Percorsi locali di riforma del welfare e integrazione ... · Parte I Ricomporre il vaso infranto....

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1 CNEL Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro Roma, 6. 05. 2010 WWELL Welfare, Work, Enterprise, Lifelong Learning; Dipartimento di Sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano SEMPER Seminario permanente sulle politiche sociali, formative e l’empowerment del cittadino; Dipartimento DIeS, Università La Sapienza, Roma Percorsi locali di riforma del welfare e integrazione delle politiche sociali Report di ricerca

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CNEL Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro

Roma, 6. 05. 2010

WWELL Welfare, Work, Enterprise, Lifelong

Learning; Dipartimento di Sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore,

Milano

SEMPER Seminario permanente sulle politiche

sociali, formative e l’empowerment del cittadino; Dipartimento DIeS, Università

La Sapienza, Roma

Percorsi locali di riforma del welfare e integrazione delle politiche sociali

Report di ricerca

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Indice 1. INTRODUZIONE La riforma territoriale del welfare e l’integrazione delle politiche sociali in Italia: direttrici europee e specificità regionali di Andrea Ciarini e Rosangela Lodigiani 1.1. Le nuove parole del welfare: attivazione, rescaling, governance 1.2. Finalità e metodi della ricerca: i “laboratori” dell’integrazione 1.3. Il quadro di riferimento: la nuova assistenza sociale in Italia dopo le riforme degli anni Duemila

Parte I

Ricomporre il vaso infranto. L’esperienza milanese nello scenario lombardo

2. Il workfare lombardo, tra famiglia e sussidiarietà di Rosangela Lodigiani ed Egidio Riva 2.1. Il quadro di riferimento 2.2. L’architettura istituzionale e il sistema di governance del sistema di politiche sociali e socio-sanitarie 2.3. Le politiche per la famiglia, per i minori, per la conciliazione 2.4. Il sistema lombardo di istruzione, formazione, lavoro 2.5. Le politiche per il contrasto alla povertà e per l’inclusione sociale dei soggetti svantaggiati 2.6. Alcuni spunti di riflessione: ricomporre il vaso infranto 3. Il “modello Milano” di Rosangela Lodigiani ed Egidio Riva 3.1. Premessa. I principi cardine del welfare milanese 3.2. Il processo di riorganizzazione dei servizi sociali: le principali linee guida 3.3. Il sistema della governance e i suoi nodi 3.4. Le aree di programmazione

3.4.1 Area Minori e Famiglia 3.4.3 Area Adulti in Difficoltà

3.5 Il modello Milano 3.5.1. Gli elementi innovativi 3.5.2. Gli spazi per la ricerca-azione

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Parte II L’esperienza aretina nello scenario toscano

4. Il Modello Toscana tra partecipazione e diritti di cittadinanza 4.1 La governance regionale del welfare. Il Sistema integrato di interventi e servizi per

la tutela dei diritti di cittadinanza sociale. 4.2 Il ruolo e la partecipazione degli enti locali e dei soggetti del terzo settore nel

processo di programmazione. 4.3 Un quadro generale del sistema dei servizi all’infanzia in Toscana

4.3.1 Il quadro della programmazione 4.3.2 La situazione attuale dell’offerta e della copertura dei servizi

4.4 Assistenza socio-sanitaria e politiche per l’infanzia. Due modelli alternativi? 4.5. Le politiche di conciliazione vita-lavoro 4.6 Il sistema regionale toscano per le politiche dell’impiego e le politiche attive del lavoro.

4.6.1 Le politiche attive del lavoro in favore delle donne nella regione Toscana 4.6.2 L’impatto della crisi sulla regolazione delle politiche.

5. Il sistema di governance delle politiche sociali e socio-sanitarie della Zona

Aretina di Maria Concetta Ambra 5.1 La programmazione “integrata” e “partecipata” delle politiche socio-sanitarie. 5.1.1 La programmazione delle politiche sociali: il Piano Sociale di Zona 2002

5.1.2 I nuovi attori della programmazione partecipata e della gestione integrata delle politiche socio-sanitarie 5.1.3 La riforma del sistema di governance delle politiche socio-sanitarie:

l’introduzione del Piano Integrato di Salute 2007 5.2 Verso un welfare comunitario

5.2.1 Le politiche di contrasto alla povertà e per l’inclusione sociale dei soggetti deboli

5.2.2Le politiche di orientamento, formazione e lavoro 5.2.3 Le politiche per le famiglie, i minori e la conciliazione dei tempi di cura-vita-

lavoro 5.2.4 Il progetto “Una persona di fiducia in famiglia”: un esempio di integrazione tra

le politiche 5. 3 Alcune riflessioni conclusive

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Parte III Ripartire con un sistema di servizi alla persona

L’esperienza di Lamezia Terme nello scenario calabrese 6. La Calabria. Resistenze al cambiamento e tentativi di innovazione del welfare

locale di Caterina Cortese 6.1 Uno sguardo al passato 6.2. Il sistema di governance delle politiche di welfare 6.3. La programmazione sociale e il nuovo Piano Regionale degli interventi e dei servizi

sociali 6.3.1. Gli orientamenti di fondo del PSR e le Indicazioni operative

6.4. La programmazione in materia di lavoro e la bozza del Piano per l’Occupazione 6.5. Osservazioni conclusive 7. Il sistema di governance nella programmazione sociale del Distretto lametino di Caterina Cortese Premessa 7.1. La programmazione delle politiche sociali (famiglia, minori, povertà) 7.2. La progettazione nell’offerta dei servizi socio-assistenziali 7.3. La programmazione delle politiche del lavoro e per le pari opportunità 7.4. Considerazioni conclusive 8. Conclusioni Le sfide della riforma territoriale del welfare e dell’integrazione tra le politiche di Rosangela Lodigiani e Andrea Ciarini 8.1 Linee di confronto tra Lombardia, Toscana e Calabria 8.2 Ragioni e pratiche della differenziazione regionale 8.3 Buone pratiche locali e innovazione istituzionale 8.4. I nodi da sciogliere, le strategie progettuali

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1. Introduzione. La riforma territoriale del welfare e l’integrazione delle politiche

sociali in Italia: direttrici europee e specificità regionali1

1. 1. Le nuove parole del welfare: attivazione, rescaling, governance I Paesi europei, Italia compresa, si sono trovati in questi anni ad affrontare importanti cicli di riforme del welfare, necessarie per affrontare sia una crisi di legittimazione culturale del welfare stesso come istituzione, sia vincoli di bilancio sempre più pesanti e restrittivi, sia – più rilevante ancora – i mutamenti della domanda sociale, l’emergere di nuovi rischi e di nuovi bisogni. Nel quadro di tale disegno riformatore, accanto al sistema delle assicurazioni sociali (il cosiddetto welfare assicurativo-previdenziale) si assiste allo sviluppo di prestazioni sociali assistenziali, calibrate non solo sulla figura del lavoratore salariato (occupato stabilmente), ma più in generale sul cittadino utente che usufruisce di servizi sul territorio secondo una logica di cittadinanza piuttosto che di collocazione professionale. Peraltro, se in precedenza la questione sociale consisteva nella mancanza di reddito e nell’esclusione di una parte, ancorché minoritaria, di popolazione dal lavoro, in questi anni è stata la stessa categoria di rischio sociale a modificarsi radicalmente (Rosanvallon, 1994; Castel, 1995). I suoi profili, infatti, non sono oggi direttamente riconducibili alla posizione lavorativa o alla sola mancanza di reddito, ma si caratterizzano per la compresenza di problematiche che attengono all’instabilità lavorativa, alle difficoltà finanziarie, ai bisogni di cura, al sostegno alla famiglia, all’integrazione e all’inclusione sociale dei soggetti vulnerabili (Ranci, 2001; Gori, 2001). Di qui, l’esigenza di promuovere l’integrazione tra le diverse aree di policies, in particolare tra le politiche sociali, del lavoro, occupazionali, formative e fiscali, in un connubio tra misure attive e passive. Ma, l’esigenza di integrare gli ambiti di intervento (già nella fase di programmazione) è pressante anche tra le stesse politiche sociali. La diffusione della vulnerabilità sociale e la trasformazione dei rischi e dei bisogni sociali, che si intrecciano all’individualizzazione dei corsi di vita, richiedono una destandardizzazione dei dispostivi di intervento e una capacità di azione sui diversi fronti problematici che determinano le situazioni di disagio. In questo contesto, dunque, al di là delle diversità ancora evidenti tra i welfare nazionali, il tratto comune può essere rintracciato nell’orientamento a rafforzare il comparto socio-assistenziale rispetto alla tradizionale centralità accordata ai programmi assicurativi-previdenziali (Esping-Andersen, 2002; Paci, 2004; Naldini, 2006; Colasanto, Lodigiani, 2008). Pur assorbendo ancora una parte ridotta della spesa sociale, se confrontata con gli schemi previdenziali e di sostegno al reddito, il sistema di servizi sociali – siano essi di cura e assistenza per i minori, per gli anziani, di formazione e inclusione sociale – è stato destinatario di crescenti risorse economiche (Ascoli e Ranci, 2003). I dati statistici ci mostrano in questo senso un progressivo spostamento di risorse finanziarie verso tale sistema, il quale, dalla condizione di marginalità di epoca fordista (Anttonen A., Sipila J., 1996), assume oggi una nuova 1 di Andrea Ciarini e Rosangela Lodigiani.

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centralità nella riconfigurazione degli assetti di welfare, con importanti ricadute in ambito locale.

Il mutamento descritto si riconnette ai più generali obbiettivi che la Strategia Europea per l’Occupazione ha posto alla base della sua implementazione, laddove la crescita della partecipazione complessiva al mercato del lavoro passa necessariamente dal rafforzamento di tutte quelle prestazioni, cash e soprattutto in kind, che possono favorire l’occupabilità dei soggetti in cerca di occupazione o in via di ricollocazione professionale. Detto in altri termini, il tema dei servizi è cruciale ai fini della rimozione di quelle barriere che ostacolano l’ingresso nel mercato del lavoro dei soggetti più deboli, siano essi giovani drop-out, donne con figli a carico, disoccupati di lungo periodo, lavoratori over 45 espulsi dal mercato del lavoro, persone prive di qualifiche professionali, etc. Per tutto questo articolato insieme di soggetti, la partecipazione al lavoro viene a dipendere dalla possibilità non solo di godere di sostegni economici in grado di compensare la mancanza o la limitatezza del reddito, ma anche di fruire di efficienti servizi sociali (di cura, assistenza, conciliazione, formazione), capaci di rendere più stabili le transizioni nel mercato del lavoro. In questa prospettiva, la riforma dei sistemi di welfare è spesso letta in termini di “attivazione”, laddove l’obiettivo è quello di rovesciare la logica passivo-assicurativa tipica del modello industriale di welfare, per costruire un sistema di “welfare attivo”, orientato ad agire in modo preventivo rispetto ai bisogni, e promozionale rispetto alla capacità delle persone di assumere in autonomia la responsabilità del proprio benessere. Ne derivano “politiche sociali attive” finalizzate a cambiare le condizioni nelle quali gli individui sviluppano il loro potenziale, piuttosto che a intervenire nella situazione di bisogno in cui si trovano (Oecd, 2005). In questa accezione le riforme dovrebbero implicare una riduzione del peso delle politiche passive di sostegno del reddito e un incremento delle politiche di promozione del protagonismo del soggetto (le politiche attive). Altre versioni del concetto di attivazione sono in ogni modo presenti e non semplicemente tarate sull’alternativa misure attive vs misure passive. Come mostra, peraltro, questa fase di grave recessione economia e di crisi occupazionale i due versanti non possono essere tenuti disgiunti, ma necessariamente vanno integrati. I dispostivi anti-crisi varati in questi mesi hanno chiaramente mostrato che affidarsi unilateralmente alle politiche attive o a quelle passive non riesce a rispondere ai bisogni di tutela dei soggetti, e del resto il mix tra i due versanti di dispositivi – attivo e passivo – è ciò che dovrebbe qualificare le politiche di attivazione (includendo il ricorso anche a politiche fiscali e il potenziamento della rete dei servizi). Ma ci sono altre implicazioni che la crisi in corso tende a disvelare. Se assumiamo la centralità dei servizi, siano questi relativi all’inserimento lavorativo, alla cura e alla conciliazione, all’assistenza sociale e che il loro sviluppo debba necessariamente fare leva su una integrazione non solo di politiche ma più in generale di misure attive e passive, sono le funzioni del welfare che mutano di prospettiva. Sempre più oggi al welfare e ai reticoli di attori che sul territorio concorrono alla programmazione e gestione delle prestazioni è richiesto di essere veicoli di attivazione, ma non nel senso di scaricare sull’individuo i costi della sua protezione, bensì in quello più complesso, certamente, dell’allargamento della possibilità di partecipazione e di padroneggiamento della propria situazione. La “partecipazione” è la cifra distintiva di tale modello di welfare attivo. Essa si realizza a più livelli e in più direzioni, ovvero come: 1) partecipazione al mercato del lavoro; 2) partecipazione alla definizione del percorso di uscita dalla condizione di

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bisogno (per esempio nella costruzione – attraverso incentivi, voucher, budget di spesa e altri dispositivi – di una personale strategia di emancipazione; 3) partecipazione alla programmazione ed erogazione dei servizi. In questa accezione il welfare attivo implica che le persone possano prendere parte fattivamente – in modo precipuo attraverso le rappresentanze della società civile – ai processi decisionali che danno corpo alle risposte ai bisogni, operando anche nella costruzione delle politiche sociali stesse, nel rapporto (diretto e indiretto) con l’attore pubblico (Paci, 2005). Rispetto queste forme di partecipazione, quella relativa al lavoro è certamente quella considerata elettiva, nella misura in cui si riconosce nell’occupazione il miglior dispositivo di protezione e benessere. In linea con questo approccio, le politiche del lavoro si declinano in termini di welfare to work, con la finalità di attivare i soggetti disoccupati o inattivi e reinserirli nel mercato del lavoro, liberandoli dalle maglie della dipendenza passiva. Secondo la versione workfarista di tali politiche, in rapida diffusione in Europa, l’accesso alle provvidenze di welfare è subordinata all’attivazione lavorativa: chi si ritrova senza lavoro deve dimostrare di essere in cerca di occupazione e immediatamente disponibile ad accettare le proposte di formazione e riqualificazione professionale o di lavoro formulate dai servizi per l’impiego, pena la perdita del beneficio o dell’indennità di cui si è titolari. L’azione del welfare state che muove lungo questa direttrice risulta dunque “attivante” su un duplice piano: nei confronti dei sistemi di protezione, in quanto ne riduce la parte di fruizione passiva, incrementando i benefit condizionati; nei confronti degli individui, agendo in chiave emancipatoria e preventiva, puntando a promuoverne le capacità di autoprotezione, l’autonomia, la responsabilità, la “cittadinanza attiva”, la cui massima espressione è appunto l’occupazione (Barbier 2005; Ciarini, 2010). Non per caso, i più importanti dispositivi di attivazione sono individuati nella formazione e nell’apprendimento permanente, finalizzati allo sviluppo di occupabilità (employability) (Lodigiani 2008).

Nell’ottica dell’attivazione economica, la prospettiva del workfare sottende un processo di neoliberalizzazione delle politiche (Kazepov, 2009). Tuttavia l’interpretazione di tale orientamento non è univoco nei diversi paesi, e varia sia a seconda del ruolo attribuito al mercato e alla sua capacità regolativa e allocativa, sia in relazione al mix che si innesca con forme innovative di solidarietà e coesione sociale che stanno alla base di un altro importante processo di innovazione del welfare: quello della sussidiarizzazione delle politiche. Esso implica il coinvolgimento della società civile, oltre che nell’attuazione e gestione di dispositivi e interventi, anche nella definizione delle stesse politiche, e richiama dinamiche di empowerment degli individui e delle comunità e procedure di democrazia partecipativa (ibidem). L’empowerment può riguardare infatti tanto il singolo individuo quanto un gruppo di persone, una comunità, nella misura in cui stimola le capacità organizzative, favorisce il potenziamento delle autonomie e delle responsabilità locali. La precondizione dei processi di riforma del welfare sin qui indicati è dunque certamente rintracciabile nel principio di sussidiarietà, declinato sia in verticale che orizzontale. Esso si configura come fonte di legittimazione della partecipazione alle decisioni di governo da parte di soggetti diversi da quello pubblico. Il processo di sussidiarizzazione delle politiche sociali peraltro non disegna assetti regolativi univoci. Ciò significa che tale processo si definisce in base al modo in cui si declina di volta in volta nei differenti contesti, rendendo particolarmente interessante scendere sul campo per indagare la realtà empirica.

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La sussidiarizzazione delle politiche si alimenta della necessità di allargare il ventaglio delle prestazioni sociali sul territorio, stanti, da un lato, i vincoli di bilancio che rendono problematica l’espansione costante dell’intervento pubblico, dall’altro, le esigenze di vedere la produzione del welfare come una funzione diffusa, in chiave di welfare society. Ne deriva l’allargamento delle reti di attori, pubblici e privati che sul territorio concorrono alla programmazione e gestione delle prestazioni. In questo modo, il passaggio dal “government” alla “governance” dei servizi sociali si configura come una ulteriore direttrice di riforma. Tale passaggio indica il mutamento dei processi decisionali e attuativi delle politiche oltreché degli attori che ne sono coinvolti che non sono più unicamente quelli pubblici. Nell’allargare ad attori privati for profit e no profit e nel coinvolgere diversi livelli istituzionali territoriali, la governance risulta essa stessa plurale e multilivello aprendo a forme di negoziazione non gerarchiche tra istituzioni e attori di livello locale, regionale, nazionale, transnazionale, rispetto ai quali lo Stato ricopre un ruolo pivot. Il coordinamento degli attori in campo appare infatti come il perno degli assetti emergenti dei sistemi di protezione sociale, laddove si delinea un insieme complesso di relazioni in cui si trovano a interagire le amministrazioni locali, le organizzazioni del privato di mercato e gli attori del terzo settore, le reti del volontariato, le famiglie, i sindacati, attraverso le loro articolazioni territoriali e dei servizi (Ascoli e Ranci, 2003; Pavolini, 2003; Evers A., Sachße C., 2003; Ciarini, 2007). Dando sostanza a questa impostazione, lo Stato sociale attivo diviene uno degli attori di una welfare society, una società protesa in modo corale a promuovere il benessere di tutti in ogni sua sfera (la politica, l’economica, il terzo settore, i mondi della vita quotidiana dove operano le famiglie e le reti informali di sostegno), là dove entrano in campo specifiche modalità e caratteristiche di azione, nonché specifici mezzi simbolici e valori guida (Colozzi, 2002). Certamente tutto questo non deve farci dimenticare il problema delle differenti dotazioni tra i territori nel tipo di capitale sociale, nella qualità e diffusione delle reti associative, delle imprese e degli attori economici, nonché nella capacità amministrativa degli enti locali. Da questo punto di vista quello verso la welfare society non è un passaggio uniforme. Si possono dare piuttosto esiti aperti a diverse traduzioni, anche opposti. Da casi in cui il coinvolgimento delle società locali, in tutte le loro componenti, produce innovazione, miglioramento dei servizi e apertura a istanze generali di partecipazione, a casi che invece rimangono ingabbiati nei circuiti del particolarismo e della distribuzione assistenziale delle risorse: il range di posizioni è molto vario e non interpretabile secondo logiche precostituite (Ciarini, 2010). La svolta attivante del welfare state si accompagna quindi a un processo di riforma dell’intero regime di protezione sociale e del modo in cui le diverse istituzioni che lo compongono, non solo locali, ma anche nazionali, se ne redistribuiscono la produzione, in una logica di pluralizzazione che va oltre la semplice ripartizione funzionale. L’integrazione dei livelli amministrativi e dei diversi attori del welfare diviene dunque una priorità, spingendo al centro della riforma la base territoriale delle competenze e delle policies, in un rapporto integrato verso il basso (le reti della governance territoriale) e altresì in senso verticale nei rapporti tra i livelli amministrativi, viziati spesso in Italia di sovrapposizioni e scarsa capacità di coordinamento. Resta il fatto che tale riorganizzazione su base territoriale delle competenze amministrative in materia di politiche sociali e occupazionali ha avviato un processo di rescaling che rimodula i rapporti tra i livelli europeo, nazionale, regionale, municipale, e tende a realizzarsi

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dunque in due direzioni: a) il decentramento di poteri verso i territori; b) il rimescolamento dei rapporti tra gli attori pubblici e privati coinvolti nei servizi (Kazepov e Carbone 2007). Si tratta di processi che portano a valorizzare regioni, distretti, territori, sino alle singole città (definite anche come “welfare city”), e valorizzano il ruolo degli attori locali rispetto allo Stato. In tale prospettiva la dimensione urbana si configura come il luogo principe in cui si gioca la sfida della coesione sociale, e della capacità di gestire le tensioni derivanti dalla diffusione dei fenomeni di vulnerabilità sociale attraverso forme di coordinamento e co-partecipazione tra attori, avviando un processo di negoziazione che alla fine trasforma la natura stessa del bene pubblico che viene prodotto, in quanto diviene il frutto di un’azione collettiva (Carbone 2005; Kazepov 2004).

Il passaggio dal government alla governance delle politiche – sempre a livello territoriale – obbliga a ripensare i meccanismi, le logiche di governo e il ruolo delle diverse realtà istituzionali coinvolte. Le pratiche che emergono danno vita soluzioni eterogenee di regolazione (per lo più ispirate alla “contrattualizzazione” tra amministrazione pubblica e altri soggetti) che soppiantano il modello tradizionale di gerarchia pubblica. In questo scenario, anche il privato for profit si vede riconosciuto un ruolo crescente, pur se prevalentemente incastonato (embedded) in un quadro di regolazione pubblica (per esempio con la formazione dei cosiddetti quasi-mercati). Si pensi al contracting out, cioè al convenzionamento, nel quale lo stato delega ai privati l’erogazione dei servizi, li finanzia, li seleziona e regolamenta, definisce e controlla la loro prestazione, senza lasciare spazio alla libertà di scelta dell’utente, oppure all’accreditamento, nel quale lo Stato delega ai privati l’erogazione dei servizi stabilendo però i criteri ai quali essi devono attenersi per poter essere selezionati e dunque aprendo tra di essi una vera e propria competizione di mercato, lasciando però alla fine ai cittadini la facoltà di scegliere nella platea dei soggetti accreditati quelli ai quali rivolgersi (Pavolini, 2003). In altri termini, in risposta alla configurazione nuova assunta dai rischi e dai bisogni sociali, il welfare state ha aperto spazi sempre più ampi di protagonismo ad altri attori, assumendo un ruolo di coordinamento degli attori in campo, configurando modalità innovative di rapporto tra i soggetti deputati a programmare, finanziare e produrre servizi e interventi sociali.

1.2. Finalità e metodi della ricerca: i “laboratori” dell’integrazione Alla luce di quanto affermato, è chiaro che il tentativo di riportare a sistema l’insieme delle esperienze di riforma che si sono andate consolidando localmente non passa necessariamente dal riaccentramento delle funzioni regolative, cosa di non facile realizzazione, né in qualche modo auspicabile, vista anche la debolezza del tessuto politico-amministrativo centrale. Piuttosto è sul raggiungimento di comuni obbiettivi, verso cui fare convergere progressivamente le società locali, che si può aprire un processo di mutamento in grado di favorire quella rigenerazione delle istituzioni del welfare da più parti auspicata. Si tratta di uno sviluppo che non nega le differenze negli approcci adottati dai singoli territori, ma che tende alla loro armonizzazione attraverso lo scambio di esperienze e l’interazione tra gli attori, pubblici e privati, coinvolti nella programmazione e gestione dei nuovi servizi integrati di welfare. Un processo bottom-

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up e di benchmarking sulla falsariga di quello europeo, che punta a rinnovare il welfare a partire dalle esperienze maturate in ambito locale. A questo fine, la ricerca in oggetto si è proposta di individuare sul territorio “laboratori” che si siano fatti carico di sperimentare nuove forme di integrazione tra aree di policy e tra attori del welfare. Per questo motivo, determinante è stato il coinvolgimento delle amministrazioni su cui è orientata l’indagine (amministrazioni regionali e comunali), ma anche degli attori sociali che a diversi livelli sono partecipi della governance territoriale. Una tale impostazione risulta particolarmente utile nello studio delle trasformazioni del welfare italiano. A fronte una bassa dotazione di capacità amministrativa giocata sul centro del sistema politico, le riforme di questi anni ci mostrano per contro un crescente attivismo dei livelli sub-regionali e locali nella sperimentazione di modelli di intervento, politiche, pratiche di governance. In effetti, come mostra Bifulco (2008), è questa una caratteristica che nel panorama europeo differenzia l’Italia da altri contesti nazionali, dove la forza dell’amministrazione centrale, anche nei processi di decentramento, accompagna l’azione delle amministrazioni periferiche, per alcuni versi, come nel caso della Francia, limitandone l’autonomia e la possibilità di sperimentare. In Italia il problema è da rovesciare. Sono mancati o sono stati parziali i progetti di riordino nazionali, mentre al contempo sono stati spesso i livelli sub-nazionali a implementare propri piani, anche molto differenti tra loro. Sebbene tutto questo sia da ricondurre dai cambiamenti che hanno interessato l’assetto istituzionale del paese, in particolare in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione, quello del regionalismo crescente (sociale e sanitario in particolare) è un problema se riferito alla crescente frammentazione territoriale e alla mancanza di forme di coordinamento. Ma al tempo stesso può costituire una opportunità di rilancio e miglioramento delle politiche stesse, nella misura in cui porta a compimento progetti altrimenti difficilmente implementabili vista l’inerzia del centro politico-amministrativo. Se assumiamo questa ottica lo scambio di informazioni, di pratiche, tra le regioni e i territori è un utile strumento di confronto, suscettibile di una risalita anche verso l’alto, contribuendo a rigenerare lo stesso quadro nazionale.

La scelta delle policies su cui concentrare l’attenzione ha tenuto conto dell’ampio spettro di interventi che gli enti locali sono chiamati a implementare nei Piani sociali di Zona (PdZ), operando una selezione che consentisse di concentrasi su aree considerate di particolare rilevanza e criticità. Ci si è così concentrati sullo studio delle dinamiche di integrazione nel campo delle politiche per i minori, della conciliazione vita-lavoro e delle misure di contrasto alla povertà e per l’inclusione sociale. Con riferimento proprio all’inclusione sociale, è stata prestata attenzione anche alle politiche formative finalizzate a favorire la piena cittadinanza di quanti si trovano in condizione di particolare svantaggio sociale (con azioni, quindi, non solo di tipo professionalizzante, ma di recupero di lacune formative, di empowerment personale, di orientamento, etc.). Nel complesso si tratta di policies – seppure delimitate ad alcuni specifici ambiti – fortemente legate tra di loro (anche se non sempre integrate) e i cui effetti risultano cruciali non solo ai fini della risposta ai bisogni di cura e assistenziali, ma anche nella promozione della partecipazione (femminile soprattutto) al mercato del lavoro e nel contrasto alla povertà. Diverse indagini in merito (Istat, 2005, 2008), mostrano ormai da tempo come il fenomeno della povertà riguardi in Italia soprattutto le famiglie numerose, le famiglie con figli minori, oltre che le famiglie con componenti in cerca di occupazione. L’impatto di questi processi è senz’altro acuito dalla mancanza in Italia di

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una politica nazionale di contrasto alla povertà, fatta di trasferimenti e di servizi. Ma anche dalla scarsa integrazione con cui a livello locale i vari interventi sociali vengono legati alla cura per i minori e alla promozione della conciliazione vita-lavoro per le donne. Possiamo dire in questo senso che se gli unici interventi specificamente dedicati al trattamento delle forme di povertà tendono a rientrare nell’ambito delle dotazioni locali di welfare, il deficit di integrazione che spesso qui si rileva tende a indebolire ulteriormente l’impatto dell’offerta di protezione sociale.

La ricerca si è articolata nelle seguenti fasi:

i) individuazione dei contesti di riferimento regionali caratterizzati da specifici

modelli di welfare e che fossero collocati in diverse aree del paese in modo da poter contare su una qualche forma di rappresentatività nazionale, se così la si può chiamare. La scelta è ricaduta su: Lombardia, Toscana e Calabria. Per ciascuna delle regioni coinvolte sono poi stati individuati i casi locali da analizzare sulla base della rilevanza dei processi di riforma attuati, con una particolare attenzione alle forme di integrazione delle politiche. A partire da queste premesse ci si è focalizzati su Milano, Arezzo, Lamezia Terme; si tratta di realtà locali con tutta evidenza altamente eterogenee, ma per ragioni diverse egualmente interessanti ai fini della ricerca;

ii) analisi dei processi di governance territoriale dei servizi di welfare integrati. A questo livello, l’interesse si è focalizzato sui rapporti orizzontali che connettono i livelli decisionali pubblici con il piano degli attori sociali, associativi, privati di mercato, implicati a diversi livelli nella programmazione e gestione delle politiche sociali;

iii) analisi delle policies prescelte (famiglia e minori, conciliazione, contrasto

all’esclusione, formazione e orientamento al lavoro) nel corso della quale si è approfondito il funzionamento delle singole politiche individuate in funzione del tipo di assetti e relazioni che legano gli attori, pubblici e privati sociali, del welfare locale;

iv) individuazione e analisi di buone pratiche di integrazione tra le politiche

prescelte;

v) l’ultima fase prevede la restituzione ai territori delle risultanze della ricerca, con la proposta di scambio delle buone pratiche studiate, e la possibilità di inserire e discutere attivamente tali risultanze dentro i “laboratori” territoriali individuati, al fine di rafforzare e condividere anche nel confronto tra i territori coinvolti, le pratiche di innovazione.

L’indagine si è svolta con un approccio metodologico di tipo qualitativo, e si è avvalsa sia di una analisi di desk della normativa, della documentazione, della letteratura disponibile con riferimento alle regioni e ai territori locali prescelti, sia di una analisi di field, con interviste in profondità e raccolta dati realizzate direttamente sul campo. Al tal fine sono stati coinvolti e intervistati assessori, funzionari, responsabili amministrativi

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ed esponenti del terzo settore. A loro il nostro ringraziamento per la disponibilità a farci comprendere le complesse dinamiche di strutturazione del welfare a livello locale.

1. 3. Il quadro di riferimento: la nuova assistenza sociale in Italia dopo la riforme degli anni Duemila

A partire dalle considerazioni sopra esposte, possiamo guardare più da vicino il processo di riforma del welfare avviato nel nostro paese, osservando in modo specifico l’ambito delle politiche sociali. Al riguardo, il riferimento immediato è alla Legge quadro per la realizzazione del Sistema integrato dei servizi sociali (L. 328/2000), che ha rappresentato per l’Italia uno spartiacque nelle modalità di programmazione e gestione dei servizi sociali. Rispetto allo storico dualismo tra gli istituti assicurativi fondati sul lavoro salariato (vedi Esping-Andersen, 1990, 1999; Paci, 1989; Ferrera, 1996; Fargion, 1997; Saraceno, 1998) e residualità dell’assistenza sociale, lasciata alle responsabilità di cura familiari e alle diverse iniziative associative mutualistiche, laiche e religiose, l’approvazione della 328/2000 ha segnato un significativo passo in avanti per il welfare italiano, non solo perché ha costituito il primo importante intervento di riordino generale del comparto assistenziale a distanza di circa un secolo dall’ultimo intervento normativo in materia (la legge Crispi del 1900), ma soprattutto per l’avere posto alla sua base l’obbiettivo (certamente ancora lontano dall’essere raggiunto) dello sviluppo di un sistema diffuso di servizi integrati (socio-assistenziali, del lavoro, della formazione-lavoro) in grado di rispondere, in una logica di rete, alle problematiche poste dai nuovi bisogni sociali.

Gli obbiettivi della legge sono diversi: superare la settorializzazione delle risposte di policy; favorire il decentramento e per questa via lo sviluppo dei servizi integrati, impedire la sovrapposizione di competenze, individuando nel livello municipale-distrettuale l’ambito di riferimento per lo sviluppo del welfare locale. Infine, non meno importante, promuovere processi partecipativi in grado di includere nella arene del decision making le tante realtà associative, di terzo settore, già operanti nell’assistenza, a stretto contatto con i bisogni della domanda e per questo motivo ritenute in grado di esprimerne i bisogni nelle fasi di programmazione. Sebbene la legge riconosca formalmente il contributo del terzo settore in rappresentanza degli interessi dei cittadini, quello della partecipazione è un processo che coinvolge tanti altri attori, tutti chiamati a interagire con le amministrazioni: le organizzazioni sindacali, le agenzie del privato, le fondazioni bancarie, il tutto all’interno di reti molto più complesse rispetto al passato. Si può dire che una delle logiche portanti della Legge quadro sia rappresentata dall’integrazione tra diversi strumenti di policies, prevedendo in particolare il raccordo tra le politiche sociali e quelle del lavoro, sanitarie, formative, ecc. Riguardo ai processi partecipativi, le indicazioni normative sono precise: lo Stato è chiamato a definire dei livelli essenziali e uniformi di assistenza sociale (Liveas) e le linee di indirizzo generale, mentre le Regioni, insieme alle Province e ai Comuni, sono investite di competenze specifiche di programmazione nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale. Il passaggio che qui si delinea dal government alla governance –nei termini in cui, come si è prima ricordato (§ 1.1.), si è soliti descrivere il processo di decentramento sul territorio delle funzioni di policy – rende conto di un mutamento dei criteri regolativi di un welfare in cui le articolazioni periferiche dell’amministrazione

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non giocano più un ruolo meramente esecutivo delle politiche decise dal centro, ma sono responsabilizzate esse stesse nella costruzione di reti di governo aperte all’interazione tra una platea più ampia di attori pubblici e privati, tanto nella fase di programmazione, quanto in quella di gestione vera e propria. La legge, come detto, valorizza inoltre la partecipazione della società civile – in un’ottica di sussidiarietà orizzontale – all’individuazione dei bisogni espressi dalla collettività e alla formulazione di risposte, per esempio attraverso la gestione di servizi. In particolare viene legittimata apertamente la partecipazione delle formazioni sociali ai processi di policy making, aprendo uno spazio anche all’azione del mercato, secondo il principio della sussidiarietà orizzontale che chiama alla programmazione congiunta del Piano sociale di zona gli enti pubblici e i soggetti privati (for profit e no profit) di uno stesso territorio. Per altro verso mette conto sottolineare che, almeno in linea di principio, proprio la legge 328/2000, mentre riconosce il ruolo del privato e del privato sociale dentro a un sistema di welfare mix, attribuisce piena responsabilità all’amministrazione pubblica relativamente alla regolazione delle politiche e degli interventi implementati. Tale impostazione porta in primo piano due processi di grande rilievo, già richiamati nel primo paragrafo: quello della “contrattualizzazione” e quello della governance multilivello. Essi, come molte ricerche hanno evidenziato, non vengono interpretati in modo univoco nei diversi contesti regionali. Va detto che tali disparità si fondano sia sui margini di applicazione che gli stessi principi possiedono, sia sulle criticità a cui è andata contro l’implementazione della Legge quadro. Queste ultime attengono in particolare ai finanziamenti dedicati all’assistenza (ancora sottodimensionati rispetto alla reali esigenze dei territori), alla genericità degli indirizzi assunti dai livelli centrali del sistema politico-amministrativo, a una frammentazione istituzionale che, dal decentramento amministrativo fino alla riforma del Titolo V della Costituzione, ha indebolito il progetto riformatore originario, assegnando alle regioni la competenza esclusiva in materia di assistenza sociale (Gori, 2004). Di queste criticità l’effetto più visibile è stato certamente la disomogeneità, da territorio a territorio, dei processi di riforma, con l’esito di una crescente differenziazione dei modelli di welfare locali che difficilmente trova un termine di paragone con le esperienze di riforma messe in atto negli altri contesti nazionali (Paci, 2008; Colasanto, Lodigiani, 2008), nei quali la tenuta del quadro nazionale – nonostante i processi decentramento – risulta molto meno comprimibile. Ad accrescere il divario tra sistemi regionali di assistenza sociale è la rilevanza assegnata dalla stessa Legge quadro agli enti locali, in particolare i Comuni, chiamati a definire i Piani di zona, aggregandosi su base territoriale secondo le indicazioni delle Regioni. Se la loro istituzione ha lo scopo di ridurre la frammentazione degli interventi sociali su base comunale – di per sé involontariamente favorita dall’applicazione del principio di sussidiarietà verticale – non annulla le disparità territoriali, in un contesto nazionale privo di riferimenti a standard comuni. A questi elementi va aggiunto il deficit di integrazione che ancora si riscontra nella pianificazione-gestione delle politiche, una dimensione cruciale ai fini dello sviluppo dei nuovi assetti di welfare e tuttavia ancora scarsamente avvertita dai policy maker locali, con il risultato di una sovrapposizione perdurante di funzioni, livelli istituzionali e interventi, a discapito dell’efficacia e della qualità delle politiche stesse.

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Parte I

Ricomporre il vaso infranto. L’esperienza milanese nello scenario lombardo

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2. Il workfare lombardo, tra famiglia e sussidiarietà2

2.1. Il quadro di riferimento regionale I principali studi e approfondimenti compiuti sul welfare lombardo – sulla sua architettura istituzionale, sulle logiche sottostanti agli interventi legislativi in materia e sui principi che governano la distribuzione delle risorse finanziarie tra le diverse funzioni di protezione sociale – ne hanno messo in luce le forti peculiarità entro il panorama nazionale (Brugnoli, Vittadini, 2008; Colasanto, Lodigiani, 2008; Gori, 2005). Invero, in uno scenario di continuità politico-amministrativa, garantito dalla presenza ininterrotta al governo locale della coalizione di centro-destra, la Regione Lombardia ha precorso i tempi della riforma del Titolo V della Costituzione giungendo, mediante un’azione di riordino organica e articolata del sistema sociale e sociosanitario, a differenziarsi notevolmente per le modalità di applicazione del principio di sussidiarietà. Gli obiettivi e le strategie attuative della riforma del welfare lombardo, per come si trovano declinati nei documenti ufficiali, sono chiaramente informati da due paradigmi teorici: l’uno di stampo antropologico; l’altro di matrice economica. Sul primo versante, l’elaborazione intellettuale che accompagna l’intervento in materia di promozione del benessere propone una «visione antropologica positiva» (Brugnoli, Vittadini 2008; Donati, 2007), che afferma la piena dignità del soggetto sul piano personale e sociale e ne esalta il contributo che egli è in grado di offrire alla riproduzione del tessuto sociale; parimenti riconosce il “primato originale del civile” (IReR, 2009) e considera, dunque, il welfare come “plurale”, valorizzando la soggettività sociale di ogni attore (Stato, mercato, persona, famiglia, terzo e quarto settore). Sulla scorta di queste convinzioni, il principio di sussidiarietà diventa la chiave di volta per una nuova concezione di stato e di mercato in cui la soddisfazione ai bisogni, individuali collettivi, derivi da risposte che provengono “dal basso” e che dunque siano espressione della tensione costruttiva e socializzante dell’uomo (Vittadini, 2007). Per quanto riguarda, poi, il secondo paradigma, il riferimento va alla teoria dei quasi-mercati (Le Grand, Bartlett, 1993). Si tratta di sistemi in cui lo Stato finanzia, ma non necessariamente eroga direttamente, i servizi, i quali vengono invece prodotti in un quadro di forte competizione tra una pluralità di soggetti che, per entrare in gioco, necessitano comunque di un accreditamento da parte dell’attore pubblico. I fruitori dei servizi scelgono, pertanto, in un sistema di concorrenza, i cui paletti sono ad ogni modo fissati secondo dati indicatori di qualità, in base a un potere d’acquisto che è definito anche mediante i voucher, titoli di spesa finanziati dal pubblico. La preferenza per il quasi-mercato (o mercato sociale), motivata dalla fiducia nei meccanismi competitivi e nella libertà di scelta (e anche, come sottolineato da uno dei nostri intervistati, da esigenze di tipo finanziario) si ritiene possa incidere positivamente sulla qualità dei servizi offerti e sull’efficienza del welfare, intesa quest’ultima come impiego ottimale delle risorse a disposizione. Non mancano al riguardo elementi di criticità che meritano di essere approfonditi, e che sono relativi, ad esempio, alla capacità di tutti i fruitori, compresi i soggetti più svantaggiati, di agire la loro libertà di scelta, nonché alla disponibilità di un’offerta realmente eterogenea e plurale.

2 Di Rosangela Lodigiani ed Egidio Riva.

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In sintesi, gli assi principali lungo i quali questa tipicità del modello lombardo si va declinando sono (Pesenti, 2008): 1) la trasformazione del metodo organizzativo, cui si è associata la risoluzione della dicotomia pubblico/privato; 2) il superamento della programmazione verticistica cui è seguita, per contro, l’affermazione di una programmazione decentrata sul territorio; 3) l’adozione di nuovi strumenti. Volendo però giungere a una lettura più puntuale e sistematica del welfare lombardo e del suo sistema di governance, vale la pena riprendere quelli che paiono esserne i principi guida; principi che sono con evidenza connessi a quanto appena affermato e che la letteratura specialistica individua ne:

i) la libertà di scelta, che – a partire dal riconoscimento della centralità della

persona nel sistema di welfare – si concretizza nella facoltà riconosciuta ai cittadini di decidere:

• «che cosa ricevere», ossia la tipologia di prestazioni di cui fruire; • «da chi ricevere assistenza» tra gli erogatori dei servizi, senza più rivolgersi

necessariamente a quello indicato dall’ente pubblico, ma potendo invece optare per uno dei soggetti accreditati;

ii) il pluralismo dell’offerta, raggiunto mediante la presenza di più erogatori che competono in un sistema di quasi-mercato;

iii) la valorizzazione delle diverse formazioni sociali, mediante l’implementazione dei principi di sussidiarietà orizzontale e verticale.

Prima di approfondire le modalità in cui i dispositivi legislativi regionali traducono nella pratica questi principi vale la pena soffermarsi, seppure brevemente, sulla descrizione del quadro socio-economico e di vulnerabilità che emerge a livello locale, così da comprendere lo scenario di risorse e di bisogno sul quale prende forma la programmazione regionale in materia di politiche sociali e socio-sanitarie. In proposito, ricordate a premessa la forza e la solidità del tessuto produttivo e occupazionale lombardo che tutte le analisi comparative mettono in luce, le indagini Istat (2009) e quelle dell’Osservatorio Regionale sull’Esclusione Sociale (2009) rivelano altresì che l’incidenza della povertà assoluta nella Regione è su valori contenuti e più bassi di quelli osservati nella media nazionale, a riprova di un benessere tendenzialmente diffuso. In questo scenario, come d’altro canto si riscontra nel resto del paese, le disparità più profonde colpiscono le famiglie con figli minori, specie se numerose, e gli immigrati. Se però ci si sofferma sulla percezione soggettiva il quadro cambia. Prende infatti forma quella che viene interpretata come un’area di potenziale vulnerabilità: l’insieme di coloro che pur non essendo oggettivamente poveri si sentono tali, secondo le aspettative e le esigenze individuali; un’area che, stando alle rilevazioni interessa una quota rilevante della popolazione lombarda (circa un quarto del totale). Per quanto concerne, infine, lo scenario demografico, i dati segnalano soprattutto un progressivo aumento della popolazione residente, che si spiega a motivo della consistenza dei flussi migratori e dell’evolversi dei processi di invecchiamento della popolazione, con l’aumento significativo della quota di anziani e, prima ancora, dei grandi anziani.

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2.2. L’architettura istituzionale e il sistema di governance del sistema di politiche sociali e socio-sanitarie

Con l’approvazione della legge regionale 12 marzo 2008, n. 3, avente per oggetto il «Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario» è giunto a compimento il processo di riordino e riforma del sistema di welfare lombardo avviato negli anni precedenti. Di questo percorso – ispirato dai principi costituzionali, dallo Statuto Regionale e dalla legge 328/2000 – sono parte integrante, in quanto tappe intermedie, alcuni provvedimenti legislativi, che si combinano con numerosi altri documenti programmatici e di indirizzo3:

• la l.r. 31/1997 – “Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività dei servizi sociali”;

• la l.r. 23/1999 –“Politiche Regionali per la Famiglia”; • la l.r. 1/2000 – “Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia”; • la l.r. 1/2003 – “Riordino della disciplina delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza

e Beneficenza operanti in Lombardia”; • la l.r. 1/2008 – “Testo unico delle leggi in materia di volontariato, cooperazione

sociale, associazionismo e società di mutuo soccorso”. Pur senza entrare ora nel merito dei singoli atti legislativi, è possibile osservare come i sopracitati principi guida della riforma abbiano inciso profondamente sui ruoli e sul sistema di relazioni tra gli attori coinvolti nelle mansioni di governo, gestione, produzione ed erogazione degli interventi sociali e socio-sanitari, definendo così l’originalità del modello lombardo. Questo si caratterizza, innanzitutto, come integrato, proprio a motivo dell’integrazione dell’attività sanitaria e di quella assistenziale, e in quanto plurale, se è vero che la sua azione si sostanzia con il concorso di «enti pubblici, enti non profit e i soggetti privati, secondo le specifiche loro peculiarità», nella loro «piena parità dei diritti e dei doveri». È poi un sistema misto, con offerte miste pubblico/privato, in cui la competizione per l’offerta dei servizi è in ogni caso regolata dall’intervento dell’attore pubblico in qualità di garante. Da ultimo è devoluto (Ranci Ortigosa, Lo Schiavo, 2005), in quanto il suo carattere sussidiario insiste, contemporaneamente, sulla dimensione verticale e su quella orizzontale, riconoscendo agli attori che partecipano al sistema di protezione sociale competenze e ruoli specifici. Proprio in merito a quest’ultimo punto, il disegno di riforma definisce un impianto di governance multilivello (Pesenti, 2008). Le «funzioni di legislazione e di programmazione, di indirizzo, di coordinamento, di controllo e di supporto» rimangono in capo alla Regione che, pertanto, conserva e rafforza il proprio ruolo politico-istituzionale e di regolazione del sistema: essa determina, infatti, il Piano socio-sanitario regionale triennale, con finalità di indirizzo generale del welfare locale, e quindi definisce le regole di governo del modello di intervento in quanto a finanziamento e distribuzione delle risorse, criteri di autorizzazione, accreditamento, qualità dei servizi, etc. La Regione stessa recede, tuttavia, dalle funzioni di coordinamento e di controllo, ora affidate alle Aziende Sanitarie Locali. Queste, a loro volta, a seguito dell’avvenuta separazione con i presidi ospedalieri – divenuti nel frattempo Aziende ospedaliere – cessano di essere enti erogatori di prestazioni sanitarie e socio-assistenziali e assumono, invece, le funzioni di programmazione, acquisto e controllo; il che significa che si

3 Per la sua rilevanza ricordiamo, tra gli altri, il Piano Socio Sanitario Regionale, di validità triennale.

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pongono quali enti strumentali della Regione e svolgono attività di “vigilanza e controllo” come l’autorizzazione e l’accreditamento degli enti erogatori e la verifica della qualità delle prestazioni offerte. Le Asl ricoprono, inoltre, un importante ruolo di collegamento strategico tra la Regione e le amministrazioni comunali: sono infatti chiamate ad articolare e gestire sul territorio la programmazione sociale, le regole, le risorse regionali. Per la precisione, secondo quanto viene affermato negli atti normativi regionali sui Piani di Zona in merito ai rapporti tra i diversi attori sociali, le Asl verificano il merito e l’attuazione dei Piani di Zona, arrivando quindi a svolgere la funzione di «soggetto validatore» (Avanzini, 2005) del principale strumento della programmazione decentrata. Possono inoltre collaborare con i Comuni fornendo informazioni per la redazione dei Piani di Zona e, infine, svolgere un ruolo di raccordo e sintesi con la Regione. Secondo le medesime linee guida, i Comuni di uno stesso distretto territoriale, che possono associarsi per dare vita a un unico Piano di Zona, decidono il grado di integrazione delle politiche sul territorio, mentre invece le Province non sono contemplate tra i soggetti coinvolti nella stesura e definizione dei Piani di Zona. Va ricordato, inoltre, che nel sistema di governance della programmazione zonale è prevista: la presenza di un organo politico che stabilisca le direttrici degli interventi – l’Assemblea dei sindaci – e di un organismo tecnico che ne presieda l’attuazione – l’Ufficio di Piano; la costituzione di un Tavolo di Rappresentanza del Terzo settore quale luogo di confronto e consultazione. Di fatto il ruolo centrale assegnato alle Asl, così specifico del caso lombardo, porta, a parere di alcuni osservatori, a relegare in secondo piano gli enti locali. La funzione di acquisto delle prestazioni è sempre più affidata direttamente agli utenti. Nella logica dell’affermazione di un sistema di quasi-mercato dei servizi – quello che forse è il tratto più peculiare del modello lombardo – si è infatti adottato il metodo della sperimentazione e successiva messa a regime dei titoli sociali. Questi si dividono in buoni e voucher socio-assistenziali; sono in capo ai Comuni e alle Asl e rappresentano uno strumento inedito, alternativo o integrativo, dei servizi tradizionali. Il buono è un trasferimento monetario che viene erogato a titolo di rimborso delle spese sostenute per la fruizione di un servizio. Il voucher è invece un titolo di acquisto riconosciuto direttamente al beneficiario, mediante il quale è possibile acquistare pacchetti di prestazioni sociali erogate da parte di agenzie o personale professionalmente specializzati e allo scopo accreditati. La Regione ha spinto con decisione gli enti locali all’adozione di buoni e voucher. Invero, nella prima tornata dei Piani di Zona, quindi per il triennio 2001-2003, era stato previsto di destinare il 70% delle risorse derivanti dal Fondo Nazionale per le Politiche Sociali proprio ai titoli sociali, riservando la quota rimanente alla razionalizzazione e al potenziamento dei servizi. La quota del 70% è stata successivamente ridotta al 50% del totale delle risorse per i Piani di Zona nel periodo 2006-2008 ma una tale direttiva stabilisce, comunque, un forte orientamento alla programmazione zonale. L’introduzione dei titoli esprime, infatti, la crescente responsabilizzazione dei soggetti nella definizione di risposte ai propri bisogni e la volontà di «assicurare la fruibilità delle strutture, dei servizi e delle prestazioni, secondo modalità che garantiscano la libertà e la dignità della persona, nel rispetto della specificità dei bisogni e del diritto di libera scelta dell’utente». Una libera scelta che rende attivo il soggetto (e, come vedremo a breve anche le famiglie), con un capovolgimento di prospettiva rispetto al tradizionale welfare assistenziale, nel quale vi è la preordinazione delle risposte rispetto ai bisogni. Una libera scelta che, come ricordato nell’introduzione, si traduce a più livelli: libertà di scegliere da chi ricevere

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assistenza, di decidere la tipologia di prestazioni di cui fruire (per es. monetarie o servizi, intervento domiciliare o residenziale), di concorrere alla produzione del benessere tramite l’auto-assolvimento dei bisogni o la compartecipazione alle forme di organizzazione della società civile (Gori, 2005). In questo schema, alla società civile, al mondo dell’associazionismo, della cooperazione sociale e del volontariato viene formalmente riconosciuta rilevanza primaria nelle attività di progettazione sociale – nell’ambito di una prospettiva di co-programmazione che ha trovato conferma con l’istituzione nel 2002 del Tavolo permanente del Terzo settore – e nelle fasi di predisposizione e successiva adozione dei Piani di Zona. In questi termini, il terzo settore diviene a pieno titolo un nuovo attore del welfare locale; ne viene riconosciuta la soggettività. Non è solo organo strumentale, operativo, erogatore ma anche soggetto promotore delle politiche sociali. Il tutto nell’ottica di un progressivo passaggio da un modello di welfare state a uno di welfare community (Vittadini, 2002) in cui gli organi istituzionali sappiano mobilitare e valorizzare le energie della società civile. La valorizzazione dei soggetti della società civile si trova in alcuni provvedimenti che insistono sulla promozione della sussidiarietà orizzontale. Tra di essi vale la pena ricordare:

• la l.r. 1/2008 – “Testo unico delle leggi in materia di volontariato, cooperazione sociale, associazionismo e società di mutuo soccorso”;

• la l.r. 1/2003, di riordino delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, che intende superare i vincoli allo sviluppo di questo ambito e dunque mettere in risalto il ruolo delle stesse Ipab nell’erogazione di servizi sociali;

• la l.r. 22/2001 – “Azioni di sostegno e valorizzazione della funzione sociale ed educativa svolta dalle parrocchie mediante gli oratori”;

• la l.r. 28/1996 – “Promozione, riconoscimento e sviluppo dell’associazionismo”. Di questo gruppo di interventi fa parte, innanzitutto, la l.r. 23/1999 – “Politiche Regionali per la famiglia”.

