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~1~ GIORNATE FAI DI PRIMAVERA 2015 PIAZZA PRIMO MAGGIO: TRA ARCHITETTURE E PAESAGGIO PALAZZO ANTONINI Progetto di Andrea Palladio e SEDE del LICEO CLASSICO “J.STELLINI” A UDINE Le notizie sono state raccolte, assemblate e stese dalla prof.ssa Francesca Venuto, referente del progetto “Alla scoperta dei beni culturali della città e del territorio” per il Liceo Classico “J. Stellini” di Udine. Materiale scolastico ad uso interno .

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GIORNATE FAI DI PRIMAVERA

2015

PIAZZA PRIMO MAGGIO:

TRA ARCHITETTURE E PAESAGGIO

PALAZZO ANTONINI

Progetto di Andrea Palladio

e

SEDE del LICEO CLASSICO “J.STELLINI”

A UDINE

Le notiz ie sono state raccolte , assemblate e s tese dal la prof.ssa Francesca Venuto, referente del progetto “Alla scoperta dei beni cul tural i del la c i t tà e del terr i torio”

per i l Liceo Classico “J . Stel l ini” di Udine. Materiale scolast ico ad uso interno .

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Quest’anno il tema comune proposto dal FAI – Delegazione di Udine alle varie scuole superiori della città verte sull’area di Giardin Grande (Piazza Primo Maggio), un luogo significativo, il cui ruolo si è evoluto nel corso dei secoli e suscita ancor oggi un vivace dibattito circa il suo corretto utilizzo. I siti occupati rispettivamente dal Palazzo Antonini e dal Liceo Stellini – beni affidati al nostro Liceo nella presente edizione, ed approfonditi nelle pagine successive di questa dispensa, il primo con i suoi circa 450 anni di storia, l’altro con i suoi primi 100 - costituiscono dei tasselli importanti relativi a una lunga trasformazione dell’area. Sebbene la sua storia sia stata affidata ad altro istituto, si intende qui ripercorrere – a beneficio degli studenti coinvolti - la pluricentenaria vicenda del cosiddetto Giardino alla luce delle trasformazioni subìte, in parallelo con il processo di urbanizzazione che ha investito progressivamente questa parte di Udine. Sin dai tempi più remoti la grande area che si estende a nord-est del colle del Castello è stata denominata impropriamente "giardino". La sua storia - le notizie più antiche risalgono al XIII secolo - è connessa a quella del colle: corrosioni naturali ed asportazioni intenzionali fecero di questa depressione, invasa da acque piovane, una sorta di lacus, uno spiazzo incolto, di proprietà dei Patriarchi. Invaso dall'acqua piovana e da quella proveniente dalle rogge cosiddette di Udine e di Palma, non arginate, il sito, allora extra moenia, costituiva un impedimento all'accesso al colle del castello. La superficie paludosa cominciò a restringersi grazie agli interventi di contenimento dei canali artificiali e all'apporto di materiali di discarica, tanto che finì per acquisire una certa fama di amenità, che – chissà attraverso quali canali - raggiunse il grande Giovanni Boccaccio, il quale la enfatizzò artisticamente, ambientandovi, sullo sfondo di un rigoglioso quanto fiabesco verziere, una delle novelle del suo Decameron, ossia la quinta della decima giornata, "Madama Dianora domanda a Messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio", in un "Frioli, paese quantunque freddo, lieto di belle montagne". L’atmosfera sognante della narrazione non trova riscontro con la realtà di un’area ancora non totalmente prosciugata, dato che ne restavano ampie zone paludose (ossia lame, in friulano sfuèis), L'interramento produsse un'ampia area spoglia, ad eccezione del tratto sotto la riva del castello, cinto da siepi e altre alberature. Era in tal modo definito l'"hortus patriarchalis", in cui era vietato entrare senza il permesso del "canevaro. Il vasto comprensorio, sferzato dai venti di bora e reso insalubre dalle acque stagnanti residue, rimase praticamente disabitato sino a quando, con la costruzione della quinta cerchia muraria (XIV secolo), venne

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definitivamente incluso nell'area urbana. Ancor prima di tale inserimento, esso comunque rappresentava un luogo di transito obbligato per i pellegrini che si recavano alla chiesa dei SS. Gervasio e Protasio e all'adiacente convento dei Celestini, accessibili mediante un ponte oltrepassante la roggia. Nel 1479 il convento fu destinato ai frati Serviti che iniziarono la ristrutturazione della chiesa, intitolandola alla Madonna delle Grazie. Meta sempre più importante di pellegrinaggio, il santuario mariano comportava per tutti i fedeli che vi accorrevano il superamento di un'area deserta e sconnessa: durante la dominazione veneziana furono perciò tracciate due strade, rialzate rispetto alle aree circostanti: una che dalla riva del castello portava alla chiesa delle Grazie, l'altra che dal tempio conduceva alla torre di S. Antonio (verso l'odierna via Manin). Lo slargo fu così diviso in tre campi e la distesa assunse una forma vagamente romboidale, lambita da edifici solo nelle parti più direttamente correlate allo scorrere delle rogge e alle attività molitorie ivi espletate. L’area era sfruttata soprattutto come Campo di Marte, per la rassegna delle milizie patriarcali, prima, e venete poi; era inoltre punto di sosta dei carri con mercanzie destinate ai mercati cittadini tradizionali. Divenne in seguito luogo deputato per le fiere, tra cui la più celebre fu quella di santa Caterina, istituita dal patriarca Marquardo di Randeck nel 1380 sulle rive del Cormor, ma trasferita da quel luogo scomodo e distante al Giardino udinese nel 1472. In occasione delle giornate della fiera, che si svolgeva - allora come oggi - alla fine di novembre, il luogo veniva spianato e ripulito per issarvi le baracche e i banconi dei venditori. Nel corso del XVI secolo furono promosse varie iniziative per collegare il Giardino al centro storico, con il tracciato della via di Porta Nuova, allora innalzata; fu inoltre regolarizzato con la demolizione dei fabbricati che impedivano una libera visuale sulla chiesa delle Grazie; si deliberò infine di costruire case che dovevano essere convenientemente allineate, sia in pianta che in alzato, sul ripiano dell'attuale via Liruti (Ripa Zardini). Lo slargo, a partire da tale epoca, venne ad essere - lungo il corso dei secoli - delimitato a nord dalle case in schiera di famiglie quali Agricola, Rinoldi, Del Torso, Obizzi e Moisesso (poi Liruti) verso S. Chiara, a ovest dalle muraglie di recinzione degli orti Antonini (del palazzo palladiano) e Andreuzzi sino a Porta Nuova e alla riva del Castello, a sud dal fabbricato degli Onesti e degli Stella (poi Attimis-Marcotti) e dalla roggia che scorreva sino al convento dei Serviti e al tempio mariano. Lungo il corso di quest'ultima era ubicato un molino, nell'angolo a sud-est, e poco discosto ma arretrato dal piano della Giardino sorse il palazzo Dolfin-Bonecco, ora Ottelio. I degani dei borghi avevano l'obbligo di condurre carri di ghiaia onde sistemare le strade sottoposte al continuo passaggio dei pellegrini diretti al santuario. I frati serviti contribuirono all'opera innalzando la scalinata del ponte che dava accesso alle Grazie. La cartografia settecentesca evidenzia il mantenimento della tripartizione citata, consolidata mediante l'impianto (avviato nel 1705) di tigli lungo i percorsi su terrapieno. Il governo veneto promosse inoltre la costruzione di altri caseggiati lungo il perimetro dell'area, che periodicamente continuava ad essere sommersa dalle acque (il lago era ancora nominato nei documenti e nel 1735 si emanò persino la concessione della pesca). Nel 1764 venne costituita una commissione (che nominava i cosiddetti Presidenti del Giardino) per la sorveglianza e lo studio di riforma del luogo. Vennero infine piantati dei gelsi, dati in affitto onde ricavare una rendita a vantaggio del giardino medesimo. Fu in tal modo migliorato lo scenario per le varie manifestazioni che già dalla fine del secolo precedente si svolgevano nell'area, come il corso delle carrozze e i pubblici divertimenti, sino alle gare e alle corse di cavalli. Fuochi d'artificio, palloni aerostatici, corse dei cavalli berberi richiamarono un folto pubblico in Giardino allo spirare del Settecento: in quell'epoca già veniva innalzato per l'occasione un palco atto a ospitare la caffetteria e l'orchestra (la Banda Turca) che allietavano le manifestazioni. In mancanza dei citati festeggiamenti, la desolata situazione dell'area (da tempo veniva utilizzata come luogo di scarico dei materiali più disparati) rendeva necessari solleciti provvedimenti, ravvisati anche dai rappresentanti della comunità locale che ben presto, sullo sfondo di un diverso scenario politico-sociale, avrebbero avanzato le loro proposte. Anche in una piccola città come Udine cominciavano a riflettersi i cambiamenti avviati nel XVIII secolo, diffusi ben presto a scala europea. Mutamenti d'ordine sociale comportarono anche un'evoluzione di gusto e di stile: nel mondo in trasformazione, connessi all'affermazione delle teorie illuministiche, i nuovi ideali di progresso si applicarono al generale miglioramento del contesto urbano. Il risanamento del Giardino doveva superare la dispersione e l'inefficacia degli interventi precedenti con un'operazione progettuale d'ampia portata. Si fece strada l'idea di creare uno spazio d'incontro – di forma compiuta - finalmente integrato al

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tessuto cittadino, originante una nuova piazza, regolarizzata sulla scia dei modelli allora imperanti nella penisola. Numerose furono le proposte per questo spazio in cui confluirono teorie illuministe e ideali di progresso applicati al generale miglioramento del contesto urbano. Si intendeva realizzare una piazza alberata sul modello del Prato della Valle padovano – secondo un’impostazione regolare, ad ellisse - da integrare al tessuto cittadino preesistente come nuovo spazio attrezzato polifunzionale. Si scontrarono ripetutamente ipotesi monumentali e istanze minimaliste: alla fine fu approvato nel 1808 e realizzato l’anno seguente il progetto dell’ingegnere militare Antonio Lerner, basato su una versione austera, compatibile con le limitate risorse economiche a disposizione. Nei decenni seguenti l’interesse per questo sito rimodellato venne ripreso con progetti di risanamento dell’intera area e di collegamento, tramite il verde, tra l’ellisse e il pendio che porta al Castello, con progetto di Valentino Presani. Nel 1837 ancora il Presani progettava il pronao neoclassico del santuario mariano che così venne ad affacciarsi al giardino antistante. Lo sviluppo del progetto fu dal medesimo architetto completato nel 1852 . Una modellazione rusticamente paesaggistica fu precisata solo nella seconda parte del secolo: d’altronde, la grande piazza risultava pressoché sgombra, a parte la basilica delle Grazie con il retrostante borgo Pracchiuso a Nord Est, e il raggruppamento di palazzi nella parte opposta, a Sud Est del grande slargo, verso Porta Manin. Nel bel mezzo un invaso che, nelle migliori intenzioni di chi l’aveva promosso, era finalizzato a trasformarsi in passeggio per le carrozze e per i pedoni, a costituire una scommessa per l’avvenire della città, un’attrezzatura moderna coniugante bellezza e utilità, piacevolezza e decoro, in un quartiere defilato e chiuso, semirurale, non troppo discosto dal recinto murario. Era la campagna in città, lo spazio in cui si estendevano proprietà cospicue di famiglie importanti, come quella degli Antonini (di Casa Grande, ossia del Palazzo palladiano). Comunque, negli anni ’70, in correlazione alle opere fognarie in corso di realizzazione, fu eliminato il fossato che circondava l’ellisse, che perciò fu ampliata e ridisegnata in percorsi liberi e aiuole dall’architetto-giardinista Andrea Scala, che a tale scopo sovvertì l’impianto geometrico del piano Lerner. All’inizio del ‘900 si procedette al miglioramento della situazione idraulica, che rimaneva sempre allarmante, e allo spostamento del mercato bovino dalla parte meridionale (dov’era sistemata l’antica pesa del fieno) a quella settentrionale della piazza. L’area prossima alla via Liruti, rialzata sul piano stradale, venne perciò denominata Foro Boario. Di fronte ad essa, sul versante Ovest, in un’area occupata da piccoli edifici e officine, sorse il Palazzo Sello, destinato all’esposizione dei mobili prodotti nell’omonimo stabilimento, ubicato in via Portanuova. Il suo ideatore, Angelo Sello, protagonista dell’arredamento friulano della prima metà del ‘900, lo progettò nel 1914, adottando un disegno essenziale che, in chiave funzionalista, anticipa il revival dello stile Novecento, grazie alla facciata scandita da 12 semicolonne d’ordine gigante che donano all’edificio un’inusitata monumentalità. Nel periodo antecedente lo scoppio del primo conflitto mondiale, Giardin Grande era diventato una sorta di accampamento e ricovero per gli animali, ma - sull’onda del rinnovamento edilizio – vennero introdotte alcune significative novità. Sull’ellisse si sarebbe ben presto affacciata una nuova costruzione, il Liceo Stellini (alla cui trattazione si rimanda, nelle pagine in fondo) sacrificando a tal fine un vasto appezzamento già di proprietà privata. Mentre si andava infittendo la maglia edilizia anche sul fronte orientale, le sorti del Giardino stesso erano in forse, a causa della circolare ministeriale del 1922, ove si invitavano tutti i Comuni del Regno d'Italia a istituire Strade o Parchi della Rimembranza in ricordo dei Caduti della Grande Guerra. La scelta cadde invece su un'ampia area poco discosta, corrispondente al tratto di fossa esterna al percorso della V cerchia muraria, compresa tra le porte Gemona e Pracchiuso, utilizzata in passato come campo di pattinaggio invernale e poi abbandonata, ove venivano ammassati i materiali di demolizione prodotti dalla guerra. Il progetto del parco fu affidato nel 1923 a Ettore Gilberti e l'opera venne subito avviata, ma il sito appariva remoto: fu reso perciò accessibile mediante una nuova strada di collegamento diretto fra Giardin Grande e l'ingresso al Parco medesimo, ottenuta sacrificando parte cospicua dei fondi di pertinenza dell'Educandato Uccellis, il cui giardino ottocentesco, solcato dalla nuova via della Vittoria, venne così ad essere diviso in due tronconi. I lavori per la realizzazione dell'arteria vennero completati nell'ottobre del 1924, mentre il Parco della Rimembranza fu inaugurato qualche anno più tardi, nel 1927.

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Al termine di tali operazioni Giardin Grande (che allora prese il nome di Piazza Umberto I) non era più un sistema chiuso, un invaso introverso lambito da una cortina irregolare di edifici sorti in epoche e con aspetti diversi, ma diventava, nella città in espansione, un punto di passaggio in direzione nord. Lo stesso Giardin Grande subì in seguito consistenti mutamenti: durante la seconda guerra mondiale fu realizzato dai tedeschi nel 1944 un rifugio antiaereo nel settore di Nord-Ovest, mentre il resto dell'area venne trasformato in orto di guerra e adattato alla coltivazione di patate e cereali per il sostentamento dei cittadini in quella fase critica. Al termine del conflitto, nell'ottobre del 1945, il Municipio di Udine – per riportare fiducia ed entusiasmo dopo i terribili anni del conflitto – predispose simbolicamente un bando di concorso per il progetto di sistemazione della piazza ribattezzata Primo Maggio, a partire dal 16 maggio 1945, su ordine del sindaco Cosattini, anche se non si addivenne a nulla di fatto. Alla fine del conflitto, vietata dalle autorità militari la demolizione del bunker, la struttura fu ricoperta di terra e trasformata in collinetta artificiale. Nel secondo dopoguerra si susseguirono tanti concorsi di idee per ridisegnare l’area del Giardino, ma il fallimento di tutti i vari progetti avanzati “accentuò la sua immagine precaria e irrisolta”. Il caso del Giardin Grande testimonia la perdurante incertezza sulle modalità di riordino di un'area preziosa per la città attuale ma ancora fonte di problemi, per il continuo oscillare fra la propensione a trattare la distesa secondo un programma ideale e quella funzionale alle necessità del vivere quotidiano. A fronte di una larga messe di idee, quello che manca è il potere decisionale da parte delle autorità. In mancanza del sostegno ad un preciso programma, il Giardin Grande rimane una palestra dei desideri e la scommessa con il futuro resta sospesa.

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PALAZZO ANTONINI – UDINE Progetto di Andrea Palladio

L’edificio è senz’altro il palazzo più illustre della città, detto anche di “Casa Grande”, progettato dal massimo architetto veneto di tutti i tempi. Per lo storico dell’arte Giuseppe Bergamini (Palazzi del Friuli-Venezia Giulia, Udine 2001, p.178), “Indubbiamente il più bello di Udine, fu il primo a uscire dallo schema stereotipo delle grandi case delle ricche famiglie cittadine, a utilizzare un autorevole progetto e a introdurre nel periferico Friuli ritmi e moduli dell’architettura nobiliare veneziana”. L’edificio rappresenta la rottura fra la concezione medievale della residenza signorile – murata, chiusa in sé, autoprotetta – e il nuovo modello rinascimentale di costruzione in una città la cui difesa non spetta più ai singoli abitanti ma all’autorità centrale e alle sue truppe. Un passo deciso verso la modernità. Dalla struttura del palazzo si evince la visione innovativa delle funzioni della città rispetto al territorio circostante. Quando Palladio concepì, nel 1556, quella “molto comoda abitazione” (definizione data da Giorgio Vasari nell’elenco da lui redatto delle migliori realizzazioni dell’architetto veneto), l’ubicazione dell’edificio era tale che il palazzo fu innalzato ai confini dell’abitato cittadino: la sua facciata posteriore si apriva verso la campagna, per cui fu impostata sul modello di una villa suburbana.

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Viceversa, la facciata principale fu inserita a pieno titolo nel tessuto urbano (fra gli edifici signorili in prevalente stile gotico e le tante casupole dal tetto di paglia della Udine rinascimentale) per visualizzare il prestigio del palazzo nobiliare. Un edificio dalla doppia valenza. GLI ANTONINI - La famiglia è originaria di Amaro, in Carnia, poi dal ‘400 si sposta a Venzone, sviluppando relazioni con i paesi germanici per favorire i propri commerci. Obbedendo alla politica della Serenissima volta alla infeudazione di nuovi territori, acquistati anche da ceti intermedi mercantili in possesso di cospicui mezzi, gli A. acquistano la Gastaldia e giurisdizione di Saciletto (1491), poi effettuano altre acquisizioni per il controllo del territorio da parte di Venezia, specie nella parte orientale del Friuli, a fronte della contea di Gorizia. L’acquisizione di Saciletto e l’espansione terriera costituiscono il preludio alla matricola udinese del 1518 (Andrea, padre di Floriano, viene riconosciuto come autorevole esponente della classe dirigente locale), che costituisce una svolta decisiva per la diretta partecipazione della nuova aristocrazia agli organi comunali e alla spartizione delle cariche pubbliche (le serrate consiliari si susseguono in tutti i maggiori centri della Terraferma soggetti alla Dominante). La politica giurisdizionale friulana, a marcato carattere feudale, provocò un congelamento del settore economico e l’assenza di una classe imprenditoriale (la politica protezionistica veneziana stroncò i rapporti societari tra operatori toscani e famiglie autoctone più dinamiche: 1451, banditi i toscani dall’intero territorio). La supremazia dei castellani (costituenti una nobiltà composta di fortune e aderenze) conosce il contrapporsi di una struttura dirigenziale: gli A., ad esempio, vengono a coprire le più prestigiose magistrature del governo cittadino, strumenti essenziali alla detenzione e spartizione del potere. Poi il ruolo degli A. si allarga anche al campo della politica annonaria e all’attività assistenziale (con spiccate valenze bancarie). In parallelo acquistano fondi nell’area urbana a cavallo della III cinta difensiva (ben 33 acquisti di beni immobiliari a Udine tra il 1523 e il ’96). La famiglia si distingue all’interno dell’élite dirigenziale cittadina, ma anche nell’intero territorio della patria, specie nella fascia sud-orientale (a N-E di Aquileia), nella fascia centrale e in altri luoghi più discosti (oltre il Tagliamento). Verrà poi l’espansione in città con questo e altri numerosi palazzi (Qui sotto proponiamo il Palazzo Antonini Belgrado, attuale sede della Provincia di Udine, e Palazzo Antonini sede dell’Università di Udine, entrambi successivi al nostro edificio).

IL PALAZZO PALLADIANO La struttura, rigorosa e filologica, è dirompente in una città estranea ai modelli tosco-romani e ancora a quelli veneti, specie nei borghi di S. Cristoforo, S. Lucia e Gemona, e in quella porzione urbana, all’inverso, gli A. effettuano una estesa rete di acquisti livellari su terreni e case, in una presenza capillare specie lungo la via che era il nerbo del movimento di transito delle merci provenienti dalla Germania. L’edificio è l’espressione di una famiglia ansiosa di segnalarsi come la più illuminata della città grazie a frequentazioni veneziane di alto livello, come il celebre Daniele Barbaro, altro committente di Palladio. Il palazzo udinese risente della lezione di Giulio Romano (villa di papa Giulio III a Roma), conosciuto dal Palladio nei suoi soggiorni romani.

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La fabbrica – di difficile datazione – esprime nel modo più alto le caratteristiche del manierismo veneto in architettura. La solenne veste antiquaria del palazzo riprende modelli tosco-romani-veneti. Esso è situato in un particolare contesto urbano: mentre fronteggia con l’imponente facciata un complesso di vecchi edifici che sorgono sul lato opposto della via (recenti rifacimenti, abbattimenti e risistemazioni, hanno snaturato il piccolo triangolo edilizio compreso tra i palazzi Antonini della Banca d’Italia, A. dell’Università, Florio e Caiselli), nel lato posteriore si apre sul grande parco digradante verso Giardin Grande; con il fianco Nord chiude un lato della piazzetta al centro della quale si trovava (c’è ancora ma non è più in vista) uno dei cinque pozzi della città. Passiamo ora al committente e ai suoi obiettivi: il conte Floriano Antonini dovette sborsare una cifra ragguardevole per saldare il Palladio, ma questo, oltre che un onore, era il prezzo del suo impegno culturale e politico. In qualche modo la firma dell’architetto conferiva a Udine e alla nobiltà friulana la patente di appartenenza a pieno titolo – economico e culturale – alla cerchia più illuminata del patriziato veneziano con cui il conte Floriano, in quegli anni, aveva allacciato stretti rapporti, quasi una sorta di alleanza ideale, di cui fu il promotore, tra i circoli più esclusivi del Friuli e le più potenti famiglie della Dominante. Anno chiave per l’avvio di questi rapporti fu il 1554, periodo in cui prendeva forma – attorno all’asse costituito dal patriarca eletto di Aquileia, Daniele Barbaro (erudito patrizio che era stato ambasciatore veneziano a Londra, destinato poi a scalzare il patriarca in carica, Giovanni Grimani), in quell’anno appena tornato da Roma per riflessioni e ricerche sulle antichità romane di cui si servì per avviare una rigorosa traduzione dei Commentari di Vitruvio, dallo stesso Palladio (che puntava a realizzare importanti opere nel cuore della Dominante e che inoltre s’era assunto l’incarico di collaborare con il Barbaro al fine di curare la traduzione grafica del testo latino di Vitruvio, pervenuto a noi senza illustrazione alcuna) e dai giovani eredi delle famiglie nobili veneziane – un progetto di trasformazione in senso oligarchico della Repubblica Veneta.

