003, pp. 123,� 10,00.

Nato nel 1968, Andrea Raos ha esordi-to con la raccolta Discendere il fiume cal-mo, nel Quinto quaderno italiano direttoda Franco Buffoni (Crocetti, 1996). DiRaos va inoltre segnalata la realizzazio-ne nel 2001 di un’antologia italo-giappo-nese di poesia, intitolata Il coro tempora-neo. Il presente volume contiene il lavo-ro di un decennio. La struttura lascia spa-zio a componimenti di varia natura: sonet-ti, poesie, anche brevissime, dal verso ir-regolare, brani di prosa ad altissima con-centrazione. Questa irrequietezza delleforme non cede mai a spinte informali,sorvegliando l’autore ogni accostamentodi materiali sul piano del singolo testo edella raccolta. Il tono è di concentratodistacco, la musicalità cercata per vie tra-verse, in virtù di rime interne o inaspetta-te, assonanze, ripetizioni. La chiusura for-male e il tenore iperletterario della linguanon permettono intrusioni del quotidiano:l’universo dell’esperienza è vagliato perestrarne una fibra purificata. Ogni scoriaè distanziata per ottenerne un’espressio-ne cristallizzata, in grado di diffrangere insuoni e significati diversi un flusso emo-zionale grezzo. Le correnti dell’astrazio-ne tagliano lo slancio lirico, non per pa-rodiarlo, ma per purificarlo da elementibiografici e contingenti. Esiste il rischioche il virtuosismo esaurisca l’attenzionedell’autore nella costruzione di un raffi-nato artefatto verbale, privo della capaci-tà di rinviare al mondo. Ma più spessoRaos raggiunge l’obiettivo, senza rinun-ciare alla figurazione della realtà, nel rior-ganizzare la visione stessa, a movimentie scorci imprevedibili. L’oggetto diventasecondario, il lavoro espressivo si concen-tra sulle modalità prospettiche. L’irrequie-tezza della forma si rivela, tematicamen-te, come un incessante bisogno di spostarelo sguardo sul mondo, cercando di co-glierne la ricchezza di superfici. Il datocontingente e biografico conta meno del-la possibilità di trasformarlo, sottoponen-dolo ad un’angolatura inedita. È la densi-tà emozionale di certi eventi traumatici ascatenare l’esigenza di scorci anomali (siprenda la sezione Distruzione, eco, mar-cata dall’esperienza del lutto paterno). Siesprime qui una caratteristica importantenel panorama della poesia italiana con-temporanea: la volontà di smarcarsi dalmanierismo, divenuto una sorta di oriz-

zonte ‘naturale’ della scrittura. Con taletermine si indica una rinuncia all’idea dipossibili innovazioni sul piano stilistico etematico. Vi si affianca un’arrendevolez-za nei confronti dei repertori metrici estilistici della tradizione. Per il manieri-sta odierno, i confini della lingua poeticasono variamente tracciabili, ma definiti-vamente assodati: raramente si è disposti,con sana arroganza, a ridisegnarli secon-do linee di fuga impreviste. Questa som-maria definizione di manierismo deveessere completata da un’ulteriore defini-zione che troviamo in un denso scritto diStefano Dal Bianco, Lo stile classico (inLa parola ritrovata. Ultime tendenze del-la poesia italiana, Marsilio, 1995). Ilmanierismo odierno ha soprattutto a chefare con la presunzione dello stile indivi-duale. Nell’ottica classicista di Dal Bian-co, salvaguardare la forza dello stile e lasua «istanza di comunicazione» implicauno «stile in quanto rifiuto dello stile».Indipendentemente dal partito preso, l’in-dicazione di Dal Bianco è importante. Econ Raos ne abbiamo una controprova. Inlui il rifiuto dello stile individuale è ani-mato da un sotterraneo sperimentalismoche non cerca di saltare la mediazione conl’eredità letteraria. Non vi è nessuna ten-tazione da parte sua di acquisire una lin-gua naturale, capace di aderire ad un’es-senzialità delle cose filtrata da una sensi-bilità autonoma. Le forme sono utilizza-te in modo ipotetico, e così la lingua, poi-ché non è assodato che la poesia porti ol-tre se stessa, a un riconoscimento di espe-rienze fondamentali. Tale scetticismo nonimplica l’accettazione di un gioco iperlet-terario ma l’impegno costante per il ritro-vamento di una visione della realtà attra-verso gli strumenti offerti dalle istituzio-ni poetiche, considerate non punto d’ar-rivo ma d’avvio del processo espressivoindividuale. Un buon esempio si legge nelsonetto della sequenza Nessun frammen-to, scritta sullo sfondo delle guerra nellaex-Jugoslavia: «Salendo alta nell’aria,questa voce, / Facendosi più calde, menorare / Le correnti, si unisce alla precoce /Sera, si incrina e increspa contro il mare;// [...] // La ferita dando ogni forza all’er-ba / Che ne accoglie le membra e si di-stacca / Poco a poco una pelle che nonserba // Più acqua o proteine, in cui lasacca / Dell’uretra si scassa e quanto in-nerba / La lacca delle urine gela in biac-ca». La scansione dell’endecasillabo amaiore, che rende ancora più precipitosol’uso dell’enjamebement, è punteggiata da