2.3. Le politiche per la famiglia, per i minori, per la conciliazione

La legge regionale 6 dicembre 1999, n. 23, nel riconoscere esplicitamente la famiglia quale soggetto sociale politicamente rilevante, definisce strumenti e strategie di promozione, di solidarietà e di auto-organizzazione che le consentano di trovare risposta ai propri bisogni. L’opzione adottata è quella di lasciare che sia la famiglia stessa a decidere se soddisfare detti bisogni “al proprio interno”, attraverso la produzione di servizi di natura sociale, educativa o assistenziale per sé o per la rete parentale e relazionale, oppure rivolgersi “all’esterno”, a soggetti pubblici o accreditati. L’intervento legislativo si fonda, in effetti, sul riconoscimento della capacità della famiglia di essere un produttore di welfare per i propri membri e per la collettività, un luogo di solidarietà attiva le cui risorse, nell’ottica della sussidiarietà orizzontale, vanno sviluppate in quanto fulcro primario dell’intervento sociale. La l.r. 3/2008 da questo punto di vista è ancor più puntale, riconoscendo formalmente la famiglia come “unità di offerta”: non solo protagonista delle sue scelte in merito a come rispondere ai propri bisogni (a chi affidare la cura dei bambini, dei malati, degli anziani, etc.), ma fornitrice di servizi per i propri membri deboli o fragili. Da ciò consegue il superamento del concetto di famiglia come destinataria delle prestazioni e dei servizi, in favore di un suo

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coinvolgimento attivo nella produzione degli stessi. Nelle intenzioni del legislatore regionale questo non implica, tuttavia, che sulla famiglia debba gravare interamente il peso di situazioni difficili da sostenere non solo per il carico di stress, ma a volte anche per la mancanza delle competenze necessarie per affrontare la situazione, o per la carenza di risorse economiche. Gli interventi previsti dalla normativa sono, infatti, sostanzialmente di due tipi:

1) i buoni e i voucher sociali, titoli sociali mediante i quali si riconosce e sostiene l’impegno diretto dei familiari o degli appartenenti alle reti di solidarietà nel prestare assistenza continuativa a un proprio congiunto in condizione di fragilità;

2) un sistema di servizi che non sia sostitutivo della famiglia ma a essa sussidiario, cioè capace di intrecciarsi con le attività di assistenza informali, per renderle più efficaci e stabili nel tempo; questo evitando sia i fenomeni di logoramento che portano alla scelta dell’istituzionalizzazione della persona non autosufficiente, sia la delega totale senza controlli esterni, sia di considerare il soggetto beneficiario atomisticamente, cioè avulso da un contesto sociale più ampio (contesto che va però sostenuto).

Oltre agli obiettivi di riparazione (Merlini, Filippini, 2005) – entro cui si collocano i titoli sociali, che intendono rimuovere le difficoltà famigliari dovute a condizioni di svantaggio – la Regione si propone, mediante appunto la legislazione sulla famiglia, di promuovere l’associazionismo familiare, ovvero di sostenere la creazione e promuovere reti di solidarietà e di mutuo aiuto, anche sotto forma di “banche del tempo”, che consentano alle famiglie di svolgere le proprie funzioni primarie e che quindi rappresentino modalità di empowerment, delle famiglie stesse e della collettività. L’associazionismo familiare viene peraltro formalmente riconosciuto come ulteriore attore del welfare mediante l’attivazione del Registro regionale delle Associazioni di Solidarietà familiare e della Consulta Regionale delle Associazioni familiari. Ad ogni buon conto, la legge in esame si caratterizza anzitutto in quanto rivolta non solo a nuclei problematici, ma più in generale a tutte le famiglie (Rossi, 2000). Individua, in tale ottica, una serie di interventi, di sostegno e prevenzione, che supportino la famiglia in tutte le fasi del suo ciclo di vita. Prevede, in particolare, strumenti indirizzati alla fase di formazione (contributi per l’acquisto della prima casa da parte di giovani coppie e il prestito sull’onore), come pure alla famiglia con figli piccoli, della quale si contemplano anche le esigenze di conciliazione. Con riguardo specifico a quest’ultimo tema, nel testo di legge si fa riferimento esplicito alla promozione di progetti, definiti come innovativi:

• nell’ambito dei servizi educativi per la prima infanzia: potenziamento della capacità ricettiva degli asili nido, anche mediante la loro organizzazione presso aziende pubbliche o private; la sperimentazione di forme di auto-organizzazione familiare come i c.d. “nidi famiglia”; la fornitura di supporto per l’implementazione di attività educative e ricreative; la predisposizione di elenchi di persone qualificate per l’accudimento a domicilio dei bambini;

• in favore di adolescenti e minori quali le azioni a contrasto della dispersione scolastica e l’attivazione di progetti e spazi di tipo aggregativo.

Infine, a testimonianza del forte intreccio che la legge 23 prevede tra tutti gli ambiti di politica che la nostra ricerca ha preso in esame, non vanno dimenticati gli interventi formativi finalizzati al reinserimento lavorativo delle donne in condizioni di svantaggio.

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Con il recepimento della legge 328/2000, tutti gli interventi e i servizi sociali, e quindi anche quelli in favore dei minori e delle famiglie, sono inquadrati entro alcuni indirizzi generali e quindi demandati ai Comuni e alle loro scelte autonome. Il quadro delle competenze in materia di politiche per i minori viene precisato nella l.r. 14 dicembre 2004, n. 34 (“Politiche regionali per i minori”), in cui il tema della tutela del minore, anche straniero, e del suo benessere complessivo si integra con il sostegno alle famiglie con minori per i compiti educativi e di cura e con la promozione delle politiche di conciliazione. Nel testo si afferma che la Regione (art.2): svolge attività di indirizzo politico e di programmazione. In specie «promuove politiche intersettoriali per minori», «favorisce la programmazione concertata e partecipata a livello zonale», «riconosce le forme di coordinamento territoriale dei servizi e degli interventi». Gli enti locali (art.4): realizzano e gestiscono i servizi sociali; erogano i titoli sociali per la fruizione dei servizi, «determinandone altresì i requisiti di accesso»; definiscono e promuovono gli interventi sociali garantendo «l’effettiva partecipazione dei soggetti del terzo settore nella programmazione zonale, nonché nella realizzazione e nella gestione degli interventi e dei servizi». Si specifica, inoltre, che i Comuni esercitano tali funzioni in forma associata a livello di ambito territoriale e che le Province «concorrono alla programmazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali»: rilevando il fabbisogno formativo del personale impiegato in ambito sociale e socio-sanitario e quindi programmando l’intervento formativo; promuovendo la conoscenza e l’applicazione del principio di sussidiarietà; attivando, nel caso, Osservatori sui Minori con funzioni di analisi e monitoraggio su scala locale. La legge regionale prevede, altresì, l’istituzione di un Comitato regionale di coordinamento per l’attuazione delle politiche intersettoriali destinate ai minori che, composto dalle direzioni generali che attuano interventi in ambito minorile, offre un parere tecnico preventivo sulla programmazione, sulle proposte di legge e sui provvedimenti amministrativi. Ugualmente, contempla l’istituzione di un Osservatorio regionale sui minori «con il compito di analizzare, monitorare e interpretare i fenomeni inerenti alla realtà minorile» e quindi offrire al legislatore regionale le necessarie basi conoscitive per formulare delle scelte strategiche. Sui temi della conciliazione, come visto già affrontati nell’ambito dell’intervento legislativo sulle famiglie e sui minori, si esprime più specificamente la l.r. 28 settembre 2006, n. 22, in particolare all’art.22 “Parità di genere e conciliazione tra tempi di lavoro e di cura”, dove si afferma che la Regione sostiene azioni di sistema a favore dell’inserimento e della continuità occupazionale delle donne e promuove, anche mediante il ricorso a voucher o altri incentivi economici, una serie di azioni e servizi tra cui:

• servizi domiciliari, asili aziendali e altro; • piani aziendali e territoriali per la ridefinizione degli orari di lavoro e dei tempi

dei territori e delle città; • misure in favore di soggetti, specie donne, che rientrano nel mercato del lavoro

dopo periodi di assenza prolungata; • azioni positive per la fruizione dei congedi parentali; • azioni di orientamento e informazione per favorire l’utilizzo degli incentivi ex

art. 9 L.53/2000; • azioni positive per la riduzione delle disparità di genere.

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In particolare, visto l’obiettivo della nostra indagine, risulta di interesse approfondire lo strumento dei c.d. “Voucher per servizi conciliativi”, introdotto in via sperimentale dalla Regione per consentire la partecipazione a percorsi di riqualificazione professionale. Il voucher in parola, di importo pari a un massimo di 250 euro ed erogabile per un massimo di dieci mesi, è corrisposto ai soggetti che beneficiano della Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali in presenza di alcuni requisiti quali: i) la presenza di almeno due figli a carico; ii) appartenenza a un nucleo familiare monogenitore con almeno un figlio a carico; iii) appartenenza a un nucleo familiare con entrambi i genitori in cassa integrazione in deroga e almeno un figlio a carico; iii) appartenenza a un nucleo familiare con un convivente non autosufficiente. Da ultimo, stando ai dati relativi agli stanziamenti finanziari, si osserva che in tema di conciliazione le ultime legislature hanno insistito primariamente sulla realizzazione, la ristrutturazione, l’ampliamento di asili nido (si veda, ad esempio, la DGR. 16 settembre 2009, n.8/10164) e, con l’obiettivo di differenziare e qualificare l’offerta, sulla sperimentazione di servizi simili come i nidi e micronidi aziendali, i nidi famiglia, gli spazi gioco. Altri finanziamenti hanno poi incentivato, mediante il c.d. “Bando Famiglia”, la creazione di reti di solidarietà interfamiliare e di forme di auto-organizzazione e aiuto solidale, nonché lo sviluppo dell’associazionismo familiare; oppure, attraverso il c.d. “Bando Fare rete e dare tutela e sostegno alla maternità”, i progetti a carattere sperimentale presentati, in accordo con quanto stabilito dalla legge regionale, da soggetti del terzo settore in favore dell’assistenza alle famiglie in difficoltà sociale, psicologica, assistenziale, sanitaria. 2.4. Le politiche di istruzione, formazione, lavoro L’approccio di programmazione, gestione ed erogazione dell’intervento in materia sociale e socio-sanitaria sin qui descritto è stato esteso anche ad altri campi. Tra di essi, la formazione, l’istruzione, il lavoro che, a seguito delle riforme attuate a livello regionale, sono divenuti un unico ambito integrato. Questo approccio si regge, sotto l’aspetto normativo, su due pilastri (Albonetti, Violini, 2008): la l.r. 6 agosto 2007, n. 19, che reca “Norme sul sistema educativo di istruzione e formazione della Regione Lombardia” e la l.r. 22/2006 su “Il mercato del lavoro in Lombardia”. Il primo pilastro interviene a ridefinire i confini del sistema formativo, che nel testo di legge viene ora definito in termini integrati come «l’insieme dei percorsi funzionali all’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e all’obbligo di istruzione, nonché all’inserimento e alla permanenza attiva nel mondo del lavoro», ma anche «alla crescita delle conoscenze e delle competenze lungo tutto l’arco della vita» (art.1). È chiaro, in questi termini, che il sistema dell’istruzione e della formazione professionale si pone come obiettivo quello di accompagnare il soggetto anche nel mercato del lavoro, dotandolo, mediante la formazione continua e permanente, di un bagaglio di competenze, quanto più possibile ricco e aggiornato; soprattutto, mettendolo nelle condizioni che favoriscano la sua libertà di scelta, nel rispetto del principio della centralità della persona (art.2). Per rendere effettivi questi principi, che sono poi quelli su cui insiste l’intero sistema di welfare locale, la Regione interviene al fine di rimuovere gli impedimenti di ordine economico che limitano l’accesso e la libera scelta dei percorsi educativi nonché la presenza nel sistema educativo stesso. Posta la parità

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dei soggetti accreditati che erogano i servizi, essa può dunque attribuire buoni e contributi alle famiglie per favorire la frequenza dei figli alle istituzioni scolastiche e formative del sistema regionale (art.8). Il riferimento corre, dunque, ai buoni scuola già introdotti con la l.r. 1/2000 a sostegno della libertà di scelta in campo educativo delle famiglie e in particolare a copertura, parziale o totale, delle spese effettivamente sostenute per la frequenza dei figli a scuole statali o non statali, paritarie, legalmente riconosciute e parificate; ma anche ai buoni formativi, introdotti dalla medesima legge regionale, per poter «fruire di interventi di formazione professionale e formazione continua presso strutture accreditate scelte direttamente dai soggetti interessati». Il secondo pilastro è costituito dalla legge regionale di riforma del mercato del lavoro, il cui nucleo è rappresentato dalla riorganizzazione delle competenze e dei ruoli degli attori coinvolti in un’ottica sussidiaria. Alla Regione (art.2) è assegnato il compito di programmazione e disciplina del mercato del lavoro, il monitoraggio, il controllo e la valutazione delle attività inerenti le politiche del lavoro e quelle integrate dell’istruzione e della formazione professionale, il coordinamento dei diversi attori locali. Per tali ragioni, la legge istituisce organismi tecnici quali l’Agenzia regionale per l’istruzione, la formazione, il lavoro (Arifl); di monitoraggio e analisi come l’Osservatorio per il mercato del lavoro e richiama la figura di un Valutatore indipendente. Alle Province (art.4) competono, invece, le funzioni di programmazione territoriale e, in via esclusiva, l’esercizio di alcune funzioni di tipo amministrativo, tra le quali l’attivazione delle procedure per l’erogazione dei benefici relativi allo stato di disoccupazione. Le Province coinvolgono, in questi compiti, le parti sociali all’interno delle Commissioni provinciali per il lavoro e la formazione, veri e propri organismi di concertazione territoriale. Tra gli organi istituzionali vi sono poi da ricordare il Comitato istituzionale di coordinamento, organismo di partenariato e di collaborazione istituzionale, il cui obiettivo è di garantire l’integrazione dei servizi per il lavoro, delle politiche attive, dell’istruzione e della formazione; la Commissione regionale per le politiche del lavoro e della formazione, che ha funzioni di proposta, progettazione, valutazione, verifica rispetto alle linee programmatiche e alle politiche. Dell’insieme dei soggetti che compongono il sistema di sostegno al lavoro fanno parte, infine, gli operatori pubblici e privati, accreditati o autorizzati (art.13). Essi erogano servizi di sostegno al lavoro per i soggetti in cerca di occupazione e, più in generale, concorrono all’attuazione delle politiche del lavoro. Per restringere l’analisi ai temi oggetto di indagine, ovvero la formazione e l’orientamento al lavoro, la legge sancisce il diritto alla formazione continua e permanente, come garanzia dell’occupabilità e della capacità di reddito del soggetto, e interviene in tale direzione “attraverso politiche integrate, dell’orientamento al lavoro e [del]la formazione professionale”. A tutela dell’esercizio del diritto alla formazione, la Regione si adopera per assicurare la libertà di scelta nella costruzione dei percorsi formativi. Ancora una volta, questo significa primariamente l’ampliamento dell’offerta e il miglioramento dei suoi livelli qualitativi in un regime di quasi-mercato in cui il pubblico svolge il ruolo di regolatore, attraverso il meccanismo dell’accreditamento, e i soggetti scelgono mediante il sistema dei titoli sociali. Il modello dei buoni e dei voucher ha trovato una sistematizzazione nel c.d. Sistema Dote4 (Delibera n. VIII/8864 del 14 gennaio 2009). Esso si sviluppa lungo tre linee o tipologie di intervento.

4 Lo stanziamento per il Sistema dote è di 333 milioni di euro per il 2009.

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Vi è in primo luogo la Dote Scuola5, che accompagna il percorso educativo dei ragazzi dai 6 ai 18 anni ed è quindi riconosciuta agli studenti delle scuole statali e paritarie di ogni ordine e grado e a chi frequenta i percorsi triennali di formazione professionale. Si caratterizza per diverse componenti, differenziate anche in quanto ai requisiti di accesso (la residenza o il domicilio nella regione, la frequenza a istituzioni educative, determinati parametri reddituali):

• il Buono Scuola, come detto, introdotto a garanzia della libertà di scelta educativa;

• l’integrazione al Buono scuola, pensato come sostegno aggiuntivo per le famiglie numerose;

• il contributo per la disabilità, destinato alla formazione personalizzata dei soggetti portatori di handicap;

• il sostegno al reddito, a garanzia della permanenza nel sistema educativo – istruzione statale o formazione professionale regionale – dei soggetti meno abbienti;

• la componente Merito, un premio per i risultati scolastici conseguiti; • dote scuola per l’istruzione e la formazione professionale, a copertura delle

spese di frequenza degli iscritti ai corsi regionali.

Secondo perno del sistema è la Dote Formazione6, un insieme di risorse volte a «favorire l’occupabilità delle persone e l’innalzamento del livello di competenze lungo tutto l’arco della vita». La dote, il cui valore può arrivare a un massimo di 5.000 €, permette, in particolare, di usufruire di uno o più servizi formativi (corsi di specializzazione e di formazione permanente) erogati da operatori accreditati dalla Regione, per una durata massima di 24 mesi complessivi. La scelta dei servizi formativi avviene entro un Piano di Intervento Personalizzato (PIP), definito in raccordo con l’operatore accreditato e scelto dalla persona medesima. Per accedere alla dote, sono necessari requisiti anagrafici (la residenza o il domicilio in Lombardia; un’età inferiore ai 64 anni alla data d’invio della domanda), occupazionali (essere disoccupati o inoccupati), formativi (il possesso di un attestato di competenza di III livello europeo, conseguito con il completamento del quarto anno di Istruzione e Formazione Professionale; di un diploma di scuola secondaria superiore; di una laurea o di un titolo superiore). Infine, c’è la Dote Lavoro7, il cui obiettivo è quello di favorire l’inserimento o il reinserimento lavorativo, la riqualificazione professionale anche mediante l’erogazione di un sostegno economico a chi ha perso il lavoro. Invero, insieme alla Dote Lavoro i disoccupati che non percepiscono indennità di disoccupazione o di mobilità possono richiedere, fino a esaurimento delle risorse disponibili, l’indennità di partecipazione; questa non può superare il valore dei servizi richiesti con la Dote ed è pari a un massimo di 300 euro mensili per ogni mese di fruizione dei servizi, per un numero massimo di 10 mesi. La Dote Lavoro si rivolge ai soggetti residenti o domiciliati in Lombardia di età inferiore ai 64 anni, che abbiano assolto l’obbligo di Istruzione e Formazione

5 La Dote Scuola è definita, oltre che dalla già citata l.r. 19/2006, dalla delibera n. VIII/ 8864 del 14 gennaio 2009; dal Decreto n. 974 del 5 febbraio 2009; dal Decreto n.8003 del 31 luglio 2009. 6 I riferimenti normativi per la Dote Formazione sono i seguenti: delibera n. VIII/ 8864 del 14 gennaio 2009; decreto 3299 del 3/4/09; Decreto n. 3300 del 3/4/09; decreto n. 3303 del 3/4/09. 7 La Dote Lavoro è disciplinata dalla delibera n. VIII/ 8864 del 14 gennaio 2009; dal decreto 3299 del 3/4/09; dal decreto n. 3300 del 3/4/09; dal decreto n. 3303 del 3/4/09.

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Professionale alla data di invio della domanda e che siano inoccupati o disoccupati, iscritti nelle liste di mobilità, sospesi dal lavoro in Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. Permette di fruire di servizi di politica attiva e di percorsi formativi, scelti entro l’Offerta dei Servizi formativi e dei servizi al Lavoro. Più nello specifico i fruitori della Dote possono definire, presso un centro accreditato per i servizi al lavoro, un percorso individuale (PIP) che preveda un supporto nell’individuazione dei fabbisogni individuali, dei percorsi formativi disponibili, delle opportunità di inserimento. È possibile scegliere tra i seguenti servizi di politica attiva:

• un colloquio di accoglienza di I livello, erogato a titolo gratuito e articolato nella

verifica dei requisiti, in un colloquio di orientamento, nella fornitura di informazioni sui servizi disponibili, nella presa in carico da parte dell’operatore del servizio;

• un colloquio individuale di II livello, ovvero in un esame approfondito delle caratteristiche e dei bisogni del soggetto e nella redazione di un curriculum vitae;

• bilancio delle competenze; • tutoring e counselling orientativo ai meccanismi di funzionamento del mercato

del lavoro (strumenti di ricerca, aggiornamento del proprio curriculum vitae, preparazione al colloquio di selezione, etc.);

• scouting aziendale e ricerca attiva del lavoro; • monitoraggio, coordinamento, gestione del piano di intervento personalizzato; • consulenza e supporto verso l’autoimprenditorialità.

I servizi di politica attiva possono essere integrati con uno o più corsi formativi e con il servizio di tutoring e accompagnamento allo stage, nel caso in cui esso sia previsto, al termine del percorso d’aula. Il sistema della Dote Lavoro si caratterizza per altre componenti, tra cui quelle rivolte specificamente a soggetti deboli, disabili, categorie prioritarie, a rischio di svantaggio o emarginazione. La più importante è però la Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali che, definita in base a un accordo con il Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali dell’Aprile 2009 e a un’intesa con le Parti Sociali, prevede l’estensione del sistema degli ammortizzatori sociali ai datori di lavoro che non possono ricorrere alla Cassa Integrazione e alle categorie di lavoratori subordinati a tempo indeterminato o determinato, inclusi interinali e apprendisti, finora senza tutele. Questi lavoratori, secondo i termini dell’accordo, potranno usufruire di ammortizzatori sociali in deroga accompagnati dalla Dote Lavoro in esame, ovvero di servizi personalizzati volti al reinserimento lavorativo e all’incremento delle competenze professionali. Dote Lavoro e ammortizzatori sociali, in un sistema di integrazione tra politiche attive e passive, sono inscindibili, poiché chi rinuncia ai servizi offerti dalla Dote perde anche i benefici economici. Il soggetto è tenuto ad accettare la dote aderendo a una proposta che gli venga formulata in base all’accordo sindacale che è stato sottoscritto per potere accedere alla Cassa integrazione in deroga, ovvero in base ad eventuali accordi sindacali territoriali e/o settoriali. Nel caso in cui gli accordi non lo prevedano, sono comunque stabilite altre modalità di adesione. Il dispositivo della Dote applicato alla formazione al lavoro si prefigge di sollecitare la domanda formativa individuale, con l’obiettivo di costruire una risposta efficace, puntuale e il più possibile “su misura”, capace di sostenere i soggetti soprattutto nei momenti di difficoltà e transizione lungo il loro corso di vita. In questo senso, tale

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dispositivo ricalca come detto l’impostazione del sistema socio-sanitario lombardo, adottando un approccio demand side, che parte cioè dal bisogno espresso dal destinatario finale per costruire l’offerta. Si tratta certamente di un dispositivo innovativo e importante. Non solo esalta la libertà di scelta del soggetto e stimola la partecipazione alla formazione, ma rende anche visibile all’utente finale il costo di investimento pubblico della formazione stessa: un aspetto certo positivo che può rafforzare la responsabilità individuale al riguardo. La sua messa a regime non è però scevra da elementi di criticità, sia per il sistema formativo (e la possibilità di costruire progettare l’offerta a fronte di una domanda fluttuante; ciò che rende fluttuanti – di conseguenza – anche le risorse), sia per gli stessi potenziali utenti che hanno – come evidente – diversa capacità di riconoscere ed esprimere il loro bisogno formativo, nonché di sfruttare a loro vantaggio il dispositivo stesso. L’impatto di questo orientamento demand side (che si ispira a una concezione del welfare di tipo asset-based) anche con riferimento alla formazione non può certo ancora essere valutato pienamente, e tuttavia appare chiaro già sin d’ora che il suo successo dipende fortemente da alcune precondizioni che sono in buona parte da sviluppare o quantomeno da rafforzare: tra le altre, una rete stabile tra enti formativi che consenta loro di riconoscersi in interessi comuni; modalità strutturate di presa in carico e accompagnamento dei soggetti nei processi di scelta (con l’obiettivo anche di “qualificare” tale scelta); servizi di certificazione delle competenze.

2.5. Le politiche per il contrasto alla povertà e per l’inclusione sociale dei soggetti svantaggiati

Se prendiamo a riferimento la spesa regionale per gli interventi di politica sociale e socio-sanitarie – nelle sue diverse componenti di finanziamento – e la sua allocazione tra le diverse funzioni (ultimi dati riferiti al 2003), notiamo che l’area specifica dell’emarginazione (dipendenze, povertà, carcere) e dell’immigrazione è certamente un ambito di intervento residuale (Gambino, 2005). Per questa tipologia di destinatari, le politiche regionali prevedono servizi e interventi di assistenza socio-sanitaria e quindi progetti di inserimento o reinserimento. Come lo stesso sistema della Dote mette in luce, e come già appariva nel commento che abbiamo proposto sulla l.r. 23/1999, il principale canale attraverso cui combattere il rischio di povertà e di esclusione sociale è, secondo il legislatore regionale, l’occupazione. Di questo orientamento si trova traccia esplicita nel Piano Socio-Sanitario Regionale 2007-2009, ossia nel documento di indirizzo più recente. In esso si stabilisce che i programmi di inclusione sociale dovranno prevedere azioni di «reinserimento sociale, abitativo e lavorativo» mediante l’individuazione di «modalità di intervento sistemiche» e lo sviluppo di «un sistema integrato di interventi finalizzati a contrastare i processi di esclusione sociale, le situazioni di nuove povertà e di abbandono sociale, ancorando i progetti nell’ottica del rispetto della dignità umana e del raggiungimento di obiettivi centrati sulla persona». La logica che il legislatore regionale fa propria considera la gestione non «più una questione di compensazione di svantaggi ma prevalentemente di prevenzione del rischio mediante l’affermazione di “standard” di normalità». In quest’ottica, tra gli obiettivi che vengono considerati prioritari, vi sono, in particolare, la sperimentazione: i) «di modalità di intervento integrative e/o migliorative dell’offerta al fine di garantire una maggiore fruibilità del sistema dei servizi anche attraverso la

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realizzazione di strategie collaborative tra più attori e processi»; ii) «di iniziative di reinserimento e reintegrazione sociale di formazione professionale, lavorative per promuovere l’autonomia delle persone». Ugualmente, anche per quanto concerne gli stranieri, il piano insiste sulla promozione della regolarità della stabilità del soggiorno, il che significa principalmente, secondo quanto stabilito dalla normativa nazionale, la stabilità della condizione lavorativa. Il legame tra inclusione, autonomia individuale e occupazione risulta forse ancora più evidente nel Programma Operativo Regionale 2007-2013 che, come espressamente affermato al suo interno, è incentrato sul conseguimento degli obiettivi di crescita sanciti nella Strategia di Lisbona e, in specie, sul rafforzamento delle competitività dell’economia regionale e della coesione sociale. Se limitiamo l’analisi alle misure previste lungo l’asse “Inclusione Sociale”, notiamo in primo luogo come l’attenzione ricada sugli immigrati, i disabili e le persone in condizioni di svantaggio sociale, considerate come le fasce di popolazione più esposte al rischio di esclusione. Il Por 2000-2006 aveva insistito in primis su interventi a carattere formativo e quindi su percorsi innovativi di integrazione e forme di sostegno. La nuova programmazione, nell’auspicare il consolidamento dei sistemi di governo delle politiche in materia, sembra invece puntare in modo più deciso sull’inserimento nel mercato del lavoro. A tal proposito richiama, ad esempio, nell’iniziale analisi di contesto, le esperienze positive condotte in tema di collocamento dei soggetti disabili (L. 68/99) e quindi indica la scelta di procedere nella medesima direzione, vale a dire verso il perfezionamento delle dinamiche di incontro tra domanda e offerta. Laddove, poi, si vanno a precisare nel dettaglio la strategia e le priorità di intervento, l’obiettivo prioritario lungo l’asse inclusione sociale viene indicato nel «miglioramento delle possibilità di accesso e di permanenza nel mercato del lavoro da parte delle categorie deboli», da conseguirsi «accrescendo la sicurezza e la stabilità del lavoro e riducendo i fattori di precarietà e di esclusione». In merito agli strumenti e agli interventi da implementare, viene precisato che essi saranno promossi attraverso il «consolidamento del modello a scelta individuale» e «valorizzando la forma progettuale e organizzativa di integrazione pubblico privato e tra operatori della filiera orientamento-istruzione-formazione» previste dalla legge regionale di riforma del mercato del lavoro. In termini di risorse, l’intervento nell’area inclusione sociale pesa per circa il 10% sul bilancio finanziario del POR 2007-2013. In chiusura, va sottolineato che in materia di povertà ed esclusione sociale non vi è, a livello regionale, una legge quadro. Piuttosto, vista la multidimensionalità delle questioni, si rimanda ai provvedimenti legislativi inerenti le diverse aree di bisogno. 2.6. Alcuni spunti di riflessione: ricomporre il vaso infranto Quanto sinora discusso in merito ai presupposti culturali, agli orientamenti politici e alle scelte legislative che hanno indirizzato il processo di riforma del welfare locale getta senza dubbio luce sulla specificità e sulla rilevanza dei cambiamenti introdotti in Lombardia in ambito sociale e socio-sanitario. L’impianto di programmazione, gestione, erogazione delle politiche che ha progressivamente preso forma costituisce, in effetti, un’esperienza unica nel panorama nazionale, sia per il portato di innovazione a esso abbinato, sia per la complessità delle trasformazioni avviate.

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Volendo riprendere quanto si è argomentato nelle pagine precedenti e si è cercato altresì di riassumere in veste grafica in chiusura, il welfare regionale si contraddistingue almeno per due aspetti. In primo luogo per il rinnovato modello di governance, costruito a partire dall’affermazione del principio di sussidiarietà, verticale e orizzontale (Griglia 1), sostenuto ai sensi della normativa nazionale, ma al tempo stesso rafforzato tramite le leggi regionali. Trasversalmente alle aree di politica, la legislazione regionale ha infatti sancito in modo puntuale la ripartizione delle funzioni tra i diversi livelli e attori del sistema di welfare. Nello specifico:

• la Regione ha mantenuto in capo a sé i compiti e le responsabilità di indirizzo, programmazione, coordinamento e, mediante propri enti strumentali, di controllo e verifica;

• Province e Comuni concorrono, secondo competenze specifiche e in ambiti distinti, alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi stabiliti in sede regionale;

• nell’ottica della valorizzazione delle molteplici formazioni sociali attive sul territorio, il terzo settore – nelle sue molteplici espressioni – è stato chiamato a compartecipare ai processi di programmazione delle politiche, a livello regionale e locale. In tale prospettiva, si sono previste apposite modalità di promozione della società civile e delle sue forme associative, nonché tavoli di rappresentanza del terzo settore ai diversi livelli e nei diversi contesti istituzionali.

In secondo luogo, per gli strumenti e le modalità adottati per dare seguito al bisogno sociale e socio-sanitario. In effetti, con lo scopo di stimolare e valorizzare le soluzioni che si originano “dal basso” e dunque sostenere la trasformazione diretta dell’offerta a seguito della variazione della domanda – ovvero della trasformazione dei bisogni – si è operato per favorire la competizione di più soggetti erogatori in un sistema di “quasi-mercato”, in cui il pubblico interviene tanto a tutela della qualità del servizio quanto – obiettivo esplicito di tutte le politiche – a garanzia della libertà individuale di scelta. Di qui la spinta in direzione di un maggiore pluralismo dell’offerta, di prestazioni e servizi e di soggetti erogatori degli stessi, e della diffusione dei titoli sociali; del voucher innanzitutto, e il sistema della Dote poi, strumenti pensato per “attivare” il soggetto nella definizione delle risposte alla propria condizione di bisogno e, al contempo, per riprogettare la logica del welfare stesso, capovolgendo, come detto, il rapporto tra risposte e bisogni. La profonda trasformazione istituzionale di cui abbiamo dato conto si è completata, come indicano le leggi regionali prese in esame, soltanto di recente; questo significa che gli effetti e i risultati del percorso di riforma si manifesteranno in modo compiuto negli anni a venire ed è dunque imprudente avventurarsi in valutazioni a carattere definitivo. Ciò detto, pare in ogni caso opportuno iniziare a investigare quelli che sembrano essere alcuni nodi chiave del sistema; nodi che concernono l’impatto prodotto sia sui soggetti che costituiscono la rete del welfare locale sia sugli utenti dei servizi e che riguardano, principalmente, le fasi di progettazione e di gestione delle politiche. Nel fare questo la nostra riflessione poggia, oltre che sulla letteratura disponibile, sulle valutazioni e le considerazioni che abbiamo raccolto in questa prima fase della ricerca, in specie a seguito delle interviste compiute a diversi attori istituzionali operanti a livello regionale e ad alcuni soggetti del terzo settore.

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In merito alla prima fase, la progettazione, una questione fondamentale è sicuramente il grado di effettivo coinvolgimento degli enti locali e dei soggetti del terzo settore. Al di là di quanto stabilito in via normativa, vi è infatti la sensazione che la Regione eserciti un ruolo decisionale e deliberativo forte, quasi esclusivo, secondo alcuni osservatori ponendosi quasi a un livello superiore e comunque limitando di fatto il contributo degli enti locali e del terzo settore alla ratifica delle scelte politico-programmatiche compiute. Del resto, è l’attore istituzionale a governare in larga misura la composizione dei tavoli di confronto. Nella costruzione di questo rapporto, virtualmente sussidiario, tra gli attori del welfare, non va dimenticato che hanno un peso indubbio le difficoltà dei soggetti del terzo settore a costruire tra di loro connessioni solide e articolate e a ricomporre la loro eterogeneità di fondo in forme significative di rappresentanza, come pure la carenza di molti Comuni in termini di risorse conoscitive e competenze specifiche sulle materie sociali e socio-sanitarie. Lo stesso sembra valere anche a livello comunale o distrettuale dove, secondo un orientamento che pare piuttosto diffuso, gli enti locali tendono a declinare la sussidiarietà prevalentemente sotto forma di coinvolgimento degli attori sociali nella validazione delle decisioni prese e nell’erogazione delle prestazioni e dei servizi più che nella programmazione degli stessi. Ad ogni buon conto, le interviste condotte rivelano che, proprio a questo livello, si scorgono chiare tracce di una collaborazione tra attore pubblico e terzo settore anche per quanto concerne la definizione delle modalità di risposta al bisogno. Si tratta di una collaborazione che avviene però soprattutto in via informale, non istituzionalizzata, primariamente tra i funzionari e i tecnici degli enti locali e gli operatori del terzo settore e i cui risultati vengono ricomposti e restituiti agli organi politici sotto forma di proposte progettuali da parte degli stessi ruoli tecnici. Sul versante gestionale, le principali questioni aperte hanno a che vedere tanto con gli erogatori delle prestazioni (e quindi con gli operatori) quanto con gli utenti dei servizi. Come Magatti (2008) ha fatto notare di recente, la traduzione operativa del principio della libertà di scelta, così ampiamente enfatizzato dalla legislazione regionale, si misura in verità sia con le reali capacità e dotazioni degli individui, sia con la consistenza dell’offerta. Precondizioni indispensabili per l’esercizio della libertà di scelta sono allora la presenza di più erogatori di un medesimo servizio, situazione che richiede – rilievo non secondario – l’aggiustamento delle logiche, delle modalità progettuali, dell’offerta fornita da molti enti abituati a operare in regime di monopolio; ma soprattutto la possibilità che i soggetti, specie quelli più vulnerabili ed esposti, siano in grado di interpretare la facoltà che è loro assegnata non come un onere aggiuntivo ma come una risorsa. Questo in un quadro in cui l’utente si trova tendenzialmente in una condizione di asimmetria informativa rispetto al servizio di cui necessita oppure, a motivo del modo in cui è progettato il sistema dei voucher, si trova a sperimentare difficoltà nel cambiamento dell’erogatore del servizio stesso qualora insoddisfatto; senza contare che lo stesso dispositivo dei voucher implica una catalogazione a priori dei servizi che rischia di non intercettare pienamente la domanda, precostituendo pacchetti standard costruiti su un profilo tipologico di utente, più che sulla singola persona. Da ultimo, per quanto attiene l’integrazione delle politiche oggetto di approfondimento, come mostra quanto riportato nelle Griglie 2 e 3, sia in termini di competenze istituzionali che di strumenti di programmazione, ad un primo sguardo pare di notare una certa cesura tra gli ambiti sociale e socio-sanitario e quello socio-economico. In verità, quella che sembra una separazione per aree funzionali piuttosto marcata (a livello

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regionale), trova tuttavia ricomposizione laddove le azioni di politica sono pensate a contrasto dell’esclusione sociale, con quest’ultima condizione intesa originariamente a sinonimo di grave emarginazione e ora, a seguito dell’attuale fase congiunturale, anche di disoccupazione. D’altro canto, riprendendo quanto già discusso nelle pagine precedenti, nell’impianto del welfare lombardo il lavoro retribuito viene considerato la migliore protezione contro la povertà e l’esclusione sociale nonché, più in generale, il principale strumento di attivazione e acquisizione di una condizione di autonomia individuale. In questo senso si può dire che l’approccio lombardo al welfare è affine al modello workfarista e asset-based. L’integrazione delle politiche nella prospettiva del reinserimento socio-occupazionale appare peraltro, in tempi segnati, anche in regioni quali la Lombardia, dalla ordinarietà dell’esposizione al rischio di una parte consistente della popolazione, una scelta imprescindibile. Questo perché la vulnerabilità in parola è una situazione causata dalla fragilità del soggetto su più versanti – l’abitazione, lo stato di salute, il lavoro, il capitale umano e, soprattutto, la rete di relazioni in cui è inserito – e dunque invita di per sé, come ci è stato suggerito in sede di intervista, a superare l’idea che le politiche siano settoriali e quindi vadano progettate in risposta a profili tipologici, a categorie definite di bisogno; piuttosto richiede una risposta effettivamente personalizzata, vale a dire costruita secondo le esigenze, le risorse e le condizioni reali del beneficiario. Ma questo richiede un intervento complesso, che sappia ricomporre quanto frantumatosi nel confronto con le c.d. nuove povertà e, prima ancora – questa sembra essere la logica sottesa all’intervento del welfare regionale –, prevenire possibili rotture nelle biografie individuali. Qui sta un ulteriore nodo del sistema: la necessità di ricomporre le politiche sin dalla fase di progettazione significa dotare gli operatori, e più in generale il territorio, di competenze e strumenti in grado di rispondere alla complessità crescente dei bisogni, di opportunità reali di confronto e raccordo. Ciò almeno se la logica di intervento intende essere capovolta e si vuole passare dalla “compensazione” alla “ricomposizione” e alla “prevenzione”. Altrimenti, come è stato sottolineato in sede di intervista, un’integrazione delle politiche che parta dal basso rischia di essere come il tentativo di “incollare un vaso rotto”: il risultato è un vaso aggiustato, che resta fragile, mentre occorrerebbe riprogettarlo da capo. Anche in questo la Lombardia pare essere un “laboratorio” davvero interessante e certamente sede di elaborazione di buone pratiche. In questa prospettiva, come confermato da numerosi testimoni privilegiati (delle istituzioni e del mondo del terzo settore) da noi intervistati, la scelta di scegliere la città di Milano come case study locale appare particolarmente felice ancorché molto impegnativa, data la sua complessità. Felice perché vivace sotto il profilo della innovazione istituzionale, della partecipazione degli enti no profit e della società civile. Basti pensare, solo per lanciare un tema che sarà oggetto di indagine, alla riflessione aperta a Milano sulla necessità di sperimentare strumenti di prossimità quali il “segretariato sociale”, ovvero lo “sportello unico”. Impegnativa perché, in forza del suo ruolo di capoluogo regionale, e dunque del suo peso politico, ma anche in virtù del suo essere capitale economica, snodo di una rete transnazionale, meta privilegiata di immigrazione, e molto altro ancora, rappresenta una realtà per certi aspetti unica e atipica dentro al contesto lombardo, pur nella continuità politica che lega il governo della Regione e quello del Comune.

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Griglia 1: l’architettura istituzionale del sistema di politiche sociali, formative e del lavoro Ambiti di policy Fasi di policy Minori Conciliazione Inclusione Formazione e

lavoro Rapporti

istituzionali Sussidiarietà verticale:

– La Regione svolge funzioni di indirizzo, programmazione, coordinamento, controllo e verifica

– Province e Comuni concorrono alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi (in via univoca alle Province spetta la programmazione delle politiche del lavoro sulla base degli indirizzi regionali)

Governance orizzontale

Sussidiarietà orizzontale: programmazione partecipata a livello

zonale mediante i Piani di Zona

Programmazione

Tipicità del modello

Mercato sociale regolato o quasi-mercato: accreditamento degli erogatori, secondo principi stabiliti a

livello regionale Fondo nazionale politiche sociali

Fondo Sociale regionale Fondo socio-sanitario

Fonti di finanziamento

Fondo Sociale Europeo 2007/2013

L. 53/2000 L. 53/2000 L. 236/1993 L. 388/2000

Pacchetti anticrisi 2009

Gestione

Strumenti di erogazione

Servizi e strutture Titoli sociali: buoni e voucher sociali

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Griglia 2 – Gli strumenti di programmazione e i livelli di competenza Ambiti di policy

Minori Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

Strumenti di programmazione

l.r. 23/99 “Politiche Regionali per la Famiglia”

l.r. 13/03 “Promozione all’accesso al lavoro delle

persone disabili e svantaggiate"

l.r. 19/07 “Norme sul

Sistema Educativo di Istruzione e

Formazione della Regione

l.r. 34/2004 “Politiche Regionali per i Minori”

l.r. 22/06 “Il Mercato del

Lavoro in Lombardia”

l.r. 28/04 “Politiche Regionali

per L’Amministrazione e il Coordinamento

dei Tempi delle Città”

l.r. 22/2006 “Il Mercato del

Lavoro in Lombardia”

l.r. 3/08 “Governo della Rete degli Interventi e dei Servizi alla

Persona in Ambito Sociale e Socio-Sanitario”

POR ob.2 FSE 2007-2013

Piano Socio-Sanitario (2007-2009) Piano di azione regionale per il

lavoro Linee d’indirizzo per la programmazione dei Piani di Zona

Livello istituzionale di competenza

Dipartimento “Famiglia e Solidarietà Sociale”

Dipartimento “Istruzione,

Formazione e Lavoro”

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Griglia 3 – Il network degli attori coinvolti Ambiti di policy Attori coinvolti

Minori Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

Enti locali Asl Asl

Osservatorio Regionale sui

Minori

Commissione Regionale pari

opportunità

Osservatorio Regionale

sull’Esclusione Sociale

Agenzia Regionale per l’istruzione,

formazione e lavoro

Consiglieri/e regionali

e provinciali di parità

Osservatorio Regionale per

l’Integrazione e la Multietnicità

Osservatorio Regionale sul

mercato del lavoro

Osservatorio regionale

dipendenza

Commissioni regionale e

provinciali per le politiche del lavoro e della formazione

Centri per l’impiego

Pubblico anche in qualità di ente promotore, capofila, coordinatore

Centro Risorse Regionale per l’integrazione delle donne nella vita

economica e sociale

Centri formazione professionale

Parti sociali Organizzazioni sindacali e datoriali

Enti, associazioni, fondazioni, cooperative sociali di vario genere Privato sociale

Comunità per minori

Servizi scolastici ed educativi accreditati

Privato

Imprese

Operatori accreditati per

servizi istruzione e formazione

professionale, servizi al lavoro,

servizi alla formazione

Società Civile Associazionismo e volontariato

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3. Il “modello Milano”8 3.1. Premessa. I principi cardine del welfare milanese Ricostruire il quadro del sistema di welfare di una metropoli complessa come Milano è impresa ardua, quand’anche l’attenzione si focalizzi solo sul Comune. La connotazione di Milano come nodo di una rete di connessioni transnazionali; il suo essere attraversata da flussi materiali e simbolici, di risorse e di persone, che si svincolano dallo spazio per seguire logiche funzionali e fanno della mobilità la norma della vita urbana; la necessità realizzare di una mediazione continua tra dimensione locale e scenario globale – mediazione su cui si gioca la possibilità di continuare a creare socialità, a costruire integrazione e coesione sociale – sono tutti aspetti che rendono vivida l’immagine di Milano come città “infinita” (Bonomi, 2008; Magatti et al. 2005). Un’immagine utilizzata spesso per dare conto di questa sua estroflessione verso l’esterno, dell’impossibilità di definirne confini certi, non tanto da un punto di vista amministrativo (sebbene anche gli stessi confini amministrativi, come sempre accade nelle città metropolitane, seguano criteri discutibili in relazione al continuo sviluppo della morfologia urbana) quanto sotto il profilo economico, sociale, culturale, comunicativo, identitario. Un’estroflessione che rende arduo discriminare tra insider e outsider; tra le moltitudini di city users, non residenti, che quotidianamente vivono e rendono pulsante cuore cittadino, e coloro che, al contrario, vivono esperienze di lavoro e relazionali che si snodano ben oltre la loro residenza milanese o ancora quegli immigrati soggiornanti ma non residenti, magari inseriti nell’economia locale ma senza pieno accesso alla cittadinanza sociale. Da questo punto di vista il problema è certo quello della mobilità e dei flussi che attraversano la città, che portano in primo piano la dimensione funzionale del territorio al posto di quella integrativa (Magatti, 2007), ma è anche quello della definizione dell’appartenenza alla comunità locale, e per converso della strutturazione – a volte implicita – di processi di esclusione, rispetto ai quali le politiche locali devono tenere alta la guardia. La portata di quest’ultima affermazione si comprende laddove ci si addentri nell’analisi delle politiche sociali del Comune, che individuano nei paradigmi della welfare community e nella community care rispettivamente il modello e la filosofia del sistema di welfare locale, e dove la capacità di attivare la cittadinanza (tutta) e di garantire un approccio universalistico divengono requisiti ineludibili. Avendo sullo sfondo questa premessa, proviamo a capire meglio come effettivamente si sostanziano tali due paradigmi nella realtà di Milano, ben sapendo che si tratta di paradigmi invalsi ogniqualvolta si mette a tema la specificità del welfare territoriale, partecipato e attivo (cfr. capitolo introduttivo), ma che di fatto si precisano in ogni contesto secondo le scelte politiche operate. I documenti di programmazione comunali, su tutti il Piano di Zona, offrono una chiara definizione di quali siano i capisaldi normativi e valoriali del sistema di welfare comunale (e dunque dei due termini appena richiamati); a essi ci riferiremo in via elettiva sia in questa premessa, sia nel prosieguo, laddove quanto emerso dalla lettura

8 di Rosangela Lodigiani (§ 3.1) ed Egidio Riva (§ 3.2, 3.3, 3.4); gli autori insieme hanno redatto il paragrafo conclusivo (3.5).

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critica dei documenti si integrerà con la letteratura disponibile e con le risultanze dell’indagine che abbiamo effettuato sul campo.

A partire dall’indagine condotta emergono con chiarezza alcuni punti cardine del welfare municipale. Essi sono:

I) la continuità politica e strategica in cui si muove il Comune rispetto al quadro di riferimento fornito a livello regionale; continuità sostenuta anche dalla omogeneità del colore politico tra della giunta regionale e quella comunale;

II) la specificità del modello di welfare locale, in ragione sia dell’articolazione data agli assessorati, alle scelte di accorpamento dei settori, di cui discuteremo; sia della leadership forte esercitata dall’Assessorato (e dall’Assessore stesso) alla Famiglia, Scuola, e Politiche sociali; sia dalla vitalità della società civile cittadina, intessuta di associazionismo, volontariato, cooperazione sociale, nonché dalla consuetudine della cittadinanza, in forme variamente organizzate, a partecipare alla produzione del welfare locale, ancor prima che gli strumenti legislativi precisassero il quadro normativo in cui ciò si sarebbe potuto realizzare e rafforzare ulteriormente; sia – non ultimo – alla dimensione mono-comunale del Piano di Zona, che consente di avere una visione integrata del territorio e di sottrarsi a dispendiose negoziazioni tipiche dei documenti di programmazione predisposti da più comuni di piccole dimensioni in forma associata;

III) la contiguità con i principi del welfare attivo; contiguità che, come precisato nel Piano di zona 2009-2011, induce, da un lato, a passare da politiche di protezione a politiche di attivazione e partecipazione e da modelli di government a forme di governance; dall’altro lato enfatizza la promozione dell’autonomia della persona e della vita indipendente. Ciò comporta un riposizionamento dell’ente pubblico, che ridimensiona il suo ruolo di gestore e rafforza quello di regia, regolazione, monitoraggio e controllo di un sistema di welfare in cui si integrano pubblico e privato;

IV) una propensione alla sperimentazione e all’innovazione nel campo della progettazione delle politiche e della realizzazione di servizi, anche con il supporto della società civile, il raccordo con le università milanesi, l’apporto delle Fondazioni private (come la Fondazione Cariplo);

Ciò detto, i principi che si situano alla base della programmazione delle politiche sociali socio-sanitarie, possono essere sintetizzati come segue, lasciando ai paragrafi successivi il compito di entrare nel merito:

1. un modello di governance fondato sulla sussidiarietà orizzontale, sociale, secondo il paradigma della community care. Il che implica valorizzare, ai sensi della normativa nazionale e regionale, la piena espressione delle capacità progettuali dei soggetti pubblici e privati, in particolare appartenenti al terzo settore, sostenendo la “cittadinanza attiva”. Ma ciò implica anche – nella visione che è precipuamente regionale e municipale – riconoscere la centralità della persona e segnatamente della famiglia, come soggetti primari della costruzione societaria complessiva. Più precisamente la famiglia viene vista come attore protagonista del welfare locale, e come tale viene incoraggiata e sostenuta;

2. un sistema di servizi flessibile ed eterogeneo; un modello di prestazioni che punta alla personalizzazione ai fini di un’effettiva presa in carico della persona; la

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centralità della libertà di scelta dei cittadini rispetto alle unità d’offerta che compongono rete sociale e sociosanitaria.

3. la prossimità come “metodo”, ovvero lo sforzo di raggiungere le persone che nel contesto cittadino sono in situazione di disagio tale da non riuscire a (o non sapere come e a chi) chiedere aiuto. In questa cornice si situano il progetto dei Custodi sociali e del Segretariato sociale o “porta sociale unica”;

4. l’integrazione tra le politiche sociali e quelle educative, individuando in questo raccordo un motore di un autentico sviluppo e di coesione sociale, che punta sulla qualità del capitale umano e sociale della città;

5. più in generale la ricerca di una maggiore integrazione delle politiche di welfare, nella consapevolezza – acuita dalla fase di crisi – che la complessità delle situazioni di bisogno, disagio, vulnerabilità esigono risposte esse stesse complesse. Tale integrazione si rende altresì necessaria considerando la trasversalità di tali situazioni rispetto alla popolazione, che richiedono politiche non mirate su specifici target di persone.