Daniele Barbaro è uno dei più autorevoli patrizi che premono sulle pubbliche magistrature della Repubblica, nonché grande specialista d’architettura. Cresciuto a Vicenza sotto l’égida (protezione, patrocinio) di Gian Giorgio Trìssino (morto nel 1550), viene assunto a Venezia con un ruolo ufficiale di prestigio. E’ tra coloro che intervengono a favore di Andrea Palladio – che aveva concluso la vicenda costruttiva della Basilica vicentina nel 1549 - quando viene bandito il concorso per assegnare la carica di proto alla Magistratura del Sale (1554) e per la progettazione della futura “scala d’oro” che si doveva costruire in Palazzo Ducale (1555). Non solo: il Patriarca eletto di Aquileia esercita tutta la sua influenza culturale sui patrizi a lui vicini e sui componenti del clero veneziano. La determinazione che il Barbaro dimostra nella volontà di avviare una renovatio dell’architettura veneziana e la sua incondizionata fiducia sulle capacità del Palladio – esplicitata nel testo dei Commentari, stampati a Venezia nel 1556 – sono tali che egli con il fratello Marcantonio si farà garante del finanziamento necessario per la costruzione di un’imponente facciata per la chiesa patriarcale di Venezia, che avrebbe dovuto essere eretta su progetto dell’architetto vicentino.

Floriano Antonini non poteva dunque sottrarsi alla pressione ideologica esercitata da questo milieu politico, culturale e intellettuale con cui cercò di identificarsi. Proprio nell’agosto di quell’anno il 34enne il giovane conte, intraprendente e ambizioso, si recò a Venezia quale ambasciatore del Friuli per rendere omaggio al neo eletto doge Francesco Venier. Un cronista dell’epoca annotò che il nobile friulano “passò tutti gli ambasciatori nel vestir”, con abiti sensazionali, uno “foderato di canne d’argento e tutto … di tela d’argento foderato e tutto tagliato lo saio et il giuppone, et medesimamente le calze”, l’altro “tutto foderato di velluto frastagliato, non meno honorato che il primo, d’argento”. Il suo seguito era formato da ben 45 accompagnatori (“45 bocche sempre a tavola”, si rimarcava!). Non era solo una banale esibizione di ricchezza o un eccesso provinciale di sfarzo. Si richiama piuttosto ai modi dei circoli aristocratici più esclusivi, attivi nel seno del patriziato veneziano e ai costumi dei giovani rampolli delle più grandi famiglie che si riunivano nelle esclusive Compagnie della Calza e andavano elaborando un programma di trasformazione della Repubblica in senso oligarchico.

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Ciò attirò su di lui attenzione e alimentò consensi, amicizie e credibilità. Dimostrava non solo la grande affermazione sociale degli Antonini ma anche, di riflesso, la maggiore considerazione che i veneziani riponevano per il Friuli che poteva permettersi di incaricare dell’ambasciata un uomo di tale livello. L’aver poi deciso di affidare proprio al Palladio la costruzione della sua nuova dimora udinese altro non fu che la riaffermazione del proprio potere economico, la palese dimostrazione di saper interpretare i tempi nuovi alla pari della nobiltà veneziana più illuminata e di voler assumere un ruolo da protagonista a beneficio non solo personale ma dell’intero Friuli da lui rappresentato. Un Friuli che, conquistato dalle armi veneziane nel 1420, aveva saputo raggiungere grandi risultati sul piano della cultura e dell’innovazione ottenendo nel 1524, nel caso di Udine, proprio dal patriarca Grimani, lo status di città metropolitana del Friuli.

Floriano Antonini (1520-1592), figlio di Andrea, appartenente al ramo del “borgo di san Cristoforo”, si formò a Pisa sotto la guida dell’umanista udinese Francesco Robortello, cui era legato da vincoli intellettuali e affettivi. La sua formazione si compì sotto la protezione del Granduca di Toscana Cosimo I. Perciò l’ambiente toscano restò un punto di riferimento per F. Nel 1548 l’umanista udinese si trasferì a Venezia, entrando in collegamento con i circoli aristocratici più esclusivi, diventò nel 1554 ambasciatore udinese presso la Dominante, ricoprì importanti cariche pubbliche a Udine, divenne provveditore sopra la fabbrica della successiva Sala Ajace (“aula consiliaria trans pontem”) in merito a una ristrutturazione discussa nel 1573-74, e fu disattesa la consulenza del Palladio. L’artista Giovanni da Udine, che fu allievo di Raffaello, aveva già aperto la strada dei contatti con gli ambienti romani e romanisti veneziani (Grimani). In più Giovanni Grimani aveva scelto Palladio per il progetto della chiesa di S. Francesco della Vigna a Venezia (1564ca.) e nel 1579, su incarico del prelato, lo stesso architetto disegnava Porta Gemona (Portonàt) a San Daniele, soggetta a giurisdizione patriarcale. Vi erano legami tra il Grimani e Daniele Barbaro, e di questi col Palladio. Quindi F. deve aver conosciuto Palladio a Venezia. Vicini agli A. risiedevano Gregorio e Girolamo Amaseo, umanisti, autori dei Diarii udinesi, esponenti di quell’elite culturale da cui uscivano Tiberio Deciani (cognato di Floriano), in collegamento coi romanisti e con i circoli veneziani più esclusivi) e il Robortello medesimo. Si ricordi che il giureconsulto Deciani, figura cruciale nel mondo udinese, abile mediatore, sostenne la difesa del Grimani, accusato d’eresia per voci messe in circolazione sul suo conto in concomitanza con la convocazione del Concilio ecumenico a Trento, di fronte al tribunale dell’Inquisizione. Gli Antonini rimasero poi vicini agli ambienti toscani (cfr. l’Accademia della Fama, strutturato sul modello dell’Accademia fiorentina di Cosimo I de’ Medici). Un successivo esponente della famiglia, Daniele, fu poi a Padova allievo di Galileo.

Nel 1554 Palladio era a Venezia, nel tentativo di assumere un ruolo egemone sulla scena culturale della Dominante. Progettava infatti due imponenti “case” per le casate più illustri dell’oligarchia veneziana, i Grimani e i Cornaro, per cui aveva previsto moli imponenti (e tre ordini sovrapposti a marcare le rispettive facciate) superando i precedenti elaborati per la committenza vicentina. E poi ci sono le dimore di villa per i Pisani e i Cornaro, fabbriche innovative in quanto prevedono una variazione importante nell’uso del piano terreno, al quale viene attribuita una funzione ufficiale, che serve a regolare i rapporti della famiglia patrizia con il vicino insediamento cittadino ad accogliere momenti significativi alla conduzione degli affari. Questa nuova concezione della fabbrica mette in crisi lo schema di suddivisione verticale delle funzioni domestiche precedentemente adottato dallo stesso Palladio con importanti conseguenze. Nella tipologia sino ad allora praticata il collegamento fra un piano e l’altro viene risolto con gran parsimonia di mezzi. La dimensione ridotta della scala concorre a sottolineare la differenza di destinazione d’uso dei singoli livelli. Se invece il pianterreno assume una funzione assimilabile con il tradizionale “piano nobile” posta al primo piano, ecco che la funzione di collegamento tra i due livelli diventa essa stessa una componente “nobile” della casa. Il sistema dei collegamenti verticali assume una rilevanza compositiva rilevante, che arricchisce l’impianto distributivo della fabbrica di un elemento assente nelle precedenti realizzazioni palladiane.

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Una decisione di tal genere comporta l’espulsione dal pianterreno di quelle “commodità”, cioè di quelle funzioni di servizio (cucine, tinelli, ecc.) che generalmente ivi sono collocate. Palladio sistema le funzioni domestiche “espulse” dal pianterreno a lato del corpo centrale della fabbrica, con soluzioni che dimostrano la creatività e libertà del suo metodo compositivo. La nobilitazione del pianterreno determina l’adozione, per l’atrio, di nuove tipologie architettoniche: atrio sostenuto da quattro colonne (tetrastilo), che poi stimola all’adozione, in facciata, della soluzione “loggia sopra loggia”, in una forma sofisticata di manipolazione dei canoni antichi. Una sorta di “sprezzatura” nel procedimento compositivo. Ad Udine, nella pianta di Palazzo Antonini che sembra una contrazione della domus romana, utilizzò l’atrio tetrastilo d’ordine ionico. La progettazione di Andrea Palladio è sempre ricerca, declinazione senza formule stereotipate o soluzioni scontate. Perciò per Udine rielabora naturalmente esperienze avviate a Montagnana e a Piombino Dese e quelle che mette a punto nell’invenzione dei palazzi veneziani. Nella fronte urbica del palazzo udinese crea una composizione lapidea che è un portale, che a sua volta si confronta col porton di Porta Gemona che sorgeva lì a fianco, e che poi, su sollecitazione dell’Antonini, verrà fatto demolire. La fabbrica palladiana diventa la testimonianza del ruolo nuovo cui gli Antonini aspirano nello scenario udinese; essa viene a porre nello scenario della città un segno che induce processi di trasformazione urbana, tali da indurre la stessa comunità di Udine a chiedere direttamente al Palladio di realizzare un’opera che sia interprete del sentimento di gratitudine degli udinesi per il buongoverno della Repubblica di Venezia l’efficace azione del luogotenente veneziano Domenico Bollani, nell’emergenza creata dalla pestilenza del 1566). Palladio risponde fornendo i disegni di un arco che dà accesso alla strada che conduce al Castello, sede del luogotenente veneziano (quello stesso “castello” per cui Floriano Antonini aveva disposto un finanziamento, per il suo restauro, nel momento stesso in cui procedeva all’abbattimento dell’antica Porta Gemona). L’architetto adotta anche in quest’opera una commistione sapiente di ordine architettonico e di struttura rustica di cui aveva dato straordinaria testimonianza nel portale in pietra costruito al pianterreno della casa Antonini, ma con una variazione d’ordine architettonico e di disegno: adotta infatti l’ordine dorico, più consono a un’opera che dev’essere letta come una difesa del castello, ove risiede il potere politico. Difficile la datazione del Palazzo udinese, per la mancanza di documenti certi: 1556, dopo la pestilenza? A quell’epoca risale pure l’Arco Bollani? O avvio nel 1551 (Battistella)? Floriano A. – che nel 1554 fu, come sopra ricordato, a Venezia - nel 1559, quando l’edificio viene considerato agibile seppur parzialmente realizzato, fa abbattere il portone interno di borgo Gemona (che “era una vergogna lasciarlo in piedi”, come riferisce Emilio Candido, nella Cronaca udinese), là dove ora c’è il sarcofago!, donando la materia recuperata al castello che si sta innalzando. La porta venne dunque abbattuta dalle fondamenta e se ne perse la memoria, per cui, per tutti, Porta Gemona corrisponde a quella che venne in seguito edificata in corrispondenza della cinta di muro più esterna, in prossimità di Piazzale Osoppo, anch’essa comunque demolita e ricordata oggi solo da una lapide. Va ricordato, però, che le intenzioni autocelebrative di Floriano – che seguiva una sua ben precisa politica di insediamento nella città - si collegano anche ad un preciso fiuto sulle potenzialità dell’area, per le sue valenze economico-commerciali: richiese nel 1571 di riaprire la porta esterna di Borgo Gemona onde riattivare, su tale arteria, il traffico delle merci provenienti dalla Germania. L’area su cui sorge il Palazzo era dunque quella un tempo attraversata dalle mura del III recinto, che il patriarca Raimondo della Torre aveva fatto costruire sul finire del XIII secolo, cui erano addossate casette e fondi vari. Il nuovo edificio sorse sulle rovine delle case demolite dal terremoto che aveva devastato la città (secondo l’arch. Zanini). Sorto su un’area già occupata da due casette che il padre di Floriano, Andrea, aveva acquistato nel 1526 da Gaspare Negro, il palazzo per un verso s’inseriva in un tessuto rurale, dall’altro si saldava al contesto urbano: in quel margine estremo della città vi era ampia disponibilità di spazio aperto di quel borgo.

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L’area interna al recinto murario era fittamente edificata, quella esterna era adibita ad usi agricolo-produttivi. E lo spazio verde retrostante al Palazzo fa ancora comprendere la compresenza di valenze urbane e rurali. La nuova fabbrica – diversa rispetto al modello esposto nel trattato – venne perciò a riqualificare l’intorno. Il palazzo fu concepito in maniera organica (non si trattava di una ristrutturazione), anche per la mancanza di limitazioni di tipo economico. L’edificio fu in grado di rispondere pienamente sia alle esigenze abitative che a quelle di rappresentanza della potente famiglia: per questo a Udine rappresentò una novità da tener presente e possibilmente imitare. Robusto e gentile a un tempo. Si nota lo studio palladiano degli ordini secondo Vitruvio e dei rapporti proporzionali e armonici regolanti le misure di un edificio. Floriano, desideroso di riscoprire una tradizione erudita, fece coniare una medaglia di fondazione del palazzo, probabilmente per dimostrare che il gusto sofisticato non era patrimonio esclusivo dei circoli aristocratici della capitale. Nel 1559 il palazzo è già parzialmente abitabile, ma nel 1563 il cantiere risulta ancora in attività. L’opera appare, insomma, come un anello di congiunzione con tutte le opere successive del ciclo veneziano, influenzato dal Sansovino. A Udine prevalgono influenze sanmicheliane [ossia riprese dall’architetto Michele Sanmicheli, veronese] mantovane giuliesche [derivanti dall’architetto Giulio Romano, allievo di Raffaello e progettista di Palazzo Te] (anticipo di Villa Sarego a Santa Sofia di Pedemonte in provincia di Verona). Nel II libro del suo trattato il Palladio pubblicò i disegni della pianta e del prospetto del palazzo udinese, spiegando le motivazioni in base alle quali era stato da lui concepito. Si capisce quanto l’architetto tenesse a quest’opera, cui assegna un posto d’onore nel testo, aprendo di fatto la presentazione delle sue opere autografe che intende riprodurre e tramandare come modello. Il progetto apre la sezione dei Quattro Libri dedicata ai palazzi di città, anche se, come già villa Pisani a Montagnana o la Cornaro a Piombino, palazzo Antonini è un edificio ambivalente, ma di segno opposto: è infatti un palazzo urbano con tipologia di villa suburbana. Del resto va considerato che sorgeva ai margini del centro urbano, in un’area aperta con giardini, come palazzo Chiericati o palazzo Civena.

“Ma veniamo hormai alle fabbriche, delle quali la sottoposta è in Udene Metropoli del Friuli, & è stata edificata da’ fondamenti dal Signor Floriano Antonini gentil’huomo di quella città. Il primo ordine della facciata è di opera rustica: le colonne della facciata, della entrata, e della loggia di dietro sono di ordine Ionico. Le prime stanze sono in volto; le maggiori hanno l’altezza de’ volti secondo il primo modo posto di sopra dell’altezza de’ volti ne i luoghi più lunghi, che larghi. Le stanze di sopra sono in solaro, e tanto maggiori di quelle di sotto, quanto importano le contratture, ò diminutioni de’ muri, & hanno i solari alti quanto sono larghe. Sopra queste vi sono altre stanze: le quali possono servire per granaro. La sala arriva con la sua altezza sotto il tetto. La cucina è fuori della casa, ma però comodissima. I cessi sono a canto le scale, e benche siano nel corpo della fabrica, non rendono però alcun cattivo odore: perche sono posti in luogo lontano dal Sole, & hanno alcuni spiragli dal fondo della fossa per la grossezza del muro, che sboccano nella sommità della casa”.

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Una attenta ricerca di simmetria si rivela nel fronte verso la strada e in quello, più chiaroscurato, verso il giardino. In questa facciata c’è la sovrapposizione di una loggia corinzia, oggi chiusa con vetrate, ed un portico ionico sotto il quale si apre la porta d’ingresso dalle modanature pure 600esche e mascherone al centro dell’architrave. Tra progetto ed esecuzione (l’architetto non seguì personalmente i lavori, per cui il suo progetto non fu sempre e compiutamente rispettato) vi sono differenze sostanziali, soprattutto la mancanza del frontone in facciata e l’abbassamento del tetto (con una pesante copertura), sportato alla fiorentina per proteggere il pronao, più l’incorniciatura delle finestre. All’interno si segnalano i rapporti proporzionali armonici (sempre studiati sulla scorta di Vitruvio) che regolano le misure dell’edificio, e le tre dimensioni delle stanze. La commensurabilità del rapporto tra lunghezza e larghezza dei vani intermedi dell’invenzione udinese, il rapporto √2:1, in cui si compendia il nucleo numerico della loro interrelazione, assume particolare rilievo. Tale rapporto, desunto direttamente da Vitruvio, discende dalla teoria greca delle proporzioni. Esso rilancia l’importante questione dell’utilizzo, nella pratica, da parte di Palladio e degli architetti rinascimentali, di rapporti irrazionali (cfr Rag). Si fa riferimento a un sistema inerente alle teorie matematiche e musicali armoniche, accolte nel ‘500 in base all’autorità vitruviana; applicate in architettura e diffuse nell’ambiente vicentino, ove operava il Palladio, dal matematico Silvio Belli. Per quanto riguarda le finestre, intuibile è la scelta proporzionale, operata da Andrea, relativamente alla larghezza e lunghezza in luce dei fori delle prime stanze in volto, la cui forma “è d’un quadro, e due terzi”, e quelle “al diritto” del piano nobile: le misure delle aperture, rilevate sui grafici, attesterebbero l’uso, da parte dell’architetto, di una complessa interrelazione di rapporti proporzionali tra le due dimensioni dei fori e quelle dei relativi ambienti. Annota, infatti, il Palladio nel Cap. XXV del Libro Primo (“Delle misure delle porte, e delle finestre”): “E perché nelle case si fanno stanze grandi, mezane, e picciole, e nondimeno le finestre deono essere tutti uguali nel loro ordine, o solaro; à me piacciono molto, per pigliar la misura delle dette finestre, quelle stanze, la lunghezza delle quali è due terzi più della larghezza … e partisco la larghezza in quattro parti e meza. Di una faccio le finestre larghe in luce, e di due alte, aggiuntavi la sesta parte della larghezza … Le finestre di sopra, cioè quelle del secondo ordine deono essere la sesta parte minori della lunghezza della luce di quelle di sotto” (nell’invenzione per Floriano le due dimensioni, in luce, dei fori laterali illuminanti i piani terra e nobile misurano m.1,32 e 2,86; m.1,32 e 2,38). Antonini diventa Antimini per il Vasari, che allude a questo edificio il Palladio al termine della vita di Sansovino, II edizione delle Vite, 1568. La costruzione fu molto laboriosa e si protrasse a lungo nel tempo. Palladio, come detto, non seguì i lavori. Fatto sta che tra progetto ed esecuzione si rilevano differenze sostanziali, come la mancanza del frontone in facciata e l’abbassamento del tetto, oltre ad una serie di modifiche (l’incorniciatura delle finestre, che l’architetto non aveva previsto). Scrisse l’abate Faccioli: “Non è compìto col disegno palladiano, vi manca il cornicione, e gli venne sovraposto un pesantissimo coperto che sporge molto sul sistema delle antiche case contadinesche”. VICENDE SUCCESSIVE Floriano ebbe due figlie naturali: una delle due, Violante, sposò nel 1575 Francesco Carrara. La coppia vendette all’inizio del ‘600 il complesso che passò ai Soardi, poi ai Bratteolo e ai Girardis. Solo nel 1696 ritornò agli A. (nella persona di Gio. Daniele), con grande esborso di denaro, che lo fecero risistemare ed ampliare, forse per ospitare più famiglie nella stessa casa.

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Nei primissimi anni del XVIII secolo, appunto da poco ritornato il palazzo agli Antonini che sentivano la necessità di un rilancio autocelebrativo della famiglia, è stata aggiunto il corpo laterale ove, nel 3° decennio del ‘900, furono ricavati gli uffici della Tesoreria della Banca d’Italia. All’inizio del ‘700 risale l’episodio dell’introduzione del vano intermedio che raccorda l’atrio tetrastilo all’andito e la soppressione delle scale, con il muro di spina e i setti murari, ad inserire un “continuum spaziale” estraneo alle intenzioni del progettista iniziale finendo per infrangere irrimediabilmente la spazialità palladiana intrisa di suggestioni antiche. Le scale, poi, non più collocate in posizione secondaria rispetto alla disposizione planimetrica dell’intero edificio, paiono inquadrarsi direttamente dall’entrata-atrio, forzando sullo sfondo la prospettiva 700esca di una scala a doppia rampa. Si instaurò dunque una nuova scenografia assiale in cui la sequenza dall’atrio alla loggia ionica posteriore, scandita all’origine da contrazioni spaziali attraverso la successione atrio-vestibolo-atrio, conosceva una nuova espansione dell’invaso mediante la soppressione dei setti murari e all’allargamento dello stesso passaggio tra le scale. Non si sa chi possa aver progettato queste modificazioni: l’attività udinese dell’architetto Giorgio Massari risulta cronologicamente più tarda rispetto alla datazione di questi interventi. Al piano nobile l’ambiente più rappresentativo è il fastoso salone d’onore, decorato con stucchi 700eschi e con affreschi. Per quanto riguarda gli stucchi, essi occupano il soffitto e un alto fregio, con nudi putti coperti da elmi piumati in mezzo a trofei, animali fantastici, vasi, armi, corazze. La mano degli stuccatori ricorda quella del fregio e del soffitto della sala degli arazzi di Palazzo Antonini di Patriarcato. 1696-1709: quest’ultima è la data degli affreschi di Martinus Fischer [MARTINVS FISCHER PINXIT MDCCIX] nel salone d’onore al piano nobile, poco esaltanti, in cui si alternano telamoni e cariatidi, panoplie (armature disposte a trofeo per ornamento), in stucco e dipinti, a monocromi giganti e corposi putti (talora sgraziati) di grandi proporzioni che giocano con i telamoni (che assomigliano un po’ a quelli del Quaglio di Palazzo della Porta), restaurati nella 2^ metà dell’800 da G.B. Sello, oltre a gradevoli monocromi con vivaci scenette di vita quotidiana. Di questo Fischer, che si palesa come (modesto) seguace del Quaglio, si sa pochissimo: ha affrescato – entro stucchi- il vecchio coro, ora atrio, della parrocchiale di Pozzuolo (1710) con Dottori della Chiesa, Evangelisti e Profeti. Nel 1706 dipinse anche una pala per la chiesetta del palazzo del conte Marzio Polcenigo. Entro gli stucchi sono stati inseriti i fori, fascianti l’intero salone e illuminanti gli ambienti del sottotetto. Il salone del piano nobile è stato dunque innalzato di m.1,70ca rispetto a quello che aveva previsto il Palladio (m6,60). Anche la copertura è stata sopraelevata; al di sopra delle stanze minori, lateralmente disposte, furono inoltre ideati due poggioli simmetrici balaustrati, cui si accedeva originariamente, forse, attraverso scale a chiocciola disposte entro gli stanzini suddetti. Non si conosce l’autore delle operazioni che rivedono il primigenio aspetto planimetrico impostando una nuova scenografia assiale, le scale, i piani intermedi e gli affacci alla loggia inferiore, e vi sono state anche interpolazioni all’atrio tetrastilo. Almeno due campagne di lavori modificano pesantemente l’aspetto dell’edificio, arrivando a sostituire tutte le finestre, tranne quella sulla destra della loggia nel prospetto posteriore, e le scale interne. Nel 1709 la realizzazione degli apparati decorativi contribuisce a snaturare definitivamente gli interni palladiani. In sostanza, ciò che rimane del progetto palladiano sono la planimetria (a meno delle scale) e la volumetria generale dell’edificio, le logge anteriori e posteriori (di cui però non vennero realizzati i timpani) e gli elementi della “sala a quattro colonne”. In una sala del palazzo c’erano anche alcune tele, entro semplici cornici a stucco, del pittore veneziano Domenico Fossati, quadraturista e scenografo, lontano parente del capomastro Luca Andreoli, presente per qualche anno, a partire dal 1770, in città, dove fu chiamato ad eseguire decorazioni nel teatro costruito sui fondi Savorgnan e a dipingere per alcune famiglie nobiliari. Si tratta di piacevoli tele raffiguranti architetture in rovina, quinte architettoniche vegetali, giardini con prospettive di fiori e fontane (cfr. G. BERGAMINI, Tre secoli d’arte nel cuore della città, in G. BERGAMINI, L. CARGNELUTTI, Il palazzo Valvason-Morpurgo, Civici Musei, Udine, 2003, p.89). Non si sa dove sono finite.

