PECCATO PER LE ASSUEFAZIONI

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AUTORI APPESI PECCATO PER LE ASSUEFAZIONI 2009 Autoproduzioni Appese

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AUTORI APPESI

PECCATO PER LE ASSUEFAZIONI

2009 Autoproduzioni Appese

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I giorni in cui si preferirà lasciar perdere… nessun problema da parte della commissione… PERDERETE.

Anonimo su un muro per strada

Ho barattato le mie due figurine della Santissima Madre con cinque euro e venti. Ho comprato un panino, una birra ed un caffè. Ora sto meglio.

Anonimo su un muro nei cessi pubblici

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**** Sette Tizi Capitali è il titolo dell’articolo apparso sul numero XXV del Giugno 2009 di InScena Magazine (www.inscenamag.it). Trasmettere dalla teoria alla pratica le nozioni di un peccatore è piace-vole come vedere quanto stia accadendo in un ipotetico deja-vu della pagina di un libro nella quale ti spiegavano cosa stesse accadendo. I dettagli a volta fanno la differenza. I dettati, spesso, sono le vittime preferite delle distrazioni. Accogliamo i peccatori a braccia aperte. Chiunque lo voglia a braccia conserte. Chiunque lo voglia a braccia levate. Chiunque non lo voglia: che possa bruciare tra le fiamme dell’inferno!

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AVARIZIA Le lancette metalliche sulla parete di travertino stuccato e lucidato, segnavano il tempo della mia attesa. La piccola, posizionata poco sotto il 2, sembrava una lumaca con l'artrosi; la grande stava sul 7 e si muoveva come se non avesse artrosi ma sempre col passo di un mollusco ricoperto da una conchiglia. Guardavo le mie scarpe lucide e pensavo alla mia cromatina, osservavo le mie scarpe e poi rialzavo gli occhi sul travertino stuccato e lucidato. Il treno per San Lucido era alle 14:55. Mancavano ancora 20 minuti. La mia cromatina comprata quasi 3 anni fa, luciderà le mie scarpe per almeno altri 2 anni. Il travertino di questa benedetta sala invece, è stato stuccato e lucidato soltanto una volta. Ma perché nessuno ha ancora inventato le scarpe auto lucidanti? I calzaturifici italiani non sono all' avanguardia, va decisa-mente meglio con le cave per il travertino. La lancetta grande si avvici-nava al numero 8, la piccola si allontanava di qualche millimetro dal numero 2. Se mettessi i miei piedi adesso in una delle mie cave di travertino con le scarpe lucide, sarebbe la fine della mia cromatina. Per fortuna alle 16:30 entrerò nella sala conferenze per il congresso, niente cave, niente polvere e per i prossimi 15 giorni la mia cromatina può starsene tranquilla. La pareti della sala conferenze sono di traver-tino stuccato e lucidato. Guardo ancora le mie scarpe, un minuscolo granello di polvere si poggia sopra la sinistra, un piccolissimo tocco col dito mignolo e via. La lancetta grande è in prossimità del 9. Al congresso mi aspettano 210 soci di minoranza: un altro passo importante per la mia

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vita, per la mia carriera, un altro gradino in più di travertino lucidato e stuccato, sempre meno polvere, sempre più vicino al mio splendore assoluto. Potrò specchiarmi nelle mie scarpe, basterà un milligrammo di cromatina al mese. Continuerete ad inghiottire polvere nelle cave di travertino, vi controllerò dai miei monitor. La lancetta grande è sul 10, mi alzo, mi avvicino al binario ma non troppo, resto distante a un metro e 70 circa. Se mi avvicinassi troppo, la polvere dei binari farebbe irritare la mia cromatina. Ecco la vettura, prima di salire guardo per l’ultima volta il travertino. Prendo posto accanto al finestrino e seduto ammiro le mie scarpe lucidissime. Le fabbriche di cromatina faranno la fame. La polvere del mio marmo vi entrerà nelle narici, nei padiglioni auricolari, nei peli delle ascelle sudatissime e nel buco del culo. Segate, lucidate e stuccate il mio tesoro, in fondo siete davvero fortunati voi lavoratori di marmi che non comprate mai cromatina.

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INVIDIA

Dopo l’apparizione del nonno defunto Marcellino sorrideva sempre. Era come se vedesse splendere il sole anche nelle peggiori giornate di pioggia. Sorrideva quando il padre lo picchiava a sangue, sorrideva quando i compagni di scuola lo sbattevano a terra riempien-dolo di calci e pugni. Sorrideva quando si trovava nel letto, febbricitan-te, mentre la madre gli stringeva la manina amorevolmente, fissandolo con uno sguardo preoccupato. Nessuno capiva a cosa fosse dovuto quel repentino cambiamento, anche perché Marcellino aveva smesso di parlare. Sorrideva e basta. La madre si disperava cercando di ca-vargli una parola di bocca: piangeva, si strappava i capelli, a volte scappava via urlando terribili bestemmie.