Quest’ultimo punto ci consente di proporre una riflessione importante in sede di premessa. La crisi economica e occupazionale che sta travagliando Milano, come il resto del nostro paese e oltre, rende tangibile quanto il fenomeno della vulnerabilità interessi fasce sempre più ampie di popolazione, che si possono trovare inserite in circuiti di mobilità discendente e impoverimento in modo imprevisto e repentino. Ciò che più colpisce, e con cui le politiche di welfare locale di si devono misurare in questo frangente, è che a ricadere in queste spirali discendenti possono essere anche i soggetti tradizionalmente più protetti, come i lavoratori adulti, o persone che affrontano scelte quotidiane senza che vi siano adeguati sistemi di protezione. Da questo punto di vista, è importante sottolineare che – come ben illustrato da Saraceno (2003) –, mentre si discute molto degli effetti negativi della dipendenza dal welfare, il cui antidoto starebbe nell’attivazione – non abbastanza si riflette sui fenomeni di indebolimento delle risorse e delle capacità, derivanti dall’adesione a stili di vita e comportamenti “normali”, responsabili: per esempio, accettare un lavoro qualsiasi perché dà reddito e sicurezza, anche se non offre prospettive di qualificazione o acquisizione di competenze; investire, se donne, prioritariamente nel lavoro famigliare e di cura; avere un figlio in più, sposarsi e avere figli molto giovani; indebitarsi per comprare un alloggio. Avendo a mente queste premesse, ci addentriamo ora nelle politiche del welfare municipale milanese, prestando attenzione ad alcune specifiche aree di policy: famiglia e minori, conciliazione lavorativa, povertà ed esclusione sociale, formazione e orientamento al lavoro. 3.2 Il processo di riorganizzazione dei servizi sociali: le principali linee guida Il sistema di offerta dei servizi sociali, socio-sanitari ed educativi a Milano si è venuto strutturando secondo logiche programmatorie e organizzative mirate a creare integrazione e sinergie crescenti tra differenti aree di politica e intervento; questo, come ricordato nella premessa, nella prospettiva della valorizzazione della famiglia quale soggetto attivo nella rete dei servizi e in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, dunque mediante interventi congiunti e intese tra pubblico e privato. È in particolare nell’ambito dell’assessorato ai servizi sociali che questo processo di

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integrazione ha preso forma, anche dal punto di vista prettamente istituzionale. Invero, nel 2006 con l’avvento della giunta Moratti, si è assistito, per la prima volta nella storia dell’amministrazione locale, all’unificazione delle politiche e degli interventi educativi e sociali in capo ad un unico assessorato – ora denominato Famiglia, Scuola, Politiche sociali – con competenze specifiche nella definizione, promozione e sviluppo di politiche, attività, iniziative in tema di:

– sostegno alle famiglie e alle madri, anche in tema di conciliazione tra vita familiare e lavoro;

– disagio sociale, emarginazione, dipendenze; – servizi e sostegno in favore degli anziani; – attività educative, didattiche e pedagogiche; – sostegno alle vittime di violenza fisica e psicologica; – integrazione e inserimento degli immigrati regolari; – pari opportunità.

Antecedentemente a questo accorpamento, il settore dei servizi sociali e quello dell’educazione rappresentavano gli ambiti più importanti della macchina amministrativa, in termini di mezzi e risorse a disposizione, e si caratterizzavano altresì per forti peculiarità funzionali e operative. Se quindi, da un lato, l’unificazione delle deleghe assessorili, oltre a consentire un’indubbia razionalizzazione del personale impiegato e delle risorse stanziate, rappresenta in sé un passo fondamentale verso l’integrazione di alcune importanti aree di policy, dall’altro lato, questo stesso percorso di integrazione, proprio in virtù di specificità organizzative e gestionali sedimentatesi nel tempo nei diversi settori, si fa talvolta difficoltoso. Ma di questo punto specifico avremo comunque modo di tornare a discutere più avanti (cfr. § 3.5). Ora invece, per restare al nucleo del processo di riorganizzazione funzionale e istituzionale, va detto che esso si propone di superare la logica di intervento settoriale, mediante il coordinamento di più aree di politica e servizi, e di favorire inoltre un approccio socio-educativo integrato, inteso come la strategia vincente per affrontare il bisogno, specie l’area delle cosiddette nuove povertà. Si ritiene, infatti, che “ogni bisogno assistenziale abita, oggi ancor più, le ragioni e le regioni del bisogno esistenziale e chiede, dunque, un riconoscimento (non solo appagamento), relazioni (e non solo prestazioni), attesa (e non solo pretesa)”; “l’educativo che si coniuga, o meglio si innerva, nel e col sociale restituisce dignità alla persona, alla famiglia, alla comunità, nell’ineludibile intreccio, per una virtuosa reciprocità, tra diritti e doveri” (Piano di Zona 2009-2011, p. 112); il che spiega la centralità assegnata alla coniugazione di competenze e risposte sociali e pedagogiche nella formulazione delle politiche e delle azioni concrete. Al centro di questo rinnovato intervento dei servizi sociali vi è, come accennato, la famiglia, nella sua duplice dimensione e funzione di collettore dei bisogni e destinatario dei servizi, per un verso, ma anche, per un altro verso, di soggetto sociale in grado di produrre, in interazione con il sistema dei servizi e le reti associative territoriali, le risposte occorrenti al superamento dell’eventuale disagio. In quest’ottica, come dichiarato formalmente nel Piano di Zona 2009-2011, obiettivo dell’azione amministrativa è quello di “dare vita a servizi incentrati direttamente sulla famiglia ed espressamente dedicati ai nuclei familiari”, superando in questo modo una interpretazione settoriale delle politiche di welfare che, si ritiene, ha invece “rischiato di sottovalutare la dimensione familiare dei bisogni e delle risposte”. Ciò presuppone il

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passaggio da una risposta di tipo assistenziale, formulata in chiave di riparazione, a un intervento preventivo e promozionale mirato, in una visione pro-attiva, ad accompagnare, per quanto possibile, gli individui e le famiglie verso il conseguimento di una condizione di vita autonoma. Oltre al cambiamento nell’assetto istituzionale, nell’ambito dei servizi sociali sono riscontrabili modifiche di rilievo anche in proposito al metodo adottato. In particolare, nel tentativo di portare alla luce “aree grigie”, nascoste, di bisogno, e di incrementare l’accesso spontaneo ai servizi, si è intrapresa la via dell’intervento di prossimità – vale a dire di una maggiore presenza, vicinanza e accessibilità degli operatori e dei servizi sociali sul territorio –, nel tentativo di intercettare anticipatamente il bisogno e fornire risposte più rapide ed efficaci. In proposito, merita di essere segnalato l’intervento di prossimità realizzato attraverso il servizio di Custodia e Portierato Sociale. Si tratta di un servizio che prevede, in particolare nei quartieri ad alta concentrazione di edilizia residenziale pubblica, la presenza di operatori sociali che, in collaborazione con i servizi sociali territoriali del Comune: raccolgono le segnalazioni di bisogno; informano, orientano, accompagnano i cittadini e le famiglie, specie i soggetti e i nuclei più esposti, all’accesso e utilizzo dei servizi, pubblici e privati, disponibili sul territorio; attivano un monitoraggio complessivo della situazione socio-sanitaria degli stessi quartieri della città. Sulla stessa linea di valorizzazione della prossimità come risposta alla fragilità e alla solitudine che ad essa spesso si combina, si pone anche il Segretariato Sociale, su cui ci soffermeremo, in ragione delle caratteristiche di innovatività del servizio, più avanti nel rapporto (cfr. § 3.5).

3.3 Il sistema della governance e i suoi nodi La struttura istituzionale e culturale del welfare locale si fonda sul principio della sussidiarietà, in accordo con quanto stabilito dalla già citata l.r. 3/2008 sul “Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario”. Come viene più volte richiamato nei documenti di programmazione sociale, socio-educativa e socio-sanitaria del Comune, l’attuazione di un tale riferimento normativo e valoriale significa per l’ente locale adottare l’impostazione e la prassi tipica della welfare community, ossia di un sistema nel quale il privato, il terzo e quarto settore condividano con l’ente locale la programmazione e gestione dei servizi, ponendosi in questo modo quale componente essenziale della risposta al bisogno sociale. Per la precisione, si afferma che, mentre per un verso, al Comune spetta, a garanzia e tutela del bene comune, il compito di stabilire le priorità, definire l’assetto e l’organizzazione di interventi e servizi e provvedere al loro finanziamento, per un altro verso, la progettazione e la programmazione sono da intendersi piuttosto come il risultato della condivisione di proposte che “salgono” dal territorio e che sono stabilite in modo congiunto tra i diversi attori del pubblico, del privato e del privato sociale. In questa cornice generale il Piano di Zona chiarisce l’interpretazione che il Comune di Milano dà del principio della sussidiarietà, in specie laddove si rimanda, come anticipato nella premessa (§3.1), a un “riposizionamento strategico dell’ente pubblico, che ridimensionando il ruolo di gestione, rafforzi quello di regia, di regolazione, di monitoraggio e controllo del sistema di welfare pubblico e privato” (Piano di Zona 2009-2011, p. 6). La sussidiarietà orizzontale, anche e principalmente in termini prospettici, viene dunque declinata nei termini di una valorizzazione delle risorse del

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territorio nella fase gestionale; valorizzazione che, resa possibile grazie al ricorso crescente allo strumento dell’accreditamento9 secondo standard di qualità stabiliti dal Comune, significa, anzitutto, il riconoscimento delle competenze e responsabilità specifiche dei diversi soggetti che compongono il welfare locale. E tuttavia, proprio questa lettura rappresenta un primo nodo cruciale del meccanismo della governance del sistema. Dall’analisi documentale e dalle interviste condotte ai rappresentanti dell’ente locale si è colto, infatti, che l’amministrazione cittadina sembra intendere la sussidiarietà come “distinzione tra la gestione dei servizi, dove il terzo settore ha più la caratteristica del fornitore, e il governo generale del sistema10”. Questa lettura, che in definitiva riflette nella prassi la tendenza (o la volontà) a tenere separato il ruolo politico, di indirizzo generale, da quello di progettazione e gestione degli interventi e delle azioni specifiche, viene percepita, da parte degli attori del terzo che abbiamo incontrato, come una limitazione del proprio ruolo alla mera fase operativa, in veste di erogatori e realizzatori diretti di servizi e, di conseguenza, come una contrazione del contributo che essi potrebbero invece apportare nella fase di progettazione e decisione d’insieme. Tale questione richiama il secondo nodo fondamentale del sistema di governance: capire quale sia il reale “spazio positivo e propositivo” a disposizione delle diverse formazioni sociali, dove esso si collochi e in quali modalità possa essere da queste abitato. A tal riguardo, gli attori sociali che abbiamo interpellato rimarcano l’esistenza di un duplice canale mediante cui fare emergere e portare all’attenzione dell’amministrazione comunale le istanze e i bisogni del territorio: uno di natura politica, formale e istituzionalizzato; l’altro a caratterizzazione informale, costruito sulla rete tecnico-amministrativa che collega l’ente locale con i soggetti del terzo settore. Del primo canale fanno parte gli organismi di governance definiti in via istituzionale. In specie:

– l’Organo di partecipazione attiva della Comunità, costituito da una serie di realtà associative di secondo livello e chiamato a contribuire alla definizione degli obiettivi e dei contenuti delle politiche sociali;

– i Tavoli Tecnico Tematici, costituiti dai rappresentanti di associazioni designate dell’ente locale in base all’esperienza qualificata e continuativa, con funzione di analisi e progettazione tecnica in risposta ai bisogni sociali inerenti le aree minori, disabili, salute mentale, adulti in difficoltà e anziani.

9 In merito all’accreditamento, basti in questa sede ricordare che sul finire del 2008 il Comune di Milano, al fine di garantire la libera scelta da parte dei cittadini nella scelta e nell’utilizzo dei servizi e delle prestazioni e di sostenere al contempo la qualità dell’offerta, ha costituito, in via sperimentale, un elenco unico dei soggetti accreditati per l’erogazione di: i) servizi/interventi socio-educativi personalizzati per minori/adolescenti e loro famiglie; ii) servizi/interventi socio-assistenziali personalizzati per anziani; iii) servizi/interventi socio-assistenziali e socio-educativi personalizzati per disabili e loro nuclei famigliari. Elenco che, poiché a carattere sperimentale, avrà durata fino al termine del 2010. 10 A ulteriore precisazione è utile riportare uno stralcio successivo dell’intervista in questione, grazie al quale è possibile mettere più a fuoco il senso delle parole riportate. Lo stesso intervistato, che ricordiamo è un responsabile comunale, ha poi aggiunto: “L’aver usato la parola “fornitori” ha generato una reazione forte da parte del terzo settore. “Noi non siamo fornitori, siamo cogestori!”. Da parte mia ho detto: “Capisco il voler decidere, ma decidete nel concreto, perché siete voi che portate avanti l’intervento. (…) Rispetto a quanto accadeva in precedenza adesso mi sembra ci sia una logica più aperta, molto più attenta e forse anche più responsabile nei confronti di quelle che sono le titolarità e le responsabilità in ambito operativo”.

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Il grado di istituzionalizzazione non sembra tuttavia assicurare il coinvolgimento auspicato da parte del terzo settore, ovvero la possibilità di concorrere effettivamente alla definizione e traduzione in pratica di strategie politiche complessive. Questo per ragioni legate, secondo i pareri raccolti, principalmente ai criteri di convocazione e alle modalità di partecipazione ai tavoli e agli organismi di rappresentanza. Va sottolineato, ad ogni buon conto, che la maggiore compartecipazione alla fase di progettazione, come pure il rinnovato protagonismo in materia di indirizzo del sistema di welfare – aspetti certamente incoraggiati dal ruolo assegnato, entro il paradigma regionale e municipale, alla società civile nelle sue diverse forme – risultano altresì disturbati, quantomeno in parte, dalla pluralità ed eterogeneità del terzo settore stesso. Invero, se la diversificazione e articolazione interna rappresentano, da una parte, un indubbio elemento di ricchezza per il territorio, dall’altra parte, nella misura in cui sono espressione di frammentazione degli interessi e delle esperienze, finiscono per costituire un freno all’attuazione della sussidiarietà. Più in particolare, laddove non si trovano modalità e forme di ricomposizione di riferimenti valoriali e tradizioni certamente differenti, il terzo settore fatica inevitabilmente a dotarsi di una propria rappresentanza unitaria, diminuendo in questo modo il proprio peso politico, nonché la propria capacità di voice. Peraltro, di questo universo articolato fanno parte una pluralità di attori che sono contrassegnati da un diverso grado di strutturazione e da forti disparità circa il patrimonio di risorse (economiche, umane, di competenze) a disposizione. Ciò comporta che in molti, appunto per questioni di natura organizzativa e strutturale, fatichino ad avere una propria rappresentanza nelle sedi istituzionali di governo delle politiche sociali, con il rischio che si perdano alcune letture dei bisogni del territorio e che, pertanto, la visione complessiva restituita al tavolo e all’interlocutore politico sia soltanto parziale. Detto questo, la governance del sistema delle politiche sociali, educative e socio-sanitarie si sviluppa anche al di fuori dei tavoli istituzionali, nello scambio quotidiano di informazioni e proposte che si registra, a livello di personale tecnico e specialistico, tra componenti del terzo settore ed ente locale. Molti degli intervistati hanno infatti affermato che, più che nelle sedi istituzionali, la programmazione parte effettivamente “dal basso”, senza tuttavia un preciso mandato o un riconoscimento di tipo formale: prende forma a partire dall’interlocuzione tra gli operatori del terzo settore e i referenti delle diverse aree di programmazione del Comune e, per tramite di questi ultimi, arriva all’attenzione del livello politico. Come viene fatto rilevare si tratta, però, di una modalità che si sviluppa su singoli progetti e interventi ed è dunque limitata nella propria portata. In aggiunta, poiché, a carattere informale e individuale, risultato della sedimentazione di un rapporto diretto di conoscenza e di fiducia reciproca fondato sul riconoscimento delle rispettive competenze, è per sua natura virtualmente provvisoria e volatile. Questo perché, specie nel caso di un mutamento nella struttura amministrativa e dunque di un ricambio delle figure di riferimento in capo all’ente locale, il processo va ricostruito tendenzialmente ex-novo. Eventualità che, va sottolineato, è stata citata in più di un’intervista. 3.4 Le aree di programmazione 3.4.1 Area Minori e Famiglia

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Come parte della riorganizzazione istituzionale di cui si è discusso in precedenza (§ 3.2), nell’area di programmazione inerente i bisogni e le politiche delle famiglie è stato avviato un importante processo di coordinamento delle attività tra tre differenti Direzioni di Settore – Politiche della Famiglia, Minori e Giovani, Infanzia – con lo scopo di attuare azioni di sistema, in cui siano coinvolte tutte le risorse attivabili sul territorio, e a carattere trasversale, di modo tale da ridurre la segmentazione delle azioni e delle prestazioni offerte. Ciascuno di questi ambiti è stato poi interessato da dinamiche e progetti peculiari. A tal riguardo, vale la pena di sottolineare, innanzitutto, l’insieme degli interventi e dei mutamenti che hanno riguardato il Settore Politiche della Famiglia. Due, in particolare, sono le trasformazioni avvenute al suo interno. La prima è data dal riassetto dei servizi sociali comunali. Il Servizio Sociale della Famiglia, presente in 18 sedi sul territorio e strutturato in 9 equipe di zona, è divenuto il punto di riferimento per la famiglia, l’unità di base per l’accesso a tutte le diverse unità di offerta. Storicamente costruito, stando ai pareri raccolti in sede di indagine, in modo tale da rispondere “alle sollecitazioni derivanti da provvedimenti dell’autorità giudiziaria e quindi con una grossa capacità di intervento sociale di carattere professionale”, ma per contro dotato di “una limitata incisività sul versante della prevenzione e della promozione delle attività”, il Servizio Sociale della Famiglia è stato riorganizzato su due versanti. Da una parte nel solco di un cambiamento di prospettiva riguardo alle politiche sociali, nel passaggio “da una visione puramente distributiva a una attiva”, volta a favorire azioni di prevenzione, accompagnamento, supporto, responsabilizzazione e non solo interventi di ricomposizione di fratture già prodottesi nel sistema familiare. Dall’altra parte, il processo di ristrutturazione si è fondato sull’adozione del prima citato paradigma socio-educativo integrato; il che ha comportato l’inserimento, in ciascuna delle sedi territoriali del servizio, di personale educativo con funzioni paritetiche nel processo di analisi e valutazione della situazione e nella definizione e conduzione della progettualità. Come risultato del nuovo assetto dato al Servizio, si è registrato – secondo i dati forniti dal Bilancio Sociale 2008 del Comune di Milano – un deciso incremento delle richieste spontanee da parte dell’utenza rispetto a quelle conseguenti a un mandato da parte della magistratura e, verosimilmente in accordo con la logica di promozione e di sostegno delle risorse presenti all’interno del nucleo familiare, una riduzione dell’istituzionalizzazione o dell’inserimento in comunità dei minori. In merito a quest’ultimo punto non mancano, tuttavia, le voci critiche che sottolineano come il minore ricorso alle strutture comunitarie sia invece legato principalmente a questioni di tipo economico, ovvero alla volontà dell’ente locale di contenere i costi a fronte di una disponibilità minore di risorse per le politiche sociali. La seconda linea guida è costituta dalla revisione del sistema delle unità di offerta, mediante l’approccio e la logica dell’accreditamento (l.r. 3/2008). Come viene evidenziato nel Piano di Zona le unità di offerta del Servizio Sociale della Famiglia sono state riordinate in quattro categorie, a seconda che presentino prevalentemente carattere: preventivo e di sostegno (es. interventi economici, socio-educativi individuali per minori, adolescenti e loro famiglie, etc.); progettuale e promozionale; sostitutivo (comunità educative e familiari, etc.); specialistico. Di queste, in linea con la riqualificazione dell’intervento in ottica preventiva e socio-pedagogica, sembrano aver acquistato rilevanza crescente le unità a prevalente carattere di sostegno, a discapito soprattutto delle azioni di stampo ripartivo e sostitutivo. Entro l’area Minori e Famiglia ricade anche il sistema dei servizi educativi per l’infanzia, che risponde ai bisogni delle famiglie con bambini in età prescolare,

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soprattutto, alle esigenze di custodia e di accudimento dei nuclei familiari con figli di età compresa tra zero e tre anni, la fascia lasciata tradizionalmente scoperta dal welfare italiano. Anche in questo ambito, come vedremo di qui a poco, si è assistito prevalentemente alla riqualificazione, al potenziamento, alla diversificazione dei servizi presenti sul territorio. Relativamente all’anno scolastico 2009/2010 l’offerta si compone di:

– per la fascia 0-3 anni: 242 nidi di infanzia (106 comunali, 21 comunali in appalto, 115 convenzionati), 35 micronidi comunali in appalto, un Centro Prima Infanzia, 23 Sezioni Primavera, 10 Tempi per le famiglie;

– per la fascia 3-6 anni: 170 Scuole dell’infanzia comunali. A questi vanno poi aggiunti due Spazi Gioco, rivolti alle famiglie con figli in età 0-12 anni e pensati come ambiti in cui bambini e adulti (genitori, nonni, accompagnatori o baby-sitter) possono accedere scegliendo liberamente le modalità, gli spazi e i tempi di gioco oppure le attività di laboratorio da eseguire11. Già da questo primo elenco è possibile cogliere alcune delle specificità dei servizi comunali all’infanzia, in primo luogo la differenziazione e articolazione interna. Nel corso degli anni, in effetti, l’amministrazione cittadina ha agito su più fronti: da un lato ha potenziato i servizi più tradizionali quali i nidi e le scuole dell’infanzia aumentandone, anche grazie al meccanismo del convenzionamento, la capienza e la presenza sul territorio e adeguandone tariffe, orari e calendario di apertura; dall’altro lato ha favorito la sperimentazione e successiva introduzione di interventi innovativi a carattere complementare e integrativo. Tutto ciò ha consentito di diversificare progressivamente la tipologia dell’offerta e dunque di rispondere con maggiore flessibilità alle necessità educative, ma anche organizzative ed economiche delle famiglie con figli, cogliendone l’eterogeneità crescente rispetto alle problematiche socio-educative e di conciliazione dei tempi familiari e lavorativi. Vale la pena di analizzare più nel dettaglio la riorganizzazione avvenuta nel sistema dei servizi, riprendendo le caratteristiche di ciascuna unità d’offerta. I nidi di infanzia, servizi educativi a sostegno dello sviluppo psico-fisico del bambino e a sostegno della genitorialità, secondo i dati del bilancio di previsione 2010 del Comune, tra l’anno educativo 2007/2008 e quello 2009/2010, hanno visto incrementare il numero dei posti disponibili di circa 1.200 unità, da 7.706 a 8.904 (+15,5%), sia mediante l’apertura di nuovi nidi e micronidi a gestione diretta da parte del Comune di Milano, sia grazie all’aumento dei posti offerti dalle strutture private in convenzione (da 710 iscrizioni in 92 nidi privati in convenzione nell’anno educativo 2006/2007 a 1.191 bambini iscritti in 115 strutture nel 2008/2009). Come risultato, nel Gennaio 2010 le liste d’attesa comunali sono state eliminate, in questo modo rispondendo alle tensioni registrate nel biennio precedente: invero, i dati presentati nel Bilancio Sociale 2008 indicano, nel dettaglio, che nell’anno scolastico 2007/2008 l’offerta comunale era di 8.502 posti a fronte di 8.919 domande presentate; nell’anno scolastico seguente, si erano registrate 10.371 domande di iscrizione per 9.015 posti disponibili. Dal punto di vista economico, le famiglie dei bambini che frequentano i nidi d’infanzia pagano una retta mensile di frequenza che, determinata sulla base del valore I.S.E.E., è al massimo pari a

11 I dati relativi alle iscrizioni indicano che nel 2009/2010 la frequenza a questa tipologia di servizio interessa 616 bambini (473 nel 2007/2008).

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465 euro. La quota contributiva stabilita per la frequenza alle strutture privati in convenzione è stabilita secondo le medesime condizioni. Il Tempo per le Famiglie e il Centro Prima infanzia – previsti dalla D.G. R. 11 febbraio 2005, n. 7/20588 quali agenzie di supporto alla condivisione, allo scambio, al confronto reciproco tra genitori e bambini – sono servizi a partecipazione libera in quanto a frequenza oraria e giornaliera e sono riservati alle famiglie con bambini di età inferiore ai tre anni che non frequentano il nido d’infanzia. Più nello specifico:

– i 10 Tempi per le famiglie presenti sul territorio cittadino, aperti da lunedì a venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 18, grazie alla presenza di personale educativo specializzato, offrono ai bambini e agli adulti accompagnatori attività di supporto e accoglienza, occasioni di confronto e condivisione di esperienze. Tra il 2007/2008 e il 2009/2010 la frequenza al servizio è aumentata da 648 a 771 utenti (+18,9%);

– il Centro Prima Infanzia, accoglie fino a 30 bambini nella fascia mattutina e 30 nel pomeriggio, per un massimo di quattro ore al giorno. Si tratta di uno spazio in cui sono previste attività di vario genere (laboratoriali, ludico-ricreative, motorie, etc.) finalizzate alla crescita dei bambini e alla promozione della loro relazione con i pari e con gli adulti accompagnatori. La frequenza al servizio, pari a 39 utenti nel 2007/2008 ha raggiunto la capienza massima (60) nel 2009/2010.

Le Sezioni Primavera – avviate in via sperimentale nell’anno 2007/2008 quali servizi socio-educativi e didattici destinati a bambini di età compresa tra i 24 e i 36 mesi, e dunque integrativi e alternativi al nido d’infanzia – sono aumentate da 18 a 23 (più 5 ulteriori aperture previste nel 2010) tra il 2007 e il 2010, con un incremento della capienza di 118 posti (+37,5%). Assicurano, al pari dei nidi d’infanzia, un orario di apertura flessibile, strutturato secondo un orario base, che è possibile estendere mediante un eventuale prolungamento. Il contributo di frequenza richiesto alle famiglie dei bambini frequentati è stabilito, sempre secondo il parametro I.S.E.E., nella quota del 50% della retta di un nido d’infanzia comunale. Nell’insieme dei servizi educativi per la prima infanzia – sempre stando ai dati del bilancio di previsione, i posti riservati dall’amministrazione comunale ai bambini tra 0 e 3 anni di età nell’anno educativo 2009/2010 risultano quindi essere 10.168, in crescita del 16,8% rispetto agli 8.708 disponibili nell’anno 2007/2008. Sulla base di quanto indicato dai funzionari del Comune di Milano, le unità d’offerta per la prima infanzia coprono il fabbisogno cittadino per una quota pari a un terzo del totale della popolazione, in questo rispondendo agli obiettivi definiti in sede europea. Si tratta di un valore – a fine 2008 pari al 33,9% secondo i dati presentati dalla Giunta Regionale – decisamente superiore alla media regionale e nazionale. Questo primato è certamente l’esito della “caratterizzazione educativa data da tempo a questa tipologia di servizio” a livello municipale; caratterizzazione educativa che dunque porta a intendere gli asili nido come strutture anzitutto volte a rispondere alle problematiche pedagogiche e a garantire i diritti dell’infanzia e quindi (o se si vuole al contempo) offrire supporto alle famiglie a doppia carriera. Di questo approccio, sul quale si costruisce la tipicità l’esperienza di Milano anche rispetto al quadro regionale, avremo comunque modo di tornare in sede di conclusioni (§3.5.2).

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Per quanto concerne poi l’offerta comunale per la fascia 3-6 anni, il numero delle Scuole dell’Infanzia è passato da 846 a 851 sezioni ordinarie, con un incremento della frequenza pari a circa un punto percentuale (da 21.769 a 22.011 bambini). Così come è possibile per certi versi intuire dalla disamina delle diverse unità di offerta, un altro elemento distintivo dei servizi comunali all’infanzia è la relazione con le famiglie e gli adulti di riferimento e il loro coinvolgimento diretto, tanto nella formulazione e condivisione delle scelte socio-educative quanto nella partecipazione alle attività proposte. Emerge inoltre una chiara integrazione tra l’esperienza educativa dei nidi e quella delle scuole dell’infanzia, testimoniata peraltro dall’esperienza delle Sezioni Primavera; invero, situate entro scuole dell’infanzia o in asili nido comunali, queste ultime garantiscono ai bambini frequentanti percorsi di socializzazione e apprendimento caratterizzati da un apposito e adeguato raccordo pedagogico con le annualità successive. Oltre a questo vi è poi da ricordare che tanto i nidi quanto le scuole dell’infanzia comunali, ulteriore peculiarità del sistema socio-educativo cittadino, prevedono l’estensione della durata dell’anno educativo al 31 Luglio mediante le cosiddette Sezioni Estive, un servizio volto ad assicurare l’impiego di personale comunale e dunque la continuità delle attività pedagogiche e didattiche anche nel periodo estivo, con la medesima articolazione oraria offerta durante il resto dell’anno. Si tratta di un risultato importante, per nulla scontato al quale la direzione competente ha lavorato con convinzione, che risponde alle mutate esigenze delle famiglie rispetto all’accudimento dei figli (tra l’altro accresciuto in questa fase di crisi). L’iscrizione alle sezioni estive di nido d’infanzia comporta il pagamento della quota già applicata durante il corso dell’anno scolastico, mentre per le scuole d’infanzia è previsto un contributo di frequenza di entità variabile secondo modalità definite. Vi è un ultimo progetto di interesse che ricade sempre nell’area di programmazione in questione ed è opportuno menzionare: il Bonus Bebè. Esso prevede la corresponsione di un contributo di 500 euro mensili alle madri lavoratrici, a tempo pieno o parziale, che decidono di dedicarsi esclusivamente alla cura dei figli nei primi mesi di vita. Per la precisione, il contributo è riconosciuto alle famiglie in cui le madri fruiscono di almeno sei mesi di congedo parentale nel primo anno di vita del figlio, a condizione che il figlio stesso non sia stato ammesso o non frequenti un nido di infanzia e che la situazione economica equivalente familiare (I.S.E.E.) non sia superiore a 18 mila euro. Dal Settembre 2007 il Bonus Bebè, istituito nella convinzione secondo cui “nella vita di un bambino è determinante la qualità e la quantità delle relazioni che si stabiliscono con la mamma durante i primi anni”, è stato richiesto da 1.631 madri ed erogato in 1.437 casi, per uno stanziamento complessivo pari a poco più di 4 milioni di euro. Da ultimo, dei servizi e delle attività che ricadono nell’area Minori e Giovani, viste le finalità del nostro studio, è utile citare – in aggiunta al sopra citato processo di de-istituzionalizzazione dei minori grazie al ricorso a servizi e iniziative più orientati al sostegno e alla valorizzazione delle risorse sociali quali l’affido e l’assistenza domiciliare – gli interventi per il supporto e l’integrazione (linguistica, scolastica, occupazionale, sociale) dei giovani e minori stranieri; le iniziative per l’affermazione del diritto allo studio come strumento di prevenzione del disagio; attività integrative all’orario scolastico (servizi pre e post-scuola); il “Progetto Estate” (Centri estivi da giugno ad agosto per bambini di 6-11 anni; campus settimanali per bambini di 5-14 anni; sostegno alle iniziative degli oratori milanesi) e le case vacanza, pensati come servizi socio-educativi e di custodia per giovani e minori durante il periodo estivo e

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dunque complementari ai servizi messi a disposizione dal Comune durante l’anno scolastico.

3.4.3 Area Adulti in Difficoltà Creato solo nel 2002, questo Settore ha una storia recente, e questo fattore è tra le motivazioni indicate a spiegazione della sua impostazione – da subito – lontana da un approccio di tipo assistenzialistico. La filosofia di fondo che lo contraddistingue è infatti quella del “welfare attivo”: trattandosi di una utenza in età lavorativa, l’obiettivo finale è “dare la possibilità alle persone seguite di riacquisire una piena autonomia” e – solo “laddove ciò non sia possibile, accompagnarle verso forme assistenziali o previdenziali che consentano loro comunque una soddisfacente qualità della vita” (Piano di Zona 2009-11, p. 90). Entro l’area di programmazione denominata “Adulti in difficoltà” ricadono interventi di servizio sociale a supporto delle situazioni di svantaggio che interessano i soggetti, di nazionalità italiana e senza figli a carico, di età compresa tra i 18 e i 60 anni e che sono interessati da problemi quali emarginazione sociale e povertà, detenzione ed ex-detenzione, dipendenze, mancanza di una fissa dimora, Hiv/Aids, violenza e tratta. Operando prevalentemente nell’ottica del sostegno alla ricostruzione dei progetti di vita autonoma, i Servizi per Adulti in difficoltà, impiegano, strumenti e misure di tipo economico e di supporto sociale ed educativo che, soltanto in parte a carattere assistenziale, si pongono l’obiettivo ultimo di attivare le persone lungo il tragitto di integrazione abitativa, sociale e lavorativa. Nei casi più problematici e complessi, laddove non sia possibile mirare al conseguimento dell’autonomia, i soggetti vengono sostenuti mediante misure socio-assistenziali o previdenziali, in specie sussidi economici e buoni sociali, appena tali da garantire un livello minimo di benessere.

Secondo quanto raccolto in sede di rilevazione, i problemi principali che interessano i soggetti che si rivolgono ai servizi in questione sono inerenti a:

– il disagio economico, causato dalla perdita del lavoro, da una condizione di malattia, da alcolismo o tossicodipendenza, da un periodo di detenzione o di provvedimenti alternativi alla carcerazione;

– il bisogno di un alloggio, in prevalenza per ragioni legate allo sfratto e all’occupazione abusiva, ma anche per i senza fissa dimora;

– la necessità di un sostegno di tipo psico-sociale. La tipologia degli interventi e degli strumenti che vengono realizzati ed erogati si differenzia pertanto tra:

– attività di segretariato sociale, vale a dire un servizio di accoglienza, presa in carico e consulenza in merito alle problematiche di volta in volta emerse;

– interventi di supporto psicologico e di accompagnamento educativo, ovvero di accompagnamento alla realizzazione di un progetto di conseguimento dell’autonomia;

– sussidi economici e buoni sociali per l’acquisto di servizi di tipo sanitario e socio-assistenziale;

– borse di studio per le famiglie con reddito insufficiente, per il sostegno dei percorsi scolastici di scuola secondaria di secondo grado;

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– inserimento in comunità di seconda accoglienza, in cui è previsto un intervento educativo complementare, o in strutture di terza accoglienza, in attesa di una risoluzione autonoma della situazione di difficoltà.

Compito degli assistenti sociali territoriali impiegati nel Servizio in parola è quello di impiegare e combinare questi strumenti, costruendo con i soggetti destinatari dell’intervento un progetto finalizzato al conseguimento dell’indipendenza economica e sociale. Ciò significa che, se di norma gli utenti accedono al servizio avanzando richieste di tipo economico, queste stesse richieste vengono trasformate nella costruzione di un percorso complessivo finalizzato alla ricostruzione dei legami o della rete di sostegno familiare e, più in generale, a intervenire sulle cause che hanno portato alla condizione di disagio e bisogno. Nel fare questo, come detto, trattandosi di adulti in età lavorativa, viene prevista, come parte del piano personalizzato di accompagnamento, la possibilità di un inserimento lavorativo. Gli assistenti sociali e il personale educativo si servono, per questo scopo, del Centro Mediazione al Lavoro del Comune di Milano (Celav). Istituito nel 2001, il Celav, si occupa delle azioni in favore dei soggetti che, appartenenti alle fasce deboli oppure interessati da disagio personale, familiare, sociale, faticano a inserirsi autonomamente nel mercato del lavoro. Il percorso di inserimento, formulato da una figura educativa in veste di tutor in accordo con il soggetto destinatario, di norma prevede, anzitutto, attività di consulenza e una fase di orientamento, individuale o di gruppo, al lavoro; a esse segue un eventuale periodo di formazione specifica, per maturare o affinare le competenze professionali, e quindi un periodo di tirocinio formativo e di orientamento (ex L.192/97 e D.M. 142/98) di durata massima pari a un anno, durante il quale viene corrisposta una borsa lavoro. In proposito, è utile ricordare che nel 2009 sono state erogate circa 1.300 borse lavoro, rispetto alle circa 600 del 2007, e che di queste, 338 sono esitate in assunzioni a tempo determinato o indeterminato (231 nel 2007). Dalle interviste condotte è emerso che, specie negli ultimi due anni, accedono al Celav soggetti che, pur non essendo inseriti in una categoria di svantaggio sociale così definita secondo la normativa europea, faticano a trovare un lavoro dopo un periodo di disoccupazione o inattività di lunga durata; nella gran parte dei casi si tratta di over 45enni. In aggiunta, sembra riscontrarsi un aumento delle situazioni border-line nelle fasce giovanili, specie tra gli immigrati di seconda generazione, e un aumento dei casi di disagio psichico, in parte non ancora certificati. In proposito, i dati di cui disponiamo rivelano che nel 2009 a fronte di poco più di 4 mila persone rivoltesi allo sportello informativo e di accoglienza attivo presso il Celav (nel 2007 erano poco meno di 3 mila), circa i tre quarti è costituita da soggetti non identificabili secondo una particolare forma di disagio sociale, mentre i rimanenti sono segnalati e inviati direttamente dai servizi sociali comunali. Per il primo gruppo di soggetti, l’iter prevede che venga avviata, laddove lo si ritenga necessario e dopo una valutazione del grado di autonomia individuale nella ricerca del lavoro, una consulenza di tipo informativo e orientativo. In questo vi è pieno accordo con le direttive regionali, secondo le quali (cfr. cap. 2) il principale canale attraverso cui combattere il rischio di povertà e di esclusione sociale è l’occupazione. Infine, come accennato in precedenza, vi sono poi tipologie di adulti per i quali costruire un percorso di inserimento al lavoro risulta alquanto arduo. Per questi il lavoro diventa molto spesso una leva impiegata dalle figure socio-educative per intervenire,

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congiuntamente con altri servizi, sull’insieme delle questioni relative al disagio personale; il tutto nella consapevolezza, bene espressa dalle parole di un intervistato, che “il lavoro non è la soluzione di tutti i problemi e che anzi molto spesso l’inserimento lavorativo forzato crea maggior disagio, perché i fallimenti sono ancor più difficili da recuperare”. 3.5 Il modello Milano 3.5.1 Gli elementi innovativi Nella realtà milanese si colgono indiscutibili elementi di innovatività in ordine alla programmazione, al coordinamento e alla gestione delle politiche e degli interventi sociali. Si tratta di servizi e iniziative specifiche, oppure di intuizioni e idee progettuali frutto della rilevazione e della gestione quotidiana del bisogno; ma anche di singoli attori che si pongono quali catalizzatori del cambiamento delle politiche sociali. Di questi elementi andiamo a discutere nelle pagine che seguono, soffermandoci innanzitutto su un servizio nel quale si condensano buona parte delle peculiarità – normative, funzionali, organizzative – del sistema di welfare locale: il Segretariato Sociale. Indicato dalla l.r. 3/2008 come porta di accesso unificata ai servizi del territorio, ma già in parte anticipato nella programmazione precedente del Comune di Milano, il Segretariato Sociale è stato avviato in via sperimentale in una zona di decentramento sul finire del 2009 come servizio essenziale in grado di: i) informare i cittadini in merito ai diritti, alle prestazioni e alle modalità di accesso ai servizi territoriali; ii) offrire consulenza sulle risorse sociali disponibili nel territorio; iii) accompagnare l’utenza nella fruizione dei servizi, inviandola, laddove vi siano problematiche specifiche e complesse che necessitano di una continuità assistenziale, a servizi specialistici a carattere sociale e socio-sanitario. Dal punto di vista funzionale e operativo si compone di un’equipe pluridisciplinare, di cui fanno parte un operatore amministrativo, un assistente sociale, un educatore professionale. Atteso che al personale amministrativo spettano compiti di accoglienza e orientamento generico, le funzioni centrali sono in capo alle altre due figure:

– all’assistente sociale, che si occupa di analizzare il problema, verificare le risposte disponibili, concordare con l’utente le possibili soluzioni e, da ultimo, verificare a posteriori gli esiti dell’intervento e offrirne una valutazione complessiva;

– all’educatore professionale, il cui ruolo è quello di garantire: • una risposta competente, puntuale, di stampo pedagogico e dunque in chiave

preventiva alle richieste e ai diversi bisogni sociali che non necessitano di un intervento “di secondo livello”;

• l’esercizio di una scelta consapevole in merito alla fruizione dei servizi territoriali.

Il punto importante non è solo in sé l’inserimento la figura dell’educatore, quanto l’idea di offrire una prima accoglienza già qualificata che sia dunque capace di leggere la complessità delle situazioni di bisogno, non limitandosi a una mera registrazione dell’accesso e smistamento verso servizi specifici. In merito, ci pare importante

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sottolineare, come del resto evidenziato da alcuni interlocutori in sede di intervista, che uno dei nodi relativi all’implementazione di questo servizio riguarda la capacità effettiva che avrà di capitalizzare le esperienze dei soggetti del terzo settore che sul territorio da tempo sono un punto di ascolto, lettura del bisogno e indirizzo ai servizi competenti: le parrocchie, i centri di ascolto della Caritas (in questa fase tra l’altro in prima linea con l’attivazione dell’iniziativa Fondo Famiglia Lavoro pensata, voluta e sostenuta dall’arcivescovo di Milano, Card. Tettamanzi), i patronati, e via dicendo. Ciò per valorizzare le risorse del territorio nell’ottica della sussidiarietà orizzontale che si vuole distintiva del sistema. Costruito secondo questo schema, il Segretariato Sociale rivela la tipicità dell’impianto di welfare comunale. Esso si va infatti sempre più strutturando lungo tre direttrici che sono: la riforma del sistema di primo accesso ai servizi; la trasversalità dell’intervento, tanto in termini di integrazione delle politiche quanto di target di riferimento delle stesse; l’approccio a valenza sociale e pedagogica. In effetti, proprio mediante la sperimentazione del Segretariato Sociale (che nei piani del Comune di Milano dovrebbe entrare a sistema entro la fine del 2010) si rende evidente il passaggio a un modello in cui, in punti di accesso unico ai servizi del territorio:

– sia garantito, tanto per i soggetti e le famiglie più fragili ed esposte quanto per chi presenta storie biografiche più ordinarie, un primo livello di accesso al welfare che non si tramuti necessariamente in una “presa in carico” da parte dei servizi;

– vengano formulate politiche e risposte coordinate, non più a partire dall’appartenenza a una categoria sociale specifica (famiglia, adulti, anziani), piuttosto a seconda del bisogno emergente e della complessità dello stesso12;

– siano riconosciute l’autonomia nell’accesso alle risorse e la libertà di scelta, facendo però in modo che la possibilità di esercitare la stessa libertà di scelta, ovvero di usare in modo appropriato i servizi, nonché i titoli sociali (voucher) di prossima introduzione, sia opportunamente accompagnata e supportata.

Il percorso di riforma in parola – che secondo i pareri raccolti sconta, nella fase attuale, la particolarità di un welfare comunale che si è costruito nel tempo secondo un’impostazione “a canne d’organo”, ossia secondo comparti e professionalità distinti e tra di loro fortemente separati – procede anche lungo altri sentieri. Invero, sembrano esservi una pluralità di riflessioni e progetti aperti in proposito al tema dell’integrazione tra le politiche e a quello del ripensamento della risposta al bisogno sociale in base a target di azione precostituiti. La crisi in atto, in modo particolare, ha delineato uno scenario socio-economico in cui il “termine inclusione sociale ha assunto dimensioni abnormi”. Come conseguenza, a livello locale si sta procedendo sempre più verso la decostruzione delle tradizionali categorie di classificazione del bisogno (anziani, disabili, immigrati, donne, over 50), in favore della definizione di un’area allargata in cui sono compresi i soggetti esposti al rischio di espulsione dal mercato del lavoro. Proprio a questa fascia, che presenta

12 In proposito, dalle interviste è emerso che l’incremento dell’accesso spontaneo ai servizi ha gettato luce su di un bisogno sempre più diffuso, per certi versi “una patologia tipica della società contemporanea”: il disagio psichico e le problematiche relazionali riguardanti la famiglia. Bisogno che, nel momento in cui tocca non soltanto le dinamiche di coppia, ma riguarda anche i bambini e gli adolescenti e il rapporto tra la famiglia e i diversi mondi vitali, quello scolastico in primis, mostra l’importanza di un approccio, quello socio-educativo appunto, che sappia ricostruire i legami e le relazioni, a cominciare dalla definizione di un linguaggio comune.

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configurazioni sociali inedite, è dedicato uno dei principali progetti istituzionali in via di realizzazione a Milano: la Fondazione Welfare Ambrosiano. Come sottolinea il nome, essa è una fondazione di tipo economico. I soci promotori sono la Provincia di Milano, la Camera di Commercio, i sindacati confederali; il Comune svolge il ruolo di ente capofila e ad esso sono affidate – segnatamente all’Assessorato Famiglia, Scuola, Politiche sociali – le attività di indirizzo e controllo. Come obiettivo, la Fondazione ha quello di promuovere iniziative a sostegno dei lavoratori in condizioni di disagio o a rischio di esclusione e di favorirne l’emancipazione sociale ed economica facendo leva su risposte integrate e d’insieme, nonché su modalità innovative di finanziamento (il microcredito). Rappresenta, dunque, l’espressione concreta della capacità degli attori istituzionali di fare sistema; una capacità che, connaturata al tessuto sociale milanese, è per di più favorita dalla presenza di altri elementi catalizzatori dell’evoluzione del welfare locale. Tra questi la Fondazione Cariplo, che negli anni si è posta quale soggetto attivo e attivatore dello sviluppo della società locale, garantendo il supporto per l’elaborazione di progetti nell’ambito del sociale, caratterizzati da originalità e innovatività e per di più mirati – è il caso di un progetto specifico finanziato nell’ambito del bando inclusione sociale 2009 – a costruire modelli di progettazione e metodologie condivise tra ente locale e terzo settore. Lo “spacchettamento dei target” di cui sopra è ad ogni modo un processo sul quale sono da tempo in corso alcune valutazioni, specie da parte delle aree di programmazione che la nostra analisi ha messo al centro. Sono da citare, in particolare, alcune ipotesi di intervento formulate dal settore adulti in difficoltà e sulle quali varrà la pena di tornare ad indagare, considerata la rilevanza strategica che sembrano avere. Esse riguardano l’integrazione delle azioni specificamente rivolte al contrasto all’esclusione sociale, come tali incentrate sui soli adulti (§ 3.4.2), con quelle inerenti i minori e gli stranieri. Più nello specifico, il tentativo in atto è, da un lato, quello di sostituire progressivamente lo strumento del prosieguo amministrativo, normalmente predisposto dal Tribunale a copertura della fase di transizione alla maggiore età, e considerato per sua natura “rigido”, con altri strumenti e interventi, quali quelli in favore dell’autonomia abitativa e sociale, i quali consentano invece di modulare con maggiore flessibilità l’intervento sui bisogni individuali e, soprattutto, assicurino la continuità e la prosecuzione degli interventi rivolti ai minori (nell’ambito scolastico, formativo, di inserimento lavorativo), anche successivamente al compimento della maggiore età. Da un altro lato, oggetto di attenzione specifica è l’area degli stranieri, di cui si cerca di aumentare il grado di connessione rispetto al settore politiche della famiglia e minori e giovani; questo perché “l’integrazione degli stranieri non è più un fenomeno di emergenza che richiede una risposta specifica” ma una questione complessa e strutturale che necessita, come tale, di “una maggiore integrazione tra gli interventi dei servizi. 3.5.2 Gli spazi per la ricerca-azione L’insieme di quanto sinora discusso mostra, senza tema di smentita, come a Milano il cantiere dell’innovazione e della sperimentazione sociale sia aperto e funzioni a pieno ritmo. In questa cornice ci sia concesso, in chiusura, suggerire alcune piste lungo la quale i lavori potrebbero ulteriormente procedere; e lo facciamo dopo aver constatato l’interesse da parte dell’amministrazione locale a un confronto su tale terreno. Ebbene, se è vero che all’interno del progetto di ridisegno del welfare milanese (e lombardo) di

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cui abbiamo dato conto nella nostra indagine vi è la volontà di superare un’impostazione assistenzialistica e garantire, per contro, a ciascuno le risorse necessarie per costruire da sé risposte individualizzate che rispettino la dignità e la libertà della persona e la centralità della famiglia, quello della conciliazione è una prima area di politica su cui riflettere, un ottimo banco di prova su cui misurare la tenuta dei progetti di riforma del welfare. Come le interviste condotte hanno mostrato e come i dati riportati nelle pagine precedenti hanno confermato, a Milano nell’integrazione tra servizi sociali, socio-sanitari ed educativi sembra innestarsi un cambiamento culturale importante, che porta a vedere i servizi anche per la primissima infanzia come una opportunità educativa/formativa e dunque un diritto anzitutto per i bambini e solo secondariamente (o se vogliamo contemporaneamente) come un tassello fondamentale del sistema di conciliazione lavorativa e di supporto alle funzioni di cura della famiglia. Posto in questa prospettiva, lo sviluppo di servizi che garantiscano in tale senso una copertura universalistica dell’utenza (e non solo della domanda), grazie all’aumento progressivo della capienza e alla forte diversificazione che è stata attuata tra i servizi, diviene una questione di cittadinanza per i più piccoli. Il che non significa affermare che il ruolo educativo della famiglia debba essere relegato in secondo piano (e anzi, il Bonus Bebé lo valorizza, riconoscendo la crucialità del rapporto madre-figlio specie nei primi mesi di vita), ma che – in una società sempre più organizzata su coppie a doppia carriera (almeno fino a prima della crisi!) – la scelta delle famiglie di esternalizzare la cura dei bimbi per alcune ore nel corso della giornata non deve essere posta come trade-off tra desiderio/necessità della madre di lavorare (perché di solito la questione si legge solo al femminile) e il benessere del bambino. Certo, questo impone di garantire la qualità dei servizi e pertanto, all’orizzonte, compaiono almeno due questioni: 1) i servizi educativi possono supportare famiglie con un capitale culturale e sociale non elevato a offrire opportunità ai loro figli, riducendo le disuguaglianze che si strutturano fin da quando si è molto piccoli e in questo senso si muove la riflessione sulla “ricalibratura” del welfare a partire dai bambini e dalle famiglie (Ferrera, 2007); dall’altra parte diventa cruciale la questione dell’accesso a un sistema di strutture che devono tutte garantire uno standard qualitativo comune per evitare al contrario di introdurre altre forme di disuguaglianza. Sulla scorta di questa riflessione, la problematica della conciliazione merita dunque di essere rivisitata in una luce nuova, nella consapevolezza che l’equilibrio – di tempo, di energie, esistenziale – tra ruoli diversi non misura soltanto il benessere e l’autorealizzazione della donna, ma sempre più la qualità della vita, latamente intesa, dell’intero nucleo familiare e, potremmo aggiungere, la qualità della vita sociale. Il vero passo avanti è dunque contribuire ad affrancare la conciliazione dalla sua tradizionale caratterizzazione al femminile e arrivare a connotarla come vero e proprio “problema della società”, di cui tutti sono pertanto chiamati a farsi carico (Riva, Zanfrini 2010). Il che a ben vedere significa avviare una riflessione più ampia sulla configurazione dei rapporti tra vita e lavoro nella nostra società, sul significato attribuito al primo sia a livello esistenziale che sociale. Ma affinché passi in avanti di questo genere si verifichino occorre che si aprano nuovi cantieri, nuove intese, nuove sperimentazioni. Rimane infatti da superare una contrapposizione stridente tra politiche sociali e politiche del lavoro; tra interventi delle aziende e interventi dello stato sociale. Ad oggi, infatti, il vero nodo della conciliazione sembra essere una fin troppo netta divisione dei compiti tra attori sociali ed economici, secondo criteri e finalità che difficilmente giungono a ricomposizione (Riva 2009). Per

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contro, se si riconosce che i soggetti cui spetta regolare e risolvere gli intricati processi sociali che stanno alla base della difficile conciliabilità di lavoro e vita familiare sono le imprese e gli enti locali, congiuntamente e non separatamente, e che dunque il confronto, il dialogo, l’integrazione delle misure e delle politiche sono premesse indispensabili per un efficace intervento in materia, si arriva a ripensare la conciliazione in termini di capacitazione dei soggetti (Riva, 2010). Ovvero come un sistema di politiche che, progettato all’unisono dalle istituzioni di governo locale e dalle imprese, non offra soluzioni preconfezionate e quindi vincolanti ai bisogni individuali e familiari, ma garantisca a ciascuno le risorse necessarie per costruire in piena autonomia risposte che siano, piuttosto, espressione di ciò cui più si attribuisce valore nella propria vita. Anche perché, come alcune ricerche condotte proprio nel milanese sembrano suggerire, le donne come pure molti uomini non vogliono essere costretti a scegliere tra famiglia e lavoro ma sembrano “scegliere tutto”, desiderare in misura crescente la possibilità di costruirsi dei percorsi biografici “su misura”, in cui includere, a seconda della fase del corso di vita, esperienze diverse (AA.VV. 2009). Ma un sistema di politiche di questo genere, realmente in grado di affrontare i suddetti nodi della conciliazione lavorativa, richiede un patto sinora inedito tra istituzioni politiche e amministrative, imprese, famiglie. A tal proposito, la prima sfida/proposta che ci sentiamo di rilanciare e portare all’attenzione degli amministratori locali, e che varrebbe la pena di costruire/considerare nel prossimo futuro, è la possibilità che, pur in uno scenario di congiuntura negativa, sia Milano per prima a siglare questo patto, dando seguito ulteriore al processo di riorganizzazione dei servizi socio-educativi per la prima infanzia e per la famiglia, più in generale del welfare locale, aumentandone, sotto l’aspetto quali/quantitativo, la tenuta e la capacità di rispondere alle molteplici richieste e bisogni. Soprattutto, modificando le premesse su cui lo stesso welfare è costruito; ovvero facendo in modo che individui e famiglie siano effettivamente dotati delle opportunità di esprimere delle opzioni di valore nei propri corsi di vita. Da ultimo, sempre nell’ottica di continuare il percorso analitico e conoscitivo avviato, affiancando alla fase di ricerca sul campo un intervento concreto nell’ambito delle esperienze di riforma dei sistemi di welfare locali, varrebbe altresì la pena tenere monitorati due interessanti progetti che abbiamo individuato, entrambi, di fatto, ancora in fase costitutiva o comunque di avvio: la Fondazione Welfare Ambrosiano e il servizio di Segretariato Sociale. Questo perché, oltre a rappresentare delle indubbie peculiarità della realtà milanese, esse costituiscono interessanti laboratori di sperimentazioni, da cui estrarre pratiche innovative da portare poi eventualmente a sistema.