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Il figlio di Gio. Daniele, Alfonso, ebbe discendenti: il primogenito Rambaldo, all’epoca del direttorio francese in Friuli nel 1797 ebbe molti incarichi: fu Podestà di Udine durante il Regno Italico (1807-10), Francesco fu un gran benefattore e collezionista. Interpolazioni 800esche Scriveva Fabio di Maniago, nella sua Guida di Udine e di Cividale in ciò che risguarda le tre belle arti sorelle, del 1825, a proposito di questo palazzo, “guastato nel secondo piano da chi audace di sua testa architettò le finestre, ed oltra ciò rimasto imperfetto […]”, che quivi era da ammirare “l’antico appartamento, dove son di recente dipinti egregiamente a fresco dal signor Odorico Politi dei fatti di greca storia. La sala è condotta a fresco con figure e puttini alla maniera del Quaglia, ma d’uno stile più grandioso e più scelto. Porta in lettere majuscole l’iscrizione Martinus Fischer pinxit 1702”, ma sbaglia la data (p.64). 1818: incarico all’architetto neoclassico Valentino Presani di effettuare una trasformazione interna. Una stanza al pianterreno, a fianco dell’ingresso, doveva assumere l’aspetto di un elegante appartamento a due piani (forse a questo si riferisce il dossier di disegni del 1° ‘800 con l’idea di un rifacimento neoclassico, che prevedeva la trasfigurazione dell’intero invaso spaziale della fabbrica). Vanno segnalati inoltre gli affreschi di Odorico Politi, pittore neoclassico udinese (1818ca., a pochi anni dai dipinti per il suo stesso palazzo) nell’ammezzato verso il Giardino (Ulisse rifocillato da Nausicaa, tratto dall’Odissea omerica, La lezione di Saffo*, piacevole per equilibrio compositivo ed armonioso accordo cromatico qui il pittore ha rappresentato se stesso ed è l’episodio migliore, che testimonia le sue felici doti ritrattistiche, Diotima a colloquio con Socrate, Alcibiade ammonito da Socrate che lo aveva scoperto nel gineceo, episodi che sono ispirati alla vita del filosofo greco che avrebbero dovuto far parte di un ciclo più ampio di cui non si conserva memoria, che dimostrano il suo orientamento foscoliano verso i temi greci e il tipico contrasto tra bellezza e saggezza), affreschi ora ai Civici Musei del Castello. Si tratta di piacevoli pitture classicheggianti – realizzate fra il 1818 e il 1825 - che illustrano temi di storia antica, declinati in eleganti e sobri equilibri compositivi, e sono contraddistinti da forme nitide e da una pittura orchestrata su pochi toni fondamentali. Erano concepiti come quadri appesi a una parete, racchiusi da cornici in stucco. A pochi mesi di distanza dagli affreschi del palazzo di sua proprietà in via Zanon (1813-15), il Politi si ripete con colori accattivanti nonostante la freddezza accademica delle figure, poste in scena come bloccate nella teatralità dei gesti, quasi a voler fissare un momento dell’azione. Nel 1977 il palazzo fu sottoposto a lavori di consolidamento e restauro dopo i danni sismici del 1976. L’intervento evidenziò la necessità di rimuovere i dipinti, che nel 1984 furono trasferiti su supporti mobili e ricollocati al piano nobile dell’edificio per favorirne la conservazione. Le misure di sicurezza necessarie alla Banca per svolgere le sue attività non consentivano però un agevole accesso ai dipinti. Con il trasferimento dei suoi uffici nel 2009 la Banca d’Italia, su suggerimento della Soprintendenza per i beni storico-artistici ed etnoantropologici, ha stabilito di concedere in deposito triennale ai Civici Musei di Udine per consentirne una più ampia fruizione pubblica che ne garantisca, oltre alla corretta tutela, anche la valorizzazione dal punto di vista culturale. Così gli affreschi sono entrati ufficialmente a far parte delle collezioni museali trovando collocazione proprio al termine del percorso espositivo permanente della Galleria d’Arte Antica a testimoniare la loro importanza quali documenti di stile e di gusto, nel contesto storico-artistico cittadino della prima metà dell’Ottocento.

Odorico Politi: dopo una prima formazione compiuta all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove fu allievo di Teodoro Matteini, l’artistica si recò a Roma nel 1809 al seguito degli amici e compagni di studio Francesco Hayez e Giovanni Demin. Qui Politi entrò in contatto con i circoli artistici facenti capo all’Accademia d’Italia e alla personalità dello scultore Antonio Canova (1757-1822), massimo esponente del Neoclassicismo internazionale, artefice di opere tra le più rappresentative di quel gusto che nella scultura dell’antichità greca e romana rintracciava i propri punti di riferimento.

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Tali contatti permisero al pittore friulano di rendersi partecipe di quella temperie culturale favorendone la diffusione a livello locale dopo il suo rientro a Udine, avvenuto nel 1812. Pur continuando a mantenere buoni rapporti con l’ambiente artistico veneziano e con l’istituzione accademica dove, dal 1831, assunse la docenza alla cattedra di Pittura, Politi si stabilì nella città natale una serie di imprese decorative ad affresco che rimangono, ancora oggi, tra gli esempi più significativi di tal genere in ambito udinese.

Nella stessa stanza si trovavano anche 4 bassorilievi del veronese L. Zandomeneghi (1788-1850), professore dell’Accademia di Venezia, acerrimo nemico del Politi, tanto da osteggiarne proprio nel 1831 la nomina a professore in sostituzione del Matteini che si era ritirato dall’insegnamento, con episodi dell’ Iliade (con riferimento alle tematiche neoclassiche e canoviane in particolare). I bassorilievi – ora murati nella loggetta del piano superiore – mostrano la stretta adesione dell’autore alle tematiche neoclassiche e specificatamente canoviane. Un tempo all’interno della medesima stanza c’erano pure 6 statue dello scultore pordenonese Antonio Marsure, in gesso, poste entro 4 nicchie decoranti l’atrio e due nella loggia terrazzata, rimosse nel 1924-25 e collocate in giardino, che poi sono andate distrutte. Nella 2^ metà dell’800 furono realizzati gli affreschi dell’udinese Tommaso Türk, 1824-1840ca. (spentosi a Trieste nel 1880, dopo aver a lungo lavorato a Zara e Spalato, e in altre località della Dalmazia) – nel soffitto dello scalone, con prospettive architettoniche caratterizzate da un fare grandioso ma con colori privi di nerbo, le piacevoli decorazioni (stucchi in oro, grottesche, paesaggi) del salottino 800esco, un tempo arricchito da specchi poi rubati, ambiente oggi deturpato da manomissioni nelle parti figurate, e un belvedere, ove si trova una stufa del secolo XVIII in maiolica riccamente ornata). Vanno segnalati i restauri 800eschi di G.B. Sello e quelli tardo 800eschi con nuovi interventi nel salone e nella loggia. In Palazzo c’era una ricca pinacoteca, poi dispersa, con dipinti di autori come Tiziano, Veronese, Tintoretto, Bassano, Palma il Giovane, e le collezioni di monete di Francesco Antoni, da lui donate al Comune di Udine. Dopo l’annessione del 1866 l’edificio svolse numerosi incarichi pubblici: dal 1886 ospitò il Circolo Artistico Udinese, nato alcuni anni prima per promuovere la cultura della città; nelle sue sale venivano organizzati balli e concerti di cui si parla con entusiasmo nelle cronache dell’epoca e che protrassero per qualche tempo i fasti dell’antica dimora, che – come s’è ricordato – custodiva preziose collezioni d’arte, monete e cimeli antichi; fino al 1887, quando l’ultimo esponente, Rambaldo, si ritirò definitivamente nella sua proprietà di Privano. Personaggio importante di questo ramo nell’800 fu infatti proprio questo Rambaldo, che venne ricordato come eroico patriota e garibaldino. Partecipò alla imprese di Palermo e alla battaglia del Volturno; nel 1866, dopo la liberazione del Veneto, entrò in una della Compagnie della Guardia Nazionale formate dal Commissario Straordinario del Re, Quintino Sella. Gli furono poi affidati numerosi incarichi pubblici cui si dedicò fino al 1887 (morirà nel 1916, e con lui si estingue il cosiddetto ramo di San Cristoforo). Circolano alcune notizie tramandate oralmente su “zio Baldin”: nel 1860 venne assegnato all’esercito meridionale con la qualifica di furiere e il suo nome venne inserito tra quello dei volontari che avrebbero dovuto partire da Genova agli ordini di Garibaldi. Partendo da Cavenzano, questo viaggio verso Genova non fu dei più facili e, a causa del ritardo dei treni, non riuscì a raggiungere in tempo la spedizione in partenza, cui si ricongiunse in un secondo momento. L’altra nomea di Rambaldo è quella di aver dilapidato tutto il proprio patrimonio dopo aver garantito per delle cambiali contratte dall’amico Leonardo Jesse (che doveva pagare debiti di gioco ed aveva già ipotecato tutti i suoi beni: ignaro, Rambaldo firmò quella che poi divenne la sua rovina, per un effetto a catena che in pochi anni porta al fallimento della famiglia e alla conseguente vendita delle villa di Cavenzano nel 1895).

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Al tempo degli Antonini le soffitte erano destinate a deposito di granaglie e a filatoio di seta. Questo era ancora installato fino agli anni ’50 del ‘900, con una grande ruota che portava i rocchetti della seta (Zanini). Ancora al piano terra, all’interno, si possono ammirare le splendide inferriate di Alberto Calligaris (autore anche della cancellata che chiude il parco su Giardin Grande).

Alberto Calligaris (Udine, 1880-1960) è stato il “re del ferro battuto”, colui che, con talento e abilità tecnica e manuale, portò agli inizi del Novecento l’arte applicata del ferro battuto a riconoscimenti internazionali. Raimondo D’Aronco, suo estimatore, scrisse che «il ferro, elemento tutto moderno, ci permette arditezze non immaginate da antichi» e fu lo stesso Calligaris, nel suo testamento, che offrì all’allora direttore dei Civici Musei, l’artista Carlo Someda de Marco, la possibilità: «volete conservarli voi stessi? Ho già fatto una cernita sommaria dei disegni...». Alberto Calligaris fu l’unico artista friulano invitato a Bruxelles nel 1910 per l’Esposizione internazionale di arti decorative. La sua fama al tempo fu davvero grande. Negli anni Dieci del Novecento gli procurò la stima di Gabriele D’Annunzio e durante la Grande guerra collaborò con Celso Costantini al Cimitero degli Eroi di Aquileia. Il successo gli verrà nel 1913 con la pubblicazione dei “suoi” ferri battuti con l’editore Cruto di Torino. A Udine collaborò con D’Aronco per il palazzo municipale e per la chiesetta di San Giovanni sotto l’omonima loggia in piazza Libertà, ed ebbe commissioni in Europa e in Medio Oriente. In Italia, ad esempio a Padova, realizzò la cancellata della basilica del Santo.

Nel 1899 l’edificio è stato venduto alla Banca d’Italia, per interessamento di colui che divenne il suo 1° Governatore, Bonaldo Stringher. I fatti prendono le mosse dalla proclamazione del Regno d’Italia. All’inizio le filiali dell’istituto erano solo otto, ma la rete si estese con rapidità, parallelamente alla piemontesizzazione del Regno. La filiale udinese fu costituita il 6 dicembre 1866, immediatamente dopo l’annessione all’Italia delle province venete e divenne operativa il 4 febbraio 1867. Nell’agosto 1866 Antonio Biliotti, commissario incaricato dalla Banca Nazionale di relazionare sullo stato della provincia udinese, la descrisse quale territorio ricco di industrie (seta, filatura e tessitura del cotone, concerie, terraglie, carta, birra), gestite da imprenditori capaci e da negozianti “nei quali domina sempre la proverbiale onestà dei friulani”. Notevole già a quei tempi l’import-export, principalmente verso Vienna, Lione e Milano. Quello di Biliotti fu il documento che le autorità centrali si attendevano per dare il via al progetto di apertura della nuova filiale. Seguirono altri atti formali da parte della Camera di commercio e industrie del Friuli e dell’amministrazione comunale di Udine. E una buona parola la mise anche il regio commissario, Quintino Sella. La prima sede fu aperta nei locali di via Savorgnana 18, all’angolo di piazza della Legna (l’odierna piazza Venerio). Il 1° Gennaio 1894 la filiale assunse la denominazione definitiva di Banca d’Italia in seguito alla fusione tra le banche Nazionale del Regno, Nazionale toscana e toscana di credito. Lo spazio però risultò ben presto insufficiente. La sede fu ampliata con l’affitto di altri locali contigui, destinati anche a magazzino per la custodia della seta. Tuttavia l’attività dell’istituto, sempre più ampliata, richiedeva ben altri spazi: la dirigenza cominciò a guardarsi attorno e puntò l’attenzione su palazzi prestigiosi, avviando trattative a tutto campo. Nel frattempo si pensò anche a far costruire una sede apposita, nuova di zecca, ubicata su un’area di proprietà comunale individuata a ridosso del palazzo municipale, tra le vie Cavour, Lionello e Rialto, e occupata allora da un cumulo di catapecchie. L’dea parve buona anche al Comune, che sembrò pensare ad un possibile ampliamento dei propri uffici, ma l’affare sfumò rapidamente in quanto il Comune dichiarò la sua indisponibilità a vendere.

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Si riaprirono le trattative d’acquisto di un palazzo e la scelta si orientò su palazzo Antonini, di cui era allora proprietario il cavalier Pietro Badino, capitano di cavalleria e marito di Luigia Antonini, sorella di Rambaldo, ultimo esponente del ramo di “San Cristoforo o Casa Grande”che aveva rilevato l’edificio in seguito ad una sentenza di vendita del novembre 1888 al Tribunale di Udine assieme ad altre proprietà immobiliari appartenute ai conti Daniele di Rambaldo Antonini e Rambaldo di Antonino Antonini. Le trattative furono rapide: nell’agosto 1899 fu stipulato il contratto di compravendita: il cavalier Badino cedette la proprietà per 200 mila lire. Ma il bel palazzo palladiano non si trovava nelle migliori condizioni, per cui furono necessari interventi urgenti, eseguiti con tale rapidità che nel 30 novembre 1900, disdetto l’affitto dei locali di via Savorgnana, la Banca d’Italia prese possesso della nuova sede. Si murarono gli intercolumni della loggia palladiana per ottenere un nuovo ambiente, si divise il salone con una parete a sportelli progettata dall’intagliatore udinese Brusconi.

Chi era Bonaldo Stringher? – Nacque a Udine il 18 dicembre 1854 in una povera casa in via del Bersaglio, all’angolo con via Pracchiuso. Il padre Marco poté avviare solo fra molti stenti il figlio alle scuole superiori, all’Istituto Tecnico aperto per iniziativa di Quintino Sella, giunto nel 1866 come Regio Commissario dopo l’annessione del Friuli all’Italia. Diplomato ragioniere, Bonaldo si iscrisse alla Scuola Superiore di Economia a Venezia, ma il consiglio provinciale di Udine gli negò la borsa di studio di cui aveva fatto richiesta per cui dovette ritirarsi e partecipare a un concorso bandito dalla direzione generale di Statistica presso il Ministero dell’Agricoltura. Il futuro super manager della finanza italiana era al tempo così povero da non avere neppure un cappotto, cosicché lo zio gli diede il suo per affrontare il viaggio che doveva effettuare in inverno per raggiungere Roma. Ma una volta giunto là, la carriera di Stringher procedette in maniera spedita. In breve il giovane entrò al ministero delle Finanze: si fece notare con studi sulla circolazione monetaria; nel 1892 venne trasferito al Tesoro e promossi Ispettore Generale, proprio mentre l’Italia era nel vortice di uno scandalo che minava alle basi il giovane Regno. Il bilancio nazionale era in forte disavanzo e nel 1893 il cosiddetto “Atto bancario” creò la Banca d’Italia, fondendo insieme la Banca Nazionale e le due maggiori banche toscane ridotte in condizioni fallimentari, affidando al nuovo Istituto il compito di liquidare la Banca Romana, di cui era stato accertato un enorme abuso nell’emissione di carta moneta. Il piano per uscire dal pantano venne elaborato da Stringher che, dopo aver fatto nascere la Banca d’Italia, venne incaricato di renderla vitale, diventandone Direttore Generale dal 1900 al 1928, e poi Governatore. Sempre nel 1900 Stringher fu eletto deputato nel collegio di Gemona-Tarcento, e fu chiamato come Sottosegretario al tesoro nel nuovo governo Saracco. Tornò ad occuparsi di politica nel 1919 quando, a guerra finita, in una situazione di nuovo disastrosa, gli fu affidato il dicastero del Tesoro. Stringher era all’apice della carriera quando la Banca d’Italia decise di darsi una sede in Friuli, e poi di acquisire all’uopo Palazzo Antonini. La vita di Stringher ebbe termine alla vigilia di Natale del 1930, a Roma, dove era tornato dopo un periodo di riposo nella sua villa di Martignacco. L’orazione funebre a Udine venne tenuta dal sindaco Elio Morpurgo, altra figura storica della città, che ne tracciò un profilo biografico ufficiale e soprattutto ricordò che non era un teorico, ma era in grado di risolvere, nella pratica, i nodi più terribili. Tornando al Palazzo, negli anni ’20 del ‘900 vi è stata la divisione tra gli uffici della Tesoreria (trasportati nell’attiguo palazzetto 700esco, per il quale l’arch. Pietro Zanini progettò lo scalone) e quelli della Banca (ing. De Toni e arch. Pietro Zanini). Zanini nel 1923 restaurò l’edificio e progettò l’attuale sistemazione della loggia palladiana verso il giardino, demolendo le pareti innalzate nel 1899 (erano stati in quell’epoca murati gli intercolumni [gli spazi compresi tra le colonne] della loggia per ottenere un nuovo ambiente, e s’era diviso il salone con una parete a sportelli progettata dall’intagliatore udinese Brusconi) e tentò di dare una soluzione alla parte loggiata costruendo un grande sporto ligneo con cassettoni che togliesse la vista della falda del tetto (soluzione criticata). Costruì pure lo scalone tramite il quale oggi si accede al salone della banca, per dare soluzione alla parte loggiata costruì uno sporto ligneo con cassettoni per togliere la vista della falda del tetto, che in qualche misura ha tolto respiro al palazzo, soluzione che piacque all’epoca ma che poi fu molto

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criticata, poi venne innalzato un fabbricato (1947), che costituisce un’ala sul giardino, e il rifacimento del terrazzo del piano nobile (1958). Il terremoto del 1976 ha reso necessari lavori di consolidamento che si sono conclusi nel 1981. L’opera di consolidamento è stata seguita dall’Amministrazione centrale della Banca d’Italia con il suo Ufficio Tecnico, mentre i lavori sono stati diretti dall’arch. Zanini, che è ricorso a nuove tecniche costruttive (inserimento nei muri di trefoli d’acciaio) pur nella salvaguardia dell’apparato ornamentale. Si è inteso così completare i lavori che nel 1923, per iniziativa dell’allora governatore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher, portarono al ripristino della loggia palladiana, dell’ingresso e del salone d’onore. Recenti rifacimenti, abbattimenti e risistemazioni hanno snaturato il piccolo “triangolo” edilizio compreso tra i Palazzi Antonini della Banca d’Italia, Antonini dell’Università, Florio e Caiselli. Il palazzo per lungo tempo è stato interdetto al pubblico per ragioni di sicurezza legate alle funzioni bancarie.

Pianta di Udine di Antonio Lavagnolo (sec.XIX), particolare.

