PERCORSO DI STORIA LOCALE Lo squadrismo in Emilia ......Nel 1972, il giornalista televisivo Sergio...

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Lo sciopero dei braccianti e i fatti di Bologna Nell’estate del 1920, un lungo e durissimo sciopero agrario paralizzò le campagne dell’E- milia-Romagna. La posta in gioco era il rinnovo dei patti agrari, tra proprietari terrieri, da una parte, braccianti e mezzadri dall’altro. In Emilia-Romagna, l’organizzazione sin- dacale socialista Federterra, cui aderivano soprattutto i braccianti e i mezzadri più pove- ri, era una struttura potentissima, cosicché lo scontro con i proprietari divenne frontale. Già in aprile, a Decima di Persiceto, si erano verificati duri scontri tra braccianti e con- tadini, con otto morti sul campo; altri tre morti si ebbero a Portonovo di Medicina, in agosto, tra crumiri e scioperanti. A quell’epoca, i lavoratori in sciopero stavano lascian- do marcire interi raccolti nei campi, oppure raccoglievano solo la parte che spettava ai con- tadini, mentre abbandonavano al suo destino la parte padronale. Andarono persi un terzo della produzione di fieno, un quarto di quella dell’uva e un quinto di quella del grano. Alla fine d’ottobre, i proprietari cedettero e accettarono gran parte delle richieste del- la Federterra, in tema di mercato del lavoro (quantitativo minimo di braccianti che un proprietario terriero doveva assumere) di sa- lario e di orario di lavoro. Fu l’ultima vittoria del movimento socialista in Emilia-Romagna; subito dopo, infatti, iniziò la dura risposta degli agrari, che si al- learono allo squadrismo fascista. A Bologna, il movimento era sor- to nell’aprile del 1919, per opera di Leandro Arpinati, che però 1 Lo squadrismo in Emilia-Romagna UNITÀ 5 Lo squadrismo in Emilia-Romagna Leandro Arpinati fotografato alla guida di un’automobile mentre trasporta Benito Mussolini (seduto dietro a lui) a Bologna, fotografia del 1923. Braccianti e mezzadri Con il termine bracciante si intende un operaio non specializzato, solitamente assunto per svolgere lavori agricoli occa- sionali o stagionali. Il mezzadro invece è il coltivatore di un fondo che appartiene a un proprietario terriero: il suo compenso è costituito dalla divisione con il padrone del fondo dei prodotti e degli utili ricava- ti dalla coltivazione. le parole Scontro frontale tra padroni e sindacato socialista F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 PERCORSO DI STORIA LOCALE PERCORSO DI STORIA LOCALE PERCORSO DI STORIA LOCALE Riferimento storiografico pag. 7 1

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  • Lo sciopero dei braccianti e i fatti di Bologna Nell’estate del 1920, un lungo e durissimo sciopero agrario paralizzò le campagne dell’E-milia-Romagna. La posta in gioco era il rinnovo dei patti agrari, tra proprietari terrieri,da una parte, braccianti e mezzadri dall’altro. In Emilia-Romagna, l’organizzazione sin-dacale socialista Federterra, cui aderivano soprattutto i braccianti e i mezzadri più pove-ri, era una struttura potentissima, cosicché lo scontro con i proprietari divenne frontale.Già in aprile, a Decima di Persiceto, si erano verificati duri scontri tra braccianti e con-tadini, con otto morti sul campo; altri tre morti si ebbero a Portonovo di Medicina, inagosto, tra crumiri e scioperanti. A quell’epoca, i lavoratori in sciopero stavano lascian-do marcire interi raccolti nei campi, oppure raccoglievano solo la parte che spettava ai con-tadini, mentre abbandonavano al suo destino la parte padronale.Andarono persi un terzo della produzione di fieno, un quarto diquella dell’uva e un quinto di quella del grano. Alla fine d’ottobre,i proprietari cedettero e accettarono gran parte delle richieste del-la Federterra, in tema di mercato del lavoro (quantitativo minimodi braccianti che un proprietario terriero doveva assumere) di sa-lario e di orario di lavoro. Fu l’ultima vittoria del movimento socialista in Emilia-Romagna;subito dopo, infatti, iniziò la dura risposta degli agrari, che si al-learono allo squadrismo fascista. A Bologna, il movimento era sor-to nell’aprile del 1919, per opera di Leandro Arpinati, che però

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    Leandro Arpinatifotografato alla guida di un’automobilementre trasporta BenitoMussolini (seduto dietroa lui) a Bologna,fotografia del 1923.

    Braccianti e mezzadri Con il termine bracciante si intende unoperaio non specializzato, solitamenteassunto per svolgere lavori agricoli occa-sionali o stagionali. Il mezzadro invece èil coltivatore di un fondo che appartiene aun proprietario terriero: il suo compensoè costituito dalla divisione con il padronedel fondo dei prodotti e degli utili ricava-ti dalla coltivazione.

