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PARTE II SCRITTURE E LIBRI NELL’ANTICA MESOPOTAMIA 3 7 - I primi tentativi di decifrazione La lettura delle scritture cuneiformi passò attraverso tre successive fasi, determinate dalla disponibilità dei documenti. Anche le antiche civiltà mesopotamiche, come quella egizia, erano state cancellate dal tempo, senza lasciare traccia. In mancanza di una spedizione napoleonica, le scoperte archeologiche presero avvio relativamente tardi, dopo il 1840. Si conoscevano invece in Europa, sin dal Seicento, alcune sparse testimonianze della scrittura cuneiforme. Come si è visto, la storia degli antichi Imperi orientali abbraccia circa 3.500 anni, periodo lungo il quale si spiega anche l’impiego delle scritture cuneiformi. In questo ambito l’Impero achemenide è un episodio di breve durata; la scrittura persepolitana a sua volta è una scrittura artificiale, strettamente legata a quell’Impero, e ne condivise il destino. Eppure la riscoperta delle civiltà mesopotamiche partì proprio da Persepoli e dalla sua scrittura. La ragione è evidente: le città più antiche, in Mesopotamia, erano state sommerse dalla terra e dalla sabbia, per formare strane collline a forma di tumulo, dette Tell, che sorgevano qua e là nella pianura del Tigri e dell’Eufrate e dalle quali spesso i locali attingevano mattoni per le proprie costruzioni. Le monumentali rovine di Persepoli, in Iran, rimasero invece scoperte, quindi visibili a tutti, anche se nessuno sapeva identificarle correttamente. Ma anche se le rovine delle città mesopotamiche fossero rimaste visibili, ben poche iscrizioni sarebbe stato possibile trovare su di esse: a differenza degli Egizi, Assiri e Babilonesi non avevano infatti l’abitudine di ricoprire di scritte le pareti degli edifici. Le prime descrizioni di Persepoli da parte di viaggiatori occidentali si devono a due diplomatici al servizio di Filippo III di Spagna. Antonio de Gouvea fu a Persepoli nel 1602, e notò delle strane scritture, incomprensibili, perchè “i segni non sono né Persiani, né Arabi né Armeni, né Ebraici, le lingue che si usano nella zona”. Garcia Silva Figueroa, ambasciatore in Persia, fu a Persepoli nel 1618 e ci ha lasciato un breve resoconto del suo viaggio. 1 La Persia in genere non gli piaceva, ma le rovine di Persepoli, che egli identificò grazie alle testimonianze di Plutarco, Diodoro Siculo e Quinto Curzio, lo colpirono molto per la loro bellezza, e per l’eccellente stato di conservazione. In particolare Figueroa descrive un’iscrizione su diaspro nero, da lui osservata, con lettere “integrae et venustae”, diverse da tutte le altre lettere conosciute, triangolari, a forma di piramide o di piccolo obelisco, identiche, ma sempre disposte in modo diverso. Per rappresentare questa scrittura lo stampatore fiammingo impiegò la lettera greca delta D, che ha appunto la forma di triangolo. I primi anni del Seicento videro un notevole afflusso di viaggiatori europei in Persia. Nel 1621 vi giunse Pietro della Valle, che il 13 e il 14 ottobre visitò Persepoli, descrivendola in una lettera di poco posteriore da Shiraz. 2 Della Valle notò che esistevano due tipi di segni, uno a forma di piramide, l’altro a forma di angolo (il segno di separazione tra le parole), sempre uguali, ma diversi nella posizione. Egli intuì anche che la scrittura andava probabilmente da sinistra a destra. Cinque anni dopo, nel 1626, Persepoli fu visitata da un inglese, Thomas Herbert, che non mancò di notare le iscrizioni cuneiformi, “above a dozen lynes of strange characters, very faire and apparent to the eye, but so mysticall, so 1 FIGUEROA GARCIAE SILVA, De rebus Persarum epistula, Antwerp, 1620 2 P. DELLA VALLE, Viaggi di Pietro della Valle .... 1650.

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PARTE II

SCRITTURE E LIBRI NELL’ANTICA MESOPOTAMIA

3 7 - I primi tentativi di decifrazione

La lettura delle scritture cuneiformi passò attraverso tre successive fasi, determinate dalla disponibilità dei documenti. Anche le antiche civiltà mesopotamiche, come quella egizia, erano state cancellate dal tempo, senza lasciare traccia. In mancanza di una spedizione napoleonica, le scoperte archeologiche presero avvio relativamente tardi, dopo il 1840. Si conoscevano invece in Europa, sin dal Seicento, alcune sparse testimonianze della scrittura cuneiforme. Come si è visto, la storia degli antichi Imperi orientali abbraccia circa 3.500 anni, periodo lungo il quale si spiega anche l’impiego delle scritture cuneiformi. In questo ambito l’Impero achemenide è un episodio di breve durata; la scrittura persepolitana a sua volta è una scrittura artificiale, strettamente legata a quell’Impero, e ne condivise il destino. Eppure la riscoperta delle civiltà mesopotamiche partì proprio da Persepoli e dalla sua scrittura. La ragione è evidente: le città più antiche, in Mesopotamia, erano state sommerse dalla terra e dalla sabbia, per formare strane collline a forma di tumulo, dette Tell, che sorgevano qua e là nella pianura del Tigri e dell’Eufrate e dalle quali spesso i locali attingevano mattoni per le proprie costruzioni. Le monumentali rovine di Persepoli, in Iran, rimasero invece scoperte, quindi visibili a tutti, anche se nessuno sapeva identificarle correttamente. Ma anche se le rovine delle città mesopotamiche fossero rimaste visibili, ben poche iscrizioni sarebbe stato possibile trovare su di esse: a differenza degli Egizi, Assiri e Babilonesi non avevano infatti l’abitudine di ricoprire di scritte le pareti degli edifici.

Le prime descrizioni di Persepoli da parte di viaggiatori occidentali si devono a due diplomatici al servizio di Filippo III di Spagna. Antonio de Gouvea fu a Persepoli nel 1602, e notò delle strane scritture, incomprensibili, perchè “i segni non sono né Persiani, né Arabi né Armeni, né Ebraici, le lingue che si usano nella zona”. Garcia Silva Figueroa, ambasciatore in Persia, fu a Persepoli nel 1618 e ci ha lasciato un breve resoconto del suo viaggio.1 La Persia in genere non gli piaceva, ma le rovine di Persepoli, che egli identificò grazie alle testimonianze di Plutarco, Diodoro Siculo e Quinto Curzio, lo colpirono molto per la loro bellezza, e per l’eccellente stato di conservazione. In particolare Figueroa descrive un’iscrizione su diaspro nero, da lui osservata, con lettere “integrae et venustae”, diverse da tutte le altre lettere conosciute, triangolari, a forma di piramide o di piccolo obelisco, identiche, ma sempre disposte in modo diverso. Per rappresentare questa scrittura lo stampatore fiammingo impiegò la lettera greca delta D, che ha appunto la forma di triangolo. I primi anni del Seicento videro un notevole afflusso di viaggiatori europei in Persia. Nel 1621 vi giunse Pietro della Valle, che il 13 e il 14 ottobre visitò Persepoli, descrivendola in una lettera di poco posteriore da Shiraz.2 Della Valle notò che esistevano due tipi di segni, uno a forma di piramide, l’altro a forma di angolo (il segno di separazione tra le parole), sempre uguali, ma diversi nella posizione. Egli intuì anche che la scrittura andava probabilmente da sinistra a destra. Cinque anni dopo, nel 1626, Persepoli fu visitata da un inglese, Thomas Herbert, che non mancò di notare le iscrizioni cuneiformi, “above a dozen lynes of strange characters, very faire and apparent to the eye, but so mysticall, so 1 FIGUEROA GARCIAE SILVA, De rebus Persarum epistula, Antwerp, 1620 2 P. DELLA VALLE, Viaggi di Pietro della Valle .... 1650.

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odly framed, as no Hieroglyphick, no other deep conceit can be more difficultly fancied, more adverse to the intellect”.1 Nel libro di Herbert si trova un’illustrazione delle rovine di Persepoli, ma nessuna riproduzione delle scritture cuneiformi, che quindi furono illustrate per la prima volte in Europa dal libro di Pietro della Valle nel 1657. Una seconda illustrazione fu pubblicata nelle “Philosophical Transactions” del giugno 1693, da disegni realizzati a Persepoli nel 1667 da Samuel Flower, agente dell’East India Company: nella tavola non compare tuttavia un’intera iscrizione, o un frammento, ma una scelta di ventitré segni, presi a caso da varie iscrizioni, e separati da un punto. Chi studiò in seguito questa illustrazione (ad esempio Hyde) ritenne invece che essa riproducesse fedelmente un’iscrizione reale e cercò di decifrarla. Si spiegano così le madornali cantonate in cui incapparono parecchi eruditi negli anni successivi.

Nel 1700 Thomas Hyde, professore a Oxford,2 mise addirittura in dubbio che i segni trovati da Herbert appartenessero a una scrittura. Il libro di Hyde è pieno di errori e di assurdità: egli afferma persino che la sopravvivenza delle iscrizioni persiane è deplorabile, perché farà perdere tempo agli uomini che cercheranno di decifrarle. A suo avviso le iscrizioni cuneiformi non possono essere una scrittura, perché non corrispondono a quanto è noto dell’antica lingua persiana: sono invece una decorazione inventata dall’architetto di Persepoli, il quale voleva vedere quanti diversi motivi si potevano ottenere ripetendo sempre lo stesso segno. E’ curioso che proprio a Hyde si debba il nome con cui si indica questa scrittura: egli parla di “ductuli pyramidales seu cuneiformes”, e il termine “cuneiforme” ebbe la fortuna che conosciamo3.

Negli stessi anni si recarono in Persia anche Chardin e Kaempfer. J. Chardin visitò due volte la Persia, nel 1664-70 e nel 1671-77, e riferì dei suoi viaggi in un’opera riccamente illustrata, nel 1711. Kaempfer visitò Persepoli nel 1686 e pubblicò il suo libro nel 1712, con illustrazioni di qualità inferiore. Entrambi considerarono con attenzione le iscrizioni con i cunei e le riprodussero in modo abbastanza fedele, certo molto meglio dei loro predecessori: Chardin circa cento segni e Kaempfer circa cinquecento; entrambi dedicano circa venti tavole ciascuno a Persepoli. Kaempfer ebbe per primo l’intuizione che le iscrizioni potessero appartenere a diverse tipologie, dato che certi segni erano presenti solo in alcune iscrizioni. Quanto al meccanismo della scrittura, Chardin suppose che fosse alfabetica, Kaempfer che fosse ideografica, come la cinese.

Molto più ricca è l’opera di un altro viaggiatore, l’olandese Cornelis de Bruin, pubblicata nel 1714. De Bruin viaggiò in Oriente dal 1701 al 1708, e visse per due anni in Persia. A Persepoli dedicò non i due giorni di Pietro della Valle, ma ben tre mesi, durante i quali fece molti disegni delle rovine. Nella sua opera ben sessanta tavole raffigurano Persepoli, e in esse sono riprodotte cinque iscrizioni, con circa duemila segni. Anche se i suoi disegni sono spesso imprecisi, la qualità delle tavole e il gran numero di riproduzioni misero per la prima volta a disposizione dei filologi un materiale su cui lavorare.

Il maggior contributo alla conoscenza, in Europa, delle scritture di Persepoli fu dato però da Karsten Niebhur, di cui parleremo più a lungo nei capitoli sulla scrittura geroglifica. Nel corso del suo pluriennale viaggio egli visitò anche Persepoli, e studiò con grande pazienza le iscrizioni. Per leggerle interamente, anche nelle parti più basse, egli fece alcuni scavi, e trascrisse i testi con precisione, per la prima volta secondo un metodo che poteva dirsi scientifico. Niebhur capì anche che i segni cuneiformi appartenevano a tre tipi diversi di scrittura, e riuscì a identificare alcuni gruppi di segni come singoli caratteri. Dimostrò anche in modo sicuro che la scrittura procedeva da sinistra a destra.

Altri documenti, in originale o in copia raggiunsero l’Europa e i suoi musei attraverso le vie più svariate, considerati per lo più curiosità da collezionisti: l’idea che quei segni misteriosi e un po’ cabalistici fossero delle scritture leggibili era ancora assai remota.

1 T. HERBERT, A Description of the Persian Monarchy and other Parts of the greater Asia and Africa, London, 1634, cit. da M. POPE, The Story of Decipherment. From Egyptian hieroglyphs to Maya script, London, Thames and Hudson, 2a ed. riveduta, 1999, p. 86. 2 THOMAS HYDE, Historia religionis veterum Persarum, Oxford, 1770. 3 Secondo altri il primo uso del termine cuneiforme serebbe da ricondurre a Kaempfer.

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La decifrazione della scrittura palmirena da parte dell’abbé Barthélemy nel 1754 e delle iscrizioni sassanidi di Naqs-i-Rustam ad opera di Sacy1 nel 1787 dimostrarono concretamente che era possibile riscoprire testi scritti in lingue dimenticate, e ridare vita alle testimonianze del passato. Le iscrizioni palmirene e sassanidi erano bilingui: Barthélemy e Sacy avevano quindi decifrato dei testi di cui già conoscevano il contenuto, come accadrà per la stele di Rosetta. Nel case delle scritture persepolitane il problema era più complesso, perché le iscrizioni erano sì trilingui, ma in tre lingue tutte sconosciute. Il problema era quindi trovare il punto di partenza, il bandolo della matassa. Un suggerimento prezioso era stato da Leibnitz in una lettera del 1714: se in un’iscrizione bilingue, egli scriveva, noi incontriamo dei nomi propri, è probabile che la pronuncia di questi nomi sia identica nei due testi. I nomi propri si rivelarono in effetti preziosissimi nella decifrazione di tutte le scritture antiche.

Il merito di aver affrontato per primo2 l’impresa va al danese Friedrich Münter, che nel 1800 lesse all’Accademia delle Scienze danese due comunicazioni sulle scritture di Persepoli, pubblicate lo stesso anno e in traduzione tedesca due anni dopo.3 In questi studi, insieme con molti errori, erano contenute alcune supposizioni che si rivelarono esatte: Münter si rese conto che il singolo cuneo obliquo indicava separazione tra le parole, che molte iscrizioni riportavano lo stesso testo in tre lingue diverse (la prima più semplice alfabetica, le altre più complesse: egli pensò all’Avesta, al Pahlavi e al Parsi), che le iscrizioni appartenevano alla dinastia achemenide, la cui lingua doveva essere simile a quella dell’Avesta. Münter riuscì anche a indovinare due lettere della scrittura alfabetica, la a e la b.

Il vero pioniere della filologia antico persiana fu però, negli stessi anni, un oscuro erudito tedesco, Grotefend4. Non sappiamo per quale ragione egli sia stato preso dal desiderio di decifrare il cuneiforme: certo è che nel 1802, quando ancora la lettura dei geroglifici era lontana, egli comunicò le proprie prime intuizioni all’Accademia di Göttingen. Egli aveva a disposizione principalmente le iscrizioni di Persepoli pubblicate da Niebuhr, e il vaso di Caylus di cui parleremo in seguito. La scrittura persepolitana utilizzava i segni cuneiformi, ma per trascrivere una lingua molto diversa dal Sumerico e dall’Akkadico ; soprattutto utilizzava questi segni avendoli trasformati in un alfabeto fonetico vero e proprio, in cui a ogni segno corrispondeva un suono. Era dunque una scrittura ben diversa da quelle impiegate dagli antichi Imperi mesopotamici, relativamente assai più facile da interpretare. Le iscrizioni a disposizione di Grotefend ponevano tuttavia una serie di problemi iniziali, primo fra i quali la direzione secondi cui i segni andavano letti (da destra o da sinistra, dall’alto o dal basso). Studiando il modo con cui i cunei erano incisi, Grotefend concluse che le iscrizioni dovevano essere lette in modo tale che le punte dei cunei verticali guardassero verso il basso, quelle dei cunei orizzontali verso destra, e

1 A. I. SILVESTRE DE SACY, Lettre à M. Millin sur les inscriptions des monumens Persépolitains, « Magasin Encyclopédique », 8, 1803, pp. 438-67. 2 In realtà prima di Münter altri eruditi avevano cercato di decifrare le scritture cuneiformi, ma con risultati molto discutibili, addirittura leggendole da destra a sinistra. O. G. Tychsen, un norvegese diventato professore a Rostock, aveva supposto, negli ultimissimi anni del Settecento, che le scritture appartenessero ai Parti, perché i Parti erano famosi arcieri ed era quindi naturale che usassero segni a forma di freccia ... 3 FRIEDRICH MÜNTER, Versuch über die keilförmigen Inschriften zu Persepolis, 1802. 4 Georg Friedrich Grotefend era nato a Münden, nell’Hannover, nel 1775. Studiò a Göttingen e fu per tutta la vita un insegnante, a Göttingen, a Francoforte, infine Preside del Liceo nell’Hannover. La sua prima opera apparve nel 1799, Commentatio de pasigraphia sive scriptura universali, Göttingen. Pubblicò poi numerosi studi di storia, di linguistica, di numismatica. Il suo primo lavoro sulla scriture cuneiformi fu presentato all’Accademia delle Scienze di Göttingen il 4 settembre 1802, con il titolo Praevia de cuneatis, quas vocant, inscriptionibus Persepolitanis legendis et explicandis relatio. Non fu pubblicato: semplicemente ne apparve un riassunto a opera di T. C. Tychsen, professore di teologia a Göttingen, sul periodico dell’Accademia, “Göttingische Gelehrte Anzeigen”. A questo studio seguirono altre tre relazioni presentate alla stessa Accademia e un lavoro dal titolo Über die Erklärung der Keilschriften, und besonders der Inschriften von Persepolis pubblicato nel 1805 in appendice a un volume di A. H. L. Heeren sull’economia antica, Ideen über die Politik, den Verkehr, und den Handel der vornehmsten Völker der Alten Welt. Le quattro comunicazioni all’Accademia delle Scienze furono pubblicate molto più tardi, nel 1893 (Grotefend era morto nel 1853). Pubblicò anche un lavoro sulle iscrizioni di Behistun: Erläuterung der babylonischen Keilinschriften aus Behistun, Göttingen, 1853.

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l’apertura dei cunei doppi sovrapposti ad angolo ugualmente verso destra. Di conseguenza la scrittura andava letta orizzontalmente, da sinistra verso destra. Comprese inoltre che i singoli cunei diagonali, con la punta in basso a destra andavano interpretati come divisori tra le varie parole (tratto questo caratteristico della scrittura persepolitana). Decise che la scrittura non poteva essere ideografica, perché i segni erano troppo pochi, e non poteva essere sillabica, perché esistevano parole formate anche da dieci segni, e non era possibile pensare a parole formate da dieci sillabe: dunque doveva essere alfabetica, e il fatto che i segni fossero circa quaranta poteva spiegarsi con la presenza di vocali corte o lunghe (quest’ultima supposizione era inesatta). Ebbe infine la geniale intuizione, ispirata dai testi sassanidi decifrati da Sacy, che le iscrizioni fossero documenti ufficiali, le cui prime parole riportavano verisimilmente in nome del re, i suoi titoli e la sua genealogia: c’era dunque da aspettarsi che all’inizio di ogni documento ricorresse frequentemente la parola “re”, col nome del sovrano e con quello di suo padre e di suo nonno. Prese allora in considerazione due iscrizioni provenienti da Persepoli e pubblicate da Niebhur, facendo una scoperta che si rivelò fondamentale. Trascriviamo qui le parole delle due iscrizioni, in colonna seguite dalla traslitterazione moderna (le ultime tre parole dell’iscrizione I, che naturalmente Grotefend non prese in considerazione, significano “costruì questo palazzo”).1

1 - da-a-ri-y-va-u-σ◊ (Dario)

2 - x-s◊-a-y-Τ-i-y (re)

3 - va-z-ra-ka (grande)

4 - x-σ◊-a-y-Τ-i-y (re)

5 - x-σ◊-a-y-Τ-i-y-a-na-a-ma (dei re)

6 - x-σ◊-a-y-Τ-i-y (re)

7 - da-h-y-u-na-a-ma (delle provincie)

8 - vi-i-σ◊-ta-a-s-p-h-y-a (di Hystaspes)

9 - p-u-ç (figlio)

10 - h-x-a-ma-ni-i-σ◊-i-y (l’Achemenide)

11 -

12 -

13 -

1 - x-σ◊-y-a-rai-s-a

2 - x-σ◊-a-y-Τ-i-y

3 - va-z-ra-ka

4 - x-σ◊-a-y-Τ-i-y

1 Mentre per le parole akkadiche abbiamo usato caratteri Neo assiri (RD – Akkadian 1, disegnato nel 1988 da R. J. Dumbrill), per l’alfabeto persepolitano usiamo una particolare serie di caratteri (RK – Persian Cuneiform), bianchi all’interno, disegnati in questo modo per imitare le iscrizioni su pietra tipiche di questa scrittura.

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5 - x-σ◊-a-y-Τ-i-y-a-na-a-ma

6 - da-a-ri-y-va-u-σ◊

7 - x-σ◊-a-y-Τ-i-y-h-y-a

8 - p-u-ç

9 - h-x-a-ma-ni-i-σ◊-i-y

Come si è visto, Grotefend poteva tranquillamente separare le parole, grazie ai cunei divisori. Gli fu facile notare che alcune parole ricorrevano in entrambe le iscrizioni: per l’esattezza: I/1 = II/6, I/2 = I/4 = I/5 (inizio) = I/6 = II/2 = II/4 = II/7(inizio), I/3 = II/3, I/9 = II/8. In particolare la straordinaria frequenza della parola I/2 lo indusse a pensare che essa indicasse la parola re. Immaginò allora che la formula della prima iscrizione potesse essere: X – re – (?) – re – dei re – re – (?) – di Y – figlio e quella della seconda Z – re – (?) – re – dei re – di X – re – figlio. Il re della seconda iscrizione era cioè figlio del re della prima. Balzava però agli occhi un’anomalia: Z re era figlio di X re, il quale era figlio di Y non definito re. Riferendosi agli storici greci, Grotefend poteva pensare a due possibilità: Cambise I, re, figlio di Ciro I, figlio di Teispes, che era un vassallo dell’Impero Assiro, e Serse, re, figlio di re Dario, il quale non era figlio di un re, ma di un satrapo, Hystaspes. La prima ipotesi poteva essere scartata, perché i due nomi Cambise e Ciro avevano una lunghezza molto diversa e cominciavano con la stessa lettera, mentre i nomi presenti sulle iscrizioni cominciavano con lettere diverse e avevano una lunghezza simile. Grotefend optò quindi per la seconda ipotesi, che si rivelò essere giusta. Ma i segni alfabetici non si riferivano al nome universalmente noto di questi re, pervenutoci attraverso una approssimativa traslitterazione in greco. I nomi originali erano dati però da altri testi, ad esempio dallo Zend-Avesta, già noto da tempo alla cultura europea attraverso l’opera di Anquetil du Perron. Il nome di Dario, I/1 era formato da sette lettere, che Grotefend interpretò come d-a-r-h-e-u-s, quello di Serse, II/1 da altrettante lettere, che egli lesse kh-sch-h-e-r-sch-e. Il nome di Hystaspes, II/7 fu letto da Grotefend g-o-s-t-a-s-p. La parola re, I/2 ecc. fu letta kh-sch-e-h-i-o-h. In quest’ultimo caso, delle sette lettere che componevano la parola, cinque erano note dai nomi di Dario e soprattutto di Serse. Mancavano solo due

lettere, che non ricorrevano in nessuno di quei nomi, e Grotefend suppose che esse fossero rispettivamente i e o: sappiamo invece che la prima corrisponde a un t aspirata Τ e la seconda a una i. Fu uno degli errori più gravi di Grotefend. Le letture odierne, come si potrà vedere dalla trascrizione sopra riportata, sono molto diverse. In seguito Grotefend riuscì a leggere anche il nome di Ciro. Queste interpretazioni erano in buona parte inesatte, ma il principio era giusto, e Grotefend si trovò ad aver chiarito il valore di almeno una dozzina di segni. Soprattutto aveva dimostrato oltre ogni dubbio che il cuneiforme era una scrittura, non una semplice serie di segni decorativi o cabalistici. Per contro Grotefend non riuscì a individuare l’alfabeto completo e a rendere le sue scoperte uno strumento utilizzabile per la lettura delle iscrizioni. Inoltre era costretto a supporre troppe volte un doppio valore per un segno o un doppio segno per lo stesso valore. Le sue prime intuizioni furono senza dubbio geniali; ma negli anni successivi egli le sopravvalutò, e cercò con una certa insistenza di attribuirsi meriti che non gli competevano, ad esempio scendendo in polemica con Lassen.