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ITINERARIO DI VISITA DEL COMPLESSO

L’esterno si presenta in una veste robusta e chiaroscurata, specie nel piano inferiore. Notevole appare la sistemazione delle facciate esterne, in particolar modo quella sulla strada, con semicolonne ioniche ottenute da rocchi di pietra che preannunciano quelle di una più tarda costruzione sempre palladiana, villa Sarego a Santa Sofia, e costituisce una vera eccezione nella poetica palladiana. Per altro, una fitta trama di forature rende la loggia sulla strada una sorta di diaframma trasparente alla luce. L’intero edificio è come serrato da fasce continue di pietra, dal basamento delle semicolonne alla trabeazione, sino alla fascia corrispondente al fregio superiore dove si aprivano le piccole finestre senza cornice del granaio. FACCIATA PRINCIPALE: All’esterno sembra prevalere un senso di maggiore pesantezza (rusticità, secondo le parole di Palladio), appena attenuato dalla bella iscrizione in lettere capitali, sull’epistilio (architrave) dello pseudo-pronao ionico, che ricordano il committente: GENIVS VRBIS VTIN:[ENSIS] FAMILIAEQ:[UE] ANTONINORUM FLORIANVS ANDREAE D[ED]ICAVIT. Il progetto esula dai consueti schemi palladiani, giacché il prospetto sulla strada mostra una parte mediana timpanata con due ordini di colonne ioniche e due lisce pareti laterali. La severità della facciata, accentuata dalla presenza del bugnato rustico – che ben si distingue dal continuum gotico dell’edilizia locale - nelle 6 possenti semicolonne d’ordine ionico dal fusto ad alti rocchi grezzamente sbozzati (tra queste si inseriscono la porta d’ingresso e le finestre che illuminano l’atrio; sopra la trabeazione del 1° ordine si slanciano invece 6 lisce semicolonne corinzie, tra cui si alternano le balaustre dei poggioli di 5 grandi finestroni che danno luce al salone), fu d’esempio ai costruttori posteriori. Le finestre del piano inferiore presentano pure una cornice rustica, con architrave diritta, poi ci sono le bugne a pettine angolari, elementi tutti che contribuiscono ad un effetto di plastica robustezza e di vibrante dinamismo. Un’alta fascia, che corrisponde alla trabeazione del primo ordine e che cinge l’intero edificio, o cornice-marcapiano separa i due piani e nella parte mediana fa da base alla balaustra ritmata dagli zoccoli delle lisce semicolonne corinzie del piano nobile, dove si ha la totale scomparsa del rustico. Le finestre sono qui sormontate da aggettanti lunette ad arco che, come quelle del sottotetto, fornite di tettuccio retto da modiglioni, si devono agli esecutori secenteschi. Il tetto, sportato, differisce da quello ideato da Palladio nella pagina del trattato.

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1. Ingresso da Piazzetta Antonini

PIAZZETTA ANTONINI

Qui le donne venivano ad attingere l’acqua al pozzo che si trovava nel mezzo dell’area. Arrivavano dai due imponenti palazzi Antonini o, attraversato il ponticello sulla roggia, dalla Casa dei de Brandis, o dall’Osteria al Pozzo, aperta per il ristoro dei viandanti. Era infatti stata trasformata in locanda la casa di abitazione della famiglia della Rovere, di cui si poteva intravvedere lo stemma col rovere sopra il bel portale in bugnato rustico. Dalla fine del 1200, infatti, era una macelleria, detta “la beccarietta” per distinguerla dalla beccheria grande sita tra le attuali vie Rialto e Cavour (che contava ben 13 banche o taglie per lo spaccio della carne contro 1 della beccarietta). Non doveva essere un locale di prim’ordine, visto che vi si vendevano generalmente carni di qualità inferiore, o “di sguazzo”, però a un certo punto rimane uno dei due unici spacci di carne di Udine, essendo stati chiusi i tanti “scorticatoj” (macellerie) che non offrivano sufficiente garanzia igienica, che non rispettavano le tante norme disciplinari emanate dalla comunità, che offrivano motivo di malumore per “le frodi e le molte iniquità praticate dalli beccari”. Nel corso dei secoli la casa continuò ad essere adibita a macelleria finchè, nel 1744, è registrata come abitazione della famiglia della Rovere (cfr. stemma nobiliare che impreziosisce la chiave di volta dell’elegante portale a tutto sesto a conci bugnati) ), di origine lombarda, cui rimase per almeno mezzo secolo. Ma all’inizio dell’Ottocento costoro decisero di rinunciare a questa casa che di pregevole aveva solo la bella posizione. Da quel momento si succedettero diversi passaggi di proprietà, prima i Pisenti, poi i Càneva. Semplice era la sistemazione degli ambienti del piano terra: sottoportico, cucina e stanza ad uso di cantina, quattro stanze al primo piano e sopra tre granai. Un piccolo “pergolo di legno e tolle” si affacciava sulla corte interna con vista sulla roggia e su un unico albero, mentre la facciata esterna era ombreggiata da una pergola di viti. La casa divenne allora meta e ritrovo di una clientela numerosa ed eterogenea accomunata dal rito del bere in compagnia un buon bicchiere di vino, ma una notte un tale esagerò e affogò miseramente nel vicino pozzo. Questo allora venne chiuso e si trovò più opportuno cambiare il nome al vicino locale, che assunse la denominazione di Trattoria “Ai Frati” con cui è conosciuta ancor oggi. Non si sa però perché si chiami così, se per l’allegra decorazione di figure fratesche un tempo dipinta su tutte le pareti oppure per le caratteristiche dei suoi vecchi gestori, molto austeri. I tre fratelli Càneva, zii del famoso generale Carlo Caneva conquistatore della Libia, vestivano sempre di nero, parlavano a monosillabi e si capivano più dai gesti che dalle parole; erano infatti talmente religiosi da chiudere l’esercizio non appena le campane della vicina Chiesa di S. Cristoforo chiamavano ai Vespri o alla Messa e da non aprirlo alla domenica se non dopo la Messa grande.

2. Entrata nel Palladiano dal sottoportico sul passaggio carraio

Il fronte posteriore è tripartito, con due parti piene laterali e un doppio ordine di logge al centro, ionico nella parte inferiore, corinzio in quella superiore. Il paramento è liscio. Il tema prospettico della “loggia sopra loggia”, già avviato da Palladio nelle invenzioni di villa, pare rinviare a temi aulici. Si osservano due statue di personaggi maschili (raffiguranti verisimilmente una Bacco, l’altra un suonatore di cembali) entro le nicchie fiancheggianti l’ingresso posteriore, costituito da un portale trabeato, sei-settecentesco, con mascherone al centro. Queste due copie di esemplari antichi testimoniano il gusto collezionistico degli Antonini. In facciata sono state inserite anche due maschere granarie, alle estremità.

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3. Salone piano terra – Atrio tetrastilo Domina innanzitutto l’impianto formale e spaziale del palazzo udinese, con i riferimenti alla domus romana e alle case private dei greci, rintracciabile nella connessione atrio-tablino, nella presenza dello pseudo-pronao (inteso quale “loggia avanti l’atrio”), nonchè nell’inserimento, sull’asse maggiore della fabbrica, dello stretto passaggio tra le scale a sostenere l’andito collocato tra la strada e il “cortile primo”.

E’ sicuramente innovativa la funzione del pianterreno, non più adibito alla servitù e alle cucine, bensì reinventato quale luogo deputato a incontri d’affari, sede di contrattazioni e di altre cerimonie, non solo familiari.

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Da ciò derivano alcune modifiche strutturali: lo spostamento dei servizi domestici in parti diverse dell’edificio, l’uso delle scalinate interne, la reintroduzione dell’atrio di ordine corinzio e alla sua rilettura, sino all’invenzione di nuove forme da esso derivate. Tema principale è l’atrio tetrastilo, cioè la sala a 4 colonne, episodio centrale di tutto l’edificio (e il suo raddoppiamento su due piani, con due ordini sovrapposti) che rimanda, in forma abbreviata, alla domus romana, già sperimentata altrove (fa parte dunque dello stesso ciclo progettuale degli anni ’50, come Montagnana e Piombino Dese, con la sovrapposizione delle logge, pur con differenti esiti formali, ad esempio nella scelta degli ordini, pseudo-pronai, logge). La sala tetrastila d’ingresso è illuminata da due ordini di finestre, e la scala centrale presenta due trombe separate e collegate.

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Nella successione atrio tetrastilo-tablino nel soffitto dell’atrio si nota lo stemma, diviso in quattro comparti, che ricorda le prime donne della famiglia, che provenivano dai Maniago, dai Savorgnan, dai Polcenigo e dagli Hofer.

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Alle quattro estremità angolari della sala tetrastila si notano quattro statue entro le nicchie, che imitano esemplari greci, Venere pudica (che richiama la Venere Italica del Canova, 1804-1812, nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti, realizzata per sostituire la famosa Venere dei Medici, requisita da Napoleone e tornata a Firenze nel 1815; essa impostata sul modello delle Veneri pudiche, tipiche dell’età tardo-classica ed ellenistica), Figura femminile con una coppa, Diana?, Amazzone col gonnellino corto (d’impronta arcaica), altro segno dei richiami classici qui evocati. Le statue sono state verosimilmente realizzate nel primo Ottocento, in ossequio al gusto neoclassico (e quindi all’epoca di Francesco e Rambaldo Antonini).

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4. Scale verso il piano nobile Si riferiscono al rifacimento primo 700esco; interessanti sono i mascheroni angolari che si fronteggiano.

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All’inizio del ‘700 risale l’episodio dell’introduzione del vano intermedio che raccorda l’atrio tetrastilo all’andito e la soppressione delle scale, con il muro di spina e i setti murari, ad inserire un “continuum spaziale” estraneo alle intenzioni del progettista iniziale finendo per infrangere irrimediabilmente la spazialità palladiana intrisa di suggestioni antiche. Le scale, non più collocate in posizione secondaria rispetto alla disposizione planimetrica dell’intero edificio, paiono inquadrarsi direttamente dall’entrata-atrio, forzando sullo sfondo la prospettiva 700esca di una scala a doppia rampa. Si instaurò dunque una nuova scenografia assiale in cui la sequenza dall’atrio alla loggia ionica posteriore, scandita all’origine da contrazioni spaziali attraverso la successione atrio-vestibolo-atrio, conosceva una nuova espansione dell’invaso mediante la soppressione dei setti murari e all’allargamento dello stesso passaggio tra le scale. Non si sa chi possa aver progettato queste modificazioni.

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5. Poggioli e ballatoio 600-700eschi; sul soffitto affreschi 800eschi attribuiti a

Turk*

Nella 2^ metà dell’800 furono realizzati gli affreschi dell’udinese Tommaso Türk, 1824-1840ca. (spentosi a Trieste nel 1880, dopo aver a lungo lavorato a Zara e Spalato, e in altre località della Dalmazia) – nel soffitto dello scalone, con prospettive architettoniche caratterizzate da un fare grandioso ma con colori privi di forza.

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6. Giardino d’inverno (loggia corinzia, chiusa), con soffitto progettato dall’arch. Zanini

La loggia – cui si accede tramite un portale 600-700esco caratterizzato da doppie lesene doriche e cornice spezzata al centro- presenta, murati in alto, 4 bassorilievi del veronese L. Zandomeneghi (1788-1850), professore dell’Accademia di Venezia, che fu acerrimo nemico del Politi (cfr. Sala 8), con episodi dell’ Iliade (con riferimento alle tematiche neoclassiche e canoviane in particolare). I bassorilievi mostrano la stretta adesione dell’autore alle tematiche neoclassiche e specificatamente canoviane. Poi il tema prospettico della “loggia sopra loggia”, già avviato da Palladio nelle invenzioni di villa, che pare rinviare a temi aulici. L’arch. Zanini nel 1923 restaurò l’edificio e progettò l’attuale sistemazione della loggia palladiana verso il giardino, demolendo le pareti innalzate nel 1899 (erano stati in quell’epoca murati gli intercolumni [gli spazi compresi tra le colonne] della loggia per ottenere un nuovo ambiente, e s’era diviso il salone con una parete a sportelli progettata dall’intagliatore udinese Brusconi) e tentò di dare una soluzione alla parte loggiata costruendo un grande sporto ligneo con cassettoni che togliesse la vista della falda del tetto (soluzione che fu molto criticata).

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7. Salottino veneziano con decorazioni, grottesche e stucchi 800eschi

attribuiti a Turk

Alla 2^ metà dell’800 risalgono le piacevoli decorazioni ad affresco dell’udinese Tommaso Türk, 1824-1840ca., con stucchi in oro, grottesche, paesaggi del salottino 800esco, un tempo arricchito da specchi poi rubati. L’ ambiente oggi appare deturpato da manomissioni nelle parti figurate, e un belvedere, ove si trova una stufa del secolo XVIII in maiolica riccamente ornata.

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8. Sala del Consiglio Ornavano questo ambiente (?) gli affreschi di Odorico Politi, pittore neoclassico udinese (1818ca., a pochi anni dai dipinti per il suo stesso palazzo) nell’ammezzato verso il Giardino (Ulisse rifocillato da Nausicaa, tratto dall’Odissea omerica, La lezione di Saffo*, piacevole per equilibrio compositivo ed armonioso accordo cromatico qui il pittore ha rappresentato se stesso ed è l’episodio migliore, che testimonia le sue felici doti ritrattistiche, Diotima a colloquio con Socrate, Alcibiade ammonito da Socrate che lo aveva scoperto nel gineceo, episodi che sono ispirati alla vita del filosofo greco che avrebbero dovuto far parte di un ciclo più ampio di cui non si conserva memoria, che dimostrano il suo orientamento foscoliano verso i temi greci e il tipico contrasto tra bellezza e saggezza), affreschi ora ai Civici Musei del Castello.

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Si tratta di piacevoli pitture classicheggianti – realizzate fra il 1818 e il 1825 - che illustrano temi di storia antica, declinati in eleganti e sobri equilibri compositivi, e sono contraddistinti da forme nitide e da una pittura orchestrata su pochi toni fondamentali. Erano concepiti come quadri appesi a una parete, racchiusi da cornici in stucco. A pochi mesi di distanza dagli affreschi del palazzo di sua proprietà in via Zanon (1813-15), il Politi si ripete con colori accattivanti nonostante la freddezza accademica delle figure, poste in scena come bloccate nella teatralità dei gesti, quasi a voler fissare un momento dell’azione.

Nella stessa stanza si trovavano originariamente i 4 bassorilievi del veronese L. Zandomeneghi (1788-1850), professore dell’Accademia di Venezia, acerrimo nemico del Politi, tanto da osteggiarne proprio nel 1831 la nomina a professore in sostituzione del Matteini che si era ritirato dall’insegnamento, con episodi dell’Iliade (con riferimento alle tematiche neoclassiche e canoviane in particolare). I bassorilievi – ora murati nella loggetta del piano superiore – mostrano la stretta adesione dell’autore alle tematiche neoclassiche e specificatamente canoviane.

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Un tempo all’interno della medesima stanza c’erano pure 6 statue dello scultore pordenonese Antonio Marsure, in gesso, poste entro 4 nicchie decoranti l’atrio e due nella loggia terrazzata, rimosse nel 1924-25 e collocate in giardino, che poi sono andate distrutte. 9. Ufficio del Direttore (ospitava il busto di Bonaldo Stringher) cfr. biografia

Stringher.

10. Salone di Rappresentanza – Salone d’onore al piano nobile, con stucchi e affreschi del Fischer

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Al piano nobile l’ambiente più rappresentativo è il fastoso salone d’onore, decorato con stucchi 700eschi e con affreschi. Si noti la successione: sala tablino vano-scale loggia. Per quanto riguarda gli stucchi, essi occupano il soffitto e un alto fregio, con nudi putti coperti da elmi piumati in mezzo a trofei, animali fantastici, vasi, armi, corazze. La mano degli stuccatori ricorda quella del fregio e del soffitto della sala degli arazzi di Palazzo Antonini di Patriarcato.

1696-1709: quest’ultima è la data degli affreschi di Martinus Fischer [MARTINVS FISCHER PINXIT MDCCIX] nel salone d’onore al piano nobile, poco esaltanti, in cui si alternano telamoni e cariatidi, panoplie (armature disposte a trofeo per ornamento), in stucco e dipinti, a monocromi giganti e corposi putti (talora sgraziati) di grandi proporzioni che giocano con i telamoni (che assomigliano un po’ a quelli del Quaglio di Palazzo della Porta), restaurati nella 2^ metà dell’800 da G.B. Sello, oltre a gradevoli monocromi con vivaci scenette di vita quotidiana. Di questo Fischer, che si palesa come (modesto) seguace del Quaglio, si sa pochissimo: ha affrescato – entro stucchi- il vecchio coro, ora atrio, della parrocchiale di Pozzuolo (1710) con Dottori della Chiesa, Evangelisti e Profeti. Nel 1706 dipinse anche una pala per la chiesetta del palazzo del conte Marzio Polcenigo. Entro gli stucchi sono stati inseriti i fori, fascianti l’intero salone e illuminanti gli ambienti del sottotetto. Il salone del piano nobile è stato dunque innalzato di m.1,70ca rispetto a quello che aveva previsto il Palladio (m6,60). Anche la copertura è stata sopraelevata; al di sopra delle stanze minori, lateralmente disposte, furono inoltre ideati due poggioli simmetrici balaustrati, cui si accedeva originariamente, forse, attraverso scale a chiocciola disposte entro gli stanzini suddetti.

 APPROFONDIMENTO PER COLLOCARE STILISTICAMENTE GLI AFFRESCHI DEL FISCHER:

IL SUPERAMENTO DELLA TRADIZIONE MANIERISTA CINQUECENTESCA IN DIREZIONE BAROCCA

A Bologna, alla fine del ‘500, i pittori Carracci fondarono nel 1582 l’Accademia dei Desiderosi, detta poi degli Incamminati (dal 1590), una sorta di Accademia privata che mira a fondere l’insegnamento dei grandi maestri del ‘500 (facendo perno soprattutto sul disegno dei centro-italici e sul colore dei veneti) con l’osservazione dal vero (La macelleria, il mangiafagioli), nel segno della pittura di genere prossima ad una presa diretta sul reale. Annibale Carracci, su invito di Odoardo Farnese, giunge a Roma per dipingere la Galleria di Palazzo Farnese (1595-1600): l’incontro con le opere romane di Raffaello e Michelangelo è vivificante

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per la sua arte, innescando una componente classica nel suo linguaggio confrontata con il “naturale” che restituisce maggiore verità e spontaneità, pur mantenendo una forte carica di idealizzazione formale. Tramite allievi come Lanfranco e Domenichino il suo linguaggio si diffonde e questo rinnovato classicismo costituisce un’insostituibile fonte di riflessione per la pittura barocca. A Roma, allo scadere del ‘500, si presentano infatti due linee stilistiche che propongono una seria alternativa alla tradizione manierista: quella classicista, inaugurata come s’è detto, da Annibale Carracci (tramite un processo intellettuale di astrazione, da parte del pittore, che tende a trasfigurare in una perfezione ideale assoluta elementi selezionati del mondo naturale) e quella naturalista (l’imitazione della natura) di Caravaggio e dei suoi continuatori, a Napoli specialmente. Caravaggio (1571ca-1610), sempre vissuto ai margini della legalità, ha contribuito in modo radicale ad orientare la pittura italiana ed europea verso un marcato senso realistico. La linea più seguita fu invece quella dell’idealizzazione della natura proposta dal classicismo carraccesco, che proveniva dall’antichità e si ritrova in Raffaello. L’ideale classico di bellezza è magistralmente rappresentato da Guido Reni (1575-1642), da Domenichino e dal Guercino (autore di Et in Arcadia ego, sorta di monito relativo alla transitorietà terrena). Dalla tradizione classicista, tramite gli allievi dei Carracci (che, grazie ad un’articolata preparazione accademica, si cimentano in grandi composizioni religiose, storico-allegoriche e soprattutto nel paesaggio, trasfigurato nell’ideale classico, fino ad arrivare alle interpretazioni magistrali dei pittori Poussin e Lorrain), si sviluppano le caratteristiche stilistiche che confluiscono, determinandone molti aspetti, nel Barocco: vedansi le premesse scenografiche e di forte impatto emotivo della cupola di S. Andrea della Valle di Lanfranco, 1625-27.

Annibale Carracci - (Bologna 1560-1609), è considerato uno dei maggiori pittori bolognesi. Nelle sue prime opere, compiute tra il 1583 e il 1585, si individua l'interesse per soggetti della vita quotidiana, e umili (Crocifisso, Bologna, chiesa di S. Nicolò; Il mangiafagioli, Roma, Galleria Colonna; Bottega del macellaio, Oxford, Christ Church). Nel Battesimo di Cristo (1585, Bologna, chiesa di S. Gregorio) invece l'artista lascia intravedere interesse alla lezione del Correggio. Tra il 1588 e il 1590 lavorò col fratello Agostino e il cugino Ludovico agli affreschi del Palazzo Magnani (ora Salem) a Bologna. Nel 1595 fu a Roma, incaricato dal cardinale Odoardo Farnese di dipingere il Camerino Farnese, un lavoro quasi preparatorio per la decorazione della fastosa Galleria Farnese. A quest'ultima, collaborando col fratello Agostino, si applicò dal 1597 al 1602 con una straordinaria libertà compositiva e uno stimolante approfondimento dei valori formali ed espressivi. Il programma iconografico della Galleria (fatta costruire per raccogliere le collezioni di sculture antiche del cardinale), con scene mitologiche e d'amore, venne soprattutto derivato dalle Metamorfosi di Ovidio (scene con il Trionfo di Bacco e Arianna, Paride e Mercurio e Pan e Diana). La decorazione fu caratterizzata da una particolare scelta tecnica, ovvero l'uso della quadratura e soprattutto la realizzazione delle architetture dipinte che creano l'illusione di uno spazio tangibile. Questi affreschi sono così premessa della decorazione tipica del Seicento che insisterà molto sul concetto di illusionismo spaziale. Per Annibale dunque fu fondamentale sia la ri-vivificazione della cultura classica in direzione naturalistica sia l'intensità persuasiva dell'immagine. Le Metamorfosi di Ovidio costituiscono la traccia letteraria e il fondamento essenziale di molta arte seicentesca. Le suggestioni legate a quest’opera, che permise agli artisti una conoscenza approfondita e particolareggiata dei miti più famosi, rinnovarono l’interesse per le tematiche mitologiche agli inizi del XVII secolo ed oltre.

La formulazione delle proposte iconografiche, maturate in ambito romano-bolognese ad opera dei Carracci e dei loro discepoli, fornisce le basi per le successive interpretazioni di stampo classicistico e/o barocco, scandendo la reinvenzione del tema mitologico. Le modalità compositive della fase secentesca in particolare presentano un bilanciamento tra la componente “tenebrosa” (dai colori cupi e scuri), ancora legata alle esperienze naturalistiche e la carica luministica che dà impulso a effetti di movimento, oltre che d’incisiva disgregazione corporea. Si forma una linea interpretativa che, pur con notevoli varianti tra le diverse aree mediterranee, accomuna i percorsi degli artisti attivi intorno alla seconda metà del Seicento e pone le premesse per esiti che diverranno caratterizzanti della fase di fine secolo. Specie la ripresa del filone profano contribuirà alla valorizzazione di una pittura d’effetto, capace di intervenire nel tessuto decorativo di palazzi nobiliari o della borghesia in ascesa, costituendo una prima alternativa all’allegorismo moraleggiante della prima metà del secolo e puntando al rilancio della "cultura della favola". La produzione in ambito veneto permette di cogliere il positivo riflesso della tradizione iconografica cinquecentesca, da Tiziano a Tintoretto, declinata con una nuova sensibilità .

