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38 Claudio Vercelli PENSARE IL RADICALISMO ISLAMICO Fra diverse interpretazioni Quanto sta avvenendo sul proscenio mediorienta- le, ma anche nell’Africa mediterranea e subsahariana, suscita apprensione. La presenza di movimenti che di- chiarano di ispirarsi al radicalismo islamico, se in sé non è nuova, rilancia tuttavia la problematicità della definizione del loro ruolo, non solo nella politica dei Paesi e delle comunità in cui operano ma anche sul piano degli equilibri continentali a venire. Abbiamo a che fare, infatti, con soggetti collettivi che ambiscono ad influenzare nel tempo le relazioni internazionali. Non si tratta – quindi – di manifestazioni estempora- nee di disagio, o di eccessi occasionali, ma di un muta- mento del modo di intendere e praticare l’azione poli- tica in aree del pianeta con le quali ci troviamo a diret- to contatto. Poniamo da subito una questione di natura termi- nologica, che è in sé assai più complessa di quanto non possa apparire ad un primo sguardo, poiché denomi- nando qualcosa lo si genera o comunque, si concorre a dargli un senso e una posizione nell’ordine delle cose del mondo. Si tratta, infatti, del significato da attribui- re a certe parole, il cui uso inflazionato fa sì che esse ri- schino di perdere di coerenza, congruenza e, soprattut- to, di performatività. Ci stiamo occupando della deno- minazione dell’insieme dei fenomeni che rinviano alle turbolenze in atto nel Medio Oriente e in parte dell’Africa, soprattutto quella mediterranea e subsaha- riana. Ma non solo. Entriamo quindi nel merito dei termini in oggetto, per poi meglio intendere quello che si affermerà successivamente. Definiamo con isla- mismo e islamista l’insieme dei movimenti politici, co- me degli individui in essi militanti, che si rifanno all’Islam politico contemporaneo, ossia adottano un’interpretazione ideologica della religiosità, volta quindi a legittimare l’azione collettiva e i rapporti con le strutture del potere attraverso i simboli e i valori che Cosa è dato riscontrare nell’insieme dei movimenti politici fondamentalisti e integralisti che si rifanno a una “tradizione” che auspica o cerca di instaurare un “governo di dio”

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Claudio Vercelli

PENSARE ILRADICALISMO

ISLAMICO

Fra diverse interpretazioni

Quanto sta avvenendo sul proscenio mediorienta-le, ma anche nell’Africa mediterranea e subsahariana,suscita apprensione. La presenza di movimenti che di-chiarano di ispirarsi al radicalismo islamico, se in sénon è nuova, rilancia tuttavia la problematicità delladefinizione del loro ruolo, non solo nella politica deiPaesi e delle comunità in cui operano ma anche sulpiano degli equilibri continentali a venire. Abbiamo ache fare, infatti, con soggetti collettivi che ambisconoad influenzare nel tempo le relazioni internazionali.Non si tratta – quindi – di manifestazioni estempora-nee di disagio, o di eccessi occasionali, ma di un muta-mento del modo di intendere e praticare l’azione poli-tica in aree del pianeta con le quali ci troviamo a diret-to contatto.

Poniamo da subito una questione di natura termi-nologica, che è in sé assai più complessa di quanto nonpossa apparire ad un primo sguardo, poiché denomi-

nando qualcosa lo si genera o comunque, si concorre adargli un senso e una posizione nell’ordine delle cosedel mondo. Si tratta, infatti, del significato da attribui-re a certe parole, il cui uso inflazionato fa sì che esse ri-schino di perdere di coerenza, congruenza e, soprattut-to, di performatività. Ci stiamo occupando della deno-minazione dell’insieme dei fenomeni che rinviano alleturbolenze in atto nel Medio Oriente e in partedell’Africa, soprattutto quella mediterranea e subsaha-riana. Ma non solo. Entriamo quindi nel merito deitermini in oggetto, per poi meglio intendere quelloche si affermerà successivamente. Definiamo con isla-mismo e islamista l’insieme dei movimenti politici, co-me degli individui in essi militanti, che si rifannoall’Islam politico contemporaneo, ossia adottanoun’interpretazione ideologica della religiosità, voltaquindi a legittimare l’azione collettiva e i rapporti conle strutture del potere attraverso i simboli e i valori che

Cosa è dato riscontrare nell’insieme dei movimentipolitici fondamentalisti e integralisti che si rifannoa una “tradizione” che auspica o cerca di instaurare

un “governo di dio”

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Luciano Bartolini, Le porte d’Oriente, mosaico policromo

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rimandano ad aspetti selettivi, d’uso rigorosamente po-litico, della religione musulmana; la religiosità è inveceun complesso di credenze, mutevoli nel corso del tem-po ma intese come permanenti da chi (persona o grup-po) le fa proprie e le rinnova nella prassi, e che quindine permeano la vita, condizionandone le scelte, gli at-teggiamenti, i pensieri, le idee e le relazioni con la col-lettività di cui è parte. Islam (“sottomissione a Dio”)indica sia il credo religioso monoteista musulmanoche, più in generale, la comunità dei credenti, a suavolta definita anche, più correttamente, con la parolaaraba umma. Fondamentalismo, radicalismo e integra-lismo sono qui intesi, sia pure molto impropriamente,o comunque con un buon grado di arbitrio, come si-nonimi o termini per più aspetti equivalenti, indicandotutti un diffuso stile di condotta, di natura politica, ba-sato sul rifarsi ad una “tradizione” a fondamento reli-gioso, che auspica, promuove o cerca di raggiungere lacostituzione di un “governo di dio”. Da ultimo, islami-smo e Islam non coincidono. Pur non ponendosi ne-cessariamente agli antipodi, tuttavia non sono insiemiequivalenti. Poiché se il secondo rinvia al pluralismodelle identità musulmane, laddove il tratto condiviso èil monoteismo assoluto, il primo rimanda ad un pro-getto preciso, dove possono cambiare di volta in voltagli attori (e gli autori), ma il fuoco dell’azione è datocomunemente dal problema della conquista e del con-trollo del potere.

L’immaginario occidentale da sempre si alimenta diuna visione sospesa tra l’attrazione e la repulsione versociò che sta al suo Levante. Una via di mezzo tra il luo-go paradisiaco e la minacciosità dello spettro incom-bente. La stessa linea di divisione geografica, culturale epolitica tra Oriente e Occidente è, alla prova dei fatti,mutevole, ponendosi storicamente in funzione dellatutela degli interessi che le circostanze, di volta in vol-ta, hanno fatto emergere. La sua arbitrarietà si alimentapoi del lascito delle politiche coloniali, dei processi dimodernizzazione che hanno attraversato l’età contem-poranea, dei rapporti di forza e di potere tra aree e re-gioni continentali, della mutevolezza e delle fragilitàche si accompagnano alla globalizzazione socioculturaleed economica. Un insieme di fattori che sono, nel me-desimo tempo, ibridanti e divisivi, imponendo un con-fronto che in certi casi si trasforma in scontro. Quantomeno in quella che è la percezione comune, così comenella comunicazione veicolata dai mezzi di informazio-ne, ovvero nei cascami di una concettualizzazione delmondo ancora fortemente bipolare, quindi dicotomica,dove la complessità delle relazioni e delle identità è di-mensionata al fenomeno del cosiddetto “scontro delleciviltà”. Non di meno, trattandosi di una lettura esatta-

mente opposta alla precedente, ma che con essa tutta-via intrattiene un insospettabile rapporto di specularitàcapovolta, la relazione con l’“altro da sé” è stata moltevolte ricondotta al mero problema della politicadell’accoglienza e della tolleranza, riducendo la com-plessità multiculturale ad un insieme di atti di buonavolontà, spesso espressi più in segno di riparazione peri trascorsi coloniali che non all’interno di una trama dianalisi, mediazione e ricomposizione delle differenze.

La comprensione del mondo islamico, lad-dove predominano pluralismi e differenziazioni nonmeno marcate di quelle che si possono registrare nellesocietà che musulmane non sono, quindi del suo spa-zio, che abbraccia territori immensi, dall’Atlantico allaCina, e dei suoi tempi, almeno quattordici secoli distoria, richiede uno sforzo di metodo che non si risolvecon le semplice formule, utili forse alla mobilitazionepolitica ma non al confronto sui grandi assi della tra-sformazione che ci stanno chiamando in causa: econo-mia, demografia, questioni energetiche e climatiche,rapporti di potere nel sistema delle relazioni internazio-nali. È all’interno di questa complicata rete di tensioni,mutamenti e, a volte, contrapposizioni, che il radicali-smo islamista si inserisce, come soggetto della politica,imponendosi non con la forza persuasiva delle sue ar-gomentazioni ma con le incontrovertibili argomenta-zioni del ricorso alla forza. Le vicende in atto in moltipaesi del Mediterraneo meridionale e del Medio Orien-te non presentano, peraltro, nulla di eccessivamentesorprendente per analisti, osservatori e politici che datempo si concentrano sulla comprensione dei processiin corso. Semmai sono parte di una trama fitta, dove sisusseguono eventi solo in parte prevedibili ma comun-que logicamente consequenziali. Se per certuni il mo-mento di rottura è costituito dal biennio 1978-1979,quando il regime di Reza Pahlavi fu rovesciato e sosti-tuito da un’inedita Repubblica islamica, per altril’evento spartiacque rimane la Guerra dei Sei giorni del1967. Da allora le alleanze in campo videro emergere,passo dopo passo, il soggetto radicale, ossia quel pulvi-scolo di movimenti accomunati dall’essere portatori diun “discorso islamico contemporaneo” (così l’islamolo-go Mohammed Arkoun) che al contempo costituiscel’ossatura ideologica delle lotte per la conquista del po-tere politico, un elemento di mobilitazione e di orga-nizzazione della società civile e un sistema di valori enorme attraverso i quali trasformare, nel loro profon-do, le medesime comunità locali.

