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11 INTRODUZIONE La terza guerra mondiale sarà combattuta per la salvezza dell’ambiente U Thant, segretario generale delle Nazioni Unite, 1969 Potete dire pure che sono un transfuga di Greenpeace. Ma non è l’e- spressione più precisa per descrivere come e perché mi sono allontana- to dall’organizzazione, quindici anni dopo aver contribuito a fondarla. Mi piacerebbe credere che sia stata Greenpeace ad allontanarsi da me, anziché l’inverso. Ma anche questo non è del tutto vero. Semplicemente, Greenpeace e io abbiamo preso strade divergenti. Nel- la mia evoluzione, io sono divenuto un ambientalista ragionevole. Greenpeace, invece, man mano che ha adottato programmi ostili alla scienza, all’economia e in ultima analisi all’umanità, è divenuta sempre più irragionevole. Questa è la storia della nostra trasformazione. L’ultima metà del Ventesimo secolo si è caratterizzata per una diffu- sa repulsione alla guerra e per una nuova coscienza ambientale. La ge- nerazione beat, gli hippy, gli ecologisti radicali e i verdi hanno dato for- ma, a loro volta, a una nuova filosofia che vedeva nella pace e nell’eco- logia i principi cardine di un mondo civilizzato. Spronati per oltre trent’anni dall’onnipresente paura di un olocausto nucleare globale in grado di annientare l’umanità e gran parte del mondo vivente, abbiamo intrapreso una nuova guerra: una guerra per la salvezza della Terra. Io ho avuto la fortuna di essere un generale di questa guerra. Nel mio centro di addestramento non vi erano né sergenti urlanti né esercitazioni con le carabine. Ma avevamo un senso così acuto del dove- re, e degli scopi della missione che ci eravamo dati all’inizio, che era co- me se andassimo all’assalto di un comune nemico. Ci siamo battuti con- tro i fabbricanti di bombe, contro i cacciatori di balene, contro chi in- quina e contro chiunque altro minacciasse la civiltà o l’ambiente. Con le nostre azioni, ci siamo conquistati il cuore e la mente della gente di tut- to il mondo. Eravamo Greenpeace. Sono entrato in Greenpeace prima ancora che l’organizzazione L'ambientalista.qxp 9-05-2011 10:28 Pagina 11

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Introduzione a “L’ambientalista ragionevole. Confessioni di un fuoriuscito da Greenpeace”, di Patrick Moore.

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INTRODUZIONE

La terza guerra mondiale sarà combattuta per la salvezza dell’ambiente

U Thant, segretario generale delle Nazioni Unite, 1969

Potete dire pure che sono un transfuga di Greenpeace. Ma non è l’e-spressione più precisa per descrivere come e perché mi sono allontana-to dall’organizzazione, quindici anni dopo aver contribuito a fondarla.Mi piacerebbe credere che sia stata Greenpeace ad allontanarsi da me,anziché l’inverso. Ma anche questo non è del tutto vero.Semplicemente, Greenpeace e io abbiamo preso strade divergenti. Nel-la mia evoluzione, io sono divenuto un ambientalista ragionevole.Greenpeace, invece, man mano che ha adottato programmi ostili allascienza, all’economia e in ultima analisi all’umanità, è divenuta semprepiù irragionevole.

Questa è la storia della nostra trasformazione.L’ultima metà del Ventesimo secolo si è caratterizzata per una diffu-

sa repulsione alla guerra e per una nuova coscienza ambientale. La ge-nerazione beat, gli hippy, gli ecologisti radicali e i verdi hanno dato for-ma, a loro volta, a una nuova filosofia che vedeva nella pace e nell’eco-logia i principi cardine di un mondo civilizzato. Spronati per oltretrent’anni dall’onnipresente paura di un olocausto nucleare globale ingrado di annientare l’umanità e gran parte del mondo vivente, abbiamointrapreso una nuova guerra: una guerra per la salvezza della Terra. Ioho avuto la fortuna di essere un generale di questa guerra.

Nel mio centro di addestramento non vi erano né sergenti urlanti néesercitazioni con le carabine. Ma avevamo un senso così acuto del dove-re, e degli scopi della missione che ci eravamo dati all’inizio, che era co-me se andassimo all’assalto di un comune nemico. Ci siamo battuti con-tro i fabbricanti di bombe, contro i cacciatori di balene, contro chi in-quina e contro chiunque altro minacciasse la civiltà o l’ambiente. Con lenostre azioni, ci siamo conquistati il cuore e la mente della gente di tut-to il mondo. Eravamo Greenpeace.

