Percorso tematico di approfondimento per catechisti - 2012 ... Accidia... · Evagrio Pontico,...

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Percorso di approfondimento per catechisti - 2012-2013 Non così avete imparato a conoscere Cristo (Ef 4,20)

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Percorso tematico di approfondimento per catechisti - 2012-2013

Accidia: l’abisso chiama l’abisso (Sal 41,7)

D. Gerardo Giacometti – Direttore Ufficio catechistico di Treviso

Per iniziare la riflessione

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota

tranquillamente una rana.

Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano.

Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e

continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda.

Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’,

tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda.

La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la

forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la

temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana muore bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa

direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

È la descrizione di un’esperienza che ci introduce a comprendere il senso dell’accidia quale consegna della vita a una

sorta di torpore che pervade il corpo e lo spirito, in un atteggiamento di noia, pigrizia, indifferenza e rinuncia nel

quale inizia a sfuggire il senso di quanto si vive e a indebolirsi la motivazione per continuare a farlo. Poca vigilanza

che conduce a trascurare alcune circostanze che compromettono significati della vita e la vita stessa.

Una pagina quanto mai attuale, che nel ‘900 trova l’interpretazione di Otto Dix che legge l’accidia come il grande e

tragico atto di indifferenza del popolo tedesco di fronte ai rischi del nazismo. Una figura travestita da scheletro,

senza occhi e senza cuore, incapace di osservare e di partecipare delle vicende dell’altro.

Ma anche alcuni ritratti di Amedeo Modigliani (1884-1920), pittore con una

penosa storia di depressione segnata da alcol e droga che ci consegna una

serie di personaggi, tra cui numerosi ragazzi, che osservano la vita senza pupille

come se le ragioni che l’hanno guidata fino ad un certo punto non fossero più

visibili o sufficienti.

L’accidia non è solo pigrizia: è la perdita di orientamento e di comprensione di

quello che sta facendo. È la perdita del disegno di Dio sulla vita che genera

delusione, rassegnazione, confusione di piani, assestamento su misure

approssimative o di compromesso “sanza ‘nfamia e sanza lodo”, come Dante

descrive gli ignavi nella Divina commedia (Inferno, III canto).

Il termine

A. MODIGLIANI, Giovane con berretto (1919), Detroit, Institute of arts

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Percorso di approfondimento per catechisti - 2012-2013 Non così avete imparato a conoscere Cristo (Ef 4,20)

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1. L’accidia: il demone meridiano

Il termine dal greco ¶ (alfa privativo = senza) + kῆδος (=dolore/cura) indica insensibilità, indifferenza, mancanza di

partecipazione e coinvolgimento senza che tale stato di indolenza porti a interrogarsi e a prendersene cura.

La prima grande pagina che identifica l’accidia è quella dei padri del deserto che nell’akedia trovano il più grande dei

pericoli che il monaco può incontrare. Evagrio Pontico, asceta del IV sec. che in Asia Minore dà avvio alla riflessione

sui vizi capitali, riprendendo un'esegesi rabbinica del Salmo 91,6, identifica questa tentazione come “demone

meridiano” perché è proprio verso mezzogiorno - ora che nel deserto è particolarmente calda e afosa, ora in cui il

peso del digiuno si fa sentire - che affiora nel cuore del monaco la domanda ossessiva: «Ma vale la pena? A che serve

tanta fatica? Chi me lo fa fare?».

Il demonio dell’accidia, che viene chiamato anche “demone di mezzogiorno” è di tutti i demoni il più pesante.

Attacca il monaco all’ora 4a e gira intorno alla sua anima fino all’ora 8

a . […] Esso suscita l’impressione che il sole si

muova solo lentamente, o addirittura che sia immobile e che il giorno abbia 50 ore. (EVAGRIO, Praktikos, 12).

Questo “mezzogiorno” è anche quello della vita, quando ad un certo punto, l’entusiasmo viene meno, quando non

c’è più la gioia profonda di fare una cosa, la gioia di vivere. Ecco perché Evagrio dice che questo è un demone

pericolosissimo.

Nella descrizione di tale spirito malefico, Evagrio presenta l’akedia come “un’atonia dell’anima”, una mancanza di

forza che, registrando qualcosa non conforme a natura, non si oppone alla tentazione che proviene dai pensieri.