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Parte II

L’esperienza aretina nello scenario toscano

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4. Il modello Toscana tra partecipazione e diritti di cittadinanza13 4.1 La governance regionale del welfare. Il Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale.

La presenza politiche sociali integrate e fondate nelle premesse sullo sviluppo di diritti di cittadinanza è un elemento caratteristico del sistema di welfare toscano. Da decenni, già a partire dagli Settanta in questa regione l’investimento nelle politiche sociali è parte di un disegno più complessivo che mira a delineare i contorni di un modello di società aperto e inclusivo. Le ampie attribuzioni di responsabilità in campo alle amministrazioni locali e il ruolo forte esercitato dalla regione nel coordinare i processi di riforma evidenziano la preferenza per soluzioni di cittadinanza a tutela dei diritti dei cittadini (Pavolini, 2004; Campedelli, Carrozza, Rossi, 2009) attraverso servizi e prestazioni diretti alle persone e alle famiglie, ai minori, ai giovani, ai disabili, agli anziani e agli immigrati. Una caratteristica fondante del modello è il ricco tessuto sociale che si è costruito nel tempo, con un terzo settore fortemente sviluppato, ancorché guidato e orientato dalle logiche di responsabilità pubblica. Rispetto ad altri modelli sperimentati in altre regioni, siamo di fronte a un sistema di sussidiarietà orizzontale presidiato dall’attore pubblico, meno incline a lasciare spazi di manovra autonoma all’organizzazione spontaneistica dei soggetti associativi. I processi partecipativi, le forme di co-progettazione, così come le diverse partnership tra pubblico e privato, da questo punto di vista, non corrispondono a vere e proprie cessioni di sovranità dal pubblico verso la società civile che si auto-organizza, ma richiamano una distinzione di ruoli fondante tra prerogative pubbliche e spazi di intermediazione associativa e privata. Nel 2005, con la Legge Regionale 41/2005 la Toscana ridisegna il sistema socio-assistenziale recependo le indicazioni contenute nella nuova normativa nazionale, ma secondo principi e soluzioni che già erano stati definiti dalla precedente legislazione regionale con la Legge 72/1997 (Vivaldi e Stradella, 2009). Già con quest’ultima alcuni principi assunti dalla 328 venivano esplicitati a modello di riferimento per la programmazione e gestione degli interventi sociali. Tra questi possiamo ricordare la chiara definizione delle rispettive responsabilità tra regione (ripartizione delle risorse, coordinamento e verifica del Piano regionale, implementazione del sistema informativo), provincie (concorso nell’attuazione dei Piani zonali di assistenza, implementazione dell’Osservatorio sociale) e comuni, ai viene delegata la responsabilità della materia assistenziale. Vi è da dire inoltre che già prima della 328 la Toscana individua nei Piani di zona lo strumento fondamentale di programmazione e di concertazione tra tutti i soggetti interessati, pubblici e privati, alla costruzione della governance territoriale, comprese le Asl, a partire dalle quali favorire lo sviluppo delle prestazioni socio-sanitarie. Come si può vedere il tema dell’integrazione (in particolare quella socio-sanitaria) poggia in Toscana su una esperienza di collaborazione inter-istituzionale già abbastanza solida, prima ancora che questo problema entrasse nell’agenda delle riforme nazionali. Da qui si possono comprendere meglio le

13 Di Andrea Ciarini e Elisa Mariano

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successive evoluzioni. Con la Legge 41 e soprattutto con l’avvio della sperimentazione delle “Società della Salute” (introdotte con il Piano sanitario regionale 2002-2004 e avviate sperimentazione con il successivo Piano 2005-2007) il sistema sociale e sanitario regionale va oltre l’idea di integrazione, assumendo il concetto di “salute” entro quello più ampio di “benessere”. Non si tratta di una innovazione solo terminologica. All’interno del concetto di benessere rientrano prestazioni che esulano dal campo strettamente sociale o sanitario, fondendo insieme elementi di realtà organizzative assai poco comunicanti in passato, da una parte il sistema ospedaliero, autoreferenziale, centrato esclusivamente sulle strutture interne e scarsamente collegato con il territorio, tanto meno con i servizi sociali territoriali. Dall’altra l’assistenza, lasciata agli enti locali, dotata di minori finanziamenti (anche per non essere inserita nei grandi flussi di finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale) e scarsamente attrezzata a favorire reali innovazioni nell’organizzazione dell’offerta. E’ alla rottura di questa logica che i piani di riordino della regione Toscana hanno puntato, individuando nella “Società della salute” (un consorzio partecipato da Asl e comuni della zona distretto) l’ambito territoriale nall’interno del quale costruire e sviluppare la presa in carico “globale” della salute (nel senso benessere). La più recente programmazione della Regione Toscana in materia sociale ha rilanciato la sfida della trasformazione del sistema di servizi e prestazioni sociali ponendo al centro la realizzazione dei diritti di cittadinanza attraverso la sostanziale e universale inclusione nel sistema di tutti i cittadini. Ma qual è stato il criterio guida nella costruzione del sistema integrato sociosanitario? La regione Toscana ha inteso l’integrazione non come un successivo e obbligato momento di necessaria collaborazione tra settori diversi con responsabilità gestionali e politiche distinte, ma come una vera e propria fusione istituzionale in grado di avviare una programmazione unica, e quindi fortemente integrata, ed una gestione delle risorse corrispondente. In particolare, sempre rimanendo nell’ambito sociosanitario è stata dapprima stimolata la coincidenza tra ambiti sociali e distretti sanitari fino all’opzione “zone distretto sociosanitario” integrate, che hanno introdotto e condotto alla programmazione unitaria dei servizi alla persona.

4.2 Il ruolo e la partecipazione degli enti locali e dei soggetti del terzo settore nel processo di programmazione.

Nell’ambito della governance la Regione ha ritagliato per sé un ruolo strategico di notevole importanza, che consiste nell’impostare e guidare la direzione delle politiche che gli enti locali dovranno, per competenza, perseguire. Infatti la funzione programmatoria e l’azione di sostegno della Regione al sistema dei servizi non configurano un suo ruolo come mero “ente erogatore”. La motivazione principale alla base di questa scelta consiste, come è ben descritto nel PISR, nella considerazione che: “Le politiche regionali non possono essere il semplice aggregato dei molti volti e delle tante voci della realtà toscana. Esse devono integrarsi con il territorio per esprimere una visione che sia più ampia della somma dei singoli punti di vista” (PISR 2007/2010) e questo è il compito più generale che la Regione assume. Nello specifico gli obbiettivi, i progetti e le linee di azione contenute nel PISR sono perlopiù tradotti dalla stessa Regione in opzioni strategiche funzionali al fine della

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realizzazione e possono essere attuati dai soggetti locali, che in tal senso sono certamente individuabili (e così definiti all’interno del PISR) come “attori delle scelte regionali”. Non è solo questo, però, a confermare il ruolo forte e marcato della Regione nell’ambito della governance verticale. Ad esempio, per quanto riguarda i progetti e le linee d’azione scaturiti dal territorio (al livello delle autonomie territoriali) in forma di proposte, la Regione esplicitamente si riserva di condividerle e supportarle solo se coerenti con le strategie regionali, cioè rispetto a linee programmatiche e proposte progettuali (pur legittime rispetto alle competenze dell’ente locale) ritenute non coerenti con le scelte programmatiche regionali la Regione Toscana può scegliere di non incentivare tali interventi. Questo approccio strategico della Regione Toscana richiama la centralità dell’intervento pubblico, rispetto ad altre concezioni ed opzioni possibili di attuazione della governance che vedono l’ente Regione ritagliarsi unicamente un ruolo di coordinamento e finanziamento dei servizi. Al fine di delineare complessivamente il modello della governance delle politiche sociali in Toscana è importante, però, sottolineare come questa impostazione sia compensata dal fatto che il disegno regionale e le sue opzioni di programmazione integrata vengono costruiti con le istituzioni del territorio, quale che sia la responsabilità operativa specifica di queste ultime e, come vedremo più avanti, con una corposa platea di attori sociali attraverso pratiche strutturate di ascolto, negoziazione e concertazione delle politiche e delle loro traduzioni progettuali. Per meglio comprendere le implicazioni di tale disegno organizzativo è opportuno delineare le direttrici prescelte dalla Regione Toscana nell’ultimo decennio per strutturare e qualificare il sistema dei servizi alla persona. In questa direzione gli sforzi perseguiti sono due: superare la logica assistenzialista delle politiche sociali e dei servizi partendo dalla centralità della persona e andare oltre la settorialità delle politiche per garantire una risposta globale e unitaria ai bisogni dei cittadini. Per questo motivo il sistema toscano di welfare si distingue nettamente in Italia per aver riformulato la logica dei diritti sociali sulla base della cittadinanza ed in senso universalistico. Il caso toscano evidenzia un grado di innovatività nelle riforme difficilmente riscontrabile in altre realtà regionali. Gli interventi più recenti come l’introduzione della programmazione integrata di sociale e sanitario attraverso l’adozione di un piano unico sia a livello regionale (PISR) che a livello locale (PIS) e quindi la costituzione delle “Società della Salute”, la sperimentazione dei livelli di base di cittadinanza sociale, l’adozione delle Carte di cittadinanza, l’introduzione dello schema regionale della carta dei servizi hanno fortemente caratterizzato il sistema di protezione sociale immaginato dalla regione in senso universalistico. In questo contesto ha svolto un ruolo cruciale il forte rilievo dato agli strumenti ed alle sedi della partecipazione degli attori istituzionali e sociali nell’ottica della valorizzazione della partecipazione sociale e comunitaria, ma soprattutto con l’intento di coinvolgere le persone destinatarie degli interventi nei processi di definizione e programmazione dei servizi. L’attivazione e l’empowerment del cittadino, nel caso Toscano, sono quindi due chiavi interpretative utili per definire il modello che va delineandosi. L’intento perseguito è stato quello di raggiungere nella programmazione la più ampia rappresentazione degli interessi dei cittadini e di condividere con loro le scelte relativamente alle modalità di risposta al bisogno. Per questo la Regione ha adottato strumenti di concertazione e confronto con le parti sociali ed ha attivato la più ampia

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partecipazione delle associazioni degli utenti, dei consumatori e dei soggetti del terzo settore, durante il percorso di sperimentazione delle “Società della Salute”. Il processo di programmazione ha visto presenti, ciascuno per il ruolo previsto dalla normativa, tutti i soggetti istituzionali e le rappresentanze associative della società civile. La programmazione (nello specifico il PISR) si è così configurato come il risultato di un processo partecipato sia nella dimensione locale che sul piano regionale. Gli enti locali hanno nel tempo via via assunto compiti importanti e contribuito visibilmente ad una rapida crescita qualitativa della programmazione locale. A livello locale oggi è il PIS (piano integrato di salute) ad incarnare di fatto l’integrazione tra sociale e sanitario. I compiti affidati ai PIS riguardano infatti : “…la definizione del profilo epidemiologico della comunità di riferimento con particolare riguardo alle condizioni delle persone caratterizzate da una debolezza di vario tipo: socio-economica, culturale, derivante da particolari stili di vita, ovvero che si concretizza in difficoltà nell’accesso ai servizi. In questo senso stabilendo per le comunità di riferimento gli obiettivi di salute e di benessere e i relativi standard quantitativi e qualitativi, nonché le azioni concrete per raggiungerli e le risorse disponibili. Quindi, offre realizzazione sul piano della programmazione alla visione complessa della salute-benessere e dei diritti di cittadinanza come diritti fondamentali dell’uomo” (Campedelli, 2009). In tema di partecipazione vale la pena ricordare che la Regione Toscana, già con la legge 69/2007 aveva sancito e sposato un particolare modello di “democrazia partecipativa” che ha poi tentato di estendere trasversalmente a tutte le aree di policy. Anche al livello delle Società della salute il tema della partecipazione sociale alla programmazione è stato non solo assunto come una necessità, ma la partecipazione è stata normata attraverso una vera e propria strutturazione degli organi e delle sedi deputati a realizzarla divenendo in qualche modo “organica” al sistema di welfare. Alcuni articoli della legge n.60 del 2008 ne danno definizione. In estrema sintesi vengono indicate tre forma di partecipazione da avviare o all’interno delle Società della salute o attraverso esse. Vengono istituiti, infatti, due organi di riferimento ad ogni livello territoriale: la Consulta del terzo settore ed il Comitato di partecipazione. Il primo organismo raccoglie tutti i soggetti del privato sociale che sono parte o ambiscono ad esserlo del sistema di offerta dei servizi sul territori, che sono direttamente coinvolti nella gestione dei servizi e che pertanto sono portatori di esperienze e professionalità ma anche di interessi chiari e definiti; il secondo organismo invece è composto da membri che devono essere espressione di organizzazioni rappresentative dell’utenza che usufruisce dei servizi oppure dell’associazionismo di tutela (advocacy) e di promozione e sostegno attivo. La terza “gamba” della partecipazione è la partecipazione dei cittadini in quanto tali in forma non organizzata e si sviluppa attraverso le attività di comunicazione e incontro che le “Società della Salute” sono obbligate a tenere come le “agorà” della salute cioè eventi pubblici aperti alla popolazione nei quali partecipano anche gli esponenti politici. Ciò è possibile anche perché in Toscana il Terzo Settore è una realtà radicata e organizzata, capace di sostenere le famiglie nelle situazioni di sofferenza e disagio e capace di costituire, in rapporto integrato con i servizi pubblici, una strutturata rete di protezione sociale, che trova espressione viva in un ricco tessuto di volontariato, associazionismo, cooperative sociali: sono più di 2.400 le organizzazioni di volontariato scritte al registro regionale, 1.700 le associazioni di promozione sociale, oltre 500 le cooperative sociali, e il fenomeno risulta costantemente in crescita negli ultimi anni.

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Bisogna però sottolineare che a fronte di una evidente considerazione e volontà di strutturazione dei processi di partecipazione il potere reale attribuito agli organismi prima descritti (Consulta del terzo settore e Comitato di partecipazione) non è che consultivo e mai vincolante né in fase di approvazione del PIS, né in fase di valutazione dei risultati raggiunti e ciò depotenzia molto l’accento sulla partecipazione che la Regione ha inteso dare. Tornando al tema dell’integrazione delle politiche possiamo certamente dire che la Regione Toscana ha molto investito in tal senso. Tuttavia l’integrazione, così definita di alto livello, è stata sviluppata soprattutto tra le politiche sociali da un lato e quelle sanitarie dall’altro. Resta da valutare se e in che misura questa marcata integrazione tra l’area sociale e sanitaria abbia reso, ad esempio più complicata o semplicemente meno centrale e visibile l’integrazione (pure rilevante) tra l’area delle politiche sociosanitarie e l’area delle politiche per il lavoro e per la formazione così rilevanti nel profilo di benessere complessivo della persona. Tuttavia oggi le “Società della Salute” sono un esempio chiaro della direzione di forte integrazione impressa ai due comparti e soprattutto del modo di intendere l’integrazione stessa. È al livello delle” Società della Salute”, quindi, che si delineeranno i diversi profili in merito alla gestione delle politiche (meccanismi di erogazione: affidamenti in esterno vs politiche di solvibiltà della domanda), accesso ai servizi e quindi fruizione delle prestazioni e criteri di selettività della domanda e relativamente al rapporto tra misure passive e politiche attivanti (di cura, assistenza, inclusione sociale e contrasto alla povertà) sulla base di un frame regolativo regionale. Il tema dell’integrazione tra queste politiche e quelle del lavoro e della formazione che sono in gran parte competenza delle province presuppone il raccordo tra questi due enti e si può certamente anticipare che a differenza del comparto socio-sanitario questo livello d’integrazione è ben più complesso da ottenere proprio a causa dei diversi soggetti che hanno in capo la potestà legislativa e gestionale delle diverse policy.

4.3 Un quadro generale del sistema dei servizi all’infanzia in Toscana14.

La Regione Toscana ha una tradizione di forte radicamento e sviluppo dei servizi alla prima infanzia. Già a partire dal 1973 con l’approvazione di una prima legge sui nidi questo genere di interventi gode di legittimazione finanziamenti dedicati che collocano questa regione ai più alti livelli in Italia nel grado di copertura dell’offerta. Nel tempo non sono mancate rimodulazioni in quantità e qualità di fronte a criticità che le stesse istituzioni hanno riconosciuto. Essi possono essere riassunti come indicato nel Piano triennale per i servizi all’infanzia 2007-2010 nei seguenti punti:

• l’iniziale rigidità dell’offerta di un’unica tipologia di servizio (il nido); • l’esistenza delle “liste d’attesa”; • la diseguale distribuzione territoriale del servizio; • la lievitazione dei costi.

14 le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte dal Piano triennale per i servizi all’infanzia 2007-2010.

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L’esigenza di riprogettazione è stata tradotta nella Legge Regionale 22/1999 e in seguito nella Legge 32/2000 “Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro”. Con questa legge i servizi per l’infanzia vengono ricompresi nel ventaglio degli interventi in favore di educazione, formazione, sviluppo, denotando l’indirizzo strategico dei principi assunti alla base della’idea stessa di educazione. Coerentemente con una concezione integrata delle politiche la cura della prima infanzia viene a rientrare nelle azioni di promozione del diritto all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, come diritto della persona. L’ancoraggio ai diritti individuali e alle pari opportunità di accesso anche in questo campo rimane centrale come principio guida della regolazione pubblica. Esso identifica, tuttavia, un troncone di politiche integrate autonome rispetto a quelle eminentemente assistenziali contenute nel PISR. Al suo interno la tematica “minori” identifica specifiche misure di sostegno alle responsabilità familiari, ma riguardanti l’affido, l’adozione, la tutela fuori della famiglia d’origine, l’accoglienza residenziale in caso di maltrattamenti, minori non accompagnati. Diversa è la legislazione che insiste sul sistema dei servizi educativi. L’attuale programmazione, riferibile al Piano di Indirizzo Generale Integrato 2006-2010, riafferma in coerenza con quanto già sottolineato i principi dell’integrazione come leva per lo sviluppo dell’apprendimento permanente. Per questo anche nella prima infanzia è sostanziale l’ancoraggio alla Strategia di Lisbona in linea con l’obbiettivo di estendere entro il 2010 la copertura ad almeno il 33% dei bambini minori di tre anni. Attualmente questo rapporto è vicino al 28%, il 14,7% in più rispetto al 2000 (Piano di Indirizzo Integrato 2006-2010). Si tratta di un traguardo a portata di mano che la Regione ha inteso perseguire in questi anni con diverse tipologie di servizi integrati (Nido d’infanzia, Centro gioco bambini e genitori, Centro gioco educativo, Nido domiciliare, Nido aziendale) in un piano di programmazione che ricongiunge il diritto dei minori alla cura con lo sviluppo di attività educative e sociali finalizzate alla promozione di un processo continuo di apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Appare di interesse l’ottica adottate per l’idea di una sorta di “strategia di investimento sociale” che guarda alla prima infanzia come il momento cruciale, non solo dell’investimento nell’apprendimento continuo, ma altresì della possibile ritrasmissione e riproduzione di disuguaglianze sociali e conflitti identitari (culturali o religiosi). Su questi aspetti, non meno rilevanti dei primi, i servizi intervengono come detto con una pluralità di alternative aperte all’interazione congiunta tra bambini, educatori, genitori e famiglie. Per schematizzare esse possono essere così riassunte:

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Tab. 1, Tipologia dei servizi all’infanzia in Toscana Nido d’infanzia Centro gioco

bambini e genitori Centro gioco educativo

Nido domiciliare Nido aziendale

Età Bambini tra 3 mesi e 3 anni

Bambini da 3 mesi a 3 anni

Bambini tra 18 mesi e 3 anni

Bambini di età inferiore ai 3 anni

Bambini da 3 mesi a 3 anni figli di lavoratori e bambini residenti nel territorio di riferimento (riserva del 10%)

Tipo servizio

Servizi educativi e sociali

Servizio a carattere educativo e ludico. Il servizio è privo di mensa e riposo pomeridiano

Servizi e progetti ludici temporanei nella giornata. Può essere comprensivo di mensa e riposo pomeridiano

Servizi educativi e di cura presso il domicilio di famiglie con bambini di età inferiore ai tre anni, disponibili ad aggregarsi e mettere a disposizione spazi domestici per l’affidamento, previa autorizzazione da parte del comune

Servizi educativi e sociali

Tipo attività

Socialità, gioco, pasti. Riposi pomeridiani

Socialità, gioco per i bambini e spazi di comunicazione e interazione per i genitori

Progetti educativi e ludici, socializzazione e comunicazione con i coetanei

Cura continuativa Vedi nido d’infanzia

Interazione con gli adulti

Le famiglie concorrono alla crescita, cura e socializzazione dei bambini

Previsione di spazi di incontro e comunicazione per gli adulti, ai fini del loro Concorso realizzazione dei programmi educativi. Logica di corresponsabilità tra adulti e educatori

Vedi nido d’infanzia

Tipo di personale impiegato

Educatori in possesso di appositi titoli professionali e specifiche competenze

Educatori in possesso di appositi titoli professionali e specifiche competenze

Educatori in possesso di appositi titoli professionali e specifiche competenze

Educatori in possesso di appositi titoli professionali. Educatori familiari appositamente formati; Educatori a domicilio appositamente formati

Vedi nido d’infanzia

Fonte: Piano di Indirizzo Integrato 2006-2010 I servizi educativi ad oggi coprono il 28,5% della popolazione tra gli 0 e 2 anni. Dei 742 servizi, 532 sono costituiti da nidi d’infanzia e 210 da interventi integrativi (Sistema informativo regionale adolescenza SIRIA, 2008). Dalle rilevazioni del sistema informativo regionale (vedi Tab. 2), le liste di attesa risultano pari a 9.815 unità, a fronte di 21.071 bambini che frequentano un qualche servizio. Pur constatando evidenti, il problema delle liste d’attesa rimane il problema principale del sistema di offerta.

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Tab. 2 Servizi per la prima infanzia per Provincia e Lista di attesa Iscritti - anno educativo 2005/06

Provincia Servizi Lista Attesa Iscritti

Arezzo 58 685 1624

Firenze 257 4140 7512

Grosseto 32 832 798

Livorno 51 294 1624

Lucca 54 606 1560

Massa e Carrara 14 167 576

Pisa 79 1005 2059

Pistoia 66 797 2106

Prato 73 895 1749

Siena 59 410 1463

Totale Regione 743 9831 21071

Fonte: sistema informativo regionale infanzia adolescenza (SIRIA) In questo quadro, la strategia intrapresa punta innanzitutto all’innalzamento della copertura, attraverso il potenziamento dei servizi pubblici e altresì l’accreditamento, proseguendo sulla strada già tracciata in passato ma non a scapito della qualità delle prestazioni o dell’abbassamento delle tutele e degli inquadramenti salariali degli operatori. In questa logica va vista l’inclusione nel sistema di offerta dei fornitori privati. Attualmente le organizzazioni private (vedi Tab. 3) coprono il 32% dell’offerta totale, ma con una incidenza a livello provinciale non omogenea. Dalla unica unità presente nella provincia di Massa e Carrara, si passa alla pressoché totale parità di servizi pubblici e privati di Prato (37 a fronte di 36).

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Tab. 3 Servizi per la prima infanzia pubblici e privati in Toscana - anno educativo 2005/06

Provincia Pubblici Privati Totale

Arezzo 39 19 58

Firenze 184 73 257

Grosseto 22 10 32

Livorno 39 12 51

Lucca 41 13 54

Massa e Carrara 13 1 14

Pisa 47 32 79

Pistoia 47 19 66

Prato 37 36 73

Siena 38 20 58

Totale Regione 507 235 742

Fonte: sistema informativo regionale infanzia adolescenza (SIRIA)

Rispetto al tipo di regolazione emergente, possiamo dire che essa si configura come una governance multilivello in cui le amministrazioni sono chiamate a svolgere diverse funzioni. Da un lato la centralità della fornitura pubblica, dall’altro la non meno importante azione di accreditamento, monitoraggio, controllo qualità per la gestione dei servizi in esterno. Il tutto all’interno di una strategia il cui scopo fondamentale è quello porre le famiglie di fronte a diverse tipologie e alternative di cura parimenti di qualità: strutture pubbliche, strutture private accreditate (in questo caso riconoscendo altresì la possibilità di usufruire di buoni servizi alla famiglie nelle zone prive di servizi comunali), strutture domiciliari familiari, nidi d’infanzia, centri giochi, etc…Ma non solo in risposta ai bisogni di cura e conciliazione vita-lavoro gli interventi integrati per l’infanzia sono pensati. Nell’ottica di una politica sociale volta alla promozione dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, l’infanzia costituisce il momento strategico dell’investimento nel life-long learning.

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4.3.1 La programmazione regionale e le scelte future.

Il Piano di indirizzo generale integrato 2006/2010 come abbiamo visto definisce le politiche, gli indirizzi operativi e rappresenta anche lo strumento programmatico al quale si riferisce la pianificazione provinciale e zonale. Al suo interno la regione riconosce un ruolo fondamentale agli enti locali, incaricati della gestione dei servizi integrati all’infanzia. Per sé la regione ritaglia un ruolo di coordinamento strategico, fatto di finanziamenti dedicati, di formazione e aggiornamento per gli operatori, di azioni di monitoraggio a valutazione delle scelte compiute sui territori. Ma non è solo in senso verticale che l’articolazione dei rapporti istituzionali si mostra incardinata in una logica di rete. Parimenti integrati sono i rapporti che sul territorio connettono l’offerta pubblica, con quella privata accreditata, con i comuni responsabili delle funzioni di accreditamento, autorizzazione, regolazione, monitoraggio, controllo. Considerano la rilevanza che hanno le politiche per l’infanzia, per il futuro la regione prevede, da un lato, la realizzazione di nuovi servizi, sia a gestione pubblica che privata. Dall’altro per potenziare il sistema di conciliazione vita-lavoro, si è deciso di intervenire anche con lo strumento del voucher (Concessione di un buono pari a 3.000 euro annui) per le famiglie con bambini in lista di attesa. Si tratta di una soluzione che mira ad agevolare le esigenze di conciliazione, laddove i servizi pubblici o accreditati non arrivano a coprire la domanda. L’assegnazione dei voucher avviene tramite “bando regionale ” per i comuni che hanno liste di attesa. La strada della solvibilità, mantiene in Toscana una forte impronta regolativa pubblica. Non si tratta di titoli di acquisto che semplicemente conferiscono alla famiglia trasferimenti per la scelta delle strutture, ma di una soluzione integrativa delle reti di offerta in servizi gestite dai comuni.

4.4 Assistenza socio-sanitaria e politiche per l’infanzia. Similitudini e differenze.

E’ interessante a questo punto soffermarsi sulle specificità di questo comparto rispetto ad altre aree dell’assistenza toscana. In particolare questo vale per l’altro grande asse della politica sociale regionale, quello dell’integrazione socio-sanitaria. Entrambi godono di un livello di strutturazione assai consolidato con esperienze di riforma che precedono gli input provenienti dal livello nazionale. Diversa tuttavia è l’impostazione alla base del loro funzionamento. L’integrazione socio-sanitaria è l’asse prioritario di integrazione che più, possiamo dire, è arrivato alla “fusione strutturale”. Le politiche sociali e quelle sanitarie in Toscana non solo sono chiamate a collaborare, a integrarsi vicendevolmente ma, di fatto, coincidono, avendo assunto la regione il concetto di salute all’interno di quello più ampio di benessere. Questo significa l’adozione di strumenti di pianificazione comuni, ben al di là delle forme di integrazione previste dalla normativa nazionale sull’assistenza. Il tutto attraverso una impronta forte della governance sui territori, in termini di vincoli e opportunità da tradurre in pratiche concrete di programmazione e gestione integrata. Come già detto è la “Società della Salute” il contenitore che a questo fine ricomprende tutte le funzioni sociali e socio-sanitarie, definendo un sistema dotato di un alto grado di complessità istituzionale, anche al prezzo di un qualche sovraccarico amministrativo. Occorre però sottolineare che la strada intrapresa necessariamente fa i conti con un’alta complessità. E’ a partire dall’ambito sanitario, sottoposto a un profondo processo di riorganizzazione territoriale,

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che si sono prodotte le innovazioni in direzione del rafforzamento delle prestazioni sociali, in questo modo portate al centro dell’offerta locale. Ma gli obbiettivi sono stati anche altri. Non solo l’integrazione, o meglio, la convergenza delle politiche, ma altresì il coordinamento e l’aggregazione degli enti locali e delle Asl all’interno di organismi di gestione politica più grandi, come la Conferenza dei Sindaci, che hanno il compito di gestire le “Società della Salute”. Diverso è il discorso per i servizi all’infanzia, i quali rappresentano un altro asse prioritario ma esterno all’ambito prettamente assistenziale. L’integrazione qui corre lungo l’asse della promozione dell’apprendimento permanente lungo tutto l’arco della vita, individuando nell’infanzia il primo gradino di una azione integrata, che si traduce anche in una diversità di dispostivi. In questo comparto è meno netto il perno dominante poggiante sull’integrazione verticale delle strutture amministrative, siano esse relative alle competenze delle Asl o degli enti locali. Accanto alla centralità dei servizi pubblici, non mancano nella cura dell’infanzia innovazioni in direzione dell’allargamento della rete anche ai soggetti privati, sebbene tramite accreditamento, e altresì verso il sostegno monetario alle famiglie che non rientrano nelle liste d’attesa. In questo si ravvede una strategia “multicanale”, fatta cioè di diverse alternative che puntano a estendere il ventaglio delle possibilità in favore dell’utente oltre la sola fornitura pubblica, il tutto però senza mancare di una forte regia regionale. Parimenti, come si potrà notare dallo studio di caso condotto su Arezzo, quello dell’infanzia è un settore che tende a integrarsi con il sostegno alla conciliazione vita-lavoro e all’occupazione femminile. Diversamente la questione dell’integrazione socio-sanitaria si lega soprattutto al problema della non autosufficienza. Con le “Società della Salute” la riorganizzazione territoriale delle cure sanitarie rientra in un progetto di riforma che punta soprattutto a rispondere ai problemi posti dalla non autosufficienza, con l’individuazione di progetti di assistenza continuativi che vengono dal consolidamento dei processi di de-ospedalizzazione.

4.5. Le politiche di conciliazione vita-lavoro.

Gli obiettivi più generali alla base delle politiche di conciliazione dei tempi in Toscana si declinano, come è naturale che accada, in una serie di sub -obiettivi settoriali che fanno riferimento anche ai contenuti delle politiche sociali integrate così come individuati dalla Legge regionale 41/2005. In primo luogo è bene sottolineare la forte spinta al sostegno delle responsabilità familiari (con un forte valore innovativo per l’ottica di genere e il tema della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro) che la Regione ha realizzato negli ultimi anni. In particolare l’impegno maggiore è riscontrabile in una poderosa azione di qualificazione dei servizi, di personalizzazione delle prestazioni e nella tempestiva comprensione e rilevazione degli oneri di cura che gravano in particolare sulle donne e delle loro specifiche esigenze. Tutto questo si lega come abbiamo visto poco sopra alla diffusione di servizi multicanale tesi a estendere le possibilità di offerta e di conseguenza di conciliazione vita-lavoro. Ma relativamente al tema delle Pari opportunità di genere è fondamentale citare la legge che la Regione Toscana ha promulgato solo qualche mese fa, nello specifico la Legge regionale 2 aprile 2009, n. 16 sulla “Cittadinanza di genere”. Questa legge ha visto un periodo di gestazione molto lungo e partecipato. Nella redazione sono stati coinvolti tutti i gruppi, le associazioni e i forum di donne che nel tempo si sono costituiti nel territorio toscano. Anche i sindacati hanno contribuito alla stesura della legge, in particolare per ciò che

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attiene l’accesso e la promozione del lavoro delle donne e le azioni a sostegno della conciliazione dei tempi. Alla conciliazione tra tempi di vita e lavoro la legge dedica un intero capo ed individua gli strumenti fondamentali per la sua realizzazione:

a) sperimentazione di formule di organizzazione dell’orario di lavoro nella pubblica amministrazione e

b) nelle imprese private volte alla conciliazione vita-lavoro; c) promozione di un’equa distribuzione delle responsabilità familiari tra donna ed

uomo; d) incremento del ricorso ai congedi parentali da parte degli uomini; e) attuazione di interventi nell’ambito del governo del tempo e dello spazio urbano

e pianificazione f) degli orari della città; g) lotta agli stereotipi di genere che limitano le scelte lavorative e l’assunzione di

ruoli di h) responsabilità da parte delle donne.

In particolare la legge attribuisce alle Province il compito di implementare i progetti e le azioni concrete di conciliazione non dimenticando di favorire la concertazione e la partecipazione dei soggetti della società civile. Ulteriori innovazioni consistono nell’istituzione della banca dati dei saperi delle donne nella quale sono inseriti i curriculum delle donne con comprovate esperienze di carattere scientifico, culturale, artistico, professionale, economico, politico, che lavorano o risiedono in Toscana. La banca dati è uno strumento del quale viene data diffusione e informazione allo scopo di rappresentare l’ampio mondo dei saperi delle donne e favorire anche un’adeguata presenza delle donne in ruoli fondamentali della vita regionale. A tale scopo la banca dati favorisce anche la divulgazione di competenze femminili al fine delle indicazioni e proposte di designazioni e nomine. La legge poi istituisce formalmente il forum sulla cittadinanza di genere e il “Tavolo regionale di coordinamento per le politiche di genere” che ha l’obbiettivo di favorire l’integrazione tra i segmenti delle politiche che incidono sul fenomeno della parità di genere. Individua infine, gli elementi necessari per una programmazione soddisfacente in materia nella disponibilità di statistiche di genere relativamente agli ambiti più cogenti: politiche economiche e dell’occupazione, politiche sanitarie e sociali, formazione e informazione. Dal punto di vista della programmazione prevede la predisposizione del Piano regionale della cittadinanza di genere.

4.6 Il sistema regionale toscano per le politiche dell’impiego e le politiche attive del lavoro.

A partire dal 1997 con il d.lgs.469/1997 le politiche del lavoro e di collocamento, vengono trasferite dallo Stato alle regioni e agli enti locali e si stabilisce che anche i soggetti privati (imprese, società cooperative, enti non commerciali) possano, dopo aver ricevuto l’autorizzazione ministeriale svolgere l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, facendo venir meno quindi il monopolio pubblico del collocamento. Il

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d.lgs 469/1997 definisce soltanto i criteri generali per l’organizzazione dei sistemi regionali per l’impiego e demanda invece alla legislazione regionale il compito di definire la modalità specifiche. In meno di un anno la regione Toscana con la L. R. n. 52 del 6 Agosto 1998, stabilisce le “Norme in materia di politiche del lavoro e di servizi per l'impiego”, istituendo in luogo dei vecchi uffici di collocamento i centri per l’impiego e le loro articolazioni territoriali. Il sistema regionale Toscano per i servizi per l'impiego risulta quindi costituito dai centri per l’impiego e dalle Commissioni Provinciali Tripartite, a livello provinciale, dalla Commissione Regionale Permanente Tripartita a livello regionale e dal Comitato di Coordinamento Istituzionale. Le Commissioni provinciali tripartite, istituite in ogni provincia (Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Carrara, Pisa, Pistoia15, Prato, Siena) sono degli organismi di concertazione con le parti sociali in materia di programmazione provinciale delle politiche attive del lavoro, della formazione professionale e di gestione dei servizi per l'impiego e dei Centri per l'Impiego. La Commissione regionale permanente tripartita è un organismo di concertazione attraverso il quale le parti sociali concorrono alla determinazione delle politiche del lavoro e alla definizione delle relative scelte programmatiche e di indirizzo della Regione. Il Comitato di Coordinamento Istituzionale ha il compito del coordinamento delle funzioni istituzionali ai diversi livelli del sistema regionale per l'impiego e dell’effettiva integrazione, sul territorio, tra i servizi all'impiego, le politiche attive del lavoro e le politiche formative". Nel 1999 la legge n.68 introduce nuove norme per il diritto al lavoro per i disabili. Di conseguenza la regione Toscana modifica la L.R. n. 52/1998 integrandola con una nuova legge regionale, la L. R. n. 12 del 2000, con la quale viene istituito il Fondo regionale per l’occupazione dei disabili (al fine di finanziare le iniziative per l’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro) e il Comitato regionale per il fondo, (composto da un assessore regionale, un componente delle organizzazioni sindacali, uno delle organizzazioni datoriali e uno delle associazioni dei disabili). Nel 2001 la Toscana con la L. R. n. 29 introduce il “Piano regionale per le politiche dell’impiego e per le politiche attive del lavoro”. Si tratta di uno strumento di programmazione con il quale la regione definisce i servizi all’impiego e le politiche attive del lavoro, favorendone l’integrazione con i piani della formazione, dell’orientamento professionale, dell’istruzione e delle politiche sociali. Si tratta di un primo passo verso una programmazione integrata delle suddette politiche. In seguito alla L. R. 29/2001 la funzione di programmazione delle politiche attive del lavoro spetta alla Giunta regionale, la quale, avvalendosi della Commissione regionale permanente tripartita e dopo aver sentito il Comitato di Coordinamento Istituzionale propone il piano regionale per le politiche dell'impiego e per le politiche attive del lavoro. Il piano, soggetto all'aggiornamento annuale, ed è approvato tendendo conto dei piani regionali per l'orientamento e la formazione professionale, indica gli obiettivi e le strategie dell'intervento regionale, stabilendone le risorse finanziarie. Esso si articola nel dispositivo di piano, nel disciplinare di attuazione e nel programma finanziario. Il dispositivo di piano definisce i criteri generali per l’omogeneizzazione dei servizi per l’impiego, gestiti dalla province, su tutto il territorio regionale, specificando le forme di raccordo ed integrazione tra le politiche attive del lavoro, le politiche formative e della 15 Per maggiori info vedi link:

http://www.provincia.pt.it/LAVORO/COMMISSIONE_TRIPARTITA/el_commissione_tripartita.htm

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formazione professionale, definendo gli standard minimi di efficienza dei servizi e di qualità delle prestazioni al fine di garantire l'omogeneità del sistema e tenendo conto della differenza di genere. Il disciplinare di attuazione definisce le procedure e individua gli strumenti per la valutazione dei servizi per l'impiego e degli strumenti di politica attiva del lavoro. Il programma finanziario infine individua le risorse finanziarie, indicando i criteri per la loro ripartizione e le quote da riservare a eventuali programmi di iniziativa regionale o a specifici progetti finalizzati ed è aggiornato annualmente. Il piano infine deve essere approvato dal Consiglio regionale. Nel 2002 la Toscana emana un “Testo unico in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro”, con la L. R. n. 32 del 2002, che introduce il Piano di indirizzo generale Integrato (PIGI), ovvero un documento di programmazione che mette insieme tutte le norme su educazione, istruzione, formazione, orientamento e lavoro, definendo i compiti e le funzioni di regione, province e comuni e stabilendo “l’integrazione fra momenti che non possono e non devono essere disgiunti”. Nel 2005 interviene la nuova L. R. n. 20 che apporta modifica alla precedente normativa. Il nuovo testo interviene su diversi aspetti, in particolare in materia di intermediazione di manodopera, requisiti di accreditamento per servizi di orientamento e informazione, collocamento dei disabili e delle persone svantaggiate, infine nella regolamentazione dell’apprendistato. 4.6.1 Le politiche attive del lavoro in favore delle donne nella regione Toscana Per l’analisi delle politiche attive del lavoro realizzate nella regione Toscana negli ultimi anni fondamentale è il riferimento ai seguenti documenti:

• Il Piano Generale Integrato 2006-2010; • Il Piano di Sviluppo Regionale 2006-2010; • Il Piano Operativo Regionale della Toscana 2007-2013; • Il Patto per l’occupazione femminile in Toscana del 25 Luglio 2008;

Un elemento centrale delle politiche attive del lavoro realizzate in Toscana sembra essere l’attenzione per le politiche di genere e per la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, come dimostrano le azioni realizzate per incoraggiare la creazione di impresa al femminile, dedicando degli appositi sportelli alle donne e prevedendo la presenza della figura dell’animatrice di parità e della referente di genere presso i centri per l’impiego. In Toscana la partecipazione femminile al mercato del lavoro presenta delle disomogeneità territoriali. La scarsa partecipazione femminile al lavoro riguarda in particolare alcuni territori, come per esempio a Livorno e a Massa Carrara dove la percentuale di donne occupate è al di sotto del 50%, mentre in altre aree gli obiettivi comunitari sono già stati raggiunti (Firenze) o sono prossimi al raggiungimento (Siena). Un ulteriore svantaggio della componente femminile presente nel mercato del lavoro regionale, riguarda il fatto che le donne sono la componente con una maggiore probabilità di accesso ai lavori flessibili. Ma quello che risulta più allarmante è il fatto che le donne risultino nettamente svantaggiate nei percorsi di stabilizzazione16.

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Ripercorrendo l’iter degli ultimi interventi legislativi in materia di politiche del lavoro in favore delle donne, nel 2006 viene avviata una sperimentazione per incentivare il reinserimento nel mercato del lavoro di donne, con una età compresa tra i 35 e i 45 anni (fascia di età durante la quale le donne si trovano a dover lasciare il lavoro per dedicarsi alla cura dei figli e alla famiglia). Dopo una prima fase di sperimentazione, nei primi mesi del 2007 si è deciso di eliminare il tetto dell’età massima, in modo da facilitare l’accesso agli incentivi (che sono stati rifinanziati per il 2008 e per il 2009). Vengono introdotti a partire dal 2006 dei voucher per rimborsare l’iscrizione delle studentesse alle facoltà scientifiche, generalmente frequentate in maggioranza da uomini, in modo da incoraggiare l’accesso delle donne. Uno degli obiettivi delle politiche attive del lavoro comune al PIGI e al Piano di Sviluppo regionale 2006-2010 è stato quello di puntare sulla conciliazione lavoro-famiglia, attraverso misure di potenziamento degli asili nido (sia pubblici, sia aziendali) e attraverso i “voucher di conciliazione”. Nel Luglio del 2008 viene firmato il “Patto per l’occupazione femminile”17 con l’obiettivo di per raggiungere entro il 2010 un tasso di occupazione femminile pari ad almeno il 60%, così come stabilito dalla Strategia Europea sull’Occupazione. Nel patto vengono indicati interventi preventivi di contrasto della disoccupazione delle donne e una serie di misure promozionali per favorire l’inserimento lavorativo delle donne, finanziate con risorse provenienti dal POR FSE Ob. 2 2007/2013. Tra queste ricordiamo la promozione programmi come PARI, gestito da Italia Lavoro, che integrino misure passive di sostegno e interventi attivi per il reinserimento lavorativo; lo stanziamento di incentivi per l’assunzione di donne; l’utilizzo delle Carte Formative ILA (Individual Learning Account) su tutto il territorio regionale. Le ILA sono carte formative, di importo minimo di 2.500 euro, distribuite dalle provincie per sostenere la formazione. Tale misura, inizialmente sperimentata soltanto in alcune province della regione, si è rivelata women-friendly, dal momento che su 3000 carte erogate il 70% è stato utilizzato da donne. Nel patto viene inoltre sostenuta l’importanza di puntare alla qualificazione delle donne sul mercato del lavoro. Le politiche di formazione vengono integrate con le politiche per l’infanzia, sperimentando i “voucher a sportello” per l’acquisto documentato di servizi di cura per minori, anziani e disabili. Si tratta di uno strumento che punta a favorire le azioni di ricerca attiva dell’occupazione da parte delle donne, e a promuovere la formazione attraverso la partecipazione a work experience e tirocini.

16 Nel sito della regione Toscana si legge infatti che “ a distanza di 6 anni da un avviamento al lavoro con tipologia contrattuale a termine, solo il 42% della componente femminile risulta essersi stabilizzata nel mercato del lavoro contro il 61% di quella maschile”.

http://www.regione.toscana.it/regione/multimedia/RT/documents/1217584911565_patto_occupazione_femminile.pdf

17 Il testo del “Patto per l’occupazione femminile” firmato il 25 Luglio del 2008 è disponibile sul sito della regione Toscana al seguente indirizzo:

http://www.regione.toscana.it/regione/multimedia/RT/documents/1217584911565_patto_occupazione_femminile.pdf

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Per rafforzare le politiche di conciliazione vita/lavoro, vengono sollecitate azioni alle imprese, per garantire ai lavoratori, sia uomini che donne, l’utilizzo di congedi parentali, part-time a tempo indeterminato, telelavoro e servizi di supporto (come ad esempio asili nido aziendali e/o interaziendali, centri estivi o strutture assistenziali). Un altro punto qualificante del patto riguarda il contrasto al lavoro nero e irregolare e la proposta di un progetto pilota regionale per promuovere l’inserimento di donne straniere in lavori di prestigio e visibili. Si punta in tal modo ad abbattere gli stereotipi esistenti sulle donne immigrate e a superare la doppia discriminazione che le relega al solo lavoro di cura.

4.6.2 L’impatto della crisi sulla regolazione delle politiche.

L’impatto della crisi ha impattato sugli strumenti ordinari di gestione delle crisi occupazionali. A livello nazionale le misure anticrisi hanno operato sul versante degli ammortizzatori sociali in deroga. Anche in Toscana come in altre regioni è stato raggiunto un accordo tra regione e parti sociali che ha esteso la possibilità di accedere alla cassa integrazione per tutti i lavoratori dei settori produttivi, le aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Gli accordi hanno previsto varie forme di interventi sia sulle aziende, sia nei riguardi dei singoli che si trovino in condizioni di difficoltà. Per quanto riguarda le prime va ricordata l’incentivazione dei contratti di solidarietà e la rimodulazione degli orari di lavoro - al fine di assicurare la continuità del rapporto di lavoro- e soprattutto l’introduzione Fondi condizionati all’assunzione e stabilizzazione delle figure più deboli nel mercato del lavoro: lavoratori a tempo determinato, lavoratori in mobilità, donne disoccupate con più di 35 anni, giovani laureati. Per riguarda l’intervento sulle persone vanno segnalate misure che puntano ad allargare l’area dell’assistenza cosiddetta “dedicata”. Nel 2008 per i lavoratori privi di qualsiasi ammortizzatore sociale (con un reddito Isee inferiore a Euro 12.500,00) è stato previsto un contributo una tantum di 1.650,00 euro. Completano il quadro agevolazioni sui mutui e un Fondo di garanzia (nel limite di 15.000 euro) per gli atipici, al fine di garantire l’accesso al credito per necessità legate alla condizione familiare, sociale, abitativa. Le iniziative intraprese concorrono a definire un insieme di azioni assai articolate, agenti soprattutto sulla continuità del reddito, di fronte a situazioni emergenziali che diventano sempre più acute in un mercato del lavoro che fino a prima della crisi non presentava (o presentava solo in misura limitata ad alcune zone) problemi di disoccupazione strutturale. Parimenti questi medesimi strumenti prevedono una azione stabilizzatrice da attuarsi nei confronti delle aziende, configurando in questo caso una strategia volta alla creazione di occupazione per segmenti di forza lavoro più a rischio in questa fase. Le problematicità tuttavia non mancano. Innanzitutto per il carattere emergenziale delle innovazioni, dal quale, né le misure nazionali, né quelle regionali, sembrano avare la forza di uscire Anche considerando la proposta di istituzione di Reddito minimo avanzata dalla regione nel 2009, si potrebbe pensare a un Fondo costituito ad hoc, da finalizzare alla riunificazione dei vari strumenti di sostegno al reddito per i casi non rientranti nei dispostivi ordinari. Quella del Reddito minimo è una questione che questa fase di recessione ci spinge a riconsiderare, non solo per la mancanza in Italia di una vera politica nazionale contro la povertà, ma soprattutto per le possibilità di integrazione (tra

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misure passive e attive) che l’assistenza “dedicata” potrebbe fornire in un quadro di riforma da estendere anche alla politiche del lavoro.

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Griglia 1: l’architettura istituzionale del sistema di politiche sociali, formative e del lavoro Ambiti di policy Fasi di policy Minori Conciliazione Inclusione Formazione e

lavoro Rapporti

istituzionali Sussidiarietà verticale:

– La Regione svolge funzioni di indirizzo, programmazione, coordinamento, controllo e verifica

– Province e Comuni concorrono alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi

Governance orizzontale

Sussidiarietà orizzontale: programmazione pubblica preminente. La Società della Salute supera i Piani di Zona.

Forme di partecipazione, concertazione, con gli attori del territorio (parti sociali, organizzazioni non profit, volontariato,

gruppi di cittadini)

Programmazione

Tipicità del modello

Orientamento prevalente all’offerta, ma accreditamento di fornitori privati secondo principi stabiliti a livello regionale

Fondo nazionale politiche sociali

Fondo Sociale regionale Fondo socio-sanitario

Fonti di finanziamento

Fondo Sociale Europeo 2007/2013

Gestione

Strumenti di erogazione

Servizi e sostegni monetari, ma nel quadro di piani individualizzati e regia pubblica “forte”

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5. Il sistema di governance delle politiche sociali socio-sanitarie della Zona Aretina18

5.1 La programmazione “integrata” e “partecipata” delle politiche socio-sanitarie.

La programmazione sociale della zona aretina si caratterizza per una forte impronta socio-sanitaria. In coerenza con gli indirizzi assunti dalla regione Toscana, gran parte della programmazione zonale è finalizzata a questo obbiettivo, ma con metodi e percorsi di programmazione che in parte si discostano dal tipo di assetti di governance promossi dalla regione. Come è noto il modello organizzativo individuato dalla regione Toscana per la gestione degli interventi socio-sanitari è la “Società della salute”, una struttura “terza” all’interno della quale vengono aggregate le amministrazioni e le strutture socio-sanitarie (le Asl) in ambiti più “vasti” che oltrepassano i confini dei singoli comuni. Le società della salute hanno come obiettivo quello di promuovere la progressiva territorializzazione e integrazione tra le politiche sociali e sanitarie. Si tratta di un’opzione dotata di un alto grado di complessità istituzionale che punta a consorziare gli enti locali e a favorire processi di innovazione nell’assistenza attraverso innovazioni di sistema che coinvolgono la programmazione e gestione delle cure sanitarie, da finalizzare al rafforzamento della continuità assistenziale, della medicina di base, dell’integrazione socio-sanitaria. Nel caso di Arezzo la “Società della Salute” non è ancora stata costituita. Come sottolineato da alcuni intervistati vi sono stati ritardi nell’attuazione delle linee programmatiche regionali e altresì scelte “volute” dalle amministrazioni locali che hanno, nei fatti, rimandato l’adozione di questo strumento di programmazione e gestione. Nonostante ciò, la zona aretina ha proceduto comunque in direzione di una trasformazione del modello organizzativo, introducendo dei cambiamenti riguardanti i contenuti delle politiche (in merito ai quali l’innovazione consiste nell’integrazione delle politiche sociali e sanitarie e la progressiva estensione dell’integrazione a tutte le politiche di settore che influiscano sulle determinanti di salute e del benessere dei cittadini), le modalità della programmazione (che evolvono da un tipo di partecipazione di natura consultiva ad una partecipazione sempre più di tipo deliberativo) e infine gli strumenti di new public management introdotti per l’implementazione delle politiche individuate. A partire dai paragrafi successivi verrà descritto some sia andato strutturandosi il percorso di riforma del sistema di governance delle politiche sociali e socio-sanitarie, sottolineando gli elementi innovativi introdotti, gli attori coinvolti e gli strumenti adottati per realizzare una programmazione partecipata e una gestione integrata delle politiche socio-sanitarie nella zona aretina.

