Pastori a Pereto (L'Aquila) I pastori In paese quasi tutte le famiglie allevavano le pecore. Di...

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Pastori a Pereto (L'Aquila) la vita a cura di Massimo Basilici edizioni Lo

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Pastori a Pereto (L'Aquila) la vita

a cura di Massimo Basilici

edizioni Lo

1

Introduzione

Quando si parla di pastori o pecore in Abruzzo si pensa alla transumanza

abruzzese, fenomeno migratorio che faceva spostare greggi dall’Abruzzo

verso il Tavoliere delle Puglie e viceversa. È questo un fenomeno rimasto

in vita fino agli inizi del Novecento. Migliaia di pecore si spostavano, con

l’arrivo dell’inverno, verso il Sud della penisola italiana, per avere disponi-

bilità di erbe. I pastori transumanti portavano con sé strumenti a dorso di

muli ed asini, utilizzati durante la trasferta: bisacce, tascapani, ciotole, po-

sate, sgabelli a tre piedi, secchi di legno, attrezzi per la tosatura, collari an-

tilupo. Questi strumenti erano utili sia durante la trasferta in Puglia, sia

quando stanziavano presso il paese. Gruppi di cani viaggiavano con i pasto-

ri e mantenevano raccolto il gregge.

A Pereto questa migrazione non è avvenuta, secondo i racconti dei pastori

locali ed in base alla carte manoscritte finora rintracciate. In paese si svi-

luppò una transumanza locale e non verso il Tavoliere delle Puglie.

Pereto ha una piana posta in basso all’abitato e tre vallate montane. Queste

distese d’erba situate in altura erano destinate a pascolo durante i mesi

compresi da aprile ad agosto. Avveniva una movimentazione dal piano alle

vallate presenti in montagna e viceversa. Questi pascoli montani erano uti-

lizzati anche per gli animali equini e bovini. A queste movimentazioni di

greggi locali si affiancavano spostamenti di greggi provenienti dal Lazio.

È stata condotta una ricerca attraverso le testimonianze dei pastori ancora

viventi a Pereto. Quanto raccolto è riportato nella presente pubblicazione.

L’obiettivo della ricerca è stato quello di raccontare la pastorizia a Pereto

dalle più remote età fino agli anni Sessanta.

2

Ringrazio: Valentina Bove, Gianni Di Blasio, Matilde Dondini, Romolo

Giustini, Alessandro Ippoliti, Fernando Meuti, Giovanni “Giovannino”

Meuti, Pierluigi Meuti, Anna “Annina” Sciò, Giacomo “Giacomino” Sciò,

Camillo Vendetti per le informazioni.

Massimo Basilici

Roma, 31 marzo 2014

Note per questa pubblicazione

Tra parentesi quadre sono indicate le note del redattore utili alla compren-

sione del relativo testo.

In corsivo sono riportati i brani estratti dai documenti.

Nella copertina della presente pubblicazione è riportata la foto di un gregge

su Corso Umberto I, sotto dove si trovavano le baracche edificate con il ter-

remoto del 1915. Sono le pecore di Ottavio Giustini, conosciuto con il so-

prannome di sgherro. L’edificio scolastico doveva essere ancora costruito;

la foto è datata fine anni Quaranta.

3

I pastori

In paese quasi tutte le famiglie allevavano le pecore. Di seguito sono elen-

cati i pastori che gli anziani del paese ricordano. Per alcuni è stato aggiunto

il nomignolo o il soprannome per distinguerli, dal momento che esistevano

degli omonimi. Per ognuno è stata cercata una fotografia da giovane; il

numero apposto nella didascalia che accompagna l’immagine è relativo

all’anno in cui potrebbe essere stata scattata la foto. Non è stato seguito un

ordine per le fotografie, a amano a mano che sono stati individuati dei nomi

è stata inserita una fotografia nella lista.

Gaspare “Caspirucciu” Meuti (Figura 1), Sante "Santino" Meuti (Figura

2), Giovanni “Giovannino” Meuti (Figura 3), Giacomo “Giacomino” Sciò

(Figura 4), Romolo Giustini (Figura 5), Mario Vendetti (Figura 6), Gio-

vanni Leonio (Figura 7), conosciuto con il soprannome di stizio, Alfonso

Cristofari (Figura 8), Marziantonio Iacuitti (Figura 9), Giovanni Iadeluca

(Figura 10), soprannominato poietano, Mario Camerlengo (Figura 11), co-

nosciuto con il nome di Maruzzo, Pietro Cappelluti (Figura 12), sopranno-

minato caoluzzo, Gaetano Cristofari (Figura 13), Ottavio Cristofari (Figura

14), Alfonso Giustini (Figura 15), Berardino Giustini (Figura 16), cono-

sciuto con il nome di rucchitto, Berardino Giustini (Figura 17), conosciuto

con il nome di bidone, Francesco Giustini (Figura 18), conosciuto con il

nome di Checco ‘e Nello, Giuseppe Iadeluca (Figura 19), conosciuto con il

nome di ###, Giuseppe Iadeluca (Figura 20), conosciuto con il nome di

###, Alfredo Nicolai (Figura 21), conosciuto con il soprannome di ciu-

ciu##, Dante Nicolai (Figura 22), Luigi Pelone (Figura 23), conosciuto con

il soprannome di bugiardella, Mario Rossi (Figura 24), conosciuto con il

soprannome di battente, Berardino Santese (Figura 25), conosciuto con il

soprannome di ndinulei, Antonio Sciò (Figura 26), conosciuto con il so-

prannome di Antonio ‘ngicchememma, Antonio Sciò (Figura 27) conosciu-

to con il ##, Giuseppe Pippinu Sciò (Figura 28), Luigi Sciò (Figura 29),

Carlo Vendetti (Figura 30), Gustavo Vendetti (Figura 31), Nello Giustini

(Figura 32),

Ottavio Iacuitti, conosciuto con il soprannome di sgherro,

Carmine Iadeluca, conosciuto con il soprannome di tinaru,

Fernando Vendetti,

Giovanni Cicchetti,

4

Mario Giustini,

Ignazio Sciò,

Antonio Ranati, soprannominato u capraru

Malatesta Alfredo #detto ciuciù ma non si chiamava Nicolai

Giovanni Iadeluca, conosciuto con il soprannome di pennecone,

Pelliccione, ## chi era?

Maggiorani ## chi era?