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11. Scale verso il piano terra 12. Uscita dal Palladiano verso il parco

13. Attraversamento del ponticello sulla roggia 14. Giro del parco monumentale

15.

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a. IL GIARDINO Complemento dell’edificio è il giardino, organizzato nella corte interna del Palazzo nel primo tratto, fino ad allargarsi sino alle pertinenze delle casette a schiera lungo via Porta Nuova e all’estremità O di Piazza Primo Maggio. Si sviluppa su un terreno morfologicamente connotato da un dislivello che contraddistingue tutto il settore urbano cui appartiene: da un andamento piano in prossimità del palazzo diviene un terrazzamento che poi discende verso la quota dell’ingresso posteriore. Ampio solo mezzo ettaro, il giardino è terrazzato, il che contribuisce alla sua bellezza, in accordo con il vero spirito del luogo: essere in discesa e poi in piano e poi ancora in discesa fino alla conca di piazza Primo Maggio. Come un pensiero pieno di pause e sospensioni: d'altra parte, nell'Ottocento prevaleva il clima romantico.

VICENDE STORICHE DELL’AREA VERDE

La conformazione originaria del sito si affacciava sulla spianata incolta del Giardin Grande, separata dall’ambito borghigiano mediante una muraglia e collegata alla fabbrica antonina mediante un ponte sulla roggia. Nel dipinto attribuito al Carlevarijs l’impianto era a filari, come in una sorta di braida. E' stato impiegato, da parte dell'architetto Palladio, uno schema già sperimentato negli edifici di villa ed ora impiegato entro la struttura urbana. La loggia posteriore "suggerisce una retrostante disponibilità di esterni spazi, chiamati alla lor volta a dialogare col manufatto edilizio" (Puppi). I valori pittorici della facciata postica si dovevano certo integrare nell'area verde contermine, delimitata ma non chiusa, degradante verso l'ampio spazio incolto del "Giardino". Riveste particolare importanza, a proposito di questo esempio, la rilevazione puntuale dello Spinelli, eseguita nel 1706, che integrò la documentazione cartografica generale trasmettendo lo schema di una parte del giardino (15): un'aiuola scompartita da otto vialetti radiali che s'incontravano al centro in un cerchio

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decorato da una presumibile rosa dei venti, secondo una immagine geometrizzante, plausibile in rapporto allo scenario architettonico; la tradizionale scansione era ancora segnalata nella pianta tracciata dal Perusini nel 1811. Al 1706 risale la concessione per edificare in quella parte dell’orto Antonini che confina con la strada di Porta Nuova una serie di casette in qualità di botteghe a schiera. Intanto l’area verde è diventata giardino, verosimilmente formale. Nel ‘600-‘700 l’edificio era sottoposto a radicali rifacimenti che possono aver interessato pure il giardino. Lambito dalla roggia, il giardino si presenta oggi ricco di essenze pregiate, tra cui lecci e cedri, con viali sinuosi e fontane che testimoniano un assetto di tipo paesaggistico. La preesistente disposizione cui si riferiscono le statue, di ignoto autore settecentesco, venne probabilmente alterata nel secondo ottocento ad opera di Pietro Quaglia, illustre giardinista (nonché patriota) friulano ottocentesco, amico di Pacifico Valussi ed esponente di punta dell’Associazione Agraria Friulana, che lasciò infatti un disegno (datato 1867) che costituisce una rara testimonianza per il mondo udinese. Il progetto, riferibile alla fase matura dell’attività del progettista di Polcenigo, ormai così celebre da essere chiamato ad operare nel capoluogo friulano, documenta l’avvio della trasformazione della precedente orditura geometrica. L’insieme previsto, con un asse visivo libero e l’addensarsi delle specie vegetali sul lato di porta Nuova, non collima completamente con l’assetto attuale, specie nella parte verso il “Giardino”, ora più sfoltita rispetto alle intenzioni del progettista. Al posto del piccolo laghetto previsto, in accordo con gli altri progetti di arricchimento idrico nei giardini da lui ideati (Parco Policreti a Castel d’Aviano, riforma del Giardino di Villa Manin a Passariano), è stata collocata un piccola fontana, contornata da elementi statuari non congruenti con quelli che ornano le balaustre del ponte sulla roggia. La sistemazione, verosimilmente promossa in seguito agli interventi di arredo verde urbano che rinnovarono il volto di Udine dopo il passaggio al regno d’Italia nel 1866, fu affidata a Giuseppe Rho che, sul lato O del Giardin Grande, proprio su un fondo dei medesimi Antonini, aveva avviato lo Stabilimento Agro-Orticolo, sito non a caso in borgo Pracchiuso, contornato da residenze ove il verde svolgeva un ruolo importante. Lo Stabilimento era destinato alla produzione e al commercio di piante, ad imitazione dello stabilimento Burdin di Milano, a cui solitamente ci si rivolgeva per l’acquisto di specie vegetali da inserire in giardini e parchi. L’insieme fu rimodellato planimetricamente ed altimetricamente, innalzando una collina-belvedere in direzione di Giardin Grande al fine di estendere le visuali oltre il muro di cinta. A realizzare l’impresa fu l’attivissimo Giuseppe Rho che, al contrario del Quaglia, fece digradare l’area verso lo slargo, sì da suggerire una sorta di unione al contesto urbano rimodellato. I mutamenti intervenuti in corso d’opera testimoniano come ormai l’esecuzione di un parco venisse presa in carico da ditte specializzate che semplificavano i progetti più complessi degli ideatori e li adattavano alle esigenze, in primo luogo economiche, dei committenti.

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ITINERARIO DI VISITA DEL GIARDINO Il giardino si sviluppa su un terreno morfologicamente connotato da un dislivello proprio di tutto il settore urbano cui appartiene (come s’è detto, il terreno da piano dolcemente si avvalla). Questo segno architettonico è suggellato dal passaggio della roggia di Udine, come elemento che marca il transito tra edificio e giardino: ponte e balaustra in pietra sormontati con ritmo modulare da 13 statue (che paiono 700esche*) che definiscono l’accesso al giardino.

*Esse in qualche modo richiamano quelle poste ad ornamento superiore del loggiato retrostante Palazzo Valvason-Morpurgo in via Savorgnana, ora sede delle Gallerie del Progetto, di cui s’è accertata la paternità, essendo queste ultime opera degli scultori-tagliapietra Mattiussi, una dinastia che lavorò assiduamente nel corso del XVIII secolo in tutto il Friuli patriarcale.

L’impianto del giardino è caratterizzato dal susseguirsi di due aree di forma rettangolare, entrambe strutturate da un percorso ellissoidale. Attraversato il ponte, si snoda il 1° percorso tra una vegetazione liberamente composta da specie floreali ed arbustive di impianto relativamente recente ed alcune a portamento arboreo precedenti il riassetto; un leccio (Quercus ilex), molto malato (già sottoposto a un radicale intervento di dendrochirurgia), è l’unico esemplare ad alto fusto. Il giardino, sviluppato su un’area spezzata approssimabile a una L, presenta un impianto informale disegnato da una coppia di viali ad anello che separano gli ambiti centrali ad impianto rado, da quelli perimetrali più densamente piantumati. Dal suo punto estremo il percorso, seguendo l’asse, si raccorda gradualmente a quello di maggiore sviluppo che organizza l’ampia area sottostante. Questa connessione, segnata da due statue all’ombra di un’alta conifera, apre la balaustra in pietra che delimita la zona terrazzata, nodo strutturale del giardino per la sua duplice valenza gerarchica (nel definire la parte del giardino più vicina all’edificio storico) e panoramica (da qui si gode la vista di tutto il giardino).

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Scesa la gradinata posta sul lato s del terrazzamento, un asse secondario conduce al sentiero principale che si inoltra in una fitta vegetazione ad alto fusto estesa su tutta la fascia S: tra questa emerge un esemplare di sequoia californiana (Sequoia sempervirens), notevole per età, dimensioni e vigoria, nonostante le traversie subìte. E’ stata piantata intorno al 1866: è uno dei primi esempi in Italia. Le altre si trovano nell'Isola Madre davanti a Stresa. Come ha scritto Elena Commessatti in un suo articolo della serie “Genius Loci”: che carica simbolica questa “nonna verde” garibaldina!

Qui di seguito alleghiamo una sintesi della scheda redatta per la "mitica" Sequoia alcuni anni fa dall'agronomo comunale Andrea Maroè. "L’esemplare di Sequoia Sempervirens (Sequoia californiana), della famiglia delle Taxodiaceae, alta oltre 20 metri (ma prima del 1997 superava i 40 metri), ha circa 150 anni. I primi alberi di questa specie importate in Europa sono giunte in Scozia nel 1844 e le prime piantate in Italia sono da annoverarsi quelle piantate sull’Isola Madre nel 1860. Quindi anche la Sequoia udinese è tra le prime messe a dimora nella penisola, in accordo con il rifacimento del parco in senso romantico negli anni ’60 del XIX secolo. Purtroppo gli eventi atmosferici si sono accaniti contro questa pianta – numerosi i fulmini che l’hanno colpita - che altrimenti sarebbe il più alto del Friuli-Venezia Giulia (misurava 49m nel 1975) e la sua mole svettava sulla città, essendo visibile anche da molto lontano. Numerosi sono stati gli interventi di recupero effettuati da parte del Comune di Udine: nel 1996, dopo un’ennesima ferita, sono stati condotti vari esami sulla pianta e si è intervenuti in maniera intensa per salvare l’esemplare, che allora mostrava un notevole deperimento vegetativo. Sulla parte più alta della pianta è stato installato un particolare sistema anti-fulmine per proteggerla da ulteriori danni e un sistema di micro-irrigazione in quota per ricostruire il tipico clima nebbioso-umido della California del Nord."

Allontanandosi dal percorso verso la zona centrale, la struttura vegetazionale si semplifica passando da specie a portamento arboreo di media dimensione a specie arbustive fino a ridursi a prato; questo si estende fino al limite E del giardino in cui è situata, in asse all’ingresso posteriore, la bella fontana circolare circondata da 8 eleganti sedili in pietra e da 2 basi ad anfora su basamento; a questo insieme di elementi decorativi si aggiungono le statue su pilastro poste ai lati della zona d’accesso. Oltre alla siepe che fiancheggia il lato NE del sentiero vi è un’area coltivata ad orto collegata alla costruzione adibita a serra lungo il confine N del giardino.

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Compiuto il suo giro ellissoidale, il percorso riconduce alla zona terrazzata la cui base diviene occasione di un elemento ornamentale: una fontana immersa in un sistema di massi irregolari ad effetto pittoresco. Nel giardino sono inoltre presenti vari elementi d’arredo per la sosta (panchine e tavolini) ed un finto gazebo che maschera una cabina di trasformazione elettrica. Il giardino è ricco di entità vegetali per lo più in discreto stato di conservazione, strutturato in aiuole alberate. L’Istituto della Banca d’Italia ha provveduto fino ad epoca recente (2009) alla manutenzione del complesso. [ La maggior parte delle notizie è stata tratta dalla scheda redatta da M. Asquini – G. Bertani e depositata presso il Centro di Catalogazione di Villa Manin di Passariano].

BREVE STORIA DEI MODELLI TRADIZIONALI DI GIARDINO:

LE DUE SOLUZIONI PIU’ DIFFUSE, LA “FORMALE” E L’IRREGOLARE, O “SPONTANEA”. LA LORO DIFFUSIONE A UDINE NEL SETTE E NELL’OTTOCENTO

A partire dall’età rinascimentale si sviluppa ovunque nella penisola il cosiddetto giardino all’italiana, il giardino umanizzato dove l’uomo impone un ordine preciso al disordine della natura. In spazi regolarizzati, anche esigui, le piante vengono usate con intendimenti architettonici, la loro disposizione è alternata a giochi d’acque e corredo statuario. In base a criteri unificanti quali la geometria, la simmetria, l’armonia, gli elementi utilizzati per definire e circoscrivere lo spazio sono gli arbusti, i viali rettilinei e le prospettive. Spesso alte siepi di bosso, che si presta ad essere tagliato a fini ornamentali in maniera geometrica, delineano quasi delle stanze verdi, prosecuzione degli ambienti edificati, in cui ci si può appartare per ricrearsi dalle faticose attività cittadine e in cui ci si può intrattenere tramite l’espressione artistico-letteraria. Alla semplicità degli impianti quattrocenteschi si viene ad affiancare una maggiore complessità nelle realizzazioni cinquecentesche (distribuzione a ripiani, simbiosi tra elementi architettonici e naturali), mentre in seguito il giardino assume aspetti pittoreschi, attraverso forti contrasti e scenografie artificiali. In età moderna il giardino è sempre e comunque considerato un’opera architettonica, nonostante la presenza di componenti vegetali, ma vi vengono introdotte più ariose vibrazioni atmosferiche. Questo modello compositivo conosce larga diffusione nelle residenze di villa e soprattutto in città, dove può essere applicato a comprensori di dimensioni ridotte, a cui conferisce comunque sempre una dignità artistico-architettonica tale da qualificare la residenza delle famiglie più in vista.

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"Si prenda Udine [...], dentro la quinta cerchia delle mura [...] includendovi, su modelli urbani altrove largamente sperimentati, ampie superfici di orti e giardini [...] si otterrà uno schema che rimarrà fondamentale almeno fino alla metà dell'Ottocento. E si noterà subito come il palazzo venetizzante qui sia la regola, ed anche l'obbiettivo di un altero, patrizio isolamento ottenuto mediante giardini che, a loro volta, danno sulle braide" (E. Bartolini). A Udine la persistenza, nelle aree di proprietà privata adiacenti ai palazzi, di zone coltivate a giardino, nella maggior parte dei casi con un’impostazione di tipo formale, testimonia una presenza quantitativamente elevata e, in taluni esempi, qualitativamente significativa. Fino al XVIII secolo i maggiori complessi nobiliari generalmente si affacciavano su di un cortile interno, che a sua volta si collegava ad un giardino, confluente spesso nel brolo, in una sorta di rustico abbinamento giardini-orti che conferiva un tono agreste alla città in evoluzione. Nel corso del Settecento la citata partizione si specializzò, come accadeva parallelamente nelle dimore di villa, e l'area destinata a giardino divenne vera propaggine della composizione architettonica negli esterni, fino a interessare coerentemente tutto lo spazio nobiliare con le sue pertinenze. Annesse alle dimore padronali si estendevano le braide, appezzamenti recintati di più vaste dimensioni, utilizzati a vigna e a colture orticole. Numerose erano le pertinenze delle congregazioni religiose, con i giardini-chiostri e gli orti conventuali che costellavano le aree urbane intra moenia, specie nelle parti adiacenti la cinta muraria e le porte urbiche. Spazi verdi erano disposti a corona del nucleo cittadino originario, in prossimità del corso delle rogge e in alcuni luoghi inedificati come quello retrostante il colle del Castello, nell’area di Giardin Grande (che quindi coinvolge anche Palazzo Antonini) e in fregio alle rogge e ai Gorghi (in relazione all’attuale Borgo Aquileia). Anche in ciò era rispecchiato lo sviluppo urbano coevo e la conseguente propensione ad un nuovo e generale decoro: questo passaggio dagli orti o broli ad aree regolari ornamentate coinvolse progressivamente ampie zone presso la cinta fortificata in un'orditura più fitta che imprimeva, rispetto al passato, un più marcato distacco dall'agreste territorio circostante, esterno alle mura. Questa situazione si protrasse lungo tutta la dominazione veneta, che valorizzò alcuni nodi della città ma non indusse un generale ed organico ridisegno del nucleo urbano ove il verde potesse giocare un ruolo primario. I maggiori complessi nobiliari si affacciavano sullo spazio pubblico aprendosi poi su di un cortile interno, che a sua volta si collegava ad un giardino di forma quadrangolare, confluente spesso nel contiguo brolo. Nei casi più rilevanti, durante il Settecento, la partizione ricordata si specializzò, come accadeva nel contado in villa, e l'area destinata a giardino si arricchì divenendo una vera e propria propaggine della composizione architettonica, giocata negli esterni come specchio e prosecuzione di una decorazione estesa con coerenza a tutto lo spazio di pertinenza. Stando alle realizzazioni che si possono verificare perchè ancora esistenti o ricostruibili per via documentaria, i giardini privati erano concepiti come una sorta di palcoscenico di una società che si compiaceva nel radunarsi tra sodali, appassionandosi alle vicende che portavano lustro alle rispettive casate, di qui la nutrita tradizione di cultori della storia locale. Questi fondali, di varie dimensioni e conformazioni, erano prevalentemente impostati secondo un modello di derivazione rinascimentale. Forme più libere furono adottate, a Udine, solo nell'Ottocento avanzato, coinvolgendo vasti spazi di aree più discoste dagli edifici: limitati, in effetti, risultarono i casi di adeguamento ai canoni tardo-romantici. Per le aree di minor estensione prevalse invece, con fortuna, una certa ripresa dei modelli formali. Alle proposte di marcata rappresentatività nel settore pubblico (Giardin Grande) formulate nel concitato trapasso di poteri che contraddistinse i primi tre lustri del secolo XIX, fece seguito, nell’età della Restaurazione, una fase di apparente ristagno, dovuto alla rinuncia di perseguire operazioni ritenute poco opportunamente dispendiose. I proprietari volsero i loro interessi alla sfera più specificatamente privata: gli spazi dei giardini nobiliari divennero in una certa misura lo scenario di quella che poteva apparire come disaffezione alla cosa pubblica, ma si configurava come orgoglioso appello alla propria storia e alle antiche origini del territorio. I reperti archeologici derivanti dagli scavi perpetrati nell’agro aquileiese furono destinati ad allestire i giardini dei più colti proprietari, adeguando a questa propensione di gusto la progettazione di complessi architettonici ove il palladianesimo si protraeva e si coniugava con la voga neoclassica, ben radicata nel centro storico udinese. La nuova moda “all’inglese” caratterizzava l’organizzazione dei giardini definiti in “libere” composizioni. Intanto lo studio della botanica si diffondeva presso i dotti udinesi (tra cui i conti Giovanni Battista Bartolini e Giuseppe Carlo Cernazai).

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L'Ottocento è l'epoca di grande diffusione, in tutto il continente europeo, del cosiddetto giardino paesaggistico, termine che ricalca la dizione landscape garden. Esso reagisce al rigido formalismo del modello all’italiana o alla francese. Questo gusto nacque in Inghilterra intorno al 1730: si tratta di un'invenzione originale britannica, come é testimoniato dall'uso corrente della definizione "giardino all'inglese", abbinata ai criteri costitutivi delle nuove creazioni. Nel Settecento -il secolo dei giardini per antonomasia- di contro ai modelli formali diffusi in tutta Europa tramite il giardino architettonico formale alla francese, nelle composizioni paesaggistiche si rifiutavano, criticando i prototipi classicisti e i loro presupposti, la regolarità e la simmetria, per ricercare un ben calcolato disordine mediante percorsi in cui la linea curva - teorizzata nel XVIII secolo come la linea della bellezza - si sostituiva alla retta. La natura appariva come materia da comporre secondo la libera sensibilità individuale. Il visitatore era indotto non più a contemplare immediatamente l'insieme del giardino, secondo la veduta prospettica a fuoco fisso dell'impostazione rinascimental-barocca, ma a scoprire -secondo una disposizione che radicalmente sovvertiva le tradizionali idee di spazio e tempo, articolate e ricomposte in modo innovativo- scene sempre diverse e variate, spesso sulla scorta di un messaggio che i vari committenti o progettisti avevano voluto inserirvi. Si creavano così "quadri" mutevoli anche per la vegetazione prescelta, che cambiava aspetto a seconda delle stagioni; le sensazioni che essi destavano erano le più diverse: dal bello al sublime, all'orrido. Lo spazio, manipolato e illusionisticamente dilatato, inglobava nel giardino anche le vedute del circostante paesaggio. Diverse componenti concorsero progressivamente alla definizione del nuovo sistema di ornamentazione vegetale e architettonica: i presupposti socio-politici della monarchia parlamentare inglese, i precedenti della romanità classica cui essa si ispirava, le discussioni filosofiche e letterarie sul concetto di natura, i modelli pittorici del paesaggio classico seicentesco, l'influsso delle culture esotiche come quella cinese... L'obiettivo era quello di seguire e migliorare la natura del luogo (genius loci) per originare percorsi tali da suscitare nell'osservatore precise associazioni mentali, collegabili a sfondi pittoricamente modellati e incentrati su manufatti di grande impatto psicologico, nella riproduzione -spesso in forme ridotte o incomplete, da cui il fenomeno del "rovinismo"- di architetture del passato classico e poi di quello medievale, a sottolineare il ruolo preponderante, in simili complessi, della memoria. Nel contempo si spezzava il tradizionale rapporto con la residenza, precedente fulcro visivo cui il giardino si riferiva: quest'ultimo acquistava pertanto una sostanziale autonomia artistica. Il modello paesaggistico conobbe varie fasi: un primo momento di transizione dalle direttrici assiali a tracciati esasperatamente sinuosi, nel tentativo di ricomporre l'Eden perduto con accorgimenti di gusto rococò); si ebbe poi un'evoluzione verso forme più naturali, assecondando la peculiarità del luogo coinvolto nell'operazione e ancora produzioni fantasiose in zone non necessariamente ampie ma assai movimentate. La fortuna di queste realizzazioni, superando gradualmente il rigido razionalismo di marca francese, dilagò ben presto nel continente europeo e conobbe larga diffusione dapprima in Francia e poi in Germania, ove ebbe un'affermazione sia pratica che teorica. Questo fermento ideativo caratterizzò uno dei periodi più travagliati e vivaci della storia del pensiero umano, a cavallo tra Illuminismo, Neoclassicismo e Romanticismo. La diffusione del giardino romantico spostava l'attenzione oltreché sulle specie vegetali (autoctone ma anche importate da paesi lontani) pittorescamente raggruppate anche all'acqua che, invece di lambire esternamente il complesso, diveniva la protagonista dell'abbellimento del giardino, mettendo in relazione percorsi naturali e artificiali, quali gli immancabili laghetti, dai contorni irregolari, che dovevano sembrare naturalmente presenti in quelle aree di diletto, ove l'arredo scultoreo veniva a disporsi secondo suggestive configurazioni, ove torrette e altri pittoreschi manufatti divengono fondali delle nuove scene paesaggistiche. La fortuna di questa tipologia “irregolare” coinvolse non solo i giardini privati ma si estese anche a quelli pubblici, sempre più frequenti all’interno delle città, come dotazione necessaria a garantire le esigenze ricreative, culturali e fisiche degli abitanti, determinate dalle condizioni di vita della società urbana, luogo di educazione e di intrattenimento nodale della vita cittadina. Creando così una nuova arte pubblica volta a costruire lo spazio collettivo, la realizzazione di parchi pubblici partecipava dunque a quella serie di eventi che annunciano la trasformazione dalla città storica a quella contemporanea, e all’evoluzione della vita che in essa si svolge.

