PARTE II SCRITTURE E LIBRI NELL’ANTICA MESOPOTAMIA - Libro mondo antico... · Sumeri e Semiti...

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PARTE II SCRITTURE E LIBRI NELL’ANTICA MESOPOTAMIA Quadro storico La nascita della scrittura è strettamente legata alla civiltà sumerica 1 e alla città di Uruk, 2 in un periodo collocabile verso la fine del IV millennio. I Sumeri si insediarono sul delta del Tigri e dell’Eufrate 3 tra il 5000 e il 4000 a. C. e svilupparono una fiorente cultura di tipo urbano (le loro principali città furono Kish, Nippur, Uruk, Ur, Lagash, Eridu, 4 tutte nella regione che si stende tra Bagdad e Bassora). Più o meno nello stesso periodo delle popolazioni semitiche, appartenenti a tribù semi-nomadi di allevatori, cominciarono a stabilirsi più a nord, nel territorio che prese poi il nome di Akkad. A differenza dei Sumeri, che sembra non abbiano più avuto rapporti con la loro terra di origine, rimasta misteriosa, i Semiti furono continuamente rafforzati da successive ondate migratorie, sino a diventare una potente popolazione. Sumeri e Semiti vivevano in comunità che facevano capo a città- stato, governate da un monarca, e condividevano la stessa cultura economica, senza particolari manifestazioni di rivalità o di inimicizia, se non in circostanze occasionali. Molti Sumeri vivevano probabilmente in città accadiche e viceversa, anche per ragioni di commercio. Ma probabilmente i Sumeri erano, cone dice Bottéro, “plus inventifs, plus ouverts, plus hardis que les Sémites” 5 e per questa regione la scrittura nacque nell’ambito della loro civiltà. I dati cronologici possono essere riassunti sinteticamente in questo modo. Ci si riferisce alla Mesopotamia dal VI al V millennio come al periodo Ubaid (a sua volta in 1 La bibliografia sull’antica Mesopotamia, sia archeologica, sia storica, è sterminata. Ci limitiamo a citare pochissime opere, da cui chi voglia approfondire l’argomento può partire, traendo da esse altre indicazioni bibliografiche. Per un quadro generale della storia mesopotamica, dai Sumeri alla fine degli imperi assiro e babilonese, si consulti la Cambridge Ancient History, prima edizione 1924-39, in 12 volumi, seconda edizione rivista a partire dal 1970, in 14 volumi e 19 parti (anche in trad. italiana, Storia del Mondo Antico, Milano Garzanti, 1974-75, 9 volumi). Come introduzione generale alla civiltà dei popoli mesopotamici è possibile riferirsi a tre opere classiche: A. LEO OPPENHEIM, Ancient Mesopotamia. Portrait of a Dead Civilization, Chicago, the University of Chicago Press, 1964; WOLFRAM VON SODEN, Einführung in die Altorientalistik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1985 (anche in trad. inglese, The Ancient Orient. An Introduction to the Study of the Ancient Near East, Grand Rapids, Mich., Eerdmans, 1994); G. ROUX, La Mésopotamie. Essai d’histoire politique, économique et culturelle, Paris, Seuil, 1985. Per l’aspetto iconografico fanno testo i due splendidi e illustratissimi volumi di A. PARROT, Sumer, Paris, Gallimard, 1960 e Assur, ibid., 1969. Per l’aspetto più propriamente archeologico sarà utilissimo The Oxford Encyclopaedia of Archaeology in the Near East, prepared under the auspices of the American Schools of Oriental Research, ERIC M. MEYERS editor en chef, New York e Oxford, Oxford University Press, 1997, 5 volumi. Molto più agili, ma eccellenti da ogni punto di vista, sono PIOTR BENKOWSKY, ALAN MILLARD, Dictionary ot the Ancient Near East, London, British Museum Press, 2000 e GUY RACHET, Dictionnaire de l’Archéologie, Paris, Laffont, 1983. Fondamentale è anche il Dictionnaire Archéologique des Techniques, Paris, Editions de l’Accueil, 1963-64, 2 volumi. Testi più specifici saranno citati nelle note che seguono. 2 Uruk, attualmente Warka, si trova nel sud dell’Irak, circa 35 km a est del fiume Eufrate. Il nome Uruk è accadico, derivato dal termine pre-sumerico UNUG. Nella Bibbia la città ha il nome di Erech. 3 Questo territorio divenne asciutto alla fine delle glaciazioni, intorno al VI millenio. Fu abitato dapprima da popoli provenienti dall’Asia centrale, discendenti forse dai cavernicoli e dall’homo sapiens. Il territorio era molto fertile, adatto all’allevamento e alla coltivazione dei cereali. Ma date le scarse precipitazioni doveva essere irrigato. La necessità di costruire canali obbligò gli abitanti ad aggregarsi, e favorì il sorgere di civiltà urbane. Poiché la ricchezza era frutto di un lavoro collettivo, era anche naturale che fosse utilizzata, almeno in parte, collettivamente, attraverso le strutture amministrative della città. Di qui la necessità di registrazioni contabili. 4 Altra città antichissima, scavando la quale si è giunti, attraverso un’interminabile sequela di livelli, sino alla sabbia su cui furono costruiti i primi edifici, intorno al 4900 a. C. 5 p. 136

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PARTE II

SCRITTURE E LIBRI NELL’ANTICA MESOPOTAMIA

Quadro storico

La nascita della scrittura è strettamente legata alla civiltà sumerica1 e alla città di

Uruk,2 in un periodo collocabile verso la fine del IV millennio. I Sumeri si insediarono sul delta del Tigri e dell’Eufrate3 tra il 5000 e il 4000 a. C. e svilupparono una fiorente cultura di tipo urbano (le loro principali città furono Kish, Nippur, Uruk, Ur, Lagash, Eridu,4 tutte nella regione che si stende tra Bagdad e Bassora). Più o meno nello stesso periodo delle popolazioni semitiche, appartenenti a tribù semi-nomadi di allevatori, cominciarono a stabilirsi più a nord, nel territorio che prese poi il nome di Akkad. A differenza dei Sumeri, che sembra non abbiano più avuto rapporti con la loro terra di origine, rimasta misteriosa, i Semiti furono continuamente rafforzati da successive ondate migratorie, sino a diventare una potente popolazione. Sumeri e Semiti vivevano in comunità che facevano capo a città-stato, governate da un monarca, e condividevano la stessa cultura economica, senza particolari manifestazioni di rivalità o di inimicizia, se non in circostanze occasionali. Molti Sumeri vivevano probabilmente in città accadiche e viceversa, anche per ragioni di commercio. Ma probabilmente i Sumeri erano, cone dice Bottéro, “plus inventifs, plus ouverts, plus hardis que les Sémites”5 e per questa regione la scrittura nacque nell’ambito della loro civiltà.

I dati cronologici possono essere riassunti sinteticamente in questo modo. Ci si

riferisce alla Mesopotamia dal VI al V millennio come al periodo Ubaid (a sua volta in

1 La bibliografia sull’antica Mesopotamia, sia archeologica, sia storica, è sterminata. Ci limitiamo a citare pochissime opere, da cui chi voglia approfondire l’argomento può partire, traendo da esse altre indicazioni bibliografiche. Per un quadro generale della storia mesopotamica, dai Sumeri alla fine degli imperi assiro e babilonese, si consulti la Cambridge Ancient History, prima edizione 1924-39, in 12 volumi, seconda edizione rivista a partire dal 1970, in 14 volumi e 19 parti (anche in trad. italiana, Storia del Mondo Antico, Milano Garzanti, 1974-75, 9 volumi). Come introduzione generale alla civiltà dei popoli mesopotamici è possibile riferirsi a tre opere classiche: A. LEO OPPENHEIM, Ancient Mesopotamia. Portrait of a Dead Civilization, Chicago, the University of Chicago Press, 1964; WOLFRAM VON SODEN, Einführung in die Altorientalistik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1985 (anche in trad. inglese, The Ancient Orient. An Introduction to the Study of the Ancient Near East, Grand Rapids, Mich., Eerdmans, 1994); G. ROUX, La Mésopotamie. Essai d’histoire politique, économique et culturelle, Paris, Seuil, 1985. Per l’aspetto iconografico fanno testo i due splendidi e illustratissimi volumi di A. PARROT, Sumer, Paris, Gallimard, 1960 e Assur, ibid., 1969. Per l’aspetto più propriamente archeologico sarà utilissimo The Oxford Encyclopaedia of Archaeology in the Near East, prepared under the auspices of the American Schools of Oriental Research, ERIC M. MEYERS editor en chef, New York e Oxford, Oxford University Press, 1997, 5 volumi. Molto più agili, ma eccellenti da ogni punto di vista, sono PIOTR BENKOWSKY, ALAN MILLARD, Dictionary ot the Ancient Near East, London, British Museum Press, 2000 e GUY RACHET, Dictionnaire de l’Archéologie, Paris, Laffont, 1983. Fondamentale è anche il Dictionnaire Archéologique des Techniques, Paris, Editions de l’Accueil, 1963-64, 2 volumi. Testi più specifici saranno citati nelle note che seguono. 2 Uruk, attualmente Warka, si trova nel sud dell’Irak, circa 35 km a est del fiume Eufrate. Il nome Uruk è accadico, derivato dal termine pre-sumerico UNUG. Nella Bibbia la città ha il nome di Erech. 3 Questo territorio divenne asciutto alla fine delle glaciazioni, intorno al VI millenio. Fu abitato dapprima da popoli provenienti dall’Asia centrale, discendenti forse dai cavernicoli e dall’homo sapiens. Il territorio era molto fertile, adatto all’allevamento e alla coltivazione dei cereali. Ma date le scarse precipitazioni doveva essere irrigato. La necessità di costruire canali obbligò gli abitanti ad aggregarsi, e favorì il sorgere di civiltà urbane. Poiché la ricchezza era frutto di un lavoro collettivo, era anche naturale che fosse utilizzata, almeno in parte, collettivamente, attraverso le strutture amministrative della città. Di qui la necessità di registrazioni contabili. 4 Altra città antichissima, scavando la quale si è giunti, attraverso un’interminabile sequela di livelli, sino alla sabbia su cui furono costruiti i primi edifici, intorno al 4900 a. C. 5 p. 136

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molte fasi), dal nome di un sito presso Ur scavato da Harry Hall nel 1919 e da Wolley nel 1923-24.1

Il IV millennio è definito periodo Uruk e le sue ultime fasi, a ridosso del 3000, sono appunto Uruk IV e Uruk III.2

Il periodo di Jemdet Nasr3 è considerato in genere una fase di passaggio verso il periodo protodinastico, che a sua volta si divide in Protodinastico I (3000-2700), Protodinastico II (2700-2600),4 Protodinastico III (2600-2334). Nel periodo Protodinastico I le città più importanti furno Eridu e Uruk. Nel periodo Protodinastico II domina prima la città di Kish, poi il leggendario re di Uruk, Gilgamesh, conquista la supremazia alla propria città. Il periodo Protodinastico III termima con il regno di Lugal-Zaggesi di Uruk, che fu sconfitto nel 2334 da Sargon di Akkad. Gli anni del periodo Protodinastico III sono anche indicati come periodo di Fara, dal nome della città che ci ha lasciato le maggiori testimonianze ad esso relative.

Nel periodo Protodinastico III, accanto a Uruk, assunsero grande importanza le città di Lagash e di Ur.

Tra i re della prima dinastia di Lagash ricorderemo soprattutto Eannatum (sec. XXV circa) per la celebre stele degli avvoltoi conservata al Louvre, e Entemena, suo nipote, di cui di è rimasto uno splendido vaso in argento con iscrizioni, esso pure al Louvre.