5

Figura 1 - Meuti Gaspare, 1927

Figura 2 - Meuti Sante, 1950

Figura 3 - Meuti Giovanni

Figura 4 - Sciò Giacomo, 2014

Figura 5 - Giustini Romolo

Figura 6 - Vendetti Mario, 1959

6

Figura 7 - Leonio Giovanni, 1941

Figura 8 - Cristofari Alfonso, 1956

Figura 9 - Iacuitti Marzioantonio

Figura 10 - Iadeluca Giovanni, 1953

Figura 11 - Camerlengo Mario, 1953

Figura 12 - Cappelluti Pietro, 1941

7

Figura 13 - Cristofari Gaetano, 1931

Figura 14 - Cristofari Ottavio, 1936

Figura 15 - Giustini Alfonso, 1928

Figura 16 - Giustini Berardino, 1941

Figura 17 - Giustini Berardino, 1950

Figura 18 - Giustini Francesco, 1951

8

Figura 19 - Iadeluca Giuseppe, 1954

Figura 20 - Iadeluca Giuseppe, 1943

Figura 21 - Nicolai Alfredo, 1940

Figura 22 - Nicolai Dante, 1954

Figura 23 - Pelone Luigi, 1938

Figura 24 - Rossi Mario, 1953

9

Figura 25 - Santese Berardino, 1927

Figura 26 - Sciò Antonio, 1951

Figura 27 - Sciò Antonio, 1951

Figura 28 - Sciò Giuseppe, 1942

Figura 29 - Sciò Luigi, 1928

Figura 30 - Vendetti Carlo, 1952

10

Figura 31 - Vendetti Gustavo, 1927

Figura 32 - Giustini Nello, 1936

11

Un gregge del paese era composto da alcune decine di pecore, fino ad arri-

vare ad un centinaio. Non esisteva l'affidamento delle pecore, in altre paro-

le qualche possidente che dava in gestione giornaliera le proprie pecore a

un pastore. Esisteva, invece, la soccida tra privati. Questa avveniva quando

uno intendeva mettere su un gregge, ma non aveva la disponibilità econo-

miche per costituirlo. Un proprietario acquistava le pecore, un pastore le

governava per cinque anni. Al termine del periodo si scioglieva la soccida e

si divideva tra le due parti il capitale (pecore, latte, formaggi, ricotte, ecc.)

in proporzione. Questo tipo di soccida non era svolto dalle locali confrater-

nite, le quali costituivano soccide con gli animali bovini.

Di seguito sono illustrati gli oggetti che il pa-

store portava con se durante il pascolo.

Per camminare utilizzava un bastone per

l’appoggio e per guidare le pecore, ovvero per

toccà le bestie. Quando qualcuna cercava di al-

lontanarsi dal gregge, il pastore la percuoteva

con il bastone per farla ritornare tra le altre.

Era un normale bastone. In Figura 33 è riporta-

to il bastone di Giacomo Sciò (classe 1924),

che ancora oggi, che ha smesso di portare le

pecore da alcuni anni, utilizza per spostarsi.

Attrezzo importante per il pastore era un fazzo-

letto. Questo, il più delle volte era posto intor-

no al collo per proteggerlo dal freddo e dal su-

dore. A volte legato intorno all'addome. Era u-

tilizzato per legature necessarie all’occorrenza

o per contenere oggetti.

Utile era l’ombrello, in tela colorata, di grosse

dimensioni (Figura 34). Uno spago era legato

alle estremità dell’ombrello e mediante questo

spago il pastore lo portava a tracolla, come un

fucile.

Era utilizzato un tascapane, fatto di stoffa, che

conteneva la colazione ed il pranzo da consu-

marsi durante il pascolo.

Figura 33 - Bastone di Giacomo Sciò

12

Figura 34 - Ombrello

L’acqua da bere durante il pascolo era contenuta in una borraccia stipata

nel tascapane. Alcuni utilizzavano anche delle cupellette, riempite con del

vino.

Per camminare erano calzati gli scarponi. Dai racconti degli intervistati non

è stato evidenziato l’uso delle ciocie, indumento tipico dei pastori.1 Agli

scarponi erano associati i guardamacchie, costituito dei pezzi di pelle di

pecora, legati intorno ai polpacci. Servivano per proteggere le parti basse

delle gambe. In Figura 35 è mostrato un guardamacchia utilizzato dai pa-

stori in epoche recenti, ma non quello che veniva realizzato con le pelli di

pecora. Questo era posto intorno alla caviglia e tenuto stretto mediante le

due fibbie. Queslli antichi erano legati con lo spago.

## guardamacchie vecchio

1 Si racconta che le ciocie, fatte di pelle di pecora, fossero utilizzate per vangare.

13

Figura 35 - Guardamacchia

Il cappello a falda larga riparava dal sole, dalla pioggia e da altre intempe-

rie. Questo era il corredo del pastore, oltre il vestiario.

Fondamentale per la gestione delle pecore era la presenza di cani. In epo-

che recenti fu introdotto un tipo di cane che aggirava il gregge, facendo si

che rimaneva sempre compatto durante il cammino o il pascolamento. Non

è stato possibile ricavare, dalle interviste, il tipo di animale.2 Questo anima-

le era il compagno di viaggio del pastore, nutrito con le ossa degli animali

macellati dal pastore o dai macellai locali.

Il pascolo

La giornata tipica del pastore era la seguente. Prima dello spuntare del sole

il pastore si recava alla stalla e cominciava la sua giornata lavorativa. Go-

vernava le pecore dandogli del fieno, se il gregge non poteva uscire per le

condizioni climatiche, e cominciava la mungitura (l’operazione era detta

mette a magnà e a mugne). La durata della mungitura dipendeva dalla

quantita di latte disponibile da ogni singolo animale e dal numero di anima-

li da mungere. Non erano utilizzate particolari operazioni, era avvicinata la

pecora da munge e iniziava l’operazione. Al termine dell’operazione il sole

era spuntato ed a questo punto il gregge si metteva in cammino uscendo

dalla stalla.

A volte, per tramandare la tradizione, al pastore si aggiungeva il figlio, il

quale dava una mano nella gestione del gregge e nello stesso tempo impa-

rava l’arte e i trucchi del mestiere.

2 Qualcuno ha segnalato che poteva appartenere alla razza del pastore maremmano.

14

Per far uscire il gregge si aspettava che l’erba del pascolo fosse asciutta, in

quanto l’erba bagnata poteva far abortire (le ficea sconcià) le pecore incin-

te. Raggiunto il punto dove il gregge doveva pascolare, il pastore prendeva

una posizione per osservarle. Nel gregge, una femmina portava la campana;

questo animale era il punto di riferimento sia per il gregge, che per il pasto-

re.

Le pecore andavano tenute vicine tra di loro, altrimenti queste mangiavano

le cime delle erbe e danneggiavano la parte rimanente, calpestando l’erba,

sprecandola.

Durante il pascolo il pastore osservava il gregge, stando attendo che non

sconfinasse, rispetto all’area dove doveva pascolare. Non aveva tempo per

leggere. Qualche pastore, per passare il tempo, suonava l’organetto,

## chi

non si ricorda se qualcuno suonasse la zampogna o il piffero. Nel frattempo

erano raccolte erbe o funghi per essere poi cucinati.

Le pecore mangiano qualsiasi tipo di erba. L’erba medica è una dell'erbe

preferite, solo che se ne mangiava tanta si gonfiano, con la possibile morte

dell’animale. L’unico rimedio preso, qualora avessero fatto indigestione di

erba, era quello di tenere fermo l’animale con lo scopo di farlo sgonfiare.3

In alcuni giorni il gregge era portato in prossimità di zone ove erano pre-

senti pietre lisce sopra le quali i pastori depositavano il sale da far mangiare

alle pecore. Queste località erano indicate con il termine salere. Il sale si

acquistava in paese ed era somministrato ogni tanto.4 Secondo alcuni in-

tervistati gli veniva dato come integratore alimentare, secondo altri per far-

le mangiare di più.

Le pecore bevevano una volta al giorno; non c’era un orario specifico, di-

pendeva quando si trovavano in prossimità di un fontanile o di un ruscello.