Negli anni che seguirono le prime scoperte di Grotefend le ricerche proseguirono, con risultati alterni. In Francia Saint Martin pretese di correggere Grotefend, ma le sue argomentazioni erano in larga parte insostenibili. Molto più proficui furono gli studi del

danese Rasmus Christian Rask, il quale nel 1826 attribuì al segno il valore m e al

segno il valore n. Il primo era stato letto da Grotefend come o, il secondo come tsch.

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Queste due lettere sono importanti perché compaiono nel titolo dinastico dei Re persiani, i quali si definivano Achemenidi: I/10 e II/9 e perché permettevano di leggere l’espressione

re dei re, tipico appellativo dei sovrani di Persia sino a tempi moderni (shahinshah) -x-σ◊-a-y-Τ-i-y x-σ◊-a-y-Τ-i-y-a-na-a-ma , in cui è evidente la forma –anam per il genitivo plurale. Ma –anam è anche la forma del genitivo plurale nel sanscrito. Già qualche anno prima sir William Jones aveva sostenuto l’idea che greco, latino e sanscrito appartenessero alla stessa famiglia linguistica, che egli definiva “Hamitic” e che noi oggi chiamiamo indo-europea. Bopp nel 1816 aveva pubblicato uno studio in cui si esaminavano le somiglianze tra sistema verbale latino, greco, persiano, tedesco e sanscrito. Noi sappiamo oggi che in Persia, prima dell’arrivo di Alessandro Magno, si parlavano due lingue, l’Antico Persiano e l’Avesta. La prima era la lingua della corte, usata prevalentemente nel sud, e trascritta con caratteri cuneiformi alfabetici; la seconda era parlata a nord-est dagli zoroastriani, ed era trasmessa solo oralmente. In età sassanide i poemi sacri degli zoroastriani furono trascritti, ma nella scrittura allora in uso, il Medio Persiano. Questa scrittura, detta Zend, fu pubblicata in Europa da Anquetil du Perron nel 1771. La scoperta di Rask non solo convalidava le tesi di Bopp, ma dimostrava che il sanscrito doveva necessariamente essere considerato il termine di confronto in ogni seria decifrazione del Persepolitano.1

Le idee di Rask trovarono una conferma nelle ricerche di Christian Lassen, professore a Bonn, che in un libro pubblicato nel 1836 applicò estesamente i metodi scientifici e della filologia comparata alla decifrazione del Persepolitano. Lassen riuscì a stabilire con precisione i valori fonetici di parecchie lettere, e affrontò per primo il problema dei segni plurimi per la stessa consonante, notando che questa variazione era data dalla lettera che seguiva. Lassen cercò anche di interpretare una lunga iscrizione copiata da Niebuhr, e decifrò correttamente molti nomi geografici. Ma nel complesso i suoi tentativi di traduzione furono infelici. Lassen continuò per molti anni a lavorare sulla scrittura persepolitana, limando e correggendo le proprie affermazioni. Altri contributi furono portati negli stessi anni da studiosi seri, come Beer, Burnouf, Jacquet, ma senza che si giungesse mai a leggere con sicurezza se non qualche singola parola. Il problema era costituito dalla scarsità dei testi disponibili. Mentre intorno al 1840 si conoscevano già in Europa centinaia, forse migliaia di testi egizi, i soli testi noti in scrittura cuneiforme erano ancora quelli copiati da Niebuhr cinquant’anni prima, senza che nessun nuovo documento fosse nel frattempo emerso alla luce.

In realtà un lungo testo in scrittura persepolitana era noto da tempo, e non aveva bisogno di essere scavato e riportato alla luce, dal momento che di luce ne riceveva anche troppa, da più di duemila anni. 8 - La decifrazione del Persepolitano

Behistun (o Bisitun) è una località situata in Iran, nella provincia di Kermanshah. Non lontano dal villaggio, ai piedi di una ripida e alta montagna (c. 1300 m. di altezza) al termine di una catena, sgorga una sorgente di acqua cristallina, che forma un laghetto e poi un ruscello che scende nella pianura. In questo luogo detto appunto “luogo degli dei”, “baga-stana”, passava, tra il laghetto e il monte, l’antica strada carovaniera da Ecbatana a Babilonia, qui si fermavano viaggiatori e eserciti per attingere acqua e qui nel 520 a. C. Dario fece incidere su una parete di roccia verticale, a circa 100 metri di altezza rispetto alla sorgente, e a 30 metri dal più alto punto accessibile della montagna, un enorme bassorilievo (alto 3 metri e largo più di 5) per commemorare le proprie gesta. Dario, barbuto, con la 1 Ricordiamo che la scrittura persepolitana trascrive la lingua antico persiana o achemenide. Da qaesta deriva il Medio Persiano, che comprende il Pahlavi Arsacide o Partico parlato dai Parti, il Sassanide, e il Pahlavi librario degli Zoroastriani, in cui furono tradotte parti dell’Avesta. Il linguaggio originario dell’Avesta, detto Zend, parente dell’Antico Persiano, è molto più antico, e risale forse all’epoca di Zoroastro (VII sec. a. C.).

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corona persiana, ha di fronte a sé legati i nemici sconfitti, e ai propri piedi il più temibile di tutti, il mago Gaumata, che alla morte di Cambise aveva usurpato il trono di Persia1. Per rendere più certa la propria fama, Dario fece poi incidere accanto al bassorilievo una lunga iscrizione, in cui si raccontano queste guerre. Perché tutti potessero leggerla, l’iscrizione era in tre diverse lingue.

A destra del bassorilievo, su quattro pannelli, per un totale di 323 righe, fu inciso il

testo nella lingua parlata a Susa, l’Elamitico, probabilmente nello stesso anno 520. Qualche mese dopo, nel 519, su due pareti ad angolo, sporgenti a sinistra del bassorilievo, fu inciso su un’unica colonna di 112 righe il testo in Babilonese, lingua ancora usata in Mesopotamia in ambito scientifico e religioso. Più tardi, nello stesso anno, proprio sotto il bassorilievo, fu aggiunto il testo in Antico Persiano, lingua del sovrano e della corte, in quattro riquadri e mezzo, ciascuno alto più di tre metri e largo quasi due. La prima colonna contiene 96 righe, la seconda 98, la terza 92, la quarta 92 e la quinta 36, per un totale di 414 fitte righe, e circa 15.000 segni. In quest’ultimo testo sono presenti dei paragrafi2 che mancano negli altri 1 Il re è in piedi, col braccio alzato e col piede su Gaumata, agonizzante. Di fronte a lui, legati, i capi sconfitti delle varie rivolte: in ordine, Atrina, di Susa, Nidintu-Bel, di Babilonia, Fravartish (Phraortes), della Media, Martiza, di Susa, Citrantakhma, di Sagartia, Vahyazdata, che egli pure si spacciò per Smerdis, figlio di Cambise, Arakha, di Babilonia, Frada, di Margiana, e infine Skunkha, Scita, col cappello a punta. Dietro Dario sono i suoi portatori di arco, Intaphrenes, e di lancia, Gobryas. Sopra si vede la figura del dio Ahuramazda, al cui volere il re attribuisce le proprie vittorie. I nemici sono otto, più Gaumata. Il decimo nemico, Shrunka, fu aggiunto più tardi. 2 Sono i paragrafi da LXX a LXXVI nell’edizione del 1902 e corrispondono alle righe 87 (parte) – 92 della quarta colonna e all’intera quinta colonna.

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testi. Il paragrafo LXX, purtroppo assai mal conservato e difficilmente leggibile, ha fatto supporre ad alcuni che Dario intendesse attribuirsi il merito di aver inventato il nuovo tipo di scrittura. Nel 518 fu aggiunto al bassorilievo il ritratto di un decimo nemico, Shrunka, e per fargli posto fu necessario distruggere una parte della prima colonna (quasi un metro) del testo in Elamitico. L’intero testo fu allora copiato su tre colonne a sinistra del testo in Persiano, per un totale di 260 righe, e le vecchie colonne furono cancellate (rimase però una traccia della scrittura). Probabilmente la quinta colonna in Persiano, che riassume le imprese di Dario, è contemporanea a questa operazione. Nel testo babilonese sono presenti i numeri dei nemici uccisi o catturati, che mancano negli altri due testi. Anche nel bassorilievo centrale sono presenti iscrizioni nelle tre lingue, che ci danno il nome e la genealogia dei quattordici personaggi raffigurati. I caratteri sono tutti cuneiformi. Curiosamente, rilievo e scritture furono poste così in alto perché fossero ben visibili e perché nessuno potesse danneggiarle: in realtà, per la sua particolare collocazione, il testo risulta completamente illeggibile per chi rimane ai piedi della montagna. Le dimensioni del complesso sono impressionanti: 30 metri di altezza per quasi 50 di larghezza1. Non si precisano gli anni degli avvenimenti narrati, mentre si riportano accuratamente i nomi dei mesi. Da altre fonti sappiamo comunque che Cambise e Gaumata morirono nel 521 a. C., e che da quell’anno comincia il regno di Dario: di qui la datazione sopra esposta.

Con la caduta dell’impero achemenide, il senso dell’opera andò perso. Molti storici e viaggiatori, la descrissero, ma senza più conoscerne il significato. Già intorno al 400 a. C. Ctesia di Cnido afferma che la scultura era stata dedicata dalla regina Semiramide al dio supremo, Zeus. Anche Diodoro parla di “Bagistanon”, e riferisce l’opera alla regina Semiramide; dice inoltre che Alessandro l’avrebbe vista andando verso Ecbatana. Tacito afferma (cosa confermata da recenti ricerche archeologiche) che ai piedi del monte c’era un altare dedicato a Ercole. Una leggenda, ripresa poi dal poeta Firdusi, attribuì la scultura a un certo architetto Farhad, innamorato infelice della moglie del re Khusrau II (inizi del VII secolo d. C.). Nel X secolo il viaggiatore Ibn Hauqual pensò che il bassorilievo rappresentasse un maestro di fronte ai suoi allievi (barbuti, con una corda al collo e con le mani legate dietro la schiena !) e che l’arco fosse una frusta usata per punirli. Alla fine del Cinquecento il diplomatico inglese Robert Sherley, al servizio dell’Impero, fu incaricato di una missione presso Shah Abbas; il francese Abel Pison, che faceva parte del suo seguito, vide il monumento e lo descrisse come l’ascensione al cielo di Cristo: Ahuramazda fu interpretato come simbolo di Dio e le figure (tredici: il Re, i suoi due ufficiali, e i dieci prigionieri – evidentemente non fu visto o non fu preso in considerazione il povero Gaumata) come Cristo coi dodici apostoli. Ambrogio Bembo, nella seconda metà del Seicento, ne fece un’eccellente descrizione, e ne parlò anche Otter,2 che la vide circa mezzo secolo dopo. Pessimo è invece il disegno che ne fece Olivier, negli ultimissimi anni del Settecento,3 e che fu ripreso da Hoeck.4 Ancora agli inizi dell’Ottocento l’interpretazione di Pinson fu fatta propria da un altro viaggiatore francese, Ange Gardane. Nel 1818 infine l’inglese Robert Ker Porter, che fu in Oriente dal 1817 al 1820, e a cui si deve il miglior disegno sino a quel momento eseguito delle sculture, suppose che esse rappresentassero le dieci tribù di Israele di fronte a un re degli Assiri o dei Medi, identificato con Shalmaneser, e che l’uomo col “cappello da asino” rappresentasse la tribù di Levi. Più o meno negli stessi anni il monumento fu visitato e descritto anche da Rich5.

1 Dario fece fare poi copie delle iscrizioni, che spedì nella varie parti del regno; alcuni frammenti sono stati ritrovati. 2 OTTER, Voyage en Turquie et en Perse, Paris, 1748. 3 OLIVIER, Voyage dans l’Empire Othomane, Paris, An 9. 4 HOECK, Veteris Mediae et Persiae Monumenta, Gottingen, 1818. 5 Claudius James Rich (1787-1820) mostrò sin da giovane un particolare interesse per le lingue orientali. Dipendente della East India Company, fu inviato a Bombay, dove sposò la figlia del Governatore. Fu nominato nel 1808 residente della Compagnia a Baghdad, ove rimase per tutto il resto della breve vita, alternando ai propri compiti diplomatici e commerciali l’interesse per l’archeologia. La sua raccolta di antichità e di manoscritti divenne il fondamento della sezione mesopotamica del British Museum.

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Ma l’iscrizione di Behistun è soprattutto legata al nome di Henry Creswicke Rawlinson, console inglese a Bagdad e appassionato archeologo. Leggendo le memorie di Rawlinson, si è incerti se ammirare di più il suo acume come decifratore o il suo coraggio come alpinista e scalatore. La sua vita avventurosa, così tipica del periodo vittoriano, merita di essere raccontata con una certa ampiezza, anche perché scandisce tutte le tappe del cammino difficile attraverso cui si giunse a leggere le scritture Mesopotamiche. Egli nacque nell’Oxfordshire nel 1810 da una ricca e numerosa famiglia. Studiò privatamente le lingue orientali, entrò nell’esercito della East India Company, e partì per l’India nel luglio 1827, a diciassette anni. Avrebbe rivisto l’Inghilterra solo nel 1849. Per qualche tempo fece la vita di guarnigione, eccellendo negli esercizi fisici (le sue capacità atletiche gli furono in seguito assai preziose), ma dedicandosi anche agli studi, in particolare delle lingue indiane e persiane. Nel 1833 fu inviato in Persia e nel 1834 giunse a Shiraz. Qui ebbe l’occasione per la prima volta di vedere le rovine di Persepoli. Fu poi a Isphahan e a Tabriz, col compito di istruire le truppe dello Shah. Nel 1835 lo Shah lo mandò a Kermanshah, sempre come istruttore. Kermanshah era sulla strada principale da Tehran a Baghdad, in una regione anticamente assai frequentata, e per questo ricca di incisioni sulla roccia. Rawlinson visitò Hamadan, l’antica Ecbatana capitale dei Medi, e fece una digressione per osservare, ai piedi del monte Elwand (o Eluand), in una gola boscosa, un’iscrizione antica di cui altri viaggiatori avevano già parlato. Sulla roccia, in due pannelli adiacenti, Dario e Serse avevano fatto incidere i loro nomi, la loro genealogia e le loro gesta, in scrittura cuneiforme e nelle tre lingue dell’Impero. Il luogo era conosciuto come Ganj Nameh, “racconti del tesoro”, perché gli indigeni ritenevano le iscrizioni una chiave segreta per giungere a un tesoro nascosto da Alessandro Magno. Una copia delle iscrizioni era stata eseguita recentemente, nel 1827, per conto di Friedrich Edward Schulz, lo studioso tedesco che esplorò l’alto Iran e la regione del lago Van alla ricerca di iscrizioni e di antichità. Schulz era stato ucciso dai Curdi nel 1829, e la copia delle iscrizioni di Elwand finì nelle mani di Saint-Martin. Questi pensava di pubblicarle, ma morì a sua volta di colera nel 1832, lasciando le sue carte a Eugène Burnouf, successore di Champollion all’Académie des Inscriptions e alla cattedra di sanscrito del Collège de France1. Rawlinson copiò accuratamente le iscrizioni, ignorando che a migliaia di chilometri di distanza Burnouf stava lavorando alla loro pubblicazione. Fu questo il suo primo contatto con le antiche scritture della Persia. Più tardi, quando affrontò la decifrazione delle scritte di Behistun, le copie prese a Elwand si rivelarono preziose. Rawlinson giunse a Kermanshah nell’aprile 1835, e vi rimase parecchi mesi, impegnato in azioni militari e diplomatiche. Trovò tuttavia il tempo per visitare le iscrizioni sassanidi di Taq-i-Bustan, ma non per recarsi a Behistun, di cui tuttavia sentì parlare per la prima volta. Gli impegni militari lo portarono in molti luoghi della Persia, ad esempio a Susa, ma gli permisero anche di dedicarsi allo studio dei testi cuneiformi che aveva nel frattempo copiato. Resosi conto che questi testi erano però molto scarsi, decise di recarsi a Behistun e di copiare quelle iscrizioni. Vi arrivò all’inizio dell’estate del 1836. Come si è visto, le iscrizioni erano state in parte copiate da Robert Ker Porter qualche anno prima. Ecco come questi descrive la sua impresa:

I could not resist the impulse to examine it nearer [...] To approach it at all, was a business of difficulty and danger; however, after much scrambling and climbing, I at last got pretty far up the rock [...] To transcribe the whole of the tablets, could I have drawn myself up sufficiently high on the rock to be within sight of them, would have occupied me more than a month. At no time can it ever be attempted without great personal risk; yet I do no doubt that some bracket on the surface might be found, to admit a tolerably secure seat for some future traveller, who has ardour ant time, to accomplish so desirable a purpose.2

1 Burnouf pubblicò le due iscrizioni in un Mémoire sur deux Inscriptions Cunéiformes trouvés près d’Hamadan nel 1836, accompagnate dall’alfabeto persepolitano secondo Saint Martin, e da una propria proposta di alfabeto, in cui trenta lettere erano ancora incerte. 2 R. KER PORTER, Travels in Georgia, Persia, Armenia, ancient Babylonia, 2 vv., London, 1822, cit. in LESLEY ADKINS, Empires of the Plain. Henry Rawlinson and the Lost Languages of Babylon, London Harper Collins, 2003, pp. 76-77; a questo libro piacevolissimo e puntuale siamo debitori di quasi tutte le nostre informazioni sulla vita di Rawlinson e sulla storia delle sue scoperte.

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Nel luglio 1840 una spedizione francese, di cui faceva parte Eugène Flandin, sarà a

Behistun per copiare le iscrizioni, senza sapere di essere stata preceduta da Rawlinson. La relazione di Flandin è ancora più drammatica di quella di Ker Porter. Dopo aver tentato invano di raggiungere la piattaforma con l’aiuto di due scale, Flandin decise di arrampicarsi: si tolse le scarpe, e con le mani, approfittando di alcune fessure nella roccia, e delle sue irregolarità, riuscì alla fine, senza fiato, con mani e piedi sanguinanti, a raggiungere la piattaforma; qui scoprì con disappunto che le iscrizioni erano troppo alte, e non era possibile osservarne la parte superiore; dovette così rassegnarsi a scendere, impresa che gli parve ancora più difficile e faticosa, una ginnastica da lucertole, per raggiungere alfine il piano, ferito dalle pietre aguzze, lacerato e insanguinato. Accostate a queste descrizioni, suonano davvero singolari le semplici parole con cui Rawlinson, qualche anno dopo, raccontò la sua prima esplorazione di Behistun:

Notwithstanding that a French antiquarian commission in Persia described it a few years back to be impossible to copy the Behistun inscriptions, I certainly do not consider it any great feat in climbing to ascend to the spot where the inscription occur. When I was living in Kermanshah fifteen years ago, and was somewhat more active than I am at present, I used frequently to scale the rock three or four times a day without the aid of a rope or ladder: without any assistance, in fact, whatever.1 Non sappiamo con esattezza quanta parte delle iscrizioni egli riuscì a copiare in

questa prima spedizione: probabilmente l’inizio del testo Persiano, il più accessibile dalla piattaforma. Si tenga comunque presente che la piattaforma era posta a circa 30 metri di altezza in cima a una parete a strapiombo, e che era larga dai 30 ai 50 centimetri, sormontata dalle iscrizioni a loro volta verticali e alte tre metri. Nei mesi successivi, avendo ormai a disposizione una buona quantità di materiale, Rawlinson si mise al lavoro e in poco tempo giunse agli stessi risultati raggiunti da Grotefend qualche anno prima. Si ricordi che Rawlinson, vivendo on Oriente, non conosceva ancora, in quel momento, i lavori europei.

L’incipit del testo persepolitano è il seguente (un asterisco * segnala le parole che non erano presenti nelle iscrizioni di Grotefend):

* a-da-ma (sono)

da-a-ri-y-va-u-σ◊ (Dario)

x-s◊-a-y-Τ-i-y (re)

va-z-ra-ka (grande)

x-s◊-a-y-Τ-i-y (re)

x-σ◊-a-y-Τ-i-y-a-na-a-ma (dei re)

x-s◊-a-y-Τ-i-y (re)

* p-a-ra-s-i-y (di Persia) x-s◊-a-y-Τ-i-y (re)

* da-h-y-u-na-a-ma (delle province)

vi-i-σ◊-ta-a-s-p-h-y-a (di Hystaspes)

p-u-ç (figlio)

1 L. ADKINS, op. cit., pp. 79-80.

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* a-ra-s-a-ma-h-y-a (di Arsames)

* na-p-a (nipote)

h-x-a-ma-ni-i-σ◊-i-y (l’Achemenide) Come si vede, questo incipit è assai simile alla prima delle due iscrizioni

esaminate da Grotefend. Rawlinson non era facilitato dalla presenza dei due nomi di sovrani, uno figlio dell’altro, chiave di volta nella decifrazione dello studioso tedesco. Aveva però a disposizione le due iscrizioni di Elwend (la seconda delle quali, come si è visto, appartenente a Serse), che Grotefend ignorava. Non stupisce quindi che il loro cammino sia stato agli inizi analogo. Operando con lo stesso metodo, e partendo dalla parola più ricorrente, “re”, Rawlinson giunse in breve tempo a definire un elenco di valori fonetici per i singoli segni. In compenso i testi molto più ampi che egli possedeva gli permisero di leggere un maggior numero di nomi propri e di fare in enormi progressi. Qualche mese dopo a Teheran poté esaminare i lavori degli studiosi europei, e così commentò:

I found the Cuneiform alphabets and translations which had been adopted in Germany and France, but far from deriving any assistance from either of these sources, I could not doubt that my own knowledge of the character, verified by its application to many names which had not come under the observation of Grotefend and Saint Martin, was much in advance of their respective, and in some measure conflicting, system of interpretation [...] As there were many letters, however, regarding which I was still in doubt, and as I had made very little progress in the language of the inscriptions, I deferred the announcement of my discoveries, until I was in a better condition to turn them to account. 1 Le esitazioni di Rawlinson non devono meravigliare. Un conto era traslitterare le

iscrizioni e trovare il corretto valore fonetico per ciascun segno, lavoro di analisi e di intelligenza, molto simile in fondo alla soluzione di problemi enigmistici, un altro era comprendere la lingua a cui quei segni e quei suoni corrispondevano, e tradurla. Rawlinson non conosceva né il sanscrito né la lingua dell’Avesta, e non poteva quindi fare molti progressi. Per contro capì che era necessario lavorare su una quantità di testi ancor più ampia, e lungo tutto l’anno 1837, compatibilmente con gli impegni militari, si recò spessissimo a Behistun, sino a mettere da parte un considerevole bottino: tutta la prima colonna, l’inizio della seconda, dieci paragrafi della terza e quattro iscrizioni del bassorilievo, circa duecento righe di scrittura. Non sappiamo come egli sia riuscito a copiare iscrizioni che si trovavano molto più in alto della piattaforma, a due o tre metri in verticale dalla sua testa: egli non parla né di scale né di cannocchiali. Nel mese di settembre, promosso maggiore, dovette lasciare Kermanshah per Tehran. Riuscì comunque a continuare negli studi e nel gennaio 1838 inviò alla Royal Asiatic Society di Londra la traduzione dei primi due paragrafi di Behistun. Questo primo tentativo destò in Europa grande entusiasmo. La Royal Asiatic Society e la Société Asiatique di Parigi lo nominarono membro corrispondente, ed espressero pubblicamente la speranza che le scoperte di Rawlinson permettessero di scoprire una nuova pagina di storia. Grazie a questo primo contatto, Rawlinson avviò una corrispondenza con Burnouf, e più tardi con Lassen, che gli inviarono i propri lavori. Come riconobbe più tardi, l’incontro con Royal Asiatic Society e con gli eruditi europei gli permise di trasformare una passione da dilettante in una serie di studi seri e impegnati, condotti con assoluto rigore scientifico. Rawlinson si rese anche conto delle affinità tra la lingua che cercava di comprendere e la scrittura dell’Avesta (che egli definiva Zend) e si mise a studiarla con crescente impegno. Nei mesi successivi, sempre per ragioni politiche e militari, viaggiò nelle regioni più inesplorate della Persia, soprattutto nel Kurdistan, approfittando di queste spedizioni per ricercare testimonianze archeologiche. Si arrampicò sino alla cima del monte Kal-i Shin per copiare una stele di cui

1 L. ADKINS, op. cit., pp. 81-82.

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aveva sentito parlare e che i Curdi consideravano oggetto magico: giunto in cima alla montagna, tra la neve e il ghiaccio, con una temperatura di parecchi gradi sotto lo zero, poté studiare la stele alta più di un metro e mezzo, e ricoperta su una faccia da 42 righe di iscrizioni cuneiformi. Le condizioni atmosferiche proibitive gli impedirono tuttavia di copiare il testo, che però Schulz aveva già copiato poco prima di essere ucciso: sappiamo ora che la stele fu fatta erigere da Ishpuini, re di Urartu, e che il testo è bilingue, in Assiro e in lingua di Urartu, anche questa trascritta con segni cuneiformi. Un lungo resoconto di questo viaggio fu pubblicato dalla Geographical Society nel 1841.1 Con questa spedizione e con questi studi finì la prima parte dell’attività scientifica di Rawlinson. Il 26 ottobre 1839 egli partì per Bombay e da lì, nel febbraio dell’anno successivo per Kandahar: era scoppiata la prima guerra dell’Afghanistan. La guerra durò quasi tre anni, e gli Inglesi incontrarono molte difficoltà. Rawlinson, che aveva compiti assai importanti, militari e amministrativi, rischiò più volte la vita. Ma paradossalmente il pericolo più grande capitò sulla sua testa al termine della guerra, nel dicembre 1842. Durante la ritirata dell’esercito inglese da Kandahar, il battello che trasportava tutti i documenti amministrativi di Rawlinson prese fuoco. Rawlinson, Political Agent durante la campagna, era responsabile delle spese, e in assenza di una rendicontazione avrebbe dovuto rimborsare tutte le somme spese, più di un milione di sterline. Rawlinson si ritirò allora ad Agra e per tre mesi, dal marzo 1843, si dedicò alla ricostruzione dei conti. Scrisse ai mercanti di Kandahar, per chiedere duplicati delle fatture, e a memoria rimise a posto tutta la contabilità della propria amministrazione. L’episodio è curioso, e merita in sé di essere citato. Ma ci offre anche due indicazioni preziose. La prima riguarda l’intelligenza e le capacità mnemmoniche di Rawlinson, che erano probabilmente eccezionali: non stupisce allora che una persona capace di rimettere insieme a memoria tutta la contabilità di una campagna militare durata quasi tre anni, fosse capace di usare le stesse capacità intellettuali nella decifrazione di una scrittura antica. La seconda considerazione riguarda i rapporti di Rawlinson con i locali. In genere gli Inglesi non erano amati in Oriente, anche perché spesso guardavano dall’alto le culture dei paesi conquistati. Rawlinson parlava invece le lingue e i dialetti locali, e conosceva cose della storia orientale che gli stessi indigeni avevano dimenticato. Questo, insieme con le sue innate doti di diplomazia, gli conferì sempre nei luoghi in cui visse uno straordinario prestigio. Molti anni dopo, il 2 giugno 1860, il “Times”, riferì l’opinione di alcuni viaggiatori in Oriente:

one Englishman had left such a name among every class of society that a letter from him would have been a passport throughout the whole of Persia. That gentleman was major Rawlinson, of Baghdad, who was supposed to be gifted with almost supernatural powers, as he could dispute with the Mollahs of Ispahan, could write and speak the Persian tongue, was deeply skilled in the poetical learning of that country... There was no European who had made such an impression on the population of Persia, and that not merely on the learned societies or the higher and polished societies, which had been aptly called ‘the French of the East’, but his influence extended to the wild chiefs of Koordistan, who respected him as the best shot and the boldest rider they has ever seen.2 Risolto il problema dei fondi, Rawlinson raccolse il frutto delle sue fatiche.