Sono entrato in Greenpeace prima ancora che l’organizzazione

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prendesse il suo nome attuale. Il «Don’t Make a Wave Committee» siriuniva settimanalmente nel seminterrato della chiesa unitaria di Van-couver. Nell’aprile 1971, lessi sul «Vancouver Sun» un articoletto cheparlava di un gruppo in procinto di salpare da Vancouver e attraversareil nord del Pacifico per protestare contro gli esperimenti della bomba al-l’idrogeno condotti dagli americani in Alaska. Immediatamente, capii chepotevo far qualcosa di concreto, che andava ben oltre quanto mi potes-sero dare i corsi di ecologia e gli studi dietro a una scrivania. Scrissi dun-que agli organizzatori e fui invitato a partecipare agli incontri settimanalidel gruppetto che di lì a poco avrebbe dato origine a Greenpeace.

I primi tempi di Greenpeace furono davvero eccitanti. Era il 1971, el’era hippy era al suo apice. Allora, mi ingegnavo a concludere il mio dot-torato in ecologia all’università della Columbia Britannica, confrontan-domi con l’ostilità di alcuni docenti che difendevano gli interessi delleindustrie e facevano pressioni sulla commissione di laurea. Mi radicaliz-zai nelle mie posizioni e mi unii agli attivisti impegnati contro gli arma-menti nucleari.

Avevamo compreso che una guerra nucleare a oltranza avrebbe si-gnificato la fine della civiltà e dell’ambiente. Di qui, il nome che ben pre-sto adottammo, Greenpeace: ovvero, diamoci da fare per una «pace ver-de». Per raggiungere il nostro obiettivo e richiamare l’attenzione pub-blica sugli esperimenti nucleari, noleggiammo un vecchio peschereccio.Eravamo convinti che la rivoluzione dovesse essere festosa. E così into-navamo canti di protesta, bevevamo birra, fumavamo erba e, in genera-le, ce la spassavamo, anche quando venivamo sballottati qua e là dalle ac-que notoriamente perigliose del Nord Pacifico.

Sopravvivemmo a quel primo viaggio. Ma non riuscimmo a raggiun-gere il sito degli esperimenti. I guardacoste americani ci intercettaronoad Akutan Harbor, costringendoci a fare dietro front. La missione fu tut-tavia un successo, perché i media di tutto il Nord America diedero noti-zia dell’evento. Il giorno degli esperimenti della bomba H, migliaia dipersone provenienti dal Canada e dagli Stati Uniti si misero in marcialungo i confini del continente, bloccando gli incroci. Subito dopo, il pre-sidente Nixon annullò i restanti test della serie. Quasi non riuscivamo acredere a quel che aveva compiuto in pochi mesi la nostra raccogliticciabrigata di pacifisti. Ci rendemmo conto che poche persone erano in gra-do di cambiare il mondo, se solo si alzavano in piedi e si davano da fare.

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Fu il principio di una corsa sfrenata, molto sfrenata.All’inizio del ’72, eccitati all’idea di aver sconfitto una superpoten-

za mondiale, ripetemmo l’impresa, questa volta contro la Francia, cheall’epoca conduceva una serie di test atmosferici della bomba atomica eall’idrogeno a Mururoa, un piccolo atollo del sud del Pacifico. Il gover-no francese aveva rifiutato di aderire al trattato del 1963 – sottoscrittoda Unione sovietica, Gran Bretagna e Stati Uniti – che vietava i test inatmosfera.

Trovammo un canadese che viveva in Nuova Zelanda, David Mc-Taggart, il quale si disse disposto a salpare con la sua barchetta per il suddel Pacifico. E così lanciammo la successiva operazione di protesta. Ilprimo anno, la marina militare francese ci aprì un buco nella barca e cirimorchiò sino a terra. Il secondo anno, riempì di botte il nostro capita-no, e l’episodio fu fotografato di nascosto da una nostra attivista che par-tecipava all’operazione. I quotidiani francesi ne diedero notizia in primapagina. E, prima della fine dell’anno, il governo annunciò la sospensio-ne dei test nucleari in atmosfera.

Nel giro di tre anni, il nostro gruppetto aveva obbligato due super-potenze a modificare in modo sostanziale il proprio programma di spe-rimentazione delle armi nucleari. Ancora una volta, dimostrammo cheun manipolo di persone impegnate era in grado di mettersi alla testa dicambiamenti concreti a livello globale. Ormai niente poteva più fermar-ci. Nel 1975, ci prefissammo di salvare le balene dall’estinzione per ma-no delle enormi flotte di baleniere. Quella fu la campagna che fece dav-vero da volano a Greenpeace, trasformandola in un’icona mondiale. Al-l’inizio degli anni Ottanta, contrastammo l’annuale carneficina di fochebaby, osteggiammo l’industria della pesca a strascico, protestammo con-tro lo scarico dei rifiuti tossici, bloccammo le superpetroliere e ci para-cadutammo sui siti prescelti per la costruzione di reattori nucleari. Lenostre iniziative contribuirono in maniera considerevole a cambiare l’o-pinione pubblica e stimolare le intelligenze. Grazie alla forza dei mediae della gente, influenzammo costantemente le decisioni dei governi e co-stringemmo l’industria a una maggiore attenzione ecologica. Ci eravamoaggiudicati l’appoggio della maggioranza delle popolazioni delle demo-crazie industrializzate.