3 Questa azione oggi è considerata insufficiente, in quanto esistono altri metodi per com-

battere questo caso. 4 Non è stato possibile avere un dettaglio sulla frequenza della distribuzione o la quantità

di sale fornito al singolo animale. Sembrerebbe che veniva dato 10-15 volte l'anno.

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Nel primo pomeriggio il gregge si rimetteva in moto per raggiungere il

punto dove passare la notte. Se le pecore avevano figliato allora si effettua-

va una mungitura la sera.

La vita delle pecore

Dagli anziani intervistati sono citati principalmente due razze di pecore al-

levate in paese:

- la maremmana, o nostrana, che dava lana più buona;

- la sardegnola, bianca, che dava più latte.5

Nel gregge c’erano tre o quattro animali maschi (montoni) su un centinaio

di pecore. Questi avevano il compito di ingravidare le femmine. La pecora

partoriva in genere un agnello, qualche volta ne faceva due. La gestazione

durava cinque mesi.

##quando l apecora è disponibile

Figliava due volte l'anno e doveva figliare in prossimità della pasqua (mar-

zo aprile) così si sarebbero venduti gli agnelli per l'occasione.

Per non farle rimanere incinte prima del mese di novembre, si utilizzava un

accorgimento ai maschi del gregge. Si metteva la parannanzi agliu monto-

ne, ovvero sotto la pancia del maschio era legata un pezzo di sacco, tela di

iuta, per non permettere l'accoppiamento tra animali.

Non c’era un alto grado di mortalità nel parto, era più facile che invece al-

cune pecore morissero di fame per mancanza di erba da mangiare.

Durante l’allattamento c’era una produzione maggiore di latte da parte del-

la pecora che aveva partorito.

La pecora era considerata vecchia dopo 6/7 anni di vita,

## come si fa a vedere se la pecora è vecchia e di quanto?

Se non macellata, veniva venduta. Se non venivano acquistate in paese, le

pecore da vendere venivano portate alla fiera di Carsoli, che si teneva ogni

mese, oppure presso altre fiere che si svolgevano nel circondario.

5 In realtà erano allevate pecore anche della razza Frisona, Siciliana, Faccia rossa ovvero

Comisana.

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La pecora fornisce latte, lana, carne, pelle e letame. Di seguito sono passate

in rassegna le lavorazioni di questi prodotti.

Il latte

Per mungere il latte, il pastore si sedeva su uno sgabello di legno a forma di

mezzaluna con tre piedi, chiamato prituicchia (Figura 36). Il secchio per il

latte ben serrato tra le ginocchia, era posto avanti alla prituicchia.

Figura 36 - Prituicchia

In genere una pecora produceva poco più di un quarto di latte. La quantità

fornita da ogni animale dipendeva dall’animale e se allattava. Per recupe-

rarlo il pastore si sedeva sulla prituicchia, tirava a se l’animale e comincia-

va a mungere le mammelle.6 Il latte in genere finiva in un secchio (marmit-

tuccio). Qualcuno utilizzava un secchio particolare,

## come si chiama

che aveva lo scopo di proteggersi dagli schizzi del latte e soprattutto di non

far disperdere gocce di latte.

Figura 37 - Marmittuccio

Figura 38 – Secchio particolare

6 Ultimamente si utilizzò un meccanismo per mungere le pecore chiamato la cattura. Con-

sisteva in una specie di una passerella delimitata ai lati. Gli animali, spinti, ad uno ad

uno entravano in questo corridoio, al cui termine venivano bloccati. In questo punto il

pastore mungeva l'animale che si trovava immobilizzato.

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Alle mammelle dell’animale non erano fatte pulizie particolari (avere

l’acqua a disposizione era un lusso).

Se il latte munto era poco, questo era trasportato fuori dalla stalla utilizzan-

do il secchio stesso in cui era stato raccolto. Dopo la Seconda Guerra Mon-

diale si utilizzò un recipiente di alluminio con un coperchio, chiamato in

locale ghirba. Questo recipiente aveva lo scopo di proteggere il latte da in-

setti ed impurità e soprattutto di prevenire la dispersione (Figura 39). Ave-

va un manico, un coperchio ed un meccanismo per bloccare il coperchio.

Il latte ovino è ricco di grasso e proteine ed è adatto alla caseificazione e

meno adato ocome bevanda. Per questo si realizzavano formaggi e ricotte.

Figura 39 - Ghirba

Il recipiente con il latte raccolto era portato presso un locale, dove sarebbe

stato riscaldato. Questa cottura era svolta ogni mattina; il latte munto non

poteva essere conservato a lungo in quanto non c’erano sistemi di conser-

vazione disponibili. Al latte raccolto la mattina, si aggiungeva il latte rac-

colto la sera, quello munto quando le pecore erano nel periodo di allatta-

mento. Si poteva mischiare il latte di pecora con quello di mucca (vacca) o

di capra, se qualcuno lo aveva disponibile.

Il latte di capra è simile a quello vaccino, ma diverso nella composizione

chimica. È di difficile lavorazione e contenuto di caseina molto basso che

lo fa resistente all'azzione del caglio. I globuli di grasso di cui è composto,

molto piccoli, lo rendono un latte digeribile e leggero.

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Il latte era versato in un caldaio (callaro) di rame o stagnato, facendolo

passare attraverso un pezzo di tela di canapa (cola).7 In genere era una ta-

sca di tela, da cui fuoriusciva il latte versato. Quest'operazione, detta a colà

lo latte, serviva a filtrare le impurità presenti nel liquido.

Versato tutto il latte nel caldaio, questo era messo sul fuoco con un coper-

chio posto sopra.

Figura 40 - Callaro

Si aspettava che il latte raggiungesse una certa temperatura, il latte andava

scaldato, non bollito. Per verificare la temperatura raggiunta, si basava sul

tempo trascorso dal callaro sul fuoco, non cerano i termometri. Per essere

sicuri che avesse raggiunto la temperatura giusta, l’addetto alla cottura po-

neva una mano sopra la superficie del liquido e, in base all’esperienza, ri-

conosceva quando il liquido era pronto. Raggiunto il punto desiderato,8 si

scostava il callaro dal fuoco, si scoperchiava, si aggiungeva il caglio (u ca-

gliu).

Il caglio era realizzato con lo stomaco dell’agnello ancora lattante. Estratto

dall’animale, si faceva essiccare all’aria. Una volta secco era tagliuzzato

con un coltello e ridotto in polvere. Era "condito" con l’aceto9 e sale in un

contenitore e conservato. Quando serviva il caglio, con un cucchiaio, se ne

7 In epoche recenti furono utilizzati dei colini in metallo con le maglie strette.

8 La temperatura doveva essere tra 35/40 °C.

9 In mancanza di aceto si usava il succo di limone.

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estraeva una porzione che era messa in un bicchiere con dell’acqua fred-

da.10

Con il cucchiaio si mescolava questa miscela (lo da sciolle) e poi, fil-

trata, era versata nel callaro. In Figura 41, sulla destra si trova un barattoli-

no contenente il caglio, realizzato con l’aceto. Al centro dell’immagine un

bicchiere con un cucchiaio di legno. Questo cucchiaio veniva utilizzato per

prelevare il caglio e mescolarlo nel bicchiere con l’acqua.