All’affermazione del radicalismo islamico si accom-

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pagna il declino delle organizzazioni arabe di radice enatura laica. Si tratta dei due capi di un fenomenostrettamente unitario, dove l’una cosa alimenta l’altra eviceversa. La riappropriazione della sfera della politica– sottratta alla collettività da governanti che hanno tra-dito le attese, da élites autoreferenziate, da corporazionipatrimonialiste, in poche parole da individui che ven-gono di volta in volta definiti, con linguaggio tipica-mente morale e religioso, empi, apostati se non kuffa-r,ossia miscredenti e quindi impuri – passa attraverso lareligiosità, che deve informare di sé ogni aspetto dellavita quotidiana e, quindi, delle relazioni pubbliche cosìcome dei poteri collettivi. E tuttavia, la linea di separa-zione tra politico e religioso, che costituisce un fattoredeterminante nella definizione delle culture occidenta-li, è assente nel discorso islamista. Poiché l’islamismo èradicale in quanto caldeggia la sintesi tra religiosità –come forma permanente di organizzazione delle so-cietà, composte non da cittadini bensì da militanti – erivoluzione, più che tra la religione stessa e la politica.Il radicalismo islamico, infatti, non si pensa solo comestrumento di governo, attraverso la reintroduzione delCaliffato, ma anche e soprattutto come sovvertimentocontinuo delle relazioni tra le comunità, che debbonoessere sottoposte ad una mobilitazione costante. Daquesto punto di vista, una delle carte vincenti è quellache gli deriva dall’avere riportato in auge lo slogan,oramai decaduto, dopo le infinite vicissitudini che han-no accompagnato il declino del socialismo reale, della“rivoluzione permanente”. Il radicalismo islamista sipensa infatti come rivoluzione totale e persistente, allafine della quale non solo gli ordinamenti politici, oggifondati sull’“empietà” poiché traditori del verbo divi-no, saranno stati rivoltati come dei calzini ma la stessalinea di separazione tra la sfera pubblica e quella priva-ta verrà completamente stravolta. Poiché nel “regnodella giustizia” non c’è ragione di ritenere che debbacontinuare a sussistere una differenziazione tra la primae la seconda. Così postulando, l’islamismo politico sipresenta come un vero e proprio movimento dai trattitotalitari. La sua convinzione di fondo, infatti, è chel’individualità non esista, o che comunque non abbiapari dignità rispetto ai diritti, ai bisogni e alle esigenze,questi sì incontrovertibili, della comunità. Che – quin-di – viene per prima, poiché ogni soggettività è esclusi-vamente una mera funzione dell’unione tra credenti.

Il comunitarismo è pertanto l’habitat ideologico ov-vio per organizzazioni che si presentano come universa-li ma che, in realtà, agiscono perlopiù in loco, forte-mente ancorate ai rapporti clanici di cui, in più di uncaso, sono diretta espressione, ancorché non esclusiva.Nella dicotomia tradizionale tra Gemeinschaft e Gesell-

schaft, introdotta da Ferdinand Tönnies, l’organizzazio-ne sociale fondata sull’appartenenza e sulla reciprocità,istituita sulla scorta dell’ascrittività dei ruoli e sulla ba-se di gerarchie carismatiche, è il fuoco della concezioneche l’islamismo cerca di valorizzare. Non di meno essomette in discussione gli assunti che definiscono come“naturale” (ossia ovvio e per più aspetti indiscutibile,comunque non ovviabile) ciò che è invece il prodottodi scelte politiche e di rapporti di forza, a partire dallamarginalità decisionale di molti Paesi nel sistema dellerelazioni internazionali e dal sottosviluppo che attana-glia una parte del pianeta. Se per i teorici dell’Occiden-te, nelle formulazioni tradizionali e quindi più afferma-te, l’una e l’altro rimangono ancora il prodotto dei ri-tardi rispetto ad un modello sostanzialmente univocodi evoluzione delle società, per gli islamisti essi costi-tuiscono il risultato della pedissequa imitazione di unsistema errato, come tale da rifiutare e capovolgere. Ciòche per i primi è una discrasia da superare, per i secon-di è un obbrobrio da contrastare. In realtà, come moltianalisti hanno rilevato, il rifiuto della modernità che daciò deriva non è mai totale bensì selettivo.

Il fondamentalismo religioso è infatti, da almenouna trentina d’anni, un fenomeno globale e chiama incausa non solo i Paesi musulmani. La sua declinazioneislamica è però eclatante per il livello di consenso che èriuscito spesso a raccogliere, offrendosi come la solu-zione a problemi ritenuti altrimenti irrisolvibili. Nelsuo messaggio universalista, ossia rivolto a tutti quelliche intendano fare parte della comunità dei “retti” edei “giusti”, entra in rotta di collisione con l’ideologiaoccidentale dei diritti universali e naturali, creando unacompetizione nel medesimo ambito, quello della legit-timazione all’esercizio del potere. Lo spazio conteso è,infatti, quello della produzione dei fini e dei valori ulti-mi. Il fondamentalismo è essenzialmente un soggettopolitico, che tuttavia si riveste dei panni della religioneproprio poiché ambisce a definire – e a delimitare unavolta per sempre – il campo della legittimazione dellaconvivenza civile, quell’insieme di norme di fondo sen-za le quali le relazioni sociali stesse diventano imprati-cabili.

Cosa istituisce il fondamentalismo? Qualine sono i tratti ideologici dominanti? Quanto è in sin-tonia e quanto in dissonanza con la globalizzazione inatto? Come ha osservato uno studioso di vaglia, Bas-sam Tibi, esso si fonda su un paradosso, ovvero l’op-porsi strenuamente alla modernità culturale scaturendotuttavia dal suo contesto storico, di cui è infatti un di-

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retto prodotto. Non si tratta quindi di mera reazionead essa, men che meno di una semplice vocazione al ri-fiuto. Semmai è una opzione selettiva, che ne privilegiaalcuni aspetti rigettandone il resto. Nelle società nonoccidentali il fondamentalismo è ossessivamente orien-tato contro lo Stato laico, nazionale e indipendente. Èquesta la matrice comune di fenomeni politici altri-menti diversi. Poiché lo Stato, così inteso, è visto comeuna “creazione” occidentale, originando dalla storiadell’Europa continentale ed essendone una delle mani-festazioni culturali più significative. Nel momento incui si ascrive all’egemonia occidentale la responsabilitàdella marginalità e della decadenza della propria parte,tale diniego non può che articolarsi essenzialmente nelrifiuto del modello di sviluppo che ha trovato nelloStato unitario il suo punto terminale di realizzazione.Attribuendo a tale forma di organizzazione politica edei rapporti sociali i peggiori requisiti, a partire dallanatura divisiva e artificiale che essa rivesterebbe. Quin-di: “il fondamentalismo rispecchia molto di piùun’ideologia politica che non la rinascita del religioso”(Tibi). L’ideologia che dice che il tempo della politicadegli Stati nazionali è finito, subentrandovi semmai lariorganizzazione populistica, dove al particolarismoidentitario si coniuga l’universalismo delle rivendica-zioni. Dopo di che, volere intendere il fondamentali-smo solo come esercizio cinico e spregiudicato, che ca-muffa i propri reali intendimenti dietro la religiosità, èuna lettura parziale e sostanzialmente errata dei proces-si in atto.

Il suo nocciolo duro, infatti, è comunque la convin-zione che alla crisi della politica, ovvero alla sua ineffi-cacia decisionale, alla sua ancillarità rispetto alla centra-lità dell’economia e della finanza, si possa risponderecon la teocrazia. Il dissidio feroce contro la modernitàsi articola pertanto su più piani, tra di loro vicendevol-mente intersecati. Il primo di essi, come già si diceva, èil netto rifiuto dello Stato laico, inteso non solo comeesperienza fallimentare ma anche come soggetto dellaseparazione, che divide la grande comunità dei credentiall’interno di confini fittizi, contrapponendoli gli uniagli altri e istituendo l’inconciliabilità tra la sfera del re-ligioso e quella del politico. Per il radicalismo, questadoppia divisione, tra fedeli e fede, è inaccettabile. Il se-condo rinvia alla sistematica confutazione dell’ordinemondiale in quanto prodotto di una modernità deviatae corruttrice, dove dominerebbero i principi occidenta-li della democrazia e dei diritti dell’uomo che, dal pun-to di vista islamista, costituiscono un’impostura, sottola quale si cela il potere dei “nuovi crociati”. Nell’uno enell’altro caso il raccordo tra dimensione locale e glo-bale permette ai movimenti che si ispirano al fonda-

mentalismo militante di avere a cura precipua la di-mensione territoriale circoscritta, nella quale si trovanoconcretamente ad operare, proiettandola però sugli sce-nari mondiali e assegnandole il tempo dell’apocalisse,ossia della resa dei conti. In tal modo, ed è questo ilterzo passaggio rilevante, l’elezione del paradigma reli-gioso a chiave di interpretazione del processo storico,che viene in tale modo azzerato nei suoi molteplici econtraddittori significati e ricondotto ad un’unica radi-ce, quella della perversione morale e del tradimento deifondamenti, permette di istituire una sorta di perime-tro ideologico inconfutabile e incontrovertibile, chenon può essere messo in discussione, tanto meno nelrapporto conflittuale con gli avversari. Ai quali, sem-mai, deve essere imposto con decisione. Poiché costorovivono nell’“ignoranza”, sinonimo di disordine e dicaos, che non è il mero prodotto della non conoscenzabensì del rifiuto. Hanno ricevuto il verbo della veritàma lo hanno disatteso, offeso e quindi calpestato.