L’akedía, infatti muove da circostanze diverse, ma colpisce il senso dell’esistenza generando sensazione di vuoto e

noia, incapacità di fissare lo spirito su qualcosa di preciso, nausea e ripugnanza di tutto e di tutti, cupo rimuginare.

L'occhio dell'acedioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che arrivino visite: la porta cigola e

quello balza fuori, ode una voce e si sporge dalla finestra e non se ne va da là finché, sedutosi, non si intorpidisce.

Quando legge, l'acedioso sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia e,

distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po', ripetendo la fine delle parole,

si affatica inutilmente, conta i fogli, calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, piegato il libro,

lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo, e infatti, di lì a poco, la fame gli risveglia l'anima con le

sue preoccupazioni (EVAGRIO, Gli otto spiriti malvagi, 14).

L’akedia impedisce al monaco di “habitare secum”: non sopporta più il peso della solitudine, il deserto, il silenzio e

cerca vie di fuga accompagnate da smarrimento, disgusto, incapacità di adesione alla realtà, senso di vuoto. È una

malattia che, dalle regioni epidermiche dell’esistenza, raggiunge quelle del cuore trasformandosi in cronico

disorientamento destrutturante e “de-vocazionante”. L’akedea nella forma della tristezza, secondo Evagrio, ha il

terribile potere di spegnere la luce di Dio negli occhi dell'uomo.

La caligine indebolisce la forza degli occhi e la tristezza inebetisce la mente dedita alla contemplazione; la luce del

sole non raggiunge gli abissi marini e la visione della luce non rischiara un cuore rattristato. Dolce è per tutti gli

uomini il sorgere del sole, ma anche di questo si dispiace l'anima triste (EVAGRIO, Gli otto spiriti malvagi, 12).

Evagrio presenta anche alcuni sintomi che portano a riconoscere la malattia: bisogna fare molta attenzione nel

discernimento perché il senso di vuoto, di disgusto o l’abdicazione alla vocazione e alla vita non corrispondono

sempre e solo a tristezza o pigrizia; qualche volta si manifestano in maniera opposta, in atteggiamenti accettabili e

rivestiti di sentimenti nobili e ambigui nello stesso tempo.

Primo sintomo dell’accidia è una certa irrequietezza interiore che conduce a cambiare: casa, lavoro, libro,

amicizie: Il monaco girovago, secco fuscello della solitudine, sta poco tranquillo e, senza volerlo, È sospinto qua e

là di volta in volta […]. A chi ama il piacere, una donna non basta, così al monaco accidioso una cella non basta

(Ib. 13). È la tentazione del cambiamento i cui pretesti appaiono inderogabili, compreso quello di onorare meglio

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gli impegni vocazionali, mentre in realtà non si riesce a stare con se stessi e con Dio. Il monaco può ingannarsi

fino a dire: Il piacere a Dio non dipende dal luogo di dimora, poiché dovunque si adorala Divinità (EVAGRIO,

Praktikos, 12).

Le preoccupazioni per la salute fisica: nel deserto manca l’essenziale e questo porta il monaco a spaventarsi per

le conseguenze della malattia che però può insegnare la pazienza e la capacità di fidarsi dei fratelli. I demoni

dell’accidia intaccano proprio tale fiducia alimentando il senso di solitudine, il sospetto nei confronti dell’altro,

l’atteggiamento della di recriminazione.

C’è un demone dell’accidia che odia il lavoro manuale della professione esercitata e ne vuole imparare un’altra

che lo nutra meglio e sia meno faticosa (EVAGRIO, Antirretico, VI, 1). I monaci si guadagnano da vivere

intrecciando cesti, lavoro semplice e ripetitivo che favorisce la preghiera. Un modo per cui il lavoro ricorda al

monaco che non esiste solo …il lavoro e che il lavoro è orientato a Dio e al suo progetto sulla creazione, non

semplicemente al personale guadagno o alla logica di massimo rendimento e minimo sforzo.