Aumentando la quantità di caglio diminusice il tempo di coagulazione e vi-

ceversa. Aumentando la temperatura del latte si accelerava il tempo di coa-

gulazione e viceversa. Per il latte troppo freddo o troppo caldo il caglio

cessa il suo effetto.

Figura 41 - Caglio

Versato il caglio nel callaro, bisognava mescolare il latte. Per eseguire que-

sta operazione si utilizzava un bastone di legno con alcune biforcazioni in

una delle estremità, detto spino, conosciuto in locale con il nome di squa-

gliarello (Figura 42).

Si girava il latte per un breve periodo.

Figura 42 - Squagliarello

10

Andava utilizzato mezzo cucchiaio di caglio per 10 litri di latte.

20

Dopo aver mescolato si aspettava che il latte cagliasse, lasciandolo riposa-

re. Mentre il latte riposava, si formava una sostanza gelatinosa sulla super-

ficie del caldaio.11

Ad occhio si vedeva quando era stato raggiunto questo

stato, in quanto il liquido era diventato una gelatina. Esisteva anche una

prova per verificare se il latte si era quagliato correttamente. Si immerge-

vano due dita nel liquido, se questo rimaneva attaccato alle dita era segno

che la cagliata non si era ancora formata, viceversa se uscivano asciutte,

ovvero non si attaccava il liquido, era segno che la cagliata era pronta.

Il latte cagliato è chiamato giuncata (in locale juncata) ed era il primo lavo-

rato del latte della pecora.

Dopo la formazione della cagliata, si rimetteva il callaro sul fuoco per poco

tempo (#10/15 minuti) e si tagliea la cagliata, facendo con lo squagliarello

una croce nel latte (forse come azione propiziatoria). Poi si tagliava ancora

la cagliata, sempre con lo squagliarello, eseguendo altre linee. La cagliata

andava rotta per favorire la separazione dal siero.

Rotta la cagliata, la si mescolava per non farla riaggregare. La sostanza ge-

latinosa, grazie all’azione di mescolamento, si divideva in parti più piccole.

Se si intendeva fare un formaggio con una breve stagionatura o fresco (det-

to a cortello), si lasciava che la cagliata fosse ridotta in grossi pezzi, invece

per formaggi a lunga stagionatura si agitava fino a formare dei cicchi della

grandezza del granturco.

Al termine del mescolamento, veniva tolto il callaro dal fuoco e la cagliata

intanto si depositava sul fondo del recipiente. A questo punto andava sepa-

rata la cagliata dal liquido. Chi lavorava questo preparato, infilava le mani

nel callaro e cominciava a mettere insieme i vari pezzi di caglio che si era-

no depositati e cominciava a premerli tra di loro.

Raggiunta una certa consistenza, era estratto un pezzo (pallocca) della ca-

gliata e messo in apposite forme (cassi) di legno di faggio, dove veniva

pressato con le mani, a più riprese, per eliminare il siero eccedente. I cassi,

prima dell’utilizzo, erano bagnati.

11

Il caglio ha le proprietà di coagulare le proteine del latte (caseine) formando la cagliata.

Questa si forma nell'arco di 45-60 minuti.

21

Il liquido che fuoriusciva dalla pigiatura del formaggio nel casso non anda-

va buttato poiché era ancora utile. Per questo si utilizzava u casceru, una

specie di piatto in legno che raccoglieva il liquido che fuoriusciva. Questo

liquido si rimetteva nel caldaio, niente andava buttato.

Figura 43 - U casceru

Il casso era di varie altezze, in funzione della grandezza della pizza di for-

maggio che si intendeva realizzare. Era possibile regolare il diametro del

casso utilizzando uno spago, quindi a parità di altezza si potevano realizza-

re pizze di formaggio di vario diametro. Questa variabilità del diametro era

utile, in quando era variato in funzione della quantità di cagliata disponibile

in quel momento. In Figura 44 sono mostrati quattro cassi, di varie altezze

e gli spaghi per variare il diametro.

Figura 44 - Cassi

Terminata la fase di pressatura della cagliata nel casso, sulla superficie del

formaggio si metteva del sale, ovvero avveniva la salatura a secco. Appena

presa la forma, era disponibile il secondo lavorato del latte, ovvero il for-

maggio fresco o di primo sale.##

Il siero di latte avanzato dalla lavorazione del formaggio veniva utilizzato

per fare la ricotta. Il callaro era messo nuovamente sul fuoco, per questo si

utilizza il termine ricotta,12

ovvero due volte cotta. Per fare la ricotta più

12

È un latticino prodotto dal siero, privo della caseina. E' costituita da proteine, tipo latto-

albumine e lattoglobuline, le quali con il calore tendono a denaturarsi e quindi coagula-

no

22

bianca, all’inizio di questa nuova cottura si aggiungeva un bicchiere di lat-

te, altrimenti la ricotta sarebbe venuta con un colore giallo pallido.

Il siero era mescolato continuamente ed era portato ad una temperatura

maggiore rispetto a quella del formaggio.13

Dopo un po’, la ricotta saliva in

superficie e, raccolta continuamente con la schiumarola, veniva messa in

appositi contenitori conici (frucelle) di giunco e fatta scolare.

Figura 45 - Schiumarola

Figura 46 - Frucella

La lavorazione termina quando le particelle solide non salgono più in su-

perficie. Al termine di questa lavorazione rimaneva il siero. La maggior

parte dei pastori lo dava ai maiali per nutrimento, come beveroni o impasti.

Questo accadeva quanno gli tocchea all’animale, ovvero era possibile dar-

glielo. In tempi non tanto antichi, per la fame, veniva bevuto da chi non a-

veva da che sfamarsi.14

Non si faceva il burro.

Il casso con il formaggio era stipato in qualche locale, su tavole di legno,

rialzate dal pavimento. Qui riposava per la stagionatura. Il giorno dopo si

girava sottosopra il casso, mettendo il sale su questa altra faccia della for-

ma di formaggio. ## non ci si metteva più sale?

Dopo alcuni giorni il formaggio aveva già cominciato ad asciugarsi e per

questo si levava dal casso. La stagionatura durava in base al prodotto che si

intendeva realizzare, per il formaggio al taglio qualche mese, per grattarlo

diversi mesi. Con il passar del tempo la forma di formaggio assumeva un

colore dapprima giallo chiaro, poi più scuro fino a raggiungere una colora-

zione marrone o nera.

13

La temperatura doveva essere tra 80/85 °C. Non deve sobbollire. 14

Questo liquido conserva un valore nutrizionale.

23

Ogni tanto si andava a visionare le forme di formaggio e notare eventuali

formazioni di muffe sulla superficie.15

Queste andavano subito rimosse con

uno straccio per non dover poi gettare il lavorato. Il fatto di girare conti-

nuamente le forme, riduceva la formazione di queste muffe. In estate poi si

riponeva il formaggio in luoghi freschi per non far ##lacrimare

Deformazioni del formaggio

Spaccature

Rigonfiamenti

Rammollimento

Gessosità

Sapore amaro

La lana

La tosatura delle pecore si faceva una volta l’anno, prima di portare il

gregge in montagna per il pascolo estivo. L’operazione avveniva in paese.