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Effetto decisivo per la diffusione della cultura del verde, in Udine e nella sua vasta provincia, ebbe la fondazione dell’Associazione Agraria Friulana, istituita nel 1846. L’organismo ereditava le finalità della Società di Agricoltura Pratica settecentesca di Zanon e Asquini: curare lo sviluppo degli studi agrari ed economici nel territorio della Patria del Friuli, nella sua estensione tradizionale dal Livenza all’Isonzo. Ciò avvenne ad opera di un nobile proprietario, imprenditore agricolo e scienziato, il conte Gherardo Freschi. Costui radunava nella sua persona l’impegno politico, l’interesse scientifico, la sensibilità socio-culturale per la sua terra, tanto da scuotere i rappresentanti delle classi agiate e sollecitarli all’intervento diretto in vista del miglioramento economico individuale e collettivo. La formazione di parchi e giardini era incoraggiata in accordo al gusto del secolo e ad un’aspirazione condivisa nel mondo borghese, ma era anche concepita come espressione del modo di sentire e agire dei proprietari, coniugando il momento attivo con quello contemplativo dell’esistenza. Freschi e il gruppo di possidenti a lui vicini ritenevano il rinnovamento agricolo un mezzo per il rilancio economico e sociale del territorio friulano grazie ad un rinnovato slancio imprenditoriale che doveva sancire l’alleanza tra proprietari e dipendenti qualificati, in linea con il rinnovamento scientifico peculiare dell’età positivistica. Vennero così avviate molte iniziative e con ciò l’interesse per le coltivazioni, utilitarie e d’ornamento, progredì. In questo contesto di promozione economico-produttiva si innestò un filone dell’attività di Andrea Scala, ingegnere-architetto di formazione storicista che con eclettismo coniugava la progettazione architettonica con le sperimentazioni di carattere ingegneresco e paesaggistico. Nella sua multiforme attività costui progettò numerosi giardini annessi alle dimore padronali, nel contado come nel contesto urbano, ove diede prova di versatile adeguamento agli spazi affidatigli, come aveva teorizzato nel suo trattato, Compendio delle costruzioni rurali più usitate, pubblicato per la prima volta negli anni pre-unitari (Udine 1864), con un’appendice intitolata Del Giardinaggio e dell’Orticoltura. Il prontuario, agile e semplificato, ebbe fortuna e venne più volte ristampato. Esso trattava i temi dell’architettura rurale e del giardino secondo i principi dell’assetto pittoresco risolti in modo concreto dal punto di vista gestionale, come veniva ribadito, negli stessi anni, sulle pagine del Bollettino dell’Associazione Agraria Friulana, l’organismo promotore dell’opera. Per i giardini di città lo Scala prevedeva un'estensione di almeno cinque campi, una corrente d'acqua, dei boschetti (possibilmente anche romitaggi, monumenti funebri, cappella…), mentre nei pressi dell'abitazione veniva suggerita la disposizione di un parterre adorno di fiori odorosi. Muri di cinta e haha esterno (la strada in trincea, non visibile, che delimitava la proprietà) dovevano proteggere il luogo, altimetricamente variato. Per coloro i quali preferivano invece coltivare la conoscenza era opportuno predisporre una sala destinata ad ospitare una biblioteca, un gabinetto di fisica ed una collezione di oggetti naturali e di curiosità. Su una collinetta, invece, si poteva innalzare un chiosco, circondato da vasi di fiori, per i momenti di riposo, da cui la vista poteva spaziare su “tutte le bellezze del paesaggio circostante”, ricreato in miniatura. Queste notazioni rivelano l’impronta attribuita dallo Scala ai suoi giardini urbani, testimonianza di quell’affastellamento di elementi ornamentali e vegetali (aiuole, praticelli, viali che lambivano il perimetro dell’area e che ascendevano sinuosi, in un folto boschetto), alternando parti in piano e lievi rialzi in un prezioso microcosmo incastonato, valorizzando un’antica consuetudine urbana, nella corte interna dei Palazzi dei vari borghi. Il giardino si doveva adeguare al luogo, in una sorta di ritiro atto a preservare la privacy dei proprietari che qui si ritempravano, pur non staccandosi dalle varie attività che scandivano la loro vita operosa. L’attività dello Scala nel settore dei giardini privati finì per influenzare la progettazione di svariati parchi nella Udine del secondo Ottocento, così come fu determinante il ruolo dell’Associazione Agraria Friulana e del suo strumento formatore, lo Stabilimento Agro-Orticolo, sito non a caso in borgo Pracchiuso, a poca distanza da Giardin Grande. Il fervore post-unitario (dopo l’annessione del Friuli al Regno d’Italia, nel 1866) contrassegnò la città anche nel settore giardinistico con la più riuscita realizzazione pubblica ottocentesca: il giardino Ricàsoli. Si ricorse perciò ad una nuova creazione, destinata a valorizzare anche urbanisticamente un sito rimarchevole per le sue potenzialità. Nonostante costrizioni ed ingiurie di vario genere, questo giardino, grazie al suo disegno composito ma compiuto, resta certamente uno dei pochi esemplari gradevoli di giardino pubblico che la città sia riuscita ad esprimere. La città di Udine nel corso del XIX secolo aveva quindi assunto un volto gradevole grazie al tessuto connettivo verde, destinato a marcare le istanze di rinnovamento di un centro in crescita apparentemente lenta ma costante.

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I PROBLEMI ATTUALI A seguito delle notizie apparse sulla stampa circa la volontà dell’Istituto proprietario di mettere in vendita l’immobile, chiuso dal 2009, l’Associazione Italia Nostra ha manifestato la sua preoccupazione sul futuro del complesso che riveste un ruolo strategico per la sua posizione urbana. Consapevole che il palazzo e il giardino sono vincolati dal Ministero per i Beni Culturali e quindi non sono possibili grandi trasformazioni, tuttavia Italia Nostra ritiene che una diversa destinazione d’uso da parte di una nuova proprietà, pubblica o privata che sia, comporterà inevitabilmente lavori di adeguamento, se non altro normativo, che potrebbero compromettere il valore testimoniale di questo palazzo che possiamo definire, a ragione, il più importante della nostra città. Sono tanti e troppi gli edifici di pregio inutilizzati o ancora in attesa di una nuova destinazione d'uso a Udine, diciamo basta al progressivo impoverimento della città e impediamo che uno dei suoi gioielli sia svenduto.

Fin da quando è cominciata a circolare la notizia che palazzo Antonini a Udine, prestigiosa sede della Banca d'Italia, era inserito tra gli edifici dei quali la proprietà intendeva disfarsi, a seguito anche di una politica di ridimensionamento delle sedi istituzionali che prevede lo spostamento di molte attività a Trieste, la sezione udinese di Italia Nostra ha portato il problema all'attenzione pubblica, organizzando un incontro al quale parteciparono tra gli altri il direttore della sede di Udine e l'allora assessore all'urbanistica del Comune, Maria Grazia Santoro. Due erano, secondo l’associazione, i rischi per il palazzo in caso di vendita, il primo quello di un abbandono dell'immobile e conseguente deterioramento nel periodo di tempo precedente l'eventuale passaggio di proprietà, dall'altro l'oggettiva difficoltà di trovare sul mercato un acquirente disposto a ottemperare alle limitazioni imposte dal vincolo posto sia sull'edificio che sul giardino storico. La riunione si chiuse con una assicurazione da parte della proprietà in termini di attenzione e il generale plauso da parte di tutti i convenuti nei confronti della Banca d'Italia che per decenni aveva conservato alla perfezione una splendido edificio. Unanime era stata poi la richiesta di un ripensamento che è tuttora valida, ora che la scelta in favore della vendita è diventata ufficiale: ma ci sono ancora elementi che autorizzano a avere fiducia. Nella lettera di risposta all'appello lanciato dalla Presidente nazionale di Italia Nostra, il direttore del Servizio Gestione Immobiliare della Banca d'Italia ha spiegato che è in corso la ricerca di un advisor per la gestione della dismissione di tutti gli immobili da alienare, ma ha altrettanto ricordato che in quanto vincolato palazzo Antonini è soggetto al controllo del Ministero dei Beni Culturali che potrebbe esercitare il diritto di prelazione. Il funzionario ha poi ricordato che in subordine il diritto di prelazione può essere esercitato da Regione, Provincia e Comune. Oltre al vincolo ci sono altri elementi di oggettiva difficoltà per la vendita del palazzo, a cominciare dal prezzo da attribuire a un immobile che è firmato da uno dei più grandi architetti di tutti i tempi. Se sul mercato venisse messo all'asta […] quale sarebbe il prezzo di partenza e soprattutto chi potrebbe stabilirne il valore? Si è già detto dei vincoli apposti al palazzo che offrirebbero uno scarso margine di manovra al cambio della destinazione d'uso: […] una fruizione da parte del pubblico richiederebbe degli adeguamenti alle normative di sicurezza tali da rischiare di stravolgere gli spazi interni in maniera considerevole. Il tema della destinazione d'uso è quindi centrale per il futuro di palazzo Antonini, ma per individuarne la vocazione è necessario ripercorrere la storia, da abitazione privata voluta da una famiglia che intende confermare il proprio ruolo e celebrarsi a sede periferica della Banca d'Italia grazie alla lungimiranza di Bonaldo Stringher. L'edificio storico conserva tuttora una spiccata vocazione di rappresentanza, soprattutto i due grandiosi saloni a piano terra - l'atrio tetrastilo - e al primo piano: chi ha avuto la fortuna di visitare il palazzo non può dimenticare la forza di quegli spazi, la loro misurata grandiosità che non annichilisce chi li percorre, ma traduce alla perfezione il senso di monumentalità. Se si parte da qui allora il passo successivo diventa scontato, tale destinazione deve restare o essere valorizzata: qualora l'attuale proprietario decidesse di rinunciare alla vendita, palazzo Antonini potrebbe diventare la straordinaria cornice di seminari e incontri di economisti e banchieri. Tale utilizzo potrebbe avere positive ricadute sulla città di Udine, senza contare il fatto che palazzo Antonini […]. In prima battuta, quindi, Italia Nostra chiede alla Banca d'Italia di ripensare alla vendita viste anche alcune oggettive difficoltà in merito, qualora non fosse possibile fin d'ora dichiara che cercherà con ogni mezzo di fare pressing sull'acquirente perché rispetti e anzi valorizzi l'immobile. Sarà poi cura di Italia Nostra sensibilizzare il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali affinché vigili con la massima attenzione su tutto l'iter della vendita, esercitando il diritto di prelazione qualora ne ravvisasse la necessità. Ma palazzo Antonini è anche la cartina al tornasole di un progressivo impoverimento dell'appeal del capoluogo friulano, che dispone di un patrimonio immobiliare di pregio che dovrebbe essere valorizzato: a chi si lamenta dello svuotamento del centro storico, si potrebbe far presente che il rilancio è frutto di un mix di azioni […]. Se si ripensa al degrado in cui si trovava qualche tempo fa piazza San Giacomo e si considera la vitalità di questi ultimi anni, una parte del merito va ascritta al restauro dei palazzi che vi si affacciano e creano una cortina architettonica di prim'ordine. Qualunque iniziativa che si tenesse in una cornice poco decorosa sarebbe destinata a non avere successo, quindi il recupero degli edifici diventa strategico (da un comunicato a cura di Italia Nostra, 2011)

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Il palazzo da allora non è ancora stato acquisito da alcun compratore. Per evidenziare il dibattito che ne è seguito si accludono due recenti articoli comparsi sul maggior quotidiano locale.

Michela Zanutto , Svuotato palazzo Antonini di Udine, i mobili portati a Trieste

Tolti anche la scrivania e il busto per primo governatore, Bonaldo Stringher L’edificio, stimato 7,4 milioni di euro, è in vendita. La prossima settimana l’esito, Messaggero Veneto, 14 marzo 2014

La scrivania di Bonaldo Stringher non è più a Udine. Così il busto e tutti gli arredi che arricchivano palazzo Antonini, in vendita ormai da qualche tempo e di cui si conosceranno le sorti soltanto la prossima settimana. Intanto però divani, tavoli realizzati su misura, mobili e quadri – tutti cimeli storici pensati espressamente per arricchire gli spazi della villa palladiana – sono stati portati a Trieste, nella sede regionale della Banca d’Italia proprietaria sia dell’immobile sia degli arredi. […] Razionalizzazioni e motivi economici hanno suggerito poi di dismettere il bene che si sviluppa su cinque livelli: piano interrato, piano terra, rialzato, primo piano e sottotetto per un totale di 3 mila metri quadrati. Nella vendita è incluso anche il parco monumentale che si affaccia su piazza Primo maggio. Tutto è stato stimato 7,4 milioni di euro. Dopo una prima fase di vendita andata a vuoto (la Banca d’Italia ha venduto soltanto tre lotti fra le centinaia proposti), l’8 gennaio è cominciata la seconda. Confermata come società di Advisors la Rti Colliers International Italia, la quale ha a sua volta rinsaldato la collaborazione con l’immobiliare udinese IdeaCittà di Maurizio Fabiani. Durante queste settimane sono state «diverse le visite con richieste dall’Italia e dall’estero – spiega Fabiani –, ma non posso dire di più perché vietato dal codice di riservatezza che ho firmato con l’advisor». In ogni caso quel «diverse» equivale a «un numero compreso fra zero e dieci», aggiunge. Secondo Diana Barillari di Italia nostra, «quel palazzo è in vendita a un prezzo stracciato», tuona la rappresentante del sodalizio che ha anche promosso una raccolta firme per tutelare palazzo Antonini. «È un’altra parte di Udine che se ne va – continua la portavoce di Italia nostra –. Quegli arredi erano stati pensati, progettati e realizzati per essere in tono con la magnificenza delle stanze che li ospitavano. Ora è tutto stato trasferito. E forse, in termini di conservazione, non dobbiamo rammaricarcene. Perché l’umidità e il freddo di un palazzo disabitato avrebbero comportato danni. Certo è che perdere quel patrimonio è di per sé un danno irreparabile per la città». Barillari è molto critica con la scelta della Banca d’Italia di alienare il bene. «Spero possano ritornare sui loro passi – dice – perché quello è un palazzo sottoposto a importanti vincoli e sarebbe molto difficile da gestire per un privato. Ecco perché nonostante il prezzo basso per un simile tesoro, nessuno si è ancora fatto avanti. Spero che la Banca d’Italia pensi a un comodato d’uso così da salvare un patrimonio inestimabile per la nostra città e per l’intera umanità»… Intanto il palazzo resta in vendita e chissà se quella della prossima settimana sarà l’ultima apertura al pubblico.

Michela Zanutto, «Palazzo Antonini alla città», la Regione chiama Roma

La presidente Serracchiani raccoglie l’appello del sindaco di Udine: interesserò il Governo. Ma blocca l’ipotesi di acquisizione. L’immobile andrà all’asta per la terza volta, “Messaggero Veneto”, 25 marzo 2014

La Regione chiama Roma per salvare palazzo Antonini. La conferma, dopo l’appello del sindaco Furio Honsell, arriva dalla presidente Debora Serracchiani. Che però blocca qualsiasi ipotesi di acquisizione: «Al momento la Regione può acquistare soltanto immobili strategicamente indispensabili – spiega il governatore –. Per il suo prestigio e per l’impegno finanziario che comporta, palazzo Antonini è chiaramente uno di quei casi che vanno oltre il livello regionale e per questo coinvolgerò il Governo. Ruolo cui la Regione potrebbe assolvere anche immediatamente è favorire il coinvolgimento di privati, ma prima va tentata un’altra strada». Insomma, «occorre sollecitare Roma», rimarca la presidente. Su quel palazzo gravano importanti vicoli della Soprintendenza. Vincoli che – ovviamente – impediscono qualsiasi cambiamento rispetto all’assetto originario, ma che restringono anche la destinazione d’uso. E infatti il palazzo è utilizzabile unicamente come sede di rappresentanza. Ecco perché dopo due bandi e un prezzo ribassato, la perla firmata dal Palladio è rimasta nelle mani della Banca d’Italia. Sono sette gli acquirenti che hanno visitato il bene di via Gemona – con interessamenti che sono arrivati anche dall’Australia –, ma alla fine non si è concretizzata nemmeno un’offerta davanti al notaio milanese scelto da Bankitalia per la gestione dei documenti. Intanto il sindaco Furio Honsell, non potendo acquistare come amministrazione l’edificio, pensa a un piano “b”. «Palazzo Antonini deve rimanere patrimonio di tutti. Bisogna convincere la Banca d’Italia a non vendere il palazzo palladiano e a mantenere la sede regionale a Udine anziché a Trieste», aveva detto domenica dopo avere toccato con mano l’attaccamento dei friulani a quella dimora, un attaccamento dimostrato con il grande afflusso durante le Giornate di primavera del Fai. E dopo l’appello, arriva una mezza apertura dalla Regione che, con il governatore Serracchiani, ha promesso di interessare della vicenda il presidente del consiglio Matteo Renzi. Contestuale però il netto stop alla semplice ipotesi d’acquisto. Il bene si sviluppa su cinque livelli: piano interrato, piano terra, rialzato, primo piano e sottotetto per un totale di 3 mila metri quadrati. Nella vendita è incluso anche il parco monumentale che si affaccia su piazza Primo maggio. Tutto è stato stimato 7,4 milioni di euro, a questo punto da ritoccare. Sarà probabilmente confermata anche per il terzo incanto – che non dovrebbe essere bandito prima del 2015 […] Durante la seconda fase erano state «diverse le visite con richieste dall’Italia e dall’estero» […]. Alla fine però dal Friuli non è arrivata nessuna offerta …

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D’allora in poi si sono affiancati altri problemi, ad esempio la discussa realizzazione del parcheggio (in corso di realizzazione, febbraio 2015) che in qualche modo coinvolge anche il complesso Antonini.

CONSIDERAZIONI A PROPOSITO DI GIARDIN GRANDE E IL SUO INTORNO

Si riportano qui di seguito alcuni dei quesiti con relative risposte (da parte di F. Venuto) comparsi sul periodico “La Voce degli Stelliniani” 1/2013.

Il Giardin Grande non è mai stato, a dispetto del nome, un vero giardino. Cos'è necessario perché lo diventi? L’ellisse del Giardin Grande è stata originata, dopo ampia e reiterata discussione, negli anni del Regno italico secondo i criteri ornamental-celebrativi tipici nell’età napoleonica (primo Ottocento). E’ nata come piazza-giardino ispirata a principi monumentali ma ha sempre avuto come punto di riferimento l’esempio del padovano Prato della Valle, importante luogo della celebrazione e dell’incontro. Tali premesse non hanno però trovato nel tempo sviluppo adeguato, anche perché il luogo è stato ripetutamente avvertito come periferico, non integrato al nucleo storico di antico impianto. La marginalità (relativa) dell’area ha provocato questa impasse culturale: la piazza-giardino era sentita nel suo ruolo attivo soprattutto in occasione della fiera di Santa Caterina, o di altri avvenimenti pubblici, molto meno nella quotidianità. Le potenzialità del sito non sono state adeguatamente recepite per cui, a tutt’oggi, Giardin Grande è solo l’embrione di quel che avrebbe potuto e dovuto costituire. La costruzione del parcheggio sotterraneo è stata motivo di ampia discussione. Qual è la sua opinione in merito? Nessuno discute l’utilità di un parcheggio sotterraneo, per di più in una zona nevralgica della città, ma gli edifici d’accesso che sono stati resi noti   nei rendering pubblicati sulla stampa locale. Non ho visto gli elaborati di progetto ma le costruzioni fuori terra – pubblicate sui quotidiani - risultano sbagliate per la collocazione (esse dovranno sorgere davanti al giardino Antonini, coprendo la visuale della fronte posteriore del Palazzo palladiano) e per le forme previste che, pur dando l’impressione di strutture effimere, risultano impattanti e per nulla in sintonia con il contesto di riferimento. Il particolare sito urbano in cui si pensa di collocarle è certo problematico, come dimostra il dibattito che ha da sempre accompagnato il destino dell’area, ma certo ad esse si deve prestare un’attenzione particolare in vista di un intervento plausibile e adeguato. Ad esempio, impedire il godimento visivo del complesso palladiano e del suo giardino di complemento nega all’insieme un’adeguata valorizzazione ad uno del principali elementi che dialogano, qualificano e rendono unico l’insieme, in stretto rapporto con l’ellisse alberata e le sue quinte. Si sarebbe potuta sfruttare meglio tale occasione progettuale, di cui uno dei presupposti dovrebbe essere questo: l’“oggetto” che si vuole realizzare per ragioni di utilità ha anche il compito di rappresentare un elemento di arricchimento della particolare situazione ambientale che lo ospita. Non sembra che questo sia stato l’orientamento seguito. Sganciate con l’intorno e con la sua storia, le strutture proposte potrebbero sorgere ovunque, mentre sarebbero stata necessarie e possibili soluzioni mirate: se non si è perseguita la via creativa, almeno cercare di mimetizzare l’impatto, in modo da renderle “invisibile” l’intervento.

Piazza Primo Maggio è baricentrica non solo rispetto a molte scuole (lo Stellini, il Conservatorio, il Sello e l'Uccellis), ma anche rispetto alle facoltà universitarie di via Tomadini, al Castello, a palazzo Antonini, a piazza Libertà, all'Arcivescovado e al Teatro. E se ripartisse proprio da questa piazza il futuro della città?

E’ decisiva la funzione di questo sito come connessione-raccordo con gli assi destinati a valorizzare un percorso comune e il problema sta nel coraggio di definire operativamente una simile operazione, conferendo importanza a un grande invaso non finalizzato meramente al parcheggio ma in quanto spazio verde organizzato per raccordare i poli menzionati. Frutto del dibattito illuministico e primo-ottocentesco, che aveva già anticipato problematiche come quelle ora scottanti, Giardin Grande potrebbe accordarsi a quello che è stato il suo modello, il Prato della Valle, riqualificato in tempi recenti anche nella sua funzionalità, proprio per dare risposta agli interrogativi che l’intervento suscita. Il destino vincente di Giardin Grande dovrebbe essere quello di esercitare un influsso centripeto, per convogliare gli elementi sparsi nel circondario: ciò al fine di rendere organico un insieme incoerente di parti giustapposte, nate a sé stanti, non collegate da una visione unitaria. Bisognerebbe pensare ad un intervento progettuale destinato a coordinare gli edifici funzionalmente collegati in modo tale da valorizzarli esteticamente, mediante lo studio di visuali e prospettive, la creazione di punti d’interesse e allestimenti che diano un senso all’operazione. Si potrebbe trarre ispirazione alle progettazioni contemporanee – attuate in Italia e soprattutto in molte città estere - che si sono poste molte volte il problema di riqualificare

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attraverso il verde le preesistenze, per dare carattere all’operazione e tenere nel giusto conto l’impegno etico, rispondendo all’esigenza di conciliare le urgenze pratiche con la risposta alle funzioni sociali e ai problemi che uno spazio pubblico inevitabilmente comporta.