Ottenne la Companionship of the Bath, e gli fu offerto il posto, assai elevato e ben retribuito, di Residente della Compagnia in Nepal; ma egli chiese invece di essere nominato Political Agent a Baghdad, posto assai meno importante, ma che gli permetteva di ritornare ai suoi studi. Giunse a Baghdad il 6 dicembre 1843, più di quattro anni dopo esserne partito. Baghdad, allora sotto il dominio turco, era una città con molti problemi: male amministrata, era insicura e soggetta a epidemie, ben lontana ormai dai fasti del periodo in cui era stata capitale del califfato ommayade, col nome di Madinat al-Salam, città della pace. Ma Rawlinson, che l’anno successivo fu anche nominato Console, aveva a

1 H. C. RAWLINSON, Notes on a Journey from Tabrìz, through Persian Kurdistàn, to the ruins of Takhti-Soleïmàn, and from thence by Zeniàn and Tàrom, to Gìlan, in October and November, 1838; with a Memoir on the site of Atropatenian Ecbatana, «Journal of the Royal Geographical Society», n. 10, 1841. 2 L. ADKINS, op. cit., pp. 110-11.

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disposizione uno splendido palazzo, un reparto di soldati, tra cui una guardia d’onore che lo accompagnava con rulli di tamburo quando egli usciva di casa, e un enorme numero di servitori, addetti ai più diversi e impensabili compiti (macinatore di caffé, riempitore di pipe, ecc.). In fondo al giardino, sulle rive del Tigri, c’era un padiglione estivo, dotato di aria condizionata: una ruota che pescava nel fiume portava continuamente acqua sul tetto, che era così raffreddato dalla continua evaporazione. In questo padiglione Rawlinson poteva lavorare tranquillamente anche nella stagione più calda, in compagnia di un leopardo chiamato Fahed che visse con lui per parecchi anni.

A Baghdad Rawlinson trovò una lettera di Niels Ludvig Westergaard, che era a Shiraz per studiare antichità Pahlavi e Parsi. In questa lettera lo studioso danese gli mandava una copia di altre iscrizioni persepolitane trilingui che si potevano leggere a Naq-i Rustam, presso Persepoli, dove si trovavano molte tombe achemenidi, tra cui quella di Dario. Ora Rawlinson aveva a disposizione ben quattro gruppi di testi, quelli di Behistun, di Elwand, di Persepoli e di Naq-i Rustam. Ma il soggiorno a Baghdad invitava ad ampliare la ricerca. Nell’agosto 1844, appena sei mesi dopo essere ritornato sulle rive del Tigri, Rawlinson partì per una spedizione verso la frontiera persiana, accompagnato da un altro ufficiale inglese, il capitano Felix Jones, con compiti di topografo e cartografo. Raggiunsero Kermanshah e il 4 settembre erano ancora una volta a Behistun. Questa volta Rawlinson non era più un giovane ufficiale curioso, ma un importante personaggio, e la sua spedizione era attrezzata con scale, funi e personale in abbondanza. Jones commentò:

without the aid of ropes and ladders it would be a matter of serious difficulty to reach the spot [la piattaforma sotto le iscrizioni] , and even with these aids no weak-headed or nervous person should attempt the ascent.1

Rawlinson a sua volta osservò che era più facile to ascend and descend by the help of ropes where the track lies up a precipitate cleft, and to throw a plank over those chasms where a false step in leaping across would probably be fatal. On reaching the recess which contains the Persian text of the record, ladders are indispensable in order to examine the upper portion of the tablet; and even with ladders there is a considerable risk, for the foot ledge is so narrow, about eighteen inches [45 centimetri] or at most two feet [60 centimetri] in breadth, that with a ladder long enough to reach the sculptures [la base del bassorilievo è a più di tre metri dalla piattaforma, come si è visto], sufficient slope cannot be given to enable a person to ascend, and, if the ladder be shortened in order to increase the slope, the upper inscriptions can only be copied by standing on the topmost steep of the ladder, with no other support than steadying the body against the rock with the left arm, while the left hand holds the note-book, and the right hand is employed with the pencil. Il this position I copied all the upper inscriptions, and the interst of the occupation entirely did away with any sense of danger.2 Nel 1836 Rawlinson aveva copiato, da solo e in molte riprese, circa duecento righe

del testo in Persiano. Ora rivolse l’attenzione alla rimanente parte del testo persiano, e controllò anche l’esattezza della propria precedente copia. Poi decise di passare all’iscrizione che si trovava sulle tra colonne a sinistra del testo in Persiano (il testo Elamitico, ma Rawlinson non lo sapeva). Questa impresa presentava difficoltà ancor maggiori.

To reach the recess which contains the Scythic translation of the record of Darius is a matter of far greater difficulty . On the left-hand side of the recess alone is there any foot-ledge whatever; on the right-hand, where the recess, which is thrown a few feet further back, joins the Persian tablet, the face of the rock presents a sheer precipice, and it is necessary therefore to bridge this intervening space between the left-hand of the Persian tablet and the foot-ledge on the left hand of the recess. With ladders of sufficient length a bridge of this sort can be constructed without difficulty; but my first attempt to cross the chasm was unfortunate, and might have been fatal, for, having previously shortened my only ladder in order to obtain a slope for copying the Persian upper legends, I found, then I came to lay it across to the recess in order to get at the Schythic translation, that it was not sufficiently long to

1 L. ADKINS, op. cit., p. 142. 2 L. ADKINS, op. cit., pp. 142-43.

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lie flat on the foot-ledge beyond [...] One side of the ladder would alone reach the nearest point of the ledge [i due montanti della scala a pioli erano stati tagliati in modo irregolare ed erano uno più lungo dell’altro], and, as it would of course have tilted over id a person had attempted to cross in that position, I changed it from a horizontal to a vertical direction, the upper side resting firmly on the rock at his two ends, and the lower hanging over the precipice, and I prepared to cross, walking on the lower side, and holding to the upper side with my hands. Il the ladder had been a compact article, this mode of crossing, although far from comfortable, would have been at any rate practicable; but the Persians merely fit in the bars of their ladders without pretending to clench them outside, and I had hardly accordingly began to cross over then the vertical pressure forced the bars out of their sockets, and the lower and unsupported side of the ladder thus parted company from the upper, and went crashing down the precipice. Hanging on to the upper side, which still remained firm in its place, and assisted by my friends, who were anxiously watching the trial, I regained the Persian recess, and did not again attempt to cross until I had made a bridge of comparative stability. 1 Alla fine Rawlinson appoggiò orizzontalmente una scala più lunga tra le due

sporgenze, e su questa scala mise una seconda scala in verticale, che gli permise di arrampicarsi e di copiare l’intera iscrizione Elamitica, prendendone anche un’impronta con una specie di cartapesta. La parte del testo in Babilonese a sinistra del bassorilievo si rivelò invece irraggiungibile, e la vecchia iscrizione elamitica, a destra del bassorilievo, apparve talmente erosa da scoraggiare ogni tentativo di copia. Jones riuscì invece, legando insieme due scale, a raggiungere il bassorilievo e a copiare i testi che accompagnano le varie figure. Queste imprese da Indiana Jones permisero a Rawlinson di ritornare a Kermanshah dopo una settimana con un ricco bottino, e con una conoscenza molto più approfondita di tutto il complesso monumentale. Egli scoprì ad esempio che gli antichi artigiani avevano lavorato con straordinaria cura e abilità: se la superficie della roccia era irregolare o presentava fessure, essi avevano lavorato come i moderni dentisti negli intarsi, creando una cavità regolare e inserendo in essa un altro pezzo di pietra tagliato appositamente e fissato con piombo fuso.

Il lavoro di ricognizione compiuto a Behistun nel 1844, condotto con abbondanza di mezzi e con disponibilità di tempo, mise nelle mani di Rawlinson un materiale non solo abbondante, ma anche attendibile. In quel momento egli era in tutto il mondo l’unico uomo che possedesse in quantità copie di iscrizioni persepolitane, e questo lo incoraggiò ad affrontare gli studi a tavolino con maggior impegno. La Royal Asiatic Society attendeva ansiosamente i suoi lavori, ed egli non la deluse. Nel febbraio 1845 fu in grado di inviare a Londra la traduzione dell’intero testo Persiano.

Qualche mese dopo, il 2 settembre 1845, Rawlinson spedì a Londra i disegni completi frutto della sua esplorazione, otto in tutto di grande formato: l’intero monumento di Behistun, il bassorilievo di Dario, le quattro colonne intere e la mezza colonna con la scrittura persepolitana, e le singole iscrizioni all’interno del bassorilievo. Nei cinque disegni che raffiguravano le colonne dell’iscrizione egli inserì le proprie congetture per le parti mancanti o illeggibili. La quinta colonna aveva dato a Rawlinson particolari problemi, perché molto danneggiata e di difficile accesso. La sua copia era perciò lacunosa, e meno sicura delle altre. Inoltre egli inviò la traslitterazione e la traduzione in latino dell’intero testo persepolitano, e in ottobre spedì i due capitoli introduttivi sul cuneiforme in generale e sull’alfabeto persiano. La Royal Asiatic Society decise che questo materiale era di estrema importanza e lo passò subito alla stampa, senza attendere che l’opera fosse terminata.

La responsabilità della pubblicazione fu data a Edwin Norris2, Assistant Secretary della Royal Asiatic Society. I disegni furono riprodotti, come si era soliti fare allora, in litografia; per il testo furono invece preparati dei caratteri mobili, disegnati da Norris e fabbricati da Harrison & Co di Londra. Per la prima volta segni cuneiformi erano usati in tipografia. La composizione usando questi segni era però estremamente lunga, e Rawlinson ebbe più tardi occasione di lamentarsene. Tra la fine del 1845 e l’aprile 1846, in due riprese, Rawlinson spedì a Londra anche i capitoli terzo, quarto e quinto del suo lavoro. Il

1 L. ADKINS, op. cit., pp. 143-44. 2 Norris era nato nel 1795 e morì nel 1872. Fu per moltissimi anni segretario della Royal Asiatic Society, e valente studioso egli stesso, amico e collaboratore di Rawlinson.

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quarto era il capitolo più importante, dedicato all’analisi particolareggiata dell’iscrizione persepolitana, con una nuova traduzione, rivista, in inglese. Il quinto era dedicato a tutte le altre iscrizioni.

A questo periodo risale anche la scoperta più importante di Rawlinson. Gli alfabeti persepolitani sino a quel momento elaborati, da Rawlinson e dai suoi predecessori, ponevano molti problemi. A ogni segno era attribuito un diverso valore fonetico, e questo portava a una duplicazione di molti valori, che appariva poco convincente. Lo studio più approfondito delle iscrizioni portò Rawlinson a comprendere che l’alfabeto persepolitano non era “puro”, ma parzialmente sillabico. Come si vedrà in altra parte di questo lavoro, alcune consonanti assumono forma diversa a seconda della lettera che le segue, pur avendo lo stesso valore fonetico. In particolare Rawlinson scoprì che le “sonanti” (così egli definiva d e m) hanno tre forme diverse se seguite rispettivamente da a, da i e da u; che le “sorde” ( t n r ) hanno due forme diverse, una se seguite da a o da i, l’altra se seguite da u; e che infine le “aspirate” hanno una sola forma. Questa teoria non coincide esattamente con quanto si ritiene oggi (anche k g j v hanno due diverse forme), ma era comunque un passo avanti straordinario. Rawlinson inviò a Londra, il 25 agosto 1846, uno scritto sull’argomento, pregando di correggere i capitoli inviati in precedenza: i capitoli 1,2,3 erano già stati stampati, e furono lasciati intatti; furono invece modificati i capitoli 4 e 5; le dodici pagine inviate in questa occasione furono invece stampare al fondo di tutto il lavoro.

Alla fine del 1846 Rawlinson spedì infine alla Royal Asiatic Society la prima metà di un nuovo capitolo, il sesto, dedicato al vocabolario. La Società attese per qualche tempo che esso venisse completato, poi, vedendo che Rawlinson tardava, decise ugualmente di pubblicarlo (in effetti il lavoro non fu mai completato). Il vocabolario elencava tutti i termini in ordine alfabetico, prima in cuneiforme, poi con la traslitterazione; erano dati per ogni parola esempi dalle varie iscrizioni e la traduzione in latino, completata da note. La prima parte del lavoro apparve nel 1846-47, la seconda, il vocabolario, nel 18491.

Sulla scoperta del parziale sillabismo della scrittura persepolitana si aprirono tuttavia delle discussioni. In particolare cominciò da questo momento la rivalità tra Rawlinson e un altro studioso, molto diverso da lui, che nei venti anni successivi avrebbe continuamente attraversato la sua strada, non senza dare fondamentali contributi allo studio delle lingue mesopotamiche, ma anche accompagnando questi lavori con continue recriminazioni e polemiche.

Edward Hinks, nato a Cork nel 1792, studiò al Trinity College di Dublino, dove

insegnò anche per qualche anno. Divenne poi pastore a Killyleagh, uno sperduto villaggio dell’Irlanda, dove trascorse la maggior parte della propria vita, angustiato da problemi finanziari, e isolato dal mondo accademico. Proprio intorno al 1846 cominciò a studiare attentamente la scrittura cuneiforme, ed entrò in corrispondenza con Norris. Hincks cominciò con lo studiare gli stampi che si trovavano su molti mattoni d’argilla recentemente ritrovati, e scoprì, contemporaneamente a Rawlinson, che essi recavano in nome di Nebuchadnezzar. Si dedicò poi alla grande iscrizione babilonese conosciuta come iscrizione dell’East India House, oggi al British Museum, trovata a Babilonia all’inizio del secolo e spedita a Londra da sir Harford Jones, e scoprì in particolare che questa iscrizione era identica a un’altra iscrizione molto frammentaria trovata su un cilindro d’argilla da Ker Porter e da lui pubblicata. C’erano dunque due modi di scrivere, uno più corsivo sull’argilla, uno più monumentale sulla pietra. I frammenti di tavolette d’argilla che ogni tanto gli scavi portavano alla luce, con i loro segni minuti, confusi, difficilmente leggibili, recavano dunque la stessa scrittura delle iscrizioni su pietra: una stessa scrittura in due forme, una più ordinata e monumentale, l’altra più corsiva e oscura, ma entrambe frutto della medesima civiltà.

1 H. C. RAWLINSON, The Persian Cuneiform inscription at Behistun, decyphered and translated; with a memoir on Persian cuneiform inscriptions in general, and on that of Behistun in particular, «Journal of the Royal Asiatic Society», 10, 1846-47, pp. lxxi-349. ID., The Persian Cuneiform inscription at Behistun, decyphered and translated; with a memoir, Ibid., 11, 1949, pp. 192.

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Il 20 agosto 1846 Hincks scrisse a Norris comunicandogli di aver scoperto la struttura parzialmente sillabica dell’alfabeto persiano, le stessa scoperta fatta da Rawlinson in quegli stessi giorni (il suo scritto sull’argomento, già in forma destinata alla pubblicazione partì da Baghdad esattamente cinque giorni dopo). Norris informò subito Rawlinson sugli studi del suo concorrente. Come si è visto, lo scritto di Rawlinson fu pubblicato agli inizi del 1847, al termine della sua prima memoria, quello di Hincks nel 1848. Le due scoperte furono però annunciate agli inizi di dicembre da Norris in una seduta della Royal Asiatic Society, e dichiarate indipendenti l’una dall’altra.

Per mettere il colmo alla confusione, un terzo studioso fece nello stesso momento la stessa scoperta: Julius Oppert, nato a Amburgo nel 1825 e allievo di Lassen. Il suo lavoro Das Lautsystem des Altpersischen, datato giugno 1847, uscì qualche mese dopo, quindi dopo il lavoro di Rawlinson, al quale va il merito di aver pubblicato per primo la scoperta. Le polemiche tuttavia furono numerose e non mancarono reciproche accuse di plagio. 9 - La decifrazione dell’Akkadico

Rawlinson non terminò mai il vocabolario perché nel frattempo il suo interesse per

la scrittura persepolitana, ormai completamente nota, era molto diminuito. Ritornato dalla seconda spedizione a Behistun, nella primavera del 1845, agli aveva cominciato a lavorare anche agli altri due testi. Il testo Elamitico (che egli definiva “Median”, attribuendolo ai Medi) sembrava il più facile, ed egli identificò abbastanza presto 90 delle 100 lettere che lo componevano. Ma leggerlo era ben altro problema, dal momento che la lingua in cui era scritto era diversa da ogni altra lingua conosciuta. Cominciò anche, negli stessi mesi, ad occuparsi dell’iscrizione babilonese, con un certo ottimismo, perché essendo circa 90 i nomi propri presenti nel testo, egli riteneva che la decifrazione fosse relativamente agevole.

La scrittura persepolitana, come si è già visto, ha nella storia un posto assai limitato: fu usata per un periodo di non molti anni, in un ambito ristretto, e con scopi politici ben precisi. E’ testimoniata solo da iscrizioni ufficiali, di tipo celebrativo, e non da una vera e propria letteratura. Molto più interessanti e ricche di promesse, soprattutto dal punto di vista storico, sembravano le altre scritture, in modo particolare la Babilonese. Cominciavano infatti ad affiorare dalle sabbie del deserto, proprio in quegli anni, testimonianze stupefacenti di civiltà molto anteriori all’Impero di Ciro il Grande.

Le ricerche archeologiche in Mesopotamia cominciarono molto più tardi rispetto

all’Egitto. Molti viaggiatori furono colpiti già nel Seicento e nel Settecento (Kinneir, Ainswort), dalla presenza, nella pianura del Tigri e dell’Eufrate, di strane colline,1 dette Tell, che non sembravano opera dell’uomo, ma nemmeno della natura: enormi cumuli di sabbia e terra, piatti sulla sommità, continuamente smossi dal vento, alle quali gli indigeni sembravano attingere in abbondanza materiali per le loro costruzioni. Il primo ad avanzare concretamente l’ipotesi che i Tell celassero rovine di antiche città fu Claudius James Rich. Ma le prime ricerche partirono solo con Paul-Emile Botta.2 Botta giunse a Mossul come console francese nel 1841, su proposta di Julius Mohl, Segretario della Société Asiatique di Parigi, con il compito specifico, anche se segreto, di ritrovare l’antica città di Niniveh, di cui Rich aveva parlato. Cominciò a scavare a Kuyunjik, dove effettivamente si nascondeva Niniveh, ma non trovò nulla. Dopo un anno, nel 1843, scoraggiato, spostò gli scavi in un’altra località, a pochi chilometri di distanza, Khorsabad. Botta non lo sapeva, ma a

1 Tell è il nome usato da arabi e ebrei, tepe è il nome persiano e hüyuk è il nome turco. Tutti questi termini significano collina, indipendentemente dalla presenza o no di abitazioni sulla sommità. 2 Paolo Emilio Botta, figlio dello storico Carlo Botta, nacque a Torino nel 1802. Emigrato in Francia con il padre nel 1814, divenne cittadino francese. Fu medico, viaggiatore, scrittore, diplomatico, entomologo, archeologo. Viaggiò a lungo come medico di bordo, fu dottore per il Khedivé d’Egitto Muhammed Ali, esplorò lo Yemen per il Musée d’Histoire Naturelle di Parigi e nel 1841 fu nominato agente consolare della Francia a Mossul, allora sotto il dominio turco. Gli successe qualche anno dopo un altro grande scavatore, Victor Place. Fu poi diplomatico a Gerusalemme, Baghdat e Tripoli. Ritornò in Francia nel 1869 e morì l’anno successivo.

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Khorsabad, anticamente Dur-Sharrikin, “città di Sargon” il re assiro Sargon II aveva fatto costruire dal 713 il suo palazzo, e ne aveva fatto la capitale del regno prima di Niniveh. Il palazzo era immenso: sette porte, 7 chilometri di mura perimetrali, circa 275 ettari di superficie.1 Quasi subito emersero cose straordinarie: mura, figure imponenti di uomini barbuti, statue colossali di animali fantastici, stanze, iscrizioni. La notizie si sparse presto e il mondo intero rimase stupefatto. Della Mesopotamia si sapeva solo ciò che era scritto nella Bibbia: si scopriva invece che in quelle pianure ora desolate era fiorita una straordinaria civiltà, antica forse come quella degli Egizi, e forse altrettanto potente. Botta ricevette grandi finanziamenti dalla Francia e l’assistenza del disegnatore Eugène Napoléon Flandin (1809-89). Nel 1845 cominciò a spedire in Francia le sculture dissepolte. Un primo carico andò perduto nelle acque del Tigri, ma altro materiale, numeroso e stupendo giunse a Parigi, a formare il nucleo della sezione mesopotamica del Louvre. Nel 1849-50, a cura del governo francese, fu pubblicata la sua grande opera, Monuments de Ninive, découverts et décrits par Botta, mesurés et dessinés par Flandin, 5 volumi in-folio, uno di testo e quattro di disegni (due dedicati ad architettura e scultura, ben due dedicati alle iscrizioni). Quest’opera fece conoscere al mondo la civiltà assira, così come la Description de l’Egypte aveva fatto conoscere la civiltà egizia.