Nel 1982, Greenpeace era cresciuta a tal punto da trasformarsi in unmovimento internazionale a pieno regime, con uffici e personale in tut-

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to il mondo. Potevamo contare su cento milioni di dollari in donazioniall’anno, e organizzavamo contemporaneamente una mezza dozzina dicampagne di protesta.

Ma nei primi anni Ottanta si verificarono due fatti che modificaro-no il mio giudizio sull’orientamento che stavano prendendo l’ambienta-lismo in generale e Greenpeace in particolare. Il primo fatto fu la miascoperta del concetto di sviluppo sostenibile a un meeting mondiale diambientalisti. Il secondo, l’adozione da parte dei compagni di Green-peace di politiche che mi sembravano estremistiche e irrazionali. Questidue avvenimenti sono alla base della trasformazione che mi ha portato,da attivista radicale, a divenire un ambientalista ragionevole.

Nel 1982, le Nazioni Unite organizzarono un convegno a Nairobi, acui partecipai anch’io, per celebrare il decimo anniversario della primaConferenza sull’ambiente dell’Onu a Stoccolma. Ero uno degli ottanta-cinque ecologisti provenienti da tutto il mondo, invitati a formulare unaproposta di obiettivi collettivi per la protezione ambientale. Fu subitochiaro che vi erano due prospettive pressoché opposte fra di noi: quellaostile allo sviluppo, propria degli ambientalisti dei paesi ricchi e indu-strializzati, e quella favorevole allo sviluppo, condivisa dagli ambientali-sti dei paesi poveri in via di sviluppo.

Un attivista del Terzo Mondo ebbe a dire che, se qualcuno in unpaese disgraziatamente povero come il suo avesse preso posizione con-tro lo sviluppo, sarebbe stato ricoperto di risa di scherno. Era difficilecontrobattere a una tale affermazione. Chi è ben nutrito ha molti pro-blemi, chi ha fame ne ha solo uno. Lo stesso vale per lo sviluppo o perl’assenza di sviluppo. La tragedia della povertà era del resto lì sotto i no-stri occhi, nelle periferie della capitale keniota che ci ospitava. Quantidi noi venivano dai paesi industrializzati riconobbero che bisognava perforza essere favorevoli a qualche forma di sviluppo, preferibilmente unosviluppo che non danneggiasse l’ambiente. Nacque così il concetto disviluppo sostenibile.

Fu in quel momento che, per la prima volta, mi resi pienamenteconto che c’era un altro passo da compiere, oltre il puro attivismo am-bientale. La vera sfida consisteva nell’inserire nel tessuto economico-so-ciale della nostra cultura i valori ambientali che avevamo contribuito acreare. E bisognava farlo senza mettere a repentaglio l’economia e, in-sieme, in modi socialmente accettabili. Era chiaro che si trattava di in-

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dividuare il giusto equilibrio, non di aderire in maniera dogmatica a unprincipio unico.

Capii subito che lo sviluppo sostenibile era un obiettivo molto piùdifficile da mettere in pratica di quanto non fossero le campagne di pro-testa che avevamo lanciato nei dieci anni precedenti. Occorrevano con-senso e cooperazione, non scontri e demonizzazione. Greenpeace si tro-vava a suo agio nello scontro – diamine, ne avevamo fatto una formad’arte – ma incontrammo tante difficoltà nel cooperare e nello scenderea compromessi. Eravamo bravissimi a dire alla gente cosa doveva smet-tere di fare, ma non sapevamo aiutarla a capire cosa invece avrebbe do-vuto fare.

Mi sembrò inoltre che per me fosse venuto il momento di un cam-biamento. Ero convinto che il nostro primo compito – ridestare la co-scienza collettiva attorno all’importanza dell’ambiente – lo avessimo ingran parte assolto. All’inizio degli anni Ottanta, la maggioranza del pub-blico – almeno nelle democrazie occidentali – era ormai d’accordo connoi che in ogni attività umana occorra tener conto dell’ambiente. Quan-do la maggior parte della gente è d’accordo con te, probabilmente è oradi cessare le ostilità e sedersi a un tavolo per cercare insieme le soluzio-ni ai nostri problemi ambientali.

Nello stesso momento in cui io sceglievo di essere meno militante epiù diplomatico, i miei amici di Greenpeace divennero più estremisti eintolleranti verso le manifestazioni interne di dissenso.