    le parole

    Scontro frontaletra padroni esindacato socialista

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  • riorganizzò il Fascio bolognese su basi nuove, decisamente più aggressive, a partire dal-l’ottobre 1920. «I fasci – si diceva nello statuto della nuova organizzazione – non predi-cano la violenza per la violenza, ma respingono ogni violenza passando al contrattacco».Al di là del tono ambiguo, indicava una chiara volontà di rivalsa e di riscossa, dopo dueanni di iniziativa socialista. Il primo gesto clamoroso dello squadrismo bolognese avven-ne il 4 novembre 1920: la Camera del Lavoro fu assalita e incendiata, mentre il ten-tativo socialista di organizzare una difesa armata della sede sindacale bolognese fallì mi-seramente. Assai più grave, sotto ogni punto di vista, l’episodio che si verificò il 21 no-vembre, in occasione dell’insediamento a Palazzo D’Accursio del nuovo sindaco socialistaEnnio Gnudi, vincitore delle elezioni amministrative (con 18 170 voti, contro i 7985 delBlocco nazionale, formato da liberali, destre e fascisti, e 4697 del Partito popolare). Tre giorni prima dell’insediamento della nuova giunta, sui muri di Bologna apparve un ma-nifesto minaccioso, dattiloscritto (poiché la questura non ne aveva autorizzato la stampa):«Domenica le donne e tutti coloro che amano la pace e la tranquillità restino a casa e, se vo-gliono… espongano dalle loro finestre il tricolore italiano. Per le strade di Bologna, dome-nica, debbono trovarsi, soli, i fascisti e i bolscevichi. Sarà la prova, la grande prova in nomed’Italia!». Il giorno della cerimonia, rafforzati da 27 squadristi ferraresi, circa 300 fascisti bo-lognesi irruppero in Piazza Maggiore. Quanto accadde a quel punto è oggetto di contro-versia e in gran parte confuso. Pare che un gruppo di guardie rosse del servizio d’ordine so-cialista abbia perso la testa e scagliato cinque bombe in piazza; nel caos che seguì, moriro-no 10 persone (tutte di sinistra): 7 furono uccise dai fascisti, 3 dalle guardie rosse, per erro-re. Intanto, anche all’interno del palazzo, il rumore delle esplosioni che proveniva dall’esternospaventò il servizio d’ordine socialista, che sparò contro i consiglieri dell’opposizione, uc-cidendo l’avvocato Giulio Giordani (del partito democratico-radicale) e ferendo Cesare Col-liva (dell’Associazione ex combattenti). A seguito di questi fatti, Gnudi e la nuova giuntarinunciarono all’insediamento: a essi subentrò un commissario prefettizio.Le ricostruzioni dei fatti del 21 novembre 1920 a Bologna divergono spesso in numerosiparticolari. Il senso complessivo della vicenda, invece, è fuori discussione: insieme all’in-cendio dell’Hotel Balkan, sede a Trieste delle associazioni slavofile (13 luglio 1920) si trat-ta dell’inizio dell’offensiva fascista su grande scala contro il movimento operaio.

    Risposta degli agrari

    Inizio dell’offensivafascista

    DOCUMENT IBologna 21 novembre 1920: un movimento di svolta

    Nel 1972, il giornalista televisivo Sergio Zavoli realizzò per la RAI il programma Nascita di unadittatura: un’approfondita inchiesta sulle ragioni che permisero al fascismo di sconfiggere il siste-ma parlamentare. In larga misura, il programma era basato su interviste rilasciate dai protagoni-sti, molti dei quali, a quel tempo, erano ancora in vita. Nella memoria di tutti gli intervistati, i co-siddetti fatti di Bologna segnano una svolta: l’inizio dell’offensiva del fascismo agrario contro il mo-vimento operaio.

    Alla fine del 1920, soprattutto in Emilia, gli agrari scoprono nel fascismo una nuova tu-tela politica: lo squadrismo sarà l’arma di cui, in molti, si serviranno per fermare il movi-mento contadino e riconquistare le posizioni perdute. I fatti del 21 novembre del 1920,a Bologna, segnano la svolta del fascismo. I socialisti, che hanno vinto ancora una voltale elezioni comunali, festeggiano l’insediamento del nuovo consiglio e del nuovo sindaco,il socialista Ennio Gnudi. La cerimonia si svolge a Palazzo D’Accursio. Sotto, la piazza ègremita.

    ARTURO COLOMBI, capolega socialista di Vergato, presso Bologna: – Io ero presente. Quelgiorno vi era l’inaugurazione, l’inizio del funzionamento del consiglio comunale, con la no-mina del sindaco. I fascisti avevano minacciato di dare l’assalto al palazzo comunale men-tre si teneva la seduta inaugurale.

    Era presente anche Giorgio Pini, direttore del giornale fascista “L’Assalto”: – Una folla im-mensa riempiva la piazza. Era una giornata di novembre, umida e grigia, e i fascisti si erano

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  • DOCUMENT Iriuniti nella loro sede di via Marsala 30, con l’impegno, che avevano preso col questore ve-nuto apposta in sede per raccomandare che non succedesse la fine del mondo, di nonuscire se non ci fossero state provocazioni. Fu detto allora che avrebbero messo in cimaalla torre Asinelli una bandiera rossa; allora i fascisti dichiararono che l’avrebbero conside-rata una provocazione: se fosse comparsa la bandiera, sarebbero usciti. Quindi, mentre sisvolgevano le cerimonie nella sala consiliare, con i discorsi, i controdiscorsi, le assunzionidi potere, un fascista si precipita in via Marsala, nella sede del Fascio a dire: «C’è la ban-diera rossa sulla torre Asinelli».

    ARTURO COLOMBI: – Mettere la bandiera rossa sulla torre Asinelli era una consuetudine,quando si insediava l’amministrazione comunale; e un gruppo di giovani socialisti innalzòquesta bandiera: fin dal mattino si era trovata sulla torre.

    GIORGIO PINI: – I fascisti uscirono e arrivarono alla torre; uno, un atleta, andò in un battiba-leno – non so come facesse – in cima alla torre, che è alta e ci vuole un po’ di tempo a salirla,e tolse la bandiera; poi, naturalmente, non pensarono di tornare in sede: andarono in piazza.

    ARTURO COLOMBI: – Separati da un forte contingente di guardie regie [la polizia di PubblicaSicurezza, n.d.r.], vi erano alcune centinaia di fascisti; non di più, alcune centinaia, diretti daLeandro Arpinati e da altri che diverranno poi famosi per la loro azione contro le masse la-voratrici. A un determinato momento, sul balcone si affacciava il sindaco con due bandiererosse e alcuni assessori; vennero lanciate delle colombe e il sindaco si apprestava a pren-dere la parola quando cominciarono gli spari; venivano dalla parte dove c’erano i fascisti eda altre parti della piazza.

    GIORGIO PINI: – Quelli della maggioranza che erano su, nella sala, sentendo questi sparipensarono che i fascisti fossero già arrivati sotto il palazzo comunale, mentre i fascisti eranoancora ammassati vicino a palazzo Re Enzo; erano cioè ancora distanti duecento, trecentometri. In mezzo, c’era la folla. Allora lanciarono delle bombe a mano giù dai finestroni dellasala consiliare che danno sulla piazza Maggiore. Conseguenza: otto dei loro sfracellati.