Ma le grandi scoperte in Mesopotamia dovevano ancora cominciare, e il loro eroe sarebbe stato un giovane inglese destinato a una brillantissima carriera, Austin Henry Layard. Layard era nato nel 1817 a Parigi, da genitori inglesi. Il padre soffriva di asma, e dopo qualche tempo si trasferì con la famiglia a Firenze, poi in Francia, infine in Svizzera, poi ancora a Firenze. Il giovane Layard ebbe così un’educazione irregolare, ma imparò le lingue e si abituò ad essere cittadino del mondo. Ritornato in Inghilterra, fu destinato agli studi di legge e lavorò presso uno zio avvocato. Ma l’atmosfera di Londra gli era insopportabile, e solo lunghi viaggi in estate, nei principali paesi europei, gli consentirono di sopravvivere. Nel giugno 1839, superati gli esami di legge, gli fu offerto di fare pratica legale a Ceylon, e colse al volo questa possibilità di lasciare l’Inghilterra. Decise di fare il viaggio con un amico, Edward Ledwich Mitford, che si recava egli pure a Ceylon per dirigere una piantagione di caffé. Da soli, ben armati, e a cavallo, quasi sempre vestiti come i locali, i due giovani attraversarono tutta l’Europa e giunsero a Costantinopoli due mesi dopo, poi attraversarono la Turchia e la Siria. In dicembre erano a Tiro, a marzo ad Aleppo, in aprile, un anno prima che vi arrivasse Botta, a Mossul, di fronte alle rovine di Niniveh. Qui la vista dei numerosi Tell fece nascere in Layard il desiderio di fare ricerche, ma i mezzi e il tempo erano scarsi: tutto si limitò a un giorno trascorso a Kalah Shirgat, l’antica città di Ashur, dove si trovavano cocci e frammenti di iscrizioni in quantità, senza bisogno di scavare. In particolare Layard fu impressionato da un Tell a cui gli indigeni assegnavano il nome di Nimrud, che evocava il mitico cacciatore della Bibbia. I due amici giunsero poi a Baghdad e da qui partirono per la Persia, e a Kermanshah incontrarono Flandin. Passando di notte sotto i monumenti di Behistun arrivarono infine ad Hamadan, e qui nel mese di agosto ottennero dallo Shah il permesso di attraversare la Persia. Erano ormai partiti da più di un anno: evidentemente nessuno dei due aveva fretta di raggiungere Ceylon, e le noiose occupazioni che là li attendevano. A Isphahan i due si separarono. Mitford, per non correre il rischio di essere a Ceylon troppo presto, decise di passare per l’Afghanistan e Kandahar. Layard fu ancora più drastico e ritornò a Baghdad e a Mossul, dove incontrò Botta2, appena arrivato, e con lui visitò gli scavi recentemente avviati di Kuyunjik, che, come abbiamo visto non avrebbero dato per il momento alcun esito. Layard giunse infine a Costantinopoli nel luglio 1842, tre anni dopo essere partito dall’Inghilterra: c’è da sperare che nello studio legale di Ceylon avessero ormai trovato un altro praticante (per la cronaca, alla fine Mitford arrivò alla sua piantagione di caffé). A Costantinopoli Layard divenne una specie di agente e segretario dell’ambasciatore inglese, sir Stratford Canning, irregolarmente pagato in

1 Il palazzo fu successivamente scavato da Place, dall’Università di Chicago, dagli Irakeni, ed è ancora in larga parte inesplorato. 2 I suoi rapporti con Botta furono eccellenti, anche se Layard non apprezzava il vizio dell’oppio a cui invece il francese era dedito, come molti viaggiatori in Oriente di quegli anni.

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attesa di assunzione. Qui lo raggiunsero le notizie delle scoperte di Botta a Korshabad, che fecero rinascere in lui il desiderio di intraprendere a propria volta degli scavi. Tanto più che alla fine del 1844 Botta, contento del proprio bottino, aveva abbandonato le ricerche. Nell’estate 1845, egli convinse sir Canning che valeva la pena di riprendere il lavoro di Botta, questa volta per conto dell’Inghilterra. Con i propri risparmi, e con un contributo personale di sir Canning, 60 sterline, ritornò a Mossul e si mise al lavoro, proprio sulla collina di Nimrud, 35 chilometri a sud-est di Mossul, che lo aveva affascinato cinque anni prima. Subito il primo giorno di scavi scoprì due stanze di un palazzo, ricoperte di lastre di pietra completamente scritte con segni cuneiformi. Altre iscrizioni emersero nei giorni successivi, con gran gioia di Rawlinson, che gli scrisse:

... for my own part I regard Inscriptions as of infinitely greater value than sculptures – the latter may please virtuosi – they have no doubt a certain degree of intrinsic interest, but the tablets are bona fide histories, and very shortly I feel perfectly certain they will be completely intelligible. The building at Nimrood will hardly be worth a transport en masse to London, but your copies of the Inscriptions will be of the very highest interest.1

Per fortuna Rawlinson cambiò in seguito opinione e aiutò Layard a trasportare a

Londra i capolavori artistici ritrovati. Nei mesi successivi, soprattutto dal febbraio 1846, pur tra mille persecuzioni da parte delle autorità locali (a cui pose fine un firman del sultano che gli procurò sir Canning2), Layard vide emergere dalla terra delle autentiche meraviglie, bassorilievi di straordinaria bellezza, tredici coppie di leoni e di tori alati, e iscrizioni cuneiformi su pietra in gran numero. Tutte queste scoperte erano state finanziate con le misere 60 sterline di sir Canning e con i risparmi di Layard e di sua madre in Inghilterra. Leggiamo in una lettera di Layard:

Botta has just informed me that he gets 60.000 francs from his Government for his Khorsabad discovery. I have vague apparitions of 3.000 gold pieces [un marengo d’oro valeva 20 franchi] fleeting before my eyes, and for the first time in my life have become intent on the prospect of accumulating riches. But these happy visions are backed by the hideous skeleton of Government generosity, and non much improved by the retrospection of time, health and labour thrown away upon empty pockets [...] I am still in ignorance of the intentions of the Government with regard to Nimroud, whether the excavations are to be carried on, or whether the field will be abandoned to the French.3 La ricchezza straordinaria dei ritrovamenti indusse Rawlinson in errore: egli

suppose che Layard avesse ritrovato proprio le rovine dell’antica Niniveh, e del celebre palazzo di Sennacherib (704-681 a. C.). Layard pensava invece di aver trovato la città di Resen, che secondo la Bibbia si trovava tra Niniveh e Calah, ma quasi subito accettò l’ipotesi di Rawlinson: si erano dunque scoperte due Niniveh, nessuna delle quali in realtà, lo si capì quando fu possibile leggere le iscrizioni, era la vera. Nimrud nascondeva infatti le rovine di Kalhu, la Calah biblica, la capitale di Ashurnasirpal II a partire dall’878 a. C.: quindi la capitale che aveva preceduto Khorsabad, scoperta da Botta pochi anni prima.

1 L. ADKINS, op. cit., p. 188. 2 Questo firman, 5 maggio 1846, era redatto in termini molto generici. Era in sostanza una lettera del Gran Vizir di Istambul al Pasha di Mossul, in cui si diceva: “Ci sono, come Vostra Eccellenza sa, nelle vicinanze di Mossul grandi quantità di pietre e di resti antichi. C’è un Gentleman inglese che è giunto da queste parti per cercare pietre di questo genere e ha trovato sulla riva del Tigri, in certi luoghi disabitati, pietre antiche sulle quali ci sono disegni e iscrizioni. [...] Nessun ostacolo deve essere posto quando prenderà le pietre che, in base al resoconto che è stato fatto, si trovano in luoghi deserti e non sono utilizzate; o al suo intraprendere scavi in luoghi disabitati dove questo può essere fatto senza inconvenienza per alcuno”. Di fatto veniva data agli inglesi carta bianca, in nome dell’amicizia tra i due popoli. Di questo Layard e in seguito Rassam approfittarono ampiamente, soprattutto per mettere in disparte i francesi 3 L. ADKINS, op. cit., p. 200.

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Tutte queste scoperte erano di enorme importanza, artistica, storica e archeologica.

Da punto di vista che qui ci interessa va citato soprattutto un ritrovamento di Layard (oltre alle iscrizioni sulle lastre di pietra e sulle statue colossali di leoni e tori alati), l’obelisco nero di Shalmaneser III (c. 825 a c) ora al British Museum, rinvenuto alla fine del 1846 a Nimrud, quasi interamente ricoperto da iscrizioni e in perfetto stato di conservazione. Questo obelisco, alto quasi 2 metri, reca 20 bassorilievi, 5 per lato, raffiguranrti la sottomissione di 5 diversi sovrani stranieri. La sottomissione di ciscun sovrano è rappresentata in quattro rilievi, uno per lato. Presso gli archeologi esso è soprattutto famoso

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perché nella seconda riga è raffigurato il re ebreo Jehu, citato nella Bibbia, che offre un tributo al sovrano assiro. La lettura delle iscrizioni e l’identificazione del re furono un episodio importante, come vedremo, nella decifrazione delle scritture akkadiche. Rawlinson vide a Baghdad questo obelisco, che stava viaggiando verso Bassora, e copiò subito l’iscrizione.

La scoperta di Layard era ancora più interessante perché i tesori trovati da Botta non erano ancora giunti in Francia. Botta aveva impiegato parecchi mesi per trasportare i suoi pesantissimi animali alati lungo il Tigri sino a Bassora, e nella primavera del 1846, quando Layard fece le sue grandi scoperte a Nimrud, essi erano ancora là, in attesa di una nave. C’era dunque la speranza di superarlo in velocità, e di esporre il tesori mesopotamici al British Museum prima che al Louvre. Layard riuscì a spedire il materiale trovato in due viaggi lungo il Tigri, uno in agosto, l’altro in dicembre, il terzo nel aprile del 1847. Nel 1847 Layard scavò anche a Kuyunjik, di fronte a Mossul, là dove Botta aveva lavorato invano per un anno. I suoi metodi si erano ormai molto perfezionati, e i ritrovamenti questa volta non si fecero attendere: i resti di un palazzo distrutto dal fuoco, pareti di mattoni ricoperte da bassorilievi di pietra, buoi alati dalla testa umana, alcuni con quattro, altri con cinque zampe. Le iscrizioni erano scarse, ma in compenso Layard trovò uno strano bassorilievo rappresentante due scribi, in atteggiamenti diversi. Uno dei due sta scrivendo con un calamo su papiro, l’altro sta incidendo delle tavolette d’argilla con scrittura cuneiforme. Il gesto di questo secondo scriba appariva incomprensibile. A Niniveh fu trovato anche un certo numero di tavolette d’argilla, molto frammentarie, con segni cuneiformi, che lasciarono perplessi Layard e i suoi collaboratori, i quali sino a quel momento avevano incontrato solo segni cuneiformi incisi su pietra: solo in seguito si sarebbe capito che le tavolette e i segni impressi nell’argilla molle erano il tipico sistema di scrittura dal mondo mesopotamico.

Nel giugno 1847 Layard abbandonò gli scavi, ormai completamente privo di risorse, e partì per Londra, dove giunse nel mese di dicembre, dopo una sosta a Parigi. Più o meno negli stessi mesi cominciarono a giungere al British Museum i suoi ritrovamenti, tra lo stupore e l’ammirazione del mondo intero. Tra il marzo e il novembre 1848 Layard, nella tranquillità di una casa di campagna appartenente a sua cugina, Lady Charlotte Guest, scrisse un libro in cui raccontava le proprie scoperte. Il libro, Niniveh and its Remains, 1849, ebbe un enorme successo, 8000 copie vendute in un anno, e assicurò a Layard la gloria, oltre che un cospicuo guadagno1.

Di nuovo accadeva ciò che già era successo in Egitto: l’archeologia riportava alla luce testimonianze di un passato favoloso, ma queste testimonianze erano mute, perché essendo sconosciute lingua e scrittura dei popoli a cui esse appartenevano, era impossibile datarle e collocarle in un contesto storico-geografico. Abbiamo già visto che i libri di Botta e Layard sono dedicati entrambi a Niniveh, mentre in realtà si riferiscono alla scoperta di altre due città: ma nessuno poteva allora saperlo. Rawlinson comprese subito che era inutile lavorare ancora sul cuneiforme persepolitano, una scrittura minore e ormai quasi interamente chiarita, quando si presentava con tanta urgenza il problema di studiare le scritture che l’avevano preceduta, la cui comprensione avrebbe spalancato le porte di un mondo completamente nuovo.

Purtroppo l’impresa si presentò molto più difficile di quanto si potesse supporre. La presenza della lunghissima iscrizione trilingue di Behistun, una parte della quale ormai interamente traslitterata e tradotta, metteva i decifratori del cuneiforme nella stessa condizione in cui si erano trovati Young e Champollion di fronte alla Pietra di Rosetta, di

1 Non seguiremo Layard nel resto della sua carriera, se non nei momenti in cui portò alla scoperta di scritture. Basterà dire che egli scavò ancora a Nimrud tra il 1849 e il 1851, finanziato da British Museum, facendo scoperte di enorme importanza, di cui parlò nel suo secondo celebre libro, Niniveh and Babylon, 1853. A Partire da questa data si dedicò alla politica: fu membro del Parlamento, sottosegretario, ambasciatore a Madrid e a Istambul. Nel 1882 si ritirò a Venezia, lasciando alla città la propria collezione di pitture italiane del Rinascimento (Ca’ Cappello, Istituto Orientale dell’Università di Venezia – cfr. Austen Henry Layard tra l’Oriente e Venezia – Venezia 1983, a cura di E. M. FALES e B. J. HICKEY, Roma, 1987). Morì a Londra nel 1894.

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cui conoscevano il testo greco: anzi in una condizione infinitamente migliore, perché il testo geroglifico della Pietra di Rosetta era di poche righe, mentre i testi di Behistun erano piuttosto ampi. Le speranze che il problema si potesse risolvere in poco tempo erano dunque molte: ma andarono purtroppo deluse.

Già nel dicembre 1846 Hincks presentò alla Royal Irish Academy di Dublino una lista di 76 segni accadici ai quali era riuscito ad attribuire un valore fonetico. Renouard li trasmise subito a Rawlinson, che temeva di essere stato preceduto nella decifrazione, e che ricevendo l’elenco qualche mese dopo si tranquillizzò: Hinks era ancora in alto mare e le sue letture in larga parte inesatte. Pochi mesi dopo, nel gennaio 1847, Hincks comunicò all’Accademia una seconda lista, corretta e aumentata a 95 segni, che costituiva solo un modesto progresso. In realtà i testi che Hinks aveva a disposizione erano troppo scarsi, e lo stesso Rawlinson nella spedizione a Behistun del 1844 non era riuscito a copiare il testo babilonese dell’iscrizione, posta nella parte più alta, e giudicata inaccessibile. Si rendeva dunque necessaria una terza spedizione.

Nel giugno 1847, mentre si avvicinava l’estate, Rawlinson partì ancora una volta per Behistun. Questa spedizione era più modesta della precedente, privata e non ufficiale. La carovana era composta solo da 16 servitori, che Rawlinson aveva ingaggiato a proprie spese – questa spedizione e la precedente gli costarono circa 1.000 sterline, somma considerevole. Il 17 luglio giunse ai piedi della montagna. Si era organizzato ancora meglio, con scale più lunghe e più robuste, e riuscì a costruire una specie di ponteggio. Cominciò il lavoro con la prima iscrizione a destra del bassorilievo, ma fu profondamente deluso: l’iscrizione era stata cancellata, e pochi caratteri erano ancora riconoscibili. Riuscì a trascriverne qualcuno e si accorse che anche questa iscrizione era in Elamitico. Non capì tuttavia che essa era identica al testo della seconda iscrizione elamitica, quella a sinistra della persepolitana (in effetti, la cosa era difficilmente pensabile) e suppose tristemente che essa narrasse ulteriori episodi della vita di Dario, la cui conoscenza era ormai andata persa per sempre. A questa delusione si aggiunse ben presto il caldo terribile, che fece ammalare Rawlinson e quasi tutti i membri della spedizione, che si trasferì in un luogo più fresco e riprese i lavori l’8 di settembre. Ancora una volta il testo babilonese si rivelò irraggiungibile, ma Rawlinson si era munito di un potente cannocchiale e lavorando dalla pianura riuscì a trascriverlo interamente. Nel corso delle precedenti esplorazioni, visto da lontano, esso gli era sembrato in pessime condizioni, ma ora, con il cannocchiale, ebbe la sorpresa di scoprire che era molto più leggibile del previsto. Decise allora di ricavarne ad ogni costo un calco, e trovò alla fine uno o due (il racconto di Rawlinson su questo punto non è chiaro) ragazzi curdi che riuscirono ad arrampicarsi sopra l’iscrizione e a calarsi da lì di fronte ad essa, con una specie di altalena sorretta da funi, e a prendere più o meno agevolmente il calco. Rawlinson ritornò a Bagdhad agli inizi di ottobre. Non avrebbe mai più rivisto Behistun e l’iscrizione alla quale doveva gran parte della propria fama. Aveva comunque materiale sufficiente per lavorare alla decifrazione della scrittura babilonese.

Mentre la chiave della scrittura egizia era stata scoperta da Champollion all’improvviso, nell’arco di pochi giorni, forse di poche ore, grazie a una specie di illuminazione, le decifrazione della scrittura accadica fu un processo lento e laborioso, che si svolse tra il 1847 e il 1857, nell’arco di una decina di anni, avvelenato da polemiche e dalla rivalità tra i suoi due principali artefici, Rawlinson e Hincks. Erano entrambi validissimi studiosi, ma sembrava che la natura si fosse divertita a mettere in concorrenza due personaggi che non avrebbero potuto essere tra loro più diversi. Rawlinson era un militare e un diplomatico di carriera, abituato alle cavalcate, alle marce, ai deserti, ma anche ai salotti e alle manovre contorte delle corti orientali; Hincks era pastore in un remoto paese della remota Irlanda, non amato dai superiori e in perenni difficoltà economiche. Rawlinson lavorava sul campo, rischiando la vita e la salute per copiare testi, Hincks era un puro studioso da tavolino. Rawlinson poteva conoscere per primo, con largo anticipo, e i testi su cui lavorare, e Hincks lo accusava di tenerseli per sé, senza comunicarli al mondo scientifico. D’altra parte Rawlinson, che era estremamente scrupoloso e pignolo, e che non voleva pubblicare nulla senza essere assolutamente certo di quanto scriveva,

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preferibilmente in forma di grossa e sistematica trattazione, accusava Hincks di pubblicare troppo presto in molti articoli successivi lavori ancora incompleti e imperfetti, pur di garantirsi la priorità. Hincks era convinto che Rawlinson usasse le sue scoperte per perfezionare le proprie, Rawlinson temeva di essere indebitamente anticipato. Scrive Rawlinson in una lettera a Layard nel marzo 1848:

As for old Hinks, I an sick of him – he gives a new alphabet every month and ultimately perhaps by dint of guessing may arrive at something – as all his theories are propounded in the same tone of dogmatic confidence, people will be puzzled at last to know which to believe1 Hincks accusava la Royal Asiatic Society di favorire Rawlinson, e in questo aveva

forse ragione; Rawlinson lo accusava di pubblicare su oscuri e inaccessibili periodici di provincia, solo per attestare la priorità delle proprie scoperte, ma non per farle circolare nel mondo scientifico. In realtà il vero problema era quello delle distanze. Rawlinson e Hincks venivano a conoscenza dei rispettivi lavori parecchi mesi dopo che essi erano stati spediti o pubblicati, e nel frattempo ciascuno di essi aveva fatto qualche passo avanti, qualche nuova scoperta. Così l’uno accusava l’altro di plagio, mentre in realtà entrambi lavoravano in modo indipendente, con metodi e anche con finalità diverse: Hincks era soprattutto un linguista, interessato alla grammatica e ai meccanismi interni del testo, Rawlinson era soprattutto uno storico, interessato a ciò che i testi potevano comunicare e al loro valore di testimonianza. Nel 1862, esasperato dalle continue recriminazioni di Hincks e dal suo astio verso Rawlinson Oppert scrisse allo studioso irlandese in termini estremamente severi, ma tutto sommato esatti:

You protest against sir Henry [...] I made, after your claim, a cross-examination, and saw, that in very numerous instances, the discoveries belong to Rawlinson and not only to you [...] You never composed a great systematical work, never edited an Assyrian text with transcript, translation and commentary, never wrote a paper intelligible to other than Assyriologists, and able to provoke the criticism of oriental scholars. And therefore, the public in England looks upon these studies with a mistrusting eye, and does not believe in your discoveries [...] Who, dear doctor, can have here [in Francia] the Journal for Sacred Literature ?[...] And ignoring all researches of continental and even British students, you proclaim yourself (as I hear from English friends of Rawlinson’s and mine) to be at the head of Assyrian decypherment, when never you explained an Assyrian text.2 Occorre dire infine che alcuni studiosi, soprattutto il reverendo George Renouard

della Royal Asiatic Sociaty, fecero tutto quanto era loro possibile per attizzare la rivalità tra Rawlinson e Hincks, comunicando sollecitamente all’uno quanto l’altro scriveva e diceva. Il risultato comunque fu positivo, perché stimolati da questa competizione i due studiosi lavorarono con un accanimento che forse non avrebbero avuto in circostanze più calme. E a guadagnarci, alla fine, fu l’assiriologia.

Gli inizi furono molto difficili. La scrittura babilonese si rivelava una specie di crittogramma inestricabile, dietro il quale sembrava impossibile intravedere una logica. Ancora nell’aprile 1849, quasi due anni dopo aver copiato il testo a Behistun, e quando Layard stava pubblicando il suo primo libro, Rawlinson scriveva a Norris:

I am perfectly cowed with the extraordinary difficulties of the Babylonian and Assirian Inscriptions. I have been going through all Botta’s voluminous papers and many of the results which I thought best established have been shivered to atoms. I [...] have no heart to bear up against such repeated disappointments. I now consider Egyptology a mere joke compared with the Cuneiform puzzle, and I have been tempted a hundred times to throw the whole of my papers into the fire.3 Qualche mese dopo, tuttavia, la situazione sembrava essere migliore. In una lettera

del giugno 1849, Rawlinson scrive infatti a Layard di essere quasi in grado di tradurre le iscrizioni dell’obelisco nero di Shalmaneser III, trovato tra anni prima a Nimrud.

1 L. ADKINS, op. cit., p. 256. 2 L. ADKINS, op. cit., pp. 346-47. 3 L. ADKINS, op. cit., p. 260.

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Nell’ottobre del 1849 Rawlinson lasciò Baghdad per ritornare in Inghilterra: dopo ventidue anni di ininterrotto servizio aveva finalmente ottenuto dall’East India Company un periodo di congedo. Lo accompagnavano un cameriere greco e il fidatissimo Fahed, che tuttavia a Londra si rivelò un problema e dovette essere consegnato allo zoo di Bristol.1 Agli inizi di Novembre era a Costantinopoli, da dove andò a Trieste via nave. Fu poi a Vienna, Berlino (evidentemente in quegli anni le strade più dirette non erano apprezzate), a Ostenda, dove tagliò la barba che portava molto lunga, e giunse infine a Londra il 18 dicembre 1849. Il momento non poteva essere scelto meglio: l’arrivo al British Museum degli oggetti scavati da Layard e il suo libro su Niniveh avevano lanciato la moda dell’Assiria: Rawlinson si trovò immediatamente al centro della vita mondana di Londra, invitato ovunque (anche a Buckingham Palace dalla Regina Vittoria) e ovunque accolto come una specie di eroe.2

Tenne molte conferenze. In una di esse, nel febbraio 1850, alla presenza del Principe Alberto, fece il punto con molta modestia e prudenza sulle sue conoscenze della lingua Assira:

It would be affectation to pretend that, because I can ascertain the general purport of an inscription, or, because I can read and approximately render a plain historical record like that upon the Niniveh Obelisk, I am really a complete master of the ancient Assyrian language. It would disingenuous to slur over the broad fact, that the science of Assyrian decipherment is yet in its infancy.3 Rawlinson era troppo pessimista. Pochi mesi prima Hincks aveva dichiarato

invece, esagerando nel senso opposto, che la decifrazione delle scritture assire era ormai un fatto compiuto. Nella stessa conferenza Rawlinson spiegò accuratamente i propri metodi di lavoro e avanzò l’ipotesi, rivelatasi poi corretta,4 che lingua e scrittura assire derivassero da una lingua e da una scrittura più antiche. Egli ignorava allora completamente l’esistenza dei Sumeri, e suppose che l’origine fosse dall’Egitto. Poi Rawlinson spiegò il contenuto dell’obelisco di Shalmaneser, così come era riuscito a leggerlo: ed era un fatto eccezionale, perché questo riportava indietro di 400 anni le conoscenze sulla storia mesopotamica, trasferendo dal mito alla storia città e personaggi sino a quel momento solo vagamente noti attraverso la Bibbia. Rawlinson non identificò esattamente il personaggio della seconda riga, che offre un tributo:

The second line of offerings are said to have been sent by Yahua, son of Hubiri, a prince of whom there is no mention in the annals, and of whose native country therefore I an ignorant.5 Se avesse traslitterato più esattamente il testo, Rawlinson avrebbe potuto leggere

invece “Jehu, figlio di Omri”, menzionato nel libro dei Re: fatto importantissimo, perché per la prima volta un testo mesopotamico citava un personaggio biblico, e perché le due versioni della storia sono diverse. La scoperta sarebbe stata fatta da Hincks in un articolo del dicembre 1851.