1 Tradizionalmente la cultura Ubaid viene divisa in quattro fasi, da Ubaid I a Ubaid IV. Ma recentemente sono state aggiunte a questa classificazione altre due fasi, Ubaid 0, a partire circa dal 6200, e Ubaid V, dal 4300 al 3800. 2 Ricordiamo che nella classificazione cronologica delle culture più antiche ci si può riferire alle diverse fasi di sviluppo, e in questo caso il numero I corrisponde alla fase più antica, oppure agli strati messi in evidenza dagli scavi archeologici: in questo caso il numero I corrisponde al periodo più recente, posto in superficie, e i numeri maggiori ai periodi più antichi, posti in profondità. 3 Jemdet Nasr è una località situata circa 100 chilometri a sud di Baghdad. Scavi condotti nel 1925-26 hanno portato alla luce un vastissimo edificio di mattoni seccati e cotti, contenente molti manufatti. Il nome di questo sito è stato dato alla cultura che si sviluppa nel sud della Mesopotamia tra il 3200 e il 3000, subito dopo il periodo Uruk III. Mentre il periodo Uruk è caratterizzato da una espansione della cultura sumerica, il periodo Jemdet Nasr è di maggiore isolamento. 4 Al periodo Protodinastico II appartiene il regno di Gilgamesh.

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La prima dinastia di Ur (2550-2340 a.C.) è celebre soprattutto per le tombe reali

ritrovate da Wolley, tra cui quella della regina Puabi.1 Della seconda dinastia di Ur si sa poco, e si ritiene che in quel periodo la città

fosse in decadenza. Con la sconfitta di Lugal-Zaggesi ad opera di Sargon, nel 2334, il dominio

sumerico sulla Mesopotamia venne a cessare, sostituito da quello degli Akkadi. Il più importante re degli Akkadi fu Naram-Sin. L’impero akkadico durò poco più di un secolo, sino al 2218, quando fu travolto dai Gutei.

iscrizione di Naram-Sin

I Gutei, nomadi, forse di origine indo-europea, invasero la Mesopotamia giungendo dall’Iran e sconfissero gli Akkadi. Dominarono dal 2218 al 2047. Tirigan, l’ultimo re dei Gutei fu sconfitto da Utukhegal, re di Uruk.

I Gutei non ebbero però il dominio completo della Mesopotamia, soprattutto nel sud, e molte città conquistarono un’ampia indipendenza. In particolare ritrovarono la loro potenza le città sumere. Utu-Hengal, probabilmente governatore di Uruk, si sollevò contro i Gutei a diede alla propria città una posizione di predominio, che passò pochi anni dopo alla

1 Puabi, una regina o una sacerdotessa, era probabilmente un’accadica. Nella sua tomba, intatta, furono scoperti splendidi tesori (gioielli, e una lira) e i cadaveri di 18 persone (5 soldati e 13 ancelle) che si suicidarono o furono uccise per accompagnare la loro signora nell’aldilà. Lo stendardo di Ur, forse l’oggetto più celebre dell’arte sumera, fu trovato in un’altra tomba, ma nella stessa zona delle tombe reali.

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città di Ur e al suo re, Ur-Nammu. Ur-Nammu è il fondatore della splendida terza dinastia di Ur (2047-1949), tra i cui sovrani va soprattutto ricordato il dotto Shulgi. Anche Lagash rifiorì in questo periodo con la seconda dinastia di Lagash, il cui sovrano più celebre è Gudea (2124-2124). Di Gudea ci sono rimaste ben 26 statue in pietra (diorite), molte con importanti iscrizioni. L’ultimo re di Ur, Ibbi-Sin fu sconfitto dagli Elamiti, popolo semitico, nel 2004. Con questa sconfitta, che lasciò ampio segno nei testi letterari, termina la parabola dei Sumeri.

Il sigillo

Nella storia dell’Antico Oriente, l’invenzione della scrittura è preceduta da quella

del sigillo. L’uso di sigilli in forma rudimentale (l’impronta di un dito, di un’unghia, di un lembo del proprio vestito) è probabilmente antichissimo, ed è difficile dire a quando risalga, anche perché non ci sono rimasti documenti databili che lo attestino. I più antichi sigilli giunti sino a noi sono del tipo a base piatta, e provengono dal nord della Mesopotamia (Tell Arpašiyya, Tell Ḥalāf, prima metà del IV millenio): essi presentano decorazioni di tipo geometrico, e raramente qualche scena con figure di animali. Al periodo Ubaid risalgono circa 600 tra sigilli e impronte trovati a Tepe Gawra, con figure umane e di

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animali. Nel periodo di Uruk, infine, viene inventato il sigillo a cilindro, che permette di ricoprire facilmente una superficie più ampia, ed offre quindi maggiori garanzie di sicurezza. I sigilli erano intagliati con grande abilità in pietre dure, con immagine incavata, in modo tale che l’impronta risultasse in rilievo. L’impiego di materiale ricercato e difficile da lavorare si spiega con il fatto che il sigillo si identificava in qualche modo con la persona, ed era la sua proprietà più preziosa. La qualità dei sigilli è spesso elevatissima, sia dal punto di vista strettamente esecutivo, sia per la ricchezza e la fantasia delle scene rappresentate. Quando ancora si ignorava ogni forma di scrittura il sigillo aveva una funzione fondamentale. Si collocavano ad esempio delle merci in un magazzeno, si chiudeva la porta (che non aveva certo serrature sofisticate) e si applicava ad essa dell’argilla umida; su questa si imprimeva un sigillo, e la si lasciava seccare, in modo tale che non si potesse aprire la porta senza romperla. Se si dovevano prelevare o depositare merci, si rompeva il sigillo, si apriva la porta, e al termine dell’operazione si applicava ad essa un nuovo sigillo. Poiché non si era in grado di registrare la quantità e la tipologia delle merci contenute nel magazzino, il sigillo garantiva almeno che ogni successivo ingresso o uscita dal magazzino fosse stato verificato dalla persona responsabile. Essendo poi quest’ultima dotata di autorità, a volte anche di origine sacra, il sigillo la rappresentava e in qualche modo la sostituiva. Violare il sigillo non era solo un’effrazione materiale, ma un’offesa recata all’autorità, quindi fatto assai grave.

I sigilli del IV millenio possono essere ricondotti a due categorie principali: quelli con raffigurazioni naturalistiche e quelli con simboli astratti o geometrici, questi ultimi assai simili gli uni agli altri. H. J. Nissen ha supposto che i primi appartenessero a singole persone, gli altri a una amministrazione o a un suo settore. Curiosamente si sono trovate moltissime impronte di sigilli figurativi (solo a Uruk ben 4000) e pochissimi sigilli originali e per contro molti sigilli originali astratti. A volte la scena raffigurata sul sigillo sembra riferirsi alla professione o alle competenze del suo possessore; ma con il passare del tempo, quando queste indicazioni sono affidate alla scrittura, le scene rappresentate diventano più uniformi e di carattere religioso.1 Uruk

Le più antiche testimonianze della scrittura risalgono al periodo detto di Uruk IV,

dal nome che gli archeologi hanno dato ad un particolare livello emerso negli scavi di questa antichissima città, ascrivibile agli anni intorno al 3300 a. C. E’ un periodo di forte urbanizzazione e di crescita demografica. Il formarsi di un surplus alimentare permette un differenziarsi delle attività e il sorgere di strutture politico-religiose (se un singolo individuo produce cibo sufficiente solo per sé e per la propria famiglia, non è possibile alcuna forma di industria; ma se produce cibo in abbondanza, può metterlo a disposizione dei vari membri del villaggio, che si occuperanno di altre attività, ad esempio la fabbricazione di vasi, e ricevere in cambio i loro prodotti; anche sacerdoti e governanti possono esistere solo se altri cittadini producono il cibo e gli oggetti loro necessari). Nelle città sumeriche l’economia era molto centralizzata: palazzi e templi erano anche un luogo di deposito delle varie merci, forse per costituire una riserva alimentare in caso di crisi o di guerra, forse per garantire i cittadini nei loro scambi, da momento che non esisteva ancora la moneta. Tutto questo doveva essere registrato con precisione e in modo univoco: la sola memoria era insufficiente allo scopo. La scrittura nasce in questo ambito di rapida espansione; come ha scritto Piotr Michalowski,

the first writing is part of this sudden expansion of the Mesopotamian civilization; it cannot be ascribed to any single cause, but must be viewed as an element in a rapidly diversifying human environment.

1 Pettinato 123 e 125. Si veda anche sui sigilli mesopotamici CYRUS H. GORDON, Glyptic Art, in ID., Adventures in the Near East, London, Phoenix House, 1957, pp. 77-90.

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There can be little doubt that the primary context for the first writing was administrative necessity, but an invention of this magnitude, which required a realignment of all communicative systems within a small but important segment of society, also had complex symbolic and psychological roots.1

Uruk fu dapprima scavata dall’inglese William Loftus, nel 1849 e nel 1853, poi, circa cinquant’anni dopo, dai tedeschi Koldewey, Andrae e Jordan Gli scavi furono poi continuati dalla Deutsche Orient-Gesellschaft, interrotti soltanto in occasione delle due guerre mondiali e di conflitti locali. Tra il 1928 e il 1976 sono state ritrovate circa 5.000 tavolette.

La città di Uruk fu continuamente abitata dal V millenio a.C. sino a circa il 500 d. C. Le esplorazioni all’interno del recinto sacro della città hanno messo in luce diciotto strati arcaici, da Uruk I, il più recente, sino a Uruk XVIII, datato col radiocarbonio agli anni 5300-4500 e coincidente con la fondazione della città, nell’ultima fase del periodo Ubaid. Gli strati di Uruk V e IV coincidono con il tardo periodo di Uruk (3.400-3100) e sono caratterizzati dalla costruzione dei primi monumentali templi. Lo strato di Uruk III vede sorgere molte costruzioni, tra cui le mura della città. Molti edifici di quest’ultimo periodo furono elevati su terrazze ottenute spianando gli edifici precedenti. Nel fare questo lavoro, fosse e avvallamenti furono riempiti con materiale di scarto, vecchi mattoni, vasi rotti, e detriti simili, trasportati in loco da depositi formatisi altrove. Di questo materiale faceva parte un gran numero di tavolette scritte, documenti archiviati a suo tempo, diventati inutili e gettati nei cumuli di spazzatura, dove quasi sempre si erano spezzate. Queste tavolette, ovviamente già vecchie nel momento in cui si procedette alla costruzione dei nuovi edifici, sono quindi anteriori al periodo di Uruk III. Poiché negli strati di Uruk V non sono state trovate tavolette scritte, è verisimile ascrivere il materiale proprio al periodo di Uruk IV. Per la stessa ragione non esiste alcun legame tra queste tavolette e gli edifici presso cui forono ritrovate, e anche la rispettiva collocazione è priva di significato. Per contro queste tavolette sono abbastanza omogenee, ed è quindi lecito supporre che esse appartengano tutte a un arco abbastanza limitato nel tempo, forse il più vicino al periodo III, cioè al periodo IVa. Altre tavolette, trovate nelle fondamenta degli edifici appartenenti al periodo IIIa, sembrano per le stesse ragioni appartenere al periodo IIIb.