L’infelicità può venire anche dagli altri: superiori, colleghi, il prossimo di cui il monaco ricorda, con dolorosa

precisione, tutte le ingiustizie che ha dovuto patire: Contro il pensiero che a causa dell’accidia è spinto a

calunniare il superiore del convento col pretesto che non edificherebbe i confratelli, sarebbe duro con loro e non

avrebbe nessuna comprensione delle loro difficoltà (EVAGRIO, Antirretico, VI, 2). A volte non è il superiore a essere

incriminato ma il fratello: l’accidioso lamenta che l’amore tra i fratelli sia sparito e che non ci sia nessuno per

consolarlo (EVAGRIO, Antirretico, VI, VI,13). È l’accidia sulla vita affettiva: si attribuisce all’altro la causa di una

carenza d’amore che, in realtà, è mal compreso dall’accidioso e lo induce all’errore che esso corrisponda alla

“tenerezza di sé” anziché dell’altro. Ecco perché Paolo scrive che “gli amanti di se stessi” [philautoi in 2Tm 3,2]

non possono essere amanti di Dio [philotheoi in 2Tm 3,4]. Ed è interessante che la descrizione della conversione

di Francesco d’Assisi sia descritta dicendo “smise di adorare se stesso e persero via via fascino le cose che prima

amava” (FF 1403).

L’accidia può trasformarsi anche in nostalgica propensione verso il passato con pensieri che ci spingono a

riposarci un po’ e a rivedere dopo tanto tempo, la nostra casa e i nostri parenti (EVAGRIO, Antirretico, VI, 39).

L’inquietudine interiore può portare a rimpiangere i bei tempi, altri progetti di vita. L’accidioso è convinto che è

meglio avere rimorsi che rimpianti e qualora trova motivi per rimpiangere se stesso vi si attacca tenacemente.

Se l’accidia fosse subito chiara, sarebbe la sua fine e l’accidioso verrebbe smascherato con vergogna. Allora essa

può travestirsi anche di virtù. L’accidioso adduce come pretesto visite ad ammalati. Il monaco accidioso è pronto

a servire e considera la propria soddisfazione come un dovere (EVAGRIO, Gli otto spiriti malvagi, 13). È la

tentazione dell’attivismo, dell’agenda piena, meglio ancora se con finalità filantropiche, che invanamente cerca

di colmare il vuoto interiore. Bisogna verificare i frutti dell’attività, suggerisce Evagrio: l’amore rende amabili,

l’attivismo accidioso rende amari e impazienti.

Se questi sintomi sono trascurati, l’accidia raggiunge le profondità dello spirito e manifesta tutta la sua carica

diabolica e distruttiva.

La prima “stadiazione” è riconoscibile nella presenza degli eccessi: di trascuratezza o di zelo. I primi rendono il

monaco approssimativo e blando nella cura della vita spirituale, i secondi lo portano al rigorismo rigido e

pretenzioso. Il minimalismo è la tentazione che talvolta distoglie dalla lettura e dallo studio delle parole spirituali,

affermando: «Guarda quel vegliardo santo, conosceva soltanto 12 salmi eppure piaceva a Dio» (EVAGRIO,

Antirretico, VI, 5). Ma l’avversario cavalca anche il rischio opposto, incitando a seguire le orme di Giovanni

Battista o di Antonio del deserto finché il monaco, scoprendosi incapace di una simile ascesi, se ne fugga via

pieno di vergogna, abbandonando la propria vocazione. Evagrio suggerisce sempre il senso della misura in

quell’equilibrio dove Dio e l’uomo agiscono insieme nel rispetto di ciascuno. In particolare bisogna confidare

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nella buona intenzione iniziale, perché Dio sa che la tentazione ci appartiene (anche Gesù l’ha provata), ma sa

anche che c’è una “tentazione al bene” che mette in discussione le nostre cattive intenzioni, quando ne siamo

soggiogati. È il gioco della libertà in cui l’uomo è restituito a se stesso e Dio può sorprendere con le sue

meraviglie.

Se il monaco non cura l’accidia, essa lo assale con una condizione di scoramento che toglie ogni speranza

convincendo l’anima che la vita eremitica è molto faticosa e ben pochi sopportano la sua disciplina (EVAGRIO,