I tosatori (carosini) venivano da fuori, pochissimi in paese facevano questa

operazione. Di gente del luogo si ricordano:

# Fulvio

# Giammaria

# Cristofari ## ottavio?

Si ricordano persone forestiere, provenienti dal Cicolano, in particolare dal-

la frazione di Sant’Elpidio, nel comune di Pescorocchiano (RI). Questi si

protavano gli attrezzi per tosare e a volte rimanevano più giorni in paese

per tosare più greggi.

Figura 47 - Forbice

15

Il formaggio è composto da sostanze organiche con la presenza di acqua, ambiente idea-

le per il proliferare di microorganismi. Sono un connubio naturale il formaggio con le

muffe. Alcune sono sinonimo di "salute" del prodotto, altre invece no.

24

Per tosare le pecore si usava la forbice (Figura 47), poi venne introdotta la

“macchinetta” a mano ed a seguire quella elettrica.

Prima di tosarle si dovevano abbagnà, ovvero lavarsi. Si portava il gregge

agliu ponte risiccu, una località in prossimità delle nuci ‘elle mole, verso il

paese di Oricola. Qui andavano i vari pastori di Pereto a “lavare” le pecore

## acqua di che fosso?

In questa località si era formato un laghetto e le pecore erano fatte scendere

in questo bacino. Bastava mandare una pecora nel laghetto che le altre la

seguivano. Uscite dall’acqua non erano spazzolate, si aspettava che si a-

sciugassero con il sole. Se avevano addosso pezzi di terriccio o escrementi

(patacche), queste gli rimanevano, la lana veniva pulita dopo la tosatura.

Dopo qualche giorno avveniva la tosatura. Non c’era un punto preciso per

questa operazione; ogni pastore faceva carosare le proprie pecore in pros-

simità della stalla, o dello stazzo, o in un punto dove c’era la commodità.

Per non far muovere l’animale durante la tosatura, si legavano le zampe.

## alcune volte non avveniva questa operazione

# come si faceva?

Tutti i batuffoli di lana raccolti da un unico animale costituivano un toso.

Principalmente la lana era di colore bianco, era raro avere lana scura dovuta

a qualche pecora di colore bruno o nero. La lana tosata era messa in sacchi

per essere poi portata alla lavorazione.

L’operazione di tosatura poteva protrarsi anche per giorni, in base al nume-

ro di pecore; il proprietario all’occorrenza preparava il pranzo e/o la cena.

La maggior parte della lana era venduta, a peso, al Consorzio16

o all'Am-

masso.17

Per la famiglia erano lasciati alcuni tosi per la produzione della biancheria

intima (maglie di lana, calzini, sottane e camicie). Di seguito sono descritte

le operazioni eseguite in paese per utilizzare la lana recuperata dalla tosatu-

16

Consorzio era ## che era. Si trovava a carsoli e ritirava la lana e vendeva il sale 17

Ammasso era

25

ra. Dopo il taglio la lana veniva messa a bagno con soda e acqua tiepida per

una settimana in grossi recipienti; ogni giorno l’acqua veniva cambiata.

Figura 48 - Lana in lavaggio

In Figura 48 è mostrata una foto d'epoca che mostra un callaro con dentro

l'acqua e la lana che era a bagno per sciogliere le patacche.

L’obiettivo era quello di sciogliere le incrostazioni di terra o escrementi

(cozze) che erano ancora attaccati alla lana. Successivamente veniva messa

nei cesti, se era poca, o nei tini (piunzi) e trasportata con i muli fino al lava-

toio comunale o al fosso. Qui si sciacquava e si portava poi a casa.

Nella case, per una settimana, rimaneva ad asciugare sopra i teli (i pannu-

ni), o qualunque straccio che permettesse l’asciugatura. La sera davanti al

fuoco, le donne la scioglievano, allargando fiocco per fiocco (se scellea).

Figura 49 - Lavorazione della lana

26

In Figura 49 sono mostrati due donne ed un ragazzo che di fronte l'abita-

zione, su via Vittorio Veneto, stanno scellendo la lana.

Con questa prima lavorazione, la lana prodotta poteva essere utilizzata per

riempire il materasso.

Per essere tessuta la lana andava separata, ovvero cardata (scardata). Per

fare questa operazione serviva un artigiano, lo scardalano. A Pereto non

esisteva e per questo la gente del luogo doveva portare la lana ad Anticoli

Corrado (RM), dove viveva, uno scardalano, nativo di Pereto; questi aveva

sposato una donna di Anticoli e quindi si era trasferito li. In tempi prece-

denti uno scardalano abitava a Pereto;18

era il padre di quello che si era tra-

sferito ad Anticoli.

L’attività dello scardalano era di cardare la lana. Questi riusciva a produrre

fili di lana della lunghezza di un metro (i maccaruni). La lana cardata veni-

va poi trasportata in paese e con i fili si formavano dei gomitoli (ciammel-

le). Con la lana cardata si potevano realizzare anche piccoli rettangoli, alti

qualche millimetro (le pernecchie), utilizzati per produrre le imbottite.

Le coperte si realizzavano con la lana o un misto lana e cotone. Le matasse

di lana utilizzate per le coperte, dopo essere state lavate con acqua tiepida e

soda, erano tinte con i colori rosso, verde, nero e azzurro per realizzare stri-

sce colorate. Le tinture venivano acquistate presso qualche negozio del pa-

ese. Con i fili colorati, la tela era lavorata creando strisce o quadrati di di-

versi colori.

I processi di filatura e tessitura della lana erano analoghi a quelli della ca-

napa.

La carne

Alcuni agnelli erano fatti crescere per ripopolare il gregge. Altri erano ven-

duti o macellati per sfamare la famiglia.

La carne macella della pecora, in genere, non era conservata, essendo poca

rispetto ad una mucca, era consumata nel giro di due/tre giorni. Qualcuno

18

Era Domenico Giustini, soprannominato scardalano.

27

la essiccava per poi mangiarla all’occorrenza, ma erano rari questi casi, vi-

sta la fame.

La parte più ricercata della pecora era la coscia, per il sugo era meglio la

spalla. Le ossa erano date in pasto ai cani che seguivano il gregge.

La pelle

Una volta macellato, l’animale era scuoiato. La pelle era stesa ad asciuga-

re. ## dove

## come

Ogni tanto in paese veniva un pellicciaio che comprava queste pelli.

## chi era

## come le trasportava

Ù## quando passava

## come pagava

Localmente, le pelli venivano usate per realizzare le ciocie e i guardamac-

chie. ## che altro

Il letame

Durante la giornata, le pecore producono escrementi che rappresentano un

letame naturale. Chi aveva un terreno ed intendeva concimarlo, chiamava

un pastore che con il suo gregge concimava (stabbiava) il terreno con il po-

steggiare sul luogo.

Da segnalare che le vallate montane di Pereto erano coltivate a grano. Le

pecore erano richieste per concimare, in modo naturale, gli appezzamenti

montani di terreno per i prossimi raccolti.

Il letame era prodotto anche nella stalla, quando le pecore si trovavano rin-

chiuse. Il pastore ogni tanto metteva fuori dell’area questo letame, per ren-

dere agibile la zona. Questo letame era fertilissimo a tal punto che acqui-

renti venivano dalla piana del Fucino per comprarne sacchi di questo con-

cime.

28

Gli intervistati di questa ricerca hanno raccontato che con il formaggio e la

carne il pastore ci viveva, la lana ed il letame invece erano il guadagno del

pastore.