La maggior parte delle tavolette trovate a Uruk è oggi al Vorderasiatisches

Museum di Berlino. 2 La pubblicazione del materiale scoperto cominciò nel 1936, a cura di Adam Falkenstein.3

Tavolette simili a quelle di Uruk e risalenti allo stesso periodo sono state trovate in

molti altri siti: a Jemdet Nasr, a Khafaji, a Tell Uqair.4 Queste tavolette, in numero molto 1 PIOTR MICHALOWSKI, Mesopotamian Cuneiform. Origin, in The World’s Writing Systems, ed. by PETER T. DANIELS and WILLIAM BRIGHT, New York – Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 33. 2 Un gruppo di 82 tavolette protosumeriche, appartenente alla collezione Erlenmeyer (Basilea), è stata venduta all’asta intorno al 1990, e acquisita dal British Museum, dal Louvre, dal Metropolitan Museum di New York, e dal Vorderasiatisches Museum di Berlino. 3 Archaische Texte aus Uruk, bearbeitet und herausgegeben von A. FALKENSTEIN, Berlin, Deutsche Forschungsgemeinschaft, Leipzig, O. Harassowitz, 1936. Questo repertorio è solitamente citato come ATU 1. Ad esso fanno seguito: R. K. ENGLUND, H. J. NISSEN, Die lexikalischen Listen der archaischen Texte aus Uruk, Berlin, Mann, 1993 (ATU 3); R. K. ENGLUND, Archaic Administrative Texts from Uruk, Berlin, Mann, 1994 (ATU 5); ROBERT K. ENGLUND, HANS J. NISSEN, Archaische Verwaltungstexte aus Uruk: Die Heidelberger Sammlung, Berlin, Mann, 2001 (ATU 7); ROBERT K. ENGLUND, HANS J. NISSEN, Archaische Verwaltungstexte aus Uruk: Vorderasiatisches Museum II, Berlin, Mann, 2005 (ATU 6); Il volume: Robert K. Englund, Hans J. Nissen, Katalog der Archaischen Texte aus Uruk (ATU 4) non è ancora stato pubblicato. Una prima lista di segni fu pubblicata da Falkenstein in ATU 1, ma una lista molto più ampia si trova ora in M. W. GREEN, H. J. NISSEN, Zeichenliste der archaischen Texte aus Uruk, Berlin, Mann, 1987 (ZATU). Tutto il materiale del Vorderasiatisches Museum è oggi disponibile in rete, attraverso il sito della Cuneiform Digital Library Initiative. 4 Tell Uqair è un sito a sud di Baghdad, non lontano da Jemdet Nasr, che fu scavato da Lloyd dopo il 1940 e da Michael Müller-Karpe dopo il 1970. Vi sono state rinvenute molte testimonianze del periodo Ubaid e di periodi posteriori. Presso un piccolo tempio sono stati rinvenuti frammenti di vasi del periodo Jemdet Nasr e quattro tavolette con scrittura protosumera.

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minore rispetto a quelle di Uruk, hanno però il vantaggio di non provenire da depositi di spazzatura, e di essere di conseguenza spesso integre.

Questo significa che la scrittura, “inventata” con Uruk IV, nel periodo di Uruk III

era già diffusa in buona parte del territorio sumerico. Si tratta quasi sempre di testi contabili e amministrativi (circa l’85 % del totale), relativi a scambi di animali, cereali, frutta, a problemi di proprietà terriera, ai compiti da assegnare a diversi lavoratori, a distanze da percorrere, e così via. Gli altri testi sono liste di parole sistemate per argomento (oggetti di legno, professioni, animali ecc.). Molti di questi testi sono conosciuti in più copie. Si ritiene comunemente che essi fossero dei “manuali” in uso nelle scuole per imparare a leggere e a scrivere, e che avessero lo scopo di fissare la scrittura per trasmetterla immutata nel tempo. Queste liste, confrontate con altre analoghe più tarde, sono preziose per capire il significato di molti segni non pittografici. In queste tavolette si sono identificati anche molti nomi di toponimi, nei dintorni di Uruk, ma anche lontani, come Kish o Dilmun (Bahrein).

Le tavolette protosumeriche sono state oggetto di molti studi e discussioni.

Abbiamo già visto che esse non risalgono oltre il periodo di Uruk IV. In realtà abbiamo anche un certo numero di tavolette databili al periodo di Uruk V, che contengono pressoché esclusivamente delle cifre.

tavoletta con cifre del periodo Uruk V Ma scritture arcaiche, soprattutto tavolette numeriche, a volte con impronte di

sigilli, sono state scoperte in molti altri luoghi.

Da Walker, p. 19 Due tavolette trovate a Tell Brak sono particolarmente interessanti, perché

rappresentano l’una un montone, l’altra una capra, con un segno circolare corrispondente al numero dieci. Poiché montone e capra sono raffigurati per intero e non con la sola testa o

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con un simbolo, si è supposto che queste tavolette siano particolarmente antiche, forse antecedenti a quelle di Uruk. Scrive C. B. F. Walker:

Until quite recently the theory presented in most books on Mesopotamian archaeology was that writing was invented in southern Iraq c. 3000 BC, or slighty earlier, perhaps by a Sumerian living in Uruk [...]. Today the picture looks rather different. Evidence for early stages of writing in the form of tablets inscribed with numbers only, sometimes bearing also seal impressions, has been found not only at Uruk, but also at Niniveh in Iraq, at Susa, Choga Mish and Godin Tepe in western Iran, and at Tell Brak and Habuba Kabira in north Syria; most of these can be dated to the later fourth millenium BC[...]. In the east the pictographic texts found at Susa, known as proto-Elamite, appear in an archaeological level which shows marked differences from the previous level, suggesting the arrival of a new cultural group, and since these proto-Elamite texts have now been found as far east as Seistan on the border of Afghanistan, it may be that the script was invented on the Iranian plateau. Study of the early Uruk texts themselves has also suggested thar they are dependent on an earlier tradition of pictography which has not yet been found or identified. Thus it is beginning to look as if we should think in terms of the invention of writing as being a gradual process, accomplished over a wide area, rather than the product of s single sumerian genius.1

Queste ipotesi sono molto suggestive, ma solo ulteriori scoperte archeologiche, in

strati databili con sicurezza, potranno confermarle.2 Le più antiche tavolette di Uruk hanno in genere una forma rettangolare, sono di

piccole dimensioni e bombate su entrambe le faccie. Queste tavolette possono riportare tre tipi di segni.

Tavoletta protosumerica con cifre, segni pittografici e impronta di sigillo.ATU 565

Il primo è costituito da segni impressi nell’argilla molle per mezzo di un utensile.

Questi segni sono delle cifre e fanno parte di un sistema di numerazione. Il secondo tipo è costituito da segni graffiti, sempre sull’argilla molle, per mezzo di un altro utensile, e corrispondono a oggetti. Il terzo gruppo è costituito dal ricalco che si ottiene passando sull’argilla molle un sigillo a rullo, o in altro tipo di sigillo: questi sigilli essendo incisi, la loro impronta sull’argilla è simile a un bassorilievo. Lo scriba usava con ogni probabilità due diversi bastoncini (di legno, di osso, o di altro materiale), simili alle nostre matite, di sezione rotonda, terminanti da una parte a punta e dall’altra squadrati. Nessuno di questi bastoncini è pervenuto sino a noi, e non sappiamo con assoluta certezza come erano fatti. Uno doveva avere un diametro di circa 4 millimetri, l’altro di circa 1 centimetro. La parte a punta serviva per graffiare l’argilla, la parte piatta per imprimere le cifre. Se noi immaginiamo di premere uno di questi bastoncini sull’argilla tenendolo obliquamente, a circa 45 gradi, esso lascerà un’impronta a forma di U, profonda da una parte, e terminante a zero dall’altra. Se lo schiacciamo tenendolo perpendicolarmente alla tavoletta, l’impronta

1 C. B. F. WALKER, Cuneiform, in AA. VV., Reading the Past. Ancient Writing from Cuneiform to the Alphabet, London, British Museum, 1990, pp. 17-18. 2 Si potrebbe anche supporre che in una prima fase i Sumeri, o altri popoli, abbiano usato supporti diversi dall’argilla: foglie, pezzi di legno, corteccia, pelli. In questo caso, trattandosi di materiale deperibile, è normale che nulla sia pervenuto sino a noi. Se accettiamo questa possibilità, non si può escludere a priori che la scrittura fosse già praticata prima del periodo di Uruk V-IV.

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avrà invece forma circolare. Sono così possibili, con due diversi bastoncini, quattro tipi di impronta. Ma si più anche premere perpendicolarmente il bastoncino piccolo in una delle due impronte fatte con il bastoncino grande, e così i segni diventano sei, perfettamente adeguati al sistema di conto dei Sumeri.1

Questi sei segni rappresentano nell’ordine le cifre 1 – 10 – 60 – 600 – 3600 –

36000. Sulla singola tavoletta possono essere tutti e tre i tipi di segni, due tipi, o le sole

cifre. Le teorie sull’origine

In passato qualcuno ha supposto che la scrittura sia stata inventata da un singolo

geniale individuo, o da un gruppo di scribi. Nel 1897 F. Delitzch2 suppose che essa derivasse da una ventina di segni primari, creazione originale di un singolo, e l’ipotesi è stata ripresa più recentemente da M. A. Powell.3 Ma questa teoria ha oggi pochi sostenitori, e si preferisce pensare che la scrittura protosumerica sia frutto di un processo relativamente lento, realizzatosi con il contributo di più persone.

L’ipotesi più diffusa, sostenuta soprattutto dal Driver e poi da J. Bottéro,4 sostiene che all’origine della scrittura ci sono i pittogrammi, e riconosce nella formazione della scrittura tre successive fasi: la pittografia, il fonetismo e la scrittura vera e propria.

La fase della pittografia, che si identifica con la scrittura cosiddetta proto-

sumerica, è testimoniata da quattro serie di ritrovamenti: quelli di Uruk (ma anche di Kish in Akkad), i più prossimi all’invenzione della scrittura,5 quelli di Jemdet-Nasr, posteriori di circa un secolo, le tavolette di Ur collocabili intorno al 2700, e infine, le tavolette di Fara (e di Abu Salabih) nel territoriom accadico, databili intorno al 2600. Scrive Bottéro:

Le fait que les Tablettes d’Uruk aient été localisées dans l’enceinte du grand temple de cette ville, et que ces pièces constituent manifestement des comptes rendus de mouvements de biens, avec quantités détaillées, puis totalisées, invite à penser que cette écriture avait été mise au point avant tout pour mémoriser de nombreuses et compliquées opérations économiques centrées sur ledit temple, propriétaire et redistributeur, ou exclusif, ou principal, des produits du travail dans le pays. Le dépôts de Djemdet-naṣr et d’Ur sont à peu près exclusivement constitués de pièces analogues, à la seule exception d’un petit nombre de listes de signes, évidemment préparées d’abord pour l’apprentissage, l’entraînement et l’usage des scribes. C’est seulement à partir de 2600 (premières inscriptions royales et archives “littéraires” de Fâra) que l’usage de l’écriture s’est étendu à d’autres domaines. Autrement dit, l’écriture mésopotamienne est apparemment née de besoins et de nécessités d’économie et d’administration, et toute préoccupation religieuse, ou proprement “intellectuelle”, paraît bien devoir être exclue de ses origines.6

1 Cfr. GEORGES IFRAH, Histoire universelle des chiffres. L’intelligence des hommes racontée par le nombre et le calcul, Paris, Laffont, 1994, pp. 204 e segg. 2 Die Entstehung des ältesten Schriftsystems oder der Ursprung der Keilschriftzeichen, Leipzig, 1897. 3 cfr. Glassner, p. 69. 4 J. BOTTERO, Mésopotamie, l’écriture, la raison et les dieux, Paris, Gallimard, 1987, pp. 132 e segg. (saggio pubblicato la prima volta con il titolo De l’aide-mémoire à l’écriture, in Ecritures. Systèmes idéographiques et pratiques expressives, Actes du Colloque international de l’Université Paris VII, Paris, Le Sycomore, 1982). 5 All’Ashmolean Museum di Oxford è conservata una tavoletta in calcare provenienti da Kish, con segni protosumerici, che alcuni i assegnano alla metà del IV millennio, e che sarebbe quindi più antica delle tavolette di Uruk IV. Cfr. DAVID DIRINGER, The Book before Printing, New York, Dover Publications, 1982, p. 54. 6 pp. 138-39.

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La pittografia si riferisce a oggetti reali, e utilizza segni che li riproducono, in

modo più o meno preciso, e con un diverso grado di schematizzazione, anche tralasciando i particolari non necessari all’identificazione dell’oggetto stesso. Poiché la rappresentazione di oggetti per mezzo del disegno è il più antico mezzo usato dall’uomo per comunicare visivamente, come dimostrano i reperti delle caverne,1 l’ipotesi appare perfettamente logica. Questa scrittura è indipendente dalla lingua, può essere “letta” anche da uno straniero, e si riferisce alle sole cose in modo elementare e isolato, senza formulare relazioni tra esse. L’indipendenza dalla lingua è un grosso vantaggio, perché ampia le possibilità di comunicazione tra uomini appartenenti a popoli diversi. Per contro un sistema così elementare è estremamante limitato.

