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Parte II Capitolo 2 Analisi dei percorsi dei “dirigenti di successo” Ricerca sulle competenze dei dirigenti che hanno avuto una carriera veloce nelle pubbliche amministrazioni di Carla Chiara Santarsiero “Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io” ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di

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Parte II

Capitolo 2 Analisi dei percorsi dei “dirigenti di successo” Ricerca sulle competenze dei dirigenti che hanno avuto una carriera veloce nelle pubbliche amministrazioni

di Carla Chiara Santarsiero

“Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io” ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di

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persone. L’autore di questo libro spera che gli sia perdonato il naturale narcisismo, e quanto al gusto del narrare confida che sarà apprezzato anche da coloro che per avventura potessero riconoscersi alla lontana quali personaggi del romanzo.” (Giuseppe Berto, Il male oscuro, dalla Prefazione dell’autore)

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Breve premessa e ringraziamenti

Questa ricerca ha un carattere prettamente qualitativo.

E’ basata su un metodo inusuale, almeno nell’ambito delle ricerche sul lavoro pubblico: il

metodo autobiografico, o meglio, l’approccio autobiografico.

Non abbiamo raccolto propriamente delle autobiografie scritte da un gruppo di dirigenti dello

Stato; li abbiamo piuttosto ascoltati. Abbiamo ascoltato le loro storie professionali dalle quali sono

emersi, crediamo, indicazioni utili anche per la Scuola superiore della pubblica amministrazione che ha

finanziato la ricerca e messo a disposizione le sue strutture per realizzarla.

La ricerca è stata ideata e coordinata da Carla Chiara Santarsiero, con il contributo fondamentale

di Micaela Castiglioni, Andrea Fontana, Emanuela Mancino e Dietelmo Pievani, ricercatori

dell’Università degli studi “Bicocca” di Milano.

Tutti hanno contribuito alla stesura del rapporto finale.

In particolare:

- Il paragrafo 1.1 dell’Introduzione e il paragrafo 3.3 delle Conclusioni sono stati

curati da Carla Chiara Santarsiero;

- Il paragrafo 1.2 dell’Introduzione è stato curato da Micaela Castiglioni;

- Il paragrafo 2.1 del Capitolo 2 sui Risultati dell’indagine è stato curato da

Emanuela Mancino;

- Il paragrafo 2.2 del Capitolo 2 sui Risultati dell’indagine è stato curato da Andrea

Fontana;

- Il paragrafo 2.3 del Capitolo 2 sui Risultati dell’indagine è stato curato da Dietelmo

Pievani.

Dobbiamo innanzitutto ringraziare il prof. Duccio Demetrio dell’Università Bicocca di Milano,

che ci ha aiutato nella realizzazione del progetto.

Senza l’incoraggiamento, il sostegno e la sponsorizzazione scientifica del prof. Emanuele Sgroi,

docente della Scuola superiore, difficilmente la ricerca avrebbe visto la luce. E’ quindi soprattutto lui che

dobbiamo ringraziare.

Questo lavoro è il frutto della disponibilità e della pazienza dei dirigenti intervistati, senza la cui

collaborazione la ricerca non sarebbe stata possibile. A loro va il nostro ringraziamento particolare.

Per i consigli ricevuti ringraziamo ancora Bruno Dente e Maria Grazia Mei che hanno letto il

rapporto finale prima della consegna.

Consigli preziosi ci sono venuti anche da Luca Lo Schiavo che ci ha aiutato a mettere a punto lo

strumento della traccia del colloquio.

Desideriamo infine ringraziare il Ruolo unico dei dirigenti e, in particolare, il dott. Claudio Rossi

per aver consentito l’accesso all’archivio elettronico dei dirigenti dal quale sono stati selezionati coloro

che hanno aderito alla ricerca.

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2.1. Introduzione: le ragioni della ricerca, il metodo di indagine e i soggetti intervistati

L’idea di individuare, tramite un metodo originale, le competenze dei dirigenti

pubblici “di successo” è nata più di due anni fa. Era il momento di massimo impatto

delle riforme promosse dall’allora Ministro per la funzione pubblica, l’On. Franco

Bassanini. La strategia che orientava i provvedimenti legislativi che si susseguivano di

anno in anno viaggiava su alcune parole d’ordine: separare la politica

dall’amministrazione, rendere le amministrazioni centrali più snelle e più focalizzate

sulla loro missione; devolvere, esternalizzare, differenziare e decentrare le funzioni

dello Stato; avvicinare le decisioni ai destinatari finali. Era il cosiddetto “federalismo

amministrativo” culminato poi nella riforma del Titolo V della Parte seconda della

Costituzione.

Riforma dei ministeri e riforma della dirigenza sembravano strettamente

connesse; la prima agiva sul piano strutturale, la seconda su quello dell'ordinamento

professionale.

Forse uno degli esiti che ci si attendeva dalla azione congiunta delle due riforme

era la rottura dell'intreccio tra articolazione delle carriere e articolazione degli uffici.

Quindi non più proliferazione di uffici per soddisfare le aspettative di carriera dei

dirigenti oltre ogni effettiva esigenza operativa, niente più sovrapposizioni e

duplicazioni che finivano per favorire l'inefficienza e l'irresponsabilità. Questo almeno

nelle buone intenzioni.

Ci sembra che gli istituti deputati a favorire questo risultato fossero, dal lato dei

ministeri, il nuovo modello articolato in dipartimenti e agenzie, assieme al

riconoscimento del potere di auto-organizzazione prima riservato esclusivamente alla

legge, e, dal lato dell’ordinamento professionale, la riforma della dirigenza e

l’istituzione del ruolo unico dei dirigenti.

E’ proprio dalla posizione che l’istituto del ruolo unico avrebbe dovuto assumere

nella dialettica tra amministrazioni e dirigenti che siamo partiti. Il ruolo unico avrebbe

dovuto costituire la fonte cui attingere per l’individuazione dei dirigenti cui attribuire un

determinato incarico, il serbatoio delle competenze; con un immagine che è stata più

volte ripresa, il ruolo unico doveva configurarsi come una sorta di mercato dove si

sarebbero dovute incontrare la domanda delle amministrazioni e l’offerta dei dirigenti.

A più due anni di distanza dalla nascita dell’idea di questa ricerca l’uso del

condizionale è d’obbligo. Sappiamo che il primo Ministro per la funzione pubblica del

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Governo Berlusconi, l’On. Franco Frattini, ha fatto approvare una legge, più nota come

legge “spoil system”, che ha, ancora una volta, riordinato la dirigenza statale e abolito il

ruolo unico dei dirigenti, ripristinando la compartimentalizzazione dei dirigenti: non ci

sarà più, quindi, un unico ruolo, ma tanti quante sono le amministrazioni dello Stato.

Non vogliamo entrare nella polemica se il ruolo unico fosse o meno lo strumento

migliore per favorire la mobilità dei dirigenti o se l’appartenenza ad uno specifico ruolo

ministeriale garantisca il possesso delle conoscenze tecniche necessarie per agire

all’interno di quella determinata amministrazione, quel che ci preme, ai fini della nostra

ricerca, è che il problema della identificazione delle competenze dei dirigenti, che li si

voglia selezionare in uno o in più ruoli, permane, tanto che la stessa legge Frattini

recita: “per il conferimento di ciascun incarico … si tiene conto … delle attitudini e

delle capacità professionali del singolo dirigente”.

E per tenere conto delle attitudini e delle capacità professionali di ogni singolo

dirigente bisogna o conoscerlo direttamente, per averlo visto lavorare e ottenere o meno

risultati, o essersi dotati di un metodo che consenta di valutare i risultati o di un metodo

che faccia emergere, meglio di quanto possa fare il più completo dei curricula, le

competenze che si ritiene siano necessarie per ottenere quei risultati.

Riteniamo quindi che il problema del metodo per identificare le competenze di

un dirigente sia ancora attuale e che la sua soluzione non possa che partire da ciò che

intendiamo per “competenza”.

Intendiamo per competenza quell’insieme di caratteristiche individuali messe in

atto da un soggetto in una data situazione e che si ritiene siano le più appropriate per

raggiungere i risultati voluti.

Ogni competenza agita all’interno di una organizzazione comprende un insieme

di fattori: conoscenze, capacità, tratti o atteggiamenti, immagine di sé, ruolo sociale,

motivazioni. La competenza si incrocia con la “carriera morale”, cioè con il livello di

auto-stima e di stima sociale che il dirigente va raggiungendo sia nell’ambito

dell’organizzazione in cui svolge la sua attività sia nell’ambiente sociale di riferimento.