5.1.1 La programmazione delle politiche sociali: il Piano Sociale di Zona 2002.

18 Di Maria Concetta Ambra

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La Zona Aretina19 sin dal 2001 aveva iniziato a utilizzare dei meccanismi per la programmazione “partecipata” e la gestione “associata” delle politiche sociali. La programmazione delle politiche sociali, è organizzata in sei aree di intervento (minori e famiglie; anziani; disabili; immigrati; povertà ed esclusione sociale; dipendenze e salute mentale) ed è attuata attraverso il “Piano Sociale di Zona 2002” nel quale sono incluse l’analisi del contesto socio-economico, della domanda sociale e dell’offerta di servizi, prestazioni e strutture (residenziali e semi-residenziali, pubbliche e private) [Piano Sociale 2002, p. 23]. Il sistema di governance per la programmazione e la gestione delle politiche sociali, si caratterizza già come un processo “partecipato”, in quanto i soggetti del terzo settore e della cittadinanza locale sono coinvolti nella stipula di un “Patto Territoriale Sociale”. E’ importante sottolineare però che la partecipazione in questa fase, ha una natura più consultiva e concertativa, nel senso che i cittadini sono chiamati ad esprimere le proprie aspettative, ma le decisioni finali spettano all’articolazione Zonale Aretina (d’ora in poi ZA). Inoltre, nel Piano Sociale di Zona 2002, sono già presenti alcuni elementi che lasciano intravedere l’inizio di un percorso di riforma degli assetti organizzativi dei servizi socio-sanitari verso una gestione associata tra Comuni e Asl e verso la definizione di standard minimi di diritti esigibili dal cittadino in merito ai servizi e alle prestazioni erogate. Nel modello di gestione infatti troviamo quelli che saranno i futuri attori del nuovo sistema di governance, ovvero la Segreteria Tecnica Zonale (con la descrizione delle sue funzioni, dalla composizione, dei collegamenti funzionali, delle risorse umane, strutturali ed economiche) e la Conferenza dei Sindaci. E’ già presente quindi l’architettura Istituzionale della futura “Società della Salute”, e si procede ad organizzare la programmazione delle politiche in direzione di una programmazione partecipata e la gestione e l’accesso ai servizi dei Comuni verso un “accesso integrato alla rete”.

5.1.2 I nuovi attori della programmazione partecipata e della gestione integrata delle politiche socio-sanitarie.

La programmazione partecipata è promossa attraverso organi specifici che hanno il compito di raccogliere le istanze dei cittadini. Nella Zona Aretina sono stati istituiti due organi di partecipazione: la Consulta per la Partecipazione dei cittadini e il Tavolo di Concertazione per il coinvolgimento dei soggetti istituzionali e rappresentativi delle comunità locali e delle forze sociali. La consulta per la partecipazione è aperta a tutti i cittadini ed è organizzata in Forum tematici, coordinati ciascuno da un animatore. Gli animatori dei forum e un componente della ZA delegato ai processi di partecipazione, costituiscono il gruppo di coordinamento della consulta, che garantisce il contatto permanente tra l’organo politico e l’organo partecipativo. Già nel 2006 la Zona socio-sanitaria aretina aveva sostenuto la partecipazione dei singoli e comuni cittadini alla programmazione nel settore della salute, ma 19 Fanno parte della Zona-distetto Aretina i Comuni di Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino e Subbiano.

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principalmente con funzione consultiva. Il tavolo di concertazione è composto invece dai rappresentanti dei soggetti organizzati, dai portatori di interessi collettivi (organizzazioni sindacali e del terzo settore) e dalle istituzioni del territorio (comuni, provincia, ASL, camera di commercio, ecc…) ed è presieduto dal Presidente della ZA. Nel 2007 tali organi di partecipazione vengono coinvolti nella programmazione del Piano Integrato di Salute (PIS) 2008. In primo luogo la Consulta, sulla base dei dati forniti dall’articolazione zonale identifica l’Immagine di Salute”, indicando alcune priorità d’azione da inserire nel PIS. Il documento di Immagine di Salute viene quindi inviato al Tavolo di concertazione, il quale può esprimere ulteriori osservazioni. All’interno della segreteria tecnica della ZA, vengono individuati i Gruppi di Lavoro Tematici della Segreteria Tecnica, composti da:

a) i membri della segreteria tecnica: “a garanzia di una maggiore condivisione a livello territoriale e di una maggiore capacità di apportare completezza di elementi conoscitivi rispetto ai temi specifici”;

b) i membri dei Forum Tematici della Consulta: “a garanzia della continuità delle attività dei gruppi di lavoro con quanto elaborato nel Documento di Immagine di salute, in termini di analisi dei bisogni della comunità e di evidenziazione di alcune priorità di azione” ;

c) i membri dello staff di zona, con funzioni di supporto e coordinamento [PIS della Zona Aretina, anno 2006, p. 2].

L’ultimo attore del processo di programmazione, titolare della funzione di governo è l’Articolazione di Zona della Conferenza dei Sindaci che, dopo aver recepito le indicazioni espresse nell’Immagine di salute, esercita, la funzione politica di indirizzo degli Obiettivi di Salute e delle priorità di azione (14 Giugno 2007) e supervisiona il processo. La ZA è supportata dal coordinamento della Segreteria Tecnica di Zona, che ha il compito di proposta degli interventi da attuare (Documento Tecnico di piano) e di stesura dei programmi operativi per la realizzazione degli interventi del PIS, nei quali devono essere indicate le risorse disponibili, (finanziarie, umane e tecnologiche) e gli enti e i soggetti coinvolti nella realizzazione del piano. [Composizione dei Gruppi di Lavoro Tematici della Segreteria Tecnica, Giugno 2007]. Il caso Aretino mostra quindi di aver optato per un modello di programmazione e gestione delle politiche nel quale sono coinvolti non solo le istituzioni ma anche i cittadini e i soggetti del terzo settore, sebbene secondo schemi fortemente strutturati e comunque in ottica consultiva. D’altra parte anche nella gestione associata dei servizi è possibile osservare una moltiplicazione degli attori coinvolti e una progressiva inclusione dei responsabili tecnici, provenienti anche dal mondo dell’associazionismo nelle responsabilità che erano state esclusiva dei funzionari amministrativi. Nel paragrafo che segue illustreremo nel dettaglio quali siano le fasi della programmazione e della gestione operativa del Piano Integrato di Salute della zona Aretina.

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5.1.3 La riforma del sistema di governance delle politiche socio-sanitarie: l’introduzione del Piano Integrato di Salute 2007.

A partire dal 2007 nella Zona Sociosanitaria Aretina, pur non essendosi costituita alcuna “Società della Salute20”, i Sindaci tuttavia, in accordo con la ASL deliberano21 di utilizzare il Piano Integrato di Salute come strumento di programmazione pluriennale, in sostituzione del Piano Sociale di Zona. Il Piano Integrato di Salute, permette un nuovo processo di programmazione territoriale principalmente per due motivi: in primo luogo perché permette la gestione associata non solo delle politiche sociali ma anche delle politiche sanitarie; in secondo luogo, perché assumendo una logica di sistema permette di promuovere il benessere e la salute dei cittadini (in una parola il welfare locale), superando gli steccati delle politiche di settore, per costruire un “sistema territoriale di protezione”. Nella sostanza quindi l’architettura istituzionale della “Società della Salute” è già presente nella zona aretina, non solo perché sono operanti le Conferenze dei Sindaci (previste nella “Società della Salute”), ma soprattutto per la consolidata collaborazione a rete tra comuni e Asl, che ha reso operativa l’integrazione socio-sanitaria puntando alla continuità assistenziale, alla promozione della domiciliarità e alla presa in carico in caso si situazioni di cronicità. La programmazione integrata e partecipata, prevede un percorso distinto in diverse fasi, dall’atto di Indirizzo al patto locale di salute; dall’immagine comunitaria di salute, all’individuazione degli obiettivi e delle priorità di azione; dalla composizione dei gruppi di lavoro tematici, all’accordo di programma per l’attuazione del PIS e per la gestione associata dei servizi e degli interventi indicati nel Programma Operativo Annuale, il quale viene approvato in seduta pubblica L’atto di indirizzo della Zona socio-sanitaria Aretina stabilisce il percorso metodologico e i relativi gli strumenti operativi per unificare i tradizionali strumenti di programmazione attuativa territoriale in campo sociale e sanitario, ovvero il Piano delle Attività Territoriali (ex D. Lgs. 229/99) e il Piano Sociale Zonale. L’atto di indirizzo del PIS prevede anche la sperimentazione di un nuovo modello organizzativo22 per la gestione integrata dei servizi socio-sanitari. Si tratta di un processo di integrazione graduale, che prevede nel 2007 la sostituzione del Piano di zona con la programmazione di tutte le attività socio-assistenziali e di alcune attività di integrazione socio-sanitaria. A partire dal 2008, la programmazione integrata viene estesa a tutte le prestazioni socio-sanitarie, per arrivare infine alla programmazione integrata e partecipata di tutte le prestazioni sanitarie territoriali [Atto di Indirizzo del PIS, 2007].

Con il Patto Locale per la Salute (18 Marzo 2007), ha inizio il percorso partecipato per la formazione del PIS, coinvolgendo tutti i soggetti presenti sul territorio, istituzionali e

21 Delibera ZA n. 1 dell’8 gennaio 2007.

22 La sperimentazione del nuovo modello organizzativo è iniziata nel territorio comunale Aretino a partire dal mese di settembre del 2007, dopo che sia la ASL-8, sia il Comune di Arezzo avevano deliberato in tal senso il 14 Novembre del 2006.

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non, interessati alla programmazione in ambito sociale e sanitaria e più in generale alla tutela della salute. Nel patto locale vengono sanciti i valori e i principi che orientano la programmazione, tra cui:

a) il riconoscimento della salute delle persone come un bene e un diritto primario;

b) l’importanza di promuovere politiche orientate all’equità, all’inclusione sociale e alla pari opportunità di accesso e fruizione dei servizi, rimuovendo tutti gli ostacoli che impediscano la fattiva esigibilità dei diritti di cittadinanza sociale;

c) la promozione della salute attraverso la solidarietà tra cittadini e la corresponsabilità della comunità attraverso la partecipazione congiunta dei soggetti pubblici, privati e il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni;

d) la valorizzazione dell’esperienza partecipativa come occasione di condivisione di spazi di ascolto e confronto con i cittadini che permettano la crescita di una Comunità Educante;

e) il superamento di un approccio emergenziale in favore di politiche di prevenzione e promozione del benessere;

f) la centralità della persona, portatrice di bisogni e potenzialità specifiche riconducibili and un unico e peculiare progetto di vita; e l’utilizzo di politiche trasversali e integrate.

Il principio di fondo è che la salute non sia una responsabilità esclusiva del settore sanitario, in quanto anche le politiche promosse in altri settori (politiche educative e formative, politiche sociali, del lavoro e di contrasto alla povertà) influenzano lo stato di salute e quindi il benessere di una comunità. Nel patto locale viene inoltre sancita l’istituzione di due nuovi organi per la partecipazione e la concertazione: la Consulta per la partecipazione dei cittadini e il Tavolo di concertazione, in modo da permettere ai cittadini di contribuire attivamente alla costruzione del sistema di salute. Tali organi possono formulare alcune indicazioni sulle priorità negli obiettivi di salute e partecipare anche alla co-progettazione di interventi e servizi programmati nel Piano. In questo modo si osserva il tentativo di promuovere una partecipazione non più esclusivamente consultiva, ma tesa a permettere ai cittadini di influire sulle decisioni effettivamente prese. Dopo che la consulta si è espressa sul profilo di salute (che include l’analisi e il confronto partecipato sulla situazione demografica, sullo stato di salute della comunità, sulle determinanti della salute e sulla domanda e offerta di servizi sociali educativi e sanitari) viene approvata l’immagine di salute, da inviare al Tavolo di Concertazione, affinché esprima ulteriori indicazioni sulle priorità di azione da inserire nel PIS [L’Immagine Comunitaria di Salute, 2007]. La programmazione si conclude con l’approvazione finale in seduta plenaria e pubblica, alla quale sono invitati i membri degli organi di partecipazione e di concertazione. In tale sede vengono discussi il PIS e il Documento tecnico di piano contenente gli interventi previsti nel Piano Operativo annuale, avanzato dalla segreteria tecnica. La gestione degli interventi previsti nel PIS, ha inizio con la sottoscrizione di un Accordo di programma per la gestione associata degli interventi programmati, nel quale sono definite le modalità di gestione dei programmi operativi previsti dal piano

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operativo annuale, e sono indicati per ogni progetto o programma operativo un responsabile tecnico e un responsabile amministrativo, le risorse disponibili, le fasi dell’intervento e gli indicatori di valutazione del raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Nel Programma Operativo del 2008 sono indicati cinque23 obiettivi di salute, per un totale di 1.691.098, 17 euro di risorse disponibili provenienti dal PISR [Accordo di Programma 2008]. Le cinque priorità sono gestite dai Gruppi di lavoro tematici, attraverso dei programmi operativi. Per ogni programma viene individuato un Responsabile Tecnico e sono indicati nuovi strumenti di project management da utilizzare (come ad esempio il progetto esecutivo, che specifica i contenuti del programma, i referenti tecnici e amministrativi, le risorse e le fonti, e le modalità di gestione e accesso alle risorse da parte degli enti attuatori o dei soggetti affidatari). Un elemento critico a nostro avviso riguarda la possibilità che tale innovazione organizzativa possa complicare il processo di gestione delle politiche invece che semplificarlo. Come osserva uno dei dirigenti intervistati, in queste innovazioni c’è il rischio che si crei una ulteriore struttura, più burocratica, più distante dai bisogni dei cittadini e nella quale sia più complicato distinguere nella implementazione delle politiche, il responsabile politico, dal tecnico, dal funzionario. Secondo il piano del 2008, ai referenti amministrativi verrebbero lasciati i compiti relativi alla funzione di elaborazione dei contratti (in collaborazione con il responsabile tecnico) e alla gestione finanziario-contabile delle risorse. Inoltre in merito ai programmi operativi attivi nell’anno 2008, (come si evince dall’allegato A del Programma Operativo 2008, contenente i nominativi dei responsabili tecnici e dei referenti amministrativi), sono stati individuati circa 33 responsabili tecnici (provenienti dal mondo dell’associazionismo, dalla Asl, dalla provincia, dalle scuole, e dai membri dei forum della consulta per la partecipazione dei cittadini, in qualità di responsabili dei singoli programmi), rispetto ai 7 referenti amministrativi, [Accordo di Programma 2008, pp. 10-17].

5.2 Verso un welfare comunitario Come abbiamo visto la programmazione e gestione delle politiche socio-sanitarie nella Zona Aretina è realizzata con la partecipazione dei cittadini e i soggetti del terzo settore, organizzati in Gruppi di lavoro Tematici. La lettura partecipata dei bisogni dei cittadini influisce quindi sul Piano Integrato di salute, utilizzato per programmare le politiche, le misure, gli interventi da attuare sul territorio. Nell’ultimo incontro tra i cittadini, i rappresentanti della società organizzata e i membri della segreteria tecnica dell’Articolazione Zonale Aretina, è emersa un’allarmante percezione di scivolamento verso la povertà da parte dei cittadini e la richiesta di

23 Le cinque priorità indicate sono: 1) corresponsabilizzazione della comunità locale per la promozione del benessere in termini di sicurezza e qualità della vita; 2) Riorganizzazione e potenziamento della rete di protezione sociale a sostegno della domiciliarità; 3) Promozione della salute e prevenzione del disagio in tutte le fasi del ciclo di vita; 4)Contrasto delle Nuove povertà; 5)Promozione dei processi di integrazione socio-culturale.

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sostenere un approccio comunitario di sostegno alle famiglie sottoposte a condizioni di fragilità. E’ stato sottolineato inoltre, come l’evolversi del mercato del lavoro verso modalità di impiego scarsamente tutelate accrescono le difficoltà delle famiglie monoparentali, monoreddito e con minori e/o anziani e disabili a carico. Nei paragrafi che seguono descriveremo le politiche implementate dal Comune di Arezzo per fronteggiare le nuove povertà e sostenere le famiglie e i minori, attraverso misure attente alla conciliazione tra vita-cura e lavoro, e la promozione di politiche di formazione e inserimento al lavoro. 5.2.1 Le politiche di contrasto alla povertà e per l’inclusione sociale dei soggetti deboli. Le misure di contrasto alla povertà gestite dal Comune di Arezzo, possono essere descritte sostanzialmente come politiche di assistenza, più di tipo passivo che attivo. Esse comprendono un sostegno di tipo economico o l’eventuale accoglienza in centri appositi, (centri di accoglienza, alloggi di emergenza, posti letto in convenzione con hotel) sulla base di un piano di assistenza individuale (PAI) sottoscritto tra l’assistente sociale del comune e il cittadino in stato di bisogno. Tutti gli interventi di contrasto alla povertà che prevedono l’erogazione di un sostegno economico da parte del Comune(per esempio un sostegno per il pagamento di due/tre mesi di affitto), sono condizionati dal effettivo comportamento del destinatario, il quale deve mostrare di volersi attivare concretamente per uscire dalla situazione di difficoltà in cui si trova. Si tratta quindi di misure assistenziali, temporanee e condizionanti, le quali vengono immediatamente sospese, nel caso in cui per esempio il destinatario rifiuti un lavoro che egli non ritenga adatto alle proprie capacità. A fronte delle misure esistenti, il forum tematico sulle nuove povertà -cui hanno partecipato i cittadini- ha sottolineato l’assenza nel profilo di salute della popolazione aretina di dati in grado di valutare le conseguenze della instabilità lavorativa, della diffusione di forme di lavoro precarie e dalla chiusura di grandi imprese che un tempo garantivano un lavoro maggiormente stabile. I cittadini hanno quindi avanzato la richiesta di avere a disposizione ulteriori dati in particolare sulle nuove tipologie occupazionali sempre più diffuse (il profilo di salute contiene infatti i dati relativi agli occupati, ma non permette di comprendere in quali forme di lavori siano occupati i cittadini, e quale sia la percentuale di lavori precari sul totale) e sulla tipologia di famiglie cui viene erogato un sostegno economico. Relativamente ai target di persone cui sono destinate le misure di contrasto alla povertà, si riscontra un attenzione specifica per i seguenti destinatari:

1) anziani soli o con pensioni particolarmente basse;

2) persone che perdono il lavoro dopo i 40 anni di età;

3) famiglie monoparentali (in particolare quelle composte da donne sole con figli a carico in età scolare);

4) disabili e persone con problemi di dipendenza;

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5) ex carcerati e senza fissa dimora.

Si tratta di persone con difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro o nell’accesso al credito, che di conseguenza non riescono a far fronte al pagamento dell’affitto e delle utenze. Rispetto a tale problema le proposte avanzate dalla consulta riguardano la necessità di garantire delle efficaci politiche formative, in grado di promuovere l’ingresso nel mercato del lavoro; l’importanza di realizzare politiche in grado di conciliare i tempi di vita e di lavoro; la necessità di assegnare una residenza anche fittizia ai senza fissa dimora, in modo da poter erogare loro un sostegno al reddito. Le politiche di contrasto alla povertà e di inclusione sociale sono programmate e realizzate cercando di integrare i progetti e le risorse del livello regionale, provinciale e comunale. In particolare la regione Toscana si è molto impegnata nel finanziare attraverso il fondo per la non autosufficienza (L.R. 66/2008) numerosi servizi di assistenza, gestiti dal comune, come ad esempio il servizio di assistenza domiciliare, il servizio municipale per la cura di casa e per la cura della persona. I servizi di assistenza domiciliare forniti dal comune non si limitano alle persone anziane, ma includono anche i minori, ai quali sono destinati servizi di assistenza domiciliare educativa, il “mentoring”, e centri per minori e per i ragazzi per disabili. In base ai dati forniti dal Comune di Arezzo (sui servizi finanziati, il numero di utenti beneficiari e la spesa relativa) nel 2009 sono stati erogati contributi ordinari ed extraordinari a circa 1229 utenti, per una spesa superiore ai 587 mila euro. Altri servizi offerti sono la mensa, gestita dalla Caritas per circa 14.600 utenti (costo 28 mila euro); il servizio “latte e pannoloni” per 177 bambini che vivono in famiglie in difficoltà (costo 40 mila euro); l’assegno di cura per 102 utenti (costo oltre 155 mila euro); i servizi di accompagnamento e di compagnia per gli anziani; le vacanze per anziani e disabili, i centri di aggregazione per disabili; i centri diurni di socializzazione; gli inserimenti socio-terapeutici per disabili; il sostegno ai minori con handicap e il supporto specialistico per minori; il servizio di trasporto sociale per 79 utenti (costo 240 mila euro); le attività estive per i minori (costo 35 mila euro); il servizio di consulenza e mediazione familiare presso lo “spazio famiglia”;il servizio di sostegno alla genitorialità e alla maternità; i centri di accoglienza per le donne, per gli stranieri, per il campo nomadi, per i minori immigrati, Come si nota si tratta di numerosissimi servizi (oltre 60) finanziati anche con risorse regionali, anche se la programmazione di tali servizi è di competenza del livello zonale. 5.2.2 Le politiche di orientamento, formazione e lavoro.

Nel descrivere le politiche di formazione implementate nel Comune di Arezzo, ci siamo soffermati in particolare sui progetti e gli interventi con i quali il Comune è riuscito ad integrare le politiche di formazione e lavoro alle politiche socio-sanitarie. In questa ricerca non rientra il tema “lavoro” in senso stretto, essendo d’altra parte le competenze in questo settore non tanto dei comuni, quanto di province e regioni. Ci sono tuttavia pratiche formative gestite dai comuni che appaiono molto interessanti dal punto di vista del sostegno all’integrazione delle politiche. In particolare questo vale per quelle di cura e assistenza per i minori, un settore nel quale Arezzo vanta una esperienza decennale di servizi di qualità. Ma non è solo questo il punto che ci interessa mettere in evidenza. Il fatto è che nonostante la centralità dell’offerta pubblica, l’amministrazione ha introdotto in questi anni svariate innovazioni, configurando un sistema misto (pubblico e privato),

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ma con standard qualitativi elevati (garantiti da processi formativi unitari) e la possibilità per le famiglie di accedere a diverse alternative, non solo in servizi. L’intervista alla Dirigente delle politiche sociali, ha evidenziato l’esistenza di misure tese a formare e riqualificare le operatrici di asili nido e scuole per l’infanzia (siano esse gestite dal pubblico o dal privato), al fine di innalzare la qualità dei servizi offerti e garantire l’esistenza di livelli omogenei di prestazione dei servizi offerti sul territorio. Un esempio di tali politiche è dato dalla realizzazione del progetto “Mary Poppins”, gestito dal Centro Pari Opportunità della provincia di Arezzo in collaborazione con l’Ufficio dei servizi sociali del Comune di Arezzo e di tutti gli altri comuni del territorio provinciale24 e finanziato dalla Comunità Europea, per promuovere la formazione professionale di baby-sitter qualificate. Uno dei volantini diffusi dal Comune per pubblicizzare il progetto si rivolgeva alle donne in cerca di lavoro: “Diventa una moderna Mary Poppins. Un progetto innovativo della Provincia di Arezzo. Un lavoro in regola che ti permette di stare con i bambini. Un’occasione per valorizzare le tue competenze. Un’opportunità formativa. Se ti piacciono i bambini e hai voglia di lavorare con loro, se possiedi i requisiti richiesti, la Provincia di Arezzo e i suoi Comuni ti offrono la possibilità di iscriverti nell’Elenco zonale delle operatrici e degli operatori per i servizi non educativi di assistenza all’infanzia a carattere domiciliare”.

Le “moderne Mary Poppins” per essere iscritte all’elenco unico degli operatori, di dovevano frequentare corsi di abilitazione di breve durata (da 20 a 50 ore) gestiti dalle agenzie formative locali, in modo da ottenere la qualifica richiesta (educatore domiciliare e familiare, educatore per l’infanzia e/o operatore familiare per l’infanzia). Le operatici e gli operatori iscritti negli elenchi appositamente istituiti dalle 5 zone socio-sanitarie sono inoltre tenute a frequentare ogni anno dei corsi di aggiornamento professionale. Tale progetto è riuscito al tempo stesso ad offrire un sostegno alle mamme lavoratrici con bambini fino a 13 anni, attraverso l’erogazione di voucher25 per usufruire di una baby-sitter qualificata. Il buono servizio erogato dal Comune si è rivelato un utile strumento per creare un mercato sociale dei sociali laddove, per motivi di costo e di reddito delle famiglie, non era possibile per le utenti più deboli acquistare le prestazioni loro necessarie. Inoltre esso ha permesso la personalizzazione del servizio, in quanto i genitori avevano la possibilità di scegliere la baby sitter all’interno dei nomi inseriti nell’elenco di professioniste certificate. In tal modo il comune ha mostrato un’attenzione sia all’emersione del lavoro nero nel mercato dei servizi, sia per la qualificazione professionale delle donne disponibili a lavorare con i bambini, sia per la conciliazione degli impegni di accudimento delle donne con le esigenze lavorative. Il tutto in un sistema che appare fortemente attrezzato

24 Sono stati coinvolti tutti i 39 comuni della provincia e le 5 Zone socio-sanitarie Aretina, Valdichiana, Valdarno, Casentino e Valtiberina.

25 Erano erogabili massimo 500 buoni a persona in base al numero dei figli (300 per il primo figlio e 100 per i figli successivi di età non superiore ai 13 anni). Ogni buono ha un valore di 4 euro ciascuno a copertura parziale di un costo orario complessivo fissato in 7 euro all’ora per il servizio offerto.

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anche sul piano dei servizi, con una quota di offerta praticamente pari, come rimarca la Dirigente, alle richieste della domanda. Su questo torneremo meglio nel prossimo paragrafo.

5.2.3 Le politiche per le famiglie, i minori e la conciliazione dei tempi di cura-

vita-lavoro.

Le politiche di conciliazione dei tempi di cura e di lavoro delle famiglie sono promosse attraverso una significativa offerta di servizi di cura per i minori e attraverso la diversificazione delle tipologie orarie di fruizione dei servizi presenti sul territorio. Sono inoltre stati realizzati diversi progetti nei quali si è cerato di favorire la conciliazione dei tempi di cura-vita-lavoro. Un esempio in tal senso è il progetto Mary Poppins, che è già stato menzionato. In tal modo le politiche di sostegno alle famiglie, riescono a favorire l’occupazione femminile, offrendo alle donne un servizio flessibile e in grado di rispondere anche a quei bisogni non standardizzati delle donne lavoratrici. Rispetto all’offerta dei servizi rivolti ai minori, dalla fine del 2009 nel comune di Arezzo sono presenti nidi pubblici comunali e privati (accreditati e autorizzati), che accolgono complessivamente 737 bambini pari a oltre il 37,5% dell’utenza potenziale dei bambini residenti nel comune di Arezzo. Il comune gestisce direttamente 6 dei 13 nidi comunali (sostenendo un costo di 4 milioni di euro) per 460 bambini. Gli asili nido privati, distinti in autorizzati (due asili) e accreditati (dieci asili) accolgono altri 277 bambini. Per la fascia da 2 a 3 anni, sono state aperte inoltre due sezioni “primavera”, una comunale di 20 posti e l’altra presso l’asilo privato accreditato “Aliotti” per 17 posti. L’iscrizione ai nidi è effettuabile non solo presso le sedi delle circoscrizioni o presso l’informa-giovani del comune, ma anche presso lo sportello polivalente, recentemente istituito sulla base della convinzione, come sostiene l’assessore al decentramento, che sempre più occorra andare incontro alle esigenze dei cittadini, portando i servizi e gli sportelli a diretto contatto con la domanda. Negli ultimi anni il Comune di Arezzo ha puntato molto sull’obiettivo di incrementare progressivamente l’offerta di nidi e/o altri servizi integrativi per la fascia 0/3 anni. Il convenzionamento con i privati ha permesso infatti di ridurre significativamente le liste di attesa (da circa 500 bambini agli attuali 20). Tale risultato è stato raggiunto dall’amministrazione comunale, lavorando su quattro campi di intervento:

1) il convenzionamento di nidi accreditati (per l’anno scolastico 2009-2010 l’amministrazione comunale si è convenzionata con i nidi privati accreditati per 125 posti con un costo pari a 291.260,70 euro).

2) l’apertura di un nuovo asilo nido comunale per ulteriori 20 posti; 3) la riqualificazione di tre servizi del territorio per la fascia tra 0 e 3 anni (i tre asili

sono stati ricondotti a forme gestionali in linea con quanto previsto dalla legge regionale 32/2002);

4) la partecipazione a bandi regionali per l’erogazione di buoni servizi alle famiglie in graduatoria comunale che usufruiscono dei servizi di asili nido privati.

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Le scuole dell’infanzia26 presenti sul territorio aretino alla fine del 2009 sono 32 distinte in scuole comunali, paritarie e statali, che accolgono 2405 bambini accolti. Anche in questo caso gli orari di apertura vanno incontro alle esigenze delle famiglie, soprattutto di quelle in cui entrambi i genitori lavorano. Tutte le scuole dell’infanzia (eccetto Acropoli) restano aperte dalle 7 del mattino alle 17.30. Oltre all’offerta di asili nido e della scuola di infanzia, il Comune di Arezzo, per facilitare l’attività di cura alla famiglia, offre una serie di servizi integrativi, tra cui: “l’area bambini”, che accoglie 16 bambini ed è fruibile a pacchetti orari di 3/5 ore giornaliere per un tempo definito sulla base delle esigenze familiari; il “Tempo per l’ascolto”, che è un servizio di accoglienza per genitori e figli , due volte la settimana con flessibilità di fruizione. “Una persona di fiducia in famiglia”, che prevede un servizio di baby-sitteraggio a domicilio, un servizio di accompagnamento dei bambini e baby taxi e un servizio di intrattenimento ludico pomeridiano in luoghi attrezzati. Il Progetto “Mary Poppins”, della provincia di Arezzo, al quale aderisce anche il Comune, che consiste nell’assegnazione a donne occupate di buoni servizio per l’accudimento di minori, in modo da permettere alle donne di mantenere il proprio lavoro.

Dal 2007 inoltre il Comune, in collaborazione con le istituzioni scolastiche, promuove delle attività di pre-post scuola e delle attività pomeridiane (per un totale di circa 94 mila euro), garantendo ai bambini all’interno delle scuole statali, un tempo di permanenza più lungo e qualificato con progetti27 e laboratori. Ulteriori progetti presenti nella realtà Aretina sono i PIA (Progetti Integrati di Area) che consistono in azioni di prevenzione e intervento in situazioni di disagio, al fine di promuovere il diritto all’apprendimento e allo star bene a scuola. Si tratta di progetti finanziati da risorse regionali e che prevedono la compartecipazione del 50% da parte del Comune, attraverso la concertazione con gli altri comuni e le scuole della Zona socio-sanitaria Aretina. Il Comune di Arezzo mette a disposizione delle scuole il proprio laboratorio didattico il C.E.A.A. (Centro di Educazione Ambientale Alimentare), nel quale vengono proposte attività di educazione ambientale e alimentare, rivolte agli alunni e agli insegnanti di tutte le scuole di Arezzo e alla cittadinanza. Durante l’anno scolastico vengono coinvolti di norma circa 700 alunni della scuola d’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, per un costo complessivo pari a circa 20 mila euro. Altri progetti didattici promossi dal Comune in collaborazione con le istituzioni scolastiche e altri enti pubblici, associazioni, coinvolgendo circa 2500/300 alunni sono:

26 Le scuole comunali sono cinque: Acropoli, Orciolaia, Pallanca, Don Milani, Villa Sitorni. I bambini accolti in queste strutture sono 450 e hanno una età compresa tra i 3 e i 6 anni. (Il costo è di 3 milioni di euro). Le scuole dell’infanzia paritarie sono undici con 680 bambini: quelle statali sono sedici scuole per 1275 bambini.

27 Uno dei progetti realizzati, “pomerigginsieme” coinvolge circa 600 alunni della scuola di infanzia, primaria e secondaria di primo grado.

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1. “la città dei bambini”, rivolto alla sostenibilità ambientale, culturale e istituzionale per i bambini e le bambine nell’ottica che lavorare con essi sia di interesse per l’intera città (costo circa 20 mila euro);

2. “Il progetto lettura”, in collaborazione con la Biblioteca della città di Arezzo ne le istituzioni scolastiche del primo ciclo. L’obiettivo primario è promuovere l’educazione alla lettura, tramite l’incontro con gli autori, tornei di lettura, costruzione di libri (il costo è di circa 20 mila euro);

3. “sport-giocando”, in collaborazione con ala Provincia, il CONI e l’USP(?) per la promozione motoria e sportiva tramite attività ludiche e ricreative. Il comune compartecipa al costo del progetto con circa 8 mila euro.

4. “Giardino interculturale”: un progetto realizzato in collaborazione con la cooperativa sociale La Tappa, che consiste in percorsi didattici all’interno di un giardino, in cui sono presenti piante provenienti da tutti i continenti. Costo del progetto 12 mila euro.

5. “Conosciamoci” è un progetto in collaborazione con l’associazione “Naviganti, Teatro e altre difficoltà”, che si propone la conoscenza della storia locale di Arezzo. Il costo è di circa 6 mila euro.

In conclusione rispetto alla politiche per le famiglie e i minori e per la conciliazione cura-vita-lavoro realizzate, ci sembra utile sottolineare non soltanto l’integrazione tra le misure di sostegno alle famiglie (in termini di molteplicità di orari di asili nido e scuole e di presenza di servizi integrativi) ma anche l’attenzione per la qualità dei servizi offerti. Tutte le operatrici dei nidi, inclusi quelli privati, sono qualificate attraverso corsi organizzati e finanziati dal Comune, in modo da garantire standard alti e omogenei nei servizi offerti, a prescindere che questi siano gestiti dal pubblico o dal privato. Inoltre si riscontra la tendenza a creare spazi di ascolto sociali e pubblici, in grado di sostenere la genitorialità, come per esempio attraverso gli sportelli di ascolto per genitori e figli in momenti di difficoltà. Infine l’utilizzo dei voucher per sostenere le donne che lavorano, in modo da ridurre i servizio privato di baby- sitter, è gestito tenendo conto del reddito delle donne che ne fanno richiesta e del numero di figli a carico. Non si tratta quindi di uno strumento indifferenziato, in quanto il Comune distingue i beneficiari in base ai differenti bisogni individuali, controlla il processo e garantisce il rispetto di standard di qualità alti, omogenei e certificati. 5.2.4 Il progetto “Una persona di fiducia in famiglia”: un esempio di integrazione

tra le politiche. Il Progetto “Una persona di fiducia in famiglia” è gestito dall’Assessorato alle politiche sociali, dell’educazione e della famiglia del Comune di Arezzo e da una Associazione individuata tramite una selezione pubblica e punta ad offrire alle famiglie un servizio integrativo rispetto a quelli già esistenti, per la cura dei minori (da zero a dodici anni). Si tratta di un modello innovativo perché lascia alle famiglie la possibilità di scegliere l’operatore/operatrice e può essere utilizzato con la massima personalizzazione e flessibilità oraria. Il Progetto offre tre tipi di servizi:

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1) un servizio di baby-sitteraggio a domicilio disponibile in tutti i giorni dell’anno,

inclusi i festivi, dalle 7 alle 24. Il costo del servizio è di 6,50 euro all’ora. 2) Un servizio di accompagnamento fuori e di baby-taxi, disponibile tutti i giorni

dell’anno inclusi i festivi dalle 7 alle 21. Il costo è di 6 euro all’ora, cui si aggiunge, nel caso in cui si chieda il servizio di accompagnamento in aiuto dei bambini, il costo del percorso (9,29 euro a Km).

3) Un servizio di intrattenimento ludico in spazi attrezzati, con opportunità di gioco e animazione differenziate. Il servizio costa 3 euro all’ora e funziona il pomeriggio, in tutti i giorni feriali fino alle 20.30, e nei periodi di chiusura delle scuole è accessibile anche al mattino.

In tutti i casi è prevista la possibilità di riduzioni per l’acquisto di pacchetti orari e per chi si iscrive all’associazione che gestisce il servizio. Nel caso del servizio spazio gioco è anche possibile ottenere una riduzione per famiglie con più di un figlio. Il progetto è un ottimo esempio di integrazione tra le politiche sinora esaminate, in quanto se da una parte sostiene le donne nella conciliazione dei compiti genitoriali, nel diritto al lavoro e alla vita sociale, dall’altra punta anche a promuovere l’occupazione giovanile, tutelando un’attività lavorativa spesso sommersa e favorendo la formazione di un mercato dei servizi sociali a costi sostenibili ma garantiti nella qualità dal pubblico. Inoltre le famiglie vengono aiutate a sostenere la cura dei minori non soltanto garantendo loro i tradizionali servizi educativi offerti con gli asili nido e le scuole dell’obbligo, ma rafforzando i servizi complementari e integrativi che possono essere utilizzati in orari diversi e personalizzati (dopo la scuola o l’asilo, in sostituzione in caso di malattia del bimbo, per l’accompagnamento alle attività extra-scolastiche che coincidano con gli orari di lavoro dei genitori, o durante i giorni festivi). 5. 3 Alcune riflessioni conclusive. Le principali caratteristiche del modello aretino di welfare community sono:

a) la tendenza a realizzare un welfare community di tipo universale: vengono stabiliti dei livelli di prestazioni di qualità ed omogenei su tutto il territorio, fattivamente fruibili dai cittadini;

b) integrato: l’attenzione per l’integrazione tra le politiche, riguarda la programmazione, e l’implementazione delle politiche, con l’obiettivo di realizzare un modello di gestione associata e integrata dei servizi sociali e sanitari presenti sul territorio;

c) redistributivo: non si tiene conto soltanto della diversità dei bisogni espressi dai cittadini (puntando alla personalizzazione degli interventi), ma ci si preoccupa anche della diversa capacità del singolo di far fronte al costo dei servizi offerti. Il tentativo in corso è quello di realizzare un sistema in cui il pagamento dei servizi venga differenziato in base all’Isee (anche per servizi gestiti dai privati, come accade già in alcuni asili nido privati convenzionati). Anche nei casi in cui i servizi offerti prevedono la compartecipazione dei cittadini, il Comune di Arezzo garantisce un costo accessibile a tutti, mantenendo alta la qualità dei servizi offerti;

d) partecipato: la partecipazione dei cittadini non si limita esclusivamente alla fase di programmazione delle politiche, ma in alcuni casi si estende anche alla fase di gestione

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delle politiche implementate (per esempio attraverso la co-gestione di progetti in parteneship tra comune e associazioni del terzo settore)

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Parte III

Ripartire con un sistema di servizi alla persona L’esperienza di Lamezia Terme nello scenario calabrese

6. La Calabria. Resistenze al cambiamento e tentativi di innovazione del welfare locale28 6.1 Uno sguardo al passato Un breve paragrafo introduttivo sullo scenario nel quale si inserisce il nuovo ciclo di programmazione calabrese è, a nostro parere, essenziale per cogliere elementi di continuità e discontinuità tra un ingombrante passato e un presente nel quale si colgono tentativi di ristrutturazione e innovazione. Rispetto al nuovo ciclo di programmazione comunitaria (2007-2013), la Calabria rientra tra le regioni dell’obiettivo Convergenza che, sostituendo l’Obiettivo 1, interessa le aree meno avanzate con condizioni socio-economiche sfavorevoli (in Italia identificabili con le regioni del Mezzogiorno). Il precedente ciclo (2000-2006) si chiude con un bilancio critico che denuncia alcuni dei ritardi strutturali di cui la regione soffre. Uno degli aspetti sottolineati nel nuovo documento di Programmazione Operativo FSE 2007-2013 è la mancanza di una capacità istituzionale sia a livello decisionale che gestionale, che ha caratterizzato il precedente settennio29. Lo stesso documento propone nelle prime pagine un bilancio di sintesi lasciando intendere che, rispetto ai principali assi di intervento previsti per il ciclo 2000-2006, non sono riscontrabili impatti significativi in termini sviluppo, inclusione sociale, occupazione e investimenti realizzati sul tessuto produttivo30. Per quanto riguarda gli interventi a favore dell’occupazione, un risultato di portata modesta è stata la realizzazione dei Servizi dell’impiego che, tuttavia, non ha visto una loro messa a regime a livello territoriale rimanendo, quindi, in una fase ancora iniziale. Pochi e frammentati sono stati i corsi di formazione professionale finanziati con risorse FSE (assi Adattabilità e Capitale umano) che, secondo il Rapporto di valutazione intermedia31, hanno avuto il principale limite di non essere stati correlati ai fabbisogni professionali del tessuto produttivo locale favorendo così poche opportunità di impiego “sicuro”. E’ mancata una strategia che accompagnasse la riforma dei sistemi di istruzione e formazione a tutti i livelli, compreso la realizzazione di un Catalogo dell’offerta formativa regionale per la valorizzazione e la certificazione delle competenze. La lotta all’esclusione sociale è stata circoscritta alle tradizionali categorie di soggetti senza che sia stato messo in atto un sistema integrato di interventi socio-assistenziali

28 di Caterina Cortese 29 Al di là di un’oggettiva analisi dei risultati conseguiti dalla regione nel precedente ciclo (Rapporto di valutazione indipendente IRS 2003 e 2006), l’accento critico del POR FSE 2007-2013 potrebbe derivare anche dal cambio di giunta (e di colore politico) che ha segnato le elezioni regionali del 2005 e che ha visto il tentativo della nuova colazione di evitare il disimpegno automatico di molte delle risorse europee non ancora investite. 30 POR FSE 2007-2013 pp. 26-32 31 IRS, Rapporto di valutazione intermedia del POR Ob. 1 2000-2006 della Regione Calabria, 2003

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territoriali (basta osservare che la legge regionale 23/2003, promulgata per recepire la normativa nazionale in materia di politiche sociali – Legge 328/2000, ha conosciuto una effettiva attuazione solo nel 2009 con l’approvazione definitiva del primo Piano Regionale Sociale). Guardando al contesto socio-economico regionale, le statistiche ufficiali presentano una situazione che nel 200832 risultava ancora difficile, con parametri di sviluppo tra i più bassi a livello nazionale e lontani, ancor più, dagli obiettivi fissati dal Consiglio europeo di Lisbona. Rispetto alla media nazionale (58,7%) il tasso di occupazione calabrese è fermo al 44,1% e risulta essere, insieme a quello siciliano, il più basso del 2008 nella graduatoria delle regioni italiane. Un dato significativo è rappresentato dalla misura del tasso di occupazione per genere: quello maschile (57,6%) supera di quasi il doppio quello femminile (30,8%). In entrambi i casi si tratta dei livelli più bassi tra i tassi di occupazione regionali. Nella graduatoria delle province, “spiccano” purtroppo città calabresi come Crotone dove è occupato solo il 37% della popolazione (anche qui con una pesante differenza di genere: 51,6% uomini e 23,2% donne) e Reggio Calabria che è al terz’ultimo posto, con un tasso di occupazione del 42,9%33. Il dato sul livello di disoccupazione è altrettanto significativo (12,1%) e sintomatico di una mancanza di dinamismo sul mercato del lavoro soprattutto se si guarda parallelamente al tasso di inattività, pari al 49,8%, che equivale a dire che cinque persone su dieci non appartengono alle forze di lavoro. In una condizione così caratterizzata, il tentativo avviato e dichiarato nei nuovi documenti di programmazione, a partire in particolare dall’ultimo biennio, è quello di intervenire con una certa urgenza, ma altrettanta strategicità, su una serie di problematiche evidentemente correlate le une alle altre (se si considera anche lo scarso livello di sviluppo del sistema produttivo caratterizzato da una bassa competitività e scarsi investimenti in ricerca e innovazione, processi di crescita aziendale deboli, modesta presenza nei mercati internazionali nonché i deficit legati ai trasporti e alla rete stradale e autostradale, all’arretratezza di alcune aree rurali, al digital divide e alla scarsa diffusione dell’utilizzo delle ICT, … – si veda FESR 2007-2013 pp. 59-73), alle quali l’amministrazione regionale sta cercando di rispondere attraverso l’ideazione di progetti di carattere sperimentale e innovativo che guardano al problema nella sua organicità (origine- impatto- risoluzione).

6.2. Il sistema di governance delle politiche di welfare

Nonostante si riscontrino in Calabria difficoltà nella messa a punto di strategie in grado di incidere sui nodi che rallentano lo sviluppo economico e sociale del proprio territorio, guardando al sistema regolativo delle politiche si coglie, nello scenario attuale34, una

32 Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro. Media Regionale 2008. 33 E’ vero tuttavia che la regione Calabria ha un “tasso di lavoro sommerso o lavoro nero” che suggerisce di guardare alle statistiche pubbliche con un margine di riserva. 34 E’ bene precisare che nel momento in cui si presenta il presente rapporto di ricerca sono da poco trascorse le elezioni politiche regionali 2010 che hanno visto il ricambio della giunta con la vittoria di una coalizione di centro-destra. Il contenuto del contributo fa ovviamente riferimento all’operato della precedente giunta e presenta le testimonianze di alcuni dirigenti che sono tuttora impegnati nei settori delle politiche sociali e del lavoro.

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duplice tendenza divisa tra un’ingombrante eredità del passato, fatta di vuoti regolativi e mancanza di programmazione territoriale strategica (path dependency) e una spinta, promossa negli ultimi anni, verso la dotazione di strumenti pianificatori adeguati che concretizzino anche quel processo di decentramento di funzioni e compiti dal livello regionale (che ha mantenuto fino ad adesso un forte accentramento) verso i contesti locali. La valutazione generale che le interviste con i testimoni privilegiati35 fanno emergere, è che si sia diffusa l’importante consapevolezza di dover rompere con il passato, con le vecchie procedure e, soprattutto, con un vecchio modo di fare politica che ha fatto troppo spesso mancare gli appuntamenti verso uno sviluppo e una crescita del territorio calabrese. Non si tratta certamente di una metamorfosi compiuta ma è possibile, sia da punto di vista formale (l’approvazione di diversi documenti di pianificazione), sia dal punto di vista sostanziale (la conquista di primi risultati), intravedere la volontà politica della giunta regionale di proporre una programmazione sociale decisa a riformare un sistema che fino a questo momento scontava gravi ritardi sia in termini di innovazione nelle politiche che nei servizi. Una prima linea di programmazione regionale rispetto alle politiche sociali veniva realizzata con la LR 5/8736 la quale rappresentava, in quegli anni, una normativa piuttosto avanzata poiché puntava a responsabilizzare le autonomie locali in materia di assistenza sociale e a promuovere servizi territoriali di tipo domiciliare o semi-residenziale. Tuttavia le principali indicazioni di metodo di tale normativa vennero disattese lasciando i singoli Comuni alla realizzazione di un piano degli interventi spesso disorganico (finanziamenti a pioggia e servizi frammentati). «Fino ad adesso – tiene a precisare il Dirigente del Settore Politiche sociali – vi è stata una forte tendenza ad istituzionalizzare la persona con bisogno. Basti pensare che in tutta la Regione si contano circa 370 strutture residenziali convenzionate (socio-sanitarie e socio-assistenziali) che ospitano circa 570037 utenti con un costo che si aggira attorno 35 milioni di euro annui pagati dalla regione. Questi sono dati significativi, se non preoccupanti, rispetto al tessuto sociale presente in Calabria sia dal punto di vista della offerta di servizi – appunto di tipo residenziale-assistenziale-emergenziale, che della domanda apparentemente composta da una notevole quota di “non auto sufficienza”». Prima dell’approvazione del Piano sociale regionale, i territori ricevevano i finanziamenti singolarmente (ovvero per singolo comune) e molto spesso sulla base di compromessi politici piuttosto che alla luce di un’analisi reale dei fabbisogni38. Secondo l’ Indagine censuaria sugli interventi e i servizi sociali dei 35 Assessore e Dirigente di Servizio Settore Politiche Sociali Famiglia Volontariato Terzo settore; Dirigente di settore e Dirigente di Servizio Settore Politiche del Lavoro, Mercato del Lavoro POR asse III Risorse Umane, Vertenze – Ammortizzatori e Previdenza [Dipartimento 10 – Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato, Regione Calabria]

36 “Legge Regionale di riordino e programmazione dei servizi socio-assistenziali” che, in attesa della legge nazionale di riforma dell’assistenza e della legge di riforma delle autonomie locali, applicava, anche in questo caso con qualche ritardo, quanto previsto dal D.P.R. 616/77 e dalla legge 641/78 sul riordino delle funzioni socio-assistenziali di competenza dei Comuni singoli o associati incaricando questi di realizzare l'integrazione e il coordinamento dei servizi sociali con quelli sanitari. 37 Su una popolazione totale di circa 2 milioni.

38 Quello che manca tuttora nel Piano Sociale è una analisi socio-economica del contesto regionale così come manca una mappatura dei bisogni suddivisa per aree-province o ambiti. «Non è stata inserita per scelta – dichiara il Dirigente di settore - in quanto abbiamo ritenuto che i dati potessero raffigurare una

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comuni (Istat 2005), in Calabria la spesa per interventi e servizi sociali è pari allo 0,8% della spesa totale (euro 25 di spesa pro-capite). Fatta 100 la spesa sociale, circa il 96% è erogato dalla Regione, il 4% dalle Associazione dei Comuni mentre nessuna spesa è a carico dei Distretti socio-sanitari. Rispetto alle categorie di utenza, la spesa è fortemente gravata dai Servizi alle famiglie e ai minori per i quali la Regione Calabria spende il 41,5% del totale. Più o meno la stessa quota è destinata ad Anziani (14,4%) e Disabili (15,3), mentre una quota leggermente superiore è assegnata alle misure di Contrasto alla povertà, Disagio adulto e ai senza fissa dimora (21,7%). Seguono i costi per le Multiutenze (4,1%), per i servizi per gli Immigrati e nomadi (1,6%) e per le Dipendenze (1,3%).