Sapeva in cuor suo che l’unica cosa che avrebbe ottenuto sarebbe stato un tenero e candido sorriso e questo la faceva infuriare più di tutti. Sì, perché lei, prima che quella maledetta sventura si ab-battesse sulla sua creatura, aveva intuito qualcosa che nessuno, ne-anche il padre distratto dai suoi mille pensieri, era riuscito ad intuire. Marcellino evitava di sorridere. Si vergognava. Non voleva mettere in mostra quella dentatura da cavallo. Una dentatura spropositata che attirava gli insulti peggiori da parte dei suoi compagni, dei suoi parenti, dei fratellini.

Gli aveva più volte spiegato, tirandolo in disparte, come do-vesse accettare la sua natura. Che l’avesse presa in parola? Anche troppo… anche troppo. Perché adesso Marcellino era sereno. Sereno e sorridente. Una cosa era certa: quel sorriso perennemente stampato

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sul volto innervosiva tutti. A cominciare dal padre che continuava a picchiare il piccolo Marcellino. Prima lo puniva per sfogare la sua frustrazione. Adesso lo picchiava perché sorrideva. E così lo punivano i fratellini ed i parenti. Anche la madre aveva iniziato a pestarlo.

Il piccolo Marcellino si spense poco tempo dopo, all’età di 13 anni, stringendo in mano la foto del nonno, tra le finte lacrime ed i sinceri sorrisi di parenti e conoscenti. Sì. Sorrisi. Perché Marcellino, rappresentava quella serenità che tutti loro avrebbero potuto soltanto assaggiare, in pochi e sporadici momenti della loro miserabile vita.

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SUPERBIA

Avrei fatto di meglio, avrei fatto decisamente meglio. Non me ne vanto ma è evidente che sono più in gamba di quel coglione di Pranca. L’ingegnere gli ha affidato il lavoro, una cosuccia da niente. Ci vorranno un paio di settimane al PC ed il progetto sarà pronto. E arri-veranno un paio di migliaia di euro nelle tasche di quel fallito. Beh, spero almeno li spenda per farsi una giacca nuova, indossa quel pul-lover stinto da quasi un mese. Ma come fa ad andare avanti così... caro mio sei proprio squallido. Comunque vediamo queste tavole se vanno ben… ma che fa?! Fa un cenno verso di me quel coglione “Che c’è Pranca?”. “La prego dottor Pinellio, può dare un occhiata a queste cifre? Non vorrei aver sbagliato qualche calcolo”. Ah, ah! Finalmente il perdente ha capito chi è la vera testa in questo studio. Giusto un’occhiata ma sem-bra tutto a posto, anche il calcolo strutturale. E bravo Pranca, allora non sei proprio male… continua così che forse l’ingegnere si farà leccare pure la mano. Come al solito, abbassa gli occhi in silenzio e continua a lavorare. Le uniche volte che lo sopporto sono quando lo umilio di fronte la signorina del terzo pia-no, quella gran fica. L’idiota si chiude come un riccio, diventa paonazzo e torna a sedersi. Che ridere. Personaggi del genere pensavo esistessero solo nei film di Fantozzi. Purtroppo la democrazia ha permesso a troppe nullità di studiare. Sono uscito da un’ottima università privata e mi ritrovo gomito a gomito con un figlio di “Pranca, che lavoro faceva tuo

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padre?”. “L’operario, dottor Pinellio”… appunto. Aveva ragione il mio vecchio “Caro mio tra un po’ persino gli zingari potranno votare”. Chi sa cosa direbbe a vedere quest’invertebrato con cui divido l’ufficio. Ma ho un cento dieci e lode da difendere. E quando lucido la cornice della mia laurea appesa, non manco di metterla in mostra a quel poveretto. Dove si è laureato lui? Ah, già… ha solo il diploma lo scemo, sicuramente in una di quelle scuole con professori depressi e con gente all’ultimo anno che fatica a leggere. Mi mandano in bestia certe cose, ma… appena l’ingegnere si accorgerà di chi vale veramente in questo studio, allora si che la musi-ca potrà cambiare. Solo qualche anno, ed i vari Pranca e compagnia sapranno cosa vuol dire “LAVORO”. Per ora mi godo le comiche di quest’ omun-coli. Ci vuole un po’ di misericordia. Dopo tutto, anche loro pagano quelle poche tasse che gli toccano, non tanto quanto le mie… certo…