Antirretico, VI, 14). La tentazione può minare la vocazione attribuendone la motivazione a cause poco nobili: non

eravamo in grado di dimostrarci uomini negli affari del mondo (EVAGRIO, Antirretico, VI, 46). È la tentazione di

pensare alla nostra vocazione di consacrati, di sposati, di laici, di preti, di catechisti, di cristiani come una facile

via di uscita rispetto ad altre responsabilità, compiti, posizioni di cui non eravamo all’altezza o dei quali non

abbiamo saputo, potuto o voluto cogliere l’occasione. È il sospetto di aver sbagliato tutto e di esserci ingannati,

vittime della suggestione che, confrontandosi con le smaliziate considerazioni altrui, sembra approdare a un

necessario realismo e al disincanto: si pensi, ad esempio, al celibato nella Chiesa e alle considerazioni

determinate dal più comune buon senso, di chi ritiene ad esempio che “da giovani non si può decidere” una

scelta tanto importante. È utile ricordare che in ogni scelta umana, accanto a motivi generosi e autentici ci sono

anche altre ragioni, talora superficiali o ambigue. Ma Dio non apre una storia vocazionale per la bravura di chi

chiama, ma per la disponibilità ad accogliere nel “fragile vaso d’argilla” la sua grazia che si rivela nella debolezza

(cf. 2Cor 12,10).

Infine l’accidia scatena la sua arma più distruttiva: la desolazione interiore. È “l’abisso che chiama l’abisso”, grido

vano nel vuoto di cui parla il salmo 41,7. È l’anima che, perdurando nell’accidia, è diventata debole e si è

abbattuta, è svanita nella sua amarezza e la cui forza si è consumata nel suo grande abbattimento ed è prossima

alla disperazione e si scioglie in gemiti per i quali non c’è ristoro (cf. EVAGRIO, Antirretico, VI, 38). È una situazione

che può condurre anche al suicidio, ultimo disperato tentativo di fuggire al proprio vuoto. È l’icona di Giuda, del

suo vuoto di speranza sulle promesse messianiche di Gesù ma anche sulla misericordia e sul perdono di Dio:

incapace di accogliere il progetto di discepolato che Gesù indicava, Giuda lo “vende” sognando un’altra

realizzazione (come il monaco che non sta più nella cella e guarda fuori) e quando il suo tradimento si confronta

con la condanna a morte di Gesù, anziché stare in quella morte accettando di esserne partecipe, egli ne sceglie

un’altra: quella del proprio vuoto. L’accidia ha avuto il sopravvento: per almeno due volte Giuda non ha saputo

accogliere il progetto di Dio.

Attenzione: forse in queste declinazioni dell’accidia qualcuno può ravvisare qualche elemento simile all’esaurimento

e alla depressione che, molto spesso, non derivano dalla responsabilità del singolo ma da una condizione di fragilità

fisica e psichica, da responsabilità altrui o da alcuni drammi della vita di cui chi vive un simile stato è spesso vittima

innocente. L’accidia può assomigliare, inoltre, alla “notte oscura” vissuta da S. Giovanni della Croce o alla tremenda

prova di aridità e tenebra che ci ha consegnato, dopo la morte, Madre Teresa nelle sue confessioni. Si tratta di

un’affinità, osserva P. A. Sequeri, “larga quanto un capello, profonda come un abisso” (Accidia, il demone della notte,

Avvenire del 6 luglio 2012) che impone un serio discernimento per non confondere il mistico con l’accidioso e

viceversa.

L’accidia è un vizio perché vede la partecipazione dell’accidioso alla propria desolazione andandola a cercare e

alimentandola, escludendo ogni riferimento a Dio o cercandolo su strade differenti da quelle indicate dalla propria

vocazione, stato di vita, servizio. L’accidia interpretata dalla tradizione come “pigrizia” consiste nella svogliatezza

rispetto alle strade di Dio, nel ritenerle fallimentari, nel sognarne altre, nel rimanere prigionieri della propria tristezza

o della recriminazione, aprendo la via alla rassegnazione inoperosa o all’attivismo in cerca di evasione.

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Il mistico, invece, può vivere la notte di Dio ma nella persuasione che Dio può abitare anche l’oscurità, che egli si

“ricopre di tenebra come di velo” (Sal 18,12) e che per lui “le tenebre sono come luce” (Sal 139,12). Ciò non toglie

che, per l’uomo, le tenebre siano buio fittissimo, che il silenzio sia vuoto, che l’assenza suoni nell’abbandono del

Figlio sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). È la sfida della fede che chiede la

piena consegna di sé al Padre, con Gesù e come Gesù. Solo così si esce dalla notte.