Tab. 1 – La spesa sociale in Calabria

Famiglie e minori

Anziani Disabili Poverta’, disagio adulto e senza fissa dimora

Immigrati e nomadi

Dipendenze Multiutenza Totale

Regione Calabria

41,5 14,4 15,3 21,7 1,6 1,3 4,1 100,00

ITALIA 38,7 23,0 20,7 7,1 2,5 1,1 6,8 100,00

SUD 43,6 19,6 14,3 11,9 1,4 2,3 6,8 100,00

Fonte: Istat, Indagine censuaria sugli interventi e i servizi sociali dei comuni, 2005

Se si guarda alla spesa dei comuni in base al tipo di prestazione offerta (servizi; trasferimenti monetari; strutture), i dati denotano uno sbilanciamento della spesa a favore dei trasferimenti monetari in quasi tutti i settori di intervento. Per esempio, nell’Area assistenza familiare con minori, i voucher impegnano solo lo 0,1% della spesa a fronte del 18,9% dei Contributi economici ad integrazione del reddito familiare (Area trasferimenti monetari). Per l’Assistenza domiciliare socio-assistenziale (sempre per l’area famiglia) viene speso dai Comuni calabresi circa l’8% mentre la retta per prestazioni residenziali è del 37,9%. Riguardo alle Strutture, la spesa maggiore è per la gestione degli Asili nido (69%) contro il 2% destinato ai Servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia. Il quadro che emergeva nel 2005 è quello di un sistema dei servizi sociali ancorarti ancora ad un modello di welfare tradizionale di tipo assistenziale e riparatorio. Le innovazioni, gli strumenti di integrazione tra le politiche e i mezzi che dovrebbero favorire l’attivazione (intesa anche come autonomia di scelta) del soggetto sono ancora poco diffusi. Leggermente inferiore è lo scarto della spesa tra Servizi e Trasferimenti monetari nell’area anziani. Nel settore dei Servizi la spesa per i voucher è situazione distorta della realtà sia perché datati (ovvero relativi al censimento 2001) sia perché avrebbero fotografato una ormai consueta situazione allarmante della Calabria che avrebbe creato o troppo disfattismo o troppe aspettative. La scelta è stata invece quella di programmare a partire da un’analisi fatta direttamente sul territorio con le visite, gli incontri e i tavoli organizzati durante la stesura del Piano sociale regionale con i referenti istituzionali (ed extra istituzionali) impegnati nell’ambito delle politiche sociali». Sembrerebbe quindi una scelta funzionale agli obiettivi da conseguire tarata su una lettura del bisogno ravvicinata e, allo stesso tempo, proporzionata ad una stima del budget di spesa per utenza (anziani, minori, famiglie, disabili) che ogni ambito socio-assistenziale ha presentato alla regione per la richiesta di finanziamento.

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del 10% e, nel secondo, la spesa per Contributi economici ad integrazione del reddito familiare è del 14% mentre più alti sono i costi sostenuti, trattandosi di persone anziane e spesso non auto sufficienti, per la Retta per prestazioni residenziali. Rispetto alle Strutture, anche in questo caso la spesa è più alta per le Strutture residenziali (70%) e meno alta per esempio per la gestione dei Centri diurni (15,8%) o per i Centri di aggregazione sociale (7,3%). La legge regionale 23/2003 (recepimento della 328/2000) e l’approvazione, nell’agosto del 2009, del primo Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali e Indirizzi per la definizione dei Piani di Zona39, hanno voluto rompere con questo meccanismo frammentato e dispersivo, invitando i territori ad unirsi in ambiti territoriali (sostanzialmente coincidenti con i 33 Distretti socio-sanitari) e a rimodulare i servizi socio-assistenziali sul territorio secondo un principio di vicinanza (prossimità) e di integrazione delle risorse soprattutto in ragione della presenza di un terzo settore che negli ultimi anni si è dimostrato particolarmente vivace.40 L’adozione del Piano Regionale Sociale, seppure con un ritardo di nove anni rispetto a quanto indicato dalla normativa nazionale (l. 328/2000), ha dato il via alla costruzione di una piattaforma programmatoria per la costruzione di un nuovo sistema di welfare fondato sul concetto di ambito territoriale (distretto socio-sanitario), sulla cooperazione istituzionale (tra i comuni partner, tra questi e l’Azienda Sanitaria Provinciale, i sindacati, le associazioni di categoria e le rappresentanze degli interessi) e sulla partecipazione della società civile alla definizione degli interventi socio-assistenziali. Dal punto di vista più propriamente culturale, la riforma sociale regionale cerca di superare la concezione delle politiche sociali come politiche residuali (cenerentola delle politiche è stata definita da un consigliere regionale) e del servizio sociale non più come elargizione ma come diritto. Il concetto di programmazione, nonché le pratiche regolative che da esso derivano, è stato fino ad adesso poco utilizzato a livello regionale, determinando oltre che un vuoto normativo anche la mancanza di una strategia di intervento unitaria quale manovra determinante per la risoluzione di problematiche complesse come quelle che caratterizzano il contesto regionale. Tale vuoto ha contribuito a creare nei territori un aumento delle disparità locali e, di conseguenza, delle disuguaglianze sociali. Il processo di decentramento calabrese è stato infatti fino ad ora molto parziale. La latitanza della normativa regionale in materia di politiche ha avuto effetti differenti: da un lato, non ha fermato quei territori, come per esempio Lamezia Terme41, capaci di programmare e riformare l’offerta socio-assistenziale anticipando l’approvazione del

39 La prima è stata emanata dalla precedente giunta regionale (centro destra) mentre l’approvazione del Piano che ha volutamente seguito le Linee guida tracciate dalla legge regionale è stato redatto e approvato dall’attuale Giunta (centro-sinistra); un caso eccezionale, dunque, di “continuità operativa che supera la discontinuità politica”… 40 Anche in questo caso tuttavia si tratta di un universo molto eterogeneo e disperso sul territorio, con concentrazioni alte nelle province di Cosenza e Catanzaro ma ancora molto poco organizzato (assenza del concetto di rete). 41 Lamezia Terme rappresenta un caso dove il territorio è riuscito ad accumulare il proprio sapere e a metterlo in pratica avviando un processo virtuoso di programmazione che era in linea (e se vogliamo in anticipo) rispetto a quanto verrà formalmente dichiarato dalla Regione con la pubblicazione del primo Piano Sociale Regionale nel 2009. La forza di Lamezia Terme è stata duplice: ovvero sia istituzionale che extra istituzionale nel senso che c’è stato un gruppo politico e tecnico che ha creduto nell’ideazione di un nuovo sistema dei servizi e, allo stesso tempo, ha saputo far leva sul tessuto associazionistico che caratterizza la zona.

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PSR; dall’altro, ha lasciato altri territori liberi di agire secondo criteri e logiche localiste, ed altri, meno organizzati, bloccati nelle loro inefficienze. Rispetto all’architettura istituzionale, come si avrà modo di vedere anche relativamente alle politiche per l’occupazione, uno dei più grandi deficit di questa regione riguarda la scarsa comunicazione-integrazione regolativa dei rapporti tra i diversi livelli (regionale, provinciale e locale). Come sintetizzano le parole del Dirigente «Si tratta di un problema che è congenito a questa regione nel senso che i territori sono stati abituati così da una regione che ha sempre voluto accentrare a sé poteri e soprattutto risorse42 con una scarsa propensione a rendere autonomi i comuni sia nella programmazione che nell’attuazione delle politiche». Si è in presenza di due forze opposte: da una parte la regione non delega, dall’altra, i territori o non sono pronti o si giustificano dietro questa mancanza di autonomia concessa per evitare di impegnarsi direttamente per la risoluzione di alcune questioni. Questo assetto istituzionale ha purtroppo contribuito a sfavorire la crescita delle autonomie locali e la loro diretta responsabilità a governare in maniera efficiente sul proprio territorio. In una tale situazione di ritardi e di difficoltà, l’intento che si evince è quello di procedere in maniera graduale ma incisiva verso la costruzione di un nuovo modello di welfare plurale e condiviso dalla molteplicità dei soggetti istituzionali e non (artt. 1e 3 della LR 23/2003) che operano nel settore. Al Piano Sociale, sta seguendo la predisposizione dei Piani di Zona da parte dei distretti socio-sanitari, secondo le linee guida dettate dalla Regione, e dei Regolamenti che il Dipartimento 10 sta attuando allo scopo primario di realizzare un sistema omogeneo dei nuovi servizi alla persona.

42 Capita che cittadini si presentino presso gli uffici regionali per richiedere un aiuto finanziario per situazioni di povertà o chiedano informazioni che solitamente dovrebbero fornire i servizi sociali comunali o la provincia. Questo avviene per due ordini di ragioni: o l’informazione sulla territorializzazione dei servizi non raggiunge efficacemente il cittadino oppure i servizi locali soffrono di un’inefficienza che essi stessi addossano alla mancanza di trasferimenti della regione nelle casse locali. Siamo di fronte ad una “lotta fra istituzioni” che denuncia il livello ancora basso del decentramento istituzionale avviato formalmente all’inizio degli anni novanta …

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6.3. La programmazione sociale e il nuovo Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali. Con un ritardo di nove anni rispetto alle indicazioni della normativa nazionale (328/2000) e di sei anni rispetto alla legge di recepimento regionale (LR 23/2003), la regione Calabria ha approvato il suo primo Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali e Indirizzi per la definizione dei Piani di Zona (2007-2009) nel giugno 2007. La Commissione consiliare ha ritardato di altri due anni la messa a regime del Piano fino a quando, il 9 agosto del 2009, il Piano è stato definitivamente approvato e “formalmente” consegnato al territorio43. Un primo tentativo di Piano sociale regionale era stato fatto nel 2005 (biennio 2003-2005), quando la precedente giunta lo aveva sottoposto al Consiglio per l’approvazione. Ma la vicinanza alle elezioni avevano comportato lo scioglimento del Consiglio e, quindi, la mancata attuazione. «I tempi della Politica sono spesso diversi dai tempi tecnici o dal momento nel quale si prende consapevolezza della necessità di un cambiamento di rotta» [Dirigente di settore alle Politiche sociali]. E’ quindi, per una serie di ragioni, tra cui il ricambio politico, gli eccessivi tempi decisionali, la mancanza di una pianificazione sociale adeguata nonché «la forte incapacità di adattamento al nuovo mostrata dalla classe dirigente», che la riforma sociale ha tardato a realizzarsi in Calabria. I lavori di preparazione del Piano sono stati accompagnati da un lavoro concertato con il territorio che ha previsto sopralluoghi e incontri istituzionali tra il gruppo tecnico del Dipartimento 10 della Regione e gli uffici di settore dei comuni capofila degli ambiti di zona previsti dalla LR 23/2003 (coincidenti con i distretti socio-sanitari). L’approvazione all’unanimità del Consiglio Regionale e la larghissima partecipazione territoriale (ANCI, UPI, sindacati, terzo settore) raccolta nella fase di preparazione e poi di approvazione del PSR (circa 2500 partecipanti), possono essere interpretati come dei segnali che indicano la presenza di una volontà di procedere ad un cambiamento, appunto ad una riforma, che non risponda solo ai compiti previsti dalle normative ma che tanga conto dei mutamenti intervenuti ormai nella domanda sociale locale. Il PSR è sostanzialmente guidato da due logiche: 1) Il PSR ed il passato: Il sistema dei servizi esistente (case di accoglienza, casi di cura, case famiglia ecc) viene sostanzialmente mantenuto sia perché ha ormai consolidato il proprio ruolo rispetto alla domanda di servizi sia perché ha creato forme di economia sociale e di occupazione dei quali non si è ritenuto opportuno privare il territorio. Tale sistema, per quanto di natura meramente assistenziale, risponde ad un bisogno emergenziale (disabili, anziani, minori) comunque presente, soprattutto nei centri a più alta densità abitativa della regione (Cosenza e Reggio Calabria) e che come tale deve essere preso in carico. La situazione è stata in qualche modo «sanata» nel senso che «sono stati introdotti dei controlli sulla gestione di tali strutture, ridotte le rette di compartecipazione della spesa pubblica alla gestione delle strutture convenzionate e richiesta una quota sulla base dei redditi agli utenti ospitati (risparmiando in media 5 milioni di euro all’anno soprattutto nelle strutture anziani e disabili)» (Dirigente di Settore alle Politiche sociali).

43 DGR 364/2009.

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2) Il PSR ed il futuro: E’ stata espressa nel Piano la volontà di rompere con il passato, con la logica assistenzialistica passiva, con la tendenza ad istituzionalizzare. «L’attuale fisionomia del welfare regionale è caratterizzata dalla mera erogazione di sussidi economici e dalla tendenza ad istituzionalizzare i servizi alla persona» (PSR p. 11) Questo passaggio ha previsto un doppio livello di concertazione: da una parte, a livello regionale, sono state individuate le linee guida e di indirizzo per la programmazione dei nuovi servizi e, dall’altra, sono state delegate ai 33 distretti socio-sanitari le modalità di progettazione e gestione dei nuovi servizi alla persona. Dopo la presentazione del PSR in Giunta, inoltre, per prevenire i ritardi della politica che, si sapeva ci sarebbero stati, è stata approvata una delibera44 che prevedeva da subito i trasferimenti di denaro dall’ente regionale ai territori con l’obiettivo di avviare i lavori di progettazione. Per finanziare il sistema residenziale, le risorse sono state inviate nel comune dove è ubicata la struttura; sull’altro versante, quello dei nuovi servizi alla persona (concentrati nei quattro ambiti: famiglia, anziani, disabili, minori), nel novembre 2008 la Regione ha destinato a ciascun Comune capofila circa 27 milioni di euro per dare il via alla stesura dei cosiddetti piani distrettuali (precursori dei PdZ) che avrebbero dovuto attendere, per essere ufficiali, l’approvazione del PSR che nel frattempo era “impantanato” in commissione consiliare. Dato questo lavoro di preparazione e progettazione locale, la Regione ha impegnato i territori a rispondere formalmente a quanto previsto dal PSR invitandoli a presentare le schede progetto formulate in concertazione con il terzo settore e le rappresentanze dei cittadini. In coincidenza con il periodo della ricerca, la Regione (Settore Politiche Sociali – Dip. 10) stava completando la formulazione dei Regolamenti previsti dalla legge45 allo scopo di regolare la tipologia dei servizi da realizzare, le modalità di erogazione, il sistema di accreditamento, ecc, ovvero l’armamentario normativo necessario alla concreta attuazione al PSR. «I Regolamenti ai quali il Settore Politiche sociali sta lavorando rappresentano un vero e proprio esperimento di concertazione territoriale bottom up» sostiene il Direttore di Servizio delle Politiche sociali. Negli ultimi mesi infatti il gruppo tecnico, con un forte appoggio dell’Assessore alle politiche sociali, si è recato fisicamente sui territori per rilevare le criticità, le carenze, le difficoltà ma anche le risorse, le capacità e le volontà di agire per attrezzare l’ambito dei servizi necessari «senza sprechi e abbandonando la vecchia logica del campanile»46. Di fronte a tali dinamiche, sembra di essere temporalmente ai primi anni del 2000, quando la maggior parte delle regioni italiani si adeguava alla normativa nazionale e invitava i territori ad elaborare i Piani di Zona. La Calabria, invece, sta attuando tutto questo nel corso del 2009 ed è legittimo presumere che, trattandosi di un processo soprattutto culturale che implicherà un cambiamento nei comportamenti, nelle mentalità, nelle procedure, avrà bisogno, come tale, di ancora diversi anni per affermarsi. 44 DGR. 670/2007

45 Si tratta in tutto di diciotto regolamenti dei quali ne sono stati approvati sei. 46 Un primo bilancio dimostra che i territori stanno reagendo bene: su 409 comuni solo 6 non sono ancora riusciti ad investire le risorse inviate dalla regione e a procedere con la partecipazione alla programmazione di ambito.

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La direzione seguita è quella di attuare un decentramento progressivo che faccia detenere alla Regione un ruolo di indirizzo e coordinamento, che responsabilizzi poco a poco i territori affidando loro la necessaria autonomia per la costruzione del nuovo sistema di programmazione ed erogazione dei servizi nell’ambito di propria competenza. 6.3.1. Gli orientamenti di fondo del PSR e le Indicazioni operative47 Per dare attuazione agli obiettivi proposti dal PSR, la strategia regionale in materia di welfare si articola su due livelli: Priorità di sistema e Priorità di benessere sociale. Le prime hanno chiaramente come obiettivo quello di sopperire ad una carenza, in termini di strutture e servizi, che impedisce al sistema sociale calabrese di rispondere adeguatamente alle gravi condizioni economiche e sociali cui si trova la popolazione. Di fronte a tali obiettivi si coglie nuovamente il ritardo (ma non l’immobilismo) con il quale la regione Calabria sta intervenendo su questioni che dovevano già essere consolidate quale, per esempio, la definizione del sistema di accreditamento o la realizzazione di un Sistema Informativo Sociale. Il secondo tipo di priorità mira invece ad intervenire sui quattro target che la regione ha individuato come destinatari principali della politiche socio-assistenziali. Tab. 2 – Le priorità del PSR Priorità di sistema Priorità di benessere sociale

Potenziamento dell’infrastruttura organizzativa dei servizi diffusi in ogni distretto e di servizi “di scala” Progettazione di un Sistema Informativo sui Servizi Sociali capace di fornire informazioni attendibili su domanda e offerta, distretto per distretto Definizione dei requisiti e degli standard di accreditamento per le strutture a ciclo residenziale o semi-residenziale Valorizzazione del ruolo delle IPAB attuando i contenuti della riforma introdotta dalla legge 32872000, dal D. Lgs. 207/2001 e dalla LR 2372003

Attuazione dell’ufficio del Segretariato sociale Intervento a favore dei giovani Intervento a favore delle famiglie Intervento a favore dei soggetti non auto-sufficienti (Anziani, Disabili, Minori)

Fonte: PSR p. 26 Rispetto ad esse, nella lettura del PSR si possono cogliere quelli che sono gli orientamenti che sottostanno al modello di welfare configurato dalla Regione sintetizzabili come segue48: L’orientamento scolastico, universitario e professionale è pensato come metodo per favorire la buona socializzazione dei giovani rispetto alla loro vita relazionale e lavorativa; Mantenere e valorizzare le responsabilità genitoriali (sportelli di ascolto; centri diurni per adolescenti; spazi genitori-figli) equivale a puntare sulla famiglia come «nucleo fondamentale e scheletro naturale del nuovo sistema di welfare calabrese»49 (care giver). Allo stesso tempo si riconosce la necessità di

47 Tali informazioni sono tratte dal PSR 48 Per approfondimenti si rimanda al PSR pp. 25-63 49 Tale fondamento viene enunciato anche nella LR. 1/2004 che all’art. 1 recita: La Regione … riconosce e sostiene come soggetto sociale essenziale la famiglia […] attua attraverso l’azione degli enti locali

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alleggerire la famiglia dalla sua funzione di cura e assistenza attraverso il potenziamento di servizi domiciliari destinati ai membri non auto-sufficienti del nucleo (che si tratti di disabili o anziani) ma anche mediante trasferimenti monetari una tantum. La domiciliarità, la collaborazione con attori del Terzo settore e l’active ageing sono individuate come azioni da intraprendere per costruire un sistema di sostegno a soggetti non autosufficienti; l’inserimento lavorativo delle fasce deboli (donne, giovani, disoccupati di lunga durata) è inteso come il principale vettore di inclusione sociale. Rispetto ai tradizionali sostegni economici, che rimangono comunque il nocciolo duro del welfare calabrese, si sono diffuse nel territorio forme alternative di sostegno al reddito quali le cosiddette work experiences, che puntano all’inserimento lavorativo di categorie svantaggiate (in particolare disabili psichici ed ex detenuti) e le borse lavoro destinate invece ad avviare alcuni soggetti verso percorsi di formazione-lavoro (disabili, Rom, categorie protette)50 o ancora verso il lavoro sociale51. Alcuni segnali interessanti, se rapportati allo scenario precedente e se letti in una logica di integrazione e innovazione delle policies, riguardano quindi il tentativo di avvicinare le persone ad un lavoro o ad un percorso formativo che stimoli la loro capacità di partecipare, attivarsi per riemergere da uno stato di bisogno e per allontanare il rischio di emarginazione. Rispetto ai servi offerti alla famiglia e ai minori (sostegno alla genitorialità), gli interventi sono ancora pochi e i 15 milioni di euro stanziati dalla Regione su fondi nazionali e su fondi FESR per la realizzazione di una rete di asili nido su tutto il territorio non sono stati ancora investiti. Anche in questo caso si compensa la mancanza di una dotazione strutturale di servizi mediante l’erogazione di ulteriori sostegni economici ad adulti in difficoltà o a persone che, anche alla luce degli impatti che la crisi economica ha avuto sul mercato del lavoro, hanno perso il lavoro con conseguenti difficoltà per l’intero nucleo familiare. E’ opportuno precisare che in un contesto come quello calabrese misure di sostegno al reddito rappresentano ancora la maggiore fonte di spesa delle politiche sociali al servizio di persone svantaggiate52. Ideazione e applicazione di “politiche attive del lavoro” non risultano ancora diffuse poiché, come si vedrà anche nel paragrafo successivo, le urgenze sociali e occupazionali di questa regione richiedono interventi di tipo più strutturale che incidano realmente sul tessuto economico e sul mercato del lavoro. La necessità, infatti, è quella di agire non tanto sull’offerta di lavoro, quanto sulla domanda poiché uno dei principali problemi che caratterizza questo contesto è la mancanza di occasioni occupazionali, e non di forza lavoro. Quest’ultima, storicamente, è stata costretta a spostarsi dalla propria terra di origine ma, oggi, costi della vita più alti e diffusione di opportunità lavorative occasionali o precarie, rendono l’emigrazione meno appetibile di un tempo concorrendo ad aumentare la percentuale delle persone non attive preseti in questa regione. E’ alla luce di un contesto socio-economico così fragile

politiche sociali […] finalizzate a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona nella propria famiglia.” 50 Entrambe queste iniziative sono finanziate mediante risorse del FSE.

51 In particolare dal 2004 è stata avviata la sperimentazione delle Borse Lavoro mediante le quali circa 3000 donne, con difficoltà familiari o economiche, sono state impiegate nell’assistenza domiciliare per anziani. 52 La Regione sta lavorando alla proposta di istituire un reddito minimo di inserimento secondo le modalità indicate dall’art. 23 della legge 328/2000.

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e debole che, sul finire del 2008, è stato approvato un Piano della Povertà53 come strumento programmatorio integrativo al PSR e al Piano per l’Occupazione54. Si tratta di un documento completo nel quale viene presentato concretamente l’impegno (in termini di obiettivi e risorse) che la regione intende investire nel settore della formazione, del lavoro, delle misure alternative di sostegno al reddito55. L’attenzione è rivolta a quelle che vengono definite “le nuove povertà” (nuclei familiari monoreddito; madri sole con figli; immigrati; adulti disoccupati nella fascia di età 40-5056; famiglie in situazioni debitorie, etc) per le quali si individua l’integrazione delle politiche (formazione, lavoro, assistenza) come via principale per «accompagnare l’individuo e/o il nucleo verso una situazione di autonomia» (Piano per la povertà p. 16). In questa cornice d’azione sono previsti interventi a più livelli nel senso che se la Regione si impegna a garantire forme minime di reddito e di sostegno economico (mediante risorse ordinarie o comunitarie), il compito dei territori sarà quello di realizzare, attraverso i Piani di Zona, misure di contrasto in termini di accesso ai servizi erogati anche dalle organizzazioni del Terso settore in attuazione del principio di Sussidiarietà verticale e orizzontale. Relativamente ai rapporti con il non profit viene individuata una specifica azione (ivi, p.27) che consente a questi soggetti di partecipare ai finanziamenti erogati dalla Regione per la predisposizione di un offerta formativa che sia finalizzata a favorire l’inserimento occupazionale di soggetti svantaggiati occupati (a rischio licenziamento) e disoccupati. Infine una misura nuova nel panorama regionale è costituita dell’istituzione di un Fondo per il Microcredito57 che, nato in Calabria circa nel 2007, si è presentato come sperimentazione di un modello di sostegno alternativo destinato alle fasce deboli della popolazione (famiglie monoparentali, non autosufficienti con basso reddito, immigrati non regolari, disoccupati, portatori di handicap, ex detenuti, famiglie numerose monoreddito, i ceti operai, i giovani con livelli medi di istruzione) nonché come misura preventiva (“salvagente”) per evitare che situazioni iniziali di povertà o indigenza potessero trasformarsi in stati o situazioni di pre-usura, abbandono, disperazione. Il fondo per il Microcredito della Regione Calabria è rivolto sostanzialmente a due macro-target distinguendo tra un Microcredito socio-assistenziale e un Microcredito alla microimpresa con il duplice scopo, quindi, di sostenere la crescita socio-economica di persone a rischio di povertà e favorire lo sviluppo di piccole imprese (esistenti o ex novo) nonché forme di auto-impiego di categorie svantaggiate.

53 LR. 15/2008 54 Il Piano della Povertà è stato elaborato dal Dipartimento 10 e, quindi, di concerto tra i Dirigenti dei settori che lo compongono (Settore Politiche sociali, Settore Lavoro e Settore Formazione Professionale). 55 Su quest’ultimo sono stati investite molte risorse comunitarie. Il settore delle politiche sociali è riguardato infatti da sei misure (tre a valere sul FSE per un totale di 68 milioni di euro e tre sul FESR (sul quale le ripartizione dei fondi e i bandi sono ancora allo stato iniziale). 56 Il Consiglio regionale ha rettificato il Piano Sociale nel luglio 2009 aggiungendo una nota riguardante i soggetti tra i 50 e i 60 anni che hanno persi i lavoro (anche per effetto della crisi) ai quali viene destinato un contributo economico ad personam di circa euro 3.600 (una tantum). 57 Tale Fondo è già attivo ed è gestito dalla Fondazione Calabria Etica (istituita ai sensi dell’art. 18 bis della legge regionale n. 7 del 2 maggio 2001 sulla “finanza etica”) in collaborazione con Banca Etica e Caritas.

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6.4. La programmazione in materia di lavoro e la bozza del Piano per l’Occupazione.58 Rispetto alle Politiche del lavoro esistono dei documenti di orientamento strategico (PAN 2008 e 2009) nonché le Linee guida espresse nel POR FSE 2007-2013. «Non si è arrivati mai alla definizione formale di un Piano regionale per l’occupazione unitario e definitivo ma si è proceduto in maniera incrementale ovvero la Regione sta attuando una serie di azioni in materia di lavoro mantenendo una coerenza con l’orientamento strategico espresso nei documenti di programmazione ufficiali, la cui sommatoria riconduce al contenuto espresso nel Piano» (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) Esiste una bozza di Piano recentemente aggiornata (giugno 2009) ma circa un anno fa la Regione, in coincidenza con la fase di chiusura della programmazione 2000-200659, aveva pubblicato dei Bandi ognuno dei quali rispondeva ad una linea strategica contenuta in quello che era stato definito (ma non ancora formalizzato) Piano Regionale per l’Occupazione e il Lavoro - Piano d’Azione 2008. «Il giugno del 2008 ha rappresentato nella stagione programmatoria calabrese una data importante perché i bandi proposti sono stati pensati come chiusura del ciclo precedente (2000-2006) e avvio della nuova (2007-2013). Quindi, utilizzando le risorse dell’uno sono state lanciate le linee d’azione per l’altro» (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) I bandi in questione sono stati: • Concessione di incentivi alle imprese per l'incremento occupazionale e la formazione in azienda dei neoassunti (Bando PMI) • Concessione di incentivi alle imprese di grandi dimensioni per l’incremento occupazionale e la formazione in azienda di neoassunti (Bando GI) • Concessione di incentivi ai datori di lavoro per l’incremento occupazionale e la concessione di una dote formativa come contributo all’adattamento delle competenze (Bando PARI) L’adesione ai bandi è stata discreta (1.297 domande pervenute e 628 ammesse). I soggetti neo-assunti sono stati in tutto 5.666 (di cui 2.116, pari al 36%, concentrati nella provincia del catanzarese). Si tratta nella maggior parte dei casi di soggetti rientranti nelle categorie svantaggiate (5.565) e solo in minima parte di soggetti diversamente abili (101). L’occupazione è stata creata nello specifico in aziende medio-grandi60. Tali risultati sono stati molto al di là delle aspettative iniziali e, pertanto, l’obiettivo programmato per il 2010 è quello di promuovere la creazione di altri 3000 nuovi posti di lavoro. Nel corso degli ultimi mesi (aprile-giugno2009), le linee di azione sono state aggiornate per essere meglio contestualizzate nello scenario attuale e, quindi, essere collegate alle problematiche scaturite dalla crisi internazionale. La programmazione relativa agli interventi sull’occupazione presenta, anche in questo caso come per le politiche sociali, quelli che sono stati definiti dal Dirigente di settore “due blocchi”: le 58 Il paragrafo è frutto delle osservazioni raccolte dalle interviste a: Dirigente di Settore e Dirigente di Servizio alle Politiche del Lavoro, Mercato del Lavoro POR asse III Risorse Umane, Vertenze – Ammortizzatori e Previdenza – Dipartimento 10 della Regione Calabria. 59 La rendicontazione della quale ha ricevuto proroga fino al 31 dicembre 2009. 60 Cfr. Programma Regionale “Sostegno all’incremento occupazionale” I primi risultati. Giugno 2009. Monitoraggio interno a cura del Dipartimento 10 – Settore lavoro.

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Politiche vere e proprie e le Azioni di sistema. In particolare, le Azioni di sistema sono state pensate come interventi volti a rafforzare il modello di governance e il processo stesso di attuazione delle politiche sui territori. In questo ambito si fa stringente la collaborazione inter-istituzionale tra regione e provincia attraverso la quale si sta lavorando61 alla possibilità di elaborare Piani triennali per l’occupazione. Il tentativo è quello di ampliare la sfera di azione delle province per farle passare da “una gestione ordinaria” delle politiche del lavoro verso una gestione più complessa e organica. Questo comporterà un’innovazione istituzionale nel senso di un ammodernamento dei servizi, del personale, degli strumenti, che certamente richiederà tempo per realizzarsi. A questo scopo, la Regione ha predisposto delle linee guida inviate alle province e un atto di indirizzo, i quali si collegano ai principi presenti nel POR e nella bozza di piano. Il “secondo blocco” della programmazione riguarda le Azioni operative che si concentrano soprattutto su due linee: 1) incentivi all’occupazione; 2) auto-impiego. La principale logica del Piano è quella, infatti, di tentare di creare un’integrazione tra le azioni a favore dell’occupazione e azioni che incoraggino lo sviluppo del mercato del lavoro stesso dal lato della domanda. Gli strumenti più importanti a sostegno di questi due macro-obiettivi sono di diversa natura, uno di questi è il cosiddetto “bonus assunzionale” che la Regione mette a disposizione dell’azienda attraverso una procedura pubblica (bando)62. Per coniugare manovra anticrisi e incentivi all’occupazione, la Regione ha adottato un meccanismo il base quale l’erogazione di tale bonus è concesso esclusivamente ad aziende solide che abbiano una buona prospettiva di investimenti occupazionali futuri; allo stesso tempo, vengono “premiate”63 quelle aziende che inseriscono al loro interno soggetti che sono stati licenziati a causa della crisi oppure lavoratori in cassa integrazione e mobilità. Questo meccanismo sta chiamando inevitabilmente in causa la necessità di una collaborazione forte tra i vari soggetti che si occupano di politiche del lavoro e, quindi, regione, province, CPI, INPS, associazioni di categoria e forze sociali, che «attraverso un lavoro serrato di concertazione – ormai consolidato ma non sempre facile» (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) si stanno muovendo per intervenire concretamente e strategicamente su uno dei principali nodi di rallentamento della Regione Calabria: il mercato del lavoro. L’obiettivo generale è, inoltre, dato il particolare momento storico, quello di riuscire a rispondere in maniera più incisiva alle difficoltà scaturite anche dalla crisi economica internazionale. Le linee guida generali sono rimaste le medesime ma è stato formulato un atto di indirizzo con il quale la Regione ha cercato appunto di “adeguarsi” al nuovo scenario. Un esempio è rappresentato dal fatto che per la prima volta i fondi comunitari sono utilizzati per finanziare ammortizzatori sociali ovvero risorse FSE destinate ai lavoratori di aziende in crisi attraverso le quali viene garantito loro un reddito e, allo stesso tempo, questi soggetti vengono inseriti in un sistema di politiche attive del lavoro. Questo progetto sta andando avanti con buoni risultati che hanno altresì accelerato i rapporti inter-istituzionali tra la Regione e l’INPS, le quali stanno lavorando

61 L’intervista avviene proprio nel periodo nel quale si stanno mettendo a punto i nuovi strumenti di programmazione. 62 La basa giuridica di questa procedura è il Regolamento 800 del 2008 che individua questo strumento del bonus a favore delle imprese. Attraverso questa misura nello scorso anno (2008) è stata creata nuova occupazione per circa 6 mila unità. 63 Ovvero ricevono una premialità.

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alla gestione integrata di archivi e procedure che possano facilitare la gestione del FSE a scopi lavorista-assistenziali64. Sulle misure destinate all’auto-impiego e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, la Regione ha predisposto delle linee di programmazione e di azione a favore di soggetti giovani che intendono avviare forme di imprenditorialità, sostegno all’inserimento occupazionale delle donne-mogli-madri e misure che incentivino l’imprenditoria femminile mediante azioni più incisive sull’orientamento ai possibili canali di finanziamento e al sistema creditizio. L’obiettivo finale è quello di giungere ad una legge regionale per le politiche di genere, di favorire certamente l’inserimento occupazionale delle donne in un mercato del lavoro regionale che le vede fortemente svantaggiate (tasso di occupazione femminile del 30% - Istat 2008), ma soprattutto quello di abbattere “i nodi della disuguaglianza” intervenendo per favorire un’uguale indipendenza economica tra uomini e donne; un’uguale partecipazione delle donne ai processi decisionali politici ed economici e per contrastare ogni forma o comportamento discriminatorio sul posto di lavoro a sfavore delle donne. Sul versante della Formazione professionale è stato formalizzato il primo Catalogo Regionale al quale il lavoratore o l’azienda destinataria dei voucher (o bonus) può attingere per acquistare un percorso formativo che si traduce in un PIAL (Piano Individuale di Avviamento al lavoro) nel caso in cui si tratti di un lavoratore già segnalato dai CPI per il quale si renda necessario un accompagnamento personalizzato. Anche la realizzazione dei PIAL è stata collegata alla manovra anticrisi. Attraverso un processo di concertazione che avviene a livello regionale tra imprese, parti sociali e funzionari di regione, vengono individuati i bacini occupazionali a rischio e indicati i potenziali percettori della misura di sostegno al reddito (lavoratori licenziati o disoccupati; lavoratori che hanno concluso la CIG, ecc ). Chiusa la fase di concertazione, l’elenco dei lavoratori proposto viene controllato dalla Regione mediante archivio INPS; successivamente la Regione finanzia l’INPS che eroga direttamente gli ammortizzatori sociali. Il lavoratore percettore “è obbligato” a recarsi presso il CPI e inserirsi in un percorso individuale di attivazione. Spesso il lavoratore segue una fase di Formazione o percorsi personalizzati di altre misura (Catalogo). In aggiunta a ciò, la manovra anticrisi (Bando Incentivi all’Occupazione) ha previsto, come anticipato sopra, di favorire concretamente l’opportunità occupazionale dei soggetti a rischio “invitando” le aziende a creare nuova occupazione attingendo prima di tutto da questo bacino di lavoratori a rischio. Dal punto di vista gestionale, i bandi per l’erogazione dei finanziamenti vengono tuttora gestiti a livello centrale dalla Regione; tuttavia nella gestione della manovra anticrisi e del pacchetto povertà, la parte attuativa è stata assegnata alle province. «Queste iniziano gradualmente ad essere soggetti istituzionali responsabili della gestione di misure di politica attive del lavoro» (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro). Nei piani triennali, predisposti tra regione e provincia e avviati a gennaio 2009, molte delle risorse erano state destinate anche al potenziamento della rete dei Servizi per l’impiego; tuttavia, nel giugno 2009, tale Piani sono stati revisionati sia per tenere conto degli effetti che la crisi stava avendo sul mercato del lavoro locale, sia per programmare misure più complesse che rispondessero alla nuova logica di programmazione (analisi del contesto; valutazione di impatto; risultati attesi; obiettivi specifici). Anche questa ha rappresentato un’occasione nuova per gli enti istituzionali (e di conseguenza per il

64 Questa alleanza viene descritta dal Dirigente come “un’assoluta novità”.

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personale addetto) per abbandonare il vecchio stile programmatorio, denso di indirizzi ma povero di fattibilità, e “rinnovare” il modus operandi. «Le province diventeranno sempre di più soggetti attuatori di politiche attive del lavoro, la Regione sta cercando di preparare il decentramento di funzioni e compiti mediante l’investimento di fondi strutturali a favore di un ammodernamento degli uffici provinciali che non dovranno solo occuparsi di “pratiche ordinarie” ma agire in funzioni di risultati e obiettivi prefissati nei piani di programmazione triennale.» (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro). Una cultura della progettazione che sta cercando di entrare, dunque, nelle amministrazioni pubbliche calabresi che si sono rese consapevoli e sembrano pronte a reagire a favore di un cambiamento. «Tale cambiamento nel modo di governare comporta un impegno costante e quotidiano da parte di questi due livelli istituzionali proprio perché non è facile sradicare vecchie abitudini e vecchi metodi». (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) A tale scopo è stato istituito un “tavolo permanente”, nel quale funzionari e dirigenti regionali e provinciali si confrontano sulla programmazione e sulle nuove procedure da adottare. E’ vero, tuttavia, che questa Regione, soffre ancora molto della mancanza di una cultura della cooperazione e della collaborazione (tra istituzioni ai diversi livelli ma anche tra istituzioni locali, imprese, cittadini e/o associazioni) così come è scarsamente diffuso il concetto di rete. «Accade spesso che è molto difficile riuscire a riunire gli interessi dei diversi attori in una regione nella quale spesso le problematiche individuali diventano l’unico parametro per misurare il proprio e l’altrui benessere». Inoltre, «si è diffusa una gestione informale dei rapporti» tra i livelli istituzionali per cui se un dirigente o un assessore del comune ha una necessità, contatta direttamente il referente che in Regione potrebbe risolverla. Questo approccio non è necessariamente negativo (se letto in termini di capitale sociale) ma è chiaro che in un contesto de-regolamentato come quello che caratterizza questa regione, gli atteggiamenti informali, i rapporti ad personam, non fanno altro che mantenere alta la differenziazione dei territori, sedimentare la frammentazione dei servizi e allontanare la realizzazione di un modello unitario di welfare. Pur riconoscendo che alcuni passi in avanti sono stati fati in materia di azioni volte ad incrementare l’occupabilità, la programmazione regionale in materia di lavoro si trova ancora in una fase che potremmo definire “intenzionale” ovvero è possibile registrare un ritardo già rispetto al nuovo ciclo di programmazione comunitario, iniziato idealmente nel 2007, e che solo da poco più di un anno sta assumendo le prime forme. Non si tratta anche in questo ambito, come in quello per le politiche sociali, di una carenza di regolamentazione, poiché nonostante manchi un piano formale per l’occupazione, tale mancanza è compensata da una serie di linee di azione, regolamenti, delibere, che manifestano un chiaro tentativo di intervenire concretamente e con strategia sulle questioni occupazionali e sullo sviluppo del mercato del lavoro locale. I ritardi che caratterizzano la Regione Calabria sono dovuti, secondo la Dirigente di settore, a questioni strutturali che rallentano di molto l’operato della Regione in direzione di un’innovazione delle politiche stesse: forte presenza di una logica assistenzialistica nei confronti, per esempio, degli oltre 15.000 lavoratori parastatali inserti in LSU, LPU, forestali65, ecc; alti tassi di disoccupazione giovanile e alti tassi di 65 7.000 LSU e LPU e 13.000 forestali. Ovvero ci sono 20.0000 persone che non sono stabilizzate. Una politica che nasceva come politica a favore dell’occupazione (come aiuto ad inserirsi nel mercato del lavoro) è diventata, nel corso dei suoi ormai 15 anni, una politica di assistenza.

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disoccupazione intellettuale (con conseguente fuga dei giovani neo-laureati verso altre regioni); diffusione di un sistema che non premia il merito (clienteralismo). Questi problemi, ai quali si aggiungono i consueti giochi di potere o i turn-over politici, contribuiscono a frenare il percorso di crescita delle capacità istituzionali e, di conseguenza, la formulazione di una strategia matura a favore dello sviluppo del territorio. «Purtroppo ancora oggi la Regione si trova a dover gestire politiche di emergenza che assorbono molte delle risorse disponibili traducendosi però in mero assistenzialismo… Laddove non c’è sviluppo di impresa, laddove non c’è occupabilità dei soggetti, rimane solo l’assistenzialismo… » (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) In un contesto caratterizzato da tali ostacoli, è chiaro che discutere di politiche attive per il lavoro diviene un tema secondario. Il problema che emerge chiaramente è che la Calabria soffre di una carenza di “domanda di lavoro”. Se le aziende non investono nel capitale umano66, se le aziende non promuovono occupazione qualificata, in una parola se non si capitalizzano, difficilmente le misure di valorizzazione dell’offerta di lavoro troveranno esito. «Intervenire sull’offerta del lavoro è certamente doveroso in una società della conoscenza ma è come intervenire su un falso problema dal momento che la forza lavoro qualificata calabrese è costretta a spostarsi per trovare un impiego coerente con il proprio percorso formativo o equamente retribuito in base al profilo ricoperto….» (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) «Basti pensare che in Calabria non esistono Agenzie interinali e non solo perché i canali informali sono da sempre il canale preferenziale per trovare il lavoro ma perché effettivamente non ci sono attività produttive o servizi che hanno bisogno di esse per reclutare lavoratori….» (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) 6.5 Considerazioni conclusive

Da questa prima ricognizione sul modello di programmazione regionale, possiamo concludere che in Calabria, forse più che in altre realtà, la materia lavoro è inevitabilmente e profondamente collegata alla questione sociale non solo perché l’occupazione è intesa come unica via a favore dell’autonomia della persona, ma anche perché può effettivamente preservare da un rischio di esclusione sociale e dalla moltiplicazioni di situazioni di emarginazione e povertà che già adesso riguardano il 27% della popolazione (Istat 2007). Come per le politiche sociali, anche per quelle occupazionali, la nuova stagione programmtoria, che mira ad introdurre strategie di attivazione del soggetto e ad investire sulla formazione individuale, sembra appena iniziata e i risultati cominciano solo lentamente ad affiorare. Questi, tuttavia, potranno risultare vani o reversibili se il processo di policy change e di innovazione riceverà di nuovo una battuta d’arresto. Il problema non è legato direttamente alla deregolamentazione (intesa come la mancanza di una quadro normativo unitario e coerente che pure ha penalizzato questa regione nell’ambito delle politiche sociali e del lavoro), quanto all’assenza, per troppo tempo, di una progettualità matura, consolidata e realmente collegata ad una strategia di sviluppo aderente alle esigenze locali. L’alta 66 Grazie ai numerosi incentivi (nazionali o comunitari) o a programmi di politica economica (fin dalla Cassa del mezzogiorno) le aziende calabresi sono tra quelle più dotate di attrezzature e impianti. Ciò che manca è una forza lavoro qualificata che utilizzi tali strumenti e che investa per esempio nei mercati internazionali.

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percentuale di disoccupazione e di inattività, i bassi redditi delle famiglie, la perdita delle fasce giovani e qualificate della popolazione, denunciano ancor più il ritardo di un sistema produttivo che non crea innovazione e la chiusura di un mercato del lavoro locale che si muove troppo spesso al confine tra legalità e illegalità. Il sistema di welfare, al cui centro sta ancora la famiglia e il suo ruolo di tutela dai rischi e di assistenza, mostra ancora una forte carenza nella dotazione territoriale di servizi, cui si contrappone l’abbondanza di strutture di cura tradizionali. Se, come abbiamo visto, si coglie il tentativo di superare un modello chiaramente sbilanciato a favore di politiche di tipo assistenziale, possiamo tuttavia osservare che non è ancora possibile per la Calabria riconoscere una fisionomia di welfare definita come avviene per molte altre regioni ed, in particolare, per le altre due regioni oggetto di ricerca: la Lombardia e la Toscana. Nel caso della Calabria il modello di welfare locale è, per usare un’espressione ben nota ma efficace, “un cantiere ancora aperto” che mostra alcuni segnali di cambiamento i quali tuttavia risentono inevitabilmente il peso di difficoltà socio-economiche strutturali consolidatesi nel tempo nonché di una atteggiamento culturale che guarda alle politiche sociali ancora come una fonte di sostegno economico e non di sistema. Una continuità gestionale e l’ausilio di sedi complementari, che superino le altalene politiche, potrebbero essere auspicabili quali garanzie verso l’implementazione di una riforma che, per le sue caratteristiche e per la forte path dependency che ancora dimostra, avrà certamente bisogno di diversi anni per potersi dire applicata (se non ancora compiuta). Una struttura stabile e visibile al territorio, quale può essere un Laboratorio di integrazione, potrebbe supportare un’organizzazione e una suddivisione delle competenze chiara e ponderata. Ovvero rispettare, da una parte, la dimensione verticale dei rapporti tra Regione ed autonomie locali (che in Calabria rappresenta ancora una nota dolente), e, dall’altra, favorire la governance locale mediante la compartecipazione dei diversi soggetti che gravitano attorno alle politiche sociali con l’obiettivo unico di costruire un sistema territoriale di welfare che sostiene la persona ad uscire attivamente da una situazioni dì disagio e di bisogno.

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Griglia 1: l’architettura istituzionale del sistema di politiche sociali, formative e del lavoro nella Regione Calabria

Ambiti di policy Fasi di policy

Minori Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

Rapporti istituzionali

Sussidiarietà verticale:

– La Regione svolge funzioni di indirizzo, programmazione, coordinamento mediante Piano Regionale degli interventi

– I Comuni concorrono alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi

Governance orizzontale

Sussidiarietà orizzontale:

Collaborazione tra enti locali (distretti socio-sanitari) e organismi non profit nella

fase di programmazione e gestione dei servizi socio-assistenziali

LR 28/2009 “Norme per la promozione e lo sviluppo della cooperazione sociale”

Programmazione

Tipicità del modello

Modello a gestione centralizzata con scarso decentramento di potere ai territori. Logica assistenziale.

Prevalenza di misure di politica passiva.

(da circa due anni, tuttavia, si registra la tendenza a costruire un modello di welfare condiviso con i territori,

attivante e integrato cfr. Piano Regionale)

Fondi Europei (FSE e FESR) Fonti di finanziamento

FNPS

FRPS

Fondi a carico dei Comuni e del Distretto socio-sanitario

Gestione

Strumenti di erogazione

Strutture socio-residenziali

Servizi

Borse lavoro, work experiences, voucher formativi

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Griglia 2 – Gli strumenti di programmazione e i livelli di competenza (Regione Calabria)

Ambiti di policy

Minori Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

Strumenti di programmazione

- POR FSE 2007-2013 LR 1/2004

“Politiche regionali per la famiglia”

Piano per le Pari Opportunità in Calabria (2007)

(Ufficio Regionale della Consigliera di Parità)

- Piano Regionale degli Interventi e dei Servizi Sociali e Indirizzi per la Definizione dei

Piani di Zona per il triennio 2007-2009

(DGR 364/2009)

- PAN 2008 e 2009

- Bozza di Piano per l’Occupazione

- Piano anticrisi (2009)

- LR 34/2002 e LR 1/2006 (Delega alle Province in materia

di formazione)

- Piano Regionale per le Risorse Umane per il periodo 2009-2010

Progetto Integrato di Sviluppo Regionale “Rafforzare i Diritti dei

Minori”

- Piano degli interventi a sostegno delle situazioni di povertà

(art. 5 LR 15/2008)

- Progetto Integrato di

Sviluppo Regionale

“Sostenere e Migliorare le

Condizioni di Vita delle Persone Svantaggiate”.

- Programma di interventi di assistenza

domiciliare (aiuto domestico e cura

della persona, preparazione) per occupare donne in

condizioni disagiate

Piano di finanziamento nidi d’infanzia comunali e nidi-infanzia aziendali

(5 milioni su fondi FESR)

- Catalogo Regionale dell’Offerta Formativa

- Riqualificazione dei Centri per l’Impiego

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- Pacchetti Integrati di Agevolazione (e rispettivi Piani di Formazione Aziendale

Livello istituzionale di competenza

Dipartimento “Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato”

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7. Il sistema di governance nella programmazione sociale del Distretto lametino67

Premessa.

Il Comune di Lamezia Terme rappresenta un caso di studio interessante perché mostra una serie di caratteristiche che riproducono il modello di welfare calabrese. Diviso tra una profonda arretratezza del sistema produttivo e una conformazione socio-demografica e socio-economica tale da accrescere la domanda di servizi socio-assistenziali, il territorio del distretto lametino68 ha avviato, negli ultimi anni, un processo di innovazione che, riguardando prima di tutto l’assetto politico-istituzionale (riorganizzazione dei ruoli e delle competenze), ha cercato di impattare sul livello gestionale e operativo (dotazione di nuovi strumenti e dispositivi di programmazione locale)69. Un passo importante per dare nuovo ordine all’azione di governo è stata la Riforma organizzativa intervenuta e ultimata nel 2007,70 attraverso la quale è stata superata la suddivisione delle competenze per Dipartimenti e realizzata una suddivisione delle attività politiche per macro-aree tematiche. Tale suddivisione ha avuto lo scopo di garantire una maggiore omogeneità tra le aree e consentire una propedeuticità alle azioni del governo locale (per esempio nell’Area Servizi alla persona sono compresi tutti gli interventi che hanno come finalità favorire il miglioramento delle condizioni di vita - dalla scuola, allo sport, al tempo libero ma anche alla lotta alla povertà e all’emarginazione nonché misure di sostegno alle famiglie e alle altre categorie di soggetti svantaggiati -; analogamente, le misure di politica attiva del lavoro rientrano nell’Area Attività produttive nella quale, oltre alle opportunità di investimento offerte da misure economiche come gli incentivi all’auto-imprenditorialità o la recentissima misura del microcredito imprenditoriale, sono previsti anche interventi rivolti alle fasce più deboli e a favorire il loro ingresso nel mercato del lavoro (orientamento ai giovani; incentivi all’occupazione e microcredito di solidarietà – per famiglie, giovani, donne e lavoratori atipici). Per quanto riguarda il settore delle Politiche sociali, il Comune di Lamezia Terme, a partire in particolare dal 2000, ha avviato una serie di iniziative rivolte alle diverse categorie sociali (immigrai, giovani, donne, disabili) per la fornitura di una nuova tipologia di servizi (o a consolidamento di quelli già esistenti) stringendo rapporti sempre più regolari con il tessuto associativo locale. Rispetto alle politiche del lavoro, come si avrà modo di approfondire più avanti, ci si trova di fronte ad una situazione, anche in questo caso riproduttiva del contesto regionale, nella quale parlare di politiche attive sembra “prematuro” o comunque non 67 di Caterina Cortese

68 Il Distretto socio-sanitario comprende 11 comuni ma il Piano sociale ha contato l’adesione di 10 Comuni (Lamezia Terme, comune capofila; Cortale; Curinga; Falerna; Feroleto Antico; Gizzeria; Iacurso; Maida; Nocera Terinese; Pianopoli)

69 Anche in questo caso è opportuno segnalare che il Comune di Lamezia Terme è stato interessato da elezioni comunali 2010 le quali, a seguito di un ballottaggio, hanno confermato la candidatura del sindaco uscente.

70 DGC n.253 del 27.04.2006 e successive modifiche.

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incisivo rispetto ad una serie di problematiche che pongono i cittadini in una situazione di povertà e disagio tale da non consentirne l’attivazione.