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GOLA

Adesso arrivo e vi faccio scoppiare, polentoni di merda! Te lo vado dicendo, salgo in Trentino e vi faccio scoppiare! Per 7.000 euro questo ed altro! So che da quelle parti fa freddo anche ad Ago-sto, quindi mi metto a cucinare. Oggi manzo, domani vitello tonnato con la carne che resta del giorno prima. Vi piace? È perché siete abi-tuati a gusti sanguigni. Voi il pesce non lo conoscete: il pesce è la delizia del palato! Sapete cos’è lo “stocco alla ghiotta”? Voi pensate solo ai cerbiatti! E io vi farò scoppiare coi cerbiatti. E più voi mangiate più dimagrisco io: 2 litri di BrancaMenta mentre preparo le costolette non mi basterà a trattenere tutto il ferro che a fine Agosto vi farò trangugiare! Ne avrete tanto in corpo che ad attaccarvi su il magnete di San Cristoforo protettore dei cruscotti, ci metterete il tempo di salire in macchina! Meno cerbiatti ci sono da cucinare e più dimagrisco. Ultimamente vi trovo appesantiti. Porci senza coda riccia! Sta finendo il BrancaMenta. Ho perso 16 chili mentre l’albergo si riempie di gente all’ingrasso con carne all’ingrosso… ed è solo il 14 Agosto. A un certo punto, Glicine Delposto, il mio capocuo-co, mi dice: “Fezzente, tu che sei terrone, perché non cucini un piatto tipico delle tue zone per Ferragosto?”. Mi chiedi di cucinare per gente che non esiste, in una festa che non esiste, in un posto che non esi-ste, un piatto terrone? Ah AH! Sapevo che quegli stronzi avrebbero chiesto qualcosa di esotico. Avevo con me una valigia carica di ‘nduja di Spilinga e pepe-

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roncini di Soverato. Avevo anche l’amore mio con me, santa ragazza! Lo feci: preparai linguine alla ‘nduja con un soffritto di aglio, pomodori-ni, basilico e tutti i peperoncini che avevo. 40 kg di ‘nduja distribuiti in 35 piatti. Ora sapete cosa signifi-ca essere Calabrese: ora lo sapete cazzo! Mangiate presto su! Il ba-gno è uno e i sintomi si faranno sentire simultaneamente. Sangue e ‘nduja sparsi sul muro del cesso. È questo che volevo ottenere. È questo ciò che ho ottenuto. Ho perso 16 chili ma ne è valsa la pena. E adesso… chi vuole cerbiatto?

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LUSSURIA

“Degrado! Lussuria! Degrado! Lussuria! Sono entrato nel tuo cervello e ho visto per un attimo con i tuoi occhi… con i tuoi occhi… Sono entrato nel tuo cervello e ho visto per un attimo con i tuoi occhi… con i tuoi occhi… È quello che volevi… È quello che voleviiii…” (da “Con i tuoi occhi” dei CGB) Era una stanza che tutto aveva tranne che luci naturali. Sulla parte perimetrale alta erano accuratamente posizionati i neon colorati tra il viola ed un rosso interrotto da pois di luce candida. Dei buchi bianchi sul futuro anteriore. Degli occhi di fuoco che avrebbero reso ciechi i miei occhi che del futuro non avrebbero voluto sentir parlare ma che dal solo pensiero di un futuro presente si sentivano appagati. Un futuro che era già adesso capisci? Il mio futuro ed il futuro di questi momenti. Lei era ancora legata dalle braccia al soffitto. Il suo corpo nudo trascendeva la carnalità. Lei sarebbe rimasta legata ancora a lungo. Gli occhi del futuro abbagliati dalle colorazioni ambientali erano gli occhi di bue sul corpo del toro. “Vengo a vedere il domani!”. Clap! La purezza degli occhi bendati di Lei. Clap! La guardo e torno sedermi. Da un frigobar un tocco di ghiandola pineale. Lei lo assaggia su mio ordine. Ne chiedo ancora. Ne voglio dell’altro. Saltavano i con-venevoli al rischiararsi delle voci. Una voce che lei non avrebbe potuto osare a farmi sentire. Ne mangio le dita del piede destro dopo averle strappato le unghie.

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Lei non si lamenta. Non deve farlo. Dal legaccio che le stringe i polsi qualche fiotto di sangue. Saranno trascorse delle ore da quando ab-biamo deciso. Lei non si lamenta. Raccolgo il sangue nella provetta. Con la lingua raccolgo e dalla lingua emetto. Le mordo una costola. Lei non si lamenta. Le manifesto la vertigine nella quale puoi trovarti a girare… trovarti a girare… un ritorno controcorrente… e trovarti a girare. Clap! La sentenza dagli occhi bendati di lei che adesso posso vedere oltre il fascio di stoffa nera. Un raggio di luce bianca me ne racconta il futuro. Un urlo sottile come la lama che nascondeva sotto la lingua e con la quale aveva promesso che mi avrebbe colpito. Io non mi lamento. È quello che un limite non mi potrà im-porre mentre Lei lega le mie braccia. Sui miei occhi cade il buio della chiarezza del futuro che è soltanto questo momento.