Le tavolette registrano fatti economici, soprattutto scambi e consegna di prodotti, e sono totalmente prive di nessi sintattici o grammaticali. Gli stessi segni sono impressi sulla tavoletta senza un ordine preciso, solo in base allo spazio disponibile. Le tavolette protosumeriche più antiche, soprattutto quelle di Uruk, sono per noi illeggibili. Quelle più recenti, trovate a Ur e a Fara, cominciano ad essere leggibili in alcune parti. Circa in quinto dei segni utilizzati è identificabile, e in questi casi possiamo farci un’idea del tipo di transazione a cui una tavoletta si riferisce. Ma i rapporti tra gli oggetti rappresentati rimangono incomprensibili. In un frammento da Uruk, ad esempio, troviamo quattro segni: due volte il numero dell’unità, il segno tempio, il segno pecora, il segno della dea Inanna. E’ evidente a cosa la tavoletta si riferisce: due pecore e il tempio della dea Inanna. Ma queste pecore sono offerte al tempio della dea? oppure lasciano il tempio per qualche altra destinazione? Questo doveva invece apparire chiaro dal contesto e dalla collocazione della tavoletta: negli archivi di un mercante, in una cesta in cui egli riponeva abitualmente le registrazioni delle uscite o degli acquisti, o all’interno del tempio tra le ricevute delle vendite piuttosto che delle offerte. In queste tavolette i numeri sono chiaramente leggibili, anche perché sono molto simili a quelli che saranno usati nei secoli successivi.

Abbastanza presto però il pittogramma si trasforma in ideogramma. Per indicare tutta la realtà occorrerebbero molte migliaia di segni: ora, i segni del protosumerico sono al massimo 1500, difficili da apprendere, ma del tutto insufficienti. Per aggirare la difficoltà furono inventati dei “trucchi”. Il primo fu indicare con un segno non solo un singolo oggetto, ma tutta una serie di altri oggetti ad esso collegati semanticamente, o anche solo per associazione mentale. Ad esempio il segno della spiga poteva indicare non solo un cereale, ma tutto ciò che si riferiva all’agricoltura. La cosa era indispensabile per indicare concetti astratti, non rappresentabili: così il segno di un piede cominciò a indicare non solo l’oggetto piede, ma anche l’azione del camminare, e ampliando ulteriormente la sfera del significato, il muoversi, l’andare. Un altro trucco fu l’accostare più segni: occhio più acqua significherà lacrime, bocca più pane significherà mangiare. Questo permetteva anche specificazioni più articolate: ad esempio un aratro accostato al segno legno indicava proprio l’aratro, accostato al segno uomo indicava l’uomo intento ad arare, cioè il contadino. Con tutto ciò l’impossibilità di esprimere nessi tra i singoli oggetti o concetti indicati era un limite fortissimo. Nella fase pittografica la scrittura non può comunicare cose ignorate, ma solo ricordare cose già note. La sua funzione è essenzialmente di aiuto alla memoria.

In una seconda fase la scrittura si collega alla lingua: è una fase mista, di

pittogrammi e di fonogrammi. Per comprendere la scrittura bisogna anche conoscere la lingua dell’interlocutore, e la scrittura di cose è sostituita dalla scrittura di parole. I segni, non più riferiti direttamente agli oggetti, subiscono un processo di stilizzazione e di astrazione sempre più accentuato, sino a diventare scarsamente riconoscibili. Bottéro colloca la prima testimonianza di questa evoluzione nel periodo di Jemdet-Nasr e cita una

1 La differenza tra il semplice disegno e la pittografia consiste nel fatto che quest’ultima, essendo rivolta alla significazione, presenta caratteri di sistematicità e di uniformità molto più accentuati. L’ideogramma. come già si è visto è più astratto e sintetico, e si riferisce non solo al singolo oggetto, ma a tutta l’area semantica che ad esso fa capo.

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tavoletta (ATU 636, II, I), in cui appaiono tre segni. I primi due possono essere letti come líl.en, cioè il nome del dio Enlil. Il terzo rappresenta una freccia. Quest’ultimo segno nelle scritture più tarde, cuneiformi, si legge ti, ed è normalmente usato per indicare la parola vita, anch’essa pronunciata ti: è uno dei molti casi di omofonia che caratterizzano la lingua sumerica. I tre segni potrebbero quindi essere letti “Enlil vita”, ovvero “Enlil che vivifica”, con ogni probabilità un nome proprio. Da questa lettura Bottéro deduce tre conseguenze. Primo, che la lingua delle tavolette di Jemdet-Nasr (e perciò anche delle tavolette di Uruk, di poco precedenti) è senza possibilità di dubbio il Sumero, l’unica in cui le parole vita e freccia siano omofone, ti. Secondo, che furono proprio i Sumeri a scoprire la scrittura. Terzo, che già un secolo dopo i primi tentativi essi avevano compiuto un fondamentale passo verso il fonetismo. Dal punto di vista concettuale, si trattava di un passo importantissimo:

Car si, en tant que pictogramme, le signe de la flèche ne peut se référer qu’à la chose-flèche, et éventuellement, en qualité d’idéogramme, à une plus ou moins riche constellation de choses évocables par elle (mettons: l’arme, le tir, la chasse, etc.) le son ti désigne avec précision ce phonème, où qu’il se rencontre dans le langage parlé, et pourra donc être employé, sans la moindre référence à un objet materiel quel qu’il soit, pour marquer seulement ce mot ou cette partie d’un mot.1

Lo stesso Bottéro ammette però che questa prima tappa rimane un fatto isolato, e

che la scrittura sumerica non giunse mai a un vero fonetismo. Probabilmente i Sumeri, ingegnosi, ma anche conservatori, non compresero che la loro lingua, con molte parole monosillabiche, si prestava egregiamente a sostenere una scrittura di tipo fonetico sillabico. Sarebbe bastato scegliere un centinaio di segni, ciascuno dei quali corrispondente in modo univoco a una sillaba, per esprimere in modo compiuto l’intera lingua. In realtà essi considerarono il fonetismo un semplice complemento della pittografia, che rimase la struttura portante della scrittura. Solo quando il segno pittografico non era in grado di rappresentare qualcosa (ad esempio un concetto astratto) si poteva far ricorso al fonetismo. La scrittura sumerica rimase dunque una scrittura mista. Questo ebbe due conseguenze. Da una parte il numero dei segni diminuì considerevolmente: nelle tavolette di Fara essi sono circa 800, e in seguito divennero circa 600. Ma d’altra parte la scrittura divenne enormemente complicata, perché ogni segno poteva avere valore pittografico o fonetico, ed essere letto di conseguenza in moltissimi modi diversi. Il segno del piede, ad esempio, poteva essere letto pittograficamente come piede; ma aveva anche, come si è visto, molti altri significati: camminare, stare in piedi, stare fermo, trasportare. Questi significati corrispondevano rispettivamente alle parole du (camminare), dub (stare in piedi), gin (stare fermo), túm (trasportare). Il segno del piede poteva quindi assumere tutti questi valori fonetici, ed essere interpretato in moltissimi modi. Per evitare equivoci gli scribi facevano ricorso a complementi fonetici e a determinativi. Nel primo caso aggiungevano al segno un altro segno fonetico dal suono simile, che permetteva di decidere tra le molte possibilità: ad esempio il segno del piede accompagnato da un altro segno che foneticamente valeva in faceva optare per la lettura gin; accompagnato dal segno fonetico che valeva gu, doveva essere letto gub. Il determinativo poteva dire se si trattava di un oggetto o di un uomo, come si è già visto nel caso del segno aratro. Grazie a questa evoluzione le tavolette di Fara sono parzialmente leggibili, anche perchè il loro contenuto è assai più vario. Ma in queste tavolette mancano ancora grammatica e sintassi, e i segni corrispondono solo a parole non articolate, senza declinazione e coniugazione. Solo l’ordine delle parole (il soggetto è in genere all’inizio del periodo) consente di intuirne le relazioni.

Nella terza fase il fonetismo prevale sulla pittografia. Secondo Bottéro questo

passaggio è stato favorito dalla necessità di registrare con la scrittura anche le lingua akkadica, flessa e non agglutinante, quindi molto più complessa e varia (mentre le parole sumeriche erano invariabili, modificate solo da prefissi e suffissi). La vicinanza dei due

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popoli e i loro frequenti rapporti commerciali obbligarono i commercianti sumeri a scrivere dei nomi propri stranieri, e anche a registrare merci che avevano solo un nome akkadico. Questo interscambio andò accentuandosi nel corso del III millenio, sino a quando Sargon conquistò tutta la Mesopotamia e fondò l’impero akkadico, la cui lingua ufficiale era l’akkadico, scritto però con i segni ereditati dai Sumeri. Con questo passaggio la scrittura diventa una vera scrittura e non più un semplice aiuto alla memoria: essa è in grado di registrare completamente il linguaggio parlato, e in teoria qualunque linguaggio. Tuttavia la scrittura sumerica, anche nella sua successiva evoluzione, non riuscirà mai a raggiungere un perfetto fonetismo, come già si è detto: accanto a segni con valore fonetico continueranno ad essere usati ampiamente pittogrammi, ormai trasformatisi in ideogrammi o, con il termine di solito impiegato dagli specialisti, in sumerogrammi.1 Scrive Bottéro:

Presque chacun des quelque quatre cent signes cunéiformes en usage courant a une ou plusieurs doubles valeurs: idéographique (il signifie une chose, un mot, un concept si l’on veut), et phonétique. Ainsi, le signe de la montagne désigne-t-il le pays (mâtu en akkadien), la montagne (šadû), et également l’idée de conquête, d’atteinte (kašadû); et peut se lire phonétiquement: kur, mad, lad, šad, et encore quelques autres valeurs, plus exceptionnelles. C’est le contexte, en définitive, qui permet au lecteur de choisir la bonne lecture: voilà pourquoi, à nos yeux étrangers et lointains, un texte cunéiforme ne se lit jamais couramment, il se déchiffre.2 La teoria secondo cui la scrittura nasce dalla pittografia, magistralmente formulata

da Bottéro, non è tuttavia da tutti accolta. Altri illustri studiosi hanno espresso qualche perplessità in proposito. Ad esempio già A. Falkenstein, pubblicando i primi testi protosumerici scoperti a Uruk identificò circa 900 segni (molti altri saranno scoperti in seguito), e fece notare che tra essi i veri pittogrammi sono relativamente rari: ad esempio

non è un pittogramma, ma un segno astratto, il comunissimo segno UDU per l’ovino. Egli adottò di conseguenza il termine halbpiktographisch, per esprimere il fatto che sin dall’inizio la scrittura protosumerica ha un carattere misto. Più tardi Gelb sostiene che.... (Glassner 72) Sulle critiche, spesso fumose e nominaliste, della scuola semiologica a queste teorie, si veda Glassner, p. 81 e segg.

Altre teorie collegano invece la nascita della scrittura al calcolo e alla registrazione

di numeri. Tutte le popolazioni, sin dagli inizi della loro civiltà, sentono il bisogno di

effettuare dei calcoli. Ma il calcolo, nel senso che noi diamo oggi al termine, implica una notevole capacità di astrazione, ovviamente non raggiungibile da menti ancora primitive. Si scoprì ben presto che due sistemi potevano permettere di registrare facilmente dei numeri: le tacche intagliate, ad esempio su un bastone, e il formare mucchi di sassi, o sassolini. Il secondo sistema, in particolare, si rivelò utile per compiere operazioni elementari. Dei soldati partono per la guerra. Ciascuno di essi colloca un sassolino in un luogo specifico, all’interno del villaggio. Al ritorno, ogni soldato toglie un sassolino: i sassolini rimasti rappresentano i soldati caduti. Ma il sistema era molto limitato, e difficile da praticare se le cifre erano alte. Il concetto di base numerica permise di compiere un notevole progresso: ad esempio, prendendo per base 10, un sasso piccolo poteva rappresentare l’unità, un sasso più grosso la decina, uno ancora più grosso il centinaio. Con i sassi però la cosa non era facile: un sasso di dimensioni intermedie poteva facilmente essere confuso con la cifra più alta o con quella più bassa. Inoltre in Mesopotamia le pietre erano assai rare. Esisteva in compenso l’argilla, che si rivelò adattissima allo scopo. Con essa era infatti possibile non solo confezionare palline di dimensioni diverse, con possibilità di equivoci, ma piccoli

1 La parola sumerogramma si giustifica perché tutti i segni di tipo ideografico della scrittura cuneiforme classica si riferiscono di fatto a parole di origine sumerica. 2 p. 165.