Le stagioni

Il movimento dalla pianura alle vallate montane e viceversa dipendeva dal-

le condizioni metereologiche.

Dal 15 marzo le pecore erano portate in montagna.19

A causa del protrarsi

della cattiva stagione si aspettava in alcuni casi la fine di aprile o gli inizi di

maggio. Così, con l’arrivo della primavera, lasciavano la stalla in cui ave-

vano passato parte dell’inverno.

Per pascolare in montagna si pagava una tassa comunale. Il termine fida è

sconosciuta agli intervistati, era utilizzato per i pastori forestieri.

Il pastore non seguiva un percorso preciso per andare in montagna. Le zone

di pascolo erano Campo catino, Campo secco, Macchia lunga e Serrasecca.

A queste distese d’erba vanno aggiunte le località di Santo Maro, Pirumaru

e l’Oppieta. Non c’era un punto preferito per il pascolo, dove capitava si

portavano. Il pascolo più buono era quello di Campo secco.

#à quale presso il piano?

Si utilizzava qualche animale da trasporto (mulo, somaro) per portare mate-

riali utili per il soggiorno in montagna.

Non c’era un punto preferito dove impiantare lo stazzo (u stazzu), ovvero il

recinto fatto con la rete di spago di canapa, utilizzato per riparare il gregge

durante la notte. In Figura 50 è riportata una fotografia di una rete.

Figura 50 - Rete

Si infilavano dei bastoni nel terreno per delimitare l'area dello stazzo. Su

questi bastoni veniva posta la rete che così delimitava lo stazzo.

19

I vari intervistati non conoscono i riferimenti relativi alla date di Sant’Angelo di maggio

o di settembre.

29

Alcuni pastori, quelli che non avevano le reti per delimitare lo stazzo, rea-

lizzavano un’area recintata delimitandola con dei spini. Alcune volte più

pastori radunavano i loro greggi realizzando degli stazzi attigui tra loro.

Questa realizzazione veniva chiamata u precojo.

In montagna esistevano anche stazzi realizzati con le pietre. A secco veniva

costruito un muro che delimitava la zona dove stazionavano le pecore du-

rante la notte. In Figura 51 sono mostrati i resti di uno stazzo realizzato in

pietra. Si trova in località Coppetegli.

Figura 51 - Stazzo in pietra

Un elemento di fastidio del gregge era il sole; per questo le pecore si met-

tevano vicine, a contatto tra di loro, per stare più fresche o cercavano dei

punti ombreggiati. Questa operazione era chiamata ‘ngozzaturo. Quando il

pastore aveva messo le pecore vicine tra loro per stare al fresco si utilizza-

va l’espressione, rivolgendosi a lui, le si ‘ngozzate le pecore, ovvero hai

messe le pecore al riparo.

Per dormire il pastore utilizzava u capanno, costituita da 5 o 6 archi di le-

gno ricoperti con la paglia. Potevano dormirci due persone. La costruzione

non era fissa, si spostava con il gregge, caricandola in spalla. Ogni giorno

veniva posizionata in un altro posto. Il luogo dove dormivano i pastori era

chiamato iaccio. Nel capanno venivano sistemate le rapazzole, sacchi ri-

30

pieno di paglia, utilizzati come materasso. Quando il terreno era bagnato,

veniva posto uno strato di sassi, sopra a questi venivano messe delle fra-

sche, poi poggiate le rapazzole e sopra messa la capanna.

Alcune famiglie del luogo realizzarono, per non portarsi appresso la capan-

na, delle costruzioni a secco, realizzate con delle pietre. Erano queste delle

costruzioni patronali, utilizzate per uso proprio durante il pascolo. Di segui-

to sono riportate quelle rintracciate:

La casetta di ‘ngicchememma, in località Oppieta, realizzata da Francesco

Sciò ##nonno di maria la bionda 20

Figura 52 - Casetta di ngicchememma, parte nuova

In Figura 52 è riportata la casetta in muratura realizzata qualche anno fa

# quando

20

Si racconta che chi costruì questa casetta aveva fatto un sogno, che in quella località

c’erano sepolti dei soldi, un tesoro. Non si sa se li trovò o meno, solo che vi realizzò

questa costruzione.

31

Figura 53 - Casetta di ngicchememma, parte vecchia

In Figura 53 è riportta la parte sottostante alla parte nuova. È la vecchia co-

struzione realizzata in pietra.

#Intorno si trovava uno stazzo in pietra

La casetta di Pennacchia ##compare Alfonso, situata all’inizio

dell’Oppieta, quando di sale dalle Coste del banco;

Figura 54 - Casetta di #

La casetta di Furiè fu realizzata da Domenico Camerlengo, dopo che ritor-

nò dalla Svizzera, dopo la Seconda Guerra Mondiale. La realizzò in località

Piaseri.

Figura 55 - Casetta di Furiè

Quando il gregge era in montagna, il latte era munto sul luogo poi le donne

del paese lo andavano a prendere per portarlo in paese e lavorarlo. Nel frat-

tempo le donne portavano da mangiare a chi accudiva le pecore. Questo

succedeva ogni giorno, ovvero con un'animale da trasporto le donne rag-

giungevano lo stazzo. Qualcuna, non dotato di animale di trasporto, ci an-

32

dava a piedi con non poca fatica. Dagli intervistati non si è fatto riferimento

ai figli per prelevare il latte in montagna.

Il piatto tipico serale del pastore era la mpanata, il latte con un po' di pane

secco, messi in una scodella. Qualcuno racconta, che mancando anche le

scodelle, si inzuppava il pane direttamente nel secchio dove si trovava il

latte. I pastori più poveri, per nutrirsi, bevevano il siero, ovvero lo scarto

della lavorazione del latte della pecora.

Il gregge rimaneva in montagna fino alla fine di agosto. A quell'epoca le

pecore scendevano nel basso del paese poiché il grano, il granturco e la pa-

glia erano stati già raccolti e quindi non c’era pericolo che danneggiassero

le culture. Inoltre si risparmiavano i viaggi ai membri della famiglia che

ogni giorno erano costretti a raggiungere il pastore per recuperare il latte e

portare i viveri. Al ritorno al paese il gregge era fatto sostare in terreni per

stabbiare.

Figura 56 - Gregge alla Piana del Cavaliere

In Figura 56 è mostrata una foto che riporta Giacomo Sciò con le sue peco-

re nella piana. In lontananza si vede il paese di Pereto.

Quando faceva freddo o c’erano precipitazioni, le pecore rimanevano nella

stalla ed il pastore le accudiva fornendo del fieno che era stato raccolto du-

rante l’estate.

Per mantenere al caldo le pecore nella stalla, si utilizzava la paglia, metten-

dola in terra come lettiera. Per risparmiare la paglia durante l’inverno, co-

33

me lettiera era utilizzata lo scarto della lavorazione della canapa (i cannuc-

ci).

Appena faceva bel tempo in inverno, comunque sia, si faceva uscire il

gregge per brucare l’erba disponibile. Dai racconti sembra che le grosse

nevicata in tempi antichi non erano frequenti e per questo bastava portarle

ad esempio sopra le Fonticelle#, località posta vicino all’abitato per sfama-

re il gregge. A marzo ricominciava il ciclo della transumanza montana.