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ACCIDIA

Pensò che a quel punto stava sprofondando più di quanto potesse immaginare. Pensò che avrebbe dovuto inculare la vita a fondo prima che fosse lei a farlo. Pensò a lungo a quello che aveva e a quello che avrebbe voluto e decise di prendersi tutto. Pensò di non lasciar niente a nessuno. Pensò di dire a suo padre di non chiamarlo più perché sarebbe scappato in sud America a dare una mano nelle piantagioni di coca. Il sole, in Messico, è un’altra cosa. Pensò di dire a sua madre di provare a farsi una grossa scopata con suo padre. Tanto per alleggerire un po’ quella dannata vita sempre uguale. Pensò che avrebbe preso a pugni il suo “team leader” sfigurandolo per sempre prima di rassegnare le dimissioni. Pensò che sarebbe tornato dalla cameriera del bar giù in città e que-sta volta non le avrebbe chiesto nulla. Sarebbe passato ai fatti stu-prandola nel cesso. Poi avrebbe preso da bere alla bottega e guar-dando dritto negli occhi la ragazza al banco si sarebbe fatto con lei portavoce della verità: “Sei un cesso ingoia merda!”. Poi sarebbe scappato, inseguito dai fascisti e si sarebbe andato a nascondere a casa del suo migliore amico e lì avrebbero bevuto tutto, fino all’ultima goccia. Pensò che si sarebbe fatto volentie-ri una fumata d’oppio. Poi pensò di dire a tutti quei rotti in culo sini-stroidi di chiudere un buona volta quella cazzo di bocca: apprezzate ogni tanto il silenzio che ha molto da insegnare. Poi avrebbe portato con se soltanto uno zaino e nient’altro. Pensò di partire con l’aereo delle sei del mattino. Pensò che la prima

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cosa che avrebbe fatto una volta messo il culo a terra sarebbe stata una scopata con una quindicenne messicana. Poi avrebbe comprato un paio di bottiglie di tequila e avrebbe brindato a se stesso, alla sua bella faccia. Avrebbe incontrato qualcuno in paese e l’indomani avrebbe cominciato a raccogliere foglie di coca. Pensò che all’inizio si sarebbe accontentato. Più avanti avrebbe tirato su un piccolo bar. Avrebbe sposato la quindicenne e avrebbero avuto due maschi, Pedro e Xavier e a-vrebbero vissuto quello che gli restava ubriachi e contenti. Pensò tutto questo… poi, tirandosi un po’ più su le coperte, tornò a dormire.

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IRA

Tutto turbinava, quando la matita mi si spezzò tra le mani, continuavo a guardare fisso il muro mentre le nocche si sbiancavano stringendo la cornetta del telefono. Poi successe quello che doveva necessariamente concretizzarsi, l’atto liberatorio che poneva il punto di svolta e mi ridesse la mia umanità. Scaraventai il telefono sulla porta ancor prima di pensarlo e d’appresso il mozzicone di matita ed il posacenere mentre i polmoni espellevano aria calda che sibilava u-scendo dalle mie narici arrossate. La mascella contratta, i pugni serra-ti… ci siamo! Ora tutto diventa possibile e quegli occhi da fine indagatore si dilatarono nel guardare l’essenza umana impadronirsi di me, come se accusasse fisicamente quei pensieri velenosi che me lo prefigura-vano livido e pesto. Le sillabe erompevano dalle mie fauci con impeto e precisione. Il ruggente risveglio dell’essere assopito colse di sorpre-sa l’eminente affabulatore quanto il malrovescio che lo lasciò stupito e incredulo. Vidi compiaciuto modellato sul suo volto quell’impietoso sguardo impaurito e incredulo, che diede modo alla mia umanità di irrompere in quella stanza con il fragore assordante della bestemmia, irrompere ovunque travolgere tutto e abbattersi su di lui, che si faceva scudo con i suoi polsi su cui scintillava impassibile un Rolex. Lacero, lo volli vedere lacero, come lui aveva lacerato quel minimo di autostima che mi era rimasta. Cadde, l’esimio traditore, la schiena appoggiata al muro di libri che davano enfasi alle sue ciarle.

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Cadde come mai cadde in vita sua. Cadde sotto la tormenta di per-cosse, che egli stesso aveva invocato. Mi bruciavano i muscoli, mi dolevano le nocche, i polmoni continuavano incessanti a fornire fiato alla mia furia, scostai la sedia a calci e mi avviai verso la porta quando gettai un’ultima occhiata a quel mite truffatore, che mi spiava con vergogna da dietro al suo bel Rolex che pendeva ciondolante dal suo polso malconcio. Mi avviai per il corridoio, le gambe tremavano ma i miei polmoni continuavano ad alimentarmi impassibili.