Questo significa che c’è un mercato “non-economico” delle competenze che le

remunera in termini non soltanto economici, ma in termini simbolici, di prestigio, di

approvazione e valutazione sociale.

Le competenze per essere valorizzate devono essere identificate, definite,

indirizzate e sviluppate in modo da costituire un patrimonio dell’organizzazione.

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Questa ricerca si pone l'obiettivo di verificare la possibilità di usare il metodo

autobiografico nella ricostruzione delle competenze organizzative e dei valori condivisi

di un gruppo di dirigenti che, avendo avuto una carriera veloce nelle amministrazioni

pubbliche – e la velocità della carriera è considerata, come vedremo, un elemento

dell’eccellenza -, possa rappresentare un modello di riferimento per azioni di sviluppo

successive.

Il metodo autobiografico, applicato alla vita professionale – ma il confine tra la

vita professionale e la vita personale di un individuo non è poi così ben definito –

consente di enucleare dalla narrazione autobiografica raccolta oralmente dal ricercatore,

quanto ha più segnato, nel lavoro e nelle relazioni professionali, il soggetto narrante,

generando svolte e cambiamenti che lo hanno condotto ad apprendere maggiormente

rispetto alla situazione cognitiva e comportamentale precedente.

Riteniamo inoltre che il metodo autobiografico consente di raccogliere

informazioni sulle motivazioni del soggetto intervistato, sulla immagine che ha di sé,

sulle origini dei suoi atteggiamenti che, insieme a quelle relative alle sue conoscenze ed

esperienze professionali, danno un quadro completo dello stato delle sue competenze

personali.

Essendo un metodo che favorisce l’auto-consapevolezza, fa emergere le

conoscenze tacite o implicite e rende possibile l’ulteriore sviluppo delle proprie

competenze.

Per definire il campo di indagine ci siamo posti le seguenti domande: di quali

dirigenti è interessante conoscere le competenze? Con quale criterio selezionarli? Quale

può essere il modello di riferimento?

La risposta che ci siamo dati è stata questa: quelli che hanno raggiunto risultati

di eccellenza, quelli che corrispondono a un profilo di eccellenza.

Il primo passo, quindi, è stato quello di individuare le persone che, sulla base

delle informazioni disponibili, potevano corrispondere ad un profilo di eccellenza.

“Eccellenza”, la parola magica che apre tutte le porte! Anche quella, crediamo,

del consenso ad essere intervistati.

E, qual è l’indicatore dell’eccellenza nelle pubbliche amministrazioni?

In assenza di consolidati sistemi di misurazione dei risultati, in assenza,

potremmo dire, di una cultura della valutazione, che stenta a diffondersi nelle pubbliche

amministrazioni dove prevalgono verifiche di tipo amministrativo-legale, se non di

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valutazione politica, l’unico indicatore che abbiamo trovato presso il ruolo unico dei

dirigenti è stato quello della velocità della carriera.

Nell’archivio elettronico del ruolo unico dei dirigenti, al quale ci siamo rivolti

per selezionare i dirigenti da coinvolgere nella ricerca, non abbiamo trovato infatti

alcuna traccia di una valutazione purchessia dei dirigenti.

Abbiamo dovuto pertanto ricorrere ad un indicatore che, noi per primi non

riteniamo oggettivo, ma che era l’unico che allo stato attuale poteva essere utilizzato,

quello appunto della velocità di carriera.

E tuttavia tale criterio è considerato una caratteristica dell’eccellenza visto che

un dirigente che abbiamo intervistato ci ha detto: “L’eccellenza si manifesta in una

carriera già di per sé eminente, risultato di una combinazione di elementi tra cui la

componente del tempo impiegato per arrivare ad una certa posizione …”.

Gli inviti sono stati rivolti ad una sessantina di dirigenti aventi le seguenti

caratteristiche:

- dirigenti di seconda fascia che hanno avuto il primo incarico dirigenziale a meno di

30 anni;

- dirigenti di seconda fascia che hanno avuto il primo incarico dirigenziale in età

compresa tra i 30 e i 35 anni;

- dirigenti di seconda fascia che hanno avuto un incarico dirigenziale superiore (prima

fascia) a meno di 40 anni;

- dirigenti di prima fascia che hanno avuto l’incarico dirigenziale a meno di 40 anni;

- dirigenti di prima fascia che hanno avuto l’incarico dirigenziale in età compresa tra i

40 e i 45 anni.

Molti dirigenti di seconda fascia che corrispondevano alle prime due

caratteristiche provenivano dal primo corso-concorso dirigenziale per accedere al quale

era richiesta un’età non superiore ai 35 anni. Essendo il requisito della giovane età

condizione per la partecipazione al concorso, abbiamo evitato di invitarli a partecipare

alla ricerca, pur ritenendo che molti di loro, per il tipo di selezione cui sono stati

sottoposti e per la preparazione acquisita durante il corso, abbiano le competenze per

diventare degli high fliers.

Per consentire un confronto con gli altri temi della ricerca abbiamo ristretto il

campo a tre amministrazioni: quella del tesoro e delle finanze (ora Ministero

dell’economia e delle finanze), quella del lavoro e delle politiche sociali e quella

dell’istruzione, dell’università e della ricerca. In origine era previsto che partecipassero

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alla ricerca anche un certo numero di dirigenti dell’INPS; da parte di questo Istituto però

è mancata la necessaria collaborazione per individuare i dirigenti da coinvolgere nella

ricerca. Ce ne rammarichiamo perché in quel contesto, essendo da tempo in uso un

sistema di valutazione delle prestazioni, sarebbe stato più facile basarsi su un parametro

più oggettivo per individuare gli eccellenti.

Avremmo inoltre voluto confrontare i risultati ottenuti nell’indagine sugli

eccellenti con quelli di un campione di controllo costituito da dirigenti che non hanno

avuto una carriera veloce, ma che forse sono semplicemente meno ambiziosi oppure

hanno avuto, nonostante la lentezza della carriera, notevoli risultati nel loro lavoro. Ma,

come saperlo, in assenza di consolidate esperienze di valutazione dei risultati? E,

soprattutto, come ottenere il loro consenso senza provare imbarazzo?

L’approccio autobiografico scelto per questa ricerca richiede infatti un’adesione

consapevole ed attiva. Si tratta di essere disposti a raccontare la propria storia, a

ripercorrere episodi piacevoli e spiacevoli del proprio passato professionale, a

riconoscere le proprie qualità positive, ma anche quelle negative; in altri termini, si

tratta di dare, attraverso il racconto di sé, un senso al proprio percorso professionale.

A prescindere dalle difficoltà incontrate nell’individuazione del campione, quel

che ci preme essenzialmente dimostrare è che la nostra proposta metodologica, come

dimostrato da alcune esperienze condotte nel privato, può essere utilizzata per far

emergere le competenze dei singoli individui anche in un contesto pubblico.

Nel campione originario i dirigenti erano equamente distribuiti tra maschi e

femmine, tra amministrazioni centrali e periferiche, nell’ambito di queste ultime, tra

Nord, Centro e Sud-Isole.

All’invito hanno aderito circa 35 dirigenti che però, al momento di trovare il

tempo e un accordo per l’intervista autobiografica, si sono ridotti a 21, di questi tre

hanno partecipato con un auto-intervista scritta, stimolata attraverso le medesime

domande che erano state rivolte agli altri..

Le interviste sono state condotte, nel mese di aprile del 2002, da quattro

ricercatori afferenti la Cattedra di Educazione degli Adulti dell’Università di Milano-

Bicocca, perlopiù presso i locali della Scuola Superiore della Pubblica

Amministrazione di Roma, sono state registrate e hanno avuto mediamente una durata

di 2 ore.

Le 21 storie di vita professionale che abbiamo raccolto sono molto diverse fra

loro.

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Per mantenere l’anonimato ci limitiamo a sintetizzare nella tabella che segue il

profilo essenziale dei dirigenti intervistati.