Un passaggio importante, quest’ultimo, nell’ideolo-gia radicale, perché non c’è fondamentalismo, intesocome narrazione del “fondamento”, della radice di tut-to, senza una retorica del suo tradimento. Se quest’ulti-mo non si fosse consumato, infatti, non occorrerebbed’essere ripristinata l’originaria condizione paradisiaca.Tutta la narrazione islamista ruota quindi intorno al bi-nomio che essa stessa istituisce tra storia e declino. Laforza dei movimenti radicali è di presentarsi come lostrumento che permetterà finalmente di raggiungerel’unico legittimo fine, l’ovviare alla caduta in attonell’umanità. In ciò sta il vero atto di fede, prima anco-ra che nel riconoscersi in un dettato culturale, teologi-co e ideologico rigorosamente islamico. Non a caso,quindi, la distinzione tra Islam e islamismo ha la suaragion d’essere, trattandosi, nel secondo caso, di un di-scorso di mobilitazione e non di riflessione e articola-zione della complessità di una tradizione.

Il ciclo ascesa-caduta e risollevamento,quest’ultimo inteso come una vera e propria rigenera-zione, una catarsi totale, è consustanziale al modelloculturale del radicalismo. Un ulteriore elemento va poiaggiunto. Il fondamentalismo (benché ambisca a pre-sentarsi al pubblico in maniera apparentemente oppo-sta), non è mai un recupero della tradizione religiosain quanto tale, che semmai tende a sovvertire se nonaddirittura a leggere come luogo dell’empietà, né, tan-to meno, un’ortodossia che si invera. Ciò perché habisogno di crearsi una tradizione fungibile ai suoi sco-pi. Semmai, di quel che è stato raccoglie solo alcuni

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aspetti, quelli che possono risultargli come maggior-mente funzionali al momento. Comunque, non si ri-volge a quanto gli è preesistito se non nel senso di far-ne un uso selettivo, in funzione delle mutevoli occor-renze del proprio tempo. Non solo non è interessato arecuperare una tradizione che vede come il suggello diun inaccettabile scorrimento del tempo, ma recepiscela complessità e la stratificazione della ricostruzioneteologica come una contraddizione in termini rispettoalla linearità e all’autoevidenza dei principi che dice divolere ripristinare. Per tali ragioni rompe anche con lecatene dell’ortodossia, tanto più laddove queste hannodato sostanza e corpo a una qualche forma di sacerdo-zio e a ritualismi che vengono letti come segno diquietismo. Il fondamentalismo, quindi, è al medesimotempo una frattura e una riconciliazione. Una fratturarispetto alla modernità traditrice (nel senso che assolveil ruolo di rivelare il dominio dell’empietà che accom-pagna la decadenza del mondo e dell’uomo) e alla tra-dizione occultatrice (la sua stratificazione culturale esimbolica è il segno indiscutibile, da tale punto di vi-sta, di volere intorbidare le acque, rendendo difficile, equindi incomprensibile ai più, il disegno divino); unaricomposizione perché accetta la sfida che la moder-nità detta sul piano non dei fini bensì dei mezzi. Fa-cendo quindi propri questi ultimi.

Non esiste nessun fondamentalismo, men che menoquello islamico, che non si presenti allo sguardo altruiattraverso i più recenti mezzi della comunicazione. Chegli sono consustanziali, divenendo degli specchi identi-tari. Tratto precipuo dei fondamentalismi è inoltrel’anti-individualismo (dal quale fanno poi derivare l’av-versione per la democrazia, vista come il regime politi-co per eccellenza dell’individualità), ovvero l’afferma-zione che il soddisfacimento dei bisogni collettivi nonpuò avvenire che a scapito del riconoscimento dell’au-tonomia della sfera individuale. Innervandosi e ramifi-candosi in società in cui la loro espressione è impeditaattraverso gli abituali percorsi della rappresentanza po-litica, laddove la mobilità sociale è cristallizzata o sem-mai discendente, i movimenti radicali su base religiosasi richiamano alla tradizione delle fedi di riferimentoreinventandone molti aspetti. In tal modo circoscrivo-no una sorta di comunità di destino, dove l’identità in-dividuale si scioglie nell’appartenenza collettiva. Prov-vedono quindi a delimitarla, dandole uno spessoreideologico e una presunta continuità nel tempo. Untempo che non è solo proiettato in avanti, ossia nelprogetto in divenire, ma anche all’indietro, in quanto ilradicamento del fondamentalismo deve essere per forzadi cose “storico”, presentandosi, pur nella sua qualità dinovità politica, eminentemente come una sorta di ri-

torno di un passato tradito, solo ora recuperato a mi-gliore considerazione. In tal modo, stabiliscono unadialettica tra individui ingroup e outgroup, interni edesterni, basata su una presunta moralità, presente neiprimi e invece assente nei secondi. L’essere “fedeli”, datale punto di vista, implica l’aderire alla forma eall’idea di religiosità che il gruppo annette a sé, dichia-randosene depositario esclusivo: quindi al gruppo me-desimo, che incarna i valori supremi e del quale, in ra-gione di ciò, si debbono fare proprie, a ricalco, tutte leproposizioni di principio. Non si è quindi fedeli islami-ci a prescindere da un qualche gesto di sottomissione algruppo, ma “buoni musulmani” solo ed esclusivamentese si fa propria la sua precettistica e l’ortoprassi che daessa consegue.

Sul dominio del quotidiano, della sfera delle relazio-ni interpersonali, il fondamentalismo costruisce d’altrocanto buona parte delle sue fortune. Il caso della cen-tralità del corpo della donna, che non deve essere espo-sto al pubblico, è un simbolismo così potente da ri-chiamare l’intero universo di significati che l’islamismovuole attribuire all’incontro conflittuale che intrattienecon il tempo corrente e con la modernità. Poiché ilprocesso di modernizzazione rimette in questione l’in-dividuo essenzialmente in quanto attore a sé sufficien-te, ridisegnandone la fisionomia e le funzioni in chiaveautonoma, risulta chiaro come il modello di comporta-mento più pericoloso per la sfera religiosa, anche priva-ta e soprattutto domestica, si presenti nella condizionefemminile, laddove questa si caratterizza per la secola-rizzazione dei ruoli.

Il substrato teocratico ha come riferimentoun’ideologia della salvezza, la quale si scontra con ilprincipio di laicità, quindi con la democrazia e la mo-rale internazionale, rivendicando per sé un esclusivi-smo della rappresentanza che non ammette in alcunmodo l’esistenza di una pluralità di figure sociali e lanegoziabilità dei conflitti. Come ogni ideologia dellasalvezza, si tratta di un pensiero che si intende cometotalizzante e, in immediato riflesso, totalitario, sovrap-ponendosi alle traiettorie di vita degli individui. Con-cretamente, il fondamentalismo islamico rifiuta la de-mocrazia in quanto “soluzione importata”, così come loStato nazionale laico, quest’ultimo poiché elemento difrattura nella coesione dell’umma musulmana. Nelmondo islamico storicamente lo Stato nazionale laiconon si è dato come una creazione autoctona, bensì co-me entità derivata dalla progressiva dissoluzionedell’Impero ottomano e dal dissolvimento del comples-

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so, ancorché usurato, sistema di pesi e contrappesi po-litici che vi vigevano. Non di meno, il sopravvenire e ilconsolidarsi di strutture universaliste – a partire dai si-stemi di garanzia sociale e di redistribuzione della ric-chezza – che, in realtà, del pluralismo hanno coltivatosolo l’aspetto formale, ossia nominalistico, è stato in-centivato più dai processi di globalizzazione intervenutinel corso del XX secolo che non da un’evoluzione pro-pria, interna alle singole società arabo-musulmane.

I fondamentalisti respingono peraltro la modernitàculturale, e le sue ricadute sociali e politiche, ma non lasua dimensione istituzionale. Se il progetto culturaledella modernità si basa sull’investimento (nel futuro) esul convincimento che l’individuo possa plasmare ilsuo destino, per il tradizionalismo musulmano e il fon-damentalismo islamico a dovere essere messo in discus-sione non è il suo respiro universale bensì la visionecartesiana del mondo, incentrata sull’uomo, nonché lafiducia nelle capacità della ragione umana, quand’essa

si determina a spese della rivelazione divina. Non riget-tano quindi i risultati tecnico-scientifici, piuttosto lipiegano ad una rilettura del presente fortemente con-notata su un piano valoriale. Il dilemma islamico neiconfronti della modernità è pertanto risolto attraversol’adozione selettiva di alcune sue componenti strumen-tali, rifiutandone invece in toto la razionalità e il siste-ma normativo che l’accompagna, laddove l’una e l’altroincentivano l’emancipazione individuale. Il razionali-smo della scienza moderna – tuttavia – è estraneo nongià all’Islam ma al fondamentalismo islamico. Basti ri-cordare, a tale riguardo, che del primo, in età medieva-le, il razionalismo ellenistico era una delle fondamenta-li componenti di pensiero. Vale ancora la pena, a que-sto punto, di ritornare sulla questione della laicità. Poi-ché essa è uno degli indici più importanti nei processidi mobilitazione messi in atto dall’islamismo politico.