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La collaborazione con InScena Magazine è proseguita an-che nel mese successivo: Asso di Fatto ha cercato di sintetizzare quanto di quotidiano possa considerarsi un ampia eccezione e quanto invece è costante nella persona, al punto da provocarne assuefazio-ne. Tutto può destare interesse. Non tutto è interessante. I meccani-smi del cervello sono ancora ad oggi la materia più complicata da affrontare. Una soluzione? Non crediamo ci sia. Certo… se dovessi rimanerci sotto…

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SOUFFLÈ DI FICHI E BOMBE AL MAGNESIO

Non so voi ma io adoro informarmi, sapere come vanno le cose in giro per il mondo, avere un occhio proiettato puntualmente sugli eventi. Soprattutto, mi piace nutrire le mie opinioni. Di mestiere faccio il “Testimone culinario passivo”, e non sto scherzando. E’ un mestiere duro, che richiede abnegazione completa, un olfatto molto sviluppato e un’elevata capacità dilatatoria delle pareti dello stomaco, qualità che non molti possiedono. Ad esempio, quante persone cono-scete che raggiungono l’erezione semplicemente annusando l’inchiostro sulla carta dei quotidiani freschi di stampa? Ogni giorno alle 6 del mattino ho già avuto un processo eiaculativo di oltre 12 secondi con 3 testate differenti, solitamente tutte di stampo cattolico, le migliori. Quante persone conoscete che entrano in stato di massima eccitazione endorfinica già alle prime note della sigla di un TG? Adoro farmi di sigle, sdraiato sul divano, luci basse, cuffie nelle orecchie e volume al massimo. Bisogna andarci cauti però, perché non tutti sanno che l’eccessivo stimolo degli alcaloidi prodotti dal cervello si riversa diretta-mente sulla colonna vertebrale. Per questo una volta ho rischiato di non alzarmi più dal divano, le vertebre lombari stavano per schizzarmi fuori dalla schiena come i bulloni di una cisterna d’acqua bollente alla massima pressione. Ora mi limito a spararmi solo un paio di sigle al giorno, senza esagerare. Non so voi ma quando guardo un Tg ho sempre voglia di mangiare qualcosa, anzi, ad essere sinceri, se non esistessero sarei morto di fame da un pezzo. Fame compulsiva, la

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chiamano. Non mi interesso di psicologia ma so cucinare. Così a ogni notizia del giorno ci abbino un piatto, per gustar-la meglio. Violentata e massacrata a colpi di vanga mentre tentavano di seppellirla viva, bucatini al sugo di scorfano, ottimi se accostati a 30 grammi di olive nere. Padre pedofilo violenta figlia paraplegica nella cantina di casa per 20 anni. Dalla violenza nati due bambini deformi, violentati anch’essi,agnello in fricassea, da accompagnare a un buon Montepulciano servito a temperatura cantina. Bombe al magnesio colpiscono asilo nido in Iraq: strage di bambini, soufflé di ricotta con salsa di fichi, la salsa si serve a parte. È una dieta metodica, certo, ma equilibrata che mi permette di avere il giusto fabbisogno giornaliero di elementi nutritivi: sali mine-rali e vitamine comprese.

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MUSICA CELESTIALE

Ho passato tanti anni a correggermi. Grazie a Martina ora sono un uomo. Di sicuro non bevo, non fumo, non bestemmio. Adesso sono in equilibrio. Ho imparato che esiste un ordine ben definito ed io ne faccio parte. Ed anche Pino ne fa parte. Pino è l’addetto al martello pneumatico. Inizialmente prima di salire in ufficio, lo salutavo distratta-mente. Ora mi sveglio un’ora prima la mattina, cosi posso portargli il caffè appena arriva. Alle 8:00 in punto gli do il buongiorno, porgo il caffè e mi godo l’accensione di quel meraviglioso attrezzo dispensatore di musi-ca celestiale. Appena il motore del martello parte mi avvio verso l’entrata del palazzo, mi infilo nell’ascensore e raggiungo il secondo piano. Entro nel mio ufficio e ripenso sempre al primo giorno, giorno in cui aggiunsi quel tassello fondamentale alla mia vita. Quel giorno in cui spalancai la finestra e ci avvicinai la mia scrivania in radica di noce. Capii che mentre Pino devastava la strada io riuscivo a lavorare meglio, in modo proficuo, riuscivo a mantenere la concentrazione, a non fare mai un errore. In un solo mese era stato promosso direttore responsabile delle vendite in una ditta di pannelli fonoassorbenti. Certo, la segretaria si doveva sgolare quando mi parlava, ma si era abituata. Non era sicuramente in equilibrio, sapevo che non apprezzava quella sfilza di note armoniose che provenivano dalla strada, forse un giorno avrebbe capito e allora anche lei avrebbe but-tato nell’immondizia la sua collezione di musica classica. Confesso