Le avversità

Le pecore sono soggette all’attacco di virus, parassiti ed animali. Di seguito

sono passate in rassegna le avversità raccontate dai pastori del luogo

Le malattie

Le malattie a cui le pecore possono andare incontro sono tante, in base alle

attuali conoscenze. In passato molte di queste avversità erano sconosciute

alla gente del luogo o non se ne capiva la pericolosità per gli animali e per

le persone. Non c’era alcuna disinfestazione delle stalle o degli ambienti

dove gli animali si radunano, neanche con l’utilizzo della calce. Una volta

l’anno si puliva la stalla per recuperare il letame.

La zoppia

La zoppia21

è una malattia dei piedi degli ovini causata da batteri. Le lesio-

ni sono inizialmente localizzate nello spazio tra i due unghielli, ma possono

estendersi causando il distacco parziale o totale dell'unghia. Un'insufficien-

te cura degli unghielli favorisce la proliferazione di questi batteri e l'insor-

genza della malattia. Il sintomo più evidente è l’animale che cammina zop-

picando. In ambienti senza alcuna cura o prevenzione, questa malattia era

la più diffusa tra le pecore in epoche passate. A Pereto era chiamata u for-

cone. Questo termine aveva origine dal fatto che lo spazio tra i due unghiel-

li a causa dell'infezione aumentava mostando una specie di forcone.

Afta epizootica

È una malattia molto infettiva causata da un virus. Il virus è facilmente tra-

sferibile e può infettare vaste aree in solo qualche giorno. Le cause di diffu-

21

Questa malattia è conosciuta anche con il nome di zoppina, o pedaina.

34

sione sono gli stessi animali infetti, il vento, altri animali che possono tra-

sportare la malattia, l’abbigliamento.

L’afta tende ad essere una malattia invernale, Il virus è facilmente ucciso

attraverso disinfettanti o condizioni mediamente acide. Uccide il virus an-

che la luce del sole.

## che si faceva a Pereto?

Gonfiamento della pancia

Quando troppo gas è prodotto nel rumine, il fianco di sinistra è dilatato e

respirare diventa difficile. Ciò può accadere improvvisamente, particolar-

mente quando l'animale sta mangiando sul pascolo bagnato di mattina. Può

causare la morte anche in una ora. Oggi si conoscono le cause ed alcuni ri-

medi. In passato l’unico accorgimento preso era quello di non far muovere

la pecora, con l’obiettivo di far svuotare l’aria presente nell’animale.

La lingua blu

La lingua blu, febbre catarrale degli ovini, e' una malattia infettiva dei ru-

minanti trasmessa da un insetto. Questo succhia il sangue da un capo e lo

trasmette all'altro. Gli animali infettati avranno febbre molto alta sino a 42°

C per un periodo di una settimana. Il morbo colpisce l'apparato boccale con

incapacità quindi di nutrirsi e conseguente calo di peso dell'animale. La zo-

na della bocca e le zone vicine presenteranno delle erosioni dell'area bocca-

le e delle gengive con colore cianotico in un secondo momento.22

È di diffusione recente; gli intervistati più anziani non la ricordano.

La succarella

Non si comprende quale sia questa malattia. Si racconta che gli animali

colpiti producevano così poco latte da rendere secce (sucche) le mammelle.

In compenso l’animale non moriva, ovvero si ristabiliva dopo un certo pe-

rido.

La visciola

Per la fame

22

Lingua blu deriva dalla cianosi della mucosa linguale osservata negli animali colpiti in

modo più grave.

35

Esistono altre malattie della pecora, sono che non erano conosciute dai pa-

stori. Eventuali comportamenti anomali di un animale erano visti come se

l’animale fosse diventato scemo.

Le zecche

Le pecore, pascolando, venivano attaccate dalle zecche. Non c’era alcuna

prevenzione in merito e nessun controllo, da parte del pastore, se un ani-

male era stato attaccato dalle zecche. Questo parassita, mediante il rostro di

cui è fornito, si infila nella carne dell’animale producendo dei fastidi e delle

infezioni di cui alcune mortali. Gli intervistato hanno raccontato che non

erano tanto pericolose le zecche che attaccavano la cute dell’animale, quan-

to quelle ingerite, mangiando l’erba, che si annidavano nell’apparato dige-

rente.

La rogna

È una patologia infiammatoria della cute degli animali provocata da paras-

siti. Sintomi comuni sono: perdita del pelo, prurito ed infiammazione cuta-

nea. L’animale attaccato veniva curato con la creolina.

##abbattimenti

I lupi

In tempi antichi i lupi facevano stragi delle pecore, con la loro diminuzione

le razzie sono diventate sporadiche. Il lupo attaccava anche i cani messi a

protezione del gregge. Per questo motivo, diversi cani venivano dotati di

collare antilupo. Era un collare in ferro con degli spuntoni in ferro che u-

scivano in fuori, serviva per proteggere il collo del cane, uno dei punti vul-

nerabili dell’animale. Lo proteggevano dai lupi, ma anche da altri cani più

violenti. In casi estremi i pastori utilizzavano anche dei bocconi avvelenati

per uccidere i lupi. Dai racconti sembra che le razzie di questi animali, che

potevano uccidere diverse pecore in poco tempo, sono state rare, segno che

i lupi erano pochi. Da tenerconto che attaccavano altri animali, come buoi,

mucche e cani.

Curiosità

Per riconoscere le pecore di un gregge, queste venivano marchiate con un

liquido, chiamato la magra. In epoche recenti furono utilizzate delle verni-

36

ci. Nel passato si realizzava utilizzando terra blu o rossa, mischiata con o-

lio.

Un timbro

## di che materiale

## in legno

## più grande

era immerso nel liquido e poi poggiato sulla pelle della pecora. Il timbro

riportava le lettere del proprietario per riconoscere a chi apparteneva

l’animale. Ogni anno si timbrava l’animale in quanto con la tosatura e la

crescita della lana, il marchio tendeva a scomparire. Se c’erano proprietari

di pecore con le stesse iniziali si apponeva il marchio o alla spalla o alla co-

scia, per distinguere gli animali dei vari proprietari.

Figura 57 - Timbro di Giacomo Sciò

Figura 58 - Timbro di Giacomo Sciò, particolare

37

In Figura 57 è riportato il timbro di Giacomo Sciò utilizzato per marcare le

sue pecore. In Figura 58 è riportato un dettaglio del timbro, che mostra le

iniziali SG.

In paese alcuni allevavano le capre. La Forestale, ovvero il Corpo Forestale

dello Stato, vietava di portarle in montagna in quanto le capre mangiano le

foglie delle piante e quindi danneggiano il bosco. Questi animali non forni-

scono lana, bensì latte e carne. Per questo motivo erano poco allevate in

paese. Si allevavano perché la capra è meno signora della pecora. La peco-

ra predilige le erbe del piano, mentre la capra mangia anche le erbe che na-

scono tra i sassi e questi non sono mai mancati a Pereto.

Alcuni proprietari di appezzamenti di terreno, per motivi vari, non deside-

ravano che un gregge brucasse l’erba del loro terreno. All’epoca non esi-

stevamo i recinti, ma una convenzione. Il proprietario metteva una biffa,

ovvero il terreno era biffato. La biffa consisteva in una o più frasche infisse

nel terreno che segnalavano ai pastori di non transitare o stazionare in quel

terreno. In caso di non osservanza del divieto veniva richiesto dal padrone

del terreno un risarcimento.