    ARTURO COLOMBI: – Ci fu un’esplosione di bombe, di non ben identificata provenienza; lasparatoria aveva provocato un panico generale. Le guardie regie caricarono furiosamentele masse, lasciando i fascisti, dopo averli difesi, fino allora, padroni della piazza. Sul selciatorimasero dieci morti e cinquantotto feriti.

    GIORGIO PINI: I carabinieri, di fronte a questa specie di caos in cui le parti opposte si eranoormai in un certo senso fuse, si misero ginocchia a terra, allo sbocco di via Indipendenza,e cominciarono a sparare verso la piazza. Chi piglia, piglia. Ma sparavano in aria, evidente-mente. Però, chi era presente non sapeva se sparavano in aria o in basso, e quindi tutti cor-sero dietro i portici e le colonne. Fu una scena strana, di cui non ci si rende conto perché,va bene, ci sono molte vie che sboccano in piazza Maggiore, ma in un battibaleno, in unciak, la piazza era completamente vuota. Era già freddo, c’era un clima autunnale, quasi in-vernale; allora usavano le capparelle, ma anche pastrani, cappelli, ombrelli, furono abban-donati, per fuggire più sciolti e senza impacci sulla piazza. La quale era nera, pareva chefosse piena di cadaveri stesi un po’ dappertutto. Cosa assurda, impossibile. Quella scenaveramente aveva qualcosa di apocalittico.

    ARTURO COLOMBI: È difficile descrivere che cosa avvenne. Certo è che il resoconto de “IlResto del Carlino” indica i fascisti aggressori, indica le circostanze in cui l’aggressione venneportata avanti e si richiama al parere della questura, delle autorità di polizia, le quali avevanoavallato quella versione. I fascisti intervennero con la forza presso la redazione de “Il Restodel Carlino”, fecero distruggere quell’edizione, ne fecero pubblicare un’altra che capovol-geva i fatti.

    Nel momento del panico, viene ucciso, in aula, un membro della minoranza, Giulio Gior-dani. L’episodio rimarrà oscuro. I fascisti accusano i socialisti dell’assassinio. È in nome diquesto morto che giustificheranno la reazione.

    S. ZAVOLI, Nascita di una dittatura, Mondadori, Milano 1983, pp. 85-89

    Nel momento in cui promisero al questore di non creare disordini, i fascisti bolognesi eranosinceri? Si può parlare di un assalto premeditato?

    Anche i socialisti mostrarono in quella occasione di essere dotati di armi. Che differenza noti tral’azione degli squadristi e quella dei militanti di sinistra?

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  • La riscossa degli agrari In Emilia-Romagna, un mese dopo i fatti di Bologna si verificò un altro grave episodioa Ferrara, ove i socialisti, alle elezioni municipali del 31 ottobre e 7 novembre 1920, ave-vano conquistato tutti i 21 comuni della provincia e il capoluogo. All’interno della città,il clima politico aveva iniziato a surriscaldarsi il 9 novembre, allorché i socialisti aveva-no cercato di ostacolare il corteo delle bandiere militari, di ritorno da Roma, ove era sta-to solennemente celebrato l’anniversario della vittoria. La situazione precipitò il 20 di-cembre 1920, allorché, per protestare contro gli avvenimenti bolognesi, vennero indet-ti dai socialisti uno sciopero e una manifestazione; davanti al Castello Estense, un mi-gliaio di fascisti (molti dei quali affluiti da altre località) cercò deliberatamente lo scon-tro coi dimostranti, dichiarando di voler strappare le bandiere rosse che sventolavano sulcastello stesso, sede dell’amministrazione provinciale socialista. Restarono uccisi tre fa-scisti e due socialisti. A partire da questo primo scontro, guidati da Italo Balbo, OlaoGaggioli e Alberto Montanari, i fascisti ferraresi si lanciarono in una serie di spedizio-ni, che portarono alla rapida destituzione di ben 17 consigli municipali (sui 21 inse-diati alle elezioni dell’autunno 1920). Sicuramente, l’azione delle squadre nel Ferrare-se fu facilitata ampiamente dall’ambiguo atteggiamento del prefetto, Samuele Pugliese,che nel periodo gennaio-maggio 1921 arrestò 22 fascisti e 110 socialisti; le denunce toc-carono invece 26 squadristi, e 79 rossi. Sotto questo profilo, i fascisti ebbero vita deci-

    samente più dura a Bologna, ove il prefet-to Cesare Mori ordinò l’arresto di 84 fascisti(e 52 socialisti) e la denuncia di 40 squa-dristi (contro 24 sovversivi). Nel 1921, l’azione dello squadrismo fu du-rissima in tutta l’Emilia. Nel piacentino,ad esempio, furono obbligate con la forzaalle dimissioni 22 su 25 delle giunte socia-liste elette nell’autunno 1920, mentre il fa-scismo trionfante vide aumentare senzasosta i propri iscritti: i 2626 iscritti (orga-nizzati in 12 fasci) del 1921, divennero7890 al 31 maggio dell’anno seguente e9650 (distribuiti in 38 fasci) al 31 dicem-bre dello stesso 1922. Nella primavera del 1922, Balbo lanciòun’ulteriore sfida, quella dell’occupazionedei centri urbani. Il 12-13 maggio, i fascistiguidarono a Ferrara un’imponente massa dimigliaia di lavoratori disoccupati; conqui-stati tutti i punti nevralgici della città, glisquadristi ordinarono al prefetto di stanziaredue milioni e mezzo di lire per lavori pub-blici da effettuare in provincia, al fine di li-mitare la disoccupazione. Il governo di

    Roma accettò completamente le richieste dei fascisti e rimosse il prefetto Gennaro Bla-dier, che aveva chiesto l’intervento dell’esercito, sostituendolo con Cesare Di Giovara, fa-vorevole ai fascisti. Due settimane dopo, la stessa situazione si ricreò a Bologna. Il prete-sto dell’azione fu la morte del caposquadrista Celestino Cavedoni, durante l’assalto not-turno a una cooperativa (25-26 maggio 1922). Per i fascisti bolognesi, quell’episodio fuun eccellente pretesto per chiedere al governo la rimozione del prefetto Mori, criticato perla sua intransigenza anche da molti liberali e dal “Corriere della Sera”. Questi esponentidella tradizionale classe dirigente, infatti, ritenevano che il fascismo fosse solo una salu-tare reazione agli eccessi dei socialisti; quasi tutti – a cominciare da Giolitti – pensavanodi poter controllare il fascismo, di addomesticarlo e di imbrigliarlo, una volta che avesse

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    La sede dellecooperative di Ravennadevastata dall’incendio

    appiccato dai fascisti.