Rendering della Società di Ingegneria Studio TI, progetto predisposto nel 2010 e avviato negli anni successivi. Attualmente (febbraio 2015) in corso di realizzazione. A sinistra, sullo sfondo, il giardino Antonini.

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UNA STAGIONE D’ARTE DI PRESTIGIO

L’ARCHITETTURA RINASCIMENTALE A UDINE E IL CONTRIBUTO DI GIOVANNI DA UDINE

La vicinanza del Friuli alla cinta delle Alpi e il suo collegamento diretto con Venezia attraverso le pianure pedemontane hanno fatto di questa terra di frontiera un luogo privilegiato per la varietà delle soluzioni architettoniche: ora ideate sulla spinta della tradizione veneta (per il dominio esercitato dalla Serenissima dsul Friuli fin dal 1420), come dimostra la Loggia Comunale, palmare derivazione tipologica e decorativa dal celebre Palazzo Ducale di Venezia, ad emulazione della sede del governo centrale (dal 1441, per opera di Bartolomeo delle Cisterne c.d. per lavori di idraulica condotti in città fin dal 1429, cui si affiancò uno degli stessi consiglieri comunali, Nicolò Lionello, orefice, che poi ottenne la direzione dei lavori negli anni ‘50), ora riprendendo spunto provenienti da oltralpe. Col nuovo secolo giunsero i primi sintomi di un approccio diverso all’architettura, consapevole della necessità di arricchire i progetti con colti rimandi all’antico per iconografie e decorazione. Promotore di tale mutamento stilistico fu Pietro Lombardo, titolare di una delle più fiorenti botteghe di scultori e tagliapietre di Venezia, nel 1495 convocato a Udine per una consulenza su alcune modifiche della loggia comunale. Nel 1502 fornì i disegni per la ricostruzione della navata centrale e delle 3 cappelle del presbiterio del duomo di Cividale. Il carattere classicista dell’insieme dovette aprire nuovi orizzonti nel gusto del tempo. Lo stimolo delle novità proposte dai Lombardo in Friuli rimase inefficace per le gravi vicende politiche della Serenissima nei primi due decenni del ‘500, quando si temette per la sopravvivenza stessa dello Stato, che si ritrovò a combattere da solo contro il papato e i più potenti sovrani europei. Quando riprese saldamente il sopravvento sulle città venete che le si erano ribellate, Venezia fu molto meno tollerante nei confronti delle istituzioni locali, preoccupandosi di dare ben altra rappresentatività alla sede del suo luogotenente. A Udine tale esigenza era molto sentita specie dopo che, nel 1511, l’antico Castello era andato completamente distrutto; così il podestà Giacomo Corner spinse il Parlamento della Patria del Friuli ad approvarne la ricostruzione secondo un progetto affidato a Giovanni Fontana (che nel 1507 aveva presentato un progetto per la Scuola della Misericordia a Venezia) nel marzo 1517. C’era la volontà di dar luogo, in area veneta e in una data tanto precoce, a una loggia schiettamente all’antica. Il classicismo che pervade lo smisurato progetto per il nuovo Castello contrasta con l’aspetto tardo-gotico della Loggia, ancor oggi sovrastata dalla mole del nuovo edificio che con le sue novità stilistiche segna un cambiamento epocale in terra friulana, ancor prima che in Veneto. La fabbrica andò avanti finchè nel 1547 Giovanni da Udine, tornato in patria dopo le esperienze romane nelle Logge Vaticane con gli aiuti di Raffaello e a Venezia con Francesco Salviati in Palazzo Grimani (1537-40), diede il disegno per lo scalone d’ingresso sul piazzale retrostante il Castello, secondo un modello che fonde insieme motivi desunti da Michelangelo: pur tenendo in poco conto la funzionalità, G. conferisce alla facciata posteriore una dignità pari a quella della fronte principale, rivolta verso la città.

Nel 1527 il luogotenente Giovanni Moro dava inizio alla ricostruzione della Torre dell’Orologio, crollata nel 1511, secondo un progetto di Benedetto da Cividale, poi modificato da Giovanni da Udine. Questo comportava maggiori spese d’esecuzione e difficoltà di vario genere, tali da ritardarne il completamento, avvenuto nel 1532. In quello stesso anno fu deciso di dare nuovo assetto all’attuale Piazza Libertà, demolendo la vecchia chiesa di S. Giovanni e ricostruendola al centro di una teoria di arcate su colonne joniche (cfr. protiro bramantesco di S. Maria Nascente ad Abbiategrasso) che avrebbe dotato Udine di un nuovo foro “all’antica”. A fianco dell’odierna via Mercatovecchio fu disegnata una nuova piazza all’insegna di un raffinato classicismo (sul modello della bramantesca piazza di Vigevano, una soluzione colta forse suggerita da Michele Sanmicheli che visitò Udine nel 1532 insieme a Francesco Maria della Rovere al fine di esaminare, per conto della Serenissima, lo stato delle difese urbane) dove la loggia era inserita, a suggestivo ricordo di un lontano passato, in una cornice architettonica concepita in pieno accordo con le nuove istanze rinascimentali, precocemente recepite a Udine. Il direttore dei lavori, Bernardino da Morcote lombardo (dal 1533), nel 1525 aveva già ricevuto l’incarico per la facciata di S. Giacomo in Mercatonuovo. Così si connotava in senso rinascimentale e prettamente lombardo il nuovo complesso urbano, ultimato intorno al 1544.

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L’ARCHITETTURA NEL SECONDO ‘500

Nel corso del ‘500 il panorama architettonico del Friuli si arricchisce di una serie di novità stilistiche connesse essenzialmente a iniziative pubbliche, alle quali non fa riscontro un pari fervore da parte di privati, probabilmente a causa della difficile situazione economica che caratterizza la regione nel XVI secolo e che va aggravandosi. Unica eccezione è la costruzione, nel 1556, su progetto del Palladio, del palazzo per Floriano Antonini, esponente di una famiglia ansiosa di segnalarsi come la più illuminata della città grazie a frequentazioni veneziane di alto livello, come il celebre Daniele Barbaro, altro committente di Andrea Palladio. Il grande architetto fu l’ideatore di uno stile personale che ebbe immensa fortuna, anche in Friuli. L’edificio udinese risente della lezione di Giulio Romano: la fabbrica esprime nel modo più alto le caratteristiche del manierismo veneto in architettura. La solenne veste antiquaria del palazzo dovette apparire dirompente nel tessuto circostante, divenendo modello assoluto per nuove imprese.

Altre opere di Palladio a Udine e in Friuli L'Arco Bollani è un arco celebrativo situato a lato di piazza Libertà a Udine, costruito nel 1556 e attribuito all'architetto Andrea Palladio. Situato ai piedi della salita che porta al Castello, l’arco, a singolo fornice, fu fatto erigere dal luogotenente veneto Domenico Bollani. L'intento è insieme autocelebrativo e di caratterizzazione veneziana della piazza Contarena (oggi piazza della Libertà), in funzione del Castello di Udine, centro di potere della Serenissima. I lavori, cominciati nell’aprile del 1556, si conclusero quattro mesi dopo, quando fu issato il leone marciano con le ali di rame. Il nome di Palladio risulta da fonti coeve, così come è documentato un suo intervento sette anni più tardi per l'ampliamento della strada di risalita al Castello e la valorizzazione della visibilità dell’arco.

Porta Gemona, localmente detta Portonàt, è una porta ad arco situata a San Daniele del Friuli, progettata nel 1579 dall'architetto Andrea Palladio ed inserita in una preesistente torre, vestigia del castello medieovale. L’architetto viene di fatto imposto alla comunità di San Daniele da parte del cardinale Giovanni Grimani, che esercitava una giurisdizione patriarcale sulla città e che nel 1562 aveva commissionato a Palladio la facciata della chiesa di San Francesco della Vigna. Nel 1579 Andrea Palladio fornisce i disegni della porta sulla via che conduce a Gemona. Palladio non si recò mai sul posto, anche se richiese rilievi accurati del sito dove andava innestata la porta, sostanzialmente riadattando il progetto dell’Arco Bollani di Udine di vent’anni prima.

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A questi va aggiunto il Palazzo Pretorio di Cividale – E’ Giorgio Vasari a testimoniare l’esistenza di un progetto di A. Palladio per il Palazzo Pretorio cividalese. Questi ne avrebbe realizzato un modello e sarebbe stato presente alla posa della prima pietra. La volontà del Civico Consiglio di costruire il Palazzo Pretorio risale al 1559, ma per l’inizio dei lavori si dovette attendere il 5 marzo 1565, quando fu conseguita la copertura finanziaria. Il palazzo fu completato nel 1586. Non è certo agevole ritrovare la mano palladiana nell’edificio, anche se il singolare basamento degli archi del portico, a bugne di pietra, potrebbe derivare dagli studi palladiani sulle antichità romane della Dalmazia e specificatamente dell’anfiteatro di Pola. Ciò che sembra probabile è che l’esecuzione sia avvenuta quanto meno fuori dal controllo del Palladio e senza particolare rispetto del progetto originario.

LA COSTRUZIONE DI PALMANOVA E LO SCAMOZZI

Ai primi del Seicento l’iniziativa pubblica esulò dai centri più importanti per creare la nuova città fortezza, in forma di stella a 9 punte, di Palmanova, disegnata da Vincenzo Scamozzi (su progetto di Giulio Savorgnan, ingegnere militare), che rientra a pieno titolo nella serie delle sperimentazioni legate all’utopia della forma urbis ideale su cui si confrontarono i più grandi teorici ed architetti del Rinascimento (per contemperare istanze di tipo estetico con altre di natura prettamente politica e militare. Alla fine del XVI secolo è la situazione politica venutasi a creare in Europa che spinge i veneziani a destinare un forte impegno economico, assai gravoso per le casse dello Stato, per la costruzione di una fortezza alla frontiera NE dei suoi domini. Solo in apparenza la città sorgeva a difesa dello stato dalle possibili invasioni turche: in realtà, con la creazione di Palma Venezia proseguiva nel disegno d’incremento delle sue difese che avrebbero dovuto proteggerla dallo strapotere degli Asburgo. Palma era stata ritenuta un esplicito segnale d’arresto all’avanzata egemonica degli Asburgo d’Austria.

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ANDREA PALLADIO (1508-1580)

Figlio di Pietro della Gondola, mugnaio, e di Marta detta “la zota” (zoppa), Andrea nasce a Padova nel 1508. All’età di tredici anni entra nella bottega di Bartolomeo Cavazza da Sossano, scalpellino padovano, con cui ha rapporti non facili: nel 1524, dopo un primo tentativo fallito, riesce a fuggire a Vicenza, dove inizia a lavorare come assistente nei cantieri di Giovanni de Pedemuro. Entrato in contatto con gli ambienti dell’aristocrazia vicentina, intorno al 1535 conosce Gian Giorgio Trissino - nobile frequentatore delle più illustri corti italiane e autore d’opere teatrali e poetiche -, che, dopo averlo chiamato a collaborare all’edificazione di Villa Trissino a Cricoli, decide di prenderlo sotto la propria protezione, cambiandogli il nome nel più classico Palladio (ovvero “sacro a Pallade Atena”). L’incontro si rivelerà decisivo: il poeta lo guiderà nella sua formazione culturale improntata per lo più allo studio dei classici e lo condurrà, più volte, a Roma. Nella “Città Eterna”, Palladio può finalmente acquisire una conoscenza profonda della sintassi del linguaggio classico, grazie allo studio diretto dei monumenti e delle architetture che aveva sempre amato, di cui studia attentamente i materiali, le tecniche costruttive, i rapporti spaziali. In occasione dei numerosi viaggi al fianco del suo mecenate conosce, fra l’altro, i più illustri personaggi del tempo, come Michelangelo, Sebastiano Serlio, Giulio Romano, Bramante. Intorno al 1540 intraprende l’attività autonoma d’architetto, con opere come il Palazzo Civena a Vicenza e la villa Godi a Lonedo, che gli conferiscono una certa notorietà; ma è nel 1549 che avviene la vera consacrazione, grazie all’assegnazione, da parte del Consiglio della città di Vicenza, dell’incarico di ricostruire le Logge della Basilica di Vicenza in sostituzione delle vecchie, risalenti al XV secolo. Intorno al 1550 avviene l’incontro col nobile veneziano Daniele Barbaro, con il quale collabora ad una nuova edizione del trattato di Vitruvio. Proprio grazie al Barbaro la committenza si amplia all’ambito del patriziato lagunare e s’inaugura la stagione delle grandi ville palladiane, che offre all’architetto l’occasione di nuove sperimentazioni: nascono così opere di assoluta bellezza, quali il palazzo Chiericati e la villa Barbaro di Maser, la “Malcontenta” a Mira e le chiese veneziane del Redentore e di S. Giorgio Maggiore, fino alla notissima Rotonda (1567-1620). Il 1570 è, fra l’altro, l’anno de I quattro libri dell’architettura, opera che, per il Vasari, “basterà a farlo conoscere per quello eccellente architetto ch’egli è tenuto da chiunque vede l’opere sue bellissime”: non soltanto un compendio della precedente produzione, ma anche una profonda riflessione, venata di sensibilità pedagogica, sulle proprie idee e le proprie opere. Negli anni ‘70 è a Venezia, nel ruolo d’architetto ufficiale della Serenissima; nel 1580 vengono avviati i lavori per la costruzione del teatro Olimpico, edificato su richiesta degli Accademici Olimpici per la recitazione della tragedia classica. Prima che l’opera fosse completata, Palladio si spegne, il 19 agosto 1580. (dal sito web ITALICA RAI).

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BREVE APPROFONDIMENTO SULLE VILLE, a cui in parte si riferisce anche il complesso di Palazzo Antonini

che non è solo un palazzo di città Pur partendo da modelli preesistenti, è tutta di P. la creazione di un genere architettonicamente nuovo, soprattutto per marcare in termini inconfondibili (e che si affermeranno per secoli) il territorio con i segni forti di un’architettura modernissima e insieme all’antica. Sempre, sia nelle ville di maggiori ambizioni e possibilità come in quelle minori, risalta la matematica limpidezza dei rapporti proporzionali, il lucido e apparentemente semplice intersecarsi dei volumi e, su tutto, quell’apertura sul paesaggio di quasi spontanea percezione, e frutto di un’elaborazione non facilmente spiegabile. La tendenza del suo percorso, al di là dell’adozione di differenti tipologie, è quella di dare a ciascun intervento il carattere di vasto sistema, se possibile a scala territoriale, da cui l’importanza crescente assunta dalle dipendenze della villa vera e propria. Altra costante è quella per cui la villa si consolida e cresce anche nel corpo padronale. Villa: microcosmo privilegiato, unico e articolato complesso, basato su ordine ed eleganza, riunisce diverse strutture edilizie, corrispondenti alle diverse funzioni svolte dalla villa stessa. Gli edifici sono organismi legati da un sistema di proporzioni, fulcro è la sala centrale. Regolare griglia ortogonale che regola la distribuzione degli spazi aperti: mediazione tra architettura e paesaggio antropizzato. Fissate le coordinate spaziali che si irradiano dalla villa, lo viene spazio razionalmente costruito, in vera e propria architettura del paesaggio. Indica poi gli elementi-base per la scelta del sito.

Tra i maggiori complessi palladiani figura Villa Barbaro a Maser, 1554-58, la più anomala, secondo modelli colti centro-italiani, che aveva visitato poco prima con i suoi importanti committenti. Importanti le figure degli eruditissimi committenti, i fratelli veneziani Daniele, autore del disegno dell’Orto Botanico di Padova, e Marcantonio, collaborazioni e conflitti (cfr. affreschi interni del Veronese, con tema Armonia e Pace); posizione addossata al declivio, ripresa di opere romane (villa Madama di Raffaello, il ninfeo di Villa Giulia dell’Ammannati); viaggio a Roma 1554-58 (Daniele Barbaro rimane colpito dalla spettacolarità del giardino di villa d’Este a Tivoli, edizione di Vitruvio 1556. L’opera prodigiosa compiuta a Tivoli, segno di chi – forzando la natura – quel prodigio ha saputo creare, è il risultato di immani opere di sbancamento ed altrettante opere idrauliche atte a convogliare l’imponente massa d’acqua necessarie alle innumerevoli fontane. Diverso è il caso della villa di Maser, una realizzazione che sorge all’indomani di quell’impressionante impatto visivo, che però non è riuscito a scalfire i principi di fondo dell’autore, legati alle prerogative venete. Secondo un’opposta concezione la villa, all’apice di un lieve pendio, si adagia con naturalezza entro un sito che non ha subito forzatura alcuna. Pare essere lì da sempre. E’ tutta giocata nell’assecondare ed utilizzare una sorgente e il relativo corso d’acqua sia ai fini agricoli dell’azienda, sia per i piaceri e le particolarità che la circostanza garantiva, dando vita a un laghetto, alle peschiere, a un decoratissimo e intellettualistico ninfeo, uno speciale spazio segreto perfettamente racchiuso tra villa e monte. La villa gioca anche sul dislivello del terreno, presentandosi su due – peraltro non monumentali –piani sulla fronte e su un solo piano sul retro. Rispecchia nelle sue forme variegate e nell’accentuata orizzontalità il sito boschivo pedecollinare, annidandosi sul dolce declivio del terreno che essa segue nell’articolazione, e il giardino è il naturale prolungamento dello spazio stesso del vivere, in una stretta relazione interno-esterno, una totale e reciproca integrazione, entro la quale esso è fondamentale elemento di raccordo, spaziale e insieme visivo. Il giardino, di dimensioni raccolte, è come un tappeto srotolato per rendere più aulico l’ingresso e più grandiose le fabbriche: diventa la cornice della fabbrica in muratura. E la cornice più ampia è il paesaggio, che contribuisce a metterne in risalto le qualità. Il giardino completa le strutture edilizie e ne integra le parti.

Confronti palesi con Palazzo Antonini (villa-tempio a doppio loggiato) Villa Pisani - Montagnana - (1552 c.) A partire dal 1552, nelle adiacenze del borgo medievale di Montagnana, Palladio realizza per l’amico Francesco Pisani un edificio che è insieme palazzo di città e casa di villa. Potente e influente patrizio veneziano, Pisani è un mecenate e amico di artisti e letterati. Il cantiere è sicuramente attivo durante il

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settembre 1553 e risulta concluso nel 1555, compresa la decorazione plastica. Privo di parti destinate a funzioni agricole, di bellezza astratta nel volume pressoché cubico, villa Pisani ben riflette il gusto sofisticato del proprietario. Per la prima volta compare in villa un doppio ordine di semicolonne e un doppio loggiato coronato da timpani, soluzione già incontrata in palazzo Chiericati. Il tutto cinto da un ininterrotto ed elegante fregio dorico su una tessitura di intonaco bianco a bugne graffite. Nel fronte sul giardino la bidimensionalità della parete si movimenta nello scavo plastico del portico e della loggia superiore. Pur non esistendo disegni autografi palladiani relativi all’edificio, è possibile affermare che la tavola con la descrizione della villa dei Quattro Libri è frutto di un ampliamento a posteriori dell’invenzione realizzata. Caso raro nella produzione palladiana, la villa è a due piani: il superiore con gli appartamenti padronali, l’inferiore per la vita di tutti i giorni, quando si trattano affari e si ricevono i fittavoli, e non solo d’estate come provano i numerosi camini. I due livelli presentano la medesima articolazione degli spazi interni. Diversi sono invece i soffitti, che al piano terreno sono voltati, a partire dallo straordinario ambiente a semicolonne, una via di mezzo fra atrio e salone, chiaramente l’ambiente più importante della casa con sculture delle Quattro stagioni di Alessandro Vittoria, poco prima impegnato nel palladiano palazzo Thiene. I collegamenti verticali sono assicurati da simmetriche scale a chiocciola ovate ai lati della loggia verso il giardino.

Le prime due immagini, da sx, si riferiscono alla villa di Montagnana, l’ultima a quella di Piombino Dese.

Villa Cornaro - Piombino Dese - (1552) Insieme alla pressoché contemporanea Pisani di Montagnana, la villa realizzata a Piombino Dese per un altro potente patrizio veneziano, Giorgio Cornaro, segna un netto salto di scala nel prestigio e nella capacità di spesa della committenza palladiana, sino ad allora essenzialmente vicentina. Il cantiere è già in piena attività nel marzo del 1553, e nell’aprile dell’anno seguente l’edificio — pur incompleto — è abitabile. Le ville Pisani e Cornaro sono legate da molto più di una semplice coincidenza cronologica e dall’alto status del committente. Infatti anche la Cornaro ha una struttura e un decoro molto simili a un palazzo ed è più residenza di campagna che villa: isolata rispetto alla tenuta agricola e alle dipendenze, la sua posizione preminente sulla strada pubblica ne rimarca il carattere ambivalente. Del resto i camini presenti in tutte le stanze ne provano un uso non solo estivo, e non a caso una struttura assai simile sarà replicata poco più tardi per il palazzo “suburbano” di Floriano Antonini a Udine. Come per la Pisani, anche la planimetria di villa Cornaro è organizzata intorno a un grande ambiente con quattro colonne libere, qui per altro spostato più al centro della casa e quindi più propriamente salone, a cui si accede con la mediazione della loggia o di uno stretto vestibolo. I due livelli della villa sono connessi da due eleganti scale gemelle che separano nettamente il piano terra, per l’accoglienza di ospiti e clientes, dai due appartamenti superiori riservati ai coniugi Cornaro. Il pronao aggettante a doppio ordine riflette la soluzione palladiana della loggia di palazzo Chiericati a Vicenza, ultimata negli stessi anni. Del resto il tema della doppia loggia in facciata è frequente anche nell’edilizia gotica lagunare, così come colonne libere sostengono i pavimenti dei saloni delle grandi Scuole di Venezia: si tratterebbe quindi di una sorta di “traduzione in latino” di temi tradizionali veneziani.

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Notizie storiche su Palazzo, giardino ed edifici circostanti raccolte e assemblate dalla prof.ssa Francesca Venuto

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La costruzione dell’edificio del Ginnasio-Liceo di Udine

Il nostro Liceo ebbe varie sedi, prima dell’edificio attuale. In successione cronologica ricordiamo quella in Borgo del Fieno (attuale via Cavour), quella nei paraggi del Palazzo Municipale e poi nell’area dello stabilimento delle istituzioni Barnabitiche (attuale Piazza Garibaldi), nel cui complesso edilizio, con opportuni adattamenti, a partire dal 1866, trovarono sistemazione anche istituzioni che si riferivano all’istruzione tecnica. In quest’ultima ubicazione il Ginnasio-Liceo svolse la sua attività dal 1866 al 1918/19.