Anche Hincks, come si è visto, riteneva che lingua e scrittura accadiche derivassero da una civiltà precedente. Suppose che una popolazione indo-europea avesse in età molto remota conquistato l’Assiria e che, entrata in contatto con gli Egizi, avesse da questi in qualche modo mutuato l’idea o la pratica stessa della scrittura. Espose queste teorie al Congresso della British Association for the Advancement of Science a Edinburgo

1 Si tranquillizzino gli amanti degli animali: Rawlinson fece visita spesso a Fahed, che anche molti anni dopo lo riconosceva e abbracciava all’interno della gabbia. A Bristol Fahed trovò una compagna ed ebbe anche due figli. 2 Ricevette anche una laurea ad honorem dall’Università di Oxford e la promozione a colonello. Il pittore Henry Wyndham Phillips dipinse un suo ritratto, che fu esposto alla Royal Academy, in cui lo si vede alle prese con dei fogli scritti con segni cuneiformi. Aveva portato dall’Oriente una propria collezione personale di anchchità, che vendette al British Museum per 300 sterline. 3 L. ADKINS, op. cit., p. 276. 4 Ipotesi già proposta da Hincks in una conferenza a Dublino qualche mese prima – ma Rawlinson ancora non lo sapeva. 5 L. ADKINS, op. cit., p. 279.

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(fine luglio – inizi agosto 1850). Rawlinson, che egli pure partecipava al Convegno, concordò nell’idea di una civiltà ignota precedente gli Assiri, ma sostenne che questa civiltà non poteva appartenere a un popolo di origine indo-europea. Era invece d’accordo nell’attribuire agli Egizi l’invenzione della scrittura.

L’altra grande scoperta del 1850 fu la biblioteca di Sennacherib, trovata da Layard

a Niniveh: due stanze relativamente piccole, ma stracolme di tavolette d’argilla con segni di scrittura cuneiforme. Così scrisse Layard:

To the height of a foot or more from the floor they [le stanze] were entirely filled with them [tavolette]; some entire, but the greater part broken into many fragments, probably by the falling in of the upper part of the building. They were of different sizes; the largest tablets were flat, and measured about 9 inches by 6½ inches; the smaller were slightly convex, and some were not more than an inch long, with but one or two lines of writing. The cuneiform characters on most of them were singularly sharp and well defined, but so minute in some instances as to be almost illegible without a magnifying glass [...] The adjoining chambers contained similar relics, but in far smaller numbers.1 Al ritrovamento era presente Frederick Walpole, terzo figlio del Conte di Oxford,

che le paragonò a saponette di Windsor, aggiungendo: “they where covered with most delicately cut arrow-headed hieroglyphics”. La scoperta era fondamentale. Prima di allora si conoscevano solo iscrizioni, su roccia, su edifici in pietra, su lapidi, su monumenti, su piccoli oggetti. Poche tavolette d’argilla erano state trovate, e nessuna a Nimrud. Layard aveva invece messo le mani su un’intera biblioteca, appartenente al palazzo di Sennacherib, il ricostruttore di Ninive intorno al 700 a. C. Era l’inizio di una nuova era nella conoscenza delle civiltà mesopotamiche, e Rawlinson, che annunciò la scoperta al Congresso di Edinburgo, poteva a ragione dire che la lettura di quelle tavolette avrebbe aperto prospettive impensate su tutta la storia dell’umanità. Perché queste profezia si avverasse fu tuttavia necessario aspettare ancora per ben ventidue anni. Ma già in quel momento si poteva capire che tutte le scoperte che si stavano facendo, archeologiche e filologiche, arretravano di secoli l’inizio della storia, facendo emergere mondi, civiltà, letterature, sconosciute a Greci e Romani, antiche e scomparse già ai loro tempi.

Il congedo concesso a Rawlinson stava per finire: egli ritornò in Oriente

nell’ottobre 1851 via Marsiglia e Atene e giunse a Baghdad in dicembre. Ai compiti che già aveva si aggiunse anche quello affidatogli dal British Museum di sovrintendere agli scavi al posto di Layard che era ritornato in Inghilterra. Gli ultimi mesi a Londra furono densi di attività. Nel maggio egli presentò alla Royal Asiatic Society una relazione sul testo babilonese delle iscrizioni di Behistun. Ancora una volta mise le mani avanti, spiegando che un conto erano le iscrizioni persiane, limitate in numero e tutte appartenenti alla stessa lingua e alla stessa epoca, un altro le iscrizioni babilonesi, numerosissime, attribuibili a molte epoche e scritte in molti dialetti. Comunque era ormai giunto a conoscere 246 segni cuneiformi e ne comunicava un elenco. Il lavoro fu pubblicato dalla Royal Asiatic Society il 1 gennaio 1852, e può considerarsi una pietra miliare nella storia dell’assiriologia, anche se in esso l’autore si limita a considerare le prime 37 righe (su 112) dell’iscrizione. Esso è inoltre incompleto (finisce addirittura con una frase a metà). I passi avanti compiuti da Rawlinson sono però notevoli: ad esempio egli spiega in modo soddisfacente la polifonia di molti segni ricordando che questi erano all’origine dei pittogrammi e che solo gradualmente e in modo irregolare furono piegati alla rappresentazione di suoni.

Alla fine di agosto, su “The Athenaeum”, Rawlinson annunciò inoltre di aver fatto nuove scoperte, che avrebbe comunicato in modo più completo alla riapertura delle società scientifiche dopo le ferie. In giugno Layard aveva portato a Londra la copia di un’iscrizione da un colossale toro sulla porta del palazzo di Sennecherib a Ninive. Lavorando su questa e

1 L. ADKINS, op. cit., p. 291.

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su altre iscrizioni,1 Rawlinson trovò i nomi di molti re di Ninive, e il racconto delle campagne di Sennecherib contro le città di Giuda, con riferimento a molti nomi noti dalla Bibbia, Giuda, Ezechia, Gerusalemme, Samaria. La cosa destò enorme scalpore, come tutto ciò che toccava l’evidenza storica dei racconti biblici (non senza qualche preoccupazione: persino suo fratello George, ministro anglicano, gli aveva manifestato il timore che le scoperte in Mesopotamia potessero mettere in dubbio le verità della fede). Come scrive Adkins, la decifrazione delle scritture accadiche fu un processo graduale, ma questo fu il momento preciso in cui le iscrizioni cominciarono ad essere lette con una certa facilità, e le conoscenze sul valore dei segni, sulla grammatica e sul vocabolario cominciarono ad accumularsi, con crescente rapidità: anche se Hincks e Rawlinson facevano ancora molti errori, stavano passando dalla fase di faticosa decifrazione alla fase in cui la storia di quelle antiche civiltà poteva essere letta attraverso le loro scritture.2

Rawlinson rimase a Baghdad solo quattro anni scarsi anni prima di ritornare ancora in Inghilterra: ma questi anni, dal 1852 al 1855, fu trovata nel suolo della Mesopotamia una quantità incredibile di testi, che diede lavoro a studiosi e filosofi per decine e decine di anni. La prima scoperta risale agli inizi del 1853. Hormuzd Rassam3, un giovane archeologo che aveva cominciato a lavorare con Layard, era passato alle dipendenze di Rawlinson. Voleva scavare a Qalah Shergat, il sito dell’antica Assur, e mentre si trasferiva sul luogo con tutta la spedizione scoprì che i francesi stavano facendo lo stesso. Ne nacque una specie di corsa nel deserto, che naturalmente finì con una battaglia e con la relativa pace: il territorio di Assur fu equamente diviso tra Francesi e Inglesi. Iniziati gli scavi Rassam scoprì un prisma di argilla di Tiglath-Pileser (1115-77 a. C.), il primo re che registrò le proprie gesta su questo tipo di supporto. Così Rawlinson lo descrisse ai membri della Royal Asiatic Society:

A splendid relic, containing 800 lines of beautiful writing, at least 100 years older than the oldest monument hitherto discovered. It was, when found, broken into a hundred fragments, and in some parts, even reduced to powder; but the whole was now carefully joined together, and barely a dozen lines lost.4 Un prisma analogo era già al British Museum, un terzo fu trovato ancora da

Rassam in novembre, molto rovinato. Anche la seconda scoperta fu merito di Rassam e della sua tenacia nel lottare

contro i Francesi. Nel 1851, nel corso di un incontro a Samsun, sul Mar Nero, Place e Rawlinson si erano accordati per dividersi amichevolmente le rispettive zone di ricerca archeologica: c’era materiale per tutti, e nell’ottica dei due diplomatici l’importante era soprattutto non suscitare vespai che potessero irritare i locali e le autorità di Istambul. In particolare, secondo questo accordo, l’enorme Tell di Kouyounjik avrebbe dovuto essere scavato di comune accordo, a nord dai francesi, proseguendo gli scavi avviati da Botta con pochi risultati nel 1842 e a sud dagli inglesi, là dove era stata trovata la biblioteca di Sennacherib.

1 Fra queste va citato il famoso Taylor Prism, ora al British Museum (WA 91032), da Niniveh, con il racconto delle campagne di Sennacherib e del tributo di Ezechia re di Giuda. 2 L. ADKINS, op. cit., p. 305. 3 Hormuzd Rassam era nato nel 1826 a Mossul, da una famiglia cristiana caldea ed era stato dal 1846 assistente di Layard negli scavi di Nimrud e di Niniveh. Quando Layard lasciò l’Oriente, egli fu assunto dal British Museum con il compito di proseguire negli scavi, sotto la supervisione di Rawlinson. Fu anche incaricato di altre missioni, e nel corso di una di queste, in Abissinia, fu imprigionato da Re Teodoro per due anni, e liberato da una spedizione inglese. Scavò instancabilmente, con molta fortuna, ma spesso in modo disordinato e senza sorvegliare adeguatamente gli operai, che trafugarono molti reperti: questo provocò una polemica tra lui e Rawlinson, che finì in un processo per diffamazione, nel quale Rawlinson fu condannato. Rassam aveva adottato completamente le abitudini e inglesi. Mentre parecchi europei si vestivano abitualmente alla maniera araba, giudicando più comodo quel tipo di abbigliamento, Rassam era solito dirigere gli scavi nel deserto iracheno vestito di tutto punto come un gentleman: giacca, cravatta, panciotto e cappello a cilindro. Trascorse gli ultimi anni in Inghilterra, amareggiato per non aver visto riconoscere il proprio lavoro, e morì nel 1910. Pubblicò pochissimo (H. RASSAM, Excavations and Discoveries in Assyria, 1882; Asshur and the Land of Nimrod, New York, 1897). 4 L. ADKINS, op. cit., p. 321.

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Ma Rassam non aveva nessuna intenzione di rispettare questo accordo, ed era convinto che proprio nella parte nord fosse possibile fare le scoperte più importanti. Così fece disporre le proprie tende in modo da dare l’impressione che stesse apprestandosi alla partenza, e il 20 dicembre 1853 si mise a scavare di notte, segretamente, forse corrompendo gli operai di Place. La terza notte scoprì un palazzo, con bassorilievi perfettamente conservati. Poiché per consuetudine chi scopriva un sito ne diventava automaticamente il titolare, il palazzo nord di Niniveh divenne “dominio” inglese. Rassam aveva trovato il palazzo di Assurbanipal (668-627), e pochi giorni dopo avrebbe fatto quella che molti considerano la più grande scoperta archeologica del secolo in Mesopotamia, l’immensa libreria di tavolette. Place naturalmente arrivò sul luogo protestando, e Rawlinson, con la consueta abilità diplomatica, sistemò le cose, permettendo ai francesi di portare al Louvre, a titolo di compensazione, un buon numero di bassorilievi. Rimasero però agli inglesi, e finirono al British Museum, tutte le tavolette. Con una complicazione: forse a causa della fretta, forse perché Rassam era tutto sommato un pasticcione, fortunato e abile, ma privo di metodo scientifico, forse deliberatamente, per mascherare in qualche modo l’importanza dei ritrovamenti, le tavolette provenienti dalla biblioteca di Assurbanipal, e trovate nel 1853, si mescolarono con quelle della biblioteca di Sennacherib, trovata da Layard nel 1850. Ne risulta che ancora oggi non è sempre facile distinguere tra le due diverse provenienze, quando la tavoletta non reca specifiche indicazioni1.

Rawlinson si rendeva ormai perfettamente conto dell’importanza dI questi oggetti, dall’aspetto polveroso e poco attraenti. Aveva cominciato a esaminare la biblioteca di Sennacherb, trovata da Layard qualche anno prima, sempre a Niniveh, e così ne parlava ai propri corrispondenti di Londra:

I have found fragments of alphabets, syllabaria, and explanations of ideographic signs. In one place, a table of notation, giving the phonetic readings of all the signs, and shewing that the Assyrians counted by sixties, as well as by hundreds [...] The numbers are completely Semitic, and of great interest. Among the tablets there are also elaborate dissections of the Pantheon; geographical dissertations explaining the ideographic signs for countries and cities, designating their products, and describing their position; the same with the principal Asiatic rivers and mountains. Again, there are treatises on weights and measures, divisions of time, points of the compass, &c. &c. There is an almanack for twelve years [...] I find, indeed, that all the old annals are numbered according to this cycle, each year having a particular name [...] Again, we have lists of stone, metals, and trees; also astronomical and astrological formula without end. I suspect likewise, there are veritable grammars and dictionaries [...] The whole collection is in fragments, but it gives us a most curious insight into the state of Assyrian science whilst Greece was still sunk in barbarism [...] The tablets upon which I have been engaged form, it must be remembered, the lower stratum, the debris, in fact, of the Royal library, while Layard’s collection, which was first found, and formed the upper layer, is, of course, in much better preservation [...] Altogether, I am delighted at the splendid field now opening out. The labour of carrying through a complete analysis will be immense; but the results will be brilliant.2

La biblioteca di Assurbanipal, come già si è visto, si sarebbe rivelata ancora più

importante. Proprio tra queste tavolette, trasferite a Londra e depositate al British Museum, un giovane studioso, vent’anni dopo, avrebbe trovato un testo destinato a suscitare l’interesse del mondo intero.

Rawlinson non si dedicava personalmente agli scavi, e preferiva impiegare allo

scopo i propri agenti, Rassam per primo. Solo in un caso scese in campo personalmente, come al solito con notevoli risultati. A Birs Nimrud, a sud-ovest di Babilonia, esistevano i resti di un immenso zigurrat, che molti viaggiatori avevano identificato con le rovine dell’antica Torre di Babele. Nell’ottobre del 1854 Rawlinson ebbe l’idea di fare ricerche nelle fondamenta della costruzione, agli angoli. In due di questi egli trovò due cilindri d’argilla in perfette condizioni che descrivevano la ricostruzione di quell’edificio, tempio di

1 Negli inventari del British Museum sia le tavolette di Sennacherb, sia quelle di Ashurbanipal sono catalogate con la lettera K. seguita da un numero, dove K sta per l’iniziale del luogo, Koyunijk. 2 L. ADKINS, op. cit., pp. 321-22.

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Nabu, dio degli scribi e della scrittura, ad opera di Nebuchadnezzar. I cilindri davano anche il nome del luogo, Borsippa.

Nel marzo 1855 Rawlinson si dimise dal proprio incarico e ritornò in Inghilterra, dove arrivò agli inizi di maggio, per dedicarsi, queste erano le intenzioni, interamente agli studi, dopo 28 anni di servizio. L’anno dopo ricevette il titolo di sir.

Proprio in questi anni si dedicò alla decifrazione della scrittura cuneiforme un altro importante e curioso personaggio, William Talbot, universalmente noto come uno degli inventori della fotografia. Talbot si concentrò soprattutto sul prisma di Tiglath-Pileser I trovato da Rassam ad Assur, che il British Museum aveva fatto litografare. Il 17 marzo 57 egli mandò alla Royal Asiatic Society la propria traduzione, con la traslitterazione del testo, in una busta sigillata. Molti non credevano ancora che fosse possibile leggere le scritture cuneiformi e pensavano che Rawlinson, Hincks, e altri decifratori procedessero con molta fantasia, inventando più che traducendo. Come scrisse chiaramente Talbot:

Many persons have hitherto refused to believe in the truth of the system by which Dr Hincks and sir H. Rawlinson have interpreted the Assyrian writings, because it contains many things entirely contrary to their preconceived opinions. For example, each Cuneiform group represents a syllable, but not always the same syllable; sometimes one, and sometimes another. To which it is replied, that such a licence would open the door to all manner of uncertainty; that the ancient Assyrians themselves, the natives of the country, could never have read such a kind of writing, and that, therefore, the system cannot be true, and the interpretations based upon it must be fallacious [...] Experience, however, shows that the uncertainty arising from the source is not so great as might easily be imagined. Many of the Cuneiform groups have only one value, and others have always the same value in the same word or phrase, so that the remaining difficulties and uncertainties of reading are reduced within moderate limits. Practically speaking, and considering the newness of the study, there is a far amount of agreement between different interpreters in their versions of the Assyrian historical writings of average difficulty.1

Talbot propose quindi che la sua traduzione fosse aperta solo dopo l’arrivo della traduzione di Rawlinson. Se due traduzioni dello stesso testo fatte indipendentemente l’una dall’altra sono uguali, egli sosteneva, non c’è dubbio che esse sono veritiere, perché non è possibile che due pseudotraduttori inventino ciascuno per proprio conto le stesse fantasie. Oppert, che era presente alla seduta del 21 marzo, chiese di partecipare all’esperimento con una propria traduzione, e il 20 maggio la Royal Asiatic Society invitò anche Hincks (il quale, come al solito, si lamentò per essere stato interpellato in ritardo e di avere avuto molto meno tempo a disposizione rispetto ai “concorrenti”). Il 20 maggio 1857, nel corso di una seduta straordinaria della Royal Asiatic Society, le buste sigillate furono aperte e le quattro traduzioni confrontate. Le traduzioni di Rawlinson, Hincks e Talbot furono trovate identiche nel senso e in genere anche nelle parole, mentre quella di Oppert apparve difettosa: ma diplomaticamente il comitato attribuì questi difetti alla scarsa conoscenza della lingua inglese da parte di Oppert: se avesse tradotto in francese, si affermava, la sua traduzione sarebbe stata senza dubbio più chiara e più precisa. Le due traduzioni più coincidenti erano quelle di Rawlinson e di Hincks, e questo si spiegava con la loro maggiore conoscenza dell’argomento. Si riteneva comunque che dato il particolare carattere dell’iscrizione presa in esame, ricca di nomi propri e di parole appartenenti ad argomenti diversi, la sostanziale coincidenza delle tre traduzione dimostrasse oltre ogni dubbio che la scrittura cuneiforme era ormai correttamente leggibile agli studiosi moderni (anche se, aggiungiamo noi, in tutto il mondo questi studiosi erano solamente due, Rawlinson e Hincks, tre se si considerava anche Talbot). Le persone dubbiose rimasero tali ancora per parecchio tempo: ma non c’è dubbio che a partire dal 1857 la lettura delle iscrizioni cuneiformi passò dalla fase sperimentale alla dignità di vera e propria scienza, acquistando via via un maggior numero di specialisti.

La carriera di Rawlinson nel frattempo divenne sempre più brillante e rapida: nel giro di pochi mesi divenne successivamente Crown Director della East India Company, deputato al Parlamento, membro dell’India Council, e infine generale e ambasciatore in Persia. Partì per Tehran nell’agosto 1859 e arrivò in dicembre. La sua perfetta conoscenza 1 L. ADKINS, op. cit., p. 338.

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della lingua e della cultura persiane e il suo prestigio gli assicurarono un grande successo alla corte dello Shah. Si dimise però pochi mesi dopo, per contrasti con il governo, e ritornò a Londra nel luglio 1860. Passò il resto della sua vita tranquillamente, lavorando per il British Museum alla traduzione di tavolette, e facendo ancora importanti scoperte. Si sposò nel 1862 con una ragazza di 29 anni che gli diede due figli e morì prima di lui nel 1889. Fu eletto di nuovo deputato, ma lasciò poi il Parlamento per un posto altamente remunerato all’India Council. Fu anche Presidente della Royal Geographical Society e Presidente della Royal Asiatic Society. Nel 1891 fu fatto baronet. Il 26 febbraio 1895 partecipò alla riunione settimanale dell’India Council, e una settimana dopo morì, il 5 marzo, a 84 anni di età. Hincks era morto invece nel 1866, sempre amareggiato per non aver ricevuto le considerazioni che a sua avviso meritava.

I calchi dell’iscrizione di Behistun presi da Rawlinson con larghi fogli di carta

bagnata, e depositati al British Museum, si rivelarono preziosi per le ricerche. Purtroppo, verso la fine del secolo, la loro intrinseca fragilità, e forse l’opera dei topi, li avevano resi inutilizzabili. I disegni realizzati da Rawlinson erano invece eccellenti, ma non privi di errori (per altro pochissimi considerate le circostanze della copiatura). Inoltre Rawlinson, come si è visto, aveva dedicato poca attenzione alle quattro colonne poste alla destra del bassorilievo, per complessive 323 righe, delle quali si ignorava ancora tutto1, anche se Rawlinson e Norris avevano capito che esse erano, per quanto era stato possibile leggere, in Elamitico. Molti altri studiosi ebbero quindi il compito di proseguire nel lavoro. Le prime fotografie del monumento furono scattate nell’aprile 1903 da Abraham Valentine Williams Jakson, professore alla Columbia University, la prima persona che salì a Behistun dopo Rawlinson, e l’anno successivo una spedizione patrocinata dal British Museum, con Leonard William King e con Reginald Campbell Thompson, controllò da vicino le trascrizioni di Rowlinson2. Infine nel 1948 George G. Cameron riuscì a costruire davanti alle incisioni una specie di ponteggio, e poté prendere un nuovo calco, in lattice, delle iscrizioni e dei rilievi, nel frattempo molto deperiti, le une e gli altri, a causa di vandalismi e di infiltrazioni d’acqua. Grazie al ponteggio, Cameron riuscì infine a leggere le quattro colonne misteriose: ma ebbe la delusione di scoprire che esse erano una copia esatta delle tre colonne in Elamitico, in peggiori condizioni di conservazione. Nel frattempo le ricerche archeologiche nei siti assiri e babilonesi avevano fatto enormi progressi, portando alla luce sempre maggiori quantità di documenti scritti. Le prime scoperte ad Ashur (Qalat Sherqat) erano state fatte da Layard e da Rassam: una statua di Shalmaneser III seduto su un trono, sul quale una lunga iscrizione cuneiforme descriveva minutamente le mura della città, e il celebre prisma di argilla di Tiglath-Pileser I, che tanta parte ebbe nella decifrazione delle scritture akkadiche. Tra il 1903 e il 1913 Ashur fu scavata da Koldewey e da Walter Andrae.3 Recentemente è stata scavata da archologi irakeni e tedeschi. La più antica iscrizione trovata ad Ashur riguarda Ilushuma I (XX secolo). Il periodo meglio documentato è però quello di Tukulti-Ninurta I (fine XIII secolo) figlio di Salmanassar I, che portò l’Assiria al massimo della sua potenza politica e militare. Abbiamo anche di lui molte orgogliose iscrizioni, e ben nove documenti (in pietra, in alabastro, in piombo, in oro) relativi alla rifondazione del tempio di Ishtar. Dopo aver annesso Babilonia all’Impero Assiro, Tukulti Ninurta I trasferì nella propria capitale molti

1 King ad esempio, pur affermando che esse erano scritte in susiano, supponeva che si riferissero “in part to the events described in the fifth column of the Persian text”, la cui traduzione mancava nelle colonne a sinistra (p. xiii). 2 [L. W. KING, R. C. THOMPSON,] The Sculptures and Inscription of Darius the Great on the Rock of Behistun in Persia. A new collation of the Persian, Susuian, and Babylonian texts, with english translations, printed by order of the Trustees, sold at the British Museum [...], 1907. Il nome degli autori compare solo nella prefazione di E. A. Wallis Budge.Questa edizione e questa traduzione sono considerate oggi le più autorevoli. 3 Walter Andrae (1875-1956), nato nei pressi di Lipsia, studiò architettura e lavorò con Koldewey a Babilonia. Scavò poi ad Ashur, a Shuruppak, e a Hatra, capitale dei Parti. Fu uno scienziato meticoloso, ma anche un valido artista, assai abile nel ricostruire in acquerelli e disegni l’immagine delle città da lui studiate. Si deve a lui la ricostruzione della porta di babilonia al Pergamon Museum di Berlino.