    Conquista fascistadelle città

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  • svolto fino in fondo la sua funzione anti-sovversiva. Solo così si spiega che anche a Bo-logna (occupata in forze dai fascisti il 26 maggio 1922) il governo – guidato allora dal de-bole giolittiano Luigi Facta – abbia ceduto e accettato la rimozione di Mori, sostituito dalben più arrendevole Rossi, già viceprefetto di Genova. Nel luglio 1922, fu devastata la sede delle cooperative di Ravenna, situata in un presti-gioso palazzo appartenuto in passato al conte Cesare Rasponi. Si trattava di una sede mae-stosa, per un’associazione di massa (20 000 aderenti) che gestiva 7000 ettari di terreni e76 cooperative di lavoro o di consumo. La sua distruzione ebbe un fortissimo valore sim-bolico: era il segno della disfatta del movimento dei lavoratori in Emilia-Romagna, di fron-te all’offensiva del fascismo agrario.

    Contrasti interni al movimento fascista Nell’agosto 1923, venne ucciso don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, nel Ferrarese.Questo grave episodio mostra che le violenze delle squadre fasciste non si arrestarono nep-pure dopo la marcia su Roma e l’ascesa di Mussolini al governo (29 ottobre 1922). I vari capi locali (i cosiddetti ras, come Balbo a Ferrara, Farinacci a Cremona e BarbielliniAmidei a Piacenza) non accettavano ordini da Mussolini: certo, lo chiamavano «Duce» ene avevano accettato la leadership, così come erano consapevoli che solo lui aveva saputo darealle sparse iniziative dello squadrismo un pre-ciso orientamento politico, sfociato addirit-tura nella conquista del potere. Eppure, nonsi sentivano inferiori a lui. Questo fortissimo de-siderio di autonomia d’azione dei capi locali del fa-scismo ebbe importanti risvolti anche a livello sociale.Molti leader dello squadrismo, infatti, pur avendoaccettato l’alleanza con gli agrari, in funzione antisocia-lista, non avevano intenzione di essere semplicemente gli stru-menti (la guardia bianca, si diceva allora) della reazione padronale.In alternativa al modello socialista che avevano distrutto, essi nonvolevano il semplice ritorno al dominio incontrastato dei proprie-tari terrieri, ma un nuovo assetto sociale (una specie di terza via)basato sulla collaborazione delle diverse classi, in nome del supe-riore interesse nazionale. La composizione dei contrasti, però, non significava auto-maticamente – nelle loro intenzioni – il sistematico trionfodegli interessi padronali; il sindacato fascista, che aveva spaz-zato via le leghe socialiste, pretendeva di essere interpretedei bisogni popolari, a costo di entrare in contrasto coni proprietari terrieri e altri gruppi borghesi. A volte, que-sta scelta nasceva dal fatto che alcuni leader del nuovo mo-vimento provenivano dal sindacalismo rivoluzionario; in al-tri casi, la motivazione era di carattere politico, cioè nascevadalla volontà di dimostrare che la rivoluzione fascista non era sta-ta fatta per riconsegnare il potere ai vecchi dirigenti, bensì per crear-ne uno nuovo, emergente, perché legato all’esperienza della guerramondiale e/o dello squadrismo.A livello nazionale, incontriamo contrasti fra fascisti e borghesia a Car-rara (ove gli squadristi locali si schierarono dalla parte degli operai dellecave di marmo, impegnati in una durissima vertenza), a Brescia e in al-tre province lombarde, dove gli industriali che non volevano cedere alle ri-chieste del sindacato fascista furono minacciati. Questo fenomeno della «corsa al più rosso» (l’espressione è dello sto-rico Salvatore Lupo) preoccupò molto gli imprenditori, e di conse-

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    Disfatta completadei socialisti

    Autonomia dei ras fascisti

    Italo Balbo, ras di Ferrara, in unafotografia del 1921.

  • guenza anche Mussolini, il quale temendo di perdere il sostegno dei moderati si sforzòcon vari mezzi di normalizzare lo squadrismo. A Ferrara, Balbo fu tra i primi a comprendere che l’estremismo aveva fatto il suotempo; pertanto, affidò la guida della città a Renzo Ravenna, che avrebbe ricoperto ilruolo di podestà dal 1926 al 1938. Amico personale e fedelissimo di Balbo, Ravenna siera però tenuto lontano dalle violenze squadriste e si era iscritto al PNF solo nel 1924; po-liticamente affidabile, ma anche competente come amministratore, era l’uomo adatto arassicurare i moderati sul nuovo corso che il fascismo stava assumendo. Tuttavia, essendoebreo, dovrà dimettersi nel 1938, a seguito delle leggi razziali. A Bologna, invece, si registrò un durissimo scontro. Qui troviamo il gruppo fascista guidatoda Gino Baroncini, che nel 1922 diede vita a un sindacato e con gli agrari stipulò un accor-do, che per i lavoratori era assai meno vantaggioso di quello ottenuto dopo il lungo scioperodel 1920. Molti proprietari terrieri, tuttavia, giudicarono il nuovo contratto un gesto puramenteformale, e ritennero che, nella pratica, essi non erano tenuti a rispettarlo. Dopo l’esperienzadello squadrismo agrario e, ancor più, dopo la marcia su Roma, si consideravano di nuovo pa-droni della situazione e, liberi di assumere o licenziare a piacimento, sciolti da ogni impegnorelativo al salario da corrispondere ai braccianti. Baroncini e i suoi sindacalisti, al contrario, vo-levano che il nuovo accordo avesse valore vincolante anche per gli agrari; oltre tutto, questi fa-scisti erano consapevoli della fragilità della loro posizione, minacciata dalla presenza di isole ros-se che non volevano piegarsi al nuovo assetto politico sociale: basti pensare all’ostinazione deicontadini di Molinella, disposti a patire la fame, pur di non entrare nei sindacati fascisti, cheessi accusavano di essere fasulli e incapaci di difendere gli interessi dei lavoratori. I contadinidi Molinella furono sconfitti solo nel 1926, allorché circa 200 famiglie di irriducibili furonoallontanate a forza e sostituite con coloni provenienti dal Ferrarese e dal Veneto.A Bologna, Baroncini fu infine messo in minoranza da un’offensiva congiunta di al-tri due capi del fascismo locale, Leandro Arpinati e Dino Grandi, che godevano delsostegno del governo centrale. Mussolini, infatti, stava compiendo ogni sforzo perconcentrare tutto il potere nelle sue mani, privando il partito e i capi locali di ogni au-tonomia e capacità di iniziativa.