rime ed assonanze interne, a rendere ladimensione sonora più ipnotica e unifor-me. Ma in questa ricerca di parallelismifonici gioca in senso opposto, verso l’ir-riducibile molteplicità del discorso, lospettro ampio ed eterogeneo del lessico,compreso tra il vocabolo medico «uretra»e quello letterario «innerba». Nella tensio-ne tra identità sonora e diversità lessica-le, si fa strada una figurazione concreta ecrudele del corpo offeso. È in tale inten-sità e simultaneità di effetti che questapoesia raggiunge il più alto grado di con-centrazione, tenendo assieme le più mi-surate esigenze ritmiche con le più incan-descenti esigenze figurative.

Andrea Inglese

FRANCESCO SCARABICCHI, L’e-sperienza della neve, Roma, Donzelli2003, pp. 144, � 11,00.

Francesco Scarabicchi (Ancona 1951)approda alla collana di poesia di un im-portante editore nazionale. Il suo percor-so era comunque di tutto rispetto: le sueprincipali opere, poetiche e di traduzione,sono uscite per L’Obliquo, raffinato edi-tore di Brescia, mentre da PeQuod uscì,nel 2001, un’autoantologia accompagna-ta da una nota di Pier Vincenzo Mengal-do. Più che una consacrazione, si trattaquindi della possibilità offerta a un veropoeta di poter raggiungere un pubblicoallargato. La sua lirica non è affatto ‘fa-cile’. Sebbene il dettato si possa far risa-lire alla tradizione di un monolinguismolatamente ‘petrarchista’, perlustrato nel-le sue possibilità conoscitive più nasco-ste, il lettore è chiamato ad uno sforzo diconcentrazione notevole. Vi troviamo unlessico ridotto, rastremato fino a compor-si, per esempio, dei soli elementi legati altempo meteorologico e al tempo dellagiornata: «Questa pioggia che senti / gio-vane lungo i muri // picchia, se fai silen-zio, / ai nostri vetri, // bagna inferriate efoglie, / crolla dalle grondaie, // allaga ilbuio, / cancella ponti e polvere // e scom-pare». Altrove Scarabicchi, puntando aquella brevitas che appare essere un ca-posaldo della sua poesia, scrive: «Quan-to tempo del tempo muore eterno, / albadi mute porte, nomi che parleranno». Èallora di grande interesse quanto affermal’autore nella nota finale del libro: «l’hocomposto come una sorta di epistolario inversi [...] perseguendo l’utopia di una pa-rola che niente altro dica se non la neces-

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saria verità di quanto accade nell’anoni-mato e negli invisibili interstizi del tem-po irreperibile della vita di tutti, nominan-do, come suggerisce un verso delle Mis-sive, ‘quel che al sole resiste e al freddoinverno’, concentrando un’attenzione sen-sibile nei confronti del presente». Le Mis-sive costituiscono una delle sezioni di cuisi compone quest’opera, uno dei punti incui si manifesta più forte questa utopiadella parola, la quale diventa chiaramen-te l’aspetto più nuovo introdotto dallascrittura del poeta marchigiano. È qui chela poesia di Scarabicchi conferma quantonon sia che apparente la sua ‘facilità’. Maè altrettanto vero che qui il lettore di poe-sia riconoscerà la vera forza del libro. Sitorna dunque a parlare di Utopia, un luo-go che non c’è nella realtà, ma che simanifesta sempre come una scommessaper la letteratura. L’Utopia conduce anchea discutere di etica in poesia. L’Utopiapuò farsi carico dell’eticità della poesiaquando, definendo apertamente il proprioraggio d’azione ideale, contemporanea-mente riconosce anche i limiti – spaziali etemporali – propri della scrittura poetica.