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oggetti di forma diversa, ben distinguibili gli uni dagli altri: cono, disco, sfera, cilindro, bastoncino, uovo, mezzaluna, ecc. Ogni singolo oggetto poteva poi esssere ulteriormente caratterizzato con l’aggiunta di segni. L’uso, nato in tempi antichissimi, già nel nono millennio, si diffuse in tutto l’Oriente, di pari passo con il sorgere delle più antiche civiltà.

Questi oggetti, a cui ci si riferisce con il termine calculi,1 sono emersi in grande

numero negli scavi, soprattutto in tempi recenti. I calculi più antichi giunti sino a noi, a forma di cilindro, disco, sfera, cono o bastoncino, provengono da Beldibi (Anatolia) e Tepe Asiab (Mesopotamia) e risalgono al IX millenio. Al XI-VIII millenio risalgono i calculi trovati a Ganj Dareh Tepe (Iran). Calculi più recenti, assegnabili all’VIII e al VII millenio sono stati rinvenuti a Khartoum, a Kayönü Tepesi (Anatolia) e Gerico, in Palestina. Ma nel Medio Oriente calculi sono stati trovati ovunque, anche più a est, nella zona del Caspio o ai confini con l’India: più di 10.000 oggetti in circa 100 siti diversi. Nessun calculum è stato però trovato in Egitto. Le zone dei più fitti ritrovamenti sono la Mesopotamia e la parte occidentale dell’Iran. Occorre tuttavia dire che una grandissima quantità di questi calculi fu scartata dai primi archeologi, che li ritenevano privi di interesse. Ancora oggi è difficile dire se un pezzo di argilla con alcune linee su di esso debba essere considerato un reperto archeologico o un prodotto casuale dell’erosione o dei giochi di qualche bimbo arabo. In base alla stratigrafia, questi oggetti sono databili per la maggior parte tra il 9.000 e il 2.000 a. C., ma se ne conoscono anche di più recenti, appartenenti al periodo dei Parti e dei Sassanidi.2

Particolarmente interessanti sono i calculi ritrovati rinchiusi in una “busta” di

argilla, in genere di forma sferica o ovoidale, e con segni sulla sua superficie, che si riferiscono al contenuto. Queste “buste” sono note nel mondo scientifico con i termini bulla, bullae. Sono state trovate moltissime bullae, alcune rotte, altre intatte, in Iran (Tepe Yahya e Susa), Siria (Habuba Kabira), in Mesopotamia (Uruk, Niniveh, Nuzi). Le bullae sono però attestate solo dal IV millenio. Nelle bullae intatte è stato possibile verificare il contenuto per mezzo di raggi X. Si è supposto che queste bullae sigillate, contenti un certo numero di calculi, servissero da garanzia nelle transazioni commerciali. Un tale doveva a un altro dieci pecore: si mettevano i calculi corrispondenti a dieci pecore in una palla di argilla, sulla quale si scriveva di nuovo il numero e il tipo della merce; se sorgeva il sospetto che il depositario del documento avesse falsificato la scritta e modificato qualcosa (l’argilla, se non cotta, poteva essere inumidita e riscritta), la busta poteva essere rotta e il suo contenuto in calculi verificato. E’ evidente che il sistema poteva funzionare solo se la bulla era adeguatamente sigillata (altrimenti un disonesto poteva semplicemente romperla e mettere un diverso numero di calculi in una bulla nuova): ma questo non era un problema, perché, come si è visto, i sigilli nascono molto prima della scrittura. Una bulla di questo tipo poteva anche servire da bolla di accompagnamento di una merce. Un allevatore affidava un certo numero di pecore a un pastore, perché le portasse a un mercante: insieme con le pecore gli consegnava anche una bulla in cui era registrato il numero delle pecore, e questo permetteva al destinatario di controllare quante pecore si erano perse durante il viaggio.

Solo in tempi relativamente recenti è stata compresa l’importanza dei calculi e

delle bullae. Nel 1928-29 gli archeologi americani che scavavano in Irak scoprirono nelle rovine del palazzo di Nuzi, presso Kirkuk, uno strano oggetto: una specie di palla di forma ovale, vuota all’interno, con iscrizioni in akkadico cuneiforme sulla superficie.

1 Il termine calculi si riferisce propriamente a sassolini, usati anche nel mondo greco-romano come strumento di conto. Si tenga presente che i calculi mesopotamici non sono mai sassi o pietre, ma sempre oggetti artificiali di argilla. Gli studiosi inglesi usano il termine tokens, e i francesi il termine jeton: ma in verità la loro forma è molto diversa da quella dei comuni gettoni, impiegati per il telefono o in vari tipi di gioco. 2 In realtà l’uso di calcolare in questo modo non è mai interamente scomparso, e presso popolazioni o tribù completamente illetterate esso è presente ancora oggi.

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Harvard Semitic Museum, Cambridge, Mass.

L’iscrizione diceva: “oggetti concernenti dei montoni e delle capre. 21 pecore che hanno già avuto dei piccoli. 6 agnelli femmina. 8 arieti adulti. 4 agnelli maschi. 6 capre che hanno già avuto dei piccoli. 1 caprone. 2 caprette”. In tutto 48 animali. Guardando all’interno della palla si scoprì che essa conteneva esattamente 48 palline di terracotta. In seguito queste palline, a cui gli archeologi non diedero grande importanza, andarono perdute. L’uso di questo oggetto fu intuito, sembra, grazie a un servitore incolto, che mandato a fare delle spese e non sapendo contare, riferì dei propri acquisti mostrando un certo numero di sassolini raccolti allo scopo. Ma solo trent’anni dopo A. Leo Oppenheim, professore di Assiriologia a Chicago, affrontò seriamente il problema, giungendo alla conclusione che appunto i popoli mesopotamici usavano registrare le loro transazioni commerciali per mezzo dei calculi, designati con la parola abnū.

Si più dunque supporre che un funzionario del palazzo di Nuzi avesse il compito di tenere la contabilità delle greggi. In primavera gli animali erano affidati a un pastore, perché li portasse al pascolo. In questo momento il funzionario formava nell’argilla il numero appropriato di calculi, li rinchiudeva nella busta, e apponeva alla busta il proprio sigillo. Quando il pastore in autunno ritornava, era facile spezzare il sigillo, confrontare le palline con gli animali, e vedere se il gregge era diminuito o aumentato. Questo sistema garantiva sia il palazzo, sia il pastore.

Le teorie di Oppenheim trovarono conferma negli studi di M. Lambert e di P. Amiet,1 conservatore-capo delle Antichità Orientali al Louvre, sulle circa sessanta bullae (alcune delle quali intere) conservate al Museo e provenienti dagli scavi effettuati dalle missioni francesi a Susa alla fine dell’Ottocento. Amiet e Lambert sostennero per primi che i calculi scoperti in gran numero sino ad allora non erano amuleti o pedine di giochi, come si riteneva comunemente, ma oggetti usati per fare conti, e che esisteva un rapporto tra essi e i segni impressi sulle bullae in cui spesso erano contenuti. Questi reperti erano assegnabili allo stesso periodo delle tavolette protosumeriche di Uruk IV, ed erano quindi molto più antiche della bulla di Nuzi. Ma a differenza di quest’ultima, che conteneva 48 calculi uguali, le bullae di Susa contenevano calculi diversi tra loro, di varia forma. Il sistema antico era dunque più complesso di quello moderno, e aveva subito con il passare del tempo una semplificazione, forse un impoverimento.

1 Glassner .87

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Il calculum è un simbolo tridimensionale dell’oggetto a cui si riferisce. Se sei

calculi rappresentano sei pecore, non siamo ancora di fronte ad un numero, ma a un semplice insieme di corrispondenze biunivoche (un calculum ↔ una pecora, sei volte). Ma se, ad esempio, un calculum con un certo segno rappresenta una pecora, e un calculum con lo stesso segno, ma di forma diversa, rappresenta sei pecore, siamo già di fronte a un’ideogramma, cioè alla rappresentazione di un’idea (il numero) attraverso un sistema simbolico. Questo “ideogramma” è ancora tridimensionale. Il passo successivo, come si è visto, fu l’inserire i calculi all’interno di una bulla. E’ possibile che dapprima questa bulla fosse un semplice contenitore, per impedire che i calculi si perdessero. Poi venne l’idea, prima di chiuderla, di schiacciare i calculi sulla sua superficie, in modo che lasciassero la propria impronta1. Questo ci pone di fronte a un interrogativo. Se i calculi, ad esempio, sono sei, avremo sulla bulla sei impronte: ma si tratta di sei segni o di un unico segno? Se li consideriamo un unico segno (come i numeri I, II, III romani, un solo segno composto da uno o più tratti, o gli stessi numeri 1, 2, 3 arabi, che derivano da un tratto verticale e da due o tre tratti orizzontali) siamo evidentemente di fronte a un ideogramma bidimensionale, cioè a una prima forma di vera e propria scrittura.

La tesi secondo cui la scrittura deriva dai calculi ha trovato la sua formulazione

più ampia e organica nei lavori di una studiosa americana, Denise Schmandt-Besserat, dell’Università di Austin, Texas,2 secondo cui la scrittura è appunto una copia in due dimensioni di oggetti tridimensionali.

La Schmandt-Besserat sostiene che agli inizi il rapporto tra oggetto e simbolo fosse di tipo elementare: un calculum una capra, cinque calculi cinque capre. Nasce a questo punto un problema: calculi di forma o dimensioni diverse potevano esprimere quantità maggiori? Ad esempio un disco piccolo una capra, un disco uguale, ma più grande, n capre, oppure molte capre? La Schmandt-Besserat non sembra accettare questa possibilità, almeno per i millenni più remoti. Nella società più complessa e urbanizzata del IV millenio, però, la gamma dei calculi si diversificò, e si adattò alle nuove esigenze, esprimendo realtà più variegate: ad esempio non solo la pecora, ma la pecora maschio distinta dalla femmina, il piccolo dall’adulto, la pecora incinta da quella non incinta. Parallelamente si affermò il bisogno di raggruppare dei calculi inserendoli in contenitori, le bullae. La fase successiva consistette nell’imprimere sull’esterno delle bullae i segni dei calculi, prima usando i calculi stessi, poi con l’estremità di un bastoncino appositamente costruito. Infine, visto che i calculi all’interno della bulla erano un doppione inutile, si rinunciò ad essi, e la bulla su trasformò in una tavoletta con segni di scrittura in sé

1 Alcuni sostengono che i segni erano impressi con un ulteriore calculum simile agli altri, dopo aver sigillato la bulla. 2 Cfr. soprattutto D. SCHMANDT-BESSERAT, The Earliest Precursors of Writing, “Scientific American”, 238, 1978 e Before Writing, Austin, 1992, 2 vv.

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sufficienti. A riprova di questa teoria la Schmandt-Besserat sottolinea che segni numerali compaiono presso i Sumeri circa due secoli prima dei pittogrammi.

Questa tesi ha avuto grande fortuna, ed è stata abbracciata da molti studiosi, sia nel campo dell’assiriologia, sia nel campo dell’antropologia e della semiologia. Ma non tutti la condividono e recentemente ad essa sono state mosse parecchie e significative obiezioni,1 con validi argomenti. I segni sumerici sono circa 1.500, ma solo pochi derivano dai calculi; i calculi si trovano ovunque, mentre l’origine della scrittura vera e propria è attribuibile specificamente alla zona dei Sumeri; le bullae sembrano a volte più complicate delle tavolette che avrebbero dovuto ispirare.