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    Dino Grandi durante un comizio nel 1922.

    Di umili origini, fece unabrillante carriera politica

    riuscendo a diventare prima

    deputato, poi ministro e ambasciatore a Londra.

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    Donne di un paeseemiliano in posa davantia una bandierasocialista. All’iniziodegli anni Venti delNovecento, la forza del movimentosocialista in Emilia era notevole.

    R i fe r i me n t i s t o r i o g r af i c iLo scontro sociale nelle campagne emiliane

    All’inizio del Novecento, nelle campagne dell’Emilia il quadro complessivo è notevolmente miglio-rato rispetto al secolo precedente. Le tensioni sociali, però, erano altissime tra braccianti e proprieta-ri terrieri, mentre i mezzadri erano schierati su posizioni diversificate. In tutte le aree rurali, la lega so-cialista occupava un ruolo importantissimo.

    Nel 1919, Mussolini pensava che i Fasci non avrebbero potuto sorgere che nelle città;verso la fine del 1920 gli agrari scoprono il fascismo, lo adottano, lo improntano del loro spi-rito. Tutti i loro rancori e i loro furori vi sono immessi: «Nell’anima dell’agrario e del conta-dino arricchito – si è notato [da parte di Pietro Nenni, n.d.r.] – l’odio, questo sentimento ata-vico di diffidenza verso chiunque aspiri a una nuova ripartizione della terra, si risveglia. Ilnemico è oggi il salariato organizzato, come ieri era il vagabondo. Contro di lui tutto divienelegittimo». Già in talune località gli agrari avevano costituito dei gruppi di combattimento, lecui tradizioni e l’esempio non sono senza influenza sui Fasci nascenti. Il conflitto raggiungeben presto un’asprezza estrema. È come un’ordalia barbara, che conclude vent’anni di lotte;dopo un tal giudizio di Dio, il vincitore si annette il vinto, corpo e beni.

    La pianura del Po, dove si produsse l’urto, è una regione a coltura intensiva e ad altis-simo rendimento. Da secoli, le terre vi sono strappate alle acque stagnanti, ai canneti, allamalaria. Questo sforzo ammirevole si intensifica, verso la fine del XIX secolo, grazie ai nuoviprocessi tecnici, ai capitali accumulati dai singoli, al credito dello stato, alle nuove condizionidel mercato interno. Si drenano le acque, terre grasse e fertili emergono; sorgono le strade,le case, le piantagioni. La produzione per ettaro è molto elevata: 17 quintali di grano controi 10 di media del regno, e, nelle terre ricostrutte, si arriva fino ai 25 e 30, a volte anche più.Altre colture si diffondono largamente: la canapa e soprattutto la barbabietola, a cui sono ga-rantiti alti profitti grazie alla protezione doganale sullo zucchero. L’economia rurale e l’attivitàindustriale che da queste dipendono danno così un reddito considerevole: i proprietari da unlato e i lavoratori dall’altro cercano di accaparrarne il più possibile. Ma mentre per quelli non

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    si tratta che di profitti, per questi è una questione di vita o di morte. La popolazione è so-vrabbondante e non vuole emigrare; dopo la guerra non lo potrà. Bisogna dunque trovaredel lavoro sul posto e, poiché nessuno riesce ad impiegarsi in media che per 120 o 130 giornil’anno, bisogna che i salari siano assai elevati per permettere di non morire di fame il restodell’anno. Attraverso lotte memorabili, che si rinnovano frequentemente alla vigilia del raccolto,e che durano a volte dei mesi, le organizzazioni operaie hanno ottenuto che l’assunzione dellamanodopera passi per l’ufficio sindacale di collocamento. Altre clausole sul numero degli ope-rai agricoli da impiegare per ettaro, sulla gestione delle trebbiatrici, sullo scambio diretto deiservizi fra fattorie, rispondono alle stesse preoccupazioni. […]