Negli Stati nazionali mediorientali sorti a seguitodella decolonizzazione, il mutamento politico non si è

Sebastián Matta, Figura fantastica durante il lavoro, Collezione privata, Italia

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accompagnato alla differenziazione funzionale della so-cietà e a una spiccata divisione del lavoro. La laicità si èquindi caratterizzata soprattutto come ideologia intel-lettuale, ossia come proposito normativo, patrimoniodi circoli formatisi in Occidente o all’ombra dei Paesieuropei e degli Stati Uniti. Di fatto essa, tuttavia, hadifettato di basi strutturali, a partire da un ceto medioautonomo, non dipendente dalla pubblica amministra-zione, in grado di farsene soggetto politico. I conflittitra centro e periferia, tra città e campagna, tra prepo-tente urbanizzazione e perdurante ruralità, tra diffusascolarizzazione e mancanza di sbocchi professionali so-no quindi rimasti sospesi, durante i decenni trascorsi,tra il richiamo dottrinario a modelli astratti e astrusi el’incoerenza delle politiche pubbliche. Il declino dellasovranità nazionale, dettato dagli esiti dei processi diglobalizzazione, è quindi letteralmente piombato su so-cietà incompiute, troppo avanzate per essere ritenutearcaicizzanti ma ancora troppo frenate per definirsi se-colarizzate. Il collasso dei sistemi di Welfare State loca-li, fortemente legati al clientelismo e al patrimoniali-smo dei gruppi di potere, ha innescato spinte centrifu-ghe, che hanno offerto all’islamismo spazi altrimentiinsperati. Nella controideologia dei fondamentalisti illaicismo è quindi raffigurato e risolto come elementodi una congiura dell’Occidente ai danni delle comunitàautoctone, in funzione di una perdurante colonizzazio-ne culturale. È stato osservato, al riguardo, come laspecificità delle società arabo-musulmane contempora-nee, benché estremamente diversificate tra di loro, stianel fatto che esse presentino un’estrema difficoltà a pla-smarsi secondo la razionalità degli Stati nazionali mo-derni, mentre le tendenze alla ricostruzione di comu-nità primordiali siano dappertutto, se non le più forti,per lo meno quelle produttrici delle maggiori tensioni.Nella dialettica negativa tra mancato radicamento na-zionale e sradicamento globale quello che resta, agli oc-chi dei più, è il fallimento del primo e l’infelice succes-so del secondo, simboleggiato, anche nelle primaverearabe, dal tema persistente dell’oppresso, mostazafin, ilderelitto come eletto, ossia come forza della storia. Pe-raltro, il problema del fondamento del potere e, quin-di, in immediato riflesso, della natura dello Stato “giu-sto ed equo”, poiché in accordo con il dettato coranico,accompagna tutta la storia musulmana, a partire dallafrattura tra sciiti e sunniti, tra imam e califfi, essendol’epitome manifesta della contrapposizione sociale trainteressi in persistente conflitto i quali, attraverso il lin-guaggio della religiosità, già nel passato trovavano cosìil modo per esprimersi nello spazio pubblico. Il fattoche questo elemento ritorni prepotentemente non in-dica la rivincita della religione ma la sconfitta dell’auto-

nomia della politica. Il che, segnatamente, non è unproblema solo per l’Oriente ma anche per l’Occidente,benché quest’ultimo lo risolva attribuendo alla sferaeconomica un ruolo ordinativo che non le apparterreb-be comunque.

L’edificazione di una società islamica in ac-cordo con la morale religiosa rimane per gli islamisti,quindi, l’esclusivo percorso di civilizzazione possibile.La radicalità, da questo punto di vista, indica etimolo-gicamente il rifarsi ad un’unica radice possibile, l’Islammedesimo. Il quale è presentato come entità unitaria,benché storicamente sia stato, in realtà, variamente de-clinato, anche in modi tra di loro apertamente con-traddittori. Poiché la posta in gioco non è mai l’inter-pretazione ma chi è legittimato a costituirne la fonteultima. Non a caso si può parlare di fondamentalismo,al di là della sua dimensione sociologica, storica, politi-ca e sociale, rifacendosi al problema del fondamento dichi decide cosa sia giusto e cosa invece non lo sia.L’islamismo radicale ruota intorno a queste sfide, nonavendo superato la separazione – sempre incerta, peral-tro – tra la sfera della politica e quella della religionenel processo di produzione di una morale pubblica. Ela sua forza, nelle sue molteplici manifestazioni, è tantopiù enfatizzata dal momento che i tentativi di dare cor-po nelle società arabo-musulmane a un moderno siste-ma di Stati nazionali, efficacemente inserito nel circui-to delle relazioni internazionali, di fatto va fallendo.L’idea radicale sta nella sfida all’egemonia dell’interpre-tazione, ossia contro le figure che sono chiamate adesercitarla, poiché le rivolte dei dominati avvengonocomunque all’interno di un quadro cognitivo e cultu-rale di riferimento condiviso con il sistema di dominio,al quale si contesta tuttavia la legittimità di continuarea dirsi interprete della realtà. In gioco non è la neces-sità di un sistema di legittimazione, bensì chi sia depu-tato a farsene interprete. Non possono essere i chiericidi “regime” (gli intellettuali); men che meno le figureistituzionali emerse dallo sviluppo degli apparati dellapubblica amministrazione. Così come neanche i sa-pienti della tradizione ancestrale. Poiché la sovranitàdell’interpretazione riposa in Dio stesso, che ne fa do-no a chi riesca nell’intento di meglio cogliere il suo di-segno provvidenzialistico, raccordandolo ai bisogni del-la collettività. In ciò riposa la dimensione populista delradicalismo contemporaneo.

L’islamismo, infatti, invoca il ritorno alla fede primi-genia ma è essenzialmente un moderno movimento dimobilitazione. Di fatto reinventa la tradizione rinvian-

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do permanentemente all’ossessione per la sua autenti-cità. Il suo dispositivo normativo, infatti, è duplice: daun lato rimanda alla ricerca di un passato mitologicoda ripristinare in toto; dall’altro dichiara come inesau-rita qualsiasi ricerca, definendola insufficiente o inade-guata, a prescindere dagli esiti concretamente ottenuti,di volta in volta. Ragion per cui da ciò deriva la persi-stente mobilitazione dei militanti e degli aderenti, aiquali è richiesta una spasmodica partecipazione versoun “obiettivo finale” che ancora non è stato raggiunto.Il nocciolo del fondamentalismo non sta in ciò chepromette, ma nella capacità di indurre gli affiliati a cer-care di tenere fede a tale promessa, convincendoli dellanecessità di ripetersi negli sforzi, per adempiere verace-mente a tale impegno. Che, come tale, è totalizzante,occupando di sé ogni aspetto della loro esistenza. Aconti fatti, nel conflitto tra religione e politica, benchéil fondamentalismo si renda interprete della prima co-me tramite della seconda, ribadendone l’apparente pri-mato e facendosi promotore di una idea di Stato totalea fondamento etico, di fatto ribalta i ruoli e le relazionidi primazia, portando alla politicizzazione totale dellareligiosità.

La modernità dell’islamismo la si misuranon solo nelle istanze ideologiche che lo connotanoma anche nei quadri militanti. Le sue schiere sonospesso composte da giovani di estrazione sottoproleta-ria, urbana, di fatto vittime dei processi di moderniz-zazione incompiuta. Le élites sono costituite da altret-tanti giovani, perlopiù di estrazione sociale piccolo omedio-borghese, spesso però in fase di retrocessionenella scala sociale. Per gli uni e per gli altri il dato ge-nerazionale si coniuga alla marginalizzazione economi-ca, d’origine o acquisita. Per molti di essi, la formazio-ne religiosa, in origine, è un elemento secondario senon irrilevante. Chi ha studiato ha seguito un percor-so umanistico o scientifico ma comunque ispirato aisaperi laici o secolarizzati. Solo successivamente avvie-ne l’incontro con la mobilitazione politico-sociale dimatrice islamista. Anche da ciò nasce quel movimentocontro la tradizione che è parte integrante del radicali-smo. Il quale, per potersi legittimare, ha bisogno pri-ma di contendere e quindi di sottrarre il potere nor-mativo e di giudizio alle fonti tradizionali dell’Islam,autonominandosi, sul campo, soggetto del cambia-mento e convalidandosi autonomamente come auten-tico interprete della dottrina. Durante la guerra freddal’islamismo è stato un soggetto relativamente margina-le nella scena politica, occupata invece dal confronto

tra i modelli di sviluppo promossi dall’Occidente libe-raldemocratico e l’utopia reale del comunismo. Nean-che all’interno del vasto magma “terzomondista”, percome era venuto costituendosi tra gli anni Cinquantae Sessanta del secolo scorso, il ricorso alla religiositàcome veicolo di produzione e promozione della politi-ca aveva trovato sufficiente riscontro. Semmai, lo sfor-zo di istituire Stati nazionali, sulle ceneri dei processidi colonizzazione, si era orientato nel senso di trovarenuovi baricentri e nuove fonti di legittimazione oltrela religione in quanto tale, intesa da molti come unelemento non solo tradizionalista, e quindi non in li-nea con l’idea di movimento collettivo di quegli anni,ma anche quietista, nel senso di acquiescente ai vecchiordinamenti costituiti. Che erano, perlopiù, di deriva-zione coloniale.