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che vivevo quel momento felice della mia carriera con un certo timore: che tutto sarebbe finito un giorno o l’altro. Che Pino avrebbe abbando-nato quella strada. Essere abbandonato a un insopportabile e intermi-nabile silenzio, era questo il mio incubo. Cosa che avvenne il 15 luglio del 2008 alle 8:00 in punto. Ero davanti all’entrata del palazzo col caffè in mano ma Pino non c’era. Vagai per la città in preda alla disperazione, sudavo freddo le mani mi tremavano. Ritornai in me soltanto davanti l’insegna della ferramenta Trecchiodi. “Cos’è quel pacco?”. “Il più potente Martina, il più potente” le dissi mentre imboccavo il corridoio di casa. Seduto sul tappeto del mio salotto, felice come un bambino con il giocattolo nuovo, spacchettai il martello pneumatico Brutus 800. Non importa che io abbia distrutto la mia casa, né che il dottore mi abbia comunicato che rimarrò sordo. L’importante è che io sia in equi-librio nonostante abbia sfiorato il declino perché quella musica cele-stiale sarà dentro di me per sempre.

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NUVOLE

L’estate del 1916 fu dolcissima. Nelle montagne intorno a Palizzi la ginestra sembrava proprio la regina della stagione. I minu-scoli fiori gialli facevano sorridere i fratelli Romeo, quasi ventenni. Quando non si andava a mare, le passeggiate tra l’erba erano il pas-satempo preferito per Giando e Cola. Ed in quelle lunghe camminate, lontano da occhi indiscreti, davano sfogo alla loro fantasia. A chi fosse capitato per caso da quelle parti, sicuramente non sarebbe passata inosservata quell’inconsueta scena. I due giovani erano soliti rimanere spesso fermi con il volto verso il cielo, a plasmare le nuvole come le loro innocenti voglie suggerivano all’improvviso. Li si vedeva lì, per ore. Immobili. Ognuno con i propri dise-gni stampati sugli occhi ed uno strano gesticolare che alle ragazzine del paese faceva spesso sorridere. “Tra un po’ in manicomio finiran-no”, ripeteva lo zio quando passando con il carretto li sorprendeva nella loro furiosa danza. E così passava l’estate. Giando a dipingere nell’aria i suoi cavalieri antichi. Cola che non disdegnava di ripassare le forme dolci delle figlia del mugnaio. Ma la tramontana autunnale fa presto a cancellare tutto, così come la chiamata alle armi. I due giovani partirono dal paese a fine dicembre, e dopo un bacio alla madre ritornarono a sfogliare l’album del cielo. In caserma fecero irritare non poche volte l’ufficiale Fiorentino. Una domenica di febbraio, con un tempo insolitamente bello per il mese, l’intera squa-driglia si apprestava alla marcia mattutina. Il secco “un due, un due” dell’ufficiale stonava con l’intento dei due calabresi che d’improvviso si

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bloccarono rapiti dalla maestosa figura di un leone, facendo sbattere i commilitoni dietro e risolvendo l’esercizio ad un capitombolo generale. Una tragedia: furono spediti subito sulle Alpi, a “crear contro il nemico una barriera”. A fine ottobre il battaglione si diresse per Caporetto. I prati ricordavano ai fratelli l’estate di casa ed il cielo sem-brava promettere nuove meraviglie. Era da poco passata mezzanotte nel campo italiano, che il buio fu illuminato dai cannoni austriaci. Si sparò, e si sparò. Si morì e si sparò. Si fece alba. I due fratelli, imbrac-ciati all’artiglieria, davano dimostrazione di forza calabrese quando, come uno schiaffo, i raggi di sole li colpirono negli occhi. Giando, il più alto dei due, gettò il fucile ed iniziò a dipingere un drago con due nu-vole basse. Cola, invidioso, scattò in piedi per afferrare due seni sodi che si formavano a nord est. Fu vano ogni richiamo del colonnello. La raffica austriaca squarciò i due corpi sudati mentre le mani ancora plasmavano il cielo.

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IL GRIGIO

È sempre stata particolare la cura con la quale il Grigio si-stemava i loculi, armeggiava tutto il maledetto giorno con un carretto dalle ruote cigolanti sul quale aveva fissato sapientemente una cassa in metallo, dove dentro si trovava di tutto: strumenti vari e tutta una serie di oggetti che usava regolarmente con una metodicità zen. Pas-sando per le cappelle del cimitero centrale, annotava su un taccuino rilegato in cuoio chiaro, le riparazioni che quel giorno non poteva fare, per adoperarsi meglio il giorno a seguire. Entrava nelle cappelle e sistemava senza fretta: una foto pendolante, una cerniera arrugginita, oppure estraeva dalla cassa lo stucco a presa rapida e con una serie di spatole che teneva infoderate alla cintura, rifaceva la bordatura delle pietre tombali. Le sue mani affusolate e lievemente nodose, avevano un piglio sicuro mentre sigil-lava con il silicone la pietra di un loculo appena occupato. Quindi rasa-va il silicone con una leggera pressione su quel suo strumento autoco-struito, così da far aderire la pasta e rendere ermetica la chiusura della grossa lapide. Nel periodo estivo questo lavoro era fondamenta-le per ovvie ragioni. C’era una certa tendenza alla ridistribuzione della ricchezza dei defunti. Il Grigio non sopportava le lapidi senza un “piccolo sorriso della natura” e passando per la sua quotidiana ispezione raccoglieva fiori dai loculi più pieni e li deponeva in un contenitore cilindrico salda-to su un fianco della cassa, e li ridistribuiva, soprattutto a quelle vec-chie tombe che da anni non ricevevano nulla. Era un vero piacere