    Da parte degli operai [i braccianti agricoli, n.d.r.], il sistema non si regge che grazie aduna grandissima disciplina, cioè al monopolio della mano d’opera. Questa integrazione diregole molto precise, minuziosamente stabilite e controllare, che ricordano quelle delle an-tiche corporazioni, e di una cultura altamente progressiva non è la minore singolarità di que-sta vasta regione. Chi non passa attraverso la lega contadina e, accettando un salario piùbasso, lavora tutto l’anno, riduce la porzione vitale degli altri, che lo vessano senza pietà. Ilgiallo [dispregiativo per indicare il lavoratore che non sottostà alle indicazioni imperative delsindacato rosso, n.d.r.] è boicottato; il fornaio gli deve rifiutare il pane; egli è trattato comeun lebbroso, come pure sua moglie e i suoi bambini: intorno a lui si fa il vuoto, sicché eglideve piegarsi o abbandonare il paese. Multe e taglie sono imposte ai proprietari che l’hannoimpiegato e che hanno violato il contratto di lavoro. Il sistema, per funzionare, deve esseretotalitario, perché ogni breccia che si apre può ridurre gli altri lavoratori alla fame. Si diffidaallo stesso tempo della piccola proprietà, e ci si sforza di impedirne lo sviluppo. Non si trattapunto [affatto, n.d.r.] di un pregiudizio teorico: la piccola proprietà si sottrae in parte all’im-ponibile della mano d’opera, poiché il piccolo contadino o il fittavolo, e le loro famiglie nonseguono la giornata legale e non lasciano che poco margine ai turni di lavoro per i salariati.Il grande sviluppo dell’economia e della tecnica rurale in questa pianura la fanno più adatta,del resto, alla grande impresa, in cui il contratto di lavoro si applica in pieno, e meglio puòcontrollarsi. Dopo la guerra, […] la Federazione dei lavoratori della terra indice lunghi scio-peri e forza fittavoli e mezzadri a parteciparvi: questi sono autorizzati a falciare la metà delraccolto, quella che spetta loro, ma devono lasciare nei campi l’altra metà, la parte del pro-prietario. Quale che possa essere la necessità e la validità di una tale tattica, lo spettacolodi ricchezze considerevoli abbandonate e a volte perdute ferisce nel fondo dell’anima il con-tadino nel suo amore per la terra, che fa esitare a volte anche il semplice salariato. L’opi-nione pubblica accetta male queste forme di lotta, di cui non vede lo scopo, e che gli inte-ressati stessi seguono sì con disciplina, ma non senza una certa cattiva coscienza. […]

    Sui 280 Comuni dell’Emilia, 223 sono in mano dei socialisti. Gli agrari che vivono in cittào in campagna, i loro figli, i loro amici, i loro fornitori e i loro clienti serrano i pugni di frontealla onnipotenza dei sindacati operai. Le carriere onorifiche pubbliche sono chiuse quasicompletamente a tutta la borghesia rurale ed anche alla piccola borghesia, se non sono in-quadrate nelle organizzazioni socialiste. Il proprietario agrario era stato per lunghi anni il pa-drone assoluto del paese, il capo del Comune, il dirigente di tutte le istituzioni pubbliche lo-cali e provinciali. È eliminato dappertutto. In campagna deve fare i conti con la lega e conl’ufficio di collocamento; sul mercato, con la cooperativa socialista che fissa i prezzi; nel Co-mune, con la lista rossa, che passa con maggioranza schiacciante. Non più profitti, onori,potere, né per lui né pei suoi figli. Un odio profondo si accumula, aspettando il momento disfogarsi. Certe Camere del lavoro, come quelle di Bologna, di Reggio Emilia, di Ravenna,controllano quasi tutta la vita economica della loro provincia. […] È per questo che il loro odioè diretto soprattutto contro le realizzazioni ammirevoli che l’organizzazione operaia crea efa progredire in tutti i campi. «Vedi – diceva un grande proprietario terriero della provincia diRavenna – non abbiamo mica paura di Bombacci [dirigente socialista massimalista, che pro-metteva di fare la rivoluzione, n.d.r.]; è Baldini che ci fa paura, perché colla sua Federazionedelle cooperative, ci fa sostituire dappertutto». Ecco perché la violenza fascista si è eserci-tata soprattutto contro le istituzioni create dal socialismo riformista. Queste istituzioni, svi-luppandosi, e collegandosi fra loro, assorbono a poco a poco nel loro ambito tutta la vitapolitica ed economica della regione. Le vecchie caste, davanti a questa crescita dellanuova struttura sociale, si sentono minacciate di asfissia.

    A. TASCA, Nascita e avvento del fascismo, Laterza, Bari 1965, pp. 152-157

    Per quale motivo, per i braccianti, il controllo del mercato del lavoro era una questione di vitaleimportanza?

    Spiega l’espressione «il sistema, per funzionare, deve essere totalitario», riferitaall’organizzazione sindacale socialista.

    Per quale motivo i borghesi odiavano più i socialisti riformisti degli estremisti rivoluzionari?

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  • Lo squadrismo a Ferrara A Ferrara, il fascismo squadrista fu guidato e dominato dalla figura di Italo Balbo. I contemporanei

    furono colpiti soprattutto dall’efficienza militare delle squadre ferraresi e dal numero elevato dei suoimilitanti. Molti di essi, probabilmente, provenivano dalle file di coloro che, prima della guerra, avevanomilitato nel sindacalismo rivoluzionario.

    I primi giorni del 1921 videro le organizzazioni fasciste diffondersi a macchia d’olio in tuttala provincia; entro il gennaio di quell’anno videro la luce i fasci di Masi Torello, Bondeno,Cento, Marrara, Baura, Jolanda di Savoia ed entro la primavera successiva si ebbe la to-tale copertura del territorio estense. Nacque anche il giornale del fascismo ferrarese, “Il Ba-lilla”, che già vedeva Balbo tra i propri redattori. […] Di seguito ci fu l’avvento dello squadrismomilitare in tutta la provincia: a febbraio i fascisti iniziavano la distruzione metodica delle sedisocialiste del comune di Ferrara. A marzo le colonne motorizzate delle camicie nere inizia-rono ad operare anche nei comuni più lontani, fino a Cento da un lato e a Ostellato e Co-macchio dall’altro; anche il Polesine entrò, nelle stesse settimane, nella sfera d’azione deiferraresi, così come la Bassa Bolognese. Il salto di qualità nell’uso della violenza fu talmenteimprovviso e repentino da lasciare senza immediate contromisure la controparte socialistae la neonata federazione comunista ferrarese. Persino i popolari, che comunque avevanostigmatizzato a più riprese la violenza dei capilega, si trovarono interdetti di fronte a questoinnalzamento nel livello dello scontro politico, come ben si vede in vari articoli de “La Do-menica dell’Operaio” [il settimanale della diocesi ferrarese, n.d.r.].