N. Fascia di dirigenza

Età in cui ha ricevuto

l’incarico corrispondente

all’attuale fascia di dirigenza

Età attuale

Amministrazione presso la quale svolge l’incarico

1 Prima 41 42 Ministero Economia e Finanze 2 Seconda

35 45 Agenzia delle entrate

3 Seconda 33 36 Ministero Economia e Finanze 4 Seconda 35 50 Ministero Economia e Finanze 5 Seconda

35 49 Agenzia del territorio

6 Prima 32 58 Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca 7 Prima 43 53 Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca 8 Seconda

33 44 Agenzia delle entrate

9 Seconda 34 45 Posizione di vertice in un ufficio del bilancio di un ministero 10 Seconda

35 46 Agenzia delle entrate

11 Prima 43 46 Ministero Economia e Finanze 12 Seconda 29 35 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 13 Prima 41 43 Ministero Economia e Finanze 14 Prima 43 56 Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca 15 Prima 36 38 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 16 Seconda

35 48 Agenzia del territorio

17 Seconda 34 45 Ministero Economia e Finanze 18 Seconda 36 46 Posizione di vertice in un’articolazione interna dell’Ufficio

centrale del bilancio di un ministero 19 Prima 45 51 Ministero Economia e Finanze 20 Seconda 35 50 Ministero Economia e Finanze 21 Seconda

35 45 Agenzia delle entrate

Molti di loro sono all’inizio della loro carriera dirigenziale, sono pronti ad

andare avanti e non sono spaventati dal cambiamento e dall’impegno che ciò comporta;

altri sono al vertice della carriera, avendolo raggiunto già da molti anni; altri ancora

sono addirittura usciti dal percorso ministeriale per accedere ad altre carriere più

prestigiose sempre all’interno della pubblica amministrazione.

Il criterio della velocità della carriera, scelto per selezionare i dirigenti da

coinvolgere nella ricerca, ha messo subito in evidenza che la carriera si fa a Roma e che

il centro attrae i migliori, penalizzando la periferia. Chi vuole far carriera e ha le

competenze per farla deve mettere in conto di spostare, almeno per un certo periodo, la

propria vita a Roma.

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Dei 21 dirigenti intervistati 14 sono uomini (7 di prima fascia e 7 di seconda),

delle 8 donne solo una è di prima fascia, ma questo non ci stupisce.

Tutti i dirigenti di seconda fascia che lavorano in uffici periferici, pur essendo

diventati dirigenti molto presto, sembrano essersi fermati nella carriera. Questo

conferma l’affermazione precedente sull’attrazione dei migliori o dei più ambiziosi al

centro.

Il colloquio autobiografico in profondità ha comunque consentito di raccogliere

una serie di esperienze significative nella costruzione della loro identità professionale e

nel loro divenire organizzativo.

2.2. L’intervista (auto)biografica: percorsi professionali dei “dirigenti di successo” delle pubbliche amministrazioni.

Nei vari ambiti disciplinari o campi di ricerca in cui viene utilizzato, l’approccio

(auto)biografico è caratterizzato dalla raccolta di informazioni su come gli individui

hanno vissuto o vivono alcuni momenti salienti o alcuni aspetti particolari della loro

vita, della loro storia di formazione o della loro vicenda professionale. Dal momento

che la ricerca delle informazioni su come le persone hanno vissuto o vivono non può

che essere condotta “interrogando” le persone stesse, opportunamente scelte fra i

possibili “testimoni privilegiati”, ogni studio o ricerca che si basi sulla raccolta di

testimonianze di “storie di vita” non può prescindere da un utilizzo del metodo

dell’intervista. Il che equivale a dire che l’intervista costituisce il metodo principe nello

studio delle storie di vita, professionali e non, soprattutto nei contesti della ricerca

(auto)biografica.

All’interno dell’approccio di ricerca e di formazione (auto)biografica, la cui

natura è di tipo qualitativo, per cui è la storia del singolo come unica e irripetibile a

costituire l’oggetto del percorso euristico, è possibile utilizzare tutta la gamma dei vari

tipi di intervista, da quelle molto strutturate (rivolte a campioni più estesi), a quelle

meno strutturate che, generalmente, tendono ad essere focalizzate su alcuni nodi o

momenti particolari della vita delle persone, a quelle molto più libere in cui è il soggetto

che si racconta a scegliere quali elementi e aspetti della sua vita narrare e sui quali valga

la pena di riflettere 1.

1 D’altra parte anche gli scopi e i metodi di ricerca che possono essere ricondotti all’approccio (auto)biografico sono i più vari, dal momento che si va da ricerche di tipo più “tradizionale”, in cui il ricercatore e i soggetti della ricerca si collocano su piani “più distinti”, a ricerche più o meno partecipate, che seguono l’orientamento della ricerca-azione, nelle sue varie accezioni.

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Nel nostro percorso di ricerca orientato a ricostruire le traiettorie professionali e le

competenze organizzative che vengono “agite” da parte di un gruppo di “dirigenti di

successo” delle pubbliche amministrazioni, si è optato per un tipo di intervista semi-

strutturata, focalizzata su alcuni nodi e aspetti cruciali della vicenda formativa e

soprattutto professionale dei soggetti intervistati. Il che ha voluto dire proporre agli

interlocutori 2 che hanno preso parte alla ricerca una serie di stimoli capaci di generare,

nell’interazione conversazionale con il ricercatore, un processo di ri-appropriazione

riflessiva e di auto-consapevolezza orientato alla formulazione, “locale” e soggettiva,

d’ipotesi esplicative e attributive rispetto alla personale vicenda formativa, alla propria

traiettoria e “pratica” professionale, così come alla propria identità e ruolo

professionale.

2.2.1. Temi e motivi della ricognizione (auto)biografica

In modo particolare l’esperienza dell’intervista (auto)biografica, di tipo semi-

strutturato, si è configurata come occasione volta ad ottenere, attraverso i punti di vista e

le concezioni di cui i soggetti interpellati sono biograficamente e situazionalmente

portatori, “dati” e riscontri empirici significativi riguardanti 3:

- gli intrecci tra la vicenda di formazione e quella professionale;

- l’espressione di sé e della propria unicità soggettiva nella vita professionale;

- le situazioni, gli eventi, i passaggi/le svolte e gli incontri personali che hanno

influito nella costruzione della propria identità e ruolo professionale e sulle modalità

relazionali che la contrassegnano;

- le competenze “agite” nella propria professione e le responsabilità che la

definiscono;

- i momenti e gli elementi di criticità/difficoltà nella personale traiettoria

professionale;

- i fattori di gratificazione e di “successo” nella professione;

- la propria epistemologia professionale, nelle sue dimensioni di continuità e

discontinuità;

- i fattori di continuità/discontinuità o anche di maturità e di evolvibilità nella

professione;

2 Per la descrizione dettagliata del campione coinvolto nell’indagine si rimanda alle pagine 9 e seguenti. 3 Le dimensioni indicate di seguito hanno costituito i fuochi d’indagine e i temi privilegiati in cui si è

articolata l’intervista rivolta agli interlocutori privilegiati.

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- le rappresentazioni e i punti di vista relativi ad alcune precipue caratteristiche delle

pubbliche amministrazioni 4 (sempre messe in correlazione con il proprio ruolo e le

proprie competenze professionali).

2.2.2. Le idee sui “fatti” e sulle vicende professionali

Nella prospettiva di avviare con i soggetti della ricerca una comunicazione

relazionale che fosse esperienza, tramite la narrazione di sé:

- di teorizzazione contingente e soggettiva delle personali esperienze e contesti di

apprendimento e di formazione;

- di costruzione e ri-attualizzazione attiva e problematizzante di saperi e punti di vista,

noti o meno conosciuti, sulla propria vicenda professionale (declinata al passato-

presente-futuro);

così come

- di chiarificazione ulteriore della propria identità, ruolo ed epistemologia

professionale.

Le domande-stimolo rivolte sono state attraversate da una logica 5:

- narrativa, in quanto tendenti a far liberamente narrare gli eventi personali dei

soggetti protagonisti della ricerca;

- attributiva, in quanto orientate a far emergere le attribuzioni di significato operate

dal soggetto;

- evocativa, dal momento che la riattualizzazione del tempo passato era orientata ad

una comprensione del tempo presente e ad una prospetizzazione del tempo futuro.