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funzionari della città sconfitta, e questo incrementò notevolmente l’uso della scrittura ad Ashur. Nell’angolo sud-est del tempio del dio Ashur sono stati scoperti moltissimi testi del periodo Medio Assiro

Comprendevano le normali opere di consultazione (liste di segni, liste lessicali, vocabolari), raccolte di presagi, inni, preghiere, rituali e anche molti altri testi specialistici, come ricette di profumi (scritte per istruire le donne che li producevano), un manuale di addestramento dei cavalli, liste di piante medicamentose e composizioni letterarie, alcune in Sumerico (Il ritorno di Ninurta), altre bilingue (i miti di creazione) e un catalogo di titoli di canzoni. La possibilità di accedere a una tale varietà di lavori fu di grande importanza per gli scribi e li ispirò a comporre una narrazione epica di settecento versi in lode di Tukulti-Ninurta, ricca di riferimenti colti e artifizi letterari.1

Alla fine del secolo (1899-1917) cominciarono anche gli scavi a Babilonia. Il

protagonista di questi scavi fu l’archeologo tedesco Robert Koldewey,2 al quale si devono ritrovamenti eccezionali: le mura di Babilonia, le fondamenta della torre di Babele, la Via Processionale e la celeberrima Porta di Ishtar, gloria del Pergamon Museum di Berlino. Koldewey trovò anche delle cantine con archi a volta, e suppose, erroneamente, che si trattasse dei Giardini Pensili, una delle meraviglie del mondo. Oggi si ritiene che questi locali servissero non a reggere dei giardini, ma a contenere degli archivi, e in essi si sono trovate tavolette di notevole interesse, soprattutto concernenti i prigionieri che a Babilonia dovevano lavorare.

Jacques de Morgan cominciò a scavare a Susa nel 1897, dove Loftus aveva trovato assai poco. La sua scoperta maggiore, alla fine del 1901, fu la stele col codice di Hammurabi (1792-1750), 3500 righe di scrittura cuneiforme, risalenti al primo regno babilonese. La stele proveniva da Sippar, ma era stata trafugata in tempi antichi dagli Elamiti di Susa.

Sippar, oggi Abu Habbah, fu scavata da Hormuzd Rassam nel 1880, poi da Vincent Scheil nel 1894, da una équipe belga nel 1972-72, e infine da archeologi irakeni. Il solo Rassam spedì a Londra circa 50.000 tavolette, molte delle quali, purtroppo, in non ottime condizioni. Altre tavolette in gran numero finirono sul mercato clandestino quando Rassam abbandonò gli scavi, e sono oggi sparse nei principali musei del mondo. Wallis Budge ne acquistò parecchie per il British Museum. Oltre alle tavolette, Sippar ci ha restituito anche numerose iscrizioni, risalenti all’epoca protodinastica (su una statua al re di Mari Iku-shumugan), ai re akkadici (su punte di lancia) ad Hammurabi (una stele) e anche a periodi assai più recenti. La maggior parte delle tavolette risale invece al periodo Antico Babilonese, ritrovate all’interno del cosiddetto gagum, “chiostro”, un recinto in cui si ritiravano le donne naditu, figlie di personaggi molto importanti, per dedicarsi al servizio della divinità. Un altro notevole gruppo di tavolette è stato ritrovato in templi Neobabilonesi, agli inizi del secolo e anche recentemente.

La città siriana di Mari fu scoperta piuttosto tardi, nell’agosto 1933, grazie ad alcuni contadini che scavando un fossato in un luogo denominato Tell Hariri trovarono casualmente un’antica statua. Le ricerche archeologiche furono condotte dai francesi, prima da André Parrot, e recentemente da Jean-Claude Margueron. Si scoprì che Mari era una città potente, con palazzi, templi e ricche case. Il palazzo in particolare, risalente al periodo di Ur III e all’Antico Babilonese, si rivelò essere tra i più ricchi e meglio conservati dell’intera Mesopotamia (2,5 ha. di superficie e circa 260 stanze). Mari fu conquistata e distrutta da Hammurabi intorno al 1760, e questo, come al solito, ha permesso la conservazione dei documenti scritti: circa 20.000 tavolette trovate nelle varie stanze del palazzo, con testi amministrativi, lettere, opere di divinazione. 10 - La scoperta del mondo sumerico 1 GWENDOLYN LEICK, op. cit., pp. 203-04. 2 Robert Koldewey era nato nel Blankenberg, in Germania, nel 1855. Viaggiò molto e fece scavi in Italia e in Grecia. Nel 1899 cominciò a scavare a Babilonia, con metodi che furono assai ammirati, e che fecero scuola. Fu anche scrittore di brillanti lettere. Morì nel 1925.

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Al Congresso di Edinburgo del 1850 Rawlinson fece un annuncio che destò grande

stupore e molte attese. Egli riferì che ... in Lower Chaldea Mr Loftus, the geologist to the Commission appointed to fix the boundaries between Turkey and Persia, had visited cities which no European had ever reached before and had everywhere found the most extraordinary remains [...] At Wurka (or Ur of the Chaldees), whence Abraham came out, he had found innumerable inscriptions; they were of no great extent, but they were exceedingly interesting, giving many royal names previously unknown. Wurka (Ur or Orchoe) seemed to be a holy city, for the whole country, for miles upon miles, was nothing but a huge necropolis. In none of the excavations in Assyria had coffins ever been found, but in this city of Chaldea there were thousands upon thousands.1 Era il primo annuncio in Europa della scoperta dei Sumeri, anche se né Rawlinson

né Loftus potevano ancora immaginare l’importanza di quella civiltà agli albori della storia. Warka tuttavia non era Ur, ma Uruk, l’Erech biblica (l’identificazione si deve allo stesso Rawlinson, qualche tempo dopo), citata dal Genesi e fondata da Nimrud, la patria di Gilgamesh.

William Loftus2 era geologo di una commissione incaricata di stabilire i confini a sud tra Turchia e Persia, nella zona di Bassora. Nel corso del viaggio fece alcuni scavi, per tre settimane. Nella zona non c’erano pietre, ma solo muri di mattoni, che sfuggirono alle ancora rudimentali tecniche di scavo di quei tempi. A Warka trovò tuttavia alcune tavolette e montagne di sarcofagi.

Nell’ottobre 1851, come si è visto, Rawlinson ritornò a Baghdad. Questo gli permise di seguire con attenzione i lavori degli archeologi nell’estremo sud del paese, e di riferire sulle scoperte che si stavano facendo in quella regione. Già alla fine del 1852 egli aveva scritto una lettera in proposito alla Royal Asiatic Society, letta nel febbraio 1853, in cui raccontava degli scavi condotti dai suoi agenti a Warka. In essa egli parlava di iscrizioni e di reperti molto più antichi di quelli sino ad allora trovati, e indicava le popolazioni del luogo come “Schytians” con una lingua simile all’Elamitico. Nel dicembre 1855, ritornato in Inghilterra e parlando direttamente alla Società, aggiungeva altri particolari: che i primi abitanti della Mesopotamia non erano semiti, che avevano inventato la scrittura prima con pittogrammi e poi dando a questi segni valore fonetico, e che l’esistenza di due scritture, una delle quali più primitiva, era dimostrata da molte tavolette bilingui trovate a Niniveh. Rawlinson e Hincks parlarono nei primi tempi di “Akkadians”, anche se il primo aveva già incontrato la parola Shumir. Fu Oppert nel 1869 a proporre il termine “Sumeri”, che da allora fu universalmente adottato.

Che la scrittura cuneiforme derivasse da quella di un altro popolo, non semitico,

appariva evidente anche per considerazioni di carattere linguistico. Nella scrittura cuneiforme, infatti, lo stesso segno aveva a volte valore di pittogramma, a volte valore fonetico. Ma i due valori non corrispondevano: ad esempio il segno del bue, facilmente identificabile, rappresentava anche la sillaba gud. Ma nelle lingue semitiche bue si dice alp, suono completamente diverso. E così in moltissimi casi. Bisognava quindi supporre l’esistenza, prima dei semiti, di un popolo presso cui il bue fosse chiamato gud.

Nel 1866, lo stesso anno della morte di Hincks, un giovane, George Smith,

cominciò a studiare le iscrizioni cuneiformi del British Museum. Smith non aveva preparazione accademica: era nato nel 1840 e lavorava come apprendista nell’incisione delle banconote. Ma aveva un’enorme passione per l’Oriente e per i problemi che la scoperta delle scritture mesopotamiche stava ponendo in quegli anni. Scrisse a Rawlinson,

1 L. ADKINS, op. cit., pp. 295-96. 2 Loftus, che scomparve prematuramente nel 1858, a soli 37 anni, ci ha lasciato un importante libro: W. K. LOFTUS, Travels and Researches in Chaldea and the Susiana, with an Account of the Excavations at Warka, the “Erech” of Nimrud, and Shush, “Shusha”, the Palace of Esther, London, 1857.

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che lo aiutò generosamente, e che, colpito dal suo brillante ingegno e dalla sua straordinaria abilità nel leggere le iscrizioni, lo raccomandò a Birch, allora responsabile del Dipartimento Orientale del British Museum, dal quale fu assunto agli inizi del 1867. Cinque anni dopo, nel 1872, Smith fece una scoperta di straordinario interesse. Il suo lavoro consisteva nel decifrare e tradurre l’enorme numero di tavolette trovate da Layard, Rassam e Loftus nelle biblioteche dei palazzi di Niniveh. In una tavoletta non intera, ma di dimensioni relativamente grandi, egli scoprì una narrazione del diluvio universale più antica di quella della Bibbia, e coincidente su molti punti. Si mise subito alla ricerca di altri frammenti e fu fortunato.

In the mound of Kouyunjik, opposite the town of Mosul, Mr. Layard discovered part of the Royal Assyrian library, and further collections, also forming parts of this library, have been subsequently found by Mr. H. Rassam, Mr. Loftus, and myself. Sir Henry Rawlinson, who made the preliminary examinations of Mr. Layard treasures, and who was the first to recognize their value, estimated the number of these fragments of inscriptions at ofer twenty thousand. [ ...] When at work preparing the fourth volume of Cuneiform Inscriptions, I noticed references to the Creation in a tablet numbered K 63 in the Museum collection, and allusions in other tablets to similar legends; I therefore set about searching through the collection, which I had previously selected under the head of “Mithological tablets”, to find, if possible, some of these legends. This mythological collection was one of six divisions into which I had parted the Museum collection of cuneiform inscriptions for convenience of working. By placing all the tablets and fragments of the same class together, I had been able to complete several texts, to easily find any subject required, and at any time to get a general idea of the contents of the collection. The mythological division contained all tablets telating to the mythology, and all the legends in which the gods took a leading part, togetherwith prayers and similar subjects. Commencing a steady search among these fragments, I soon founf half of a curious tablet which had evidently contained orifginally six columns of text; two of these (the third and fourth) were still nearly perfect; two others (the second and fifth) were imperfect, about half remaining, while the remaining columns (the first and sixth) were entirely lost. On looking down the third column, my eye caught the statement that the ship rested on the mountains of Nizir, followed by the account of the sending forth of the dove, and its finding no resting-place and returning. I saw at once that I had here discovered a portion at least of the Chaldean account of the Deluge. I then proceeded to read through the document, and found it was in the form of a speech from the hero of the Deluge to a person whose name appeared to be Izdubar. I recollected a legend belonging to the same hero Izdubar K. 231, which, on comparison, proved to belong to the same series, and then I commenced a search for any missing portions of the tablets.1

In parte Smith riuscì a completare la tavoletta con frammenti già portati a Londra.

Ma anche così essa era incompleta. Si rendeva necessaria una nuova spedizione in Mesopotamia. Smith era uno studioso da tavolino, ma di punto in bianco si assunse il compito di partire per una difficile missione archeolgica in una terra lontanissima (il viaggio richiedeva circa tre mesi). Quanto a trovare le tavolette desiderate in mezzo a una montagna di macerie e di scavi abbandonati, era come andare alla ricerca del classico ago nel pagliaio. Eppure l’inesperto Smith, ottenuti dalle autorità i necessari permessi, cominciò il lavoro il 7 maggio, e già il 14 otteneva, i primi risultati, scoprendo proprio i frammenti mancanti alla tavoletta del British Museum.

Negli anni successivi Smith fu altre due volte in Mesopotamia: scoprì nei suoi scavi più di 2.000 tavolette, e altrettante riuscì ad acquistare dai mercanti locali. Morì purtroppo ancora giovane, nel 1876, ad Aleppo, mentre cercava di tornare in Inghilterra per guarire da una malattia contratta durante il lavoro.

Smith aveva scoperto la versione Neo Assira di un’epopea molto più antica, risalente al periodo sumerico, la saga di Gilgamesh. Aveva anche capito che l’opera era suddivisa in dodici tavolette. La storia del Diluvio è raccontata nella tavoletta XI, che è anche l’ultima della storia vera e propria. La tavoletta XII è una versione akkadica dell’ultima metà del poema sumerico Gilgamesh Enkidu e il mondo degli Inferi, che non ha rapporto con il resto della narrazione.

1 G. SMITH, The Chaldean Account of Genesis, 1876, pp. 1 e segg.

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La prima edizione della storia di Gilgamesh, per l’esattezza delle tavolette VI e XI del testo di Niniveh, apparve nel 1875, a cura di Smith e di Rawlinson, nel quarto volume di un’antologia intitolata Cuneiform Inscriptions of Western Asia.1 Negli anni successivi il rinvenimento di nuovi frammenti permise di proseguire nel lavoro, e intorno al 1930 si poteva dire che la ricostruzione delle dodici tavolette in cui l’opera si divideva era ormai completata.

Ben cinque testi sumeri ci narrano le avventure di Gilgamesh:

- Gilgamesh, Huwawa e la Foresta di Cedri - Gilgamesh e il Toro del Cielo - Girgames, Enkidu e il Mondo degli Inferi - Gilgamesh e Agga - La Morte di Gilgamesh

Questi poemetti furono composti probabilmente all’epoca della Terza dinastia di

Ur, sulla base di tradizioni più antiche (ad Abu Salabikh sono state trovate tavolette che parlano di Lugalbanda, risalenti al periodo protodinastico III). I cinque poemi sumeri non costituiscono un corpus unitario, e Gilgamesh ricopre in essi vari ruoli, non sempre omogenei: ora è un avventuriero, ora è il re di Uruk, ora è giudice dell'oltretomba o fratello di Ishtar. I poemetti sumerici sono documentati soprattutto da tavolette trovate a Nippur da John Punnet Peters e ora conservate al Museo dell’ Università della Pennsylvania a Philadelphia.

Gilgamesh è citato dalla Lista dei Re Sumeri come quinto re della prima dinastia di Uruk, il secondo re dopo il Diluvio, con un regno di 127 anni. Questo corrisponde al periodo Protodinastico III, circa 2600 a. C. Già un secolo dopo, in base a tavolette trovate a Shuruppak, Gilgamesh e il suo probabile padre Lugalbanda erano considerati semidei. Gli si attribuisce la costruzione delle mura di Uruk. In un poema sumerico si narra la sua guerra con Agga, re di Kish: questo è figlio di Enmebaragesi, personaggio storico documentato da un’iscrizione, che già abbiamo incontrato.

La cultura akkadica fece propria la saga di Gilgamesh. Nel periodo Antico Babilonese, questi poemetti furono raccolti in un unico testo, forse ad opera di uno scriba di nome Sin-leqe-unninni (questo nome è dato dai colophon delle versioni Neo assire). E’ probabile che questa revisione del poema comprendesse già dodici tavolette. Ci sono rimasti parecchi frammenti della versione in Antico babilonese. Un primo frammento di questa versione, sulla base della cosiddetta tavoletta di Berlino, proveniente da Sippar, fu pubblicato nel 1902 dal tedesco Bruno Meissner (questo frammento corrisponde alla tavola X della versione di Niniveh). Qualche anno dopo un altro frammento fu pubblicato negli Stati Uniti da Stephen Langdon (tavola II). Così Langdon presenta la tavoletta:

In the year 1914 the University Museum secured by purchase a large six column tablet nearly complete, carrying originally, according to the scribal note, 240 lines of text. The contents supply the South Babylonian version of the second book of the epic Sa nagba imuru, “He who has seen all things”, commonly referred to as the Epic of Gilgamish. The tablet is said to have been found at Senkere, ancient Larsa near Warka, modern arabic name for and vulgar descendant of the ancient name Uruk, the Biblical Erech mentioned in Genesis X. 10. This fact makes the new text the more interesting since the legend of Gilgamish is said to have originated at Erech and the hero in fact figures as one of the prehistoric Sumerian rulers of that ancient city. [...] A fragment of the South Babylonian version of the tenth book was published in 1902, a text from the period of Hammurapi, which showed that the Babylonian epic differed very much from the assyrian in diction, but not in content. The new tablet,

1 Cuneiform Inscriptions of Western Asia, Prepared for publication by ... Sir H. C. RAWLINSON (vols. I, II); by GEORGE SMITH (vols. III, IV); by T. G. PINCHES (vol V), London, British Museum, Department of Egyptian and Assyrian Antiquities, 5 vv., 1861-84, folio.

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which belongs to the same period, also differs radically from the diction of the Ninevite text in the few lines where they duplicate each other.1

Altre tavolette relative alla stessa versione Antico Babilonese del poema sono conservate a Yale (il seguito della tavoletta di Philadelphia), a Chicago, a Londra (il seguito della tavoletta di Berlino), a Baghdad. Tutte queste tavolette provengono non da scavi, ma dal mercato clandestino. Non stupisce che una tavoletta sia il seguito dell’altra: per aumentare il ricavo i mercanti, non contenti di vendere tavolette rubate, avevano l’abitudine di spezzare in più parti la stessa tavoletta e di venderla separatamente. La tavoletta di Londra2 fu venduta a Loftus nel 1902 dallo stesso mercante che pochi mesi prima aveva venduto il frammento finito a Berlino, e lo stesso vale per le tavolette di Philadelphia e di Yale, vendute nel 1914.

La scoperta di questa versione del poema suscitò grande interesse, per una ragione molto semplice: mentre i testi sumerici sono molto diversi dalla più nota versione Neo Assira, la versione in Antico Babilonese, è ad essa molto simile nella struttura, anche se diversa nel testo. Ciò significa che già all’epoca di Hammurabi i poemetti sumerici erano stati rielaborati in una forma più organica, che a sua volta fu ripresa dagli scribi di Assurbanipal.

Nel corso del secondo millennio l’epopea di Gilgamesh continuò a diffondersi, in Mesopotamia e anche nelle regioni che erano influenzate dalla cultura mesopotamica. Si conoscono varie versioni frammentarie del poema, sia in medio Babilonese, sia scritte in lingue non accadiche: Hittita, Elamitico, Hurrico. Un ritrovamento a Megiddo dimostra che il poema era conosciuto in Palestina prima che vi arrivassero gli Ebrei.3 Tutte queste versioni seguono il testo antico Babilonese, e ci permettono di integrare le lacune, sia della versione antica sia della versione Neo Assira.

Non è chiaro se le versioni sumeriche e babilonesi dell’epopea di Gilgamesh incorporassero il racconto del Diluvio. Nella versione Neo Assira ritrovata da Smith la storia del Diluvio è riportata nella XI tavoletta, proprio quella che capitò tra le mani dello studioso nel 1872. Dopo la morte dell’amico Enkidu, Gilgamesh si mette alla ricerca dell’unico uomo che fosse riuscito a ottenere l’immortalità, Utnapishtim. Dopo un lungo e periglioso viaggio, cosparso di prove, Gilgamesh lo raggiunge, ed è sorpreso dal suo aspetto cadente: Utnapishtim ha infatti ottenuto dagli dei l’immortalità, ma non l’eterna gioventù. L’immortalità gli è stata data per essere sopravvissuto al grande Diluvio, di cui egli racconta a Gilgamesh la storia. Utnapushtim propone allora a Gilgamesh due mezzi attraverso cui raggiungere l’immortalità, ma questi fallisce in entrambe le prove, e ritorna infine a Uruk.

La storia del Diluvio è però narrata in un’altra opera sumera, che non ha nulla a che fare con l’epopea di Gilgamesh, e che ci è rimasta in una singola copia, incompleta: vi si racconta l’inizio della storia umana, la fondazione delle prime città, la decisione degli dei di distruggere gli uomini con il diluvio, e la sopravvivenza di un solo uomo, Ziusudra, al quale è concessa l’immortalità..

Un’altra narrazione del Diluvio, anch’essa indipendente dall’epopea di Gilgamesh, fu scritta nel periodo Antico Babilonese, e ci è nota da tre tavolette di 1245 righe complessive, copiate cento o duecento anni dopo, intorno al 1635. Queste tavolette sono al British Museum. Dopo la creazione gli uomini si moltiplicano e il loro rumore impedisce a Enlil di dormire. Il dio decide allora di sterminare gli uomini con un Diluvio, ma il dio Enki avvisa con un sogno un suo protetto, Atrahasis. Questi costruisce un’arca, imbarca la sua famiglia e gli animali e si salva. Dopo il Diluvio, Atrahasis attira gli dei con dei sacrifici, e tutto si sitema per il meglio. 1 STEPHEN LANGDON, The Epic of Gilgamish, Philadelphia, Published by the University Museum (Publications of the Babylonian section, vol. X, n. 39), 1917, p. 207. 2 Acquistata da Loftus per conto del British Museum fu riscoperta e identificata solo nel 1964 da A. R. Millard. 3 La scoperta che la narrazione biblica del diluvio riprendeva un racconto già diffuso da più di mille anni, trasformandola in chiave monoteista, suscitò infinite polemiche, che culminarono nella conferenza Babel und Bibel di Friedrich Delitzsch, il 13 gennaio 1902, alla presenza dello stesso imperatore Wilhelm II.

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Anche la Lista dei Re Sumeri cita esplicitamente il Diluvio, e divide i re tra quelli vissuti prima, e quelli vissuti dopo. La lista dei re fu compilata in forma canonica intorno al 1800 da un erudito babilonese, da testi risalenti al XXII secolo, ed ebbe grande fortuna. Ne conosciamo circa venti diverse copie dello stesso periodo, e fu ripresa e aggiornata sino all’epoca Neo Assira e poi ancora in età ellenistica. Per quanto riguarda gli inizi, le liste dei re più complete citano otto re che regnarono da cinque diverse città prima del Diluvio. Ziusudra è l’ultimo re prima del Diluvio. Ma questa sezione è probabilmente un testo separato, aggiunto ad alcune versioni della Lista, ma non a tutte.

Le liste dei Re Sumeri sono citate a volte anche con l’incipit, NAM.LUGAL. Lugal significa re, e NAM è un determinativo che indica i nomi astratti: il termine quindi vale regalità, potere regale. Per l’esattezza l’incipit delle Liste è “Quando il potere regale fu dato dal cielo, il potere regale era a Eridu...” Proprio perché istituzione di origine divina, il potere era diviso a rotazione tra diverse città. Lo stesso segno che in sumerico indica “governo”, o “anno di governo”, deriva da un pittogramma che rappresentava la navetta del telaio, cioè la parte mobile, ed era usato per indicare il concetto di rotazione.