2. Alcune pagine bibliche

Un personaggio dell’AT: Salomone. Dio aveva dato a Salomone, figlio di Davide, «sapienza e intelligenza come

nessuno ha mai avuto e mai potrà avere» (1Re 3,12). Ebbene, mentre il Signore aveva proibito agli Israeliti matrimoni

con gente pagana perché li avrebbero spinti ad adorare altri dèi, il re Salomone aveva trasgredito questo comando

unendosi a donne pagane e accettando di prostrarsi davanti alle divinità che ogni donna adorava (cf. 1Re 11,1-13).

Egli stesso aveva fatto costruire santuari in onore di dèi abominevoli. Salomone, allentando la vigilanza sulla sua

azione di governo, sostituisce l’equilibrio che conduce l’uomo a poggiare su Dio con l’equilibrismo tattico delle

divinità straniere che gli consente di mantenere donne e alleanze.

1Re 11,1 Il re Salomone amò molte donne straniere, oltre la figlia del faraone: moabite, ammonite, edomite, sidònie e

ittite, 2provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli Israeliti: «Non andate da loro ed essi non vengano da

voi, perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi». Salomone si legò a loro per amore. 3Aveva

settecento principesse per mogli e trecento concubine; le sue donne gli fecero deviare il cuore. 4Quando Salomone

fu vecchio, le sue donne gli fecero deviare il cuore per seguire altri dèi e il suo cuore non restò integro con il Signore,

suo Dio, come il cuore di Davide, suo padre. 5Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom, obbrobrio

degli Ammoniti. 6Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seguì pienamente il Signore come Davide,

suo padre.

L’accidia non è rottura deliberata con Dio. L’autore biblico nota che Salomone non si allontana completamente da

Dio, bensì “non seguì pienamente il Signore”. Il re consegna la fine del suo governo a una sorta di tiepidezza nella

quale il rapporto con Dio è minato dal sospetto che nelle sue leggi non vi siano la sicurezza e la promessa di vita che

esse contengono. Nel cuore di Salomone l’accidia è un torpore che non registra la “modificazione genetica”

dell’amore che, dal Dio di Israele, passa alle misure più fruibili delle donne di cui il re si circonda, dei loro dei e delle

alleanze con loro popoli. È un’accidia alimentata dalla lussuria, che diviene terreno fecondo per coltivare un’altra

“sapienza” che non è quella che inizialmente il re aveva cercato e che aveva dato forma al suo regno. Ma la

“sapienza sostitutiva” non regge e il regno che, negli ultimi anni, è percorso da lotte intestine e infine è diviso.

Forse non è un caso se proprio ai tempi di Salomone nasce e si diffonde una letteratura che, specialmente con le

meditazioni di Qoelet e con i Salmi, rivela e denuncia tale rischio, cercando di indicare vie d’uscita.

Qo 2,3Ho voluto fare un'esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la

mente alla sapienza. Volevo scoprire se c'è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo

durante i pochi giorni della loro vita. 4Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti.

5Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie;

6mi sono fatto vasche per irrigare con

l'acqua quelle piantagioni in crescita. 7Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto

anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. 8Ho accumulato per me

anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne,

delizie degli uomini. 9Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur

conservando la mia sapienza. 10

Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna

soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie

fatiche. 11

Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed

ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c'è alcun guadagno sotto il sole.

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Sal 119,141Io sono piccolo e disprezzato, ma non trascuro i tuoi precetti.

142La tua giustizia è giustizia eterna.

143Angoscia

e affanno mi hanno colto, ma i tuoi comandamenti sono la mia gioia. 144

Giusti sono i tuoi comandamenti per sempre,

fammi comprendere e avrò la vita.

La pagina dell’AT è un invito a riconoscere attentamente l’accidia, a considerarne le manifestazioni e i significati sul

piano spirituale in un atteggiamento di vigilanza anche di tipo intellettuale, per non addormentarsi e diventarne

succubi. È anche monito a ritrovare, in tale evenienza, la parola di verità, i precetti del Signore che danno luce alla

notte del cuore.

L’esperienza di Salomone richiama le parole dell’Apocalisse rivolte alla Chiesa di Laodicea:

Ap 3,14 «Così parla l'Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio.

15Conosco le tue

opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! 16

Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo

né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. 17

Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non

sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo.