La Schmandt-Besserat ha dovuto, per elaborare i propri studi, mettere ordine in una massa enorme di oggetti disparati, ritrovati un po’ ovunque, e sparsi cronologicamente lungo l’arco di 7-8 millenni. Ella preferisce il termine tokens, gettoni, al termine calculi, e li divide in due categorie, quelli più semplici con forme geometriche elementari, e quelli più complessi, frutto di uno sviluppo del sistema, che si distinguono da primi sia per la loro forma, più varia e articolata, sia perché su essi sono presenti dei segni incisi. Partendo da queste premesse, la Schmandt-Besserat ha classificato i tokens in 16 tipi e in 492 sottotipi. Proprio questa classificazione, a cui la studiosa ha dedicato grandi energie, appare discutibile. Ecco ad esempio le obiezioni che ad essa muove Jean-Jacques Glassner: - circa il 14 % degli oggetti classificati dalla Schmand-Besserat non è in argilla, ma in pietra o bitume, il che presuppone maggior tempo e maggior fatica per costruirli. - mancano su questi oggetti indicazioni cronologiche precise, e molti di essi risalgono ad epoca assai tarda, addirittura alla seconda metà del primo millennio, e sono quindi molto posteriori all’invenzione della scrittura. - un’analisi quantitativa del materiale mette in evidenza delle incoerenze. Ad esempio quasi il 60 % dei tokens complessi ci è rimasto in esemplare unico, e solo il 18 % è testimoniato da più di quattro esemplari. La frequenza di questi esemplari lascia poi perplessi: ad esempio il disco con una croce, che dovrebbe rappresentare la pecora ci è arrivato in quindici esemplari, mentre il token ovoidale, che dovrebbe rappresentare un chiodo, ci è pervenuto in sessanta esemplari, i più antichi dei quali risalgono all’VIII millennio.2 - molti oggetti classificati dalla SB come tokens appartengono più verosimilmente ad altre categorie: sono ad esempio perle da infilare in una collana, o pesi, o etichette rettangolari da applicare a vasi o giare. - l’ipotesi di un unico sistema contabile formatosi sin da tempi antichi si scontra con il fatto che i due sistemi contabili documentati in tempi storici, quello elamitico e quello sumerico, sono assai diversi, nati con ogni probabilità in modo autonomo, piuttosto che derivati dallo stesso sistema più antico.

Conclude Glasssner:

Sans doute D. Schmandt-Besserat est-elle en mesure de dresser une liste de cinquante et un jetons dont elle fait les prototypes d’autant de signes d’écriture. Mas si des ressemblances se laissent déceler entre certains d’entre eux et certais signes graphiques, elles sont généralement si approximatives qu’elles ne peuvent être jugées pertinentes. [...] En tout état de cause, elles sont toujours de pure forme, les significations que leur trouve D. Schmandt-Besserat étant infondées; or, il n’est pas comparaison plus facile et plus dénouée de sens qu’entre une pastille ronde et un cercle, un pyramidon et un triangle... (97) Rares sont les objets, enfin, qui sont antérieurs à l’invention de l’écriture ; ils en sont, dans leur grande majorité, contemporains ou postérieurs. Partant, on est tenté d’inverser la problématique et de se demander si l’écriture n’est pas elle-même la source d’inspiration, les silhouettes des signes graphiques étant reproduites en trois dimensions ?

1 Particolarmente da Roy Harris (The Origin of Writing, London, 1986), da Piotr Michalowski e da Paul Zimansky. Cfr. STEVEN ROGER FISCHER, A History of Writing, London, Reaktion Books, 2001, pp. 25-27. 2 Commenta perciò il Glassner: “Sachant que le systhème est le produit de sociétés d’agriculteurs et d’éleveurs, P. Zimanski s’interroge, non sans ironie, sur les raisons qui ont pu pousser ces hommes à enregistrer des quantités de clous plutôt que des quantités de céréales ou d’ovins; il s’étonne aussi du peu de place que tiennent les industries textiles, un constat surprenant, sachant l’importance qui est la leur dans l’ancien Orient”. (p. 94).

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Nonostante questa ipotesi paradossale, Glassner non rigetta del tutto la tesi dei calculi. Egli nota che fra i 237 tipi di tokens trovati a Uruk, secondo la classificazione della Schmandt-Besserat, 11 tipi, con forme geometriche semplici (coni, sfere, dischi, ovoidi, tetraedri, con o senza segni incisi) ricorrono con particolare frequenza. Questi tokens potrebbero essere effettivamente degli oggetti usati per il calcolo, ed essere i prototipi dei segni numerali.

Gli studi più recenti tendono a mediare tra sostenitori e oppositori delle teorie

proposte dalla Schmandt-Bessarat, le due teorie, ipotizzando che i calculi e le prime tavolette scritte siano due modi diversi e sincroni per rispondere alle esigenze di una civiltà che andava evolvendosi ed elaborando forme di economia sempre più complesse.

Occorre tuttavia sottolineare che tutto questo non sempre è confermato dai reperti. Se in molti casi il segno sulla bulla e i calculi in essa contenuti corrispondono perfettamente, in altri casi abbiamo delle irregolarità. Ad esempio una bulla studiata da Amiet contiene due bastoncini, un piccolo tetraedro, due dischi e due plaquettes: settte calculi, di quattro tipi diversi. Ora, sull’esterno della bulla sono presenti tre impronte fini e quattro piccoli cerchi: come si vede, il numero corrisponde, ma non la tipologia. Non esiste quindi una corrispondenza assoluta tra i segni e contenuti. Uno stesso segno può corrispondere a diversi tipi di calculi, e lo stesso calculum può essere rappresentato con diversi segni. A Uruk poi, i calculi sono di molti tipi, e i segni grafici seulle bullae in numero assai minore. L’unica spiegazione possibile di fronte a queste difficoltà è supporre che ogni contabile usasse un proprio sistema, adattandolo alle circostanze.

Qualunque posizione si prenda, una cosa comunque appare chiara: che in Egitto la scrittura nacque soprattutto come didascalia, complemento alle raffigurazioni per chiarirle e determinarle, mentre in area mesopotamica la sua origine è essenzialmente legata al mondo dell’economia e a problemi di contabilità.

2 - La scrittura protosumerica

La scrittura protosumerica comprende, oltre ai segni numerici, circa 600 segni. La maggior parte dei segni compare alla fine del IV millennio, Uruk III e anni successivi, e solo in pochi casi trova una corrispondenza con i segni precedenti dei calculi.

Molti segni sono pittografici, e si riferiscono a oggetti facilmente identificabili: ad

esempio il segno indica la mano SZU1; il segno indica un uccello, MUSEN;

il segno indica un pesce, KU, il segno indica la testa, SAG, il segno

indica l’aratro, APIN. In altri casi il segno indica l’oggetto in maniera semplificata, oppure secondo il principio della parte per il tutto: ad esempio il segno

indica l’acqua, A, il segno il bue, GU, rappresentato per mezzo della sola testa. In altri casi infine, prende il sopravvento una forma di astrazione, e il segno non ha

più alcun riferimento palese con l’oggetto: ad esempio il segno UDU per indicare la

1 Le parole sumeriche sono dagli studiosi moderni di solito traslitterate in maiuscoletto.

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pecora o l’ovino in genere. Questo segno, uno dei più comuni, è anche uno dei più misteriosi, ed è impossibile dire cosa rappresenti. E’ interessante notare che esso, pur essendo per sua natura ascrivibile ad uno stadio di maggior evoluzione rispetto al semplice pittogramma, è tra quelli presenti con maggior frequenza sui calculi.

Evidentemente l’impiego di un segno per ogni cosa diversa comporta una scrittura con migliaia di segni, come la cinese. I segni del Protosumerico erano invece limitati. Si fece così ricorso per indicare certi concetti, soprattutto astratti, all’estensione del valore di

un segno: così il pittogramma raffigurante l’occhio, BA, significava anche

“guardare”, e quello raffigurante una gamba, DU, “camminare”, “andare”. I segni semplici di questo tipo sono nella scrittura protosumerica circa 250. Per

ampliare la gamma dei significati, la metà di questi segni semplici fu rielaborata in diversi modi, sino ad ottenere circa altri 300 segni supplementari. Un sistema comodo e ampiamente usato consisteva nel modificare un segno con l’aggiunta di tratti o di puntini, per dargli un valore diverso. Ad esempio il segno della testa SAG, con l’aggiunta di due

trattini nella zona della bocca indica appunto KA bocca ; il segno generico di uccello

con l’aggiunta di tratti indicava forse un volatile specifico, GUN.

Altre volte si faceva ricorso alla combinazione di più segni. Il segno , NINDA, una pagnotta, ma anche misura di capacità, vaso, SILA, indicava una razione alimentare, già sugli antichi calculi. La combinazione di quest’ultimo con il segno testa o

con il segno bocca indicava il cibo oppure il mangiare , GU . Il segno dell’uccello accoppiato con quello dell’uovo significava generare, quello dell’occhio con quello dell’acqua significava “piangere” o “lamentarsi”. I diversi segni potevano essere accostati, come nei casi precedenti, oppure inseriti l’uno nell’altro, come nella parola AMA, madre,

. Il segno DUG giara, vaso, ricorre in una grande quantità di

varianti, eccetera, che si riferiscono al contenuto, spesso facilmente identificabile.

Il segno LUGAL, padrone, signore, re, è composto da una figura umana sormontata da una specie di corona, che probabilmente era uno scacciamosche, simbolo appunto di potere. Invece dei trattini si potevano usare anche varianti grafiche per indicare

sfumature di significato: ad esempio il segno dell’ovino poteva essere modificato in vari modi per indicare diversi tipi di ovini, il loro sesso, o l’uso particolare a cui erano

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destinati: eccetera. A volte il modo con cui

questi segni si compongono è molto significativo. Il segno il triangolo pubico,

indica la donna, MUNUS o l’utero SAL, e il segno tre colline, KUR, indica paese straniero, con riferimento ai siti montagnosi che circondavano a est la terra dei Sumeri (la pianura alluvionale del sud, che i Sumeri abitavano, era completamente piatta: colline e montagne non potevano perciò che riferirsi a un altro paese). La combinazione di questi due

segni, MUNUS-KUR, indica una schiava, GEME : evidentemente i Sumeri avevano l’abitudine di rifornirsi di schiave nel corso di razzie o guerre nei paesi confinanti. I complementi fonetici erano agli inizi rari, e divennero più frequenti con il passare del tempo.

Le tavolette di Uruk e Jemdet Nasr hanno in genere forma allungata, e sono più

larghe che alte. I vari segni sono contenuti in riquadri quadrati o rettangolari, senza alcun ordine logico – basta il riquadro per dare una scansione al testo. I riquadri sono disposti in colonne verticali. Va comunque specificato che le scritture protosumeriche non possono essere “lette” nel senso moderno della parola, perché non trascrivono in modo compiuto un linguaggio, con tutte le sue parole e le sue frasi.

Esaminiamo ad esempio questa semplice tavoletta (Driver, p. 40). Cinque segni, il

primo in alto a sinistra e tutta l’ultima colonna a destra, sono un nome proprio: HE-GI-UL-

EN-DU. Si noti che il segno in alto a destra è una delle molte varianti del segno GI

, che indica la spiga. Conosciamo già l’ultimo segno in basso, DU, che

significa piede. Il segno EN, significa signore, o anche sacerdote. E’ evidente che qui tutti questi segni hanno solo valore fonetico, e servono per indicare un nome proprio. I segni nel riquadro in basso a sinistra indicano la qualità del personaggio: il segno

una stella, è il determinativo AN, o DINGIR, e si riferisce alla divinità. Gli altri segni

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sono il nome del dio, EN-SAR-NUN (NUN significa principe, signore, e SAR significa vegetale: ma anche qui i segni hanno solo valore fonetico).

Il segno in alto al centro è un numero, 600 e quello immediatamente sotto è la parola BUR, una unità di misura. Misteriosi sono gli altri due segni, che indicano con ogni probabilità il tipo di bene, misurato in bur, a cui la tavoletta si riferisce.