2.2.3. La funzione della teoria, il ruolo dell’osservatore e il rapporto intervistatore-

intervistato nel paradigma qualitativo

La ricerca (auto)biografica, collocandosi all’interno della prospettiva euristica di

tipo qualitativo 6, non è interessata a riportare le teorie, i punti di vista e le conoscenze

4 Si è fatto particolare riferimento:

- ai cambiamenti che hanno investito negli ultimi anni le organizzazioni dell’Amministrazione Pubblica, portandole verso gradi più elevati di flessibilità, di autonomia e di decentramento;

- ai meccanismi di autocorrezione e di valutazione presenti o non, in questi ambiti e contesti professionali;

- al tema dell’”eccellenza professionale”, sempre nella Pubblica Amministrazione. 5 Si veda a tal proposito la traccia dell’intervista in Appendice 6 Vogliamo brevemente qui richiamare che, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, non solo si è riacceso

il dibattito sui modelli e sui significati del fare ricerca in educazione, ma si è assistito ad una nuova problematizzazione dei concetti di qualitativo e quantitativo, rispetto ai quali la maggior parte degli studiosi della ricerca educativa dichiara che non si tratta tanto d’assumere atteggiamenti di

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che il soggetto produce su di sé, sulla propria storia di crescita, di formazione o

professionale (come nel nostro caso), all’interno di una teoria generale “data” e pre-

esistente al di fuori del sistema osservatore-osservato, della quale si finirebbe col

cercare la conferma tramite l’esperienza ripetuta e la quantificazione dei dati ottenuti.

Essa è piuttosto orientata a comprendere il “dato”, dall’”interno”, così come esso viene

partecipato soggettivamente, co-costruito, interpretato, negoziato e prodotto

processualmente, e in modo evolvibile, nell’interazione dell’esperienza concreta di

ricerca. In questa prospettiva, viene assunto e valorizzato il ruolo reciprocamente attivo

dei soggetti implicati (e non solo quindi del ricercatore), che, in questo modo,

contribuiscono a dare forma all’oggetto stesso di ricerca.

Di conseguenza, “nessun sistema può essere pensato o analizzato al di fuori o a

prescindere dalle sue relazioni con l’osservatore e col suo linguaggio osservativo (Pardi,

1985,p.77)” 7. Pertanto, l’approccio dipendente dall’osservatore assume la nozione di

sistema “come costrutto selettivo” (ivi, p.78), come “prodotto” (ibidem), e la funzione

del ricercatore è quella di scegliere “un modo per ritagliare dalla complessità caotica

elementi di ordine” (ibidem). Il ricercatore qualitativo ((auto)biografo) non può non

indirizzare la propria ricerca verso “l’identificazione dei molti punti di vista che

possiamo far emergere dall’interno di un’area di studio (…) delimitata e che diventerà

così oggetto di plurime rappresentazioni” (Demetrio, 1988, p.105) 8.

Inoltre, dal momento che il ricercatore-osservatore si trova davanti non tanto

degli oggetti quanto delle relazioni in divenire, tra gli oggetti di ricerca e all’interno di

ciascun oggetto, la sua procedura euristica dovrà tenere conto (e rendere conto) di

questa complessità, situata e dinamica, e dotarsi, pertanto, di un dispositivo logico,

d’orientamento, come lo definisce Demetrio (ibidem), sempre ancorato ai fenomeni e

alle esperienze concrete e singolari, quindi “aperto” e provvisorio, funzionale alla

scoperta di “nuovi volti” della realtà delimitata.

contrapposizione, orientati a sostenere la validità di un approccio e la conseguente pregiudiziale esclusione dell’altro, quanto di riconoscere, in modo più cauto, la praticabilità di entrambe le prospettive che verranno di volta in volta utilizzate, a seconda delle fasi della ricerca, delle condizioni di lavoro e delle risorse a disposizione o del tipo d’oggetto di ricerca (Al riguardo si faccia riferimento a E.Becchi, V.Vertecchi, (a cura di), (1984), Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa, Franco Angeli, Milano; D. Demetrio (1992), Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione, La Nuova Italia, Firenze; S.Mantovani (a cura di), La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, B.Mondadori, Milano;

7 F.Pardi (1985), L’osservabilità dell’agire sociale, F.Angeli, Milano. 8 D.Demetrio (1988), “Specificità euristiche in educazione degli adulti: il dibattito, i problemi, un modello

possibile”, in Lichtner M. (a cura di), Esperienze di educazione degli adulti in Europa: una ricerca comparativa, Cede (I quaderni di Villa Falconieri), Frascati.

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Ci troviamo di fronte, quindi, ad una pratica d’indagine che riconosce

scientificità alla soggettività umana, all’interno della quale viene attribuito valore

euristico ai saperi esperienziali, quotidiani e biografici dei soggetti della ricerca, tutte

dimensioni queste che possono “influenzare” e richiedere riorganizzazioni ai saperi (e

alle procedure) del ricercatore, i quali a loro volta, secondo una circolarità ermeneutica,

rappresentano un’”interferenza” creativa e generativa per i soggetti dell’indagine.

Tale esposizione del ricercatore e dei soggetti dell’indagine alla possibilità

contingente d’interrogazione dell’esperienza, così com’è stata dotata di senso, e delle

alternative del pensare, conoscere e sentire, connota il contesto euristico più come

ambito di “costruzione di domande”, di “formulazione di dubbi” sulle spiegazioni,

argomentazioni e soluzioni trovate, piuttosto che di ricerca di risposte. Anche il nostro

percorso d’indagine, pertanto, si è configurato come processo di chiarificazione

ulteriore della propria vicenda professionale e della propria “pratica” professionale.

Collocandosi all’interno di questa prospettiva, quindi, i ricercatori, nell’incontro

dialogico con gli interlocutori coinvolti, sono stati chiamati soprattutto ad affinare la

propria disponibilità e capacità d’ascolto e auto-ascolto, propensioni e atteggiamenti che

non sono per niente scontati e che si rivelano tuttavia indispensabili. Si tratta di un

esercizio di auto-osservazione critica, che implica la consapevolezza di essere vincolato

ad una prospettiva,a strategie cognitive, pregiudizi e modi di sentire che orientano la

propria azione, e la capacità conseguente di riflettere e d’interrogarsi su tutto ciò e sulle

risonanze cognitive ed emotive suscitate dai racconti ascoltati e raccolti. Operazione

imprescindibile se si vuole stabilire un clima di fiducia e se si è orientati a comprendere

nell’interazione conversazionale con i soggetti della ricerca, le loro idee sui “fatti”,

ridimensionando il rischio di anteporre il punto di vista e i saperi del ricercatore.

Sempre muovendosi lungo questa prospettiva, nell’individuazione e nella

presentazione dei temi dell’intervista si è cercato il più possibile di non prevaricare gli

scavi e approfondimenti tematici (e cognitivi) autonomi di chi si è narrato. Il soggetto

narrante, quindi, è stato rispettato nelle proprie soste narrative, nei propri silenzi auto-

riflessivi e di coscientizzazione, così come nella strutturazione del proprio racconto e

nella sua coerenza significativa, secondo un procedere in cui il ricercatore ha assunto il

ruolo di sollecitare, stimolare, accompagnare e “problematizzare” il processo di

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narrazione e comprensione di sé e della propria storia professionale da parte dei soggetti

intervistati 9.

2.2.4. I “fuochi” dell’indagine e aspetti metodologici

Proprio la scelta di collocarci all’interno della prospettiva di ricerca

(auto)biografica, e in modo particolare, l’interesse conoscitivo per i riscontri empirici

cui si è già fatto riferimento ci ha spinto ad avviare, con i nostri interlocutori, alcuni

“ritrovamenti” significativi nel loro percorso di vita, di formazione e professionale.

Abbiamo individuato, quindi, alcune aree d’indagine privilegiate capaci di far affiorare,

tramite le auto-attribuzioni degli interlocutori, una sorta di “tragitto” mediante “soste” e

attraverso insiemi significativi. In questo modo i registri e le dimensioni che hanno

attraversato il testo dell’intervista proposta, e che hanno orientato la conversazione con i

soggetti che si sono narrati, hanno reso possibile proprio nell’interazione discorsiva,

quella che potremmo definire una “produzione pratica -rispetto alla personale storia

professionale- che cerca la propria teorizzazione”, in modo coerente con il paradigma

qualitativo della ricerca.

La ricostruzione, inoltre, dei percorsi di formazione e professionali dei soggetti

implicati nella ricerca, secondo il punto di vista bio-sistemico della ricerca

(auto)biografica, si è realizzata lungo due vie che hanno orientato la scelta dei nuclei

tematici e degli stimoli riflessivi in cui si è articolata la traccia dell’intervista:

- la via della ricostruzione della storia del soggetto, che ci avrebbe fornito la

narrazione di come il soggetto coinvolto si percepisce e di come percepisce il

“mondo” (in particolare, quello professionale) cui ha attribuito un significato o che

ancora va interpretando (momento biografico);

- la via della ricostruzione delle interazioni che il soggetto stabilisce o ha stabilito (o

potrà ri-stabilire), con “oggetti”, con se stesso, con gli altri, all’interno delle

personali appartenenze di formazione, di apprendimento e professionali (momento

sistemico).