Il progressivo fallimento di questo tentativo ha in-vece aperto varchi, altrimenti impossibili, per il fonda-mentalismo islamista. La sua natura è, oggi, quella dipensarsi e di offrirsi come ideologia universalista, ingrado di contrastare la globalizzazione mercatista,l’omologazione culturale e il liberismo senza freni del-le classi dirigenti internazionali. Ciò facendo, si ali-menta di paradossi, che sono alla sua stessa radice:parla un linguaggio inclusivo quando però non con-tempera in alcun modo il pluralismo culturale, rite-nendolo semmai un segno di decadenza; rinvia allatradizione quando di essa mina, per necessità propria,le fondamenta stesse; è innervato dentro i processi diglobalizzazione universalista, dei quali è per più aspettiuno specchio capovolto, ma pratica, all’atto concreto,politiche fortemente particolariste, ossia concentratesulla dimensione locale in cui si trova ad operare e su-gli interessi che vi sono raccolti (essendo l’Islam ununiverso di realtà locali, accomunate da un rimandoreligioso condiviso ma, in buona sostanza, fortementediversificate al loro interno). Di fatto promuove unmodello plurale ma tutto fuorché pluralista.

Ciò che l’islamismo contesta è la separazione tra po-litico e religioso nei termini di una profonda crisi dilegittimità. La quale indica la frattura tra umma, la co-munità dei credenti, e Dio, ossia il legame tra giustiziae legittimità, due parole chiave nella definizione delpotere. Il governo è “giusto” se ispirato dalla parola diDio, la quale si innerva nella Legge religiosa. Mentrestoricamente, laddove si celebra la decadenza, il fonda-mento del governante diventa il potere medesimo.Con un capovolgimento di senso, inteso come cata-strofico dagli islamisti. Il potere mal governato è quel-lo empio. L’empietà si basa sull’assenza di legittimazio-ne divina (che conduce alla mancanza di giustizia ter-rena), ma anche sul quietismo dei governati, che rico-

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noscono come immutabile il potere costituito. Il radi-calismo si pone in rotta di collisione contro questa si-tuazione. Afferma che lo stato delle cose va radical-mente mutato, ristabilendo l’ordine “naturale”, ossiadivino, dei fattori. La qual cosa implica l’attivismo deigovernati, il loro impegno concreto nel mutamento.Non come atto di libera scelta bensì di servo arbitrionei riguardi di Dio, ovvero nei confronti dei suoi sin-ceri servitori raccoltisi nel movimento islamista.All’idea di ordine, quindi, viene sostituita quella diconflitto permanente. Dentro il quale si riannoda ilnesso tra legittimità e giustizia. Il riscontro di tale con-dizione è offerto dall’affermazione militante (e com-battente) del movimento. La forza non è un prodottoumano ma un dono divino. Se il movimento vince èperché rappresenta Dio, è parte del disegno universale.Mentre il governante empio basa se stesso sul potere-potenza, quello che promana dall’uomo, l’autorità le-gittima si fonda sul potere-autorità che deriva dall’ul-traterreno.

I Fratelli musulmani sono l’epicentro ideo-logico e storico di questa svolta attivista. Non a casonascono nel 1928, quando il riscontro che il Califfatoottomano era definitivamente tramontato diventa di-sagio insopportabile, alla ricerca quindi di uno sboccopolitico. Il programma che avanzano è di ribaltare lasfida della modernità, intendendo la pratica islamicanon come un culto bensì come una totalità. Si ha unoStato islamico quando esso coincide in tutto e per tut-to con la comunità dei “perfetti credenti”, che si ispiraalla piattaforma della Fratellanza: “Dio è il nostro pro-gramma; il Corano è la nostra Costituzione; il Profetail nostro leader; il combattimento sulla via di Dio lanostra strada; la morte per la gloria di Dio la più gran-de delle nostre aspirazioni”. Centrale, nel messaggiodel movimento, è il richiamo interclassista, che rimuo-ve integralmente gli interessi materiali contrapposti e iconflitti che ad essi si accompagnano. Gli uni e gli al-tri sono presentati come fratture inaccettabili rispettoall’obiettivo di unificare l’Umma, che saprà da sé daredelle risposte alle tensioni della modernità. Si tratta,per l’appunto, di islamizzare la modernità, soprattuttodal momento in cui quest’ultima ha dato fuoco allepolveri di tensioni sociali per le quali sembra non ave-re concrete risposte da offrire. Con la Fratellanza simanifesta la natura combattente dell’islamismo radica-le, che sfocerà poi nello jihadismo. Solo chi è prontoal sacrificio di sé, divenendo un martire (shahi-d), puòaccedere alla piena comprensione della radicalità

dell’islamismo. Fatto che chiama in causa il jihad co-me sforzo attivo. Ai maestri e agli esegeti della tradi-zione viene invece contestata la lettura formalistica equietista dell’identità musulmana. La differenza neiconfronti degli ulema, i dottori della Legge, i giurispe-riti, si fa diffidenza e poi rifiuto integrale. Nella lorolettura del Corano riposa la deviazione contro la qualesi deve combattere.

Sayyid Qutb (1906-1966) è il vero sistematizzatoredell’ideologia radicale, quando si concentra su alcuniconcetti cardine come ja-hiliyya (ignoranza), fitna (di-sordine), hakimiyya (sovranità), ‘ubudiyya (adorazio-ne), hijra (rottura), umma (comunità), jihad (combat-timento sulla via di Dio), haraka (movimento), fiqhharaki (diritto dinamico). Si tratta di un reticolo diconcetti su cui lo studioso e militante egiziano rico-struisce integralmente il pensiero politico islamico,trasformandolo in fattore di mobilitazione islamista.Alla tradizionale dicotomia georeligiosa tra Dar al-Islam (la “casa dell’Islam”, laddove il potere è detenutodai musulmani) e Dar al-harb (la “casa della guerra”,abitata dai non musulmani) Qutb, dichiarando taledivisione superata nei fatti, antepone la pressante de-nuncia del fatto che il nemico sia già in “casa”, tra imusulmani, costituendo una sorta di “occidente inter-no”. È questo un passaggio ideologico capitale, poichéintroduce, legittimandolo una volta per sempre, il te-ma di fondo della necessità di purificare il corpo dellasocietà affinché si pervenga alla “verità”. L’umma puòessere ovunque e in nessun luogo. È abitata solo da chiè transitato verso uno stadio di purificazione dalle sco-rie dell’ibridazione. Tema suggestivo, estremamentemilitante, poiché richiede a qualsiasi “buon musulma-no” di interrogarsi permanentemente sulla propriacondizione di inadeguatezza, sulla necessità di votarsicostantemente alla “causa”, di seguitare nello sforzo didonarsi ad essa, pena la propria incompiutezza. E lacausa coincide con chi dà ad essa un nome, ossia conle élites politiche del movimento radicale. Di fatto lacomunità dei credenti coincide, in tal modo, conquella dei militanti. Il jihad, lo “sforzo, il combatti-mento sulla strada di Dio”, si nutre quindi di questacontinua tensione, diventandone il completamento. Iregimi empi vanno affrontati non solo con la predica-zione del Libro ma con la soluzione della spada. Nonsi tratta più di difendere qualcosa di esistente; semmaisi tratta di costruire quel che ancora non esiste o si dàin forma incompiuta.

L’idea di jihad in Qutb si articola, dunque, comeforma definitiva, compiuta della guerra civile di reli-gione in corso a livello planetario, e quindi anche neiPaesi che si vogliono musulmani, e che trova nell’islam

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radicale il suo partito combattente. È guerra civilequella che si combatte al tempo della jahiliyya, ossiadell’ignoranza e della malafede. La codificazione sun-nita, esauritasi con il X secolo, non è più sufficientepoiché, nei suoi anacronismi, si rivolge a qualcosa chenon c’è ancora e, nel medesimo tempo, non c’è più: loStato della rettitudine. Si impone semmai un dirittodinamico, il fiqh haraki, dal carattere tanto transitorioquanto aggressivo, che risponda all’empietà e che fac-cia piazza pulita del disordine. Qualcosa che rimandaalle licenze del diritto rivoluzionario, come era statotematizzato cento e più anni fa, dove la liceità dei gestila si costruisce sulla canna del fucile. E con esso neces-sita il riconoscimento della necessità di un permanentestato di emergenza, dove la figura cardine diventa ilcombattente per la fede. Più che al passato il militan-te-miliziano guarda peraltro al futuro. Non sono lesentenze dei giureconsulti e dei dotti a fare l’Islam; so-no semmai i combattenti, dalle cui azioni sgorga il di-ritto dinamico in quanto tale. Qui si dispiega il radi-calismo: non in un rimando alla tradizione che, perpiù aspetti, viene invece stravolta, bensì nella sospen-sione dello stato di diritto islamico e nella sua sostitu-zione con la norma “creativa” di un movimento che sivuole al passo con il tempo presente perché rivoluzio-nario. Da questa sospensione, che per gli islamisti èdettata dalla cogenza della necessità, derivano le licen-ze di condotta che portano anche a gesti eclatanti edestremi. La responsabilità non è di chi li commette,ma di chi mette i credenti nella condizione di doverlicommettere.