Secondo le voci dei paesani, il protettore delle pecore è San Pasquale. Non

c’era un ricorrenza particolare da parte dei pastori o della gente del luogo.

Da segnalare che in paese esiste nel rione Aota un dipinto scolorito. I locali

indicano una figura presente nell’affresco come San Pasquale (vedi Figura

59).

Figura 59 - San Pasquale nel rione Aota

Il giorno di Sant’Antonio abate, il 17 gennaio, avviene per tradizione la be-

nedizione degli animali. In passato i pastori di Pereto portavano il proprio

gregge in prossimità della chiesa di Sant’Antonio, situata fuori dell’abitato,

nelle vicinanze del castello. I vari animali, condotti dai loro padroni, rice-

38

vevano la benedizione da uno dei sacerdoti locali, al termine della celebra-

zione svolta preso la chiesa. In Figura 60 è mostrata un’immagine degli an-

ni Settanta, che mostra il sacerdote che benedice un gregge.

Figura 60 - Benedizione delle pecore

Una festa connessa con le pecore è l’Ascensione, considerata la festa dei

pastori. In paese, in questa occasione, i vari rioni preparavano dei falò. Al

calare della notte la gente del rione si radunava intorno al falò e quindi ve-

niva dato fuoco alla catasta di legna. I pastori offrivano ai presenti la giun-

cata. Quando si faceva la prima cottura del latte, si recuperava la cagliata e

la si disponeva in un piatto per offrirla. Vista la fame che c’era, era una

manna per la gente del luogo. Quel giorno non veniva fatto il formaggio.

Il piatto tipico realizzato con la carne di pecora era la pecora al sugo. Il su-

go era preparato per condire le sagne o gli gnocchi. Mentre il piatto sem-

plice erano le bistecche cotte al fuoco. La pecora alla cottora, una ricetta

conosciuta oggi in paese, è stata introdotta di recente.

##Preghiera del pastore

##Fatti strani o incidenti

I pastori forestieri

Oltre ai greggi locali, i pascoli montani del paese erano utilizzati da pecore

forestiere. Greggi provenivano dal Lazio per pascolare sui monti di Pereto,

ovvero vi era una transumanza dalla Campagna romana verso l’Abruzzo.

Ad ogni padrone il Comune assegnava un lotto (posta) su cui pascolare,

dopo il pagamento di una tassa (fida), proporzionale al numero delle pecore

e che andava alle casse comunali.

## Come venivano aggiudicati i pascoli? Con aste con le candele

39

Le greggi arrivavano i primi giorni di giugno. Agli inizi del Novecento il

tragitto veniva fatto a piedi e durava circa tre giorni. Negli anni che segui-

rono i trasferimenti si svolgevano metà con il treno, fino alla stazione di

Oricola - Pereto, metà a piedi, risalendo le montagne di Pereto. A seguire si

utilizzarono autotreni, adattati al trasporto degli ovini.

Qualche giorno prima della partenza del gregge alcuni addetti portavano le

masserizie sul lotto loro assegnato. Raggiunto il posto, realizzavano gli

stazzi, il dormitorio, i mungitoi, la cucina da campo, la dispensa.

Tutte queste realizzazioni servivano a far operare tutti gli addetti che segui-

vano il gregge e per rendere un servizio di “vitto e alloggio”.

Nei giorni successivi arrivava il gregge.

Esistevano due figure particolari tra le persone al seguito della masseria.

- U biscino, un ragazzo (vaglione), che era al seguito del gregge ed ese-

guiva alcune operazioni, tra cui spingere le pecore verso colui che le

doveva mungere.

- U casciarejo, che trasportava tutti i giorni formaggio fresco e ricotta

dallo stazzo a Pereto o Cappadocia per venderli ai negozi del luogo, ai

villeggianti e agli abitanti del luogo. Dopo la mungitura del mattino,

sistemato nelle ceste, forme e ricotte, montava su qualche animale da

soma (somaro, mulo) e si metteva in viaggio alla volta del paese

## rapporti con i locali

## coabitazione negli stessi pascoli

## scesa in paese

A settembre era tempo di migrare e la transumanza verso la Campagna

romana aveva inizio.

Aneddoti

I furti di pecore, o meglio degli agnelli, in tempi in cui la fame era tanta,

erano all'ordine del giorno. Trovare un agnello, nasconderlo sotto la giac-

chetta o in qualche sacco era facile. Quando la fame era forte, era permesso

tutto. Disgraziato chi perdeva l’animale. Di seguito riporto due aneddoti

raccontati in paese relativi a questo tipo di furto.

40

Un affamato del paese seguiva da lontano un gregge. Ad un certo punto

riesce ad arraffare un agnello e lo nasconde sotto la giacca. La madre

dell’agnello sente l’odore del figlio e comincia a belare forte verso il ladro.

Questi si rivolge al pastore gridando: Sta pecora messe magna, vella a levà.

La madre bela sempre più forte per richiamare il figlio e non molla il ladro.

Questi continua a richiamare il pastore per far allontanare questa pecora. Il

pastore si avvicina e con due, tre toccate sulla schina (dei colpi di bastone

sulla groppa dell’animale) lo allontana. La sera, il pastore parlando con il

proprietario delle pecore racconta l’accaduto segnalando che una pecora si

era aizzata contro uno che era passato nei paraggi del gregge. Il pastore

termina il suo racconto dicendo: Issu (riferendosi all’uomo che aveva avu-

to paura della pecora) è proprio stupitu, se missu paura de ‘na pecora. Il

proprietario gli rispose: Conta po’ gli abbacchi. Lu stupitu non è issu, ma si

tu che te si fattu frega ‘n agnello.

Un ladro incallito di pecore viene continuamento ammonito dal prete del

paese, lo invita a smettere con i furti e soprattutto di confessare le sue rube-

rie. Un giorno il ladro si convince a confessarsi. Il prete, vista l’occasione,

comincia una lunga predica al ladro. Il prete lo esorta a non rubare più, di

trovare un lavoro, di procurarsi il cibo in modo onesto, e così via. Mentre

avviene la confessione, sta per avvicinarsi alla chiesa un gregge, possibile

occasione per compiere un altro furto. Il ladro rapidamente si rivolge al

prete dicendo: Zi pre’, sbrigate che sento la campana. Questo per indicare

che stava per perdere un’occasione se la predica fosse continuata ancora.

Anni fa da Francesco Giustini ( Checco ‘e Nello) aveva messo su un grup-

po di capre tra cui c’er un grosso ariete (u zappu). Questo esemplare era

combattivo e protettivo nei confronti delle femmine del suo branco. Non

c’era giorno che Checco ritornando a casa, tornava con qualche livido pro-

dotto dalla cornate dell’animale che non voleva che fossero toccate le ca-

pre. In paese diverse persone avevano visto la aggressività di questo anima-

le. Il padrone fu costretto ad abbatterlo in modo cruento, aiutato da varie

persone.

41

Considerazioni

Oggi i vecchi pastori, quelli ancora viventi, rimangono con la loro espe-

rienza ed i loro ricordi. Due persone di Pereto, Domenico Giustini e Mim-

mo ex coca cola, hanno messo su un allevamento di pecore. I pastori di una

volta, la loro storia è quasi scomparsa.