7.1. La programmazione delle politiche sociali (famiglia, minori, povertà).

Nello scenario Calabrese, il Comune di Lamezia rappresenta un caso abbastanza avanzato in quanto ha dimostrato, nel corso degli anni, una capacità di sperimentare forme innovative di programmazione e gestione dei servizi socio-assistenziali. Il territorio è caratterizzato, inoltre, da una presenza ricca di organizzazioni del terzo settore che ha spesso fornito un utile impulso alla definizione di un’offerta formativa coerente con i bisogni del territorio ma, allo stesso tempo, ha reso necessario per l’amministrazione locale gestirne il proliferarsi e l’eterogeneità. Le esperienze di collaborazione si sono via via strutturate fino alla realizzazione, nel 2008, di un portale telematico “Lamezia non profit. Il portale del Terzo settore a Lamezia” attraverso il quale sono state, in prospettiva del Piano di zona, censite le diverse realtà non profit disperse sul territorio (spesso troppo variegate e sommerse) e, quindi, presentate sul portale (oggi sono presenti circa 300 enti tra associazioni, cooperative e organizzazioni di volontariato operanti sul territorio di Lamezia Terme). Aldilà di questo network virtuale, il Portale rappresenta un punto di riferimento per gli utenti (informazioni e comunicazioni aggiornate) nonché un modo per conoscere i progetti integrati tra l’assessorato alle politiche sociali del Comune di Lamezia Terme e le associazioni e tra queste e l’Azienda Sanitaria Provinciale. Queste ed altre sperimentazioni cercavano di sopperire alla mancanza di regolamentazione regionale poiché, dopo l’approvazione della LR 23/2003, non era seguita una fase di programmazione vera e propria che dettasse le linee guida ai territori. In assenza di un quadro normativo regionale e di una linea di programmazione definita, si è assistito infatti ad una sorta di inversione di tendenza e, come nel caso di Lamezia, il territorio si è riappropriato della sua legittima funzione di programmazione dei servizi socio-assistenziali. In questo caso, quindi, si assiste ad un’inversione di tendenza per cui il Comune ha anticipato le indicazioni del livello regionale non senza provocare preoccupazione e e diffidenza da parte dell’apparato politico-istituzionale regionale. Il distretto si è avvalso tuttavia della collaborazione del gruppo tecnico del Dipartimento X – Dipartimento “Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato” – svolgendo con esso i lavori di preparazione e ottenendo, di volta in volta, “l’autorizzazione a procedere”. La fase di programmazione è durata circa due anni (2006-2008) e, come anticipato sopra, il Comune di Lamezia Terme (in qualità di comune capofila del Distretto socio-sanitario) ha dato il via ad un processo di programmazione sociale che prende forma con l’approvazione del Piano Sperimentale di Zona del Lametino71 e che, rapportato allo scenario regionale, rappresenta una vero caso di innovazione istituzionale72. Le componenti che fanno guardare ad esso come ad un “modello vincente” sono: la forte 71 Prima di questa dizione, il piano sociale locale era stato definito come “piano sperimentale distrettuale” proprio a causa della mancanza del Piano regionale.

72 Anche gli altri ambiti territoriali calabresi si stanno dotando di un piano di zona ma la differenza sta nel fatto che, rispetto a coloro che stanno iniziando a programmare adesso, il contesto lamentino ha avviato i lavori già da qualche anno trovandosi quindi preparato e avvantaggiato di fronte alla richiesta regionale.

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volontà politica, rappresentata dall’Assessore alle Politiche sociali e dal gruppo tecnico dell’Area Servizi alla persona del comune, i quali, mossi dalla determinazione a voler intervenire significativamente sul territorio, si sono fatti animatori e hanno guidato i lavori di pianificazione sociale riuscendo a coinvolgere gli altri comuni dell’ambito e a dare forma ad una concertazione territoriale concreta (secondo elemento di forza). Tale prassi è subentrata infatti ad un tipo di azione politica “distorta” e inefficiente, tipicamente diffusa nei territori calabresi nei quali sono state spesso realizzate politiche rispondenti a logiche di tipo assistenziale-clienterale piuttosto che coerenti con le deficienze strutturali dell’area o della composizione della domanda sociale. Altro elemento di forza del piano sociale lametino è rappresentato dalla volontà di realizzare quel processo di decentramento della programmazione e gestione dei servizi sociali (riappropriazione delle funzioni territoriali) che nel contesto calabrese ha sempre stentato a realizzarsi. Emerge, infatti, una tendenza del livello regionale a mantenere accentrate la maggior parte delle attività, inandempiendo al principio della sussidiarietà verticale e orizzontale. Rispetto a ciò naturalmente le visioni sono divise tra due parti: dal punto di vista regionale, i territori non sono ritenuti pronti ad adempiere ai compiti istituzionali previsti dalla normativa (e questo è in parte vero visto che i parametri di sottosviluppo economico e occupazionale che caratterizzano alcune aree territoriali fanno da specchio a gravi incapacità amministrative o a violazioni dell’interesse collettivo); dall’altra parte, quei territori più dinamici e ambiziosi vedono nell’accentramento regionale un abuso istituzionale che provoca ritardi, approssimazioni nel modo di concepire le politiche e mancanza di dispositivi adeguati alla gestione dei servizi in chiave innovativa. Per dare corpo alla programmazione così caratterizzata, sono stati formalmente costituiti la Conferenza dei Sindaci e il Gruppo di piano73, quest’ultimo formato sia da referenti politici che da figure tecniche proprio perché vi era fin dall’inizio l’intenzione di strutturare un piano fattibile e molto vicino al territorio. I tavoli di co-progettazione, organizzati per area tematica (Famiglia – minori – anziani – disabili)74, sono stati a composizione mista e hanno coinvolto tutti gli attori del TS. Propedeuticamente era stato realizzato il portale “Lamezia non profit” proprio per censire tutte le organizzazioni attive sul territorio, per identificare le risorse presenti e, quindi, identificare i contributi che ciascuna associazione o cooperativa poteva dare nella gestione dei servizi75. Rispetto alla gestione dei servizi, ciò che emerge è che c’è, da parte del comune, una forte tendenza ad esternalizzare (tramite gara pubblica) sia per le scarse risorse (economiche e di organico), sia per adempiere a quanto previsto e dalla normativa nazionale e da quella regionale sulla collaborazione con i soggetti di utilità sociale. Come viene però anche chiarito dalla Responsabile dell’Area Servizi alla persona «la collaborazione che si sta cercando di strutturare con le organizzazioni del terzo settore 73 Secondo la procedura prevista dalla LR 23/2003.

74 Si tratta delle quattro aree sulle quali la Regione ha destinato i finanziamenti.

75 La realizzazione di una sorta di “censimento” del non profit nel lamentino nasce anche dall’esigenza di conoscere la reale portata del fenomeno che soprattutto negli ultimi anni aveva dimostrato particolari segni di fermento con il rischio di determinare però una sovrapposizione di presenze e servizi. Lo scopo è stato inoltre quello di correggere uno dei limiti di questo tessuto associativo ovvero la mancanza di capacità di fare rete nonché evitare la dispersione delle risorse pubbliche.

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può contribuire a legittimare il lavoro dell’operatore sociale e incrementare l’occupazione nell’ambito dei servizi alla persona». Mancando a livello regionale un’analisi statistica di carattere socio-economico, la premessa alla stesura del piano di zona è stata un’analisi dei fabbisogni realizzata durante i tavoli tematici avvalendosi dei dati disponibili a livello comunale e mediante i contributi conoscitivi offerti dalle singole associazioni. La partecipazione del TS e della società civile è stata ampia (hanno partecipato circa 300 organizzazioni) e la discussione ha avuto carattere consultivo finalizzato a creare un consenso sulla definizione degli interventi. Da questo lavoro di gruppo è emerso che la suddivisione della programmazione sociale per aree tematiche, nonostante faciliti certamente il lavoro anche da un punto di vista organizzativo, non è più adeguata per rispondere alla nuova conformazione della domanda sociale che rende necessario pensare i servizi con una logica innovativa e trasversale. Dalla lettura del PdZ emergono sostanzialmente due principi che guidano la programmazione e le realizzazione dei servizi: la domiciliarità, in sostituzione, laddove possibile, della istituzionalizzazione dell’utente (sia questi anziano, minore o disabile) che, fino ad adesso, ha rappresentato la via principale di assistenza alle fasce di popolazione più a rischio e la copertura territoriale dei servizi, che cerca di sopperire ai vuoti strutturali che caratterizzano soprattutto i piccoli centri urbani o i comuni dell’entroterra. Una delle criticità emerse dalla discussione concertata e dall’analisi di contesto svolte in preparazione del Pdz è, infatti, la povertà in termini di strutture e risorse destinate ai servizi sociali nei comuni con meno di 1000 abitanti. Questa consapevolezza ha reso necessario “ripensare” e razionalizzazione i sevizi sul territorio.

7.2. La progettazione nell’offerta dei servizi socio-assistenziali.

Alla luce delle difficoltà descritte sopra, uno dei primi obiettivi del PdZ è stata la realizzazione, in quasi tutte le sedi comunali, di un Segretariato sociale76. Sulla base di una proposta avanzata in sede di concertazione (tavoli tematici), il servizio è stato pensato su tre livelli d’azione: 1) Prima accoglienza dell’utente e orientamento ai servizi (Porta Unica di Accesso) con uno sportello attivo in tutti i comuni77; 2) Poli di integrazione tra servizio sociale e risorse presenti nel territorio (attivazione di tre sportelli dislocati strategicamente per poter garantire al copertura della domanda); 3) Unità di Valutazione Multidisciplinare che cerca di offrire una risposta personalizzata all’utente che si è rivolto al Segretariato e di definire una strategia di intervento anche in sinergia con la assistenza sanitaria ove necessaria78. L’obiettivo è quello di “portare il servizio a casa dell’utente”.Il comune di Lamezia non può ancora fare da ente gestore dei servizi (non ha il budget necessario né il personale sufficiente per poterlo fare) e

76 Al momento dell’intervista, il bando per l’affidamento del servizio risulta pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

77 Il progetto è stato co-finanziato da tutti i Comuni (ad esclusione del comune di Feroneto).

78 Non c’è ancora una buona integrazione socio-sanitaria.

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quindi esternalizza i servizi attraverso bandi79 (concorso d’appalti) che non si basano sul principio “dell’offerta al ribasso” ma sul requisito fondamentale della “qualità del servizio offerto”. Rispetto al bando presentato per l’affidamento del Segretariato sociale è stato fatto un tentativo di favorire l’appaltamento di quelle realtà associative che occupano al loro interno operatori sociali residenti in tutti i comuni del Distretto (ovvero tra i criteri di valutazione ottiene maggiore punteggio quella associazione o cooperativa che riesce ad occupare personale che proviene da tutti i comuni del Distretto) (si tratta di una attenzione per favorire l’occupazione e spingere verso il riconoscimento del lavoro sociale).

79 Non esiste ancora un albo degli enti accreditati in quanto la regione non ha legiferato sui requisiti dell’accreditamento.

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Per quanto riguarda le politiche destinate all’area anziani, si deve premettere che il territorio lamentino ha una popolazione relativamente giovane (secondo le rilevazioni Istat 2006 l’indice di vecchiaia a Lamezia Terme è il 16%) mentre gli ultra 75enni rappresentano, nell’intero territorio del distretto, il 47,9% della popolazione residente. Si assiste negli ultimi anni però ad un graduale aumento dell’età media di vita e della non-autosufficienza degli anziani. Rispetto a questo quadro socio-anagrafico, la necessità è, come si anticipava prima, quella di favorire la domiciliarità dell’intervento e alleggerire le famiglie dal lavoro di cura. Si cerca quindi di superare “la gestione ospedalocentrica” dell’anziano malato o disabile per favorire una permanenza assistita nel suo contesto di vita attraverso l’ADI (assistenza domiciliare protetta) e la gestione delle RSA in collaborazione con l’Azienda Sanitaria Provinciale. Rispetto agli interventi destinati alla famiglia l’attenzione è particolarmente rivolta a diffondere i servizi su tutto il territorio potenziando in particolare la mediazione familiare con incontri protetti per i quali, al momento, non vi sono strutture adeguate (luoghi fisici). Nel territorio del lamentino sono particolarmente rilevanti infatti i casi di abbandono di minori o di affidamento a case famiglie ma non ci sono strutture idonee per favorire un accompagnamento alle responsabilità familiarità dei genitori non affidatari. Gli obiettivi emersi dal tavolo tematico riguardano quindi la realizzazione di attività di sostegno alle relazioni genitori-figli, informazione dell’offerta dei servizi offerte alla famiglia (tempo libero, servizi sanitari, scolastici e para-scolastici, ecc), consulenza legale rivolta alle famiglie. Per quanto riguarda le politiche destinate ai minori, l’impegno è quello di combattere il disagio giovanile (primi fra tutti abbandono scolastico, devianza, micro-criminalità giovanile) attraverso “servizi leggeri” come le Ludoteche (se ne prevede l’apertura di sei nuove sedi) o mediante un supporto più incisivo al nucleo familiare con l’intervento di un operatore sociale domiciliare. Sull’area disabili si propone di nuovo il tentativo di de-istituzionalizzare la persona ed inserirla nei Centri diurni per disabili mentali quale struttura di accoglienza guidata da personale esperto. Sulle aree di intervento non finanziate direttamente dalla Regione, il Comune di Lamezia Terme ha realizzato dei servizi, per esempio per gli immigrati, in quei comuni dove c’è un’alta concentrazione di popolazione straniera quali uno Sportello informativoo, una Casa di accoglienza per i rifugiati (Progetto SPRAR) nella quale al momento risiedono 15 nigeriani (esiliati politici). Si tratta di un progetto co-finanziato anche dal Ministero degli interni e dalla cooperative di TS che si occupano di immigrati. Accanto a questa breve rassegna dei servizi programmati in sede di Piano sociale, ci sono altri interventi direttamente finanziati dai fondi comunali che hanno un carattere più assistenziale “vecchia maniera” (trasferimenti monetari). E’ opportuno precisare che in un contesto socio-economico come quello descritto nella presentazione dello studio di caso (alti tassi di disoccupazione e povertà, nuclei familiari fragili, domanda di lavoro debole soprattutto per alte qualifiche – disoccupazione intellettuale) il sostegno monetario ha ancora una funzione molto forte. Come si avrà modo di spiegare ancor di più nel paragrafo dedicato alle politiche del lavoro, le carenze strutturali del mercato del lavoro locale, abbinate a forme di assistenzialismo di lunga durata, contribuiscono al perdurare nella potenziale utenza dei servizi sociali di una “cultura dell’assistenza” come leva principale di sostegno. In un contesto dove “sembra” mancare tutto e dove purtroppo si registra uno scarso dinamismo prima di tutto in termini di investimenti strategici e funzionali alla crescita economica e culturale, “il sussidio” viene considerato

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l’unica ancora possibile per garantirsi non una sussistenza (fruizione di beni primari) ma una sopravvivenza (spesa per consumi) (effetto perverso dell’assistenza). Tra le misure di assistenza passiva direttamente erogati dal Comune vi sono: Sostegno economico (Assegno di maternità per madri non trattate da INPS; Assegno integrativo per nuclei con più di tre figli; Assistenza economica pere situazione di emergenza e povertà grave; Esenzione mense scolastiche e trasporti per minori con handicap; Buoni pasto per famiglie indigenti; Pronto cassa; assistenza economica straordinaria (contributo per spese funerarie, rimborso spese viaggi per motivi sanitari); assistenza abitativa (due mensilità di affitto). Il nuovo metodo della programmazione a livello distrettuale rappresenta certamente un’innovazione importante nel contesto calabrese non solo perché introduce principi e logiche che rompono con la tradizionale prassi di concepire le politiche sociali (assistenza ed emergenza), ma anche perché introduce e spinge i comuni verso una collaborazione inter ed extra-istituzionale che, in un contesto come quello calabrese caratterizzato da isolamento amministrativo e da una propensione a curare esclusivamente il proprio micro-territorio, rappresenta un tentativo di costruire una nuova cultura della progettazione abbinata ad una concezione avanzata delle politiche sociali pensate ormai in termini di servizi e non più di assistenza passiva. Manca comunque ancora una cultura dell’integrazione (per esempio tra assessorato alle politiche sociale e politiche del lavoro) che solo di recente, mediante il nuovo progetto del Microcredito, si sta cercando di creare.

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Tab. 3 - Ripartizione fondi per area di intervento, Annualità 2009

Area d’intervento

Servizio Fondo Regionale per le Politiche sociali

Fondi a carico dei Comuni e del Distretto socio-sanitario *

Area Trasversale

Servizio di Segretariato sociale di I e II livello

Unità Valutativa Multidiciplinare

108.393,06

Anziani

Servizio di Assistenza Domiciliare Integrata

487.662,14

Centro servizi per la famiglia

84.616,69

Famiglia

Sportello per la Famiglia

10.000

Servizio domiciliare di sostegno al minore ed alla famiglia in difficoltà

97.388,55

Tirocini Formativi 77.304,35

Minori

Servizi di Ludoteca 67.886,23

Disabili Assistenza domiciliare e servizio di aiuto alla persona 166.176,29

Tot.

981.034,25

118.393,06

* I Comuni del Distretto partecipano con un co-finanziamento nella misura dell’11% con risorse finanziarie, e con altre risorse strutturali, strumentali e umane

Fonte: Piano Distrettuale Sperimentale nel Lamentino – Novembre 2009

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7.3. La programmazione delle politiche del lavoro e per le pari opportunità.

La principale linea di programmazione in materia di politiche del lavoro è rappresentata dal POR FSE e dal POR FESR 2007-2013. Di recente è stato firmato tra Regione Calabria e Comune di Lamezia un Protocollo di Intesa attraverso il quale è stato predisposto un Piano per lo Sviluppo Locale. Nell’ambito del Comune lamentino, le materia Lavoro è affidata all’Assessorato allo Sviluppo e Programmazione Economica. E’ inserita, quindi, all’interno di un ambito di policy che cerca di intervenire in maniera decisiva sulla domanda di lavoro cercando di svilupparne il potenziale economico non solo in termini di crescita ma anche di occupazione. L’abbinamento dell’Assessorato sembra opportuno se si considera che una delle più grandi difficoltà della regione Calabria, così come del territorio di Lamezia Terme, è quella di creare nuovi posti lavoro. Un esempio abbastanza rappresentativo delle difficoltà che la regione Calabria si trova a dover affrontare, prima ancora di potersi occupare di politiche attive del lavoro, è la presenza di circa 7000 Lavoratori Socialmente Utili e Lavoratori di Pubblica Utilità che, inseriti sul finire degli anni Novanta mediante questi istituti di “lavoro temporaneo” (massimo18 mesi), sono stati di anno in anno confermati e attendono ancora oggi di essere stabilizzati. Questi rappresentano una voce di spesa che incide notevolmente sul bilancio pubblico (anche regionale) riducendo, di conseguenza, le risorse da poter investire per atri target di cittadini (per esempio i giovani disoccupati). Di fronte ad una tale situazione (appunto emblematica), le politiche del lavoro vengono in qualche modo fuorviate o, comunque, costrette a convivere con questo tipo di situazioni. «Molte risorse pubbliche vengono assorbite da questa forza lavoro ed è come, quindi, se le politiche del lavoro fossero indietro di un paio di generazioni (trattandosi ormai di persone appartenenti alla fascia di età 45-55). Si è creato una sorta di circolo vizioso tale per cui lo spazio e l’attenzione per le giovani generazioni che devono inserirsi nel mondo del lavoro viene così a mancare» (Assessore). Il mercato del lavoro locale si presenta inoltre povero (in termini di qualifiche impiegate) e poco dinamico, colpito da alti tassi di inattività e di disoccupazione, soprattutto la cosiddetta disoccupazione intellettuale. Queste tendenze sono generate anche dalla conformazione delle imprese presenti sul territorio: si tratta infatti di micro-imprese (spesso anche di ditte individuali) attive nei settori dell’agro-alimentare, dell’arredamento, del manifatturiero tradizionale, la cui domanda di lavoro si rivolge principalmente a figure di bassa-media qualifica. Si tratta inoltre di settori saturi e che subiscono una concorrenza internazionale che non sono preparati ad affrontare. Gli effetti della globalizzazione, dell’apertura dei mercati o della stessa congiuntura economica sfavorevole intercorsa a partire dalla fine del 2008, non hanno fatto altro che aggravare una situazione che anche “autonomamente” soffriva di una grave crisi occupazionali e di una crescita molto rallentata. Lamezia Terme è stata dichiarata, a partire dal 1 gennaio 2009, Zona Franca Urbana (ZFU) 80 ovvero una zona con un Indice di Disagio Economico (IDS) tale da rendere indispensabile anche l’intervento economico del Ministero dello Sviluppo Economico

80 L’altra città calabrese candidata ad essere riconosciuta ZFU era Crotone.

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per contrastare i fenomeni di esclusione sociale e favorire l’integrazione sociale e culturale delle popolazioni residenti81. Alla peculiarità del contesto calabrese corrisponde, quindi, una peculiarità delle politiche portate avanti dall’attore locale. In questo scenario, infatti, parlare di politiche attive del lavoro è quasi “inadeguato” nel senso che, data una serie di ostacoli strutturali all’occupazione, la politica è costretta ad intervenire prima di tutto sul superamento di quelle situazioni di disagio estremo che impedirebbero comunque al soggetto di attivarsi (come si diceva prima la mancanza del lavoro fa da specchio ad sistema produttivo bloccato; la cultura dominante del disoccupato è quella di “aspettare un aiuto”; il circuito formativo non è adatto a garantire un impiego; l’appartenenza a nuclei familiari ampi monoreddito o a reddito basso precludono una serie di attività e di consumi che potrebbero facilitare la vita relazionale del soggetto; le occasioni di lavoro sommerso divengono appetibili perché generano un guadagno veloce per il lavoratore e un basso costo per il datore di lavoro, ma concorrono a dequalificare il mercato del lavoro locale; etc…) Un altro esempio emblematico di mancato sviluppo è rappresentato dal “fallimento” di un progetto di politica attiva del lavoro recentemente promosso dall’assessorato (Impresa Giovane) che si poneva come obiettivo proprio quello di avvicinare il mondo universitario a quello produttivo promuovendo l’inserimento di giovani neo-laureati nelle imprese locali. Queste avrebbero ricevuto sgravi fiscali se avessero accolto nuova forza lavoro, per almeno un anno, nei settori della ricerca e dell’innovazione. Purtroppo, a differenza della forte partecipazione avuta dai giovani in cerca di lavoro, non è corrisposta una disponibilità delle aziende ad aderire al progetto il quale, di fatto, ha mancato i suoi obiettivi. Un altro progetto di natura sperimentale e innovativa, è stato quello volto ad offrire a giovani laureati stage retribuiti presso aziende dislocate al di fuori del contesto regionale (selezionate con appositi accordi) con l’obiettivo di specializzarsi e poi rientrare nel paese d’origine per trasferire le competetene apprese. Anche in questo caso l’adesione è stata scarsa e questa volta lo è stata da parte dell’offerta di lavoro. Si ripresenta un circolo vizioso per cui le imprese non investono e non creano lavoro e molti giovani sono costretti (se non vogliono spostarsi) ad accettare lavori sotto-qualifcati, concorrendo in entrambi i casi ad abbassare la qualità del mercato del lavoro locale (sotto-capitalizzazione). In questo scenario, uno degli obiettivi principali dell’Assessorato alle attività produttive è stato in questi anni, anziché quello di rincorrere il buon lavoro, quello di “creare le condizioni per l’occupabilità” sia sul versante della domanda che su quello dell’offerta. Il problema infatti non è rappresentato dalla nascita di nuove imprese, poiché in Calabria il tasso di natalità delle imprese è mediamente buono, quanto quello di stimolare la nascita di imprese che creino realmente crescita e occupazione. Purtroppo l’auto-imprenditoria è stata spesso vista in questo contesto come un’alternativa alla disoccupazione e i numerosi incentivi creati a favore di essa hanno generato spesso una “imprenditoria stagnante” che non ha contribuito a creare una

81 La legge 27/12/2006 n.296 n(Legge finanziaria 2007)all’art.1,commi 34° e segg.,nel testo modificato dalla legge 24/12/2007 n.244 (Legge finanziaria 2008) ,istituisce nello stato di previsione del Ministero dello Sviluppo Economico un apposito fondo con una dotazione di 5° milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009:fondo destinato al finanziamento di incentivi ed agevolazioni fiscali e o previdenziali a favore delle nuove attività economiche iniziate, a partire dal 1° gennaio 2008, dalle piccole e micro imprese nelle ZFU.

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crescita economica del sistema locale né un incremento dell’occupazione, soprattutto in settori trainanti dell’economia (ICT, internazionalizzazione o anche artigianato specializzato). Constatata infatti la difficoltà delle imprese locali di creare nuovi posti di lavoro (tanto più nel campo della ricerca e dell’innovazione), il tentativo è stato sia quello di orientare la formazione di nuove imprese in alcuni settori nei quali, da apposite indagini, sono risultati poco presenti sul territorio; sia quello di intervenire sull’offerta, cercando di promuovere forme strategiche di inserimento occupazionale puntando prima di tutto “sull’orientamento alle professioni e al percorso di studio” (orientamento a partire dalle scuole medie e medie superiori). Spesso infatti c’è un forte scollamento tra i titoli di studio conseguiti e le reali capacità di assorbimento delle imprese di forza lavoro specializzata. E’ stata organizzato, in via sperimentale, il “Salone dell’orientamento” quale momento di incontro e approfondimento cui sono stati invitati tutti gli attori collegati alla filiera formativa e alle tematiche del lavoro per favorire uno scambio di informazione rispetto alle opportunità di studio e di lavoro. L’Informagiovani è stato trasformato in “Servizio Nuova Impresa” presso il quale gli utenti possono avere informazioni e assistenza rispetto alle opportunità di finanziamento sia nazionali che europei. Tra le misure a metà strada tra l’assistenziale e il lavoro, il Comune di Lamezia Terme ha attivato da circa sei mesi i programmi di Borse lavoro per giovani neolaureati (ovvero un inserimento lavorativo presso aziende locali o presso lo stesso Comune retribuito con 350 euro al mese per un massimo di 8 mesi a 25h settimanali). Un altro progetto (non ancora attivo) prevede Borse lavoro per disabili con un inserimento individualizzato guidato da tutors della Cooperativa sociale che si aggiudicherà il servizio. Un’altra misura nuova nel panorama locale è il progetto Microcredito (attivato da Giugno 2009) che si muove su una duplice linea di finanziamento (sull’esempio del progetto regionale per il Microcredito coordinato da una Fondazione regionale): microcredito alle famiglie e microcredito per lo start up d’ impresa. Altre iniziative sono il Prestito d’onore, erogato dalla Regione Calabria; Impresa DONNA e altri progetti ai quali il Comune sta lavorando. Inoltre alcune aziende dell’area del distretto stanno partecipando ai bandi regionali per usufruire degli incentivi messi a disposizione quali per esempio i voucher alla persona per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; l’avvio di iniziative di auto impiego in forma di lavoro autonomo nei nuovi bacini di impiego; i finanziamenti per le PMI da destinare alle attività formative per i propri dipendenti, ecc Nonostante le iniziative, quello che però emerge durante le interviste è uno scarso impatto di tali politiche, soprattutto perché si scontrano con un tessuto culturale ostico. Dunque, il tentativo promosso dalle politiche del lavoro del comune di Lamezia Terme è stato quello “dotare il territorio di occasioni e di strumenti” per portare i soggetti a muoversi meglio sul mercato del lavoro; le azioni sono state rivolte principalmente ai giovani e alle donne, da una parte, e alle imprese, che, tuttavia, non hanno sempre partecipato alle iniziative innovative proposte. Proponendo una sintetica conclusione, è possibile constatare come sia in corso a Lamezia Terme un processo di adeguamento ai nuovi modelli di programmazione, tanto nel settore delle politiche sociali quanto, pur nelle difficoltà descritte, nelle politiche del lavoro. Si assiste ad un tentativo di dotarsi degli strumenti idonei a progettare ed intervenire sul territorio ponendo al centro del sistema la persona-cittadino ed i suoi

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bisogni; così come è avviata la diffusione della pratica della concertazione territoriale che cerca di legittimare e regolarizzare la presenza di un terzo settore vivo. Una delle principali lacune che, tuttavia, rimane è la scarsità di informazioni socio-economiche puntuali e aggiornate rispetto al contesto locale. Questa scarsa propensione degli uffici a rilevare il dato, ha comportato automaticamente una conoscenza approssimativa di alcuni fenomeni e, quindi, una programmazione politica meno aderente alle reali necessità territoriali. Queste carenze, unite ad una situazione politica non sempre trasparente e ad una classe dirigente che orienta spesso le proprie scelte verso il raggiungimento di vantaggi particolaristici piuttosto che verso il perseguimento di un bene collettivo, impediscono ancora oggi di guardare con troppa fiducia ai cambiamenti che pure stanno interessando questa zona e potrebbero prefigurare un rinnovamento del welfare locale al contempo significativo ma faticoso.

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Parte IV

Conclusioni82

Le sfide della riforma territoriale del welfare e dell’integrazione tra le politiche

8.1 Linee di confronto tra Lombardia, Toscana e Calabria Mettendo a confronto le tre regioni considerate nel corso della presente ricerca, è interessante evidenziare alcuni aspetti di convergenza che riguardano le trasformazioni del welfare non solo in Italia. Tali direttrici, che abbiamo voluto identificare sinteticamente con tre termini: attivazione, rescaling, governance, riguardano oggi un po’ tutti i contesti europei, ma con traduzioni e significati molto diversi tra loro. Se di convergenza si può parlare, essa ha a che fare con l’identificazione di obbiettivi comuni che le politiche di welfare trasversalmente da stato a stato dovrebbero perseguire. Gli strumenti e i percorsi di riforma attraverso i quali approdare a quel nuovo genere di politiche sociali “abilitanti” che abbiamo messo in evidenza all’inizio, rimangono differenti tra loro, essendo il risultato di spinte all’innovazione e di influenze sociali, istituzionali, che in ogni paese si riverberano sul tipo di politiche. In questo lavoro non ci siamo occupati dei mutamenti dei welfare europei. Ma a ben vedere questo ragionamento che abbiamo appena svolto vale anche per le regioni che abbiamo studiato in un contesto come quello italiano, da anni sottoposto a grandi processi di riforma e tuttavia ancora connotato da alcuni degli elementi di fondo della tradizione di welfare che gli è propria. D’altro canto, se da un lato crescono i vincoli che derivano dall’appartenenza all’Unione europea, con la conseguente pressione isomorfica che ne deriva, dall’altro proprio i processi di rescaling e lo sviluppo di una governance multilivello conferiscono maggiori poteri anche ai territori (dalle regioni sino alle realtà municipali), accentuando a questo livello gli impatti delle trasformazioni, con tutto quello che ne consegue in termini di rotture e persistenze, istituzionali, culturali, sociali. L’esito è che se i modelli nazionali di welfare, codificati in letteratura, spiegano ancora molte delle differenze importanti esistenti in materia tra gli Stati, per altro verso il crescente protagonismo dei territori rimescola le carte, portando all’interno degli stessi modelli delle varianti significative. Il caso italiano è da questo punto di vista paradigmatico. Ancor più che in altri paesi europei, dove la tenuta dei quadri nazionali è stata più forte, in Italia il decentramento e, negli anni a noi più vicini, la regionalizzazione hanno avuto come esito una crescente differenziazione territoriale, con l’emergere di modelli regionali assai diversi tra loro. Se è indubbio che il nostro sistema assistenziale per certi versi è ancora condizionato da residualità dell’offerta, scarso sviluppo dei servizi e sostanziale assenza di vere politiche familiari, pur in presenza di un forte ruolo della famiglia come agenzia di cura e ammortizzatore sociale, è anche vero che sia l’appartenenza all’UE sia soprattutto la 82 Di Rosangela Lodigiani e Andrea Ciarini.

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regionalizzazione ne stanno modificando il volto. Questi processi agiscono uno sforzo di modernizzazione che però non si estende su tutto il paese secondo le medesime caratteristiche e intensità. Parimenti sono dissimili i dispostivi che le regioni mettono in campo di fronte al mutato profilo della domanda sociale di protezione. In linea con quanto appena sostenuto, il ridisegno normativo a cui è andato incontro il sistema italiano di welfare (con in testa, naturalmente, la legge quadro 328/2000 per la realizzazione del Sistema integrato dei servizi sociali e la riforma del Titolo V della Costituzione) se, da un lato, mostra di recepire alcune delle indicazioni che vengono dal quadro europeo, dall’altro lato, nel conferire potere esclusivo alle regioni in materia, pone implicitamente le basi per una differenziazione interna al paese, senza la previsione di clausole di perequazione (su tutte la mancata approvazione dei Livelli Assistenziali, LIVEAS) e implicitamente quasi rinunciando a un coordinamento nazionale della territorializzazione del welfare. Le tre regioni da noi studiate offrono al riguardo utili spunti di riflessione. Come anticipato, anch’esse si trovano a convergere lungo le linee guida comuni sopra indicate. Tuttavia restano ampie le specificità territoriali e anche i margini di interpretazione/attuazione di tali linee guida, da cui derivano effetti non scontati, sui quali vogliamo riflettere in sede conclusiva. Si tratta di specificità che derivano sia ragioni di tipo storico, politico, culturale, istituzionale, economico, ovvero dalla peculiare infrastruttura del welfare che nel tempo si è consolidata, ma derivano anche da come – dentro a questa peculiare struttura – giocano le tensioni derivanti dal mutamento della domanda sociale e impattano le riforme. Il primo e più lampante esempio è fornito dalla direttrice di riforma forse più condivisa a livello internazionale, quella della “attivazione”. Le nostre regioni infatti offrono un riscontro a quanto affermato in precedenza, mostrando come la sua interpretazione non sia univoca. Anzitutto perché il principio dell’attivazione può essere applicato tanto ai sistemi di protezione quanto ai beneficiari. Con riferimento ai sistemi di protezione l’attivazione può essere coniugata al principio della “condizionalità”: i benefit sono erogati se si rispettano alcune condizioni; ma i vincoli posti possono variare da un contesto regionale (e in alcuni casi perfino locale) all’altro. Guardando ai beneficiari, si può di volta in volta enfatizzare il lavoro come ambito privilegiato di espressione della cittadinanza oppure il riconoscimento dei diritti non condizionabili come prerequisito dell’accesso e reinserimento lavorativo. Tutto ciò pur condividendo tutti la stessa idea che occorra superare l’impianto assistenziale del welfare a favore di un approccio promozionale, orientato all’autonomia dei cittadini. Il punto è che questo mutamento non sempre converge verso scelte comuni. In modo particolare Lombardia e Toscana, le più “attrezzate” delle regioni da noi considerate e quelle da più tempo impegnate in un processo di innovazione del welfare territoriale, appaiono differenziate quanto a scelte e orientamenti di fondo, non solo rispetto al tema “attivazione”. Diverse sono le parole chiave che esse utilizzano per descrivere gli assetti del welfare locale, così come le scelte che traducono in dispositivi gli assi strategici di intervento. Così a un modello, quello lombardo, centrato sulla promozione della libertà di scelta degli utenti e delle famiglie (attraverso il ricorso a dispositivi quali il voucher e la dote), della sussidiarietà orizzontale aperta a tutte le sue componenti sciali e forme associative, del lavoro come principale canale di integrazione sociale, se ne contrappone un altro, quello toscano, che mostra una predilezione per l’erogazione dei servizi rispetto ai trasferimenti e che pone maggiormente in risalto le dimensioni dell’uguaglianza dei diritti nell’accesso alle prestazioni e della

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responsabilità pubblica lungo l’intera filiera della programmazione e gestione degli interventi. Dal canto suo, anche la Calabria mostra specificità proprie, legate semmai al ritardo con cui la spinta all’innovazione ha cominciato a produrre un mutamento di approccio alle finalità del welfare locale, il cui impianto assistenziale è profondamente radicato, ancorché – appunto – in fase di cambiamento. Significativamente, la ricerca svolta ha mostrato come nei tre contesti regionali ricorrano alcuni termini che appartengono al vocabolario comune della modernizzazione del welfare, e che tuttavia trovano declinazioni diversificate nella realtà. Ciò vale in particolare per i termini di seguito indicati, peraltro molto compenetrati tra loro, che sono assunti dalle regioni a esemplificazione delle direttrici di riforma del welfare territoriali, ma che mostrano quanto tali direttrici esitino in percorsi in parte eterogenei. Sussidiarietà verticale e orizzontale, tra decentramento e governance Rappresenta il riferimento normativo fondante i rapporti tra i livelli istituzionali e gli attori del welfare; da questo punto di vista, la riforma del titolo V e la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà hanno rappresentato un momento di accelerazione dell’attuazione del decentramento e del conferimento di poteri ai territori e alle formazioni sociali che li animano. Ciò ha implicato sviluppare una governance multilivello, che ridisegna i processi di policy making aprendo alla rappresentanza degli interessi di cui sono portatori i diversi attori locali, superando la centralizzazione dei poteri in mano allo stato, in favore di una ripartizione degli stessi tra i diversi livelli istituzionali, sulla base di competenze specifiche; sostenendo una logica di rete piuttosto che gerarchica e processi di negoziazione e co-partecipazione piuttosto che di imposizione burocratica. Ne risulta incentivata l’inclusione nei processi decisionali della società civile in un’ottica di welfare mix. Ma se l’apertura al welfare mix e al decentramento sono fattori di mutamento consolidati, diversi possono essere i gradi verticalizzazione interni ai sistemi regionali. Vi possono essere approcci più verticistici laddove la regione assume più ampi poteri di indirizzo e controllo della regolazione dell’offerta locale, e casi di maggiore autonomia territoriale. Partecipazione, tra voice effettiva e mera consultazione: il vero volto della sussidiarietà orizzontale Il binomio sussidiarietà orizzontale/attivazione si traduce nell’apertura di spazi nuovi di partecipazione alla costruzione del welfare. Direttamente o indirettamente i cittadini sono cioè chiamati a concorrere alla definizione stessa delle politiche, alla loro implementazione, avendo possibilità di voice e di partecipazione ai processi programmatori sia individualmente, sia, in modo specifico, attraverso le rappresentanze della società civile e del terzo settore in particolare. In tal senso la legge 328/2000 e le leggi regionali che disciplinano la materia (almeno in Lombardia e Toscana) hanno offerto una cornice normativa che ha dato indicazioni precise e predisposto un terreno fertile affinché tale partecipazione si sviluppasse, pur con le differenze di cui casi regionali hanno dato conto, che si riflettono nel peso effettivamente dato a tale voice.

Empowerment, tra responsabilità individuali e collettive Si tratta un concetto plurisemantico aperto a diverse interpretazioni. Possiamo assumere l’empowerment come processo – che si può realizzare sia a livello individuale che locale, territoriale – teso a rafforzare le capacità degli individui nell’accezione seniana

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delle capabilities (Sen, 2000). In questa accezione l’empowerment indica che le politiche sociali sono chiamate a essere “abilitanti” e “potenzianti” al fine di sostenere individui, gruppi svantaggiati, comunità locali nello sviluppare capacità di azione, autodeterminazione e auto-organizzazione, e ad acquisire il potere e le risorse necessarie per esercitare una cittadinanza attiva. Se questo è un processo chiave del “welfare attivo”, è anche vero che la sua attuazione risponde a obiettivi e dispostivi anche molto diversi. Da una parte vi sono concezioni dell’empowerment che mettono l’accento sull’attivazione come responsabilizzazione del singolo e delle comunità come trasferimento del rischio dalle istituzioni alla società. Dall’altra, sono presenti versioni dell’attivazione che puntano alla responsabilizzazione delle istituzioni, prima ancora che degli individui e delle comunità, come prerequisito di una strategia abilitante tesa a rafforzare le capacità individuali e collettive. Contrattualizzazione individuale, tra autonomia e condizionalità Come corollario delle politiche di empowerment e di attivazione, cresce (o dovrebbe) il potere dei soggetti nella definizione delle risposte ai propri bisogni e di negoziarli con i servizi. Nei fatti ciò si traduce in modi diversi: come riconoscimento del “sapere esperto” dei cittadini e comunque come sforzo di valorizzarlo e accrescere le capacità personali di fronteggiamento; oppure come codifica più istituzionalizzata dei rapporti tra utenti e servizi, alla luce di un “patto reciproco” che definisce diritti e doveri. Si ispira a questa seconda declinazione la logica della condizionalità tipica delle politiche del lavoro, ma non solo di queste. Centralità della domanda vs orientamento all’offerta La tendenza emergente (ma non realizzata allo stesso modo nelle regioni qui considerate) è quella di costruire le politiche sociali e definire i servizi a partire dalla domanda sociale. Tale scelta risponde a più obiettivi: rovesciare la logica di passività del welfare tradizionale e responsabilizzare i cittadini rispetto alla loro situazione di bisogno, valorizzandoli in quanto “utenti esperti” e partecipi della governance territoriale. Diversa è però la traduzione di questo approccio in termini di politiche e prerogative riconosciute tanto al sistema istituzionale, quanto al cittadino-utente. Da un lato la centralità della domanda rimanda al sostegno al potere di scelta tra alternative di offerta. Laddove – come in Lombardia – questa è ormai una scelta consolidata, ciò implica una crescente centralità di voucher e titoli sociali. Dall’altro lato, l’approccio demand-side, sebbene spesso associato ai soli strumenti di solvibilità, può essere giocato non solo sul piano del potere di scelta ma anche – come avviene in Toscana – su quello dei livelli minimi garantiti dall’amministrazione. In questo caso alle amministrazioni si riconosce il compito di organizzare l’offerta, e non solo di svolgere funzioni di accreditamento tra erogatori in concorrenza. Laddove presenti, gli strumenti di solvibilità sono inseriti in una struttura di offerta organizzata direttamente o indirettamente dal pubblico.

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Tav. 1 - Direttrici di riforma del welfare territoriale in ambito socio-assistenziale, secondo il modello della welfare community e dell’attivazione Direttrici di riforma

Lombardia

Toscana

Calabria

Sussidiarietà verticale (istituzionale)

Devoluzione ai sensi della normativa nazionale, con

una puntuale regolamentazione

regionale; forte ruolo di coordinamento regionale

Decentramento ai territori, ma seconda una forte regia

pubblica regionale.

Processo di decentramento parziale; forte ritardo nella

regolazione normativa regionale; accentramento

dei poteri a livello centrale e scarsa autonomia dei

territori Sussidiarietà orizzontale (governance e partecipazione)

Programmazione partecipata; tavolo

permanente del terzo settore; tavoli tematici;

difficoltà di rappresentanza interna al

terzo settore

Istituzione di una legge regionale per la

partecipazione. Ma processi di governance essenzialmente orientati

alla consultazione.

Recente adozione di una programmazione

concertata con i territori (livello politico-

istituzionale) e con i rappresentanti della

società civile (sindacati e terzo settore)

Empowerment Le politiche sociali sono definite in termini

“abilitanti”, e prevedono investimenti nel capitale

umano e sociale dei beneficiari. Sostegno alle

famiglie e alle reti di prossimità. In un quadro

che vigila sulla qualità dei servizi e delle prestazioni,

e garantisce parità di accesso

Le politiche sociali definiscono standard

minimi di diritti sociali. Impronta egualitaria.

La strategia dell’empowerment è

perseguita ma il contesto socio-economico regionale

richiede interventi strutturali sul lato della

domanda di lavoro piuttosto che sull’offerta.

Contrattualizzazione individuale

Definizioni di piani personalizzati;

Definizione di piani personalizzati di

intervento

In ambito lavorativo le categorie svantaggiate possono usufruire di

voucher o seguire Piani Individuali di Avviamento

al Lavoro (PIAL) Centralità della domanda vs orientamento all’offerta

Centralità dei titoli sociali: voucher in ambito socio-sanitario e sistema della

dote in ambito lavorativo, dell’istruzione e della formazione; principio della solvibilità della domanda; sistema di

mercato regolato o quasi-mercato

Centralità dell’offerta pubblica, diretta o

indiretta. Scarsa presenza di dispostivi di solvibilità.

nelle politiche socio-sanitarie. Sistema di

accreditamento e possibilità di scelta, ma monitorata e controllata, nei servizi all’infanzia. Maggiori restrizione nei

servizi socio-sanitari

Sebbene la regione abbia iniziato a formulare

un’offerta sulla base di un’analisi dei bisogni,

manca ancora “una misura reale” della domanda

sociale

Attivazione lavorativa

Il reinserimento lavorativo è visto come il migliore sistema di protezione anche nell’area dello svantaggio sociale.

Nell’area delle politiche del lavoro l’accesso alla “dote” è “condizionata al PIP”. Il sistema è un mix tra politiche attive (per es.

formazione) e passive

Sistema misto di politiche attive e passive, politiche dell’offerta (occupabilità, adattabilità, formazione) e politiche della domanda

(intervento per la creazione di occupazione).

Accanto a misure passive di welfare (trasferimenti e

sussidi), si diffonde l’utilizzo di misure di inclusione sociale che

prevedono un inserimento nel circuito lavorativo

(tirocini e work experiences)

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8.2 Ragioni e pratiche della differenziazione regionale Come appare evidente da quanto sin qui argomentato, le Regioni conservano specificità proprie legate a diversi fattori: la cultura politica, anzitutto, ma anche le caratteristiche del contesto sociale e demografico, economico e produttivo, la vitalità della società civile. Il welfare è per definizione un ambito in cui si esprime una visione di società, di contratto sociale, di rapporto tra responsabilità individuali e collettive, e questo si riflette nell’interpretazione e nella rilevanza data a ciascuno dei principi e delle direttrici di riforma sopra citati. Senza contare che entrano in gioco anche le capacità (e le risorse) dei sistemi locali di passare dall’adesione teorica a essi alla loro attuazione e traduzione in politiche, dispositivi e pratiche di intervento. Il confronto tra le regioni qui presentate e le realtà locali offre interessanti spunti di riflessione con particolare riferimento a due questioni: il coordinamento istituzionale (sussidiarietà verticale); i processi di integrazione orizzontale tra diverse aree di policy. Al riguardo sia le regioni sia, in modo ancor più evidente, le realtà locali si presentano come laboratori dell’innovazione capaci di suggerire spunti di riflessione importanti a livello nazionale, ma nel contempo mostrano quanto sia ineludibile considerare le disparità territoriali come una delle variabili strutturali in campo. Si tratta di una disparità che, in certi ambiti, la regionalizzazione del welfare acuisce, configurando nuove disuguaglianze tra territori più o meno attrezzati dal punto di vista della capacità amministrativa, della partecipazione della società civile, delle risorse a disposizione. Si tratta altresì di una disparità che, quando presa debitamente in carico, consente il delinearsi di risposte più efficaci e mirate sui bisogni reali. Da questo punto di vista è importante sottolineare che il divario tra gli assetti regionali del welfare si erano già in qualche modo configurati ancora prima della 328 e della riforma costituzionale. Emblematici i casi, per certi aspetti diametralmente opposti, delle regioni che abbiamo indagato in questa sede. Lombardia, Toscana da una parte e Calabria dall’altro sono casi che bene testimoniamo inoltre di una diversità che poggia anche su condizioni di bisogno profondamente differenti. La Calabria ha trovato nel nuovo quadro normativo senz’altro un impulso a organizzare un welfare territoriale. La sua implementazione ha richiesto comunque diversi anni per giungere a una prima svolta tangibile, peraltro ancora non del tutto conseguita. In sostanza si è andata diffondendo la consapevolezza della necessità di una rottura rispetto al passato. Tuttavia la riorganizzazione delle politiche non appare essere andata troppo oltre l’avvio di un nuovo corso di programmazione, senza effetti tangibili in termini di nuovi servizi. La macchina amministrativa mostra carenze che mal si adattano alla gestione della complessità istituzionale propria delle prestazioni in servizi. Sebbene più di recente non siano mancati tentativi di innovazione istituzionale, il comparto assistenziale fa fatica a uscire dal deficit strutturale che lo ha sempre accompagnato, caratterizzato da un’ottica solo assistenzialistica e riparatoria. Ma non è solo un problema di offerta che incide sui ritardi delle riforme. È la domanda che presenta caratteristiche tali da ritardare l’avvio di programmi di riordino del welfare locale. I bisogni sono soprattutto legati alla mancanza di lavoro, alla presenza di una quota disoccupazione strutturale (giovanile e femminile in particolare) ai più alti livelli non solo in Italia, ma in Europa, alla povertà assoluta. Questo per dire che non tutto può essere demandato ai territori e che lo sviluppo del welfare locale (soprattutto se riferito al problema dell’inserimento lavorativo e del contrasto alla povertà) molto dipende dalle condizioni macro entro cui le reti della governance locale sono chiamate a operare.