All’interno di questo orizzonte di riferimento siamo stati mossi, prima di tutto,

dalla curiosità di sondare le possibili connessioni tra vita professionale e vicende di

9 I temi e i motivi introdotti in questo paragrafo sono ampiamente sviluppati L.Formenti (1998), La

formazione autobiografica. Confronti tra modelli e riflessioni tra teoria e prassi, Guerini Studio, Milano; M.Castiglioni (2002), La ricerca in educazione degli adulti. L’approccio autobiografico, Unicopli, Milano.

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formazione. All’interno di questa prima area d’indagine abbiamo, quindi, focalizzato il

nostro “riflettore conoscitivo” su alcune dimensioni in particolare:

- le rappresentazioni della propria traiettoria professionale (con riferimento ai punti di

vista sui “passaggi cruciali” o sulle vere e proprie “svolte”);

- la percezione di sé rispetto alla categoria di continuità e/o di discontinuità (ciò che

l’intervistato ritiene di continuare ad essere o di non essere più relativamente alla

propria storia professionale);

- ciò che il soggetto ritiene essere delle peculiarità-caratteristiche personali che

possono averlo favorito o svantaggiato;

- il significato, cognitivo ed emotivo, attribuito alla categoria del cambiamento, e i

punti di vista sviluppati sul rapporto tra cambiamenti personali/professionali e

cambiamenti che hanno attraversato le organizzazioni contemporanee, tra cui la

Pubblica Amministrazione;

- la vita relazionale (con particolare riferimento alle possibili connessioni tra

appartenenza familiare, interazioni amicali-sociali e storia professionale, così come

alle “figure” che il soggetto reputa essere fonte dei suoi saperi e dei suoi

apprendimenti, che possono essere di vario tipo, non solo di natura cognitiva e/o

tecnica).

In questa ricostruzione che invitava i soggetti della ricerca al ritrovamento dei

tratti o segmenti salienti della propria esperienza professionale, così come alla possibile

connessione tra questi, processo quest’ultimo, che avrebbe permesso loro di generare

ipotesi esplicative, secondo un procedere di ricerca-formazione (auto)biografica,

risultava inevitabile il riferimento all’area delle competenze (seconda area). Ci siamo

chiesti, pertanto:

- in quali caratteristiche, risorse e competenze, i soggetti intervistati, si

identificassero, a livello di “rappresentazione” della propria identità e del proprio

ruolo professionale;

- quale immagine avessero di sé come manager, con particolare riferimento alle

eventuali differenze tra sé e un manager di un’azienda privata.

Di notevole interesse, ai fini della nostra ricerca, risultava essere la dimensione,

che potremmo definire, della vita espressiva, che si è tradotta nel sondare le forme della

relazione e della comunicazione realizzate nel contesto professionale.

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Una terza area inserita ha riguardato i momenti critici e di successo nella propria

carriera lavorativa e il rapporto che il soggetto sente di poter stabilire tra il successo

personale e quello dell’organizzazione in cui è inserito.

La ricomposizione della propria trama professionale si è conclusa con una sorta

di bilancio (propositivo) rispetto ad essa. Quest’ultima area dell’intervista si è

configurata inoltre come momento in cui riflettere su due temi cruciali, quello della

responsabilità e dell’eccellenza, che rappresentano due “rilevatori” significativi alla luce

dei quali gli intervistati potevano leggere la loro professionalità contestualizzata in un

ambito organizzativo quale quello delle pubbliche amministrazioni.

Prima di passare alla stesura definitiva della traccia dell’intervista che abbiamo

utilizzato nel corso dell’indagine, e di cui abbiamo appena ripercorso il processo di

strutturazione e l’articolazione interna, si è verificata la sua validità rivolgendoci a due

interlocutori privilegiati: due dirigenti, sensibili al tema e al metodo della ricerca, che si

sono lasciati intervistare per “testare” lo strumento di indagine. In questa fase di

validazione dello strumento ci premeva raccogliere impressioni ed opinioni circa i

nuclei tematici introdotti e considerati cruciali, od eventualmente lasciati

eccessivamente sullo sfondo o troppo a margine. Ritenevamo importante, inoltre,

sondare l’adeguatezza e la comprensibilità del linguaggio usato, onde ridurre il rischio

dell’utilizzo di una terminologia che fosse troppo connotata dalla formazione

pedagogica dei ricercatori e che, pertanto, poteva risultare poco familiare a chi, a sua

volta, appartiene ad un ambito e ad un’organizzazione che ha un “proprio linguaggio”.

Non trascurabile era, infine, l’aspetto temporale: ci chiedevamo, infatti, se fosse

realmente praticabile un’intervista che, considerata la sua articolazione interna, avrebbe

richiesto un tempo sicuramente superiore alle due ore.

In seguito a questa prova iniziale di validazione si è potuta constatare, grazie

anche alla collaborazione degli interlocutori contatti, la pertinenza e la coerenza dei

temi introdotti, nonché la loro completezza (che ovviamente poteva essere

“problematizzata” nell’incontro con i partecipanti alla ricerca). Così come non ci è

sembrato necessario inserire eventuali modifiche rispetto al linguaggio usato che è

risultato più che comprensibile. Si è cercato soltanto di rendere più “agile” la traccia

togliendo, a tal proposito, alcune domande che potevano risultare ridondanti e

appesantire perciò il clima conversazionale nonché la relazione comunicativa.

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2.3. I risultati dell’indagine

2.3.1. Area del cambiamento

I diversi cambiamenti personali e professionali e i modi in cui il soggetto li ha vissuti

con le conseguenti ricadute sulla sua vita e il suo mondo relazionale

2.3.1.1. Ciò che cambia e ciò che rimane come prima

Il “lavoro”, campo semantico-pratico sia dell’agire per scopi definiti, sia

dell’autorealizzazione professionale e quotidiana, esige e porta con sé la rilevanza della

fondamentale valenza del “cambiamento”.

La componente empirica della nozione di “cambiamento” si esprime in vicende

adattive che rendono materialmente percepibili, e quindi emotivamente misurabili, i

momenti della formazione individuale, e, a seguire, della professione del “lavoratore”.

Dal confronto col paradigma strutturante del cambiamento, tutti gli intervistati hanno

espressamente detto che la loro vita è cambiata con l’entrata nel contesto professionale

delle amministrazioni pubbliche e si è plasmata su di esse. Per esempio qualcuno

segnala di aver avuto progetti professionali di altro tipo o di essersi inizialmente

interessato alla carriera accademica, tuttavia – una volta entrati nelle amministrazioni

pubbliche – i dirigenti hanno percepito nitidamente un valore di appartenenza:

[…] appena laureato, venni contattato a più riprese da un grosso istituto di credito, perché servivo per il loro ufficio studi. Ringraziavo il direttore della filiale di ….: ”non c’è modo che lei mi convinca ad accettare una prospettiva di questo genere, perché ho già un piano ben preciso d’azione, che vorrebbe essere quello della magistratura”, per dire che quella del Ministero del …. era una sorta di area di parcheggio, e che poi si è rivelata essere proprio la mia carriera.

E ancora:

[…] molte delle mie aspettative si sono realizzate quando sono entrato nella pubblica amministrazione; non mi ero posto questo obiettivo, avevo solo la motivazione e la curiosità di lavorare e di intervenire in un settore stimolante.

Ciò che colpisce nei diversi colloqui è l’incisività con cui la carriera nelle

pubbliche amministrazioni segna il vissuto del dirigente. I dirigenti infatti più volte e in

tutte le interviste evidenziano il valore del lavoro nelle amministrazioni pubbliche e

esprimono la necessità di una sua ulteriore valorizzazione da parte dello Stato. Valgano

a titolo esemplificativo i seguenti stralci:

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Sono stato più volte tentato dai percorsi privati… e ho avuto più volte richieste, ma la mia vocazione è nello Stato.

Oppure:

Sapere che si lavora nell’interesse sociale può dare una motivazione superiore rispetto alla gratificazione economica.

E di nuovo:

E’ difficile individuare una cultura peculiare della pubblica amministrazione, talmente questa stessa è variegata; non c’è una tradizione di forme, semmai esistono continuità di azioni, coerenze nei comportamenti, tradizioni consolidate, atteggiamenti ripetuti, che se sono validi diventano prassi. La vera cultura, se c’è, è l’amministrazione corretta, la discrezionalità, la trasparenza, la neutralità nei comportamenti rispetto ai contrapposti interessi.