Alberto Cellotto

GIOVANNA SICARI, Epoca immobi-le, Milano, Jaca Book 2004, pp. 120, �12,00.

Nella poesia di Giovanna Sicari l’amo-re è duro, la tenerezza non arrendevole, ilgrido potente nella disperazione. Pubbli-cato poco prima della scomparsa dellapoetessa, Epoca immobile riesce in quan-to i versi mettono a nudo un cuore.L’estremismo insito in quella prima inten-zione di Baudelaire è realizzato attraver-so una musica che è urto e carezza. Inner-vata dalla violenza e dalla benedizione, lapoesia della Sicari si sovrappone allamalattia, all’amore e alla morte. «Trovail nuovo grande come bara / l’amore folleche guarisce, affonda in una morte / chenon ricorda». La voce è inconciliata quan-do raggiunge una pace temporanea, è in-quieta quando sogna un futuro immobileperché troppo ben conosciuto. «Solo unascia d’amore vorrei cantare / quando nonsono né donna / né carne, né volo, né ac-qua / quando non sono quella // e il nullapietrifica in una condizione / d’inferno:sconforto di tutti i giorni / dove tutto eniente sono / la cosa cieca della cosaviva». Nulla pietrificato, sfinge infernaleche annienta l’identità ma che non per

questo cessa d’essere vita. Essere la cosacieca della cosa viva significa forse averperso tutto tranne il qui e ora che chiededi «potersi arrendere, [...] gentili / nelvertice di quelle cose che si fanno senso,fortuna, salute». L’estrema tensione avolte si rifugia in una tenerezza che so-miglia al coraggio: «Amore del rifugio edell’acqua / soltanto sei un’anima, unuccello / una pianta, un filo di morte, / unavita». Coraggio di restare nudi anche difronte alla propria morte, non maledicen-do cioè la vita: la maledizione sarebbe untravestimento per ingannarsi, per convin-cersi della vanità dell’esistenza. Ma quiGiovanna Sicari non arretra, «perché mioffrirò intera senza tagli / perché il cieloc’è e mantiene». Ricorda Alioscia Kara-mazov: «Ora il fratello Alioscia dice – nonpentitevi / mai del bene che fate [...] Fra-tello Alioscia è per te l’ultima chance /buonasorte da non mancare». La chanceriposa nella dolcezza di uno sguardo chenon è né quello della logica euclidea diIvan Karamazov, né quello della passio-ne assassina di Dmitrij, ma che li con-prende, rendendoli preghiera. La chance,l’ultima, non ritratta il bene fatto, nonconsegna la vita alla punizione stermina-trice della morte. Non si ritratta il benefatto, anche se è debole o forse proprioperché lo è. La logica della morte, il suoghiaccio necessario e la passione che esi-ge vita diventano nella Sicari decreto: che«venga la gioia con fulmini e alluvioni. –/ Questo è tutto».

Lorenzo Chiuchiù

ITALO TESTA, Gli aspri inganni,LietoColle 2004, pp. 38, s.i.p.

«Tout entouré de mon regard marin».‘Tutto avvolto dal mio sguardo marino’suona un verso (la traduzione è quella diMaria Teresa Giaveri) de Il Cimitero ma-rino di Paul Valéry che a suo modo puòambientare l’atmosfera de Gli aspri in-ganni di Italo Testa. Il sole, o comunquela luce, la terra, il vento – forme simboli-che dominanti nel poema del poeta fran-cese – galleggiano in sospensione, nuota-no in quello stato di torpore che preludeal prendere sonno, nei dieci componimen-ti dell’autore italiano. Il comando d’esor-dio «devi» farebbe intravedere una into-nazione imperativa dominante nel testo,come è stato sottolineato nella postfazio-ne; in realtà, già dal secondo componi-mento in poi, l’ordine affievolisce nel-