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osservarlo nella sua mite e perseverante opera di mantenere vivo il campo santo. Strappare le erbacce con decisi movimenti del suo pol-so scarno, raddrizzare le croci di ferro della grande guerra con secchi colpi di una mazza di legno che s’era costruito appositamente per non rovinare il metallo che giaceva lì da quasi un secolo. Il cigolio del suo carretto risuonava tra le cappelle assolate nei languidi pomeriggi estivi, quando gli facevano eco le cicale rinta-nate nei cipressi per sfuggire alla calura d’agosto, il cappello di feltro pesante calato fino alle sopracciglia la camicia sempre abbottonata fino all’ultima asola, e le bretelle di canapa che disegnavano due linee oblique sulla sua schiena leggermente curva nell’atto di spingere il carretto. E sempre nella calura estiva su quel colle schiaffeggiato da un sole intenso, bianco. Il Grigio, armato di cacciavite, sistemava per l’ennesima volta la croce del redentore posta all’inizio del sentiero alberato, che non voleva saperne di rimanere dritta sui suoi supporti di legno d’ulivo… io intanto guardavo… guardavo… quelle mani sempre intente a stringere, tagliare, strappare, spalmare, battere, avvitare, legare, falciare…

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TELESELEZIONE

Ora, partendo dal presupposto che i presupposti non esisto-no, tu vieni a dire a me che ho bisogno di una donna? Che ho bisogno di una figa? Che ho bisogno di fottermi la figa? Allora mi sa che non hai capito… io non devo fottere, devo fare selezione: Teleselezione! Mi sforzo di conoscerla e annuisco ad ogni frase: bla bla bla, sono qui sono lì bla bla bla, mi piace l’arte, bla bla bla, la pace nel mondo, bla bla bla, faccio cose bla bla bla, e il volontariato bla bla bla, hai sentito che ha fatto Berlusconi? BLA! BLA! BLA! BLA! Ma tu che ne pensi, no cioè perché secondo me bla bla bla, serve una reazione bla bla bla, io di politica non ne capisco ma bla bla bla, sai che ti dico? Bla bla bla bla! Giusto ieri sai cosa mi è successo? Bla bla bla e poi bla bla bla bla! Ma ti rendi conto? Se sa-pessi, il mio ex ha fatto schifo, è un lurido bla bla bla figlio di bla bla bla mi ha lasciata per quella bla bla bla di Samantha la conosci? No perchè se sei suo amico bla bla bla guarda me ne ha combinate di tutti i colori però ora sono cambiata. No, perché io cioè veramente bla bla bla prima ero molesta mi sballavo ma ora bla bla bla capisci? Ma a te piacciono i Doors? Dio li adoro! Figurati che bla bla bla e poi quel poster bla bla bla. Una volta all’università ho dato l’esame di scienze del bla bla bla contemporaneo, e il professore sai cosa mi ha detto? BLA BLA BLA BLA mi voleva bocciare ma io bla bla bla. Si, ma domani ci rivediamo, no perché mi piace parlare con te. “Si, ma me la dai? … No! E allora vaffanculo, te ne devi andare affan-culo tu e bla bla bla bla bla!” Me ne torno a casa. Parto di teleselezio-

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ne e mi tiro una bella grossa e grassa sega davanti a questo meravi-glioso strumento a cristalli liquidi. Ho il digitale terrestre. La Parietti si vede bene stasera. Si, dice puttanate, ma io metto in modalità mute e faccio selezione: Tele-selezione. Poi una bella sega! E più tardi se voglio me ne tiro un’altra, perché a me piace tirarmi le pugnette va bene!?! Teleselezione e una bella sega e me ne scopo 300 quando e come voglio io. Tu, vaffanculo.