I primi tempi discutevamo spesso e apertamente di questioni com-plesse. Eravamo un gruppo meraviglioso, e ci dilungavamo in discussio-ni di politica ambientale a largo raggio. L’energia intellettuale dell’orga-nizzazione era contagiosa. Anche se dissentivamo non di rado su pro-blemi specifici, avevamo una visione delle cose sostanzialmente comune.E, ciò che più conta, ci sforzavamo di essere scientificamente precisi. Daanni, quello era l’argomento di molte nostre discussioni interne. Io erol’unico attivista di Greenpeace ad avere una laurea in ecologia e, poichénon permettevo esagerazioni irragionevoli, ben presto mi affibbiarono ilsoprannome di «dottor Verità». E non era proprio un complimento. Ma,malgrado i miei sforzi, a metà degli anni Ottanta il movimento volse lespalle alla scienza e alla logica, e ciò proprio mentre la società si appro-priava dei temi più ragionevoli del nostro programma ambientale.

Per ironia della sorte, questa ritirata dalla scienza e dalla logica fu in

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parte una reazione al crescente acclimatamento dei valori ambientali nel-la società. Semplicemente, alcuni attivisti non furono capaci di passaredallo scontro al consenso. Sembrava che avessero bisogno di un comu-ne nemico. E, quando la maggioranza delle persone si dichiara concor-de con le tue idee ragionevoli, hai un solo modo per continuare a esserecontro e attaccare l’establishment: spostarti su posizioni sempre piùestremiste, finché non abbandoni del tutto la scienza e la logica a van-taggio delle politiche a tolleranza zero.

Alla fine degli anni Ottanta, il collasso del comunismo mondiale ela caduta del muro di Berlino irrobustirono la deriva estremistica. Fi-nita la guerra fredda, il movimento pacifista era in gran parte allo sban-do. Si trattava del resto di un movimento che aveva attecchito soprat-tutto in Occidente ed era stato in linea di massima antiamericano. Mol-ti di coloro che vi avevano fatto parte aderirono allora al movimentoambientalista, portandosi dietro le proprie priorità, ispirate ai presup-posti del neomarxismo e dell’estrema sinistra. In gran parte, pertanto,il movimento ambientalista venne dirottato dai suoi obiettivi originaridagli attivisti politico-sociali che si servivano del linguaggio verde percamuffare programmi che avevano più a che fare con anticapitalismo el’antiglobalizzazione che non con la scienza o l’ecologia. Ricordo che,quando nel 1985 mi recai nel nostro ufficio di Toronto, rimasi sorpre-so vedendo quanti neofiti sfoggiassero uniformi militari e berretti ros-si a sostegno dei sandinisti.

Non incolpo nessuno di aver preso la palla al balzo. Il nostro movi-mento era divenuto potente, e costoro avevano intravisto la possibilità dipiegarlo al servizio dei propri programmi di cambiamento rivoluziona-rio e di lotta di classe. Ma non potevo seguirli su quella strada: eranoestremisti che confondevano sia i temi che il pubblico, trasmettendoun’immagine sbagliata della natura dell’ambiente e del posto che gli uo-mini occupano in esso. Ancora oggi, industria per loro è una parolaccia,come multinazionale, chimica, genetica, società per azioni, globalizzazio-ne, e tanti altri vocaboli assolutamente utili. La loro campagna propa-gandistica mira a promuovere un’ideologia, a mio avviso, molto nocivaper la civiltà e per l’ambiente.

All’inizio degli anni Ottanta, Greenpeace era cresciuta così tanto chenessuno avrebbe potuto fermarla. Nelle riunioni di consiglio, fui prota-gonista di vivaci discussioni su molti punti. Ma chi detiene la maggio-

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ranza ribatte che quella è la democrazia. Poco alla volta, capii da tantequestioni che non ero in linea con l’opinione politicamente corretta al-lora dominante.

Una delle prime manifestazioni di estremismo di Greenpeace fu lacampagna per vietare il cloro in tutto il mondo. L’iniziativa fu avviata inmodo abbastanza innocente, mettendo in discussione l’acido 2,4,5-triclo-rofenossiacetico e la diossina: sostanze entrambe abbastanza esecrabili,che è opportuno limitare agli usi strettamente necessari. Entrambe con-tengono cloro, e non ci volle molto perché questo importantissimo ele-mento della tavola periodica venisse ribattezzato «elemento del demo-nio» dalla maggior parte dei membri del nostro consiglio direttivo. No-nostante avessi fatto notare che bandire un elemento non era probabil-mente un obiettivo alla nostra portata, gli irriducibili ebbero la meglio.