L’accidia è una condizione di tiepidezza eretta a sistema che illude sulla felicità ed espone al vuoto: lascia poveri,

ciechi e nudi. Occorre monitorare attentamente la propria vita: «Esaminate voi stessi per vedere se siete nella fede»

(2Cor 13,5) e ancora: «Fate attenzione a voi stessi per non rovinare quello che abbiamo costruito e per ricevere una

ricompensa piena» (2Gv 1,8).

Un personaggio del NT: il giovane ricco. L’icona di quel tale che se ne va dopo aver manifestato a Gesù il proprio

desiderio di vita eterna è un modo con cui l’accidia può prendere le forme della tristezza.

Mc 10,17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò:

«Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 18

Gesù gli disse: «Perché mi chiami

buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19

Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio,

non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». 20

Egli allora gli disse: «Maestro,

tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21

Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse:

«Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». 22

Ma

a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

Il rapporto “geneticamente modificato” dall’accidia, in questo caso, è con la ricchezza che si arroga il diritto di

assicurare il futuro dell’uomo, barattando il Bene con i beni: possedeva molti beni. È un’accidia compagna

dell’avarizia, dimentica che l’esistenza cristiana è all’insegna dell’amore, ricevuto da Cristo (lo amò) e portato ai

fratelli (dallo ai poveri). La parola di Gesù che ricorda tale verità è avvertita come buio, mancanza di prospettiva (si

fece scuro in volto) e tristezza (se ne andò rattristato). E sembra una condizione destinata a incancrenirsi, proprio

com’è nella natura dell’accidia; lo rivela Gesù nel dialogo successivo affermando, tra lo sconcerto dei discepoli:

«Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» (Mc 10,23), ma aggiungendo subito

dopo: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (Mc 10,27). Dall’accidia si esce come si

può uscire da ogni vizio, come Gesù e grazie a lui, corrispondendo alla sua azione liberante.

Eb 12,7È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal

padre? 11

Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un

frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.

Non tutta la tristezza è legata all’accidia: qualche volta essa è il passaggio verso l’uomo nuovo che viene generato

giorno per giorno, accogliendo gli appelli di Dio, anche quando sembrano rivolti al fallimento. È quello che coglie

Pietro, quando constata: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Lc 10,28); non è impossibile

seguire Gesù e vivere da cristiani.

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Per uscire dall’accidia

La lettura dell’accidia a partire dall’ambiente monastico, non ci ha impedito di comprendere che essa non appartiene

solo ai monaci: anzi, sono in molti oggi a chiedersi se essa non sia forse il male del nostro tempo, quello che tocca più

da vicino l’uomo contemporaneo (E. BIANCHI, Acedia, Il rapporto deformato con lo spazio, S. Paolo, 2012, p. 9). Essa

può trasformarsi in una “paralisi dell’anima” come diceva Giovanni Climaco, monaco del VII secolo, o in un “esilio

sulla terra” come recentemente ha affermato Umberto Galimberti (I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2005, p. 26).

A-kédos, senza cura: l’accidia è l’assenza di cura che da un certo momento in avanti può interessare la nostra vita

interiore o perché si smette di nutrirla o perché le si propone ciò che non sostiene. È la condizione del nostro

cristianesimo occidentale intiepidito e intorpidito, persuaso che non vi siano altre interpretazioni o possibilità di

cambiamento. Come se ne esce?

In primo luogo metterla in conto e riconoscerla. Arriva nella vita di tutti un “mezzogiorno” in cui il demone

dell’accidia scatena il suo assalto: agli inizi (della vocazione, di un servizio, di un compito) c’è l’entusiasmo, alla

fine la voglia di arrivare, ma in mezzo ci sono i dubbi, le incertezze, la delusione. Prepararsi alla lotta e

smascherare il demone dell’accidia è già buona possibilità di vittoria. Antonio, padre dei monaci del deserto

suggeriva: «Quando appare una visione, non si ceda al panico, ma qualunque essa sia, per prima cosa si domandi

pieni di coraggio: “Chi sei e da dove vieni?”. Se la visione viene dai santi, ti rassicureranno […] se si tratta di una

visione diabolica, si indebolirà vedendo la tua forza d’animo (ATANASIO, Vita di Antonio, 43,1). Il cristiano deve

avere una certa cura per la vita spirituale, conoscendone i dinamismi e gli interventi necessari.