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TARCISIO E LO SHOPPING

Tarcisio è un uomo di quasi cinquant'anni, alto quasi un metro e sessanta, funzionario di una compagnia telefonica. Vive con la moglie Enrica e il figlio biondo Erasmo in un condominio dotato di tutti i comfort: posto macchina, parabola, cantina, cancello con teleco-mando, ascensore dotato di telefono, videocitofono, telecamere pun-tate sui parcheggi e collegate con la polizia, con l'ospedale, con i vigili del fuoco, con la finanza e con il Vaticano. Tarcisio non ha cattive abitudini. Non fuma, non beve e non gioca a carte. Quando torna dall' ufficio saluta pacatamente Enrica ed Erasmo e va diritto in bagno dove lo attende la sua vasca idromassag-gio, anch'essa come l'ascensore dotata di telefono. Indossa il suo accappatoio Armani e si dirige verso la camera da letto, apre il guar-daroba, indossa un vestito Versace o Gucci ed esce per fare shopping. Durante le ore trascorse in ufficio pensa continuamente a tutte quelle cose meravigliose che si possono acquistare nei centri commerciali della sua città metropolitana. Qualche sera esce con la moglie, mentre e il figlio resta a casa con la suocera ex impiegata SIP; altre volte esce solo; altre an-cora con Enrica ed Erasmo insieme e ogni volta per comprare altri oggetti utili per il buon vivere. La macchina per fare lo zucchero filato la comprò ad Erasmo per il suo primo compleanno, mentre quando il figlio raggiunse i due anni di vita era già in possesso di Ps1, Ps 2, Ps3, Ps4, X Box, Nintendo e Super Nintendo. Il ventisettesimo cellulare di Tarcisio Montesanto è a scorri-

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mento in quattro direzioni, fotocamera integrata di otto megapixel, connettore usb, memoria espandibile fino a 10 giga, chiamate a rico-noscimento vocale, chiamate in conferenza per venti partecipanti, supporto per windows live messanger, sky e mediaset premium, pro-grammato per accendersi alle 7:30 e per spegnersi alle 22 in punto. Una cosa che mancava in casa Montesanto era la tavoletta del cesso con sollevamento a pedale. Tarcisio non ci impiegò molto a capire che quello strumento utilissimo doveva presto entrare a casa sua. Il bagno era quasi attrez-zato di tutto, con spugne di tutte le forme, compresa quella che simu-lava il microfono, in modo che mentre si faceva il bagno e aveva vo-glia di cantare, anziché utilizzare la spugnetta a forma di papera impu-gnava quella a forma di microfono. Ma sollevare la tavoletta con le mani non era più sopportabi-le da Tarcisio Montesanto e quel giorno ne acquistò una, ovviamente Pozzi Ginori. Tarcisio è ormai sommerso da oggetti inutili, gli anni passano e avverte che sta invecchiando precocemente. Oggi stesso dopo un meraviglioso bagno nella sua vasca idromassaggio, acquiste-rà una meravigliosa cassa da morto in legno pregiato, maniglie d'oro disegnate da Gerardo Sacco e una straordinaria imbottitura interna Chateau d'Ax.

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IN MIA PICCOLA STANZA

Avere molto da dire, fare, sentire, chiamare. Io lontano e vicino come spire serpente che guarda. Non potere assistere tanto lontananza che subito dopo poco preso. Io su letto di mia stanza con mio piccolo radio che sposto in stanza in stanza se fare altro in mia piccola casa di due stanza. Capo di me. Non capo per me. Ho piccolo pensiero io da quando Italia ospitato me quattro mesi ieri. Piccola molto voce bassa. Lavorato per direttore orchestra che capo me di deserto. Lui ricorda molto padre me Oumar. Musica sempre per me come grande voce di deserto e gran-de madre di Tuareg. Aiutare a musici che sera suona per pubblico italiano. Montare tutti strumenti di suono di mia vera casa deserto. Quando io tornare stanco sera casa, fare sempre sonno in mio piccola stanza. Non avere sentire mia mano che ha sonno è meglio per me. Io dorme sempre finestre di stanza che aprono su mio rione no Tuareg. Di vicino dico sempre niente a nessuno perché come se io avere dire sentire ma non capire sempre. Io non capire italiano per come vuole italiano che mi dice ma io avere molto da dire. Mi sveglio la molte volte e sempre con profumo di limone di mia finestra che mia vicina ha. Lei molto bello per me. Ha belli fiori limone che entra mia stanza la mattina che io sveglio. Io amare sentire limone. Mia casa con limoni dire me che io dire stare bene. Tutti mattina. Quando pioggia io sentire forse meglio. Aria pulita da mia stanza di limone che io sempre fare quando dire che bello. Tutti giorni.

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Mia splendevole giorno che comincia con dolci limoni in mio piccolo stanza. Solo quello e mio giorno felice per me in lontano casa. Andrea lei chiama con mattino di sapore di albero giallo di limoni gialli. Cam-biato casa piccola stanza con casa grande stanza. Ora non limone di mia casa. Io non bene. Non poco tanto felice di mia giornata che ha profumo di macchine di ruote sotto mia grande stanza. Poi io non suonare più e triste. Quando io non suono più Oumar preoccupato per io. Ma io dire fare sentire ogni piccolo limone che cresce dentro mia grande stanza ed io non basta più tutto quanto compro e stanzo in mia stanza che ora è fatta gialla con pittura di limone. Io felice di limone in mia felice vita di pulire fare sentire me-glio. Io albero di deserto in deserto di Italia di fumo. Io ora albero di limone con fiori di me.

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Illustrazioni : Carmine Abbagnale