Ancora:

Il senso dello Stato… cioè il senso della funzione del pubblico potere rispetto alla generalità. Se invece per senso dello Stato intendiamo l’attaccamento al potere pubblico è una cosa diversa… Lo Stato ha potere, interesse, ma guarda al bene comune o meglio al bene di tutti e di ciascuno. Chi lavora nello Stato secondo me deve avere questa attitudine, è quello che protegge dalla corruzione del potere.

Rispetto al tema del cambiamento, abbiamo riscontrato che esso viene influenzato

molto dal modo in cui i singoli dirigenti riescono ad elaborarlo. A questo proposito ci

pare chiarificatrice – e rappresentativa rispetto ad altri colloqui – la narrazione svolta da

un dirigente che ha spiegato il cambiamento come elaborazione del lutto:

Elaborare il lutto. Il cambiamento ti costringe a rimettere in discussione esperienze, affetti, legami… quando cambi devi elaborare lutti. Quando ho lasciato il mondo del sociale… la casa famiglia in cui sono stato per sette anni… ho dovuto elaborare questo lutto.

Questa esemplificazione non va letta, secondo noi, in termini esclusivamente

psicoanalitici, come potrebbe essere suggerito dall’area di pertinenza del lessico

utilizzato, ma come espressione di una capacità di dare senso all’esperienza, di una

attenzione alla percezione soggettiva dei mutamenti e dei modi o delle strategie

intenzionalmente agite nei diversi vissuti:

Bisogna lavorare sulla conoscenza, ma anche sulla consapevolezza, sull’immagine di sé, sui propri tratti psicologici e le proprie motivazioni per creare un profilo dinamico della propria professione e competenza. Ma soprattutto autoconsapevolezza per creare sviluppo di carriera più razionale e autocorrezione.

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Oppure:

Lo studio, cioè la capacità di riflessione sul reale, mi ha aiutato… quella capacità di non fermarsi all’aspetto fenomenico, ma sentirsi altrove pur sentendo di far parte della realtà, anche se stai nella “stanza dei bottoni”.

Ci pare di poter dire che questa “capacità riflessiva”, altrimenti riconoscibile

come tensione al continuo rapportarsi del pensiero a quegli eventi in grado di generare

modificazioni e reazioni o individuazioni di nuovi significati, non appare come

segnalata da tutti i dirigenti intervistati, ma emerge prevalentemente dai vissuti o dalle

narrazioni di coloro che paiono ricondurre il senso della propria storia professionale ad

un portato vocazionale, manifestando di avvertire, quindi, il proprio lavoro come un

compito, vissuto e agito nello Stato e per lo Stato.

2.3.1.2. Le origini familiari: determinazione o influenza?

Nella maggior parte dei casi gli intervistati hanno mostrato la volontà di

minimizzare l’importanza delle loro origini familiari, ammettendo con difficoltà di

essere stati “ispirati” dall’esempio di un parente che lavorava nelle pubbliche

amministrazioni (sovente il padre, alcune volte un nonno). In molti casi è stata

sottolineata la totale estraneità della cultura familiare di provenienza rispetto alla

pubblica amministrazione, non senza un conflitto aperto in taluni casi fra le ambizioni

dei genitori e la scelta di partecipare ai concorsi per la pubblica amministrazione.

In particolare, le tipologie di risposta sono state tre e suddivise in tal modo:

a) Una certa influenza (debole) di un familiare nella scelta della carriera nelle

pubbliche amministrazioni;

b) Nessuna connessione fra la scelta di una carriera nelle amministrazioni

pubbliche e la cultura familiare di provenienza;

c) Aperta ostilità o comunque perplessità della famiglia verso la scelta del pubblico

impiego.

Vengono invece considerati fondamentali e determinanti valori e principi morali,

spesso insegnamenti impliciti, che la famiglia ha trasferito.

Senza dubbio la famiglia di origine, in termini di tradizione culturale e di modelli

impliciti acquisiti, riveste una certa importanza. La famiglia infatti è stata raccontata in

tutti i colloqui autobiografici come fondamentale (in otto colloqui la famiglia viene

esaltata come momento di formazione unico) nell’aver ricoperto un ruolo nella

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formazione caratteriale individuale, nel suo essere stata influente.

A sostegno di questo atteggiamento, si segnalano di seguito alcuni stralci tratti

da quattro colloqui diversi, esempi di quanto questa influenza sia da ritenersi

“fondativa”:

Le mie origini familiari sono state molto importanti soprattutto per la forma mentis che mi hanno

aiutato a creare; mio padre era professore e critico d’arte e quindi parlare, viaggiare, conoscere

poeti mi ha aperto la mentalità al dibattito costruttivo.

Nel mio caso ha influito il fatto di avere entrambi genitori nella pubblica amministrazione,

mentre mio marito ha deciso di fare il libero professionista, anche perché con due figli non so

come avremmo fatto! Con i nostri amici parliamo di lavoro, anche se solo per riderci sopra, e

devo dire che credo mi sarei trovata meglio in un‘azienda, anche se non ne ho mai avuto una

diretta esperienza…

Mi sono tornati utili tanti elementi delle vicende professionali di mio padre e di mia madre.

Vengo da un famiglia piccolo borghese, e non dimenticherò mai le ragioni per le quali esisto;

conosco la sofferenza, quindi mi interessano di più i processi immateriali, tra i quali

necessariamente il senso di appartenenza allo Stato, il senso filosofico della funzione del

pubblico potere. Chi lavora nello Stato deve avere questa percezione.

Mio padre era maresciallo di polizia. Ho vissuto in un ambiente statale dove era fortissimo il

senso del servizio allo Stato, nonché quello di onestà. In famiglia abbiamo un dirigente

d’azienda, un avvocato cassazionista e un professore universitario. Quindi, bene o male, c’è stata

una certa tendenza comune in famiglia.

Che la famiglia abbia avuto un peso in termini di influenza, piuttosto che di

condizionamento è evidente anche dal brano che segue:

Mio padre era un funzionario statale, mi ha trasmesso l’attenzione, l’interesse per gli studi

giuridici, per l’amministrazione in generale, in particolare per il settore pubblico, rispetto a

quello privato; ma non è stato un condizionamento, sono sempre stato libero nelle mie scelte.

L’ambito tematico della famiglia rappresenta, comunque, un nodo problematico,

contraddittorio.

Altri intervistati hanno affermato di non aver ricevuto alcun tipo di

sollecitazione dalla propria famiglia. Paiono lontani anche dal tipo di esempi o di

modelli, la cui componente condizionante avrebbe potuto sortire effetti di emulazione, i

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racconti di chi, sollecitato dall’intervista a confrontarsi con l’eventualità di un’influenza

familiare nelle scelte professionali, risponde come nei due brani di narrazione riportati

di seguito:

Le mie origini non mi hanno influenzato molto. Nella mia famiglia c’erano tanti tipi di

esperienza: libera professione, ambito pubblico e ambito privato.

Nessuno della famiglia ha mai lavorato nella pubblica amministrazione, anche perché mio padre

pensava che gli statali fossero assurdi per principio, che lavorassero per compartimenti stagni.

Data la tangibile ambiguità del tema, crediamo che al fine di una rilevazione che

prenda le mosse da un approccio di tipo autobiografico, non paia rilevante individuare

tanto i meriti e le eventuali “colpe” delle scelte professionali operate dagli intervistati,

quanto piuttosto di stabilire i limiti, i vincoli, ma anche gli spazi aperti alla libertà

individuale nel costruire la propria identità personale e professionale. E quindi dar voce

all’emergere e al segnalarsi dei momenti di riflessione, individuazione, percezione

autorealizzativa della propria decisionalità e intenzionalità.

Il colloquio autobiografico ha avviato, pertanto, la focalizzazione del singolo

dirigente in direzione di una rielaborazione tesa a motivare, a dar ragione e contezza

delle proprie scelte, contrattandole e negoziandole, nel corso della riflessione e della

conseguente narrazione, con i contesti di appartenenza parentale o di condizionamento

sociale. In questo senso la comune tendenza a definire il proprio percorso formativo

come normale, o avvertito come generalizzato, rispetto all’epoca, al milieu ambientale ,

all’età (quindi nel confronto con i coetanei), fa ritenere, infatti, che il terreno culturale in

cui hanno avuto avvio le scelte ed i percorsi scolastici siano di un livello riconducibile

ad una media borghesia, cioè a famiglie con reddito fisso e con una più o meno marcata

o riconosciuta vicinanza o abitudine all’istruzione di tipo classico. Questo dato si

intreccia con la generale percezione di linearità rispetto agli itinerari di carriera.