Per il radicalismo l’islamizzazione, delle so-cietà così come degli individui, è il prodotto essenzial-mente di un atto politico, ossia della conquista del po-tere. La politica, in questo caso, ha una triplice matri-ce. Non è funzione di rappresentanza, ovvero non sipone il problema di raccogliere e organizzare il consen-so, poiché per l’islamismo questo non è il prodotto diuna persuasione bensì il risultato di un riconoscimen-to, quello che è implicato dal fatto che la religiosità ra-dicale sia l’unica e possibile forma di Islam praticabile;non esiste quindi nessun pluralismo, essendo semmaiquesto indice di corruzione dell’idealità e della mora-lità. Inoltre, il campo politico viene fatto coincidere,almeno in un primo momento, con l’azione del movi-mento che si adopera nella conquista del potere e poi,una volta raggiunto questo obiettivo, con lo Stato. Lasovrapposizione tra fazione militante e apparato pub-blico ricalca, per alcuni aspetti, l’esperienza dei partiti

comunisti del Novecento. Il terzo elemento è l’esten-sione, pressoché infinita, del campo della conflittualitàe, insieme ad esso, della contrapposizione amico/nemi-co. Il fattore coercitivo è strategico: solo l’interventodall’alto, fortemente impositivo, può mettere ordine insocietà “infettate” dall’ignoranza, dall’incoscienza e dal-la penetrazione dei falsi valori occidentali. Si imponeperché queste comunità sono realtà ormai atomizzate,parzialmente o completamente aliene dal disegno oli-stico islamico, dove invece le parti debbono coinciderearmoniosamente nel tutto. La scelta neotradizionalistadi intervenire invece dal basso, islamizzando progressi-vamente la comunità per poi porsi il problema dellaconquista del potere, è intesa dai radicali non solo co-me inefficace bensì erronea, contribuendo semmai apotenziare il caos dominante.

Per il fondamentalismo l’opzione della forza non èuna delle diverse possibili ma il nocciolo della propriaposizione. Ricorre la suggestione, in questo caso, dellaviolenza come levatrice della storia, in quanto luogo diincubazione del mutamento. Il jihad, nella lettura cheviene in tale modo valorizzata, è un combattimentonon solo morale e spirituale ma militare e missionarioverso l’affermazione dell’Islam e della sovranità di Dio.Se sul piano della teologia musulmana il jihad indicasoprattutto i limiti di ciò che è consentito per la difesaintegrale dell’islamicità, nella lettura radicale, sovversi-va, stravolta è invece un mezzo che si fa fine, diventan-do a tutti gli effetti la difesa non di qualcosa, e neanchedi qualcuno, bensì di Dio stesso. L’assolutezza apocalit-tica di questo approccio coniuga l’idea di una guerracivile permanente con la necessità per il combattente didepurarsi dalle scorie di un falso pietismo; rinnova lacontrapposizione tra Male assoluto e Bene totale; enfa-tizza il nesso tra violenza e spiritualità, laddove lo spiri-to missionario si esprime non nella parola ma nel ge-sto, non nella persuasione bensì nella coercizione, nonnella predica ma nell’esempio eclatante. È ancora unavolta la tematizzazione della guerra rivoluzionaria, doveperò il movimento diventa il fine assoluto e la militan-za l’unica forma di fede possibile, al di fuori della qualec’è solo l’oscurità dei tempi dell’ignoranza.

La concezione aggressiva ed offensiva dello jihad tro-va il suo punto di massima espressione, una sorta diepitome totale, nel cosiddetto “martirio”. Se nell’Islamil suicidio è proibito, la morte sulla “via di Dio”, il sa-crificio di sé nel nome di Allah, ovvero per la realizza-zione del suo disegno, è invece degno della sua consi-derazione. “Shah¥d? è la parola araba con la quale sidefinisce chi si incammina sulla strada di Allah immo-landosi. La radice etimologica rimanda a “testimone”,che a sua volta rinvia al più complesso concetto di

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jihad, il cui significato non può essere letto in chiaveunivoca. Raccogliendo e legittimando sia gesti offensiviche atti difensivi. Se nella pubblicistica occidentalel’immediato accostamento è agli attentati suicidi, ossiaai cosiddetti “kamikaze”, nella logica islamica, invece,vi è una più articolata stratificazione di significati, perl’appunto legati alla variabilità con la quale si intende iljihad. Lo shahi-d è colui che per definizione porta avan-ti l’impegno sacro e doverosodi lottare per l’affermazio-ne della fede. Un impegno che può prefigurarsi talvoltacome una guerra dovuta (mai però santa, espressioneestranea alla dottrina giuridica islamica tradizionale).Tuttavia, le divergenze sull’interpretazione (e quindisull’estensione) della funzione testimoniale attiva nonmancano. Anche in ambito musulmano c’è chi discutecirca la liceità del ricorso alla forza, essendo assai labili i

confini tra una lecita azione di jihad, anche quando es-sa sia nel concreto estremamente rischiosa per la pro-pria vita, e il suicidio, assolutamente vietato invece findall’epoca del Profeta Maometto. Il radicalismo islami-co, tuttavia, salta a piè pari le disquisizioni in materia.Così come piega ad una concezione univoca il termine,altrimenti in sé polisemico, di jihad, che si raccoglie in-vece sotto l’ampia radice che deriva da g-h-d, ossia“esercitare il massimo sforzo” nel perfezionamento del-la propria fede così come nella sua imposizione ad altri.Benché abbia sempre un significato militante, tuttavianon va necessariamente inteso nell’accezione militare.Durante il periodo della rivelazione coranica, quandoMaometto si trovava a La Mecca, il jihad rinviavaall’esercizio interiore indispensabile per accedere allacomprensione del significato di Dio. Solo con il trasfe-rimento da La Mecca a Medina, l’Egira, e con la fonda-zione di uno Stato islamico, si addivenne al combatti-mento difensivo. Il Corano, nelle sue Sure, fa diversi ri-mandi al qital, lo “stato di guerra”. Che tuttavia, a suavolta, può essere inteso con significati alternativi. Percertuni è autodifesa, per altri è riconoscimento dellacondizione di violenza che vige contro l’Islam (senzache ciò implichi necessariamente una risposta di iden-tica natura), per altri ancora è invece la legittimazionepiena alla lotta armata. Di tradizione si richiama ilgrande jihad interiore, che si rivolge alla dimensioneindividuale, dove alla persona è richiesto l’impegnocontinuo per purificarsi, seguendo la via maestradell’insegnamento divino. Vi è poi il piccolo jihad, cherimanda alla guerra legale, ovvero legittimata dalle con-dizioni di aggressione, nel quale il combattimento ar-mato è invece previsto ma prevalentemente a scopi di-fensivi.

Più in generale, il termine “jihad” è co-munque evocativo di “sforzo”, ossia qualcosa che de-manda all’impegno persistente verso l’adempimentointegrale dei propri obblighi. La sua concezione è dina-mica poiché dinamico è il quadro di riferimento in cuila religione musulmana si inserisce. Le dottrine concor-dano sulla legittimità di un jihad difensivo, laddove es-so consista nella difesa militare della comunità islamicaquand’essa sia assediata oppure offesa dal nemico. Cosìin epoca coloniale, laddove le popolazioni musulmaneinsorsero contro la presenza degli occupanti. Per piùaspetti questa condotta può, a rigore di logica e di di-ritto internazionale, essere ricondotta al diritto di resi-stenza armata contro l’occupazione. Così nel casodell’Afghanistan del 1979, invaso dall’Unione Sovieti-Ettore Illigrignani, Luna sulla città, Collezione privata

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ca, quando un’argomentata fatwa, ossia il pronuncia-mento autorevole di un giureconsulto, a ciò autorizza-to, emessa ad Abd Allah Yusuf al-Azzam (destinato acondizionare il pensiero e le scelte di militanti del radi-calismo islamico come Ayman al-Zawahiri e Osamabin Laden) dichiarava necessaria l’azione contro i kuffa-r,i miscredenti. In terra afghana ma anche, ed è quest’ul-timo un aspetto non secondario, contro Israele. L’assetra la lotta contro le singole “occupazioni” e quella del-la Palestina storica, quest’ultima intesa come la madredi tutte le battaglie, è la saldatura ideologica più pre-ziosa per giustificare i gesti del presente. In questo qua-dro si posiziona il jihad offensivo, laddove esso indicanon più la difesa di qualcosa di già esistente bensì l’ag-gressione e la conquista in chiave espansiva. Anche quidottrine e, soprattutto, interpretazioni divergono.L’Islam sunnita lo può contemplare ma non come ob-bligo per il singolo fedele (fard’ayn) bensì come vinco-lo religioso per l’intera comunità (fard kifaya). Inrealtà, il vero passaggio critico è costituito non dalla di-mensione dottrinale bensì dalla legittimità della pro-nuncia. Qui si innerva, ancora una volta, l’azione delradicalismo islamico, alla ricerca continua di uno spa-zio di autolegittimazione. Poiché in società dove l’ele-mento religioso è immanente alla sfera pubblica manon esiste una chiara linea di trasmissione gerarchica,chi riesce a ricavarsi un ruolo in tal senso è destinato adesercitare un potere rilevante. A causa della mancanzadi un’organizzazione ecclesiastica all’interno della vastamaggioranza dei musulmani, qualsiasi aderente potreb-be, quanto meno in linea di principio, autoproclamarsiesperto in materia di religione e dichiarare un jihad di-fensivo per mezzo di un pronunciamento. Il cui rico-noscimento di validità, e gli impegni che così ne deri-verebbero, rimangono comunque a discrezione di colo-ro che ricevono il messaggio. La scomparsa del Califat-to come istituzione unitaria nel 1924 (titolo che gliOttomani detenevano dal 1517) ha accentuato, sulpiano politico, tale condizione. Gli Stati nazionali, chein via teorica sarebbero gli unici a potere vantare unafunzione di questo genere, sono considerati dall’islami-smo radicale come entità destituite di legittimazione,ossia non rappresentative dell’Islam. In tale vuoto nondi potere-potenza ma di riconoscimento del potere-au-torità, i movimenti militanti si sono ricavati una nic-chia importante, quella che gli deriva dall’essersi assun-ti lo status di detentori di un’autorità di fatto.