Poco importava che quasi l’85% dei farmaci siano prodotti utiliz-zando la chimica dei composti del cloro o che l’aggiunta di cloro all’ac-qua potabile sia il più grande progresso della storia della salute pubbli-ca. Nel 1991, quattro anni dopo la mia uscita, Greenpeace adottò una ri-soluzione che sollecitava a por fine «all’uso, all’esportazione e all’impor-tazione di tutti gli organocloruri, il cloro elementare e gli agenti ossidanticlorati», con la motivazione che «non vi sono usi del cloro che noi con-sideriamo sicuri».1 A questa stregua, tanto vale lanciare un appello pervietare la vita, dal momento che neppure essa è sicura. Sapevo di averpreso la decisione giusta andandomene, ma mi rattristava profondamen-te che la mia Greenpeace fosse arrivata sino a quel punto. L’«elementodel demonio», infatti, è fra tutte le sostanze la più importante per la sa-lute pubblica e per la medicina. Ai miei colleghi questo non importava.E per me questa era una prova sufficiente per convincermi che il lorofondamentalismo fosse sostanzialmente antiumano.

Il crescente interesse per lo sviluppo sostenibile mi aveva portato ainteressarmi di acquicoltura: una pratica per «allevare» gli oceani ridu-cendo la pesca di pesce selvatico. Molte risorse ittiche erano state grave-mente depauperate, e a me sembrava chiaro che il modo migliore per ab-bassare la pressione sulle riserve selvatiche fosse quello di allevare il pe-sce. Una transizione analoga è già avvenuta, in Europa, sulla terrafermadiecimila anni fa con l’agricoltura e, poi, duecentocinquanta anni fa conla selvicoltura (la coltivazione delle piante). Ero convinto che, se volevacontribuire in modo positivo alla protezione dell’ambiente marino,

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Greenpeace dovesse adottare una politica di supporto all’acquicolturasostenibile. Non solo la mia proposta non venne accolta, ma molti socisi dissero apertamente ostili a quell’idea. Mi domandai: se sono contrarialla coltivazione ittica, a cosa sono favorevoli?

La divergenza di opinioni su come andare avanti divenne così pale-se. Io ero per un approccio equilibrato ai problemi, che riconoscesse lanecessità di tener conto, nelle valutazioni, dei bisogni di quasi sette mi-liardi di persone. Credevo che potessimo continuare a rifornirci del ci-bo, dell’energia e dei materiali necessari alla civiltà, imparando al con-tempo a ridurre il nostro impatto negativo sull’ambiente.

Gli ambientalisti hanno a volte la scellerata tendenza a dipingere laspecie umana come una disgrazia per la Terra. Siamo stati paragonati aun cancro maligno che, espandendosi, minaccia di distruggere la biodi-versità, di sconvolgere l’equilibrio naturale, di portare al collasso l’inte-ro ecosistema. Il grande mito del movimento ambientalista è che gli es-seri umani non fanno realmente parte della natura: in qualche modo sa-remmo «innaturali», estranei al «puro» mondo della natura. Per qualcheragione, questo concetto – questa sorta di peccato originale – fa presa suquanti si sentono in colpa per il solo fatto di esistere. Sono convinti nonmeritiamo ciò che abbiamo.

In realtà, uno degli insegnamenti fondamentali dell’ecologia è pro-prio che gli esseri umani fanno parte della natura e sono inestricabilmen-te legati a essa, come tutte le altre forme di vita. In questo senso, non sia-mo diversi dai gabbiani, dalle stelle di mare o dai vermi. Ma, in qualchemodo, gli ecologisti «pensosi» sono riusciti a ribaltare le cose, sino a ren-derci inferiori persino a vermi, quasi che tutte le altre forme di vita ci fos-sero superiori. A me questa filosofia dell’automortificazione non piace.

Da quando ho lasciato Greenpeace, i suoi membri hanno adottato,insieme alla maggior parte del movimento verde, politiche che riflettonouna tendenza antiumana, sorrette dal rifiuto della scienza e della tecno-logia, e che in realtà finiscono con l’accrescere il rischio di danni alle per-sone e all’ambiente. Si oppongono alla silvicoltura, anche se ci forniscela più abbondante risorsa naturale rinnovabile. Sono contrari agli ali-menti geneticamente modificati, anche se questa tecnologia riduce l’im-piego di pesticidi e migliora la nutrizione delle popolazioni che soffronola fame. Contestano l’energia nucleare, anche se è la tecnologia miglioreper rimpiazzare i carburanti fossili e ridurre le emissioni di gas serra. Ma-

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nifestano contro la costruzione di centrali idroelettriche, anche se l’e-nergia idroelettrica è di gran lunga la più abbondante fonte rinnovabiledi elettricità. E sostengono una viziosa e sconsiderata campagna control’allevamento di salmoni, un’industria che produce ogni anno oltre unmilione di tonnellate di cibo che fa bene al cuore.

Questa divergenza di opinioni e di orientamento politico è frutto diuna differenza di prospettiva. Per gli ambientalisti estremisti, gli esseriumani sono il problema, un ostacolo alla salvezza, un influsso maleficosul paesaggio. Per gli ambientalisti ragionevoli, gli esseri umani sono par-te della natura, individui capaci di analisi intelligente, di prendere deci-sioni e di imparare a integrarsi nella rete della vita. Un esempio perfettodi questa dicotomia lo offre la questione delle foreste e della silvicoltura.