l’esortazione «lascia» ripetuta inesaustaper tutto il libro, alludendo piuttosto a unconsiglio, un suggerimento. Consiglioverbale che può essere però subito nega-to dalla sua stessa veste ossimorica: ‘la-sciare’ è ‘permettere’ e, contemporanea-mente, ‘desistere’ o ‘smettere’. E, difatti,«il rovescio / si installa negli occhi, oscu-ra / il confine delle cose». Il sonno si apreal rovescio della camera oscura, all’ingan-no del «resoconto terrestre»: «lascia ade-rire / alle forme dell’inganno le membra».Il sonno è una forma di abbandono: ab-bandonare una realtà per abbandonarsi aun’altra, attraverso «le lente bracciate»del nuotatore, metafora di chi sta tentan-do di addormentarsi o, ugualmente, diesistere. E proprio in virtù di questa me-tafora lo spazio liquido del nuotatore puòanche risultare la bacinella d’acqua incopertina di libro, spazio già sufficientea contenere la navigazione, tutta menta-le, del pensiero. Si insinua una volontà dipersistere nel portare a compimento untragitto attraverso le esortazioni perennidella trama testuale: «misura il respiro»,«lascia variare i silenzi», «ascolta il sof-fio / di un sonno astratto». Come il movi-mento dell’onda, sono frequenti le impen-nate e le ricadute: «cadi e l’ala non sor-regge i passi / che nell’azzurro il corpo involo traccia». Ma allora, «a chi appartie-ne l’acqua?», elemento motore della vi-cenda poetico-esistenziale. «Fluttua ilpolline / dei versi per squilibri d’acquelimpide». Torna ancora una volta allamente Valéry – solo che in lui erano il rit-mo, e, attivata da questo, una parola eti-mologica e sensoriale, a dettare la stesu-ra dei versi – col suo congedo marino:«Envolez-vous, pages tout éblouies!»,‘Volate via, pagine abbacinate!’ Congedoche in Testa si risolve nella direzione diun «sogno che si dirada e assiepa fogli /in un turbinio di lettere e stelle».

Giuseppe Bertoni

PAOLO VALESIO, Ogni meriggiopuò arrestare il mondo/Every After-noon Can Make the World Stand Still.Thirty Sonnets 1987-2000, traduzione diMichael Palma, introduzione di JohnHollander, Stony Brook, New York, Gra-diva 2002, pp. 68, $ 13,00.

Come evidenzia John Hollander nel-l’introduzione, questa di Paolo Valesio èuna prova a carattere metapoetico, chericonosce e usa la tradizione del sonetto

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– italiana ed inglese soprattutto – a rea-gente del problema del rapporto traduzio-ne/tradizione. È una lingua di dialogo cheha l’ambizione di essere colta e leggera,scritta nel marmo ma con pudicizia. È lalingua di chi è partito e da questa distan-za percepisce il mondo. Troppo divertitoè il gioco e l’amore delle parole in Vale-sio, per limitarsi al confronto con il mo-numentum, che una lingua romanza qua-le l’italiano e la forma del sonetto in par-ticolare implicano. Qui è l’ardire e lamodernità della sua ultima raccolta, il cuicarattere innovativo consiste nell’attraver-sare tale limite, per inaugurare soglie per-sonali, aperte ai luoghi/loci dei libri edella vita. Il sonetto è usato in forma nar-rativa, come esplicitato nella nota di ap-pendice al testo: «The choice and organi-zation of these three sequences (with theirpublished and unpublished components)outline a story that constitutes the foun-dation and the novelty of the present vo-lume». Roma assume un valore simboli-co di riconciliazione e di porto: «that pla-ce of the impossible and the compatiblethat is Rome». Nella cornice complessi-va Trastevere and beyond viene infatti aindicare una conclusione aperta, dopo laprima (Thresholds) e la seconda sezione(The Sacred and the Profane) – è inoltrenel Sonetto Transtiberino, 2: Villa Medi-ci che ritroviamo l’endecasillabo eponi-mo della raccolta: «ogni meriggio puòarrestare il mondo». Sono poesie costrui-te intorno al centro di un concetto classi-co di durata e di forma, sulla base di unmoderno principio di non identità tra vocepoetica e autore. Autenticamente moder-no è il collegamento tra sogno e frammen-to dell’immagine fotografica e filmica,con il suo riferimento al doppio: «ci uma-niamo / solo quando noi stessi raddoppia-mo» (Il doppiaggio), così come l’assun-zione di un dualismo logico e visivo: «Ierinotte ho sognato una poesia / Non ricor-do nemmeno una parola, / ma solo chenon era opera mia [...] ne seguivo il con-torno e forma pura: / era compatta sottola mia mano» (Sogni quasi-poetici). Èproprio attraverso spostamento e proiezio-ne dell’io che Valesio realizza la figura piùautentica della sua poetica: il dardo (siveda qui L’Erosione Temporale, SonettoTrasteverino, 3), kairos aperto ad uno spa-zio-tempo post-moderni – di sincronie esintropie – alla ricerca di un ‘centro’: «laparola dardo allude all’etimologia del ter-mine italiano giaculatoria designante una