Pensiamo che l’importanza dell’origine familiare sia da rilevare in questa

prospettiva, piuttosto che nella minimizzata espressione di un legame di

consequenzialità tra influenza familiare e scelta professionale: la cultura familiare di

provenienza può aver generato, in taluni casi, conflitti rispetto alle scelte professionali o

aderenza ad aspetti esemplari di familiari coinvolti a loro volta in esperienze di funzione

statale. La continuità o discontinuità con eventuali figure di congiunti impiegati nella

pubblica amministrazione non registra casi di “ispirazione” o volontà di emulazione, ma

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sembra tracciare i contorni di un quadro di riferimento da definirsi familiare in senso

lato.

2.3.1.3. Le figure morali (maestri e/o anti-maestri) della formazione e della carriera

Il dirigente impiegato nelle amministrazioni pubbliche si trova al centro di relazioni

molto complesse. Nei colloqui svolti, i dirigenti hanno sottolineato, segnalando le

dinamiche interazionali connesse al proprio ruolo, necessità e dimensioni relazionali

rappresentabili secondo uno schema che le vede indicate secondo tre nuances di bisogni

fondamentali:

1. I bisogni di relazione, con le relative declinazioni (responsabilità, carriera,

valutazione), sono universali, appartengono cioè trasversalmente a tutti i soggetti

intervistati;

2. Una certa continuità di questi bisogni, la cui soddisfazione non è sufficiente per

eliminarli o per appagarli, poiché essi riappariranno con l’intensità della prima

volta;

3. Una progressività degli stessi bisogni: se non soddisfatti, si ripropongono con

un’intensità crescente fino a causare l’ineluttabile soddisfazione da parte di

qualcuno a qualunque costo.

C’è chi ravvisa e manifesta una certa necessità di ascolto, di riscontro e di

partecipazione:

Il che significa anche una certa modalità di gestione del personale… se uno assume il fatto che

esiste un legame tra produttività, benessere delle persone e qualità della organizzazione allora il

processo di cui bisogna farsi carico non è solo quello organizzativo, ma anche quello di

accompagnare chi vive in un certo contesto di lavoro, il che significa anche occuparsi del

benessere degli altri… senza paternalismi o atteggiamenti da piccolo padre.

Le figure determinanti che i dirigenti narrano di aver avuto o di poter individuare

come tali, lungo il percorso della propria carriera professionale, sono state spesso quelle

dei “superiori” con cui a vario titolo gli intervistati sono entrati in contatto, sia

attribuendo loro valore di esempi positivi – e che ci si propone, perciò, di emulare –, sia

in termini di esempi negativi – conferendo a questi ultimi caratteri, caratteristiche,

comportamenti o stili di direzione che si desidera e si tenta, nel prosieguo della propria

carriera, di non imitare o riproporre.

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Quasi tutti i dirigenti intervistati, infatti, con diverse sfaccettature, riconoscono

un ruolo molto forte e determinante per la propria carriera ad alcune figure “magistrali”

che hanno insegnato loro il mestiere soprattutto attraverso l’esempio e la vicinanza.

Alcuni mostrano una sincera e calorosa gratitudine verso questi referenti istituzionali e

professionali, a cui ritengono di dovere gran parte della loro fortuna e del loro successo,

come sintetizzato nei tre stralci che riportiamo:

Ho lavorato con un capo legislativo presidente di sezione del Consiglio di Stato, una persona di

altissimo livello sul piano giuridico; fu un vero maestro che mi passò l’amore per l’arte giuridica.

E’ stato una di quelle figure che, se sei fortunato, incontri e ti formano moltissimo. Credo molto

alla “scuola professionale sul campo”

Tra i maestri annovero sicuramente il vice direttore generale, poi direttore generale del

personale. E’ un funzionario molto tradizionalista, ma anche molto acuto nel suo campo; mi ha

dato degli importanti strumenti, il codice di lettura dei comportamenti amministrativi. Da lui ho

capito come si fanno le cose, e soprattutto come si possono gestire i conflitti. Conoscerlo è stata

un’esperienza molto importante perché era una persona che non faceva dormire sugli allori. Tale

rapporto mi ha dato una cultura del risultato e una cultura del tempo.

Ho avuto moltissimi maestri. Sono stato meritatamente fortunato. Quando ho vinto il primo

concorso, e all’epoca, c’era la riforma tributaria, ho avuto la fortuna di avere sia l’insegnamento,

ma anche l’abilità di poter costruire un confronto e un dialogo. Soprattutto ho conosciuto un

dirigente che mi ha fatto crescere perché ha visto in me potenziale soprattutto di trasferimento

della conoscenza: si era accorto che ero capace di trasferire il sapere e insegnare. Lui mi ha

supportato.

Il dirigente, attraverso:

- l’ascolto

- il riscontro

- la partecipazione

vive un’educazione implicita sul lavoro che genera poi appartenenza alla professione.

Questo ci induce a pensare infatti alle pubbliche amministrazioni come ad

organizzazioni molto ricche di “nozioni implicite”, che formano indirettamente perché

apprese attraverso norme non scritte, ma grazie all’apprendistato diretto e quotidiano.

Queste pratiche implicite appaiono come una sorta di “iniziazione” che solo un

maestro può gestire, guidando il giovane o meno giovane dirigente:

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La mia esperienza è iniziata faticosamente per via di un dirigente “vecchio stampo”, che

ragionava, non so se a torto o a ragione, pensando che il funzionario dovesse formarsi a partire

dai gradini più bassi, dai servizi più umili, tipo la protocollazione degli atti, ecc, ecc...questo io al

momento non lo capii e non mi diedi spiegazione logica. L’ho compreso più tardi:

quell’esperienza mi era servita per conoscere innanzi tutto tutti i servizi e quindi per poter anche

familiarizzare col personale, dall’usciere, al collaboratore diretto.

Molti hanno ripetuto che la pubblica amministrazione possiede le sue regole, le sue

specificità, i suoi “segreti” utili per consentire una sopravvivenza al suo interno. In

questo luogo misterico, iniziatico, il maestro è colui che introduce a tali tecniche

implicite – come riportato nello stralcio appena sopra – della professione di dirigente

nelle amministrazioni pubbliche (una specie di “codice di lettura dei comportamenti”) e

da ciò deriva un forte attaccamento, un senso di filiazione, di discendenza professionale.

Alcuni hanno anche individuato i loro “anti-maestri”:

Se devo rispondere direi tanti anti-maestri, dissapori con i colleghi. Non ho particolari figure di

riferimento. Ho visto però esempi notevoli che avevano un grande senso dello Stato che ho

adottato come modelli di professione.

Figure di anti-maestri parecchie… l’amministrazione finanziaria è piena di anti-maestri fin da

quando ero ufficiale di complemento. Per esempio il mio comandate di compagnia fu un anti-

maestro per me, perché era autoritario: comandava solo con l’imposizione del potere e quindi in

realtà non comandava la struttura… se non con la forza. Cattivi maestri davvero tanti, ma

sicuramente sono stati una palestra, anche loro insegnano delle cose. Ricordo che una cosa che

mi colpiva parecchio era quando venivi mandato a fare un’indagine e non capivi, perché apposta

non erano chiari, se eri strumento di legalità o di illegalità.

La figura dell’anti-maestro si lega quindi ai colleghi oppure a capi che fanno proliferare

le ingerenze politiche:

[…] ho avuto parecchi scontri con i vertici e siccome ho cambiato spesso sede anche con il

personale interno, non ho mai ricevuto solidarietà dai colleghi. In particolare ricordo un episodio,

quando sono stato trasferito a Reggio Emilia nell’ufficio in cui andai c’erano a mio avviso

parecchie cose che non andavano a partire dalla segretaria. Così la feci rimuovere. Fu un errore,

perché questa era amica del precedente dirigente che aveva ancora la sua influenza e che era

amico del Direttore Generale. Il Direttore mi mandò a chiamare e la fece tornare in sede, poi ebbi

altri spiacevoli vicende,,, a livello personale che non è il caso di raccontare, ma mi creda è stato

un periodo molto duro. Per cui i miei maestri sono stati esempi negativi della vita professionale

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che mi hanno fatto vivere a volte la professione con risentimento. Certo non ho mai avuto

solidarietà dai colleghi.