Gli attivisti contrari alla silvicoltura, come quelli di Rainforest Ac-tion Network, sostengono che dovremmo ridurre al minimo gli alberi datagliare e limitare il consumo di legno. A loro avviso, così «salveremo» leforeste. Certo, senza gli esseri umani le foreste starebbero benissimo. Magli esseri umani ci sono, esistono: siamo quasi sette miliardi sulla Terra.Abbiamo necessità di materiali per costruire case, uffici, fabbriche e mo-bili, e abbiamo bisogno di campi da coltivare per produrre cibo e fibre.Non possiamo smettere di nutrirci o di consumare risorse: è una que-stione di sopravvivenza. Se riduciamo il consumo di legno, aumentereb-be automaticamente il consumo di acciaio, di cemento e di altre risorsenon rinnovabili. E ciò comporterebbe un incremento enorme del con-sumo di energia – in gran parte derivata da combustibili fossili – neces-saria per produrre l’acciaio e il cemento, per tacere dell’inquinamentodell’aria e delle emissioni di gas serra. A conti fatti, il minor utilizzo dilegno finirebbe con l’accrescere i danni all’ambiente.

Una volta che si accetta l’idea che siamo quasi sette miliardi di per-sone sulla Terra, cambia l’equazione. Oggi, vogliamo massimizzare losfruttamento di fonti rinnovabili e conservare quanto più possibile i bo-schi. Uno dei modi migliori per riuscirci, consiste nell’incoraggiare unconsumo sostenibile di legno. In effetti, quanto più legno utilizziamotanti più alberi dobbiamo piantare per rispondere alla domanda e tantomaggiore sarà l’incentivo economico a rimboschire le terre. Questa è laprincipale ragione per cui oggi il Nord America possiede, grosso modo,la stessa area di foreste che aveva cento anni fa. Poiché consumiamo tan-to legno, i proprietari di terre piantano alberi e mantengono boscosi i lo-

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ro appezzamenti, per rispondere alla domanda. Non occorre essere deigeni per capire questo fondamentale rapporto economico. Eppure essoè sfuggito all’attenzione di molti attivisti, ideologicamente convinti cheper salvare la foresta si debba diminuire il consumo di legno.

Certo, vi sono esempi di sfruttamento insostenibile delle foreste: os-sia di spreco. Ma i casi noti non hanno nulla da spartire con l’industriadella foresta, sono piuttosto effetto della povertà. Nei paesi poveri e sot-tosviluppati – dove il legno è il combustibile principale per cucinare e ri-scaldarsi – le foreste soffrono pesantemente. È vero, per esempio, permolte delle regioni più secche dei tropici, dove interi paesaggi sono sta-ti denudati per ricavarne legna e carbone. Si aggiunga a ciò la pressioneesercitata sui paesaggi dagli animali da pascolo – capre, pecore, vac-che… – e si avrà una situazione insostenibile. In molti paesi tropicali invia di sviluppo dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, le foreste si re-stringono perché centinaia di milioni di persone disboscano pezzi di ter-ra per coltivarli, allevare il bestiame e ricavarne cibo a sufficienza per lafamiglia. Non hanno i fondi necessari per ripristinare gli alberi che ta-gliano per ricavarne combustibile o legname, e l’inevitabile risultato è undisboscamento permanente.

Ma, a parte le nazioni afflitte da una povertà estrema, se cessassimodi consumare legno, i proprietari terrieri – privati o pubblici che siano –non avrebbero incentivi a rimboschire la terra. Per loro, sarebbe piùconveniente sbarazzarsi degli alberi e piantare mais, cotone o semi disoia, i cui raccolti vanno comunque benissimo per ricavarne un redditoe pagare le tasse. Per il Nord America, è una fortuna che la domanda dilegno sia alta, perché questo significa un rimboschimento continuo deipaesaggi.

Purtroppo il pubblico è stato indotto a credere che le cause del di-sboscamento siano da attribuire al legno utilizzato per costruire le case,imballare la merce e produrre la carta per la stampa, la confezione deiprodotti e l’igiene. Le industrie fornitrici di legno sono tutte impegnate,quasi senza eccezioni, in attività di rimboschimento: l’opposto del di-sboscamento. In realtà, per oltre il 90% le terre vengono disboscate perconvertirle all’agricoltura. Gli scompensi sono in gran parte il risultatodi una raccolta insostenibile di legno combustibile e dell’abbattimentoillegale di alberi che fa seguito dalla conversione all’agricoltura.

È chiaro che non possiamo risolvere il problema mettendo al bando

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la coltivazione dei campi o il consumo di legna per cucinare e riscaldarsi.Più oltre analizzeremo la questione in profondità, soffermandoci in par-ticolare sul ruolo dell’agricoltura intensiva e dell’amministrazione dellaforesta nella conservazione delle foreste naturali e della biodiversità.