parola breve, e proveniente com’è noto dallatino iaculum ‘dardo, giavellotto’ (dun-que giaculatoria è come una preghiera chesi scaglia)». Il riferimento alla preghierainserisce i Dardi pubblicati nel 2000 e piùin generale la poesia valesiana nell’ambi-to del sacro. Un sacro che Valesio meditae individua nel rapporto di salute con laterra, scommettendo – oltre il registro delsublime – sulla forza sempre vitale dieros. Scrive Valesio: «Ma per fortuna nontutto, nell’opera d’arte, è tenuto nel regi-stro del sublime. Dove andrebbe a finire,se no, il rapporto risanante con la terra?Un certo bambino, le prime volte in cuiudiva la parola giaculatoria in penombreecclesiali, ravvisava in essa (con un arbi-trio etimologico infantil-popolare) lamolto colloquiale parola di quattro lette-re designante il deretano, e si sentiva per-plesso... Da grande avrebbe filologica-mente notato che l’etimologia di giacula-toria e di eiaculazione è la stessa: e avreb-be cominciato a capire come nella dimen-sione desertica della modernità, il sessopossa temporaneamente (e illusoriamen-te) giuocare il ruolo di surrogato del sa-cro». Il virtuosismo di Valesio sul temadella tradizione invita a leggere: «Il sonet-to è morto! Evviva il sonetto!» e ad instau-rare un «rapporto risanante» con la poe-sia in lingua italiana oggi. Se – come scri-ve Hollander – la sequenza narrativa deisonetti del libro è un’operazione parago-nabile a quella realizzata da Dante Ga-briele Rossetti in The House of Life è an-che vero che questa raccolta risponde auna precisa questione della lirica italiana:quella della sua grazia e del piacere di ri-trovarla.

Francesca Cadel

Poesia contemporanea. Ottavo qua-derno italiano, a cura di FRANCO BUF-FONI («Testi di Testo a Fronte»), Mila-no, Marcos y Marcos 2004, pp. 288, �14,50.

Superata la soglia dei cinquanta poeti– con questo ottavo quaderno siamo esat-tamente a quota 51 – la fortunata formuladei quaderni italiani può essere a pienotitolo considerata la più adeguata a ren-der conto del panorama poetico italianocontemporaneo (dal ’91 a oggi), e il suoinventore e gestore può affermare: «È sta-ta una grande soddisfazione – in questianni – constatare come molti tra i ‘giova-

ni’ proposti continuassero poi con costan-za lungo l’arduo tragitto della ricerca poe-tica originale e sapessero mettersi in lucecon successive raccolte autonome di poe-sia. E come altri esordissero con succes-so anche come critici, saggisti e narrato-ri» (Franco Buffoni, Premessa). Il succes-so naturalmente si misura con l’alta per-centuale di poeti poi acquisiti da grandicase editrici (Stefano Dal Bianco, Anto-nio Riccardi, Alessandro Fo, Elisa Biagi-ni...), ma anche, soprattutto, con la conti-nuità della ricerca espressiva e, appunto,con la realizzazione di libri importanti (sicitano almeno i casi di Claudio Damiani,Massimo Bocchiola, Edoardo Zuccato,Antonello Satta Centanin alias AldoNove). Ben vengano dunque sul mercatoeditoriale e nell’agone letterario questisette nuovi poeti: Fabrizio Bajec, VanniBianconi, Nicola Bultrini, Andrea De Al-berti, Tommaso Lisa, Annalisa Manstret-ta, Luigi Socci, accompagnati rispettiva-mente da Antonella Anedda, Fabio Puster-la, Claudio Damiani, Flavio Santi, Ga-briele Frasca, Umberto Fiori e Aldo Nove.Il risultato anche stavolta sembra di altolivello – e si perdonerà il critico se siesprime con prudenza, ma si tratta pursempre di sette libri autonomi da assimi-lare. Colpisce soprattutto la laica icasti-cità di Luigi Socci, anconetano del 1966,le cui ascendenze comico-gnomiche sonoperfettamente individuate da Satta Cen-tanin-Nove (Palazzeschi-Caproni-Buffo-ni): «Questa poesia non è / per te né pernessuno / non lascia alone / ha l’aut. min.ric. / non odora di chiuso / e poi / non sifa i fatti miei / ha tutte le carte in regola /è ochei. // Questa poesia è bielastica / puòessere una esse / o volendo un’ixelle, /questa poesia si stende / come una partedel corpo, / una pelle. // Questa poesia nonquadra / il cerchio casomai / si acuminain un rombo, / questa poesia non è / per teche sparirai / prima che tocchi il fondo».Analoghe e altrettanto apprezzabili dotiaforistiche si riscontrano in Nicola Bul-trini, marchigiano, quasi coetaneo di Soc-ci ma gravitante intorno all’ambiente ro-mano. Il prefatore Damiani (la cui poesiaagisce direttamente su quella del prefato)sa individuare con sicurezza la lezionecardarelliana, soprattutto al livello delprogetto ritmico-sintattico («Ama la miasposa / bagnarsi di sole. / Poi si fa bella asera, / e la sua ombra riluce / notturna. //Mio figlio gioca / invece, anche conl’aria...». Notevole, poi, la voce di Anna-