La fiducia di venirne fuori. Il grande inganno dell’accidia (e del Maligno in genere!) è quello di farsi credere

invincibile e di avere una forza tale da assorbire non solo la vita di chi raggiunge, ma tutto il cristianesimo, tanto

da pregiudicarne il futuro. I padri del deserto, pur consapevoli dei pericoli dell’accidia, da essa non si facevano

soggiogare: essa è il conglomerato di tanti mali, ma non ha potere sull’uomo se l’uomo non glielo attribuisce.

L’accidia si inizia a vincere ritrovando Gesù risorto, la sua vittoria sul male e sulla morte: è forse l’indebolimento

o la perdita di questo fondamentale nucleo della nostra fede che alimenta l’accidia. È d’aiuto anche la

testimonianza di chi non si lascia dominare da questo stato e resiste nella notte oscura, come dimostra Asia Bibi,

la cristiana condannata per blasfemia che “da una cella senza finestre” scrive: «Credo in Dio e nel suo grande

amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui»

(Avvenire, 8 dic. 2012).

Rimanere al proprio posto. Una delle prime manifestazioni dell’accidia è quella che mette in discussione le

decisioni prese sul piano vocazionale ed ecclesiale, creando senso di insoddisfazione: il monaco cerca la

“finestra” e comincia a guardar fuori. Quando il demonio dell’accidia ti sorprende non lasciare la tua casa

(EVAGRIO, Sententiae ad monachos, 55). Una storia vocazionale è un’abitazione (un habitus) costruita per grazia,

ma che va difesa. Bisogna non smontare la guardia, come ricorda Gesù:

Lc 11,21Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro.

22Ma se arriva

uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. 23

Chi non è con

me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde. 24

Quando lo spirito impuro esce dall'uomo, si aggira per

luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». 25

Venuto,

la trova spazzata e adorna. 26

Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E

l'ultima condizione di quell'uomo diventa peggiore della prima».

Ogni giorno vissuto in risposta ad una chiamata arricchisce la nostra vita e delinea quello che siamo: risposta a

una chiamata. La ricerca di alternative misconosce e tradisce questa identità. Non comprendiamo chi siamo

perché non sappiamo più “di chi” siamo. Ci possono essere dei fraintendimenti nella propria storia vocazionale

alcuni dei quali potrebbero essere così determinanti da averci portato a fare una scelta sbagliata, ma la

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Percorso di approfondimento per catechisti - 2012-2013 Non così avete imparato a conoscere Cristo (Ef 4,20)

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considerazione di questa evenienza non può essere condotta dalle suggestioni bensì dal discernimento, aiutati

da qualcuno. Ecco perché il monaco ricorre ad altri monaci e perché molti dalla città raggiungono il deserto per

ascoltare l’abbà e i suoi consigli. Un giovane monaco andò Macario di Alessandria, lamentando: «Padre, che

debbo fare? I pensieri mi tormentano e mi sussurrano: “Tu non fai niente! Vattene via di qui”». E l’abate rispose:

«Di’ a questi pensieri: “Custodisco la mia cella per amore di Cristo”».

L’accompagnamento spirituale. L’accidia crea sconcerto e confusione: più se ne è coinvolti, più si allarga come

nebbia. Lo sguardo di una persona che aiuti nel discernimento è quanto mai necessario per ritrovare

compostezza, lucidità. Dev’essere un uomo (o una donna!) guidato dalla Parola e che alla Parola (non generica,

ma personale, quella che Dio oggi ci rivolge) restituisca chi a lui si affida. Non si tratta di accompagnamento

psicologico o di distribuzione di “buoni consigli”, né di “confessionale” da GF dove uno parla ascoltando

unicamente se stesso, ma di possibilità di trovare la voce di Dio: In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori:

per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor

5,20).

Percepire la vita spirituale come dialogo tra grazie e libertà: le misure della grazia diventano sorprendenti solo

nella libertà di chi le accoglie. L’accidia nasce sul terreno del dubbio moderno: “Che cosa mi dà?”. Dio, la fede, la

vocazione, i comandamenti… Ma c’è un’altra domanda da porre in questo caso: “Tu cosa porti?”, come ti collochi

in relazione a quel dono? Dio che ci ha creato senza di noi, non ci salva senza di noi. È questa la grandezza

cristiana che non si lascia andare né alla pigrizia né al fatalismo ma partecipa del dono ricevuto col coraggio di

provare e riprovare, di rialzarsi e di ricominciare sapendo che il dono diventa tale solo nella sua accoglienza e nel

suo esercizio.