Le scoperte di Loftus e di Smith imposero all’attenzione del mondo erudito il

problema dei Sumeri. Abbiamo già visto che Rawlinson e Hincks parlavano di Akkadians, e che Oppert usò invece il termine Sumeri nel 1869. Nel 1871 un giovane professore di Oxford, Archibald Henry Sayce pubblicò uno studio in cui per la prima volta erano esaminati a fondo i principi della lingua sumerica, e nel 1873 François Lenormant affrontò lo stesso problema in modo più completo e sistematico. Nel 1905, infine, Fr. Thureau-Dangin riuscì a tradurre in modo coerente le iscrizioni reali in sumerico (cioè con segni ideografici e non cuneiformi), ricostruendo anche la struttura grammaticale della lingua.1

Questi studi dimostravano in modo inequivocabile che la lingua dei Sumeri non

era né indo-europea, né semitica, e di conseguenza che i Sumeri, i primi abitanti della Mesopotamia, e con ogni probabilità gli inventori della scrittura, non appartenevano a nessuna delle due razze. Questa scoperta suscitò incredulità e irritazione in molti ambienti, perché sconvolgeva teorie universalmente accettate. Per secoli si era ritenuto, infatti, che nel Giardino dell’Eden si parlasse una lingua semitica, l’ebraico o una forma arcaica dell’ebraico. Poiché la Bibbia era stata dettata a Mosé e agli altri autori da Dio stesso, la parola di Dio era l’ebraico. Quanto al Giardino dell’Eden era verisimile che la sua collocazione fosse nelle allora fertili pianure della Mesopotamia, da cui proveniva lo stesso Abramo. La scoperta della civiltà accadica mise in crisi questa concezione, dimostrando che prima degli ebrei erano esistiti altri popoli altamente civilizzati, con una loro lingua propria. Ma essendo questi popoli semitici, con lingua semitica, la contraddizione era superabile, se li si considerava antenati o progenitori degli ebrei, e la lingua ebraica un’evoluzione della lingua più antica, anch’essa semitica. Ma l’esistenza dei Sumeri, non semiti, sconvolgeva questo comodo schema. Un’altra teoria molto diffusa alla fine dell’Ottocento prescindeva invece dalla Bibbia e attribuiva l’origine della civiltà ai popoli ariani. Poiché le lingue europee derivavano dal sanscrito, si pensava che in tempi remotissimi un popolo primigenio, gli Arii, viventi da qualche parte in India, e parlanti sanscrito, o una lingua da cui a sua volta il sanscrito deriva, avessero posto i fondamenti della civiltà, circondati da popoli barbarici, dai tratti somatici diversi, dall’intelligenza limitata e dalla civiltà molto primitiva. Da questi Arii o indo-Europei originari sarebbero nate tutte le lingue indoeuropee, a segnare la via maestra della civiltà. Entrambe queste teorie erano fondamentalmente razziste, e presupponevano la superiorità di una razza sulle altre. L’esistenza dei Sumeri le rendeva insostenibili, l’una come l’altra.

Sull’onda di queste polemiche, gli archeologi intensificarono le ricerche. Nel 1877

Ernest de Sarzec, vice console francese a Bassora, cominciò a scavare Tello, l’antica città di

1 FRANÇOIS THUREAU-DANGIN, Les inscriptions de Sumer et d’Akkad, Paris, Ernest Leroux, 1905.

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Girsu, uno dei tre centri urbani che formavano la città-stato di Lagash, scoprendo moltissimi reperti di grande antichità. Il materiale da Girsu fu esposto a Parigi nel 1880 e fu per tutta la cultura europea un’autentica sorpresa: non solo si scopriva, nemmeno trent’anni dopo Layard, una nuova civiltà mesopotamica, ma questa civiltà era anche incommensurabilmente più antica delle altre note, e affondava le proprie origini nei tempi dei patriarchi, prima dei Diluvio. Nel 1894 gli operai di Sarzec scoprirono una camera con 30-40.000 tavolette, molte migliaia delle quali finirono sul mercato clandestino.

La città di Lagash comprendeva tre centri urbani: Lagash (oggi Al-Hiba), Girsu (oggi Tello) e Nina-Sirara (oggi Zurghul). Gursu fu scavata successivamente da Henri de Genouillac, e da André Parrot; Lagash fu scavata da Koldewey e da Donald Hansen. Durande il periodo predinastico I (3000-2700) e III (2600-2350) Lagash fu assai fiorente, con grandi e ricchi templi e con una vasta burocrazia amministrativa, che ci ha lasciato molte tavolette. Lagash fu abbandonata intorno al 2500. Girsu, 25 chilometri a nord-ovest di Lagash, fu capitale dello stato nel periodo protodinastico III, al quale risale un grandissimo numero di tavolette, che ci permettono di ricostruire la struttura amministrativa della città in quel tempo. Lagash rifiorì nel cosiddetto periodo Neosumerico, dopo la caduta di Akkad, sotto la guida di Gudea, del quale possediamo una dozzina di statue in pietra alcune delle quali forse non autentiche. Parecchie fra queste statue recano iscrizioni che descrivono la pietà di Gudea e le sue spedizioni alla ricerca di legno di cedro per costruire templi. Anche due grandi cilindri d’argilla, trovati nelle fondamenta di un tempio al dio Ningirsu, e noti come cilindro A e cilindro B, ci narrano la devozione di Gudea. Il testo, circa 1300 righe, è il più lungo e completo tra gli antichi documenti letterari sumeri.

A partire dal 1888 anche gli americani lavorarono in Mesopotamia. Una spedizione dell’Università di Pennsylvania scavò a Nippur, circa 180 chilometri a sud-ovest di Baghdad, dove gia aveva scavato Layard nel 1851. J. P. Peters, che lavorò alla vecchia maniera, alla ricerca di bottino più che di risultati scientifici, fu comunque assai fortunato: circa 17.000 tavolette trovate a Nippur, in parte nel locali del tempio, in parte in abitazioni (il che costituiva un’importante scoperta), attraversarono l’Atlantico, e sono ora al Museo della Pennsylvania University.1 A Nippur sorgeva anticamente il tempio di Enlil, una delle divinità più importanti della Mesopotamia. Nippur era già abitata nel sesto millenio, e le testimonianze archeologiche abbracciano un periodo che va da quelle lontanissime epoche sino all’800 d. C. Molte di queste tavolette risalgono al periodo sumerico, altre all’antico regno babilonese o anche a tempi più recenti. Soprattutto importanti apparvero quelle contenenti testimonianze dell’antica letteratura sumerica. Dal 1948 hanno lavorato a Nippur gli archeologi dell’Università di Chicago.

Del lavoro di Koldewey a Babilonia abbiamo già parlato. Dal nostro punto di vista, le scoperte più notevoli del grande archeologo e della scuola tedesca furono compiute a Fara. In questa località aveva già scavato Loftus senza particolare fortuna. L’archeologo tedesco Hermann Hilprecht segnalò poi il sito a Koldewey, che vi lavorò per un paio di anni, per passare poi il testimonio a Ernst Heinrich (1902) e poi a Erich Schmidt (1931). Gli scavi rivelarono che la città, identificabile con l’antica Shuruppak, patria di Utnapishtin, uno degli eroi del poema di Gilgamesh, era stata distrutta da un terribile incendio, che come al solito si era rivelato provvidenziale dal punto di vista archeologico. Sino al 3100 il panorama mesopotamico era stato dominato dalla cultura di Uruk, il solo vero centro urbano del paese (e forse di tutta la Terra). Col declino di Uruk, centri urbani minori, come Ur, avevano trovato modo di ingrandirsi, e contemporaneamente si poté assistere al trasformarsi di piccoli villaggi rurali in città, non così grandi e potenti come Uruk, ma pur sempre considerevoli. Una di queste fu appunto Shuruppak, che per tutto il periodo protodinastico conobbe un grande splendore. Gli scavi hanno portato alla luce moltissimi documenti scritti: ne sono state trovati nella cosiddetta Casa delle Tavolette, una grande istituzione che si pensa impiegasse più di mille uomini, e in varie case private (area XVa-d, 1 Nel 1890 l’archeologo tedesco H. V. Hilprecht lavorò a Nippur, cercando di applicare i metodi che nel frattempo Koldewey aveva messo a punto, e scrivendo dei libri in cui si attribuiva il merito di aver scoperto la biblioteca del Tempio di Nippur. Gli americani reagirono e nacquero molte polemiche.

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area XVIIc-d, area XIIIf-i), alle quali facevano capo grandi proprietà terriere e migliaia di lavoratori, sparsi su vasti territori. La maggior parte di queste tavolette sono di tipo amministrativo; ma in una casa dell’area IXa-c sono stati trovati solo testi lessicali e letterari. Gli scavi a Ur furono avviati da Taylor nel 1854, nel luogo noto con il nome moderno di Tell al-Muqayyar. Gli scavi furono continuati nel 1918-19 da H. R. Hall per il British Museum e da Wolley nel 1922-34 per il British Museum e per l’Università della Pennsylvania. L’importanza dei ritrovamenti artistici (le celebri Tombe Reali) venuti alla luce in quest’ultima spedizione non deve far dimenticare che da Ur proviene anche un enorme numero di tavolette, soprattutto relative al periodo di Ur III. Tavolette di questo periodo provengono anche dalle varie città che dipendevano da Ur o che con Ur erano in relazioni commerciali. A Jemdet Nasr, a sud di Baghdad, furono fatti scavi da Stephen Langdon negli anni ’20 del nostro secolo, e da Roger Matthews negli anni ’80. Le particolari caratteristiche dei ritrovamenti in questo sito hanno indotto molti archeologi (non senza qualche discussione) a parlare di un periodo Jemdet Nasr, intermedio tra Uruk III e il primo periodo protodinastico. In particolare è stato trovato un importante archivio di 240 tavolette d’argilla, databili intorno al 3000, contemporanee o poco posteriori al periodo Uruk III. Esse appartengono al tipo di scrittura detto Protosumerico, e trattano di raccolti, animali, terreni, sembra con riferimento a una struttura amministrativa principale, forse un tempio. Molte di queste tavolette portano evidente anche l’impronta di sigilli, in tredici casi con un sigillo che reca i nomi di varie città sumere, Ur, Larsa, Nuppur, Urik, ecc.

11 - Scritture e testi cuneiformi fuori dalla Mesopotamia A - Siria: Mari e Ebla

La città di Mari fu scoperta in modo casuale, nel 1933, da alcuni contadini che scavando un fossato in un luogo chiamato Tell Hariri, sulle rive dell’Eufrate, in Siria, trovarono una statua di pietra. Gli scavi scientifici furono condotti da archeologi francesi, soprattutto da André Parrot e da Jean-Claude Margueron. Nei palazzi di Mari sono state trovate circa 20.000 tavolette cuneiformi, tra cui alcune lettere reali e dei testi di divinazione; la stragrande maggioranza dei documenti è però di tipo amministrativo e commerciale. Questi documenti attestano la ricchezza della città nel periodo della sua massima fioritura, nel XIX-XVIII secolo: intorno al 1760 la conquista e il successivo saccheggio ad opera di Hammurabi posero fine alla sua prosperità.

Nel 1964 una spedizione archeologica italiana, guidata da Paolo Matthiae, cominciò a scavare il sito di Tell Mardikh, in Siria, 55 km a sud-ovest di Aleppo. Furono fatti importanti ritrovamenti: edifici, sculture, oggetti, e un palazzo sul fianco della collina, attribuibile al 2400-2300. Nei primi anni si trovarono solo pochissimi frammenti di tavolette, in cuneiforme assai arcaico. Nel 1974, in una sala del palazzo, furono trovate 40 tavolette, sparse sul pavimento (è probabile che fossero state portate in quella sala per qualche ragione, forse per essere lette, poco prima della caduta della città). Infine, nel 1975, in due piccoli vani affacciati sul portico del cortile principale, fu scoperto l’intero archivio di Ebla, come al solito conservato grazie all’incendio che distrusse la città (ad opera di Sargon di Akkad o di suo nipote Naram-Sin) cuocendo le tavolette. Così scrive Matthiae:

Nel primo dei due ambienti, certo un piccolo magazzino, un migliaio di tavolette e di frammenti sono stati rinvenuti nel riempimento dei mattoni crudi derivante dai crolli susseguenti all’incendio della distruzione. Le tavolette non sono state trovate soltanto sul pavimento del vano, perché dovevano essere deposte originariamente su due mensole aeree fissate alle pareti nord ed est e forse costituite da un supporto ligneo intonacato d’argilla; delle due mensole sono note sia le dimensioni, sia l’altezza dal pavimento, perché sugli intonaci relativamente ben conservati delle pareti sono rimaste chiarissime le tracce dei limiti di questi due corpi aggettanti. Evidentemente al momento della distruzione, quando il soffitto ligneo sarà precipitato all’interno del vano e si saranno verificati crolli dalle alte e spesse strutture che su tre lati delimitavano il magazzino [...], le tavolette devono essere precipitate sul pavimento e tra i detriti, riducendosi spesso in frammenti. Il secondo vano scavato per larga parte della sua estensione nel 1975 [...], era l’unica vera sala d’archivio finora portata alla luce nell’area del

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Palazzo [...]. In questa sala, definita non del tutto propriamente anche “biblioteca” piuttosto con riferimenti ai sistemi di conservazione delle tavolette che non ai contenuti dei documenti in essa stipati, sono stati raccolti nel 1975 circa 14.000 tavolette e frammenti di tavolette [...]. Nella grande maggioranza le tavolette della sala [...] sono state trovate allineate contro le pareti est, nord e, in assai minor misura, ovest dell’ambiente [...]. Particolarmente contro le pareti est e nord i documenti, che erano ammassati gli uni sugli altri, si disponevano ancora approssimativamente su due o tre livelli piuttosto ben riconoscibili.1

Ad una prima lettura questi testi sembravano ricchissimi di riferimenti a tutto il mondo Medio Orientale, con allusioni a luoghi e personaggi della Bibbia, Sodoma e Gomorra, Abramo, persino al nome di Yahweh, nella forma Ya. Una lettura più attenta dei testi, scritti in forme particolari e spesso difficili, ha dissipato queste ipotesi fantasiose. I documenti di Ebla sono comunque di grande interesse. Gli scribi locali, forse provenienti da scuole babilonesi (Kish?) si trovarono alle prese con la difficoltà di conciliare la lingua di Ebla, probabilmente di tipo semitico occidentale, con una scrittura nata per la lingua akkadica, nella quale forse essi stessi erano stati educati. Per aiutarsi essi avevano a disposizione parecchi testi lessicali sumeri, con relative traduzioni in Akkadico o glosse nel dialetto eblaita (queste tavolette possono considerarsi i più antichi dizionari bilingui a noi conosciuti). Quanto alla tipologia delle tavolette, lasciamo ancora la parola a Paolo Matthiae:

... la maggior parte delle tavolette di contenuto amministrativo ed economico sono di dimensioni piuttosto piccole e di forma tondeggiante; i testi di questo tipo di formato più piccolo presentano soltanto due colonne per ogni faccia, mentre generalmente si hanno tre colonne per lato. Il diametro delle tavolette rotondeggianti piccole è approssimativamente compreso tra cm 4 e cm 8, con una media intorno a cm 6. Le tavolette rotondeggianti di formato maggiore presentano diverse colonne per faccia, per lo più da quattro a sei, e hanno i bordi piuttosto schiacciati, con lunghezze fino a cm 10. Una seconda tipologia ben distinta è costituita, sempre per documenti di carattere economico e amministrativo, da tavolette di forma quadrangolare ad angoli arrotondati e bordi senza spigoli. Questi documenti hanno generalmente tra otto e dodici colonne e una larghezza di circa cm 15, mentre l’altezza è quasi sempre di poco minore. Una terza tipologia, pure molto caratteristica, è rappresentata dalle tavolette squadrate, di forma rettangolare a bordi spessi e piani con gli spigoli acuti; questi documenti, in tutto simili a mattoni lievemente ispessiti nella regione centrale, ospitano una quindicina, talora una ventina di colonne incise su facce che misurano in media cm 26 per cm 24 [...]. Una particolare variante di questa morfologia squadrata è costituita da documenti di eccezionali dimensioni, anch’essi di carattere economico sempre in relazione a distribuzioni, che raggiungono cm 36 per cm 33 con più di venticinque e talora trenta colonne di scrittura assai fitta e fine.2

La scrittura delle tavolette è simile a quella dell’ultimo periodo di Fara, con grande impiego di logogrammi. Negli archivi sono stati trovati pochi testi letterari, soprattutto magici, e invece lettere, trattati, documenti amministrativi e commerciali di ogni tipo. Ebla era evidentemente una città ricca e operosa, specializzata nelle industrie della lana e dei tessuti. B - Asia Minore: Kültepe

La cultura del periodo antico Assiro è soprattutto documentata da un enorme archivio scavato al di fuori della Mesopotamia. A Kanesh, in Turchia, presso Kayseri in Cappadocia, nella località di Kültepe (collina delle ceneri), alla base della collina, sono stati trovati i resti di un insediamento commerciale assiro, con l’intero archivio. Tavolette cominciarono a comparire sul mercato clandestino intorno al 1871, e gli scavi regolari3 hanno avuto inizio nel 1948. Sono state trovate sino ad ora più di 14.000 tavolette, tutte depositate al Museo di Ankara. Ma si pensa che il numero di tavolette ancora sepolte sia molto, molto maggiore. Quasi tutte queste tavolette sono lettere commerciali, relative a un’attività che ci è testimoniata per gli anni dal 1900 al 1830, e che doveva essere assai

1 PAOLO MATTHIAE, Ebla. Un impero ritrovato. Dai primi scavi alle ultime scoperte, Torino, Einaudi, 1977 e rist. successive, ed. 1995, p. 222-24. 2 PAOLO MATTHIAE, op. cit., p. 227. 3 Scavi non sistematici furono condotti da E. Chantre nel 1893-94 e da H. Winkler nel 1906.

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intensa. Carovane di 150, 200 asini, ciascuno capace di trasportare circa un quintale, portavano da Ashur alla Cappadocia merci di ogni tipo, alcune prodotte, altre a loro volta importate: tessuti da Babilonia, stagno dall’Iran. Dalla Cappadocia i mercanti riportavano invece quasi esclusivamente oro e argento. Il 50 % delle tavolette è costituito da lettere, l’altra metà da documenti che potremmo definire legali. Una piccola parte delle lettere riguarda fatti privati, le altre sono lettere commerciali. Un piccolo gruppo di tavolette ci parla infine di problemi organizzativi: cibo, spese di viaggio, personale, numero di asini morti durante una spedizione, ecc. L’insieme è di estrema importanza, perché ci permette di conoscere in modo molto preciso l’organizzazione commerciale degli Assiri e dell’intero mondo medio orientale nei primo secoli del secondo millennio. Scopo dell’attività, esercitata da ricchi mercanti di Ashur, era ovviamente il profitto. Con argento si comperavano delle merci, e veniva organizzata una carovana; di questa si occupava un parente del mercante, al quale veniva affidata una specie di lettera di carico. Si dovevano pagare le tasse ed era necessario procurarsi cibo sufficiente per gli asini (il viaggio durava da sei settimane a un paio di mesi). Nel ritorno, poiché si trasportava solo oro e argento, bastavano invece pochi asini. Gli agenti in Cappadocia ricevevano le merci e rispondevano per lettera rendicontando a propria volta: vendite, spese, tasse. Le pezze di lana provenivano da Babilonia, misuravano circa 4 metri x 4 metri, pesavano 2-3 chili ed erano vendute a circa tre volte il prezzo di acquisto. Questo traffico era finanziato con meccanismi piuttosto complessi, che comprendevano la partecipazione in società, la vendita di quote, versamenti in oro (una società di 14 persone aveva un capitale di circa 15 chili d’oro, corrispondente al valore di 600 schiavi o al salario annuo di 1000 lavoratori).

C - Egitto: Tell el-Amarna

Nel 1887 una donna alla ricerca di fertilizzanti (ma più probabilmente di antichità) trovò a Tell el-Amarna, in Egitto, circa 280 km a sud del Cairo, centinaia di tavolette scritte in caratteri cuneiformi. Molte di queste tavolette andarono distrutte perché i mercanti locali, abituati a papiri e a scritture egizie, rimasero perplessi davanti alle tavolette d’argilla e ai segni cuneiformi, e le ritennero di nessun valore. Ne sono rimaste in tutto 382, trovate in quella prima occasione e in scavi (illegittimi) successivi. Questi testi, tutti catalogati con la sigla EA e con un numero, sono ora conservati al Museo di Berlino, al British Museum e al Museo del Cairo. Quelli di Berlino, circa 160, furono offerti dapprima in vendita ai funzionari egiziani, che li rifiutarono ritenendoli falsi; furono poi acquistati dal collezionista austriaco Theodor Graf, dal quale furono trasmessi al museo tedesco. Quelli del British furono acquistati da Wallis Budge, che il Museo aveva inviato proprio quell’anno in Irak per indagare sul gran numero di tavolette che stavano affluendo nel mercato clandestino di Baghdad, probabilmente sottratte dagli operai che stavano lavorando agli scavi inglesi. Durante il viaggio Budge si fermò in Egitto, perché anche là si vendevano, stranamente, delle tavolette d’argilla. Gran maestro nei commerci con gli arabi, riuscì ad acquistare 82 tavolette, che furono spedite a Londra.

Amarna, come è noto, era la capitale del faraone eretico Amenophis IV, più noto con il nome di Akhenaten: i documenti ritrovati provengono tutti dalla sua cancelleria, e costituiscono la corrispondenza diplomatica tra il governo egizio e gli altri stati dell’Oriente. Essi si collocano tutti nell’arco di un numero assai ristretto di anni, dall’inizio del trentesimo anno di regno di Amenophis III, predecessore di Akhenaten (circa 1360), al primo anno di regno di Tutankhamun (circa 1336). E’ probabile che le lettere di Amenophis III fossero state portata ad Amarna da Akhenaten quando vi trasferì la propria capitale, forse perché si riferivano a pratiche ancora aperte; le lettere a Tutankhamun furono probabilmente abbandonate ad Amarna quando la capitale fu riportata a Tebe. Quasi tutti i documenti sono lettere ricevute dal Faraone; solo undici sono lettere del Faraone, copie, o lettere non spedite per qualche ragione. La corrispondenza in Akkadico tra il Faraone e le altre grandi potenze dell’Oriente, Babilonia, Assiria, Mitanni, Alashya (Cipro?), Hittiti, comprende 43 tavolette. Faraone e re si rivolgono l’uno all’altro con l’appellativo di

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“fratello”, e parlano di tutto: rapporti commerciali, matrimoni politici, alleanze, scambi di doni. Alcune di queste lettere lasciano perplessi per la loro sfacciata venalità. Scrive ad esempio Tushratta re di Mitanni ad Amenophis III:

When I sent Keliya [un messaggero] to my brother, I asked for much gold, saying, “May my brother treat me ten times better than he did my father, and may he send much gold that has not been worked”. [...] I now hereby write to my brother, and my brother show me much more love than he did to my father. I hereby ask for gold from my brother, and the gold that I ask from my brother is meant for a double purpose: one for the mausoleum [al padre], and the other for the bride-price. [...] May my brother send me in very great quantities gold that has not been worked, and may my brother send me much more gold than he did to my father. In my brother’s country, gold is as plentiful as dirt. May the gods grant that, just as now gold is plentiful in my brothers country, he [gli dei] make it even ten times more plentiful than now.1

La corrispondenza con i popoli soggetti della Siria e della Palestina è rappresentata da ben 307 tavolette, in cui i capi delle varie città chiamano il Faraone “mio signore” e professano la propria lealtà. La maggior parte delle lettere è scritta in Akkadico , che era in quel tempo la lingua della diplomazia e delle relazioni internazionali. Due lettere, le famose “lettere di Arzawa” di cui parleremo in seguito, sono in cuneiforme hittita, una è in cuneiforme hurrico. Alcune lettere, accanto ai segni cuneiformi impressi sull’argilla, hanno anche delle annotazioni in scrittura ieratica, tracciate con inchiostro: ad esempio la data in cui la lettera fu ricevuta. Trentadue tavolette hanno invece un contenuto non diplomatico: testi letterari, tra cui miti e racconti epici, elenchi di dei, testi lessicali, a volte bilingue Egizio-Akkadico: questo materiale costituiva forse una biblioteca di documentazione per gli scribi egizi, dalla quale attingere vocaboli ed espressioni da utilizzare nelle loro lettere. I documenti di Amarna sono di straordinaria importanza, per parecchie ragioni. Innanzi tutto essi attestano la vasta rete di relazioni diplomatiche dell’Egitto con paesi amici o vassalli, Babilonia, Assiria, Cipro, Palestina, Asia Minore. I loro contenuti permettono poi di toccare con mano gli interessi e la psicologia dei personaggi che in quegli anni dominavano la storia del mondo, e di comprendere le ragioni che determinavano le loro scelte politiche. Infine esse dimostrano che la scrittura cuneiforme e la lingua akkadica furono nel secondo millennio lo strumento delle relazioni internazionali, universalmente conosciute presso tutti i popoli. D - Elam

Un’altra popolazione di origini simili a quelle dei Sumeri si insediò nello stesso periodo più a est, tra il Tigri e il Choaspes, fondando la civiltà di Elam, con capitale Susa.