    Balbo introdusse un modello di uso della forza, che sino ad allora non aveva avuto pre-cedenti nella storia politica del paese, e che non può prescindere dalle conoscenze tattichee strategiche sperimentate come assaltatore alpino: azioni brevi e fulminee, ma nello stessotempo organizzate alla perfezione; disciplina militare nell’organizzazione delle squadre,composte da uomini avvezzi all’uso delle armi e capaci di insegnarne, quanto meno i rudi-menti, ai nuovi adepti; uso dei mezzi di trasporto (i camion 18BL) come elemento determi-nante per spostare le squadre in punti diversi della provincia. […] Se da un lato l’azione squa-drista era possibile grazie ai munifici finanziamenti dell’agraria ferrarese, dall’altro poteva averesviluppo solo grazie alle doti organizzative e alla spregiudicatezza di Balbo, il quale alla finedel 1921 aveva fatto piazza pulita degli oppositori interni, forse ancora illusi dalle velleità ri-voluzionarie del movimento di Benito Mussolini.

    Chiarito il ruolo decisivo del ras di Quartesana [frazione di Ferrara, in cui Balbo nacquenel 1896, n.d.r.], resta da affrontare un’altra zona rimasta fuori dall’indagine storica, ossiala composizione sociale degli squadristi ed il loro numero complessivo nel biennio 1921-22.Degli squadristi veri e propri, si badi bene, ossia non dei simpatizzantie militanti del movimento fascista, ma di coloro che agirono manumilitari contro le organizzazioni dei contadini e dei lavoratori e suc-cessivamente contro le amministrazioni locali in mano alle forze so-cialiste e comuniste. Purtroppo anche questo argomento apparetrascurato; se per la Toscana, così come per la Lombardia e ilPiemonte, in diversi momenti sono stati effettuati approfondi-menti sul tema (ben raccolti ed evidenziati nella recenteopera di insieme di Mimmo Franzinelli), di Ferrara, a parte gliinquadramenti di massima (sottoproletariato contadino edesponenti della borghesia cittadina) poco èstato detto; quantomeno per giustificare ilnumero degli squadristi attivi, che, secondole testimonianze e le narrazioni dell’epoca,erano diverse centinaia, capaci di operarecon metodica ferocia in Romagna(nel 1922) così come nel Modenese onella Bassa Bolognese. Ferrara, in-somma, aveva una massa squadristadi manovra, disciplinata, organizzatae soprattutto numerosa quando al-trove il movimento fascista tardavaad imporre le sue regole. […]

    Oggi occorre guardare con oc-chio più disincantato la vicenda dellosquadrismo estense: la particolareconsistenza numerica della più radi-

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    Una squadra d’azionefascista emiliana,fotografia del 1920.

  • cale e violenta espressione del movimento mussoliniano in quella che era stata la provinciapiù rossa dell’Emilia, forse è da cercare fra i cascami del socialismo radicale e anarcosin-dacalista, che a piene mani era stato inculcato ai braccianti ferraresi. Qualcuno (pochi in-vero) fra i più accorti responsabili del socialismo italiano, si era già accorto in tempo realedi questa infausta filiazione dell’estremismo politico che aveva portato alcuni capi e diversigregari dall’altra parte della barricata. Valgano per tutti le acute considerazioni di ArgentinaAltobelli, segretaria nazionale della Federterra, all’inizio del 1922: «… Io ti conosco, fascistadal berretto nero con l’insegna della morte, che terrorizzi i poveri lavoratori; sei nato nell’ampiapianura del Ferrarese, che confina col Polesine ove crescono i canneti e vivono le rane; an-che tu, in un giorno d’entusiasmo… entrasti nella lega che univa tutti gli sfruttati in uno sforzocollettivo di difesa dei loro corpi e di rivendicazione delle loro anime maciullate dalla schia-vitù… Tu però non eri mai contento delle nostre conquiste, eri la perenne protesta, eri la vocesobillante nelle assemblee, che non sperava nella lenta e continuata assunzione dei lavo-ratori attraverso l’organizzazione economica e politica. Reclamavi l’azione diretta e la rivo-luzione immediata… Sei divenuto fascista perché non vuoi più lottare per i piccoli migliora-menti. La rivoluzione non ti ha dato il posto di dittatore che volevi; allora ti sei preso quellodi tiranno della reazione…».

    In questo ritratto contemporaneo dello squadrismo c’è veramente qualcosa di più cheun esercizio di retorica […]. Gli squadristi erano in buona parte questi giovani, poi intossi-cati dall’uso delle armi e della violenza non solo verbale, ma fisica, nel corso della guerra1915-18, e imbevuti di una caricatura del socialismo rivoluzionario (quello ben descritto dallaAltobelli) che nella provincia di Ferrara si distingueva per le prepotenze contro chi, fatico-samente, aveva raggiunto posizioni sociali migliori.

    A. ROSSI, Dalla violenza politica alla politica della violenza. L’avvento dello squadrismo a Ferrara (1919-1922), in AA.VV., Fascismo e antifascismo nella Valle Padana, CLUEB, Bologna 2007, pp. 34-38

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    Che ruolo svolse la guerra appenaconclusa, nellosviluppo dellosquadrismo ferrarese?

    Quali soggetti politici,in precedenza spostatia sinistra, passaronorapidamente al fascismo?

    L’occupazione dei centri urbani La strategia di occupare in forze le città fu lanciata da Italo Balbo nel 1922, al fine di mettere il go-

    verno e le autorità centrali dello Stato di fronte a una serie di fatti compiuti. I fascisti volevano dimo-strare che, in intere zone del Paese, le uniche autorità erano loro: i prefetti e le forze dell’ordine dove-vano obbedire alle squadre d’azione e ai loro capi. Da parte dello Stato, però, ci fu una vera abdicazio-ne di potere, una rinuncia allo scontro col fascismo, nell’illusione di poter controllare Mussolini e il suomovimento, una volta che avessero svolto il loro ruolo di combattenti, capaci di riportare al loro postosocialisti e lavoratori.