Negli scorsi quindici anni, la Cina – che ha un ceto medio in cresci-ta – ha dato vita a un’area boschiva superiore a quella di qualsiasi altropaese. L’India – un altro paese che si sta arricchendo – ha raddoppiatol’area boschiva rispetto a quella di solo vent’anni fa. Come mai? Perchéil ceto medio emergente ha bisogno di legno e carta, può permettersenel’acquisto e gli imprenditori hanno piantato alberi per rispondere alla ri-chiesta, incrementando così la quantità di bosco. Senza dubbio i pro-grammi governativi di rimboschimento e conservazione delle forestehanno giocato un forte ruolo nell’incremento dell’area verde in Cina e inIndia. Ma è chiaro che tali programmi nascono dal fatto che vi è una ric-chezza sufficiente per sostenerli. Si tratta di uno scenario che torna van-taggioso sia per la popolazione che per l’ambiente, e ciò anche se gli at-tivisti si rifiutano di riconoscere il collegamento fra consumo di foresta erimboschimento. Questo è solo un esempio del fatto che il movimentoambientalista ha smarrito la propria strada, e di quanto le sue politiche,a prima vista ragionevoli, siano alla lunga nocive. Invece, il concetto disostenibilità comporta politiche a lungo termine.

Lo scopo principale di questo libro è indicare un nuovo approccioall’ambientalismo, che faccia della sostenibilità lo strumento chiave perconseguire obiettivi ambientali. Questa impostazione impone di consi-derare gli esseri umani come elementi positivi dell’evoluzione, anzichécome un errore. Un celebre autore canadese, Farley Mowat, ha scrittoche gli uomini sono una «specie fatalmente guasta». Questo tipo di pes-simismo appare oggi politicamente corretto, ma è fortemente mortifi-cante. Al di là del suicidio di massa, non lascia intravedere soluzioni ap-propriate. Credo invece che dovremmo essere felici del fatto di esisteree impegnarci a far sì che il mondo sia un posto migliore, per noi e pertutte le altre specie con cui lo dividiamo.

Molti ambientalisti, rimasti fermi agli anni Settanta, continuano acoltivare un romantico sogno di sinistra: un’idilliaca vita rurale alimen-tata dalle pale eoliche e dai pannelli solari. Costoro idealizzano la po-vertà, riconoscendo in essa una nobile condotta di vita, e si oppongonoa ogni sviluppo consistente. James Cameron, il multimilionario regista e

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produttore di Avatar (il film che ha fatto registrare maggiori incassi nel-la storia), si è dipinto il volto per partecipare alle manifestazioni di pro-testa contro la costruzione di una diga idroelettrica in Amazzonia. Machi ha bisogno di luci e di aggeggi elettrici ipermoderni? Così, che im-porta se l’energia idroelettrica è di gran lunga la più importante fonterinnovabile di elettricità? Tutti questi sognatori farebbero meglio a guar-dare all’esempio di Stewart Brand, il fondatore del Whole Earth Cataloge leader negli anni Sessanta e Settanta del movimento «back to theland». Oggi, nella sua saggezza, Brand difende l’energia nucleare, l’inge-gneria genetica e l’urbanizzazione. Celebra il genere umano per la suacreatività e la sua natura operosa. Non è fermo agli anni Settata, e nep-pure io lo sono.

Spero che, prima di arrivare all’ultima pagina di questo libro, avreteuna nuova prospettiva sugli importanti argomenti dell’ambientalismoodierno.

Come si vedrà, credo che:

• dovremmo piantare più alberi e utilizzare più legno, e non tagliaremeno alberi e usare meno legno, come affermano Greenpeace e isuoi alleati: il legno è il più importante materiale rinnovabile e unafonte di energia;

• i paesi che dispongono di riserve potenziali di energia idroelettricadovrebbero costruire le dighe necessarie a produrre quel tipo dienergia: non c’è niente di male a creare più laghi al mondo;

• l’energia nucleare è essenziale per il fabbisogno energetico del futu-ro, soprattutto se intendiamo diminuire la nostra dipendenza daicombustibili fossili: il nucleare ha dimostrato di essere una fonte deltutto sicura, affidabile ed economicamente vantaggiosa.