La civiltà elamita era estesa su una parte del territorio che noi attualmente chiamiamo Iran. Due zone, principalmente, hanno segnato tutta la sua storia: la Susiana, pianura attorno alla città di Susa, situata a sud-ovest dell’Iran, un po’ a nord della grande città petrolifera di Ahvaz. In giustapposizione diretta con la Mesopotamia, la Susuana partecipò, talvolta marginalmente, talvolta in modo più integrato, alla civiltà mesopotamica. C’è poi l’Iran dell’altopiano, con lo Zagros centrale e meridionale, la Perside e il Kerman, dove fiorirono numerosi centri di cultura elamita; il più conisciuto fra loro è Anshan (nome moderno Tell-e Malyan), nella regione di Shiraz, cuore dell’Elam propriamente detto. Recentemente scoperto ed esplorato, questo luogo ha restituito testi di tutte le epoche, lasciando intravedere una cultura originale. Gli altri centri elamiti sono invece per noi poco più che dei nomi: Awan, forse nello Zagros vicino ad Hamadan; Simashki, forse nella regione di Kerman.2 Non sappiamo quale fosse l’origine degli Elamiti. La loro lingua, che conosciamo

ancora piuttosto male, non era né indo-europea né semitica, e non è imparentata con nessun altra lingua nota, né antica né moderna, il che, ancor oggi, rende molto difficile la comprensione del suo lessico. La scrittura protoelamitica sembra essere leggermente

1 E così di seguito per quasi due pagine. Cfr. The Amarna letters, Edited and Translated by WILLIAM L. MORAN, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1992, p. 44. 2 CLARISSE HERRENSCHMIDT, L’invenzione della scrittura. Visibile e invisibile in Iran, Israele e Grecia, Milano, Jaca Book, 1999, p. 9.

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posteriore alla protosumerica: le più antiche tavolette ritrovate sono ritenute contemporanee a Uruk III, ma la scrittura sembra aver avuto molta diffusione soprattutto nel periodo di Jemdet Nasr. Le relazioni tra le due scritture rimangono tuttavia misteriose: i segni numerici sono uguali, ma per il resto un solo segno è comune. La scrittura protoelamitica è ancora non decifrata, ed è quindi difficile dire qualcosa di preciso sulla sua struttura, sulla lingua cui si riferisce e sui popoli che la impiegarono.

Le tavolette trovate a Susa appartengono a un livello superiore a un altro livello che mostra forte differenze: si suppone quindi l’esistenza di una migrazione o di una conquista, in cui le popolazione sconosciute che definiamo elamitiche si sovrapposero a una popolazione locale più antica.

Sono state pubblicate sino ad oggi circa 1500 tavolette con scrittura protoelamitica, per la maggior parte da Susa. Ma tavolette protoelamitiche si trovano anche in luoghi molto lontani da Susa, sino alla frontiera con l’Afghanistan. Non è facile spiegare questo fenomeno: si può supporre che le popolazioni dell’Elam avessero una rete commerciale molto diffusa. Ma si può anche pensare a vaste migrazioni di popoli o di tribù appartenenti a quella civiltà.

La scrittura proto-elamitica impiega circa 1.000 segni: deve essere quindi considerata una scrittura di tipo logografico. La maggior parte dei segni sembra essere di tipo astratto piuttosto che pittografico, in che fa pensare a un sistema di codificazione, quindi a una scrittura fortemente determinata dai suoi “inventori”. Questa astrazione, molto maggiore rispetto alla scrittura protosumera, rende ancor oggi impossibile leggere le tavolette protoelamitiche. Queste tavolette sono scritte in righe orizzontali, da destra a sinistra, e dall’alto in basso, in modo molto diverso rispetto alle tavolette protosumeriche, e sembrano essere tutte di tipo contabile o numerico, senza presenza di testi letterari o lessicografici. Curioso è il sistema di rotazione, anch’asso diverso rispetto alle tavolette protosumeriche: giunto al termine del recto, lo scriba capovolgeva la tavoletta secondo un asse orizzontale, e continuava a scrivere con linee dall’alto verso il basso. Se tuttavia il verso era destinato a registrare le somme delle cifre scritte sul recto, la tavoletta era ruotata secondo un asse verticale. La scrittura protoelamitica sembra essere scomparsa, forse per il mutato insieme delle condizioni politiche e sociali, intorno al 2800.

Dopo la conquista accadica, gli Elamiti adattarono alla loro lingua il cuneiforme Akkadico , a imitazione delle scritture mesopotamiche. Il più antico testo elamitico in segni cuneiformi è un trattato di alleanza tra Naram Sin di Akkad e un re elamita, conservato nel tempio di Inshushnak a Susa, molto rovinato e di difficile lettura. Una categoria a sé è costituita dalla cosiddetta elamitica lineare, che risale al re Kutik Inshushnak (XXI secolo), il liberatore di Susa: una scrittura che sembra derivare dalla protoelamitica di sette secoli prima, ma comprende circa ottanta segni ed ha quindi una struttura sillabica, non logografica. E’ probabile che il sovrano mirasse ad affermare il proprio potere attraverso una nuova forma di scrittura della propria lingua, “nazionale” e non akkadica. Di fatto i suoi scribi attinsero dai segni protosumerici, vecchi di ormai settecento anni, e li adattarono al sillabario che ormai era venuto costituendosi, su influenza akkadica; altri segni dovettero invece essere inventati specificamente. Questa scrittura è attestata da circa 20 documenti, principalmente da Susa, ma anche da altre zone lontane sottoposte all’influenza elamitica. Anche questa scrittura non è leggibile, e non si è neppure certi che essa trascriva la lingua elamitica.1 Per parecchi secoli l’Elamitico sembra aver conosciuto scarsa diffusione, tanto che i documenti elamitici noti riconducibili al periodo tra il 2000 e il 1285 si possono contare sulle dita di una mano: la maggior parte dei documenti di questo periodo sono scritti in Sumerico o in Akkadico . Tra questi rari documenti vanno citati due testi del re Shiwepalahuhpak (XVII secolo), in Akkadico e in Elamitico con segni sillabici cuneiformi. A partire dal regno di Humban-numena I (c. 1285-1266), tra il XIII e il XII secolo, la lingua

1 Esistono documenti bilingui, in elamitica lineare e in akkadico, ma i testi siano diversi, così da renderne impossibile l’impiego per la decifrazione. Questi documenti si riferiscono a “discorsi” di Kutik Inshushnak, e recano appunto un doppio testo. Ma per quanto ci è dato capire, sembra che il sovrano si rivolgesse con parole diverse alle diverse etnie soggette al suo dominio.

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elamitica sembra incontrare maggior favore e diffusione. Essa era usata alla corte achemenide, accanto al Persepolitano, al Babilonese e all’aramaico.

Non sappiamo a quale famiglia apparteneva la lingua elamitica, ma certo non era parente né della lingua sumera, né delle lingue semitiche. Essa dovette quindi adattarsi al tipo di scrittura impiegato, ed evolversi conformemente ad esso. Parallelamente anche i segni mutarono e assunsero delle forme tipicamente elamitiche. Col passare del tempo i segni divennero assai meno numerosi: di fronte ai circa 600 segni dell’Akkadico , la scrittura elamitica impiega in 2.000 anni solo 206 segni, e per ciascuno dei quattro periodi in cui si suddivide (Antico, Medio, Neo Elamitica e Elamitica Achemenide) non più di 130 segni contemporaneamente, con circa 25 logogrammi per le parole di uso più frequente e con 7 determinativi. Omofonia e polifonia furono eliminati, e ci si avvicinò gradualmente a una scrittura di tipo prevalentemente sillabico, quasi alfabetico.

Abbiamo già visto come nell’iscrizione di Behistun essa fosse impiegata accanto al Persepolitano e al Babilonese. Rawlinson riuscì a prendere un calco dell’iscrizione e si mise a studiarla, ma preferì abbandonare l’impresa per concentrarsi sullo studio del Babilonese. Nel 1851, prima di lasciare l’Inghilterra per ritornare in Oriente, trasmise tutto il proprio materiale a Norris.1 Norris dedicò nove mesi al completamento del lavoro di Rawlinson, ma riuscì a pubblicare il proprio scritto solo tre anni dopo. Norris scoprì anche che un calco preso da Rawlinson nel 1847 dell’angolo sinistro in basso dell’iscrizione originale in Elamitico (quella di più difficile accesso, a destra del bassorilievo, e quasi interamente cancellata) corrispondeva al testo della seconda iscrizione. Si era quindi alla presenza di una copia o meglio di un duplicato. Le ragioni per cui si era proceduto a questa copia rimanevano però misteriose, e Norris non poté dire se la cosa riguardasse solo il frammento del calco o tutto il testo.

E - Mitanni

La lingua Hurrica (inglese Hurrian), detta anche mitannico, è attesta dal Terzo millennio, tra Siria, Iraq e Turchia, nella zona più o meno corrispondente al Kurdistan. Un’iscrizione della fine del Terzo millennio ci dimostra che a quell’epoca essa era già scritta con segni cuneiformi, e con un sistema sillabico di derivazione akkadica (ma con un numero di segni molto minore). In Siria e in Anatolia sono stati trovati molti testi in Hurrico, soprattutto religiosi. Questa lingua ebbe grande importanza con il regno di Mitanni, un regno indipendente affermatosi intorno al 1500. La capitale di questo regno, Vassukani, non è stata ancora trovata, ma abbiamo un gran numero di lettere diplomatiche dei re di Mitanni con le principali potenze del tempo, soprattutto con l’Egitto. Queste lettere sono in Akkadico , ma una lunga lettera di più di 400 righe (la più grande tavoletta cuneiforme che mai sia stata trovata) è in hurrico. Questa tavoletta, trovata a Tell el-Amarna e conservata a Berlino, è una lettera del Re di Mitanni Tushratta al faraone Amenophis IV è sino ad oggi la più importante fonte sulla storia di questo regno semisconosciuto. Sono stati ritrovati testi in hurrita anche negli archivi hittiti di Hattusas (tra cui frammenti di una traduzione in hurrita di Gilgamesh, e un trattato sull’addestramento del cavallo, opera del mitannico Kikkuli2), a Mari e a Ugarit. Verso la fine del secondo millennio la civiltà hurrita scomparve bruscamente e completamente. Questa lingua aveva 5 vocali (contro le tre dell’Akkadico ). F – La scrittura di Urartu

1 Norris era il segretario della Royal Asiatic Society, già più volte citato per le sue relazioni con Rawlinson. Cfr. E. NORRIS, Memoir on the Scythic Version of the Behistun Inscription. Anche Hincks e Niels Westergaard lavorarono alla decifrazione dell’Elamitico. 2 In questo trattato troviamo termini tecnici in una lingua diversa dall’hurrita, non ancora identificata. Si deve agli Hurriti l’introduzione del carro da guerra e del cavallo.

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Il popolo di Urartu fu tra il XIII e il VII secolo vicino e spesso nemico degli Assiri. La lingua urartiana, parente dell’Hurrico, è documentata da un gran numero di iscrizioni rinvenute nella zona del lago Van, in Turchia, e databili tra l’ 830 e il 650 a. C. Sono state trovate anche iscrizioni su armi e su recipienti metallici e alcune tavolette d’argilla di carattere economico. Questo popolo fu poi sostituito nella zona dagli Armeni e dalla loro lingua, ma la lingua urartiana è attestato sino ai primi secoli d. C. Questa lingua derivò il proprio sistema di scrittura direttamente dal cuneiforme Neo Assiro, senza riferirsi né al sistema hurrico, né agli antichi sistemi akkadici. Possiede circa un centinaio di segni sillabici e altrettanti logogrammi.

Intorno al 1826 Friedrich Edward Schulz (o Schultz) copiò circa 40 iscrizioni nella zona del lago Van; fu poi assassinato da un capo curdo, che lo ritenne una spia del governo persiano, nel 1829. Anche Rawlinson copiò più tardi iscrizioni di questo tipo. Il 4 dicembre 1847 Hinks lesse alla Royal Asiatic Society una memoria sul cuneiforme di Urartu, basato sulle copie di Schulz pubblicate dal “Journal Asiatique” di Parigi qualche anno prima. Questa memoria, il primo serio studio su questa lingua allora sconosciuta, fu poi pubblicata nel maggio 1848.

Dopo Hincks, le ricerche sulla lingua di Urartu furono continuate da F. Lenormant e da H. A. Sayce, che pubblicò il primo lavoro completo sull’argomento nel 1882. In tempi recenti la civiltà di Urartu è stata studiata soprattutto da archeologi e linguisti sovietici.

G - Il cuneiforme hittita

Il mondo degli Ittiti, riscoperto in epoca recente, pone dal punto di vista della storia del libro e della scrittura particolari problemi. Gli Ittiti usavano ben tre lingue, l’Hittita (o Neshita), il Luviano e il Palaico, e due diversi sistemi di scrittura, il cuneiforme e un sistema loro proprio che è comunemente, anche se impropriamente, definito geroglifico. Qui tratteremo solo del cosiddetto cuneiforme ittita, cioè dei testi hittiti, in lingua hittita, scritti con caratteri cuneiformi. La maggior parte di questi testi è stata ritrovata nell’antica capitale degli Hittiti, a Hattušas, l’odierna Boghazköy, nel centro dell’Anatolia. Lo scopritore di Boghazköy è un francese, Texier.1 Texier era alla ricerca dell’antica città di Tavium, e con questo scopo, sulla base di vaghe informazioni, giunse nel giugno 1834 a Boghazköy. Qui scoprì le rovine di un’importante città e poco distante una specie di tempio rupestre, Yazilikaya. Ovunque erano visibili resti monumentali, e tracce di una strana scrittura i cui segni facevano pensare ai geroglifici egizi. Negli anni successivi altri viaggiatori e archeologi visitarono Boghazköy: l’inglese Hamilton, i tedeschi H. Barth e A. D. Mordtmann nel 1859-61, Langlois ancora nel 1861, e soprattutto Georges Perrot, che nel 1862 fotografò i luoghi e le ormai famose, anche se del tutto misteriose, scritture geroglifiche. La scoperta dell’archivio di Tell el-Amarna nel 1887-88 mise a disposizione degli studiosi, come si è visto, gli archivi diplomatici del Faraoni Amenophis III e Amenophis IV. Tra i numerosi documenti si trovarono anche delle lettere di sovrani Hittiti, ad esempio di Suppiluliumas, scritte in Akkadico , con segni cuneiformi, e leggibili senza problema. Ma si trovarono anche due lettere, esse pure in cuneiforme su tavolette d’argilla, leggibili, ma non comprensibili, perché i segni cuneiformi, di tipo akkadico, si riferivano a una lingua ignota (più o meno come una pagina in tedesco per chi ignora questa lingua: può leggerla tranquillamente, anche ad alta voce, ma non capirà nulla). A questi documenti fu dato il nome di “lettere di Arzawa”, perché sembravano destinate a un re di questo nome. Poiché i due documenti erano isolati, e la loro decifrazione sembrava presentare poco interesse, nessuno si preoccupò di studiarli. Solo parecchi anni dopo la scoperta di altri testi simili avrebbe attirato l’attenzione di tutto il mondo erudito su questo tipo di scrittura. Nell’ottobre 1905

1 Charles-Félix-Marie Texier (1802-71), viaggiatore e archeologo, ci ha lasciato una splendida documentazione delle sue scoperte nell’opera Description de l’Asie Mineure, 1839.

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l’assiriologo Hugo Winkler1 giunse a Boghazköy per scavare quel sito ancora quasi totalmente sconosciuto. La spedizione era povera di mezzi, e non perfettamente organizzata, anche perché Winkler, a differenza di altri archeologi, non aveva né una salute di ferro, né grande resistenza fisica, né attitudini diplomatiche. Questa prima campagna, partita in una stagione già avanzata, non fu molto fruttuosa. Ma nel luglio 1906 Winkler e i suoi compagni erano di nuovo a Boghazköy, e il 20 agosto fecero una prima entusiasmante scoperta: una lettera in cuneiforme akkadico di Ramesse II al re Hattusilis, concernente il trattato di pace da stipulare tra i due regni in seguito alla battaglia di Kadesh, trattato già noto dalle iscrizioni geroglifiche sul tempio di Karnak. Questa lettera non poteva che essere stata conservata negli archivi reali: la sua scoperta a Boghazköy dimostrava che questa città era la capitale dell’Impero Hittita, e che altri ritrovamenti erano da attendersi. L’anno successivo, 1907, fu il più ricco di ritrovamenti: circa 10.000 frammenti di tavolette in scrittura cuneiforme, tutte dall’archivio reale. Winckler fece ulteriori scavi e ulteriori scoperte negli anni successivi, prima di morire nel 1913.2 Molte delle tavolette trovate a Boghazköy erano facilmente leggibili, perché in cuneiforme akkadico; ma altre tavolette cuneiformi sembravano simili alle due “lettere di Arzawa” rinvenute parecchi anni prima in Egitto. Ancora una volta si poneva il problema di comprendere una lingua sconosciuta. Lo scoppio della prima guerra mondiale avrebbe potuto complicare le cose; fortunatamente non fu così. Già nel dicembre 1915 uno studioso ceco, Friedrich Hrozny, pubblicò un articolo sulla “soluzione del problema ittita”, in cui annunciava di aver decifrato la scrittura.3 Hrozny partì da due constatazioni: che i testi ittiti contenevano molti nomi propri e che contenevano anche ideogrammi. Questi ultimi erano perfettamente leggibili, perché corrispondevano agli analoghi ideogrammi akkadici (come abbiamo visto più volte, un ideogramma è legato alla scrittura, non alla lingua: ad esempio il segno $, dollaro, che è in sostanza un ideogramma,4 è immediatamente percepibile dal lettore moderno anche se è inserito in un testo scritto in una lingua che egli ignora). Partendo da questi elementi, Hrozny giunse ben presto a una conclusione che lo lasciò stupefatto: la lingua dell’ittita cuneiforme non sembrava essere semitica, ma indoeuropea. Ora, l’ipotesi che negli anni di Ramesse II l’Anatolia fosse abitata da un potente popolo di origine indoeuropea sconvolgeva tutte le teorie comunemente accettate sulla storia dell’Antico Oriente. Sembra che lo stesso Hrozny fisse all’inizio dubbioso circa la propria scoperta. Ma il procedere delle indagini lo convinse oltre ogni dubbio. In particolare confermavano l’ipotesi la declinazione dei verbi e il lessico: ad esempio una parola traslitterabile con ezzateni era accostata a un logogramma indicante “pane”, e corrispondeva chiaramente al termine indoeuropeo per “mangiare” (in latino edere, in tedesco essen, ecc.); un’altra parola nello stesso contesto era traslitterabile come waatar, e faceva immediatamente pensare alla vocabolo “acqua” (wasser, water, ecc.). Scoperta questa chiave la lettura dei testi in ittita cuneiforme non pose più difficoltà.

1 Hugo Winkler, nato in Sassonia nel 1863, aveva già scavato a Sidone. La spedizione era stata finanziata da un suo allievo, in barone Wilhelm von Landau, e resa possibile dagli eccellenti rapporti che in quegli anni intercorrevano tra la Germania e l’Impero ottomano. Lo accompagnavano Theodore Macridy-Bey, funzionario del Museo di Costantimopoli, e Ludwig Curtius, allora giovane assistente, che nel suo libro di memorie, Deutsche und Antike Welt, ha narrato i particoleri della spedizione. 2 Boghazköy è stata scavata anche da K. Bittel negli anni ’30 e negli anni ’50, e più recentemente da P. Neve e da J Seeher. Winkler e Macridy non presero nota esattamente dei luoghi in cui le tavolette erano rinvenute, e per le circa 10.000 tavolette da loro rinvenute possiamo solo supporre una provenienza dalla cittadella di Büyükkale e dai suoi palazzi. Per gli scavi più recenti abbiamo invece dati più precisi. E’ curioso che con il progredire degli scavi e dei ritrovamenti il numero totale delle tavolette non aumenta in proporzione: le tavolette sono infatti per la maggior parte frammenti, e molti frammenti a volte permettono di ricostruire una singola tavoletta. 3 FRIEDRICH HROZNY, Die Lösung des hethitischen Problems, «Mitteilungen der Deutschen Altorient-Gesellschaft», 56, dicembre 1915. Hrozny aveva già annunciato nel mese di novembre la sua scoperta in una comunicazione letta presso la stessa “Deutschen Orient-Gesellschaft”; il suo studio completo sull’argomento uscì due anni dopo, con il titolo Die Sprache der Hethiter, ihr Bau und ihre Zugehörigkeit zum indogermanischen Sprachstamm, Leipzig, 1917. 4 Per l’esattezza il segno $ è un’abbreviazione, derivata dal segno PS, “pesos”, usato dagli spagnoli per indicare la loro moneta. Esso è tuttavia usato come se fosse un ideogramma, così come i segni £ o €.

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Le tavolette di Boghazköy hanno permesso di stabilire che il cuneiforme ittita nacque nei primi secoli del secondo millennio, e fu impiegato sino al collasso dell’impero ittita, nel XII secolo. Ci sono rimasti circa 600 testi, per un totale di parecchie migliaia di tavolette, nella maggior parte databili tra il XV e il XII secolo.1 Così come era stato difficile trasformare il sillabario sumerico in un sillabario semitico, fu altrettanto difficile adattare quest’ultimo a una lingua indoeuropea. Particolarmente complessa sembra essere stata l’espressione di parola formate da più consonanti raggruppate: questo portò ad una ridondanza: ad esempio la parola linkt, “egli giurò”, doveva essere trasformata in un quadrisillabo, li-in-ik-ta2 . Forse anche per questa ragione il cuneiforme hittita continuò ad impiegare un grande numero di logogrammi. In particolare esso impiega circa 1.550 sumeogrammi e circa 150 akkadogrammi. I primi sono ideogrammi di derivazione sumerica, impiegati più o meno come nelle scritture akkadiche; i secondi, che sono da considerare veri e propri allogrammi, sono parole akkadiche, scritte sillabicamente (foneticamente) in Akkadico , impiegate tali e quali, probabilmente perché era difficile trascrivere la parola hittita con le sillabe fonetiche akkadiche. Un esempio di accadogramma è la preposizione “in”, per scrivere la quale si impiegavano i due segni , che sono la preposizione akkadica i-na: la parola akkadica, lingua e scrittura, è stata cioè presa in prestito pari pari, al posto della corrispondente parola hittita, che evidentemente doveva essere molto difficile da esprimere con i segni sillabici akkadici. Quando una parola è sempre scritta in uno di questi due modi, noi ignoriamo il corrispondente hittita. Abbiamo infine casi in cui la parola hittita è scritta con una combinazione di logogramma e di fonogramma. I - La scrittura persepolitana La scrittura persepolitana, o Antico Persiana, è tramandata da un ristretto numero di iscrizioni risalenti all’Impero achemenide, trovate in Persia. Deriva dalle scritture cuneiformi, ma è una scrittura prevalentemente alfabetica. Alcuni ritengono che essa sia stata inventata all’epoca di Ciro (539-30), altri la attribuiscono al regno di Dario (522-486), fondandosi soprattutto su un passo dell’iscrizione di Behistun (paragrafo 70) in cui Dario sembra affermare di aver fatto per primo mettere in forma scritta la lingua dei Persiani. Non esiste comunque alcun testo antecedente il regno di Dario. La scrittura persepolitana comprende i seguenti segni segni vocalici (3) consonanti variabili (20) ideogrammi (7)

a da re

i di dio

u du terra

consonanti fisse (13) ma paese

p mi dio Ahuramazda3 b mu f ta-i

ç tu 1 Sembra che gli Hittiti usassero scrivere anche su assicelle di legno, ma nessun reperto di questo tipo ci è rimasto. 2 Cfr. FLORIAN COULMAS, The Blackwell Encyclopedia of Wring Systems, London, Blackwell Publishing, 2a ed., 1999, p. 209. 3 Esistono altri due ideogrammi per indicare il dio Ahuramazda, che non abbiamo riprodotto.

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Τ na-i s nu z ra-i h ru χ& ka σ◊ ku y ga ji x gu va l ja vi In tutto i segni sono 43, molti per un alfabeto. Questo si spiega non per la presenza di vocali lunghe e brevi, come pensava Grotefend, ma perché alcune consonanti, come appare dalla tavola, hanno diverse forme in relazione alla vocale che segue: d m hanno tre forme, t n r k

g j v hanno due forme. Le parole sono separate tra loro dal segno oppure,

nell’iscrizione di Behistun, dal segno .