Concretamente, la teologia del martirio ha trovatocampo fertile laddove ha rappresentato un sicuro corri-spettivo ideologico all’agire politico e, in immediato ri-flesso, della legittimazione di quei poteri che nell’azio-ne permanente trovano il loro fondamento. Lo sciismo

rivoluzionario (a fondamento del quale c’è la tradizionedel sacrificio del terzo imam a Kerbala), rompendo conla tradizione quietista, nella seconda metà degli anniSettanta del secolo scorso inizia a presentarsi pubblica-mente come religione della lotta contro l’ingiustizia.Ciò facendo incentiva la mobilitazione che, a sua volta,porta con sé l’idea che la giustizia sia il prodotto nondell’attesa bensì dello scontro. In questa dinamica, ciòche conta non è mai l’uno, il singolo, il pio credentema, ancora una volta, secondo quella che diventa unacostante nella logica radicale, la comunità. Il sacrificioindividuale verrà compensato non solo nell’ultraterre-no musulmano, ma dal successo in questo mondo delgruppo per il quale si dona se stessi, ossia dal raggiun-gimento dei suoi obiettivi. La soggettività del fedele siinvera nell’aderenza alla prassi dell’organizzazione, chedetta i valori fondamentali e il modo di trasfonderli inprassi. La dialettica tra individualità e comunità staquindi alla base della valorizzazione del martirio. E di-venta una delle chiavi fondamentali nel successo del re-gime khomeinista, prima con la rivoluzione contro loshah e poi nella lotta, tra il 1980 e il 1988, control’Iraq di Saddam Hussein. Ad imprimere una svolta intal senso è la nascita dell’Organizzazione per la mobili-tazione dei diseredati, la Bassidjé Mostazafin, costoladelle Guardie rivoluzionarie sciite. Si tratta di un movi-mento connotato sia dal punto di vista sociale (racco-gliendo perlopiù elementi provenienti dagli strati piùmodesti della società iraniana) sia generazionale (conuna forte prevalenza degli adolescenti). È lo specchiodella potente, tumultuosa e violenta politicizzazioneche tra il 1975 e i primi anni Ottanta ha travolto l’in-tera società. Ad una generazione di giovanissimi sichiede di diventare protagonisti della scena collettiva,immolandosi contro le truppe irachene. E il risultato èirresistibile, rompendo gli argini del tradizionalismomusulmano, svellendo le difese delle famiglie – che sivedono sottrarre i figli, volenterosi miliziani della nuo-va formazione da combattimento –, capovolgendo legerarchie sociali consolidate a favore di un potere che sipresenta come rivoluzione in cammino.

Dietro la mistica della lotta (e della morte), della ri-cerca della purezza attraverso il sacrificio della propriapersona, del “soldato politico”, del giovane come au-tentico detentore di un sapere esclusivo, quello che glideriva dal non essere stato contaminato dal vecchio re-gime, ma anche della “comunità del fronte”, dell’unio-ne tra coloro che hanno vissuto le medesime esperien-ze, tornano i temi dell’avanguardismo, dell’arditismo edel combattimento come fine in sé che in Europa già ifascismi avevano fatto propri con profitto. All’esercitosi sostituisce in tale modo la milizia, alla guerra la mili-

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tanza armata, allo scontro il sacrificio, alle istituzionicristallizzate il movimento giovanile. Mentre l’esercitoragiona di strategie i basidji si immolano. Questa mec-canica si riproduce da subito nel conflitto libanese del1982, quando dalla valle della Beka’a la presenza mili-tante sciita si espende verso il sud del paese. Hezbollah,il “partito di Dio”, destinato a egemonizzare il Libanomeridionale, si struttura in quei frangenti, diventandopoi un attore politico di primaria grandezza. Sarà pro-prio l’anno successivo che gli shahi-d locali attaccheran-no, con una serie di attentati suicidi, i presidi america-ni e francesi, oltre a quelli dei propri avversari interni.Negli anni successivi il medesimo fenomeno inizia aproporsi anche tra i sunniti. L’epicentro è la lotta con-tro l’“entità sionista” condotta da gruppi come Hamase Jihad islamica, a Gaza come in Cisgiordania. Unalunga stagione di uomini-bomba, che si fanno esplode-re nelle città israeliane, diventa il suggello del fatto chela lotta politica non è più quella voluta dai vecchigruppi raccoltisi sotto l’ombrello dell’Organizzazioneper la liberazione della Palestina. Tanto più dal mo-mento che essa sta conducendo un lungo e complessonegoziato con Gerusalemme. Di fatto, con l’esplosionedella seconda intifadah, a partire dal 2000, molto piùviolenta e militarizzata di quella precedente, conclusasinel 1993, il ruolo degli uomini-bomba diventa rilevan-te nella conduzione delle diverse operazioni terroristi-che. Significativa è l’adozione di una forma di comuni-cazione delle proprie ultime volontà basata sul testa-mento mediatico. Ogni candidato al “sacrificio” regi-stra un video dove spiega le motivazioni del suo gesto avenire, attraverso la recitazione di brani del Corano e illancio di invettive, che viene poi diffuso non soloall’interno della comunità palestinese ma anche nel cir-cuito dell’informazione occidentale. Ancora una voltail nesso tra apparente arcaicità del comportamento (ilmorire uccidendo barbaramente negli innocenti) e lamodernità dei mezzi con i quali lo si veicola e lo si en-fatizza, conferma la saldatura che nel radicalismo isla-mista si dà tra ricorso alla violenza e sua diffusione infunzione promozionale dell’organizzazione militante.

Quello che il radicalismo ha pienamente inteso èche in situazioni sociali e politiche immobili, dove igruppi di interesse sono, a loro volta, inamovibili e unaparte consistente della popolazione, soprattutto se gio-vane, vive un’insopportabile marginalità, lo sbocco alcomune senso d’impotenza è il ricorso alla forza. Im-proponibile per il singolo, destinato nel qual caso a ri-manere isolato e a pagarne il prezzo. Ma del tutto plau-sibile e lecito, agli occhi di molti, se perpetuato attra-verso la corresponsabilizzazione e la condivisione chel’appartenenza ad una organizzazione politica, che si

presenta come contropotere, offre a chi ne è parte.

La questione del conflitto israelo-palestine-se attraversa tutte le vicende legate all’evoluzione delmilieu islamista. Se è vero che il bersaglio specifico so-no i gruppi dirigenti nazionali dei Paesi musulmani, lalunga durata del confronto tra la comunità arabo-pale-stinese e quella ebraica prima e israeliana poi è una sor-ta di suggello nel medesimo tempo simbolico, ideologi-co e teleologico. In sé raccoglie, come una sorta di pre-cipitato onnicomprensivo, tutte le dinamiche perversedei conflitti mediorientali. A partire dall’investimentodi significati – molto spesso impropri – che su di essosono stati fatti nel corso del tempo. È per eccellenza,dal punto di vista islamista, la sintesi dell’“empietà”. Ediventa, per il radicalismo, un vero e proprio campo se-miologico – oltre che terreno concreto di scontro – sucui costruire le proprie narrazioni. Il punto di parten-za, per l’islamismo, è la storica sconfitta del 1967,quando le truppe di Nasser furono ricacciate oltre ilCanale di Suez e Israele si trovò, da quel momento, adamministrare una parte di territorio due volte più am-pia dei suoi originari confini armistiziali. Sulle cause diquesto esito catastrofico, le pronunce per parte arabo-musulmana sono tante. Tra queste, negli anni Settantaprendono piede le interpretazioni che condannano glisconfitti in quanto colpevoli di non avere seguito la“retta via” islamica. Più che per il loro aspetto di biasi-mo risultano convincenti nel momento in cui afferma-no che ad essere stata perduta è una battaglia, non laguerra totale contro i nemici. Ciò a cui si trovano di-nanzi gli sconfitti è una prova, alla quale si può dareuna risposta vittoriosa con l’impegno militante, scon-figgendo nel medesimo tempo il senso di disillusioneche nel mentre è sopravvenuto. Soprattutto, il radicali-smo che va affacciandosi sulla scena politica, rafforza ilconvincimento che quella che è in atto sia una lotta daitratti apocalittici, uno scontro tra il Bene e il Male. Lapossibilità di identificare il secondo con qualcosa daitratti definiti una volta per sempre, il “sionismo”, è poiun elemento galvanizzante.