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lisa Manstretta (1968), che conduce unosplendido dialogo amoroso attraverso lalingua limpida del paesaggio (scrive Fio-ri: «A guidarci verso il fondo più segretoe più solido del nostro essere, allora, nonsarà la psicologia; saranno la geologia, lastoria», p. 210). La sua semplicità – ar-dua conquista – fa pensare al poeta-agro-nomo bassotedesco Peter Kuhweide tra-dotto da Giovanni Nadiani, o all’ingleseSelima Hill. Siamo comunque, seppurdentro confini strettamente lombardi, asud e a nord di Milano, in un’atmosferapoco italiana, ariosa e libera, discretamen-te ironica, leggibile, godibile: «La gentecontadina ama le cose familiari / fa piania lungo termine / non segue i sentieri pol-verosi dei nomadi / pensa per generazio-ni. / Tu sei stato lontano / in un’altra lin-gua per anni / e voli via con l’aeroplano /mentre sto seduta a leggere in cucina. /Sorridi, però, e gli occhi / si vedono rimes-

se accoglienti / per attrezzi e bestiame».Riprendendo l’ordine alfabetico del libro(e passando alla generazione dei venten-ni), Fabrizio Bajec apre il libro con la dif-ficile raccolta Corpo nemico (Aneddaparla di un «itinerario aspro e raffinato»),ricca di asperità che sembrano mimare loscontro con il corpo, la sua inospitalità.Vanni Bianconi, svizzero e cosmopolita,traduttore dall’inglese e dal gaelico, esor-disce qui con Faura dei morti (faura, at-testato anticamente sull’arco alpino –spiega Pusterla – significa ‘bosco sacro’,protezione vegetale dai pericoli dellamontagna). Si tratta – si cita ancora dallalimpida introduzione di Pusterla – di una«Poesia esistenziale, dunque, o frammen-to di Bildungsroman contemporaneo, incui le vicende individuali non sono esibi-te, e neppure alluse: di tali vicende, in-ghiottite dal vortice, sopravvive appena unriflesso linguistico, un’esitazione sintat-

tica, un precipitato lessicale». Con altret-tanta chiarezza e generosità Flavio Santi(come sempre attento a giustificare ancheteoricamente il proprio intervento critico)ci introduce alla raccolta di Andrea DeAlberti, il quale «organizza i suoi testi conuna compagine precisa e puntuale di de-dicatari», come se ogni parola, ogni ver-so non dovessero andare sprecati, caderenel vuoto dell’incomunicabilità: questapoesia e «trasmissione di saperi e di vite».Tommaso Lisa, infine, sembra prosegui-re con questo suo «microcanzoniere ba-rocco» (la definizione è di Frasca) certolavoro sulle forme e sulla lingua avviatoda Scarpa Nove e Montanari in Covers,alla ricerca di una posizione originale nelpanorama postmoderno (non senza argu-te strizzate d’occhio a Magrelli, a Sangui-neti o allo stesso Frasca).

Simone Giusti

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