• le pompe di calore geotermiche – purtroppo ancora ignote alla mag-gior parte delle persone – sono di gran lunga più importanti e van-taggiose, come fonte di energia rinnovabile, sia dei pannelli solariche dei parchi eolici: dovrebbero essere utilizzate in tutti i nuovi edi-fici a meno che non vi siano buoni motivi per impiegare un’altra tec-nologia per riscaldare, rinfrescare e far bollire l’acqua;

• il modo più efficace per ridurre la nostra dipendenza dai combusti-bili fossili consiste nell’incoraggiare lo sviluppo di tecnologie che peril loro funzionamento non hanno bisogno di combustibile fossile o

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ne hanno bisogno in percentuali minime: le auto elettriche, le pom-pe di calore, l’energia nucleare, l’energia idroelettrica e i biocarbu-ranti sono una valida risposta, e per giunta non sono sistemi ingom-branti che soffocano l’attività economica;

• le scienze genetiche, compresa l’ingegneria genetica, migliorerannola nutrizione, porranno fine alla denutrizione, miglioreranno il ren-dimento delle colture, ridurranno l’impatto ambientale dell’agricol-tura e renderanno più sani la popolazione e l’ambiente;

• molte campagne ecologiste mirate a mettere al bando sostanze chi-miche utili si basano sulla disinformazione e su paure infondate;

• l’acquicoltura – tra cui l’allevamento dei salmoni e dei gamberi – saràin futuro una delle più importanti fonti di cibo sano. Inoltre, ridurràlo sfruttamento delle depauperate riserve di pesce selvatico e darà la-voro a milioni di persone;

• non c’è motivo di essere allarmati dal cambiamento climatico. Il cli-ma cambia sempre. Alcune delle «soluzioni» proposte sarebbero digran lunga peggiori delle possibili conseguenze del riscaldamentoglobale, che peraltro con tutta probabilità saranno largamente posi-tive. Quello da temere è il raffreddamento;

• la povertà costituisce il peggiore problema ambientale. La ricchezzae l’urbanizzazione stabilizzeranno la popolazione umana. L’agricol-tura dovrebbe essere automatizzata in tutti i paesi in via di sviluppo.Le malattie e la denutrizione possono essere in gran parte eliminateapplicando la moderna tecnologia. A tutti dovrebbero essere garan-tite assistenza sanitaria, igiene, alfabetizzazione ed elettrificazione;

• non si dovrebbero né uccidere né catturare balene o delfini, mai e innessun luogo. Ecco una delle mie poche convinzioni religiose. Questespecie animali sono le uniche sulla Terra ad avere un cervello più gros-so del nostro, ed è impossibile ucciderle o catturarle in modo mite;

• questo libro non vuol essere una trattazione esaustiva dei problemiaffrontati, né si tratta di un lavoro specialistico. L’ho scritto per ilpubblico comune, interessato a conoscere l’ampia gamma degli at-tuali problemi ambientali. Ho fornito riferimenti bibliografici sololaddove penso che possano essere utili a una controprova o a una let-tura più approfondita. Per quanto riguarda i testi tratti da siti web,sono tutti accessibili direttamente da Internet andando suwww.beattystreetpublishing.com

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Questa è semplicemente la mia storia, ed è anche la mia interpreta-zione degli elementi chiave, dal punto di vista scientifico e filosofico, ri-guardo alle questioni dell’ambiente e della sostenibilità. In particolare,mi sono sforzato di mettere in risalto le connessioni fra le principali areed’interesse: la biodiversità, il cambiamento climatico, le foreste, l’ener-gia, i fiumi, i laghi, gli oceani, l’agricoltura, le sostanze chimiche e la po-polazione. Questa impostazione lascia affiorare un quadro radicalmentediverso da quello comune oggi alla maggior parte dei gruppi di attivisti.È un programma positivo che mira a trovare soluzioni concrete ai pro-blemi affrontati. Si colloca, quindi, agli antipodi rispetto a chi alimentale profezie catastrofiste, il panico per il cibo, e i sensi di colpa, tutta mer-ce comune ormai nelle pubblicazioni di Greenpeace e dei suoi alleati.

Nei capitoli che seguono, ho cercato di fare del mio meglio per rias-sumere le questioni ambientali con cui mi sono confrontato nel mio qua-rantennale impegno di ecologista e ambientalista militante. Il raccontoinizia con la mia trasformazione da studente entusiasta della scienza inambientalista radicale militante. Dopo quindici anni passati a condurrecampagne di protesta in tutto il mondo, si è verificata un’altra trasfor-mazione. Da attivista radicale sono divenuto un diplomatico dell’am-bientalismo. In quanto tale, vado in cerca di soluzioni più che di pro-blemi. Da venticinque anni sono impegnato a definire il concetto di so-stenibilità e a metterlo in pratica, con lo stesso fervore ed entusiasmo chequindici anni prima ho manifestato nelle mie battaglie ambientaliste. Hoavuto la fortuna di passare tutta la mia carriera a riflettere, discutere e la-vorare su un’ampia gamma di argomenti legati all’ambiente. Spero chelo sforzo compiuto nel libro per render conto di quella storia e di quelpensiero contribuisca a rafforzare un nuovo punto di vista sul rapportoesistente fra noi e la nostra bella Terra.

1. I. Amato, The Crusade Against chlorine, in «Science», 9 luglio 1993, pp. 152-154.

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