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Per altro verso, molte delle trasformazioni indotte dalla 328/2000, Lombardia e in Toscana (ma lo stesso discorso vale per molte altre regioni del Centro-Nord) le hanno in qualche modo anticipate, trovandosi investite da più precoci processi di modernizzazione che hanno richiesto l’implementazione di nuovi e più complessi servizi sociali (di inserimento attivo nel mercato del lavoro, di cura e conciliazione vita-lavoro). Come è possibile rilevare nei capitoli dedicati alla governance regionale, la Lombardia aveva già maturato prima della Legge 328 un impianto di regolazione che non è stato stravolto dalla riforma, ma che anzi ha teso a inglobare quest’ultima al suo interno, avendola per certi aspetti anticipata. Basti in proposito pensare che alcuni provvedimenti normativi che hanno portato poi alla definizione della l.r. 3/2008 «Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario» sono antecedenti al 2000. In effetti, l’impianto di programmazione, gestione, erogazione delle politiche che ha preso forma costituisce un’esperienza unica nel panorama nazionale, sia per il suo portato di innovazione, sia per la complessità delle trasformazioni avviate. In sintesi, riprendendo anche la classificazione che ne viene proposta in letteratura, il modello di welfare regionale si presenta come integrato, devoluto, plurale e partecipato. Si caratterizza altresì per un orientamento alla domanda che: i) capovolge il rapporto tra risposte e bisogni; ii) fa prediligere i titoli sociali in molte aree di intervento (buoni, voucher, dote, quali strumenti finalizzati ad attivare il beneficiario); iii) si propone di sollecitare le risposte che partono “dal basso”; iv) ha portato alla creazione di un “quasi-mercato” nell’ambito delle unità di offerta socio-sanitaria; v) mira all’integrazione tra le diverse aree di policy e i relativi interventi. In questo frangente, la sfida dell’integrazione è particolarmente avvertita e sta spingendo gli amministratori a ripensare le fasi di programmazione. Questo in modo che la difficile ricomposizione del “vaso rotto” – così sono state evocativamente definite le situazioni di disagio da uno degli intervistati – che oggi si cerca di realizzare integrando a valle i servizi e i dispositivi si traduca, piuttosto, nella definizione di una politica integrata sin dall’inizio, a monte, tale da garantire che “il vaso trovi i supporti necessari per non andare in frantumi”. Entro questa cornice, la famiglia viene esplicitamente riconosciuta come soggetto sociale fondamentale, in grado di definire azioni e strategie di risposta alle condizioni di bisogno e al contempo di produrre servizi a carattere socio-educativo e assistenziale, per sé o per la propria rete di relazione. Il che non comporta che su di essa vengano fatte ricadere responsabilità e funzioni difficilmente sostenibili quanto, piuttosto, che il welfare regionale intervenga in termini sussidiari, ovvero creando le condizioni a rinforzo e promozione delle risorse e delle capacità che si vogliono proprie della famiglia stessa. In quest’ottica, l’offerta di welfare – che peraltro cerca di seguire tutte le diverse fasi del ciclo di vita familiare, nella loro ordinarietà o problematicità – si è fatta dunque più articolata e diversificata, in modo tale da rispondere ad esigenze certamente eterogenee; detto altrimenti, ha inteso offrire alle famiglie le condizioni essenziali per continuare a svolgere al meglio le proprie funzioni primarie, senza che ciò implicasse una rinuncia, è il caso specifico delle donne, a svolgere i compiti produttivi. Di qui una rinnovata centralità alle politiche di conciliazione, costruite nella tensione tra empowerment delle capacità familiari di cura e potenziamento della capacità ricettiva delle strutture e dei servizi esistenti. Parimenti è da considerarsi precedente agli assunti della nuova legge nazionale il percorso intrapreso dalla Toscana, ancorché con proprie specificità. Se da una parte già

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con la Legge Regionale 72/1997 la Toscana aveva, di fatto, anticipato la 328, introducendo prima che entrassero nell’agenda delle riforme nazionali strumenti come i Piani di zona e l’assetto municipale del welfare locale; dall’altro con la Legge 41/2005 e in seguito con l’avvio della sperimentazione della “Società della Salute” ha superato l’idea stessa di integrazione tra le politiche (contenuta nella normativa nazionale) per una vera e propria “fusione istituzionale” tra settore sociale e settore sanitario, come chiave di volta delle riforme. Si è avviata così una programmazione unica, fortemente integrata, tesa in ultima analisi a sviluppare risposte multiple in una concezione di salute che tende verso quella di “benessere”, come filiera integrata dell’assistenza continuativa sociale e sanitaria. Ma l’ottica integrata riguarda in questa regione anche altre aree di politiche sociali. Se il socio-sanitario costituisce un punto di riferimento “sostanziale” della governance regionale (contribuendo molto a marcare il segno dell’approccio toscano) non meno rilevante è un’altra filiera dell’integrazione, quella della cura dei minori. Rientrando in un diverso troncone di politiche sociali integrate, questi servizi fanno parte di una più ampia strategia volta al riconoscimento dei diritti delle persone alla formazione lungo tutto l’arco della vita, proprio a partire dalla prima infanzia, dove come da anni oramai è comunemente riconosciuto si formano le principali disuguaglianze che segnano il cammino delle persone. Nell’ancoraggio a una tale visione valoriale (conforme peraltro agli orientamenti della Strategia Europea per l’occupazione e al dibattito più avanzato in Europa in tema minori e infanzia) la Toscana non rinuncia a caratteristiche sue proprie fondanti, come il forte presidio pubblico (rilevabile già nell’alto tasso di copertura nella fascia 0-3: il 28% circa, a ridosso degli obbiettivi di Barcellona), ma aprendo tuttavia anche a soluzioni in parte nuove rispetto alle tradizionali impostazioni di policy regionali. Nel Ricorso a servizi di varia natura (Nido d’infanzia, Centro bambini e genitori, Centro gioco educativo, Nido domiciliare, Nido aziendale) nell’accreditamento di strutture private nel sistema di governance e prevedendo, altresì, in taluni la possibilità di usufruire anche di forme di sostegno monetario nel pagamento delle rette, emerge una strategia multicanale, flessibile (nel senso di tarata sui bisogni compositi delle famiglie), ma a forte regia pubblica, tanto in termini di offerta diretta quanto in quelli di monitoraggio, controllo qualità, aggiornamento degli operatori, innalzamento della copertura. In generale il modello toscano, se così lo possiamo definire, si caratterizza (al di là delle differenze impostazioni tra le aree di policy, che pure sono presenti) per una forte accentuazione delle funzioni regolative delle amministrazioni pubbliche, siano queste relative all’offerta diretta, alle partnership pubblico-private o anche alla fruizione di dispositivi di solvibilità della domanda, presenti, ma non così capillarmente diffusi come emerge chiaramente per la Lombardia. Schematizzando è proprio la presenza di orientamenti quasi opposti in tema di gestione delle prestazioni l’elemento che maggiormente differenzia le due regioni. Alla base di tutto ciò ci sono diverse concezioni del ruolo della sussidiarietà e della famiglia come agenzia di cura. In un caso: la Lombardia, assumendo l’idea di welfare attivo come strumento di capacitazione della famiglia, vista come soggetto fondamentale a partire dal quale definire strategie e risposte; nell’altro: la Toscana, valorizzando in primo luogo la dimensione dei diritti delle persone, prima ancora che il ruolo sussidiario della famiglia. Si tratta di scelte valoriali diverse tra loro, ma che non esauriscono tutta la complessità in gioco, né il tema (non meno rilevante) della resa istituzionale. In effetti se guardiamo al rapporto tra domanda e offerta, possiamo dire che si tratta senz’altro di regioni che hanno compiuto

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sforzi di modernizzazione amministrativa e di innovazione nelle politiche sociali, pur avendo optato per modelli diversi. Il raffronto con la Calabria ci è utile a mettere in risalto questo aspetto in tutti i suoi condizionamenti. Diversamente da quanto è stato rilevato in Toscana e in Lombardia, in Calabria il problema della cura dei minori è in primo luogo meno avvertito. Tutto questo non solo per le difficoltà della macchina amministrativa o per le mancate scelte dei policy makers locali, ma soprattutto per i condizionamenti posti da un mercato del lavoro asfittico, in cui la questione principale è la mancanza del lavoro più che la conciliazione vita-lavoro per le donne o la formazione lungo tutto l’arco della vita. Comune alle tre regioni è certamente il problema della non autosufficienza. Qui in effetti le pressioni della domanda sono convergenti, ma ricevendo risposte altamente differenziate in termini di quantità e qualità dell’offerta. Anche in questo caso la Calabria appare rimanere più indietro, stretta tra l’addossamento familiare e la persistente tendenza al ricorso all’istituzionalizzazione che mal si concilia con i programmi di riordino più innovativi, centrati sulla promozione della presa in carico domiciliare e il rafforzamento delle prestazioni ad alta integrazione socio-sanitaria. Basti pensare che in tutta la Regione si contano circa 370 strutture residenziali convenzionate (socio-sanitarie e socio-assistenziali) che ospitano circa 570083 utenti con un costo che si aggira attorno 35 milioni di euro annui pagati dalla regione. Alla luce di quanto sottolineato, senz’altro il contesto calabrese appare più influenzato da quelle caratteristiche di lungo periodo, come ricorso alle reti della solidarietà familiare, alla famiglia come cassa di compensazione del mancato intervento pubblico, al basso grado di legittimazione ed efficienza amministrativa delle istituzioni, che di solito associate al cosiddetto modello mediterraneo (Ferrera, 1996). Non che questi stessi elementi distintivi (soprattutto il ruolo giocato dalla famiglia nell’offerta di cura) non siano presenti anche nelle altre due regioni oggetto di indagine. Tuttavia più forte è il senso di rottura degli equilibri pregressi, in direzione di una modernizzazione che punta più fortemente allo sviluppo dei servizi, sia pure in interazione con famiglia. Sintomatico di questa situazione è proprio il rapporto welfare-servizi-famiglia nella cura dei minori. In Toscana, in Lombardia (ma la stessa cosa vale per il Centro e il Nord) la famiglia non ha smesso di rivestire funzioni essenziali per la cura. Essendo ancora bassi i tassi di copertura rispetto alla domanda, ma crescente l’occupazione femminile, sono molto più qui che al Sud i nonni che integrano l’assistenza garantita dai servizi. Come mostrano i dati Istat (2006) tra Nord, Centro e Mezzogiorno, la percentuale di nonni che si prendono cura dei nipoti (fino ai 13 anni) mentre i genitori lavorano è rispettivamente del 29,2% nel Nord-ovest, del 27,6% nel Nord-Est, del 27,5% in Centro, del 17,2% al Sud. In Lombardia il 28,5% dei nonni si occupa dei nipoti, in Toscana il 33,3%, in Calabria solo il 13,3%. Evidentemente la maggiore quota di donne non occupate nelle famiglie calabresi e meridionali in generale supplisce in proprio alla carenze dei servizi. Diversamente in Toscana e Lombardia, di fronte alla carenza dei servizi (sebbene in crescita nel grado di copertura) ma in presenza di una maggiore quota di donne occupate, sono più spesso i nonni ad assolvere funzioni di cura e assistenza integrative. Tutto questo ci dà in qualche modo l’idea di una tendenza alla modernizzazione, certamente ancora incompiuta rispetto ai bisogni e tuttavia più incline a introdurre elementi di novità nella configurazione del welfare.

83 Su una popolazione totale di circa 2 milioni.

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Pur costituendo, nei fatti, due modelli altamente differenziati, Lombardia e Toscana sperimentano entrambe soluzioni innovative tese a rendere il welfare funzionale alla risposta nuovi bisogni sociali. Anche in questa capacità (quanto meno rispetto agli obbiettivi) di rendere il welfare meno assistenziale e più orientato a favorire migliori condizioni di occupabilità, così come di conciliazione vita-lavoro si trova una differenza sostanziale tra gli orientamenti seguiti dalle due regioni “innovatrici” e la Calabria, dove il perno rimane ancora l’assistenza, soprattutto monetaria, alle condizioni di disagio. Ma in tutto questo, come viene messo in evidenza dalla ricerca, un peso determinante lo hanno le caratteristiche della domanda sociale, oltre che le scelte dei policy makers. D’altra parte, se rimaniamo al tema “lavoro e inclusione sociale”, ci troviamo di fronte a due regioni nelle quali il problema della disoccupazione strutturale non ha avuto e non ha quelle caratteristiche di lungo periodo che si rilevano in Calabria e in altre realtà del mezzogiorno (anche se certamente la crisi sta modificando lo scenario). In questo senso, le politiche di attivazione – che dobbiamo ricordare presuppongono in tutte le loro versioni, sia quelle più condizionanti, sia quelle più egualitarie, mercati del lavoro tendenti in generale alla piena occupazione –, trovano in Lombardia e Toscana un terreno più preparato a recepire le innovazioni. Mentre in Calabria il problema principale è proprio la mancanza strutturale di lavoro, cosa che in qualche modo giustifica delle difficoltà a uscire da approcci solo assistenziali e poco pro-attivi. Anche perché l’attivazione non ha alle spalle le condizioni di contesto che possano permettere una effettiva abilitazione dei soggetti in cerca di occupazione. Con la crisi il problema della mancanza di lavoro e del disagio sociale crescente inizia a interessare in modo significativo anche Lombardia e Toscana. Tuttavia, se è indubbio che la crisi impatti in modo molto diverso sui territori, è altrettanto vero che anche quelli più forti ne subiscono le conseguenze negative, rendendo il rischio di ricadere in percorsi di impoverimento, fragilizzazione, marginalità e disagio un’esperienza diffusa e trasversale a un’ampia fascia di popolazione, che si estende al di là dei “tradizionali” profili di svantaggio. Ciò rende il tema dell’integrazione delle politiche – su cui precisamente si è concentrata la presente ricerca – una priorità in agenda per tutti i territori. La vulnerabilità sociale che si viene delineando si costruisce su più versanti, laddove entrano in gioco, oltre naturalmente all’occupazione, anche la questione abitativa, lo stato di salute, il capitale umano, sociale e familiare dei soggetti, la conciliazione tra lavoro e funzioni di cura, la solidità del tessuto relazionale di riferimento. E ciò richiede di superare l’idea di politiche settoriali e mirate a specifici target, per immaginare risposte personalizzate e integrate. Anche su questo, le regioni qui presentate si stanno misurando, con programmi che riportano d’attualità temi e prospettive di intervento per diverso tempo considerate superate. Il problema del sostegno passivo, della continuità del reddito, complice anche gli accordi anticrisi stipulati a livello nazionale, ritornano d’attualità nel momento in cui la mancanza del lavoro e i pericoli di scivolamento nella povertà iniziano a incidere trasversalmente tanto nelle regioni più avanzate, quanto in quelle più deboli. In questo quadro l’integrazione delle politiche, non solo sociali, ma anche formative e di contrasto all’esclusione sociale, e più in generale la ricerca di un riequilibrio tra le politiche dell’offerta e della domanda (caduta l’illusione che agire solo sull’offerta fosse sufficiente), appaiono direttrici di riforma imprescindibili in un paese come l’Italia sprovvisto di schemi “dedicati” per il contrasto alla povertà, ripiegando più spesso nell’utilizzo improprio dei dispositivi ordinari.

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Qualunque riflessione in merito all’integrazione sulle politiche, peraltro, non più prescindere dal considerare la centralità delle politiche di sviluppo, a sostegno delle imprese e della creazione della domanda di lavoro, in particolare di domanda di qualità. Passa di qui la sostenibilità del modello di welfare attivo. 8.3 Buone pratiche locali e innovazione istituzionale Se questo a grandi linee è il quadro sinottico generale, la ricerca sui territori offre una immagine dei processi di governance e dei dispositivi assai più complessa e variegata, soprattutto più capace di far emergere i nodi critici e i punti di forza di politiche di welfare, che, al di là dei proclami in merito agli orientamenti di fondo, si misura – potremmo dire – “de visu” con i bisogni della cittadinanza. Prima di offrire un breve spaccato sulle tre realtà comunali oggetto di approfondimento sul campo, è possibile premettere alcune riflessioni, che trasversalmente interessano il funzionamento dei sistemi di welfare locali, ben evidenziate dagli studi di caso presentati in precedenza. Anzitutto, l’efficienza e la capacità di innovazione del welfare locale dipendono in larga misura dalla capacità amministrativa – regionale e locale – e in particolare dalla capacità di gestire la complessità dei processi. Di tali capacità certamente Lombardia e Toscana offrono testimonianza. Non meno importante delle scelte politiche risulta infatti il livello tecnico-amministrativo, incaricato di portare concretamente avanti le innovazioni quando si tratta di inaugurare un nuovo corso o il consolidamento di pratiche già sedimentate in uno sviluppo incrementale delle prestazioni. D’altra parte, come è emerso dalla ricerca sul campo, quello che in ultima analisi risulta centrale nelle trasformazioni in corso non appare soltanto la scelta tra un modello orientato alla domanda o uno all’offerta; o ancora l’alternativa tra servizi e trasferimenti, operata a priori come scelta di principio. Piuttosto contano le risorse a disposizione, che operano come vincolo strutturale capace di orientare pesantemente le scelte. Conta altresì la fenomenologia dei bisogni che può indurre a ricercare nuovi mix di risposta. Conta, nella concretezza delle situazioni in cui le politiche e i servizi di fatto vanno a incidere, la qualità delle prestazioni, la loro estensione in termini di copertura del bisogno e la capacità di rendere gli utenti e le organizzazioni della governance multilivello partecipi dei processi di policy messi in atto, siano questi relativi alla possibilità di scegliere il tipo di prestazioni o di prendere parte alla loro costruzione. Se questi sono gli obbiettivi di fondo che una buona organizzazione dell’offerta deve perseguire, diversi possono essere i dispositivi adottati. Siano questi orientati all’offerta o alla domanda essi non possono fare a meno di una amministrazione efficiente. Conta, non ultimo, il momento di crisi che stiamo attraversando, che spinge a riconsiderare gli assetti di welfare consolidati o verso i quali ci si stava muovendo. Lo stesso paradigma dell’attivazione, che – come sopra si diceva necessita di contesti di piena occupazione per poter esprimere pienamente le sue valenze di promozione dell’autonomia delle persone – si trova in grave difficoltà quando il lavoro – come oggi accade anche nelle regioni più forti – viene a mancare, obbligando a un suo ripensamento (Colasanto, 2010). Scendendo sul territorio, i modelli regionali e le loro cariche valoriali, anche le più raffinate, fanno i conti con una complessità istituzionale che è fatta di più strumenti integrati tra loro, spesso presentati come alternativi, ma nella realtà dei fatti in qualche

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modo compresenti. E ci accorgiamo che qualche volta nella pratica delle politiche sociali possono cadere delle barriere identificate a monte come costitutivamente alternative. Altre volte il modello appare così forte da plasmare le scelte dei territori; ma qui entrano in gioco la capacità di regia della Regione e la forza del suo governo nel costruire il quadro normativo di riferimento (e quindi anche nel determinare l’allocazione delle risorse), e anche, almeno in qualche caso, la continuità politica o meno tra regione e territori. L’adesione ai modelli regionali più o meno costruiti “culturalmente” non attraversa indistintamente le diverse aree di policy. In Toscana per esempio, nei servizi all’infanzia si riscontra una pluralità di dispositivi in cui convivono sia approcci orientati all’offerta sia approcci tesi a sostenere economicamente le famiglie. Diverso è il caso delle politiche socio-sanitarie, organizzate in sistemi complessi di governance in cui l’impronta istituzionale pubblica è decisamente più vincolante. Lo studio di caso condotto su Arezzo per molti versi dà conto di questa differenziazione. Sebbene poggianti su una robusta base pubblica, sia in termini di erogazione diretta, sia nel controllo e monitoraggio del rapporto domanda-offerta, i servizi all’infanzia del comune di Arezzo hanno teso ad allargare progressivamente l’offerta con l’accreditamento di strutture private, for profit e non profit. Inoltre nell’ottica del sostegno alle famiglie sono stati previsti buoni servizi alle famiglie in graduatoria comunale che usufruiscano di asili nido privati. In una strategia diversificata, fatta di pubblico e anche di privato, il presidio pubblico più che nell’offerta diretta si rileva nella garanzia degli standard di qualità, promossi sul piano dei controlli e su quello inedito della formazione. Tutta la formazione organizzata dal comune non è riservata alle sole strutture pubbliche, bensì a tutti i centri pubblici, privati e in convenzione, così da garantire omogeneità e continuo aggiornamento verso l’alto degli standard. Ma l’integrazione non riguarda solo il tipo di servizio. La cura dei figli entra fortemente in relazione con la conciliazione vita-lavoro, in termini di molteplicità di orari degli asili nido e di servizi integrativi a prezzi contenuti anche al domicilio, come la possibilità di accedere a buoni servizio per l’accudimento domiciliare (in collaborazione con la Provincia), servizi di baby-sittegraggio, accompagnamento a scuola, intrattenimento ludico pomeridiano, il tutto con responsabilità di controllo e garanzia in capo all’amministrazione comunale. Interessante nell’ottica del welfare promozionale, teso a espandere le possibilità di scelta e altresì la partecipazione degli utenti alla programmazione delle politiche è sempre su questo terreno la grande attenzione riservata alla co-decisione. Amministrazione, genitori e operatori insieme concorrono alla definizione dei criteri da tenere in considerazione per l’accesso agli asili nido. Effettivamente nei servizi all’infanzia e nella conciliazione-vita lavoro il grado di innovazione istituzionale aretino è decisamente maggiore di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, con soluzioni che tendono a travalicare le grandi alternative identitarie associate ai diversi modelli di governance regionale. In parte diverso è il discorso per un altro segmento importante delle politiche sociali locali, quello della non autosufficienza e dei servizi sociali. In questo caso l’alterità di modelli trova conferma anche sul territorio. Sebbene Arezzo non abbia ancora portato a compimento l’implementazione della Società della Salute, il perno della strategia di integrazione socio-sanitaria della regione Toscana, il percorso seguito rimane abbastanza in linea con gli indirizzi regionali. Il processo di de-ospedalizzazione si salda con la ricerca di un rapporto maggiormente osmotico tra Asl e enti locali (da aggregare progressivamente, riducendone la dispersione organizzativa) teso a favorire lo sviluppo delle cure

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intermedie e della continuità assistenziale. Nella sostanza l’istituzione della “Società della Salute” è già presente nella zona aretina, perché già operanti gli organismi amministrativi deputati alla sua gestione. Ma soprattutto, cosa più importante, è all’interno delle politiche socio-sanitarie che coerentemente con il disegno istituzionale della regione Toscana, si definiscono gli standard minimi di diritti esigibili dal cittadino in merito alle prestazioni erogate. Va detto inoltre che anche per quanto riguarda le forme di partecipazione al policy making questo settore di politiche si mantiene in linea con gli orientamenti regionali, prevedendo organi di coordinamento e aggregazione degli interessi, chiamati a interagire con le strutture amministrative (Conferenza dei sindaci e Asl in particolare) solo in determinate fasi della programmazione e senza che questo si traduca in un effettivo potere di determinazione dei servizi. A ben vedere, questa è una caratteristica sostanziale della governance aretina e della regione Toscana, la quale, sebbene si sia dotata di una legge regionale per la partecipazione del cittadino, pare ancora rimanere sul terreno della sola consultazione piuttosto che l’apertura a modelli di partecipazione più inclusivi capaci di produrre effettiva co-determinazione. Ma questa probabilmente è anche una scelta politica, ovvero aprire alla consultazione della società civile e del terzo settore, ma all’interno di una primazia pubblica in merito agli interventi da attivare da conservare comunque. Di particolare interesse è anche l’esperienza di Milano. Forte della continuità politica e strategica in cui si muove il Comune rispetto al quadro di riferimento fornito a livello regionale, il welfare locale ripropone tra i suoi capisaldi quelli del welfare attivo. Di qui l’orientamento a passare da politiche di protezione a politiche di attivazione e partecipazione; la scelta di partire dalla domanda per la costruzione della risposta ai bisogni; nonché la rilevanza assegnata alla sussidiarietà orizzontale, sociale. È tuttavia possibile parlare di un “modello Milano” per alcune opzioni che ne qualificano le scelte in materia di politiche sociali. Del resto, è la stessa dimensione del capoluogo, e la rilevanza che esso gioca nel contesto lombardo sotto il profilo politico, economico, demografico, culturale, a renderlo un territorio che si pone come interlocutore per certi aspetti privilegiato della Regione e per altri come attore autonomo, dotato di una propria capacità innovativa, al punto da poter essere considerato come un cantiere aperto di sperimentazioni. Il sistema di offerta dei servizi sociali, socio-sanitari ed educativi si è strutturato cercando di integrare differenti aree di politica e intervento; questo nella valorizzazione della famiglia quale soggetto attivo nella rete dei servizi e in attuazione al principio della sussidiarietà orizzontale, dunque mediante interventi congiunti e intese tra pubblico e privato. È in particolare nell’ambito dell’assessorato ai servizi sociali che questo processo di integrazione si è realizzato, con l’unificazione delle politiche e degli interventi educativi e sociali in capo all’Assessorato Famiglia, Scuola, Politiche sociali; un’unificazione che è al tempo stesso una specificità e un punto di forza della realtà milanese. L’approccio socio-educativo integrato è infatti considerato come una strategia vincente specie per fronteggiare i bisogni delle persone appartenenti all’area delle cosiddette nuove povertà, nella misura in cui tende a superare la logica di intervento settoriale, mediante il coordinamento di più aree di politica e servizi. In questa logica di integrazione va considerato un secondo elemento innovativo che vogliamo qui segnalare: l’orientamento verso quello che alcuni intervistati hanno definito lo “spacchettamento dei target”. Come rilevato anche a livello regionale, sull’onda della crisi e dell’acuirsi delle forme di disagio e insieme dell’ampliarsi dei processi di impoverimento e marginalizzazione, si sta procedendo verso la

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decostruzione delle tradizionali categorie di classificazione del bisogno (anziani, disabili, immigrati, donne, over 50), in favore della definizione di un’area allargata in cui sono compresi i soggetti esposti al rischio di espulsione dal mercato del lavoro. Tale orientamento peraltro non è una novità del momento contingente e, specie nelle aree di programmazione considerate della nostra ricerca, ha spinto a lavorare in quest’ottica sia nel settore adulti in difficoltà (con l’integrazione delle azioni specificamente rivolte al contrasto all’esclusione sociale), sia con riferimento ai minori (con la finalità di accompagnarli anche oltre il compimento della maggiore età) e agli stranieri (per i quali si cerca di aumentare il grado di connessione rispetto al settore politiche della famiglia e minori e giovani, superando un’impostazione settoriale, a favore di un intervento più complesso). Un terzo elemento innovativo del sistema di welfare milanese sul quale vale la pena soffermarsi riguarda la Sperimentazione del Segretariato sociale. Indicato dalla L.R. 3/2008 come porta di accesso unificata ai servizi del territorio, ma già in parte anticipato nella programmazione precedente del Comune di Milano, il Segretariato Sociale è stato avviato in via sperimentale in una zona di decentramento sul finire del 2009. Dal punto di vista funzionale e operativo si compone di un’equipe pluridisciplinare, di cui fanno parte un operatore amministrativo, un assistente sociale, un educatore professionale. Costruito secondo questo schema, come ben mostra il capitolo dedicato all’esperienza milanese, il Segretariato Sociale rivela la tipicità dell’impianto di welfare comunale, strutturandosi lungo tre direttrici quali: la riforma del sistema di primo accesso ai servizi; la trasversalità dell’intervento, tanto in termini di integrazione delle politiche quanto di target di riferimento delle stesse; l’approccio a valenza sociale e pedagogica. Un quarto, e a nostro avviso il più promettente degli elementi innovativi emersi – che potrà inoltre essere valorizzato in una prospettiva laboratoriale, visto l’interesse raccolto da parte dell’amministrazione locale – porta a riflettere sulla questione della conciliazione lavorativa e dei servizi alla prima infanzia. Nonostante Milano abbia in questi anni cercato di dare in merito risposte significative, offrendo servizi e supporti economici alle famiglie (superando di un punto percentuale gli obiettivi europei quanto a offerta di servizi rivolti alla prima infanzia), o forse proprio a motivo di questa situazione già favorevole e “matura”, si tratta di una questione che merita di essere rivisitata in una luce nuova. Come si argomenta in chiusura del capitolo milanese, occorre affrancare la conciliazione dalla sua tradizionale caratterizzazione al femminile e arrivare a connotarla come vero e proprio problema dell’intera società, di cui tutti siano chiamati a farsi carico, ripensandola in termini di “capacitazione” dei soggetti (Riva 2009; Riva e Zanfrini 2010). Perché ciò possa realizzarsi, rimangono aperte alcune sfide: anzitutto superare la contrapposizione tra politiche sociali e politiche del lavoro e tra interventi delle aziende e interventi dello stato sociale. Ad oggi, infatti, il vero nodo della conciliazione sembra essere una fin troppo netta divisione dei compiti tra attori sociali ed economici, secondo criteri e finalità che difficilmente giungono a ricomposizione. Per questo il capitolo citato chiude lanciando l’ipotesi di un “Patto Milano per la conciliazione”, un patto tra istituzioni, politiche, servizi sociali e imprese. Le basi per lavorare in questa direzione sono state gettate. Ma la sfida più grande, a ben vedere, è di carattere culturale, e richiede di aprire una riflessione sul significato della conciliazione vita-lavoro. Veniamo infine a Lamezia Terme. Del quadro regionale connotato da ritardi nell’avvio del nuovo corso delle politiche sociali abbiamo sopra detto. Lamezia presenta al proprio interno sia caratteristiche che, di fatto, la tengono ancorata al senso di incompiutezza

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della governance regionale Lamezia, sia aspetti innovativi che ne fanno un caso di studio interessante, per la possibilità che questi possono essere scambiati e tradotti in pratica in altre zone della regione. Lamezia ha nel corso degli ultimi anni mostrato una certa capacità di sperimentazione, anche grazie a una certa dotazione di organizzazioni non profit che hanno sostenuto gli sforzi programmatori dell’amministrazione. Emerge una forte volontà politica di modificare il corso degli interventi assistenziali, agendo sulla macchina amministrativa e sulla programmazione come leva strategica per l’innovazione. La nuova programmazione indotta dalla 328 risponde non tanto all’obbiettivo di dotare il territorio di nuovi servizi di fronte pressioni di una nuova domanda sociale, bensì il mezzo attraverso il quale rompere la vecchia azione politica discrezionale, inefficiente e clientelare. Ma il nuovo metodo della programmazione rappresenta una innovazione importante anche per un altro motivo. Con questa si inducono i comuni ad associarsi intorno al distretto socio-sanitario, uscendo dall’isolamento autoreferenziale che ha indebolito la capacità di presa in carico sociale. Una delle principali lacune che tuttavia rimane è la scarsità di informazioni socio-economiche puntuali e aggiornate rispetto al contesto locale. Questa scarsa propensione degli uffici a rilevare il dato, ha comportato automaticamente una conoscenza approssimativa di alcuni fenomeni e, quindi, una programmazione politica meno aderente alle reali necessità territoriali. Come si può notare emerge anche qui l’importanza della capacità amministrativa. Prima ancora che l’adozione di modelli o strumenti presi da questa o quella sperimentazione, è importante agire all’interno della macchina amministrativa, come prerequisito indispensabile di qualunque innovazione futura. 8.4. I nodi da sciogliere, le strategie possibili A partire dalle molteplici indicazioni emerse dalla ricerca nei tre contesti regionali e locali, proviamo in chiusura a sintetizzare i nodi che i percorsi locali di riforma del welfare portano in evidenza e insieme alcune piste di intervento sulle quali strategicamente appare opportuno investire in chiave progettuale.

8.4.1 Ripensare la governance I processi di rescaling, di decentramento, di regionalizzazione e di sussidiarizzazione delle politiche, dei quali abbiamo ampiamente discusso in questo Rapporto di ricerca, portano a valorizzare la dimensione locale – e quella municipale in modo particolare – come il terreno su cui si misura la capacità della collettività (considerata in tutte le sue componenti, istituzionali e non solo) di creare inclusione, benessere, coesione sociale. In questo senso i casi da noi analizzati mostrano – seppure con modalità differenti – quanto proprio il livello locale possa configurarsi come il più appropriato per mettere in campo risposte innovative, per sperimentare soluzioni nuove e mirate ai bisogni del territorio, oltre che, com’è ovvio, per attivare servizi integrati e personalizzati. Per altro verso, tuttavia, gli stessi casi ci consentono di evidenziare molto bene ciò che più volte abbiamo sottolineato: non tutto può essere demandato a questo livello. Per almeno due ragioni.

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Anzitutto, i territori non sono egualmente dotati di risorse, di capacità amministrative e di gestione dei processi di riforma stessi, di capacità di lettura dei bisogni e, conseguentemente, di elaborazione di risposte adeguate. Se la diversità e la specificità territoriale sono dati imprescindibili per la costruzione di sistemi di welfare efficaci e rispondenti alle esigenze che emergono dalla cittadinanza, non basta delegare ai territori perché tale costruzione avvenga automaticamente. In questo caso non è di diversità o di specificità che si deve parlare quanto di divari territoriali, da cui possono discendere disuguaglianze sul piano dei diritti e dei sistemi di protezione. È istruttiva al riguardo la vicenda della partecipazione ai processi di policy making da parte delle realtà del terzo settore, che – come hanno mostrato le nostre regioni – necessita di essere in qualche misura regolata affinché tale partecipazione possa esprimersi al meglio. L’articolazione interna al no profit, e ancor più l’eterogeneità che caratterizza le espressioni delle società civile ammessa a prendere parte alla programmazione sociale rendono a volte difficile l’emergere di una rappresentanza condivisa, ed effettivamente capace di portare al tavolo con le istituzioni le voci di tutti. In tal senso l’“infrastruttura istituzionale” che definisce le norme in cui ciò può avvenire diventa uno dei qui “vincoli benefici” che favorisce l’auto-organizzazione delle società civile, senza darla per scontata, e consente il dispiegarsi del potenziale innovativo che essa possiede. In secondo luogo, molti dei fenomeni che provocano l’emergere di certi bisogni a livello locale (pensiamo alla disoccupazione) poggiano su determinanti sistemiche su cui le società locali da sole poco possono fare. Per certi versi anzi il trasferimento di competenze sul territorio, se non adeguatamente supportato dai livelli centrali (in termini non solo di finanziamenti, ma anche di capacità amministrativa), può produrre effetti opposti, ovvero il rinchiudersi in particolarismi alimentati e legittimati dall’indebolimento dei canali di solidarietà nazionali (Ciarini, 2010). Ne discende l’esigenza di scandagliare ulteriormente le implicazioni profonde dei processi regionalizzazione del welfare italiano in merito a come si definiscono i rapporti tra amministrazioni periferiche e quella centrale (e ciò vale sia per quanto riguarda il rapporto Stato-Regioni, sia a sua volta il rapporto tra Regioni ed enti locali), a maggior ragione nel momento in cui il nostro paese sta discutendo l’attuazione di una riforma profonda del suo assetto amministrativo quale è quella del federalismo fiscale. In altri termini il nodo su cui riflettere è propriamente quello della governance sia livello regionale sia soprattutto a livello centrale, salvaguardando appieno il senso di ciò che si definisce una governance multilivello. Per ciò che attiene l’oggetto della presente ricerca, quanto emerso nelle pagine precedenti suggerisce in particolare l’importanza di una azione di coordinamento effettivo esercitata dal livello nazionale, con funzioni specificatamente rivolte a impedire l’esplosione dei divari territoriali (ma sarebbe meglio dire delle disuguaglianze), così come intendeva la 328 quando attribuiva allo Stato il compito di definire dei livelli minimi di assistenza. Il momento attuale sembra cioè richiedere una capacità e una efficienza amministrativa centrale per molti versi persino superiore a quella conosciuta nel welfare fordista, quando sostanzialmente si trattava di organizzare flussi di finanziamenti (prettamente di natura contributiva) da destinare a singole categorie professionali o utenti in condizioni di bisogno. Il problema in Italia risulta amplificato dalla storica debolezza dei livelli amministrativi centrali, in un sistema di welfare, come ricordato da Paci (2008), formalmente unitario, ma sempre condizionato da svariate forme di particolarismo, prima categoriale, in tempi più recenti a carattere locale. Oggi la valorizzazione del territorio come ambito primario di programmazione e gestione degli interventi sociali e

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il conseguente trasferimento di risorse e responsabilità amministrative agli enti locali, richiedono un sistema di sussidiarietà verticale coerente e organizzato in ambiti di responsabilità non sovrapposti, né tendenti alla frammentazione. Il pericolo di un malinteso concetto di decentramento come trasferimento di sole responsabilità senza risorse o come progressiva evaporazione delle politiche nazionali per il crescente attivismo dei soli programmi regionali o locali rischia di acuire le forti differenze che già adesso segnano il paese. Il rischio è che le disparità territoriali relativamente ai sistemi economico-produttivi, ai mercati del lavoro, alla povertà, alla vulnerabilità si vadano a sommare a carenze istituzionali o anche più semplicemente a differenziazioni interne ai modelli di welfare così che alla fine si configurino territorialmente pacchetti di servizi e perfino di diritti disomogenei nel paese, con conseguenze che si riverberano sul piano della cittadinanza economica e sociale. Detto in altri termini, così come per le persone, “attivare la responsabilità” dei territori significa anche creare le condizioni affinché tale responsabilità si possa dispiegare. E questo richiede, peraltro come condizione di per sé non sufficiente, di mantenere alta la funzione di coordinamento (e in indirizzo) del centro, nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà. Considerando quanto sin qui argomentato, non si tratta naturalmente di celebrare un impossibile ritorno al passato, ma di lavorare per rafforzare la funzione di coordinamento degli attori in campo da parte dell’amministrazione centrale. Le risposte dei sistemi locali di welfare non possono essere altro che multiple, specifiche, ma inscritte dentro il quadro di una strategia nazionale che abbia a cuore la diminuzione dei differenziali, delle diverse dotazioni di capitale economico, di capitale sociali, culturale. Riportare a sistema l’insieme delle esperienze di riforma implica dunque riuscire a fissare obiettivi comuni, verso cui fa convergere i welfare locali, pur salvaguardando la possibilità di trovare assetti regolativi propri, che non necessariamente devono coincidere. In questo senso, proprio come auspicato all’inizio di questa ricerca, gli studi di caso effettuati hanno messo in luce esperienze interessanti che vale la pena di mettere in dialogo tra loro, anche al fine di pervenire a una modellizzazione utile ad altri territori, che dia gambe all’idea di rinnovare il welfare a partire dalle esperienze maturate in ambito locale, attivando una sorta di “metodo aperto di coordinamento” nazionale, così come si realizza a livello europeo. In merito, è importante rilevare la disponibilità dei territori coinvolti nella presente ricerca ad avviare ulteriori collaborazioni e attività di ricerca-azione, anche in chiave laboratoriale. 8.4.2 Uno o tanti modelli mediterranei I processi di trasformazione del welfare sembrano acuire i divari territoriali, segnatamente tra un Centro-Nord che sperimenta soluzioni, anche molto diverse tra regioni e regione quanto a scelte di governance (Toscana e Lombardia sono due esempi lampanti in questo senso), ma comunque accomunate da una spinta alla modernizzazione, e un mezzogiorno (in questa ricerca rappresentato dalla Calabria) in cui paiono ancora predominanti i caratteri tradizionali dei welfare mediterranei. Essi afferiscono, come risulta dalla ricerca, nella combinazione di condizioni di domanda e di offerta di protezione sociale che replicano il riprodursi di un familismo coatto (Saraceno, 1998) che scarica sulle reti della solidarietà familiare - sulle donne in special modo (escluse dalla partecipazione al mercato del lavoro)- i costi del mancato intervento pubblico. Ma se la famiglia assume qui il ruolo tradizionale di cassa di

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compensazione delle mancata redistribuzione pubblica, se il familismo è in altre parole una caratteristica non solo culturale di fondo, ma soprattutto diretta conseguenza di mancate politiche familiari, questo trova alle spalle condizioni strutturali, relative alla generale mancanza di lavoro, che alimentano il persistere di approcci assistenziali, soprattutto monetari, tesi a intervenire (risarcire) sulle situazioni di disagio. Non che il ruolo della famiglia non sia rilevante nelle altre due regioni oggetto di indagine. Tuttavia, come abbiamo mostrato, più evidente pare il senso di rottura degli equilibri produttivi e riproduttivi tradizionali. E tutto questo non solo per un’efficienza della macchina amministrativa più attrezzata a recepire istanza di rinnovamento. Non meno rilevanti sono le caratteristiche della domanda sociale, ovvero la natura dei bisogni sociali espressi dalle famiglie. Di fronte a mercati del lavoro non asfittici, meno condizionati da zone grigie di illegalità, in grado (almeno fino al più recente passato) di assorbire quote crescenti di occupazione femminile, le questioni della conciliazione vita-lavoro, della occupabilità, dell’inserimento attivo nel mercato del lavoro, in una parola dell’attivazione come la si intende nei moderni orientamenti di policy, trovano presupposti più ricettivi delle innovazioni, essendone anzi alla base. Del divario che acuisce il diverso rendimento istituzionale delle regioni “innovatrici” del Centro e del Nord rispetto al ritardo che pesa sulle capacità di innovazione delle regioni del meridione questa indagine coglie solo in parte la complessità del fenomeno. Se possiamo dire che la Calabria rappresenta bene il caso di una regione del mezzogiorno che amplifica i caratteri mediterranei del welfare, non è detto che questa stessa situazione si ripresenti secondo le medesime caratteristiche e intensità in altre regioni del Sud. Interessante e utile sarebbe in proposito allargare lo sguardo anche ad altre regioni di questa area del paese, ponendo la questione dei diversi “mediterranei” che caratterizzano il mezzogiorno. 8.4.2 L’integrazione delle politiche: dalla “porta unica di accesso” allo

“spacchettamento” dei target La crescente vulnerabilità della popolazione e la complessità delle situazioni di disagio che si vanno configurando nell’attuale scenario, è il leitmotiv sotteso al bisogno di integrazione delle politiche emerso in tutte le realtà da noi studiate, sia a livello regionale, sia ancor più a livello locale. Come abbiamo avuto modo di rilevare, in questi anni sonno andati modificandosi i profili del rischio e della domanda sociale. Anche per rispondere a questa esigenza, le politiche delle quattro aree di policy da noi indagate trovano nei territori tentativi importanti di integrazione, come i capitoli hanno evidenziato. Inoltre, la necessità di leggere i bisogni e di andarli a intercettare laddove si manifestano, facendo emergere la domanda che resta nascosta, incapace perfino di esprimersi, sta spingendo le amministrazioni locali a riflettere anche sulla fisionomia dei servizi territoriali e naturalmente sulle condizioni di accesso agli stessi. In questo senso è davvero rilevante osservare più da vicino le realtà che stanno sperimentando (come Milano) il servizio di Segretariato sociale, o sportello unico, ovvero porta di accesso unificata ai servizi del territorio, dove lo sforzo non è tanto quello di creare un semplice punto di raccolta e smistamento della domanda sociale, ma di predisporre un punto di contatto con la cittadinanza, qualificante l’intero sistema di welfare per la capacità di ascolto, accompagnamento, ed eventuale presa in carico, col rimando a realtà di secondo livello per problemi che necessitano di risposte specifiche.

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L’efficacia di tale Sportello, che mira a lavorare in rete con le altre realtà di servizio che abitualmente raccolgono e rispondono ai bisogni, dipenderà dalla capacità di integrare competenze diverse, comprese quelle delle realtà di terzo settore che da tempo nei territori svolgono questa stessa funzione. La logica di rete e quella della prossimità nei confronti dell’utenza dovranno dunque costituire i punti di forza dello Sportello in parola. In questo senso il Segretariato sociale può costituirsi oltre che come punto di riferimento per i soggetti in situazione di bisogno anche come opportunità per rinforzare o ritessere il proprio capitale sociale e trovare agganci relazionali che riconducano a contesti di inclusione e appartenenza. La questione dell’integrazione delle politiche, peraltro, non si esaurisce nel tentativo di fornire una risposta articolata al bisogno, laddove esso viene espresso. La vulnerabilità sociale di cui si è riferito, ancor più acuita in questa fase di crisi in tutte le realtà locali considerate, richiede risposte sempre meno settoriali e sempre meno definite su precisi target di riferimento, perché i soggetti in situazione di bisogno non sono categorie distinte, ma sempre più contigue e mobili. L’esigenza di riconfigurare i profili del rischio risalta infatti sempre più a fronte delle crescenti difficoltà occupazionali che determinano in molti casi una serie di fragilità al di là di quella economica: psicologica, familiare, abitativa. Tale fragilità porta includere una larga fetta di disoccupati nella fascia dei cosiddetti “adulti in difficoltà”, per i quali le esigenze connesse alla ricerca attiva di un nuovo impiego costituisce solo una parte del problema. Dunque le politiche sociali e del lavoro diventano giocoforza integrate. La personalizzazione delle politiche (a cui lo stesso servizio del segretariato sociale dovrebbe concorrere) pare essere la strada maestra per fronteggiare la situazione, ma non è facile da realizzare. “Spacchettare i target”, come alcuni intervistati hanno suggerito, implica riconfigurare le categorie di classificazione del rischio, ma agire su questo fronte non basta quando su tali classificazioni si incardina l’accesso alle risorse economiche. È quindi un’operazione complessa e di sistema che non è sufficiente realizzare a valle, là dove si prende in carico il soggetto in difficoltà, ma richiede un ripensamento a monte dell’intera architettura. 8.4.4 Politiche di offerta e politiche della domanda. Il problema del reddito di fronte alla crisi La crisi, dunque, fa emergere in modo ancor più evidente la necessità di integrazione delle politiche, ribadendo quanto essa vada attuata tanto tra le politiche sociali in senso stretto quanto con riferimento ad altre aree di politiche, su tutte quelle del lavoro e dello sviluppo. Non è una novità. La stessa legge 328/2000 lo diceva già chiaramente. Tuttavia, in modo non scontando, proprio la crisi, la mancanza del lavoro, la disoccupazione, la precarizzazione e l’esplosione del ricorso agli ammortizzatori sociali spingono ancor più il lavoro al centro del welfare, mostrando quanto esso sia fulcro del benessere individuale e collettivo, ma evidenziano nel contempo che se il welfare vuole essere attivo e attivante non può concentrarsi solo sull’offerta, almeno non quando non è in grado di garantire l’occupazione. Il caso calabrese lo mostra in modo eclatante, ma ciò emerge sempre più in questi mesi anche in Lombardia e Toscana, come la ricerca sul campo ha indicato. Il lavoro come ambito di integrazione, emancipazione dalla condizione di bisogno, realizzazione personale, benessere economico, riconoscimento sociale – così come predicato dal welfare attivo – può essere tale solo se c’è, e se è di

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qualità. Puntare allo sviluppo economico e produttivo dei territori, sostenere le imprese è dunque la più importante politica di attivazione che si possa pensare in questo frangente. Per non smarrire e non contraddire uno dei principi alla base del welfare attivo, secondo cui il lavoro è fattore cruciale di inclusione e cittadinanza attiva, occorre che quando il lavoro viene a mancare siano garantite assieme ai dispositivi per sostenere il reddito (adeguati ammortizzatori sociali), le condizioni per non perdere lo status di cittadinanza attiva, e dunque di inclusione. In questo senso, il collegamento degli ammortizzatori in deroga alle politiche attive e in particolare alla formazione appare molto importante. Sapendo però che non si può pretendere dalla stessa formazione la garanzia di un reimpiego immediato dei beneficiari. Senza affatto volerne sminuire il ruolo di riqualificazione e aggiornamento, ai fini dell’occupabilità, essa assume in questa fase, una funzione di attivazione in senso lato, attribuendo una finalità nuova, di tipo promozionale, agli stessi ammortizzatori sociali. Ne consegue che oggi la distinzione tra politiche attive e passive sembra perdere rilievo, o meglio esige di essere ridefinita. Se è vero che le politiche passive si devono collocare in stretta relazione alla disponibilità all’occupazione, il sostegno del reddito diviene altrettanto prioritario e la sua adeguatezza lo diviene ancor di più. A quanto detto, si aggiunga la questione legata alle temporaneità degli ammortizzatori sociali, in deroga o meno. Se la crisi perdura, quando la loro copertura terminerà, i soggetti più vulnerabili potrebbero trovarsi senza altre reti di protezione. A partire da queste considerazioni, i tempi paiono maturi per rilanciare la riflessione anche su strumenti “dedicati”, come il reddito minimo. Tutto questo non solo perché ad oggi l’Italia è rimasto in Europa uno dei pochi paesi ancora a non avere ancora una politica nazionale di contrasto alla povertà, ma altresì per le pressioni che insistono (e tenderanno a crescere) sui dispositivi ordinari, spingendo verso deroghe che potrebbero più utilmente essere messe a sistema in un nuovo quadro di interventi “ordinari” e “dedicati” (da attivare quando i primi vanno a esaurimento). A questo fine si tratta anzitutto di guardare a quanto realizzato negli altri paesi europei ove dispositivi di questo genere sono presenti. Ma si potrebbe utilmente guardare anche in Italia, dove istituti simili sono stati introdotti in via più o meno sperimentale. La regione Toscana ha nello scorso anno fatto una proposta di legge in merito all’istituzione del reddito minimo. Nel Lazio è stato invece istituito di recente. Ma vi sono esperienze regionali di più lungo periodo come quella campana, cui si potrebbe guardare o ancora, quella più recente della Provincia Autonoma di Trento, laddove da oltre un anno è stato introdotto il “reddito di garanzia”, con funzioni sia anticongiunturali (sostenere i lavoratori scolpiti dalla crisi) sia strutturali (prevenire e contrastare situazioni di povertà secondo criteri di equità). Di queste esperienze uno degli aspetti che meriterebbe di essere indagato meglio è lo sforzo di integrare il sostegno del reddito con le politiche attive del lavoro – la formazione in primis – e con le politiche sociali. È sulla base di tale integrazione che il lavoro può rappresentare il fulcro del welfare senza diventare però requisito unico di accesso alla rete di protezione. Al di là delle modalità specifiche attraverso cui i meccanismi citati sono stati definiti e implementati, ciò su cui hanno il merito di far ragionare è la possibilità di integrare in modo nuovo politiche attive e passive, dispositivi di sostegno del reddito e attivazione, intendendo quest’ultima in senso ampio, come promozione delle capacità degli individui.

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8.4.5 La conciliazione come sfida per la modernizzazione del welfare

Il confronto tra le regioni da noi considerate ha messo in evidenza molto bene come gli assetti di welfare si differenzino in base a diversi fattori: scelte politiche, tradizioni istituzionali, contesto economico produttivo, ecc. Tra di essi un ruolo determinante è giocato dalla domanda sociale. Come abbiamo avuto modo di evidenziare, nelle regioni economicamente più dinamiche, quali la Lombardia e la Toscana, dove la partecipazione al mercato del lavoro delle donne è più alta e le famiglie sono in larga misura a doppio reddito, la disoccupazione è contenuta (almeno fino a prima della crisi), la domanda sociale si è indirizzata da tempo verso la questione della conciliazione famiglia-lavoro. Rispetto a questa esigenza, Lombardia e Toscana hanno messo in campo risposte significative, in parte diversificate, ma in buona misura accomunate dal potenziamento dei servizi di care per la prima infanzia. Non è un caso che tanto Milano quanto Arezzo abbiano evidenziato proprio nel tema della conciliazione uno degli snodi per lo sviluppo del sistema di welfare locale. Per altro verso, la definizione di un compiuto sistema di servizi e dispositivi a sostegno della conciliazione è lungi dall’essere pienamente realizzato anche in questi contesti per certi aspetti “virtuosi”. Anzi, proprio l’esempio di queste due realtà locali evidenzia come il tema della conciliazione assuma un valore paradigmatico dentro i processi di modernizzazione del welfare italiano, in buona misura ancora di stampo familistico. Se c’è una prima indicazione importante da trarre, è la portata culturale del tema, che sollecita almeno due spunti di riflessione. Primo, la questione della conciliazione è una questione di tutti, della società intera (donne e uomini), e per questo è penalizzante restare imbrigliati – come spesso accade – in una sua lettura solo “al femminile”, benché sia indubbio che sono le donne a subire i costi maggiori della conciliazione tra mothering e working. Come afferma la Nussbaum (2002), ciascun essere umano ha diritto tanto a ricevere quanto a prestare cure, quindi il tema della conciliazione interpella e interessa la società intera. I casi qui presentati, e quelli di Milano e Arezzo in particolare, sembrano al riguardo suggerire che i tempi sono maturi per compiere un passo avanti e riconoscere che la ricomposizione tra vita e lavoro riguarda il diritto di ogni persona (al di là dell’appartenenza di genere) di armonizzare le diverse sfere esistenziali importanti per la sua piena realizzazione (nel linguaggio del capability approach significa avere la capacità potenziale e attuale di essere e fare ciò che si ritiene di valore per sé). La capacità di dare corso a questa armonizzazione non è equamente distribuita, anzi determina nuove disuguaglianze. Di qui l’esigenza di pensare risposte nuove. Non solo, ma gli equilibri su cui si gioca tale armonizzazione non possono essere preconfezionati, dipendendo dalle scelte di vita di ciascuno. Di qui allora anche l’esigenza di strutturare le condizioni istituzionali che consentano l’esercizio di una libertà di scelta e flessibilità nell’accesso alla alternative di offerta anche in questo ambito. Una tale riflessione spinge evidentemente a ripensare il rapporto tra politiche del lavoro e politiche sociali, tra funzioni di produzione e funzioni di riproduzione sociale, tra diritto a dare e ricevere cura e diritto al lavoro, evitando che tra di essi debba sempre frapporsi un trade off penalizzante. A queste contrapposizioni si aggiunge quella che a chiusura del caso milanese, viene definita come divisione troppo netta dei compiti tra gli attori locali che a vario titolo sono coinvolti nella questione, in particolare le istituzioni e le imprese, mentre la conciliazione è una questione che investe l’intera comunità locale. In questa prospettiva, le imprese vanno considerate come veri e propri stakeholder delle politiche di conciliazione e andrebbero

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maggiormente coinvolte nella loro attuazione. Per esempio spingendole ad agevolare di più la fruizione dei congedi parentali (di fatto scarsamente utilizzati dai potenziali beneficiari) e a vedere anche in questo ambito un fattore ineludibile su cui giocare la loro responsabilità sociale. In questo senso è davvero interessante la proposta che emerge da Milano di immaginare un nuovo patto tra istituzioni politiche e amministrative, imprese, famiglie. Come anche l’esperienza aretina suggerisce, ciò che occorre è dunque un investimento dell’intera collettività sulla questione della conciliazione e della cura dei minori come un tutt’uno nella prospettiva di una comunità educante in cui l’amministrazione si fa garante di una messa in rete strategica di attori e alternative di offerta in vista del miglioramento della capacità di presa in carico. Secondo, considerando che le politiche di conciliazione coincidono attualmente in larga misura con lo sviluppo di servizi per la prima infanzia, ripensare la conciliazione diventa un’occasione propizia per riflettere sull’approccio con cui vanno pensati e impostati tali servizi, valutandoli non solo funzionalisticamente come risposta a una domanda di care. Anche in questo caso i tempi sembrano essere maturi (come testimoniano Milano e Arezzo) per valorizzare di più le funzioni educative che i servizi di care per i più piccoli assolvono, diventando parte di un sistema di welfare che punta alla “capacitazione” dei soggetti, a partire dagli stessi bambini in una ottica strategica di formazione lungo tutto l’arco della vita. In questa prospettiva garantire opportunità adeguate di care e di educazione ai più piccoli, anche nella primissima infanzia, rappresenta un investimento contro le disuguaglianze che si producono già in tenera età e che tendono a incrementarsi lungo il corso della vita. In questa luce, garantire una copertura universalistica dell’utenza (e non solo della domanda – che non è detto che sia sempre capace di esprimersi), diviene una questione di cittadinanza per i più piccoli e per gli adulti di domani. A patto di non creare nuove contrapposizioni al ruolo effettivo ed educativo della famiglia, che va anzi con maggior forza sostenuto; e a patto naturalmente che sia garantita la qualità dell’offerta. Mettere a tema la conciliazione rappresenta, come si è detto, un’opportunità di modernizzazione del welfare. Ma è anche l’occasione per ricordare che il welfare non va considerato né solo in chiave emergenziale (come in questa fase di crisi sembra accadere), né come risposta alle situazioni di grave emarginazione, povertà, esclusione. Un welfare attivo e preventivo trova quindi nella conciliazione uno dei punti cardine per essere un welfare per tutti, per affrontare la vita quotidiana e le vulnerabilità che discendono dal compiere scelte persino le personali scelte di vita, compreso l’avere dei figli. Vulnerabilità che si accrescono nell’attuale fase di recessione e che confermano quanto il welfare sia un ambito sul quale investire, non certo su cui effettuare l’arte del risparmio. Si può anzi arrivare a dire che investire nel welfare rappresenti una politica di sviluppo.

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