Non di meno questo percorso si intreccia con l’ac-cresciuta fragilità delle élites laiche, incapaci, dopo glianni promettenti della decolonizzazione, di pensare aprogetti politici in grado di dare sostanza alle promessee alle aspettative collettive. Non è un caso, infatti, se visia da sempre un intreccio tra rafforzamento della pro-posta fondamentalista e indebolimento di quella mo-dernizzante. Alle strade sempre più incerte delle vie na-zionali all’emancipazione, dei socialismi arabi e dei pa-

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narabismi si sostituisce così una nuova certezza, quelladel “ritorno” all’Islam. Più che reviviscenza religiosa è ilrifugio dei disincantati. In realtà, per un primo periododi tempo, corrispondente a buona parte degli anni Set-tanta, le organizzazioni islamiste vengono tenute sottoosservazione dai poteri pubblici ma represse soltanto inalcuni casi. Il calcolo politico, particolarmente evidentenell’Egitto di Sadat e dei Fratelli musulmani, è chequeste possano concorrere ad indebolire le opposizionidi sinistra. Il terreno che contendono ad esse, infatti, èil medesimo: la rappresentanza delle grandi periferieurbane, con l’immenso esercito di sottoproletari e dise-redati; l’associazionismo studentesco e universitario, inPaesi composti da una quota molto elevata di popola-zione in età scolare; segmenti del ceto medio commer-ciale, questi ultimi però tra i più refrattari, in un primomomento, salvo poi venirne sedotti per la concezionemercatista e liberista dominante tra gli islamisti sul ver-sante economico. Il decennio è contrassegnato dall’in-cremento e dalla proliferazione di gruppi radicali. Sitratta del processo che avrebbe posto le premesse per laloro dirompente ascesa sul pubblico proscenio un de-cennio dopo. Come in Egitto anche nell’Iran della ri-voluzione khomeinista la concorrenza si consuma a si-nistra. Per meglio dire, chiama in causa lo svuotamentodella rappresentanza popolare che era stata esercitata,fino ad allora, perlopiù dalla sinistra laica. Quanto me-no dal momento della decolonizzazione e nei tortuosipercorsi di costituzione di identità nazionali incerte eincompiute. È proprio l’impossibilità di dare fiato aStati nazionali definiti, ovvero solidi nel loro radica-mento e nel seguito sociale, con sistemi di Welfare Sta-te in grado di andare oltre i particolarismi e i clienteli-smi dominanti, a segnare non il declino del notabilatopatrimonialista bensì di quello delle forze progressiste,candidatesi, a cavallo di due guerre mondiali, a guidarela trasformazione sociale del Medio Oriente.

Il decennio che si inaugura con la Guerra dei Seigiorni, nel 1967, per finire con la costituzione dellaRepubblica islamica dell’Iran, nel 1978, è contrasse-gnato dalla contesa che va un po’ ovunque istituendosie lievitando tra partiti socialisti o di estrazione marxi-sta, da un lato, e movimenti islamisti. La posta in giocoè la legittimazione a raccogliere il consenso della gran-de parte di collettività quasi sempre di estrazione umi-le. Un segmento significativo, se non preponderante,delle società locali, che dai fenomeni di national buil-ding e di modernizzazione ha assai raramente ricavatodei benefici tangibili. Men che meno quell’emancipa-zione economica e culturale promessa dai partiti nazio-nalisti e della sinistra. Alla ricerca, quindi, di attori po-litici in grado di raccoglierne il disagio. Nell’Iran sciita

è emblematica la figura di un intellettuale come AlìShariati (1933-1977), che concorre a riformulare iconcetti della religiosità islamica in termini contempo-ranei, rivestendoli di significati che rompono con ilquietismo tradizionalista, a favore di una concezionemilitante che, nella sua vasta eco, per tanti costituisceun invito alla mobilitazione collettiva. Da questo pun-to di vista, ancora una volta il radicalismo si presentasulla scena ribaltando il neotradizionalismo e costi-tuendone la rottura dei paradigmi consolidati. In cam-po sciita questo atteggiamento è ancora più marcatoche nell’ambito sunnita. Shariati pone le premesse perrealizzare la totalità religiosa, intesa non più come unasfera a sé, che si impossessa del campo della politica,bensì come un’ideologia compiuta, che investe ogniaspetto delle relazioni sociali. È il passaggio da quellache viene definita la “religione della sconfitta”, attribui-ta al clero sciita, amministratore di un quieto vivere alquale corrisponde la marginalità della popolazione, alla“religione della giustizia”, costruita dai combattenti, os-sia da coloro che entrano comunque in gioco, indipen-dentemente dalla loro origine, nel nome dell’attivismo.Capitale è quindi la riassunzione, all’interno del nessotra legittimità (del potere), giustizia (sociale) e ripara-zione (dei torti subiti), del rapporto conflittuale tra op-presso e oppressore, mostazafin e mostakberin. La dia-lettica sociale, con il riconoscimento dei differenziali diredistribuzione delle risorse e la richiesta di provvedereal superamento delle polarizzazioni economiche, è unafondamentale chiave di volta nel successo islamista.Poiché sottrae alla sinistra il cavallo di battagliadell’egualitarismo, lo coniuga ad un discorso moralesulla società (linguaggio al quale molti ascoltatori sonosensibili perché immediatamente intelligibile) nel men-tre enfatizza la rilevanza dell’impegno personale cosìcome la necessità di sostituire le élites. Su questi pre-supposti ideologici il fondamentalismo islamista si of-fre anche come “religione della riparazione attiva” per itorti subiti, battendo il tasto della partecipazione diret-ta sotto la guida dei leader “ben ispirati”.

L’internazionalismo è, infine, un ulteriore ingredien-te, soprattutto se legato al discorso antimperialista. Iltema del predominio satanico dell’Occidente, produt-tore e importatore dei fallimentari e degenerati modellidella modernizzazione, diventa così l’orizzonte entro ilquale intendere, ancora una volta, i cambiamenti seco-lari come il segno di una rivoluzione collettiva, plane-taria, prossima alla sua realizzazione. La forza della mo-bilitazione radicale sta nella capacità di rompere i cri-smi della tradizione invocandone un’interpretazione ri-vendicata come finalmente “autentica”, di contro aquella corrotta, imposta dai gruppi dirigenti al potere,

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ma anche di sapere sfruttare a proprio beneficio il mu-tamento sociale che questi stessi hanno prodotto con leloro politiche, salvo poi rimanerne sopraffatti. In Iran ipercorsi di modernizzazione autoritaria, a tratti bruta-le, hanno contribuito a indebolire, e spesso a dissolve-re, strutture e soggetti delle comunità tradizionali. Cosìin altre parti del Medio Oriente come dell’Africa medi-terranea, dove dalla decolonizzazione in poi l’accelera-zione delle trasformazioni, a partire da quelle demogra-fiche, non ha cancellato del tutto le vecchie relazionisociali ma le ha comunque sottoposte a tensioni abrasi-ve. In tutti i casi deriva comunque il fatto che il potereche promana da una anchilosata tradizione, il potere diinterpretazione, dal quale deriva la legittimazione degliordinamenti secolari, viene letteralmente stravolto. Alruolo conciliante del quietismo si contrappone adessoquello conflittuale del percorso rivoluzionario. In que-sto caso la rottura avviene all’interno del nesso tra reli-giosità e prevedibilità, capovolto nel nuovo nesso tratrascendenza e militanza.

Il radicalismo si adopera quindi in una vera e pro-pria reinvenzione della tradizione religiosa, attribuen-dovi un ruolo ordinativo e normativo che solo una nar-razione in linea di diretta collisione con ciò che il tradi-zionalismo conservativo riesce ad offrire può, nei fatti,garantire a se stessa. Contro esso oppone quindi unaconcezione attivistica e partecipativa della comunità.Nessun pluralismo è peraltro contemplato, poichél’adesione e la partecipazione non sono in funzionedello sviluppo di una pluralità di soggetti sociali, nonadempiono alla differenziazione delle funzioni, deiruoli e, di riflesso, delle identità, essendo semmai ancil-lari alla visione olistica che lo connota, dove le partiaderiscono simmetricamente all’unione. Qualsiasi ele-mento perturbante è denunciato come estraneo e,quindi, eliminato.

Questo assolutismo identitario è, alla re-sa dei conti, il prodotto del difficile incontro e delconfronto con la modernizzazione incompiuta che iPaesi nei quali è diffuso il radicalismo hanno cono-sciuto nel corso del tempo. Non è alternativo alla glo-balizzazione socioeconomica e allo scambio culturale.Per più aspetti, semmai, ne costituisce una diretta ri-caduta. Comunque, non ne è un’alternativa, ponen-dosi invece come la forma possibile della politica, og-gi, in società dove la dissonanza tra aspettative e risul-tati è il tratto dominante nelle relazioni sociali. Sel’Europa sta conoscendo un’ondata di populismo,l’Oriente si confronta con il fondamentalismo. I due

fenomeni presentano reciprocità e specularità che ri-chiedono d’essere ancora indagate, a partire dalla so-stituzione della mobilitazione identitaria alla mancan-za di mobilità sociale ed economica. È stato scrittoche “Il pensiero politico, articolato in termini religio-si, del fondamentalismo dimostra come alla fine diquesto secolo la religione sia stata ricondotta alla poli-tica. Ma i fondamentalisti, per quanto fedeli, non so-no soggetti motivati primariamente dalla religione[…] I pensatori politici del fondamentalismo si muo-vono [infatti] fra un sogno di modernità parziale el’azionismo politico” (Tibi). Viene da pensare chel’islamismo, anche nelle sue versioni più paurose, bru-tali, gratuite, offensive costituisca la forma perversanon di un barbaro passato che ritorna ma di un pre-sente che non scorre, ripiegato su di sé, vittima di unasorta di mito incapacitante, quello della non riforma-bilità dello stato delle cose, al quale si risponde conl’aggressività della disillusione e la tracotanza dellaprevaricazione. Ancora una volta, quanto meno sulpiano culturale, tornano le suggestioni che furono ce-lebrate nei nostri Paesi tra le due guerre mondiali, dairegimi totalitari.

Claudio Vercelli

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