Fuggire l’esagerazione. Evagrio insiste molto su questo aspetto: «L’accidia si guarisce con la costanza […] Fissati

una misura (métron) in ogni attività e non abbandonarla finché non l’hai portata a termine» (EVAGRIO, Gli otto

spiriti malvagi, 14). L’accidia è fatta di squilibri che oscillano dalla pigra indolenza alla frenesia operativa: ritrova

la compostezza della tua giornata, pur nella complessità di questo tempo. È quello che la tradizione ha delineato

nella “regola di vita”. Oggi facciamo fatica a stare alle regole, ma è proprio questo il terreno fertile dell’accidia. E

poiché lo scontro avviene anche oggi soprattutto in relazione alla preghiera, ritenuta inefficace, noiosa, troppo

estesa rispetto ad altre incombenze, siamo invitati a trovare proprio tempi fondamentali (mattino e sera) di tale

relazione con Dio. Perché quando preghi stabilisci il rapporto con l’eterno e l’accidia che svuota il senso del

tempo viene privata della sua azione più devastante.

Vivere nella lode. L’accidia genera scontentezza, recriminazione, pessimismo. La medicina cristiana è nella

contemplazione delle meraviglie di Dio che nell’eucaristia trovano il loro continuo rinnovarsi sulla scena del

mondo. Fai della tua vita Eucaristia, motivo di lode e di ringraziamento al Signore. L’accidia è l’esatto contrario

dell’Eucaristia, dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rapporto con lo spazio e il senso delle cose,

chi è preda dell’accidia vive nella a-charistia, nell’incapacità di stupirsi della bellezza, dell’amore e quindi

nell’incapacità di rendere grazie (E. BIANCHI, Acedia, p. 26).

A volte l’accidia può raggiungerci in situazioni piuttosto impegnative, in corrispondenza della croce. Non

dimentichiamo che essa aumenta la sua forza in maniera corrispondente all’impegno della vita spirituale. E in

questo caso essa si nutre di tutti gli interrogativi, nostri e del mondo, legati al dolore innocente, all’esistenza e

all’onnipotenza di Dio, alla sua bontà. Che si fa in quei momenti? Silvano del Monte Athos, un uomo dello Spirito

convertitosi da un’esperienza di peccato e ritiratosi all’Athos in penitenza, nel 1906 racconta questo suo incontro

con Dio: Quando mi apparvero i demoni, nella mia paura esclamai: “Signore, vedi che i demoni mi impediscono di

pregare. Dimmi tu cosa fare perché fuggano lontano da me”. E il Signore mi confidò: “I demoni non cessano di

tormentare le anime orgogliose”. Replicai: “Signore, illuminami: quali pensieri renderanno umile la mia anima?”.

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Percorso di approfondimento per catechisti - 2012-2013 Non così avete imparato a conoscere Cristo (Ef 4,20)

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Questa la risposta che ricevetti: “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!”. Da allora iniziai a fare così e

tutto il mio essere ha trovato pace in Dio. (Silvano dell’Athos, Non disperare, Qiqajon, 1988, p. 29)

Fratello, Se il tuo Signore è asceso in alto egli è pure disceso in basso, agli inferi. Se il tuo Signore ha preso l'ultimo posto tu non potrai mai rubarglielo. Se scenderai agli inferi, troverai il Signore se salirai nei cieli, egli ti attende. Da quel giorno, da quell'alba pasquale il Tabor e il Golgota sono un unico monte! Enzo Bianchi, priore di Bose

Per approfondire

E. BIANCHI, Acedia, Il rapporto deformato con lo spazio, S. Paolo, Milano, 2012. G. BUNGE, AKEDIA, La dottrina spirituale di Evagrio il Pontico sul’accidia, Abbazia di Praglia. 1992. Pagine web P. A. Sequeri, Accidia, il demone della notte, Avvenire del 6 luglio 2012

su: http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/vizicapitali4accidia.aspx

ANGELO DE DONATIS, L’accidia: il vizio nella vita spirituale e la lotta contro di esso

Su: http://www.gliscritti.it/approf/2006/conferenze/accidia01.htm

E. BIANCHI, Accidia (Articolo di Avvenire del 6 maggio 2007) http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_bianchi9.htm