E’ nel primo ‘900 che la situazione però cambia, per ragioni di convenienza e di necessità. Si intese allora far progettare e costruire una nuova sede per il Liceo Ginnasio, all’epoca la scuola dell’ordine secondario superiore più frequentata e importante in città e nell’intera provincia.

La situazione culturale era allora molto vivace: gli anni che vanno dal 1900 alla Grande guerra sono per Udine di grande “fioritura architettonica” (Tentori), e tuttavia di ristrettezze economiche, denunciate dalla lentezza con cui si evolvono le varie infrastrutture e le controversie tra società private, che hanno in appalto vari servizi, e la Pubblica Amministrazione.

Il 27 agosto 1903 il re Vittorio Emanuele III inaugurava l’Esposizione regionale di Udine che vide l’affermarsi dello stile Art Nouveau (o Liberty), così come propugnato da Raimondo D’Aronco. Un’altra esposizione era prevista per il 1916: quella del giubileo, ossia il cinquantenario dell’annessione delle province venete al Regno d’Italia. Per questa ricorrenza la città, che allora contava ormai 37.000 abitanti, a partire dagli anni Dieci ferve di progetti, perché sente l’impegno di presentarsi alla scadenza storica con un nuovo complesso di edifici pubblici o di uso pubblico.

Nel 1909 Edmondo Sanjust di Teulada redige per Udine il Piano Regolatore di Ampliamento, ambizioso e lungimirante. Al 1910 data il 3° progetto D’Aronco per il Palazzo Comunale (i lavori, iniziati lo stesso anno, termineranno solo nel 1930). Al 1912 risale la costruzione della Scuola d’arti e mestieri (ora Istituto professionale di Stato Ceconi) di Antonio Measso, tra le vie Ciconi e Manzoni. Nello stesso anno si ritorna a parlare del nuovo teatro, con la costituzione del comitato promotore e lo svolgimento, nell’anno successivo, del concorso per il progetto. Allo stesso 1913 risale il progetto, non realizzato, per il nuovo palazzo delle Poste e Telegrafi, redatto in “stile toscano” da Plinio Polverosi.

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In questo quadro di rinnovamento architettonico, bruscamente interrotto dallo scoppio della guerra, si inserisce la vicenda della costruzione del nuovo edificio per il Ginnasio-Liceo udinese, che non a caso, come vedremo, verrà collocato nella vasta piazza di Giardin Grande.

Il 12 Dicembre 1910 il Consiglio Comunale di Udine approva la convenzione per la costruzione del Ginnasio-Liceo concordata il 29 novembre 1910 tra il Sindaco di Udine e il presidente della Deputazione provinciale. La costruzione si rende necessaria “per l’insufficienza degli attuali fabbricati, in buona parte non corrispondenti alle esigenze didattiche ed a quelle dell’igiene e del decoro”.

Il 30 gennaio 1911, nella seduta del Consiglio Provinciale di Udine, si delibera un ordine del giorno che:

• approva la convenzione relativa al GL concordata tra il Sindaco di udine e il Presidente della Deputazione Provinciale

• autorizza la Deputazione Provinciale a provvedere d’accordo con la Giunta Municipale a scegliere e ad acquistare il fondo, a far compilare ed approvare il progetto ed a farlo eseguire

• autorizza a contrarre il necessario mutuo ed a compiere quant’altro occorrerà perché Udine abbia un igienico e conveniente fabbricato per il GL escluso ogni inutile lusso

• autorizza il Presidente della Deputazione Provinciale a difendere davanti l’autorità giudiziaria la Provincia nella causa che il Comune sarà per promuovere onde far giudicare a chi incomba l’onere delle spese per i fabbricati e per il materiale non scientifico del GL.

Nel leggere il documento colpisce il riferimento alla vertenza giudiziaria in corso fra i due enti. Fin dal 1897, infatti, la Provincia, in base a una convenzione con il Comune di Udine, concorreva alla spesa per i locali e il materiale non scientifico del GL. Quando però, ai primi del Novecento, si pone la questione della costruzione di una nuova sede per la scuola, il Comune, convinto che le competenze delle spese nelle regioni venete spettino alle Province, denuncia la convenzione.

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In attesa di una risoluzione, i due enti, con atto datato 21 dicembre 1908, concordano un modus vivendi in base al quale avrebbero provveduto in parti uguali alle spese. Il problema consisteva nel modo con cui Comune e Provincia avrebbero concorso alle spese di acquisto del terreno, progetto, costruzione ed arredo della nuova scuola.

La causa si risolse con una nuova convenzione (17 maggio 1913) in base alla quale la Provincia si assunse l’onere di concorrere per due terzi, mentre il Comune per un terzo alla spesa per l’acquisizione dell’area, la costruzione dello stabile e l’arredamento-fornitura del materiale non scientifico. Le rispettive quote di 2/3 e 1/3 furono applicate anche per le spese di conservazione e manutenzione del fabbricato, mobilio, riscaldamento, illuminazione, ecc.

Una volta risolta la vertenza sulle divisioni delle spese, si ricercò l’area adatta ove ubicare il nuovo fabbricato. La zona individuata, in comune accordo fra i due enti, è quella di un fondo di proprietà del legato Alessio situato tra la chiesa delle Grazie e la braida dei conti della Porta, con la fronte prospettante verso la roggia e il Giardin Grande. Il fondo prescelto presentava una forma pressochè rettangolare e risultava libero da ogni lato. Aveva inoltre il vantaggio di “essere in buona posizione nei riguardi dell’abitato e dell’orientamento; è sopraelevato rispetto al livello della piazza, ed è costituito di terreno perfettamente permeabile, asciutto e salubre”.

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I due enti concorsero perciò al finanziamento dell’edificio e la Provincia in particolare ne intravide i vantaggi grazie alla disponibilità – a favore dell’istruzione tecnica - dei locali che sarebbero stati lasciati nella ex sede barnabitica una volta trasferito da lì il Liceo Ginnasio.

In data 8 marzo 1913 gli ingegneri Giovanni Battista Cantarutti (ingegnere capo provinciale) e Plinio Polverosi (ingegnere capo del Comune) licenziano il progetto per l’edificio del nuovo GL di Udine. I due tecnici, stanti le loro funzioni, avevano già svolto ruoli significativi in molti dei progetti che riguardavano le opere pubbliche della città. Così, ad esempio, è Cantarutti che riceve, dalla Turchia, le indicazioni di D’Aronco per l’Esposizione regionale del 1903, mentre Polverosi (Livorno 1878 – Udine 1972) che aveva trasferito a Udine la sua residenza nel 1908, faceva parte della commissione che doveva fornire nel 1908 le linee-guida per la progettazione del Palazzo comunale, del quale, tra il 1913 e il ’14, assunse la direzione del cantiere. Entrambi gli ingegneri furono presenti nella Commissione di giuria per il progetto del nuovo teatro (1912).

E’ probabile che Polverosi e Cantarutti abbiano lavorato su un progetto iniziale di massima redatto, già nel 1910, da Ettore Gilberti. Il lasso di tempo che intercorre fra la convenzione stipulata fra i due enti (Comune e Provincia) e la presentazione del progetto (circa 3 anni, dovuti alla vertenza sulla divisione delle spese) consente di ipotizzare che il Comune si fosse rivolto inizialmente a Gilberti per avere un progetto come base di discussione con la Provincia.

D’altro canto, l’adesione a programmi costruttivi chiari ed a schemi distributivi corretti uniti al ricorso alla manualistica (cfr. il Manuale dell’architetto di Daniele Donghi, 1905, con un II volume dedicato agli Edifici per istituzioni di istruzione e di educazione) sono caratteristiche del Gilberti a cui i due ingegneri sembrano rifarsi, come il riferimento alla pianta del Regio Ginnasio Tecnico di Stoccarda (arch. Stauber) che “offre un esempio interessante e che nel suo genere può riguardarsi come modello di un edificio scolastico a ferro di cavallo”, oltre a suggerimenti sull’apparato decorativo, che doveva avere un certo carattere monumentale. “Come motivo dominante sotto l’aspetto architettonico si offre la grande aula [l’aula magna] per le solennità scolastiche la quale per lo più emergerà in altezza sopra il resto dell’edificio e deve perciò essere situata al piano superiore; il posto che le viene assegnato nell’organismo della costruzione ne forma il vero elemento caratteristico”. Quindi le soluzioni proposte erano in linea con la manualistica dell’epoca.

Ai nomi di Polverosi e Cantarutti si deve aggiungere, come valente collaboratore, quello del geometra Enrico Moro, attivo a Udine già dal 1908 e in seguito entrato a far parte dell’Ufficio Tecnico comunale diretto da Polverosi.

Gli elaborati proposti da Cantarutti e Polverosi sono costituiti dai disegni (piante, prospetti, sezioni e particolari costruttivi) del fabbricato, insieme alla relazione illustrativa.

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L’edificio presentato presenta in pianta una forma a C determinata da un corpo principale lungo 50m che si attesta verso l’attuale Piazza Primo Maggio (all’epoca Piazza Umberto I). Tale corpo risulta diviso in tre parti: la centrale sporgente e conclusa da un grande frontone curvilineo ove è ubicato l’ingresso e due laterali abbassate che ripropongono il ritmo delle aperture. I due corpi di fabbrica laterali si sviluppano per una lunghezza di 55 e una larghezza di 12m.

La distribuzione interna prevedeva di destinare al piano terra il Ginnasio con 9 aule, oltre alle sale per i professori, l’aula per gli esami, la sala per il museo di storia naturale, il gabinetto e l’aula per la storia naturale. Depositi, servizi e portineria completavano il piano.

Il primo piano era invece destinato al Liceo con 6 aule. Sopra l’ingresso si prevedeva una grande sala per conferenze, destinata anche agli esami scritti liceali. Completavano il piano la sala biblioteca e quella per gli insegnanti, per la chimica e la fisica, oltre ai servizi.

Al secondo piano, limitato al corpo principale dovevano trovare spazio gli alloggi per le famiglie dell’inserviente, del bidello e del custode.

Oltre al fabbricato principale, il progetto prevedeva un corpo di fabbrica a pianta rettangolare (22x10m) da adibire a palestra.

Complessivamente l’edificio copre un’area di 2.465mq, lasciando oltre 2.000mq scoperti per i cortili.

Per consentire l’accesso dalla piazza si previde la realizzazione di un ponte sulla roggia con ripiani e gradinate. Un secondo accesso era previsto in asse con la nuova via Cairoli, all’epoca in fase di completamento.

Nel presentare il progetto, gli ingegneri Cantarutti e Polverosi sottolinearono sia la dimensione delle aule (7x8m in media), sia il loro orientamento a sud con i corridoi di distribuzione a nord. La dimensione delle aule e la loro altezza (4,80m al piano terra, 4,60 al primo piano) sono in linea con le disposizioni date dal Ministero della pubblica istruzione dell’epoca relative alla costruzione degli edifici scolastici.

Il sistema di costruzione previsto, scrissero i progettisti, era consono al criterio suggerito dalle Amministrazioni provinciale e comunale, ossia quello di realizzare “un igienico e conveniente fabbricato per il G-L, escluso ogni inutile lusso”. Il sistema è infatti del tipo tradizionale per l’epoca.

Alcune foto dell’edificio in costruzione fra il maggio e l’ottobre 1914 testimoniano le tecniche adottate: murature in sassi intonacate e il coperto “parte centrale complesso con grossa armatura, orditura a coperto in tavelloni e tegole”.

Gli elementi decorativi erano ridotti all’essenziale. Nell’atrio la presenza di colonne su basamenti, le lesene in malta e gesso alle pareti ed il soffitto a cassettoni, nel salone al primo piano e nel vano scale, i riquadri e le incorniciature alle pareti.

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La pietra naturale fu utilizzata solo per le gradinate esterne e le soglie, mentre in pietra artificiale sono i contorni delle finestre e tutta la parte decorativa della facciata, trattata con cemento a bozze per lo zoccolo, cemento a bugne e cemento a sprizzo con rigatura per le rimanenti parti.

L’utilizzo di pilastri compositi di ordine gigante, il frontone curvilineo a sesto ribassato concluso da acroterio e le lunette cieche allusive delle finestre termali romane sopra le ampie finestre del corpo centrale costituiscono i caratteri salienti di un’architettura che non guarda alla modernità – all’epoca incarnata in città da alcune realizzazioni di Raimondo D’Aronco, Provino Valle e Angelo Sello – ma piuttosto attinge dalla storia, intesa come repertorio da cui attingere i propri riferimenti linguistici.

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Situato su una sponda rialzata – per il corso della roggia - rispetto alla piazza sottostante, su un ampio terrazzo balaustrato e perciò in posizione eminente, l’edificio veniva ad inserirsi urbanisticamente nel contesto del Giardin Grande grazie alle rampe di collegamento, che in parte si ispiravano al vicino e maestoso pronao della Basilica delle Grazie e in certo qual modo riprendevano la doppia ascesa al colle del Castello, situato dirimpetto. Per il critico d’arte Licio Damiani il fabbricato, anticipato dal ritmo delle balaustre lungo le due rampe d’accesso, presenta una facciata percorsa da un movimento trattenuto e chiusa dal timpano arcuato che denuncia un’austera nobiltà. Ruschi invece sottolinea dell’edificio il linguaggio di “manierato eclettismo” non scevro da evocazioni monumentali di gusto tardobarocco commisto ad effetti di “rigorismo neoclassico”.

Per la facciata furono appunto adottati stilemi classico-rinascimentali, consoni alla destinazione dell’opera e al gusto del tempo, poco incline ad accettare gli esiti Art Nouveau nelle costruzioni simboliche per la storia urbana, come insegna la sofferta progettazione di D’Aronco per il Palazzo Municipale. Il Liceo si inseriva nel tessuto urbano con una sua precisa individualità e imponenza, talora pretenziosa, segno dei tempi e delle predette urgenze rappresentative, ma consona alla sua ubicazione in uno spazio aperto che ne richiedeva una presenza certo non anonima. Lo ribadisce il giudizio di Pietro Ruschi – docente universitario di Storia dell’Architettura che, pur evidenziandone il carattere stereotipato e a tratti ridondante, non nega a chi ha progettato il complesso “un preciso e consapevole intento a contribuire al decoro della piazza antistante che, senza alcun dubbio, ne costituisce il principale referente progettuale”. Nell'edificio del Liceo l'interpretazione non piatta del repertorio tradizionale finiva per accordarsi e nello stesso tempo a distinguersi, formando un nuovo elemento di risalto nello scenario di costruzioni tutto sommato "minori" di quel lato della piazza, rispetto all'adiacente pronao del tempio delle Grazie.

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L’edificio, a differenza di altre opere pubbliche in cantiere negli stessi anni, risulta terminato prima dell’entrata in guerra dell’Italia ma viene destinato ad accogliere dal 1915 al 1917 molti uffici del Comando supremo dell’Esercito italiano, come ricorda un’epigrafe nell’atrio (solennemente inaugurata il 6 novembre 1926).

In questa tranquilla sede/di classici studi/ dal giugno MCMXV all’ottobre MCMXVII/ il Comando Supremo/ vigilò sull’ultima guerra/ massima e radiosa/ dell’Italico Risorgimento.

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La sera del 23 maggio 1915 (domenica) il governo presieduto da Antonio Salandra aveva presentato a Vienna la dichiarazione di guerra all’Austria, e l’indomani Luigi Cadorna superò il vecchio confine del 1866, con le forze armate italiane. Le scuole vennero chiuse in anticipo (a Udine il 29 maggio). I ragazzi si riversarono nelle strade, inneggiando alla patria e, inscenando manifestazioni di giubilo, si misero a disposizione delle autorità. Già dal 21 maggio gli studenti dello Stellini, nel corso di un’assemblea, deliberavano di offrire alle autorità la loro opera durante la guerra: venne delegato il giovane Beniamino Morpurgo a presentare tale voto al presidente della Deputazione Provinciale e al Sindaco. Non immaginavano che la guerra sarebbe stata lunga e cruenta, con grande sacrificio di vite umane!

Il generale in capo Luigi Cadorna fece di Udine la capitale italiana del conflitto e ogni fabbricato pubblico del centro cittadino fu utilizzato dal Regio Esercito. Questa fu la sorte della neonata scuola. Successivamente, nel 1917-18 – in conseguenza della rotta di Caporetto, che condizionò la vita di tutti i cittadini di Udine e della sua provincia (27 novembre 1917, giorno dell’inizio dell’occupazione nemica della città) - l’istituto fu occupato da parte delle truppe austro-germaniche. Solo dall’anno scolastico inoltrato 1918-19, una volta conclusa la guerra, l’edificio potè ospitare i primi studenti. Ripresero le lezioni dopo la drammatica diaspora dei profughi in varie regioni italiane in seguito alla rotta di Caporetto (1917), dopo l’esilio scolastico di alcuni studenti emigrati nei licei austriaci di Trieste, Pisino e Graz. Al termine del I Conflitto mondiale l’Istituto Scolastico acquistava a pieno titolo un suo ruolo preciso nel contesto e nell’immaginario cittadino. La rimessa a punto dell’edificio dopo gli eventi bellici può spiegare il reportage fotografico realizzato dal maestro udinese L. Pignat . In definitiva, “abbastanza dentro il catino di Giardin Grande […] le masse bianche dei due templi [Madonna di Grazie e l’ex Comando Supremo], allineate sulla stessa altura, nella stessa fondamentale solennità” erano accomunate: i caratteri dorati che contrassegnavano il frontone del sacrario degli studi classici (Regio Ginnasio Liceo) erano destinati a impressionare la cittadinanza e coloro che sarebbero diventati i giovani iscritti.

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La realizzazione della scuola partecipò urbanisticamente alla definizione dello spazio della piazza, la quale, pochi anni dopo, con la realizzazione a fianco del GL del palazzo Maffioli di Pietro Zanini, vedeva sorgere un altro importante tassello del tessuto edilizio in questo brano di città.

Mentre la perimetrazione del Giardin Grande veniva gradualmente a restringersi e a definirsi, era infatti stato innalzato di fianco del Liceo – in direzione di Palazzo Ottelio e del corso della Roggia – l’edificio Maffioli (ora palazzo General Cantore) che, con la sua allungata fronte, prospetticamente elaborata, rinserrava la piazza nella sua parte a sud-est, nel sito occupato in passato dal molino affacciato sulla roggia. La destinazione d’uso dell’edificio era quella di sede udinese della ditta Maffioli per la lavorazione del vetro. L’impianto manifatturiero ribadiva l’antica vocazione dell’area; a poca distanza, alla fine di via Cairoli, di fronte a Palazzo della Porta sorgeva la fabbrica di tessuti (velluti, damaschi e seterie) Reiser, demolita alla fine degli anni ’20. Le finalità del complesso Maffioli, tuttavia, venivano celate per rivaleggiare, in analogo decoro pur con uno stile differente, con il vicino istituto scolastico. Il progetto di Pietro Zanini (1920-26 o 28?) – forse redatto in collaborazione con Provino Valle - recuperava sia la lezione secessionista del maestro D'Aronco, evidente nella facciata, contrappuntata con l'inserimento di eleganti bow-windows, sia gli echi classicisti, con un risultato prossimo allo stile "Novecento".

Si chiudeva così idealmente il percorso storico-formale (avviato dalle Grazie) in parallelo al completamento concreto della quinta orientale, a lungo sguarnita di costruzioni, data la presenza di vasti appezzamenti agricoli, estesi sino al borgo di Treppo.

Altra grande novità era stata, qualche anno prima, l’apertura di una nuova strada (Via della Vittoria, 1924) di collegamento diretto fra Giardin Grande e il neonato Parco della Rimembranza (inaugurato nel 1927), ottenuta sacrificando parte cospicua dei fondi di pertinenza dell'Educandato Uccellis, il cui giardino ottocentesco, solcato dalla nuova arteria, venne così ad essere diviso in due tronconi. Per nobilitare il nuovo percorso - che venne ad occupare il lato Ovest della distesa - fu realizzato l’imponente muro di cinta della casa Biasutti-Liruti, per il quale fu interpellato l’illustre architetto Ramondo D’Aronco. Al termine di tali operazioni Giardin Grande non era più un sistema chiuso, un invaso introverso lambito da una cortina irregolare di edifici e lontani l’un dall’altro, sorti in epoche e con aspetti diversi, ma diventava, nella città in espansione, un punto di passaggio in direzione nord, ipotecandone lo sfruttamento successivo.

Il Liceo usciva con ciò da una collocazione marginale: una volta definito l’aspetto architettonico e ribadito il suo ruolo nel contesto territoriale circostante, che si è venuto modificando nel corso del tempo, con l’entrata in funzione della scuola protagonisti della vicenda inerente l’istituto diventarono progressivamente le persone, che la trasformarono in un centro di vita e di cultura.

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Un evento determinò uno spartiacque per la storia dell’Istituto e del Friuli tutto, ossia il terremoto del 6 maggio 1976. Il sisma lesionò gravemente l’Istituto, specie nei piani superiori delle due ali. Fu necessario un tempestivo intervento (diretto dall’arch. Luciano Dolce, della Ripartizione Tecnica del Comune, ed eseguito dalla ditta CISA di Udine) che ha portato ad un progetto di rinnovo mirante a garantire la stabilità e la funzionalità dell’intero plesso scolastico.

La ristrutturazione e l’ampliamento dell’edificio si sono protratti per ben “6 anni, anche e soprattutto per consentire la prosecuzione dell’attività didattica in sede”. Gli interni hanno subito una ristrutturazione radicale, soprattutto nelle ali che sono passate da due a tre piani, aumentando così il numero di vani, aule e laboratori. Anche gli ambienti di rappresentanza sono stati ristrutturati: ad esempio l’Aula Magna con le poltroncine azzurre rispetto ai sedili di legno di un tempo. Impianti di sicurezza, serramenti in alluminio e altri mutamenti (o stravolgimenti, in qualche caso) hanno cambiato radicalmente l’immagine dell’edificio. La riconsegna ufficiale dei locali della scuola è stata celebrata nel marzo 1985. Dovettero passare ancora molti anni prima che fosse costruita la tanto attesa palestra, già prevista nel progetto originale e mai messa in opera. La prima pietra è stata posta nel 2006, la struttura (progettata da Cesare Deana e realizzata dall’impresa Pitta di Udine) è stata inaugurata nel 2008. Essa ormai costituisce un insostituibile corredo al nostro edificio, che si può dire con questa tanto sospirata integrazione efficacemente e modernamente completato.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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