    Pioniere della nuova fase proiettata verso i centri urbani fu Italo Balbo, promotore e duce,il 12-13 maggio, della marcia su Ferrara: straordinaria sfilata di circa quarantamila disoccu-pati, irreggimentati dagli squadristi e condotti all’occupazione della città con un programmaassistenzialista – l’ottenimento di stanziamenti governativi per la realizzazione di cospicueopere pubbliche – agitato sino all’anno precedente dai socialisti. La partecipazione totalita-ria degli iscritti al PNF e ai sindacati fascisti fu ottenuta minacciando l’espulsione degli assenti;le masse contadine furono mobilitate con sistemi spicci, descritti in prosa colorita nella let-tera di un popolano filosocialista a un amico costretto da un bando a lasciare la città:

    «I fascisti agrari radunarono in tutti i loro Sindacati, con quei mezzi che li distinguono, glioperai; e li avvertirono che si tenessero pronti per partire la notte stessa [dell’11 maggio].Chi manca, si disse, verrà escluso da ogni lavoro agricolo. Chi manca è un traditore; ed ilDirettore del Fascio declina ogni responsabilità di quanto potrà accadere. Infatti tutti gli schia-visti erano stati mobilitati per organizzare la partenza che, in tutti i paesi della provincia, av-venne nella notte stessa. Alle ore 12 del giorno 12, i fascisti erano i padroni assoluti dellacittà. L’autorità sia per impotenza, sia per la sorpresa del movimento (cosa che escludo) siaper connivenza col fascismo aveva fatto dedizione di [aveva ceduto, n.d.r.] ogni suo potere.Gli operai inquadrati venivano portati a centinaia davanti al Castello e li fecero sdraiare tuttiintorno. I capi dello schiavismo, con la rivoltella in pugno, gli gridavano: “Chi si muove èmorto”. Mentre gli schiavisti inscenavano una dimostrazione in Prefettura a base di urli, difischi, di minacce; dimostrazione che sempre più si manifestava con propositi di violenza.Per uscire dalla Città occorreva il lasciapassare dei fascisti, che alle porte avevano persinosostituito le guardie daziarie. Tutt’intorno alla Città vi erano gli accampamenti degli schiavi,i quali erano divisi per gruppi ed ognuno di questi aveva il loro responsabile delle possibilidiserzioni. Per consumare il rancio, che veniva loro portato dai propri paesi, gli veniva datoil cambio sostituendo l’assedio al Castello con altri schiavi.

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    Fascisti occupano unmunicipio, fotografiadegli anni Venti del Novecento.

    Gli schiavisti facevano aperta mostra delle loro armi e, forse trasgredendo alla consegna,delle guardie regie, stanche di essere derise ed insultate, ne disarmarono uno. Apriti cielo.Tutti gli furono intorno con le rivoltelle puntate, ed allora lo rilasciarono allontanandosi a suondi fischi, di urli e di minacce. Il giorno 13 mandano mezzi di trasporto in tutti i paesi della pro-vincia ed obbligano ogni cittadino di andare a Ferrara per prendere parte alla dimostrazione,perché essi affermavano che il governo deve dare tutto ciò che vogliamo, diversamente fac-ciamo strage. La dimostrazione ostile al Prefetto assunse carattere sempre più minaccioso.Camion di squadristi girano intorno al Castello trascinando dietro di loro delle latte vuote cheproducono un rumore infernale».

    Non si trattò affatto di una pacifica dimostrazione in favore dei diseredati: come ha rilevatouno studioso del fascismo ferrarese [P.R. Corner, n.d.r.], «l’operazione fu organizzata con unaprecisione militare tipica del giovane ras, i cavi telefonici furono tagliati; le porte della città po-ste sotto controllo delle squadre specialmente designate all’uopo [allo scopo, n.d.r.]; rifornimentidi cibo e bevande assicurati a tutti coloro che prendevano parte all’occupazione». Presidentee vicepresidente dell’Associazione agraria, il dottor Vico Mantovani e il cavalier Amedeo Baruffa,contribuirono alla riuscita dell’iniziativa. […] Impossessatosi della città, Balbo concesse al pre-fetto 48 ore per l’accettazione delle condizioni imposte dagli scioperanti, ovvero lo stanziamentodi due milioni e mezzo di lire per lavori pubblici da eseguirsi nella provincia. Lo scoppio di duebombe al municipio e al tribunale dimostrò la gravità della situazione. […]

    Alla mobilitazione ferrarese seguì – dopo un paio di settimane – una nuova grandiosaadunata, culminata nell’occupazione militare di Bologna. L’iniziativa fu importante per al-meno due ordini di motivi: il rilievo strategico del capoluogo emiliano e la lotta condotta aquel prefetto, considerato dai fascisti un nemico giurato. […] Cesare Mori, accusato di fi-losocialismo, si trovò assediato nel palazzo della prefettura e assoggettato al boicottaggio;su ordine dei fascisti nessuno più, fra gli esponenti della politica e dell’economia, volle averea che fare con lui. Dirigenti liberali e popo-lari, esponenti delle associazioni dei com-mercianti e degli industriali lo disconob-bero; il quotidiano cittadino “Il Resto delCarlino” (diretto da Nello Quilici, iscritto alPNF e grande amico di Balbo) soffiò sulfuoco delle polemiche. L’ispettore inviatodal governo per riferire sulla situazione rilevòche gli squadristi «bivaccarono per tre giornisulla piazza prospiciente la prefettura, vo-ciando contumelie, gettando castagnolenello stesso ufficio del prefetto e giungendoal punto oltraggioso di porsi in rango aturno per andare a spandere acqua all’in-gresso della prefettura». […] Il governo sitrovò dinanzi a un bivio: sostenere il prefettoe rispondere adeguatamente alla sfida deiviolenti, oppure dare soddisfazione ai con-testatori e rimuovere il funzionario. Il ten-tennante Facta [presidente del Consiglio,n.d.r.] ricercò una via di mezzo e il 1o lugliochiamò Mori a Roma «per consultazioni» einviò a Bologna quale reggente il vicepre-fetto di Genova, Rossi, gradito ai fascisti.Mussolini, soddisfatto del provvedimento,pose fine all’assedio e l’indomani i diecimilasquadristi si ritirarono dalla città.

    M. FRANZINELLI, Squadristi. Protagonisti e tecnichedella violenza fascista 1919-1922, Mondadori,

    Milano 2004, pp. 147-151

    Perché i socialisti chiamavano i fascisti«schiavisti» e «capi dello schiavismo»?

    Quale atteggiamento teneva il prefetto di Bologna, verso gli squadristi?

    Quale atteggiamento tenne il governo, difronte alle clamorose azioni di Italo Balbo?

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