L’idea di indicare un animale disegnandolo era abbastanza semplice, anche se non

immediata: vediamo infatti che sembrano esistere sin dall’inizio tre possibilità, disegnare l’animale intero, disegnare solo una parte per il tutto (ad esempio la testa) o rappresentarlo con un segno convenzionale, come nel caso del segno pecora. Il vero problema sorgeva se si voleva fare un passo avanti. Ad esempio, come specificare con un disegno se l’animale era morto o vivo? e come indicare il nome della persona e cui quell’animale si riferiva ? Ancora più difficile, come indicare l’azione relativa (quella persona dava o riceveva l’animale ?). Di fronte a queste complessità il pittogramma incontra parecchie difficoltà. Occorreva per forza passare a una forma di scrittura che si riferisse non all’oggetto, ma alla lingua. Per contro il pittogramma aveva proprio il vantaggio di non riferirsi ad una lingua specifica, e di essere quindi comprensibile in una vasta area geografica, linguisticamente non uniforme, come quella interessata ai commerci dei Sumeri. La relativa rozzezza dei segni protosumerici non deve poi trarci in inganno, e farci supporre che essi siano frutto di una cultura primitiva, incapace di disegnare in modo più compiuto: i numerosi sigilli rimastici dimostrano al contrario che con Uruk IV, e anche con culture precedenti, i Sumeri avevano raggiunto un notevole livello nelle arti figurative: probabilmente il tracciare segni con uno stilo sull’argilla molle non era un sistema che consentisse di raggiungere una buona qualità di rappresentazione. E non è neppure detto che questa qualità servisse: le tavolette erano destinate a durare per un periodo limitato, sino a che il rapporto contabile a cui si riferivano fosse concluso, e ad essere poi distrutte.

3 - La scrittura sumerica

Non è chiaro a quale data debba collocarsi il passaggio dalla scrittura

protosumerica, di tipo pittografico e logografico, alla scrittura sumerica, più complessa, di tipo essenzialmente fonetico e sillabico, con nessi grammaticali tali da rendere il messaggio univoco. In realtà questo passaggio fu molto lento, quasi insensibile, ed è documentato in modo incompleto. Le tavolette più antiche, sino al Protodinastico I, contengono poche informazioni utili. Tavolette più tarde, risalenti al Protodinastico II e al Protodinastico III, mostrano già forme più evolute della scrittura: tra il testi più notevoli di questo periodo si possono citare l’iscrizione di Mebaragesi, re di Kish, conservata (si spera) al Museo di Baghdad, e databile circa al 2600 a. C., le tavolette trovate a Fara, l’antica Shuruppak, e le tavolette leggermente più tarde di Abu Salabih e Ebla. Risalgono anche al periodo Protodinastico III le tavolette trovate a Girsu (Tello). Da tutte queste scritture appare chiaro che anche prima del Regno di Akkad la lingua e la scrittura sumeriche erano già molto sviluppate. In queste tavolette sono presenti testi letterari e storici e le prime firme che conosciamo, i nomi di alcuni scribi.

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Tavoletta di Fara Di particolare interesse sono le tavolette di Fara. Le tavolette di Uruk furono tutte

ritrovate tra materiali di risulta, fuori dal loro contesto originario; le tavolette di Fara sono invece state scoperte nel sito originario in cui erano state scritte, scuole o archivi; inoltre i testi amministrativi, databili, sono tutti da collocare entro un lasso di tempo assai breve, circa sei mesi, immediatamente precedenti i giorni in cui la città fu distrutta da un incendio, al momento della sua massima prosperità, verso la fine del periodo protodinastico III (2600-2350). Queste tavolette ci consentono di toccare con mano il passaggio tra una “scrittura” arcaica interamente pittografica e non legata a una lingua, come quella di Uruk IV e III e una scrittura vera e propria, che serve a trasmettere i fonemi di una lingua, nella fattispecie il Sumerico. E’ possibile che all’epoca di Uruk, dominata da intensi scambi commerciali tra popolazioni che parlavano lingue diverse, una scrittura indipendente da qualsiasi lingua fosse tutto sommato preferibile. All’epoca di Fara la situazione politico-economica era ormai mutata, e la Mesopotamia meridionale attraversava una fase di relativo isolamento, che favoriva l’affermarsi di culture più omogenee, caratterizzate dal prevalere di una lingua specifica. Il Sumerico non era la sola lingua parlata nella regione: tuttavia, per motivi che non potremo mai conoscere, si affermò come lingua dominante, diventando il punto di riferimento, per moltissimi secoli, dell’intera Mesopotamia. A Fara sono state trovate circa mille tavolette. La maggioranza di questi testi è di tipo amministrativo, ma sono anche presenti tavolette che possono definirsi lessicali e letterarie, scritte probabilmente nell’ambito di scuole. La scrittura di Fara è molto più regolare rispetto a quella di Uruk, e molto più codificata. I segni tuttavia sono ancora scritti secondo un ordine non corrispondente a quello della frase, quasi privi di nessi grammaticali e sintattici. Probabilmente anche queste tavolette non erano testi scritti nel senso moderno del termine, contenenti in sé tutti gli elementi necessari a una piena comprensione, ma aiuti mnemmonici, da utilizzare nell’ambito di un insegnamento orale. Se il loro senso è in linea di massima evidente, non è possibile leggerle nel senso completo del termine. Una parte consistente della “letteratura” di Fara è data da proverbi. Evidentemente esisteva una lunga tradizione orale, attraverso la quale erano tramandati insegnamenti generici di saggezza e di comportamento. Questi testi erano noti a tutti, e non era necessario metterli in forma scritta per salvarli da un eventuale oblio. Al contrario, proprio perché noti, essi si prestavano egregiamente alle esercitazioni degli apprendisti scribi. Poiché la scrittura stava passando da una fase meramente logografica a una fase fonografica, l’arte dello scriba, prima alla portata di chiunque o quasi, si stava trasformando a sua volta in un procedimento molto complesso, difficile da padroneggiare, ricco di riferimenti a codici che andavano lentamente formandosi, e passibile di interpretazioni equivoche se non utilizzata correttamente. Questi proverbi sono spesso raggruppati per parola chiave, e ci permettono di capire molte cose della società che ad essi si riferiva. Di particolare importanza sono i cosiddetti Insegnamenti di Shuruppak, un testo che giunse nelle versioni akkadiche a quasi 300 versi, e che nelle tavolette di Fara (e di Abu Salabikh) si limita a una sessantina di versi: in quest’opera un padre dà a un figlio una serie di consigli, in forma di precetti o massime, improntati alla prudenza, alla sobrietà, alla corretta amministrazione dei beni. Accanto ai

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proverbi troviamo anche nelle tavolette di Fara formule magiche e incantesimi, spesso di interpretazione assai ipotetica. Di particolare importanza sono poi i cosiddetti testi lessicali, liste di nomi e di segni che servivano per l’insegnamento. Queste liste seguono nell’ordine e nell’aspetto grafico le liste analoghe che esistevano già all’epoca di Uruk, ma sono ovviamente più ampie, e si riferiscono a una realtà sociale più articolata. A Fara in particolare sono state trovate liste contenenti nomi di bovini, pesci, uccelli, piante, recipienti, tessuti, oggetti metallici, professioni, termini matematici ed economici, nomi di divinità. Ha scritto a questo proposito Gwendolyn Leick:

Le opere lessicali non erano soltanto delle serie sistematiche di grafemi che gli scribi utilizzavano ai fini dell’apprendimento, ma erano anche uno strumento concettuale per la percezione intellettuale della realtà, che avveniva attraverso il processo del trovare il giusto nome per ogni cosa e acquisire così una sorta di potere magico sull’oggetto nominato [...] L’atto dell’affidare alla scrittura delle tassonomie create oralmente significava che i dati liberamente organizzati, i “nomi delle cose”, dovevano essere adattati a un sistema grafico. La soluzione fu quella di adottare un formato lineare, che simultaneamente disponesse le voci in ordine d’importanza o di rango. Di qui le liste di dèi o di professioni, che riflettono lo status e l’ordine di precedenza esistenti fra gli esseri divini e le occupazioni umane. [...] Le liste di alberi cominciano dal tamarindo, che possedeva le maggiori proprietà magiche, e le liste di animali con la pecora.1 Il passaggio dalla scrittura protosumerica alla scrittura sumerica è caratterizzato da

tre fenomeni distinti, ma correlati. Il primo è la trasformazione del pittogramma in segno cuneiforme astratto e il suo cambio di orientazione. Il secondo è il formarsi di nessi grammaticali e sintattici tra le parole. Il terzo è la trasformazione di molti logogrammi in fonogrammi, secondo il principio del rebus.

La scrittura protosumerica era usata solo su tavolette di argilla. Nel corso del

periodo Protodinastico gli scribi si accorsero forse che tracciare sull’argilla dei segni a tutto tondo era molto complicato, e che questi non riuscivano mai uguali tra loro: una testa ad esempio poteva essere rappresentata con una certa ricchezza di particolari, oppure in modo stilizzato, e il risultato cambiava molto, creando problemi anche per chi voleva leggere i segni. Lo stesso problema, sia detto per inciso, si presentò anche agli scribi egizi: ma sembra che essi non se ne siano preoccupati in modo particolare, dal momento che nella valle del Nilo troviamo sia geroglifici tracciati con straordinario naturalismo, sia geroglifici molto sommari e sintetici. Comunque sia, a un certo punto gli scribi sumeri cambiarono metodo di scrittura: invece di graffiare l’argilla molle con la punta di uno stilo, trovarono più comodo schiacciare la parte terminale dello stilo nell’argilla stessa, in modo che lasciasse un’impronta, un tratto rettilineo, più largo da una parte e più sottile dall’altra: questa forma a cuneo o a chiodo, così caratteristica della scrittura mesopotamica, è dovuta al modo obliquo con cui lo stilo, ricavato da un giunco tagliato a sezione triangolare, era impugnato. Con il nuovo sistema le linee curve diventavano impossibili, e la figura era composta da un insieme di tratti, che potevano formare al massimo una linea spezzata. In conseguenza di ciò, i vari segni si allontanarono rapidamente dalla loro origine pittografica, e divennero puri segni astratti, senza alcuna somiglianza con l’oggetto che in teoria avrebbero dovuto rappresentare. Parallelamente questi segni subirono un processo di standardizzazione: alla fantasia dei primi scribi, che rappresentavano pittograficamente un oggetto, si sostituì l’osservanza di una rigida codificazione, che sola poteva garantire un’esatta corrispondenza tra scrittura e lettura. Si tenga presente che la scrittura cuneiforme lasciava allo scriba una libertà molto limitata: uno scriba egiziano poteva rappresentare un geroglifico in molti modi, tutti validi purché fosse possibile riconoscere l’oggetto raffigurato; con la scrittura cuneiforme bastava invece un cuneo fuori posto perché il segno diventasse incomprensibile, o addirittura equivoco (come accade anche nella nostra

1 Cfr. GWENDOLYN LEICK, Mesopotamia. The invention of the city, Penguin Books, 2001, trad it., Città perdute della Mesopotamia, Roma, Newton & Compton, 2002, pp. 79-80.

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scrittura in cui le lettere si distinguono l’una dall’altra solo per minimi particolari: ad esempi C / G, oppure E / F).

In origine i segni pittografici avevano una posizione che corrisponde alla realtà: la testa ad esempio, era diritta, e così pure la spiga di grano. Ma in seguito, probabilmente a causa di un diverso modo di tenere la tavoletta d’argilla con la mano sinistra, i segni ruotarono di 90° in senso antiorario, assumendo una forma coricata (si veda il segno della testa sopra riprodotto).

Si è ritenuto che il cambiamento di orientazione della scrittura risalisse all’epoca di Jemdet Nasr: secondo questa ipotesi gli scribi, scrivendo da destra verso sinistra cancellavano o danneggiavano quanto avevano scritto. Questo è vero sino a un certo punto, come hanno dimostrato esperimenti. Tuttavia, sino al 1500 i monumenti i pietra e la maggior parte dei sigilli cilindrici hanno il vecchio orientamento (per leggere il codice di Hammurabi bisogna piegare la testa, e procedere in colonne verticali che si leggono dall’alto al basso, poi da destra a sinistra, in senso verticale). Si tratta evidentemente di una forma di arcaismo: ma supporre che all’epoca di Hammurabi si ripetessero modelli che risalivano a 1500 anni prima, quando non si usava incidere su pietra, sembra un po’ eccessivo. Altri studiosi hanno avanzato l’ipotesi che questo cambiamento sia avvenuto alla fine del periodo protodinastico: in effetti le più antiche tavolette con una sola colonna di scrittura risalgono al re di Uruk Lugal-zaggesi, contemporaneo di Sargon, e fanno pensare che il cambiamento fosse avvenuto da non molto tempo.

E’ probabile comunque che lo scriba antico, tenendo la tavoletta con la mano sinistra e lo stilo con la destra, ruotasse contemporaneamente tavoletta e stilo, per trovare di volta in volta la posizione relativa più comoda dei due oggetti; solo più tardi (Ur III, ad esempio), quando le tavolette divennero di grandi dimensioni e fu necessario appoggiarle su un tavolo (quindi divenne impossibile spostarle) tutto il movimento fu affidato alla mano destra, con l’impossibilità di imprimere i cunei in certe direzioni. Oggi anche nella trascrizione e nell’edizione delle tavolette arcaiche si usa l’orientamento più moderno, cosa che a volte crea confusione.

Questo cambiamento portò a una netta diminuzione dei cunei sino a quel momento impiegati; in particolare scomparvero i cunei che nel vecchio sistema andavano dal basso all’alto (cioè con la punto in alto), che nel nuovo sistema sarebbero dovuti andare da destra verso sinistra, con la punta a sinistra, segno evidentemente molto difficile da tracciare se si impugnava lo stilo con la mano destra. Dal 2300 circa gli orientamenti possibili dei cunei

sono solo cinque, i seguenti . Il secondo segno, il cuneo diagonale dal

basso verso l’alto, era di uso limitato. Il cuneo che va dal basso all’alto è esso pure di scarsissimo impiego. Il cuneo orizzontale da destra verso sinistra non è mai usato: se lo si incontra su una tavoletta si può dire con sicurezza che questa è falsa.

Alla fine del III millennio i segni più corti si trasformarono in un semplice triangolo, perdendo la coda. Più o meno nello stesso periodo anche i numeri cominciarono ad essere scritti con cunei, anziché con l’estremità arrotondata di un giunco Agli inizi del secondo millennio la lingua sumerica cominciò a decadere come lingua parlata, sino a diventare una lingua riservata ai dotti. Si continuò tuttavia ad impiegarla in ambito religioso e scientifico, un po’ come in tutta l’età moderna si è usato il latino, sino agli ultimi anni a. C., sempre con gli stessi segni cuneiformi. Probabilmente in età più tarda il Sumerico era ancora coltivato, ma letto con crescente difficoltà. Dimostrano questo sia i molti documenti di tipo lessicale, sia i testi bilingui, Sumerico e Akkadico: una bellissima tavoletta, completamente integra, conservata al British Museum (WA A Sm 954) riporta un inno in sumerico alla dea Ishtar, accompagnato addirittura da una traduzione interlineare in Akkadico. Un’altra tavoletta del British Museum (WA 81 – 7 – 27, 49+) è ancora più eloquente. In età Neoassira si eseguivano degli scavi, per le nuove opere edili, e nel corso di questi scavi si scoprivano tavolette, già antiche di migliaia di anni: ma di fronte ad esse, evidentemente, gli “archeologi” del secolo di Assurbanipal si trovavano in grosse difficoltà. Questa tavoletta è appunto un tentativo da parte degli scribi “moderni” di

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ricostruire il significato di segni che apparivano già a quei tempi misteriosi: il fatto poi che questa ricostruzione sia in larga parte frutto della fantasia dimostra oltre ogni dubbio l’avvenuta trasformazione del sumerico in una lingua ormai comprensibile solo a pochi specialisti. Questa situazione diede anche origine ad abusi. Sempre al British Museum è conservato un curioso oggetto, definito dai curatori del museo “cruciform monument” (WA 91022): si tratta di un corpo prismatico in pietra, proveniente dal tempio di Shamash a Sippar, alto poco più di venti centimetri, avente la pianta di una croce greca, con una lunga iscrizione. Questa iscrizione è con ogni probabilità un falso, opera di sacerdoti che evidentemente conoscevano ancora lingue e scritture antiche, e con questo artificio cercavano di documentare una serie di privilegi pretendentoli concessi al tempio dal re akkadico Manishtushu (XXIII sec.). Poiché tutte queste lingue sono state recuperate in tempi moderni, i valori fonetici che noi attribuiamo ai vari segni sono frutto di una ricostruzione. In particolare, mentre per le lingue akkadiche, semitiche, possiamo avvalerci di confronti con le lingue semitiche attualmente parlate, la lingua sumerica, di origini sconosciute, ha come unico termine di riscontro le lingue akkadiche. Come ha scritto bene Jerrold S. Cooper parlando delle glosse akkadiche di cui si avvalgono molti linguisti,

since most of these glosses date from periods when Sumerian was no longer spoken, i.e. from a milieu speaking Akkadian or other Semitic languages, it is said that we wiew Sumerian phonology through Akkadian glasses. However, since the signs used to write Akkadian had been adapted from an originally Sumerian system of cuneiform writing, we might also say that our Akkadian glasses were made by a Sumerian optician.1

Quando si scoprirono i primi testi sumerici, quasi tutti testi bilingui sumerici e

accadici dalla biblioteca di Niniveh, molti studiosi pensarono di essere di fronte a una scrittura artificiale o criptografica inventata dagli scribi; solo più tardi la scoperta di grossi archivi interamente sumerici fece cadere ogni dubbio.

La lingua sumerica era una lingua agglutinante, in cui i nomi possono ricevere dei suffissi e i verbi prefissi e suffissi, senza mutare la radice. In particolare tutti i vocaboli del Sumerico sono monosillabici. Una lingua di questo tipo è oggi il turco. Prefissi e suffissi cominciano a comparire intorno al 2900, ma in forma molto abbreviata; paradossalmente solo agli inizi del secondo millennio, quando ormai il Sumerico era una lingua morta, prefissi e suffissi furono espressi compiutamente, dando così alla frase una struttura sintattica.

Esistono nel Sumerico due tipi fondamentali di sillabe, quelle formate da una consonante e da una vocale, dette CV, e quelle formate da una vocale e da una consonante, dette VC. Un terzo tipo è dato dalla combinazione consonante + vocale + consonante, CVC: ma è chiaro che questo ultimo tipo non è che il fondersi di due sillabe del tipo precedente, CV + VC. Con due sillabe CV e VC si ottengono quindi tutte le possibili combinazioni di vocali e consonanti, purché senza due consonanti consecutive.

Essendo il Sumerico una lingua prevalentemente monosillabica, il segno che rappresentava una parola rappresentava anche la sillaba corrispondente. Era quindi possibile, secondo il principio del rebus, indicare con lo stesso segno due concetti diversi il cui suono coincideva. Ad esempio bue si diceva GU; ma poiché anche filo si diceva GU, ecco che il segno della testa del bue poteva servire indifferentemente per indicare il bue e il filo. Freccia si diceva TI; ma TI voleva anche dire vita, quindi era possibile usare il segno di una freccia per esprimere questo concetto, altrimenti rappresentabile con molta difficoltà. Il fatto che i Sumeri usassero un linguaggio di tipo monosillabico in cui lo stesso suono indica cose tanto diverse ha fatto sorgere un interrogativo: come facevano due Sumeri a comprendersi nella conversazione? In altre parole, non c’era il rischio che un uomo chiedesse a un altro un GU e si vedesse consegnare, invece del desiderato pezzo di filo, un bue intero? Probabilmente la lingua era caratterizzata da una forte differenza

1 JERROLD S. COOPER, Mesopotamian Cuneiform. Sumerian and Akkadian, in The World’s Writing Systems, op. cit., p. 37.

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nell’intonazione delle sillabe, che permetteva ai Sumeri di comprendersi, ma che la scrittura sillabica non fu in grado di rappresentare. La grande presenza di omonimi nella lingua sumera facilitò comunque l’impiego del rebus. Nel periodo arcaico questo metodo fu usato assai raramente; più tardi divenne invece uno dei meccanismi fondamentali della scrittura akkadica. Solo dal contesto si capisce se un certo segno ha valore ideografico, e rappresenta la parola, o valore fonetico, e rappresenta una sillaba. Per eliminare in parte la possibilità di equivoci di usarono dei determinativi, posti prima o dopo la parola, che indicavano sommariamente a quale classe essa apparteneva. Anche la disposizione dei segni sulla tavoletta, a gruppi e non in serie, aiutava a comprenderne il senso: solo in un secondo tempo i segni si disposero in sequenza, prendendo a modello il linguaggio e l’ordine delle parole. Omofonia e polifonia sono caratteristiche intrinseche della lingua sumerica e resero molto difficile la decifrazione delle scritture akkadiche. Ritorneremo in seguito sull’argomento.

Ci è pervenuta una grande quantità di tavolette scritte in lingua sumera. Un conteggio esatto non è mai stato fatto (né mai si farà), ma non si andrà lontano dal vero indicando il loro numero tra 250.000 e 300.000. Il 95 % di queste tavolette è tuttavia di carattere economico-amministrativo, e circa 3.000 tavolette hanno uno specifico contenuto letterario. Di queste 3.000 tavolette letterarie, più di 2.000 sono state scoperte a Nippur, dalle spedizioni dell’Università della Pennsylvania, e sono databili tra la fine del terzo e l’inizio del secondo millennio. Da cataloghi e da elenchi di testi conservati su tavolette particolari, possiamo dedurre che la letteratura sumera era molto più vasta e che ci è pervenuta solo in piccola parte: ma anche in queste condizioni essa ci appare un momento di straordinaria felicità creativa. La letteratura sumera è oggi facilmente accessibile grazie a una équipe di studiosi dell’Università di Oxford, che la ha trasferita interamente su internet, sia in traslitterazione, sia in traduzione. Per comodità di chi ci legge riportiamo qui la classificazione data alle opere sumere dagli specialisti dell’ “Electronic Text Corpus of Sumerian Literature”:

Ancient literary catalogues

Ur III Old Babylonian

Narrative and mythological compositions Narratives featuring deities Narratives featuring heroes King lists and other compositions City laments Royal praise poetry Lagash Third Dynasty of Ur Isin Dynasty Larsa Dynasty Uruk First Dynasty of Babylon Praise poetry for unknown rulers

Literary letters and letter-prayers Royal correspondence Other letters and letter-prayers

Hymns and cult songs Hymns addressed to deities Hymns addressed to or concerning temples

Other literature Scribal life Debate poems Dialogues and diatribes Songs, elegies and related compositions 'Wisdom literature' and other compositions Various compositions Proverb collections

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Other proverbs

Ciascuna di queste categorie principali comprende ulteriori sottocategorie e parecchie opere, in tutto più di quattrocento. Non sappiamo quando questa letteratura fu composta: probabilmente nella seconda metà del terzo millennio. Ma si pensa anche che essa derivi da una tradizione orale più antica, mantenuta viva da cantori e poeti itineranti. Non è questo il luogo, ovviamente, in cui trattare la letteratura sumera. Di una sola opera, l’epopea di Gilagamesh, e delle curiose vicende che portarono alla sua scoperta parleremo a lungo più avanti. Potrà invece essere interessante rispondere a un paio di curiosità. Se la scrittura sumera è la più antica del mondo, quali sono i libri più antichi giunti sino a noi? Una risposta sicura non è possibile, perché i testi sumeri non portano, come i libri moderni, data e luogo di pubblicazione. Si possono tuttavia fare alcune ipotesi, in base a dati paleografici e archeologici. Forse il libro più antico è un cilindro arcaico, trovato a Nippur, conservato al Museo dell’Università di Philadelphia (N. 8383), databile intorno al 2400, e scritto su venti colonne, una sola delle quali interamente persa. Questo testo, che risale all’epoca di Akkad, ma ha forse origini più remote, è anche, accanto ai testi delle Piramidi, il più antico documento religioso pervenutoci. E’ sumera anche la prima bibliografia: una tavoletta rettangolare, piuttosto panciuta, da Nippur, conservata anch’essa nel Museo dell’Università di Philadelphia (N. 29-15-155), con un catalogo di testi letterari, databile all’inizio del secondo millennio.