2.3.1.4. Cosa è il cambiamento e cosa significa cambiare

I dirigenti che nelle loro storie hanno raccontato i vari cambiamenti vissuti, le

trasformazioni di ruoli, i passaggi di carriera, i cambiamenti di posizione, i trasferimenti

in altre situazioni lavorative, valutano questi processi secondo una duplice modalità.

Da una parte i cambiamenti sono accolti in modo naturale, spontaneo, come se fossero

quasi doverosi:

Il cambiamento significa spinta e adeguamento non verso il nuovo tout court, ma verso ciò che di

positivo c’è nel nuovo, senza peraltro mai rinnegare gli insegnamenti positivi che si traggono

sempre dal nostro passato.

I cambiamenti in questa declinazione sono un semplice gradino in più della

scala. Ed in questa naturalità vengono interpretati come eventi di trasformazione positivi

(e riportati e raccontati come: “possibilità”, “opportunità”, “arricchimenti”) privi di

problematicità, di drammaticità o stress tanto da essere cercati perché intesi secondo una

chiave di lettura evoluzionistica, in cui il cambiamento è sempre visto come portatore di

novità.

Per me il cambiamento è una disponibilità a innovare gli schemi tradizionali dai quali si

proviene, quel sistemi di regole e strumenti organizzati che compongono la nostra struttura

aprendosi a nuovi modelli culturali diversi. Anche creando soluzioni originali, laddove sia

necessario. Il cambiamento è il non avere vincoli nei confronti dell’innovazione tenendo saldo i

principi etici.

Ritengo che i cambiamenti siano utilissimi, purché ci sia corrispondenza di livello, di funzione;

che non sia una mortificazione. Quando i passaggi sono coerenti, legati alla professionalità

acquisita, il cambiamento fa parte di un continuum e diventa importantissimo.

Tuttavia, i cambiamenti sono intesi anche secondo criteri critici.

Infatti, i vari dirigenti si rendono conto che è necessario “mutare”, che il nuovo

offre loro i mezzi per apprendere altro, ma solitamente la possibilità di dover intervenire

su consolidate abitudini e radicate routines provoca paura e angoscia:

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“Paura… Il cambiamento oggi non mi piace. Mi fa paura…”

Il cambiamento è così vissuto attraverso rappresentazioni negative che rifiutano

un suo accoglimento totale. Esso danneggia il benessere dell’individuo o

dell’organizzazione. Porta il soggetto in una zona di disagio in cui egli è “costretto” ad

andare verso una direzione diversa da quella prevista.

Oggi la cosa che mi pesa di più è perdere le mie competenze… ho vissuto male questi

cambiamenti ogni volta che ci sono stati. Cioè mi sembra una grande perdita, uno spreco

enorme, non poter esercitare più certe competenze quando cambi mansioni, uffici,

amministrazioni.

I cambiamenti, comunque, seppur narrati come perturbazioni della vita

individuale, a volte anche come traumi, sono sempre contingenze transitorie e assumono

la valenza di occasioni “per adeguarsi ad una situazione nuova” e dalle quali poter

trarre il maggiore beneficio possibile. Questa capacità di elaborare il cambiamento si

lega, come già detto, ad un’“attitudine riflessiva”:

[…] un grande regalo della mia formazione filosofica: la capacità di individuazione dei nodi critici

tentando di dare delle risposte culturalmente congrue rispetto ai problemi.

Non mi sono mai depotenziato intellettualmente di fronte ad un problema, ma ho cercato di cogliere

la possibilità di lavorare nel pubblico per aggredire quei problemi.

2.3.1.5. Il vissuto legato ai momenti critici della professione

Il concetto di mutamento e di crisi che abbiamo riscontrato nei dirigenti appare

duplice. Da una parte si profila un vissuto di caduta: una sorta di sconfitta, narrata come

esperienza che lascia il segno nel proprio percorso di vita lavorativa. Un cadere che può

diventare crisi nel momento in cui coinvolge dinamiche relazionali che producono in

taluni casi frustrazioni di carriera.

I dirigenti hanno segnalato vari gruppi di esperienze negative. Tra i più frequenti

riportiamo:

- le invidie dei colleghi

Viene per esempio narrato:

Mi pesa quando percepisco che per invidia una persona viene manipolata.

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- le ingerenze politiche, come nelle due testimonianze che seguono:

I momenti critici nel mio percorso sono stati legati o a ingerenze politiche o problematiche

personali che potevano venire o dall’alto o dal collega perché si innescano momenti di

conflittualità.

I momenti più critici, più negativi sono stati quando mi è stato praticamente chiesto di farmi da

parte per lasciare posto a qualcuno che intratteneva rapporti amicali stretti con qualche

personaggio importante e, ad aggravare il tutto, usando scuse e giri di parole.

- le incomprensioni o l’incompetenza dei superiori.

Qualcuno parla di:

Ho vissuto un momento di particolare delusione quando ho elaborato una memoria del consiglio

di Stato; mi è stata rovinata da un dirigente con una lettera, per giunta scritta in un pessimo

italiano. Tuttavia è finita bene.

- il mancato riconoscimento della propria professionalità.

C’è chi denuncia:

I momenti difficili all’interno della PA per me sono quelli in cui la mia professionalità non viene

riconosciuta dal mio ambiente di lavoro. Ma sono serena: so quanto valgo e questo mi fa sentire

serena.

… nel 99 sono stato messo a disposizione del ruolo unico……. Poi nel marzo 2001 sono stato

ripescato dal Ministero de ……. e credo che ciò sia avvenuto per motivi di anzianità perché non

c’è stata altra ragione per la chiamata….

Queste amarezze, spesso indotte da “piccolezze” e “grettezze” umane, hanno

però un lato positivo nelle parole dei nostri intervistati: svezzano alla professione e

fanno crescere. Come esemplificato in un’intervista:

Un momento critico l’ho vissuto quando ho dovuto gestire due inchieste a mio carico. Furono

promosse per invidia, su cose assolutamente infondate e benché vissute non molto bene a livello

personale, ho subito reagito. Ho contato molto sul mio carattere.

I dirigenti tendono quindi a dare un concetto sfumato di crisi che, in questo

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senso, assume quasi i connotati di una rimozione.

Abbiamo però notato che in tutti vi è stato il palese tentativo di elaborare la crisi

attraverso processi di autodirezione che sembrano abbreviare nel tempo i momenti

negativi. Come detto da un intervistato:

“Ho superato le crisi, con pazienza e andando avanti nel convincimento dell’esercizio di

un’azione svolta in aderenza ai miei principi”.

E ancora qualcuno (lo abbiamo già citato per la sua significatività) sottolinea

l’importanza dello studio, nella sua qualità di attitudine riflessiva, come strumento di

soluzione della crisi stessa:

Lo studio, cioè la capacità di riflessione sul reale, mi ha aiutato… quella la capacità di non

fermarsi all’aspetto fenomenico, ma sentirsi altrove pur sentendo di far parte della realtà, anche

se stai nella “stanza dei bottoni”.

2.3.1.6. Le risorse determinanti nei momenti critici

Le risorse, prevalentemente interiori, che hanno consentito ai soggetti intervistati

di superare i momenti critici - che, ricordiamolo, sono legati prevalentemente ai

seguenti fattori: ingerenze politiche o dei superiori, conflittualità tra colleghi, perdita di

identità professionale dovuta ai cambiamenti strutturali e senso di inadeguatezza rispetto

ai compiti o alle conoscenze necessarie per adempierli - si ricollegano ad alcune

caratteristiche caratteriali tra le quali predominano la determinazione, la tenacia e una

certa emotività “rabbiosa” che genera la volontà di “rimboccarsi le maniche” per andare

avanti.

A fronte di tale fermezza, altri atteggiamenti possono produrre comportamenti di

più deciso equilibrio, segnalandosi in pacatezza, serenità, riflessione; tolleranze che

qualcuno si spinge a definire “capacità di soffrire” , una sorta di imperturbabile capacità

di consentire il superamento dei momenti difficili attraverso la distensione.

In un solo caso la via della soluzione di una crisi ha visto emergere un contributo

esterno, non autoriferito o autoderivato:

“ … Grazie all’entusiasmo e alla fiducia dei collaboratori ho superato tutte le fasi difficili …”

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Le risorse interne sono state raccontate come situazioni che devono collimare

con l’organizzazione e che trovano il giusto valore solo nella misura in cui il contesto di

riferimento fornisce riscontri.

A fronte di tali atteggiamenti si segnalano le esplicitazioni di disagio derivanti

dal mancato incontro tra la propria adeguatezza nel ricorrere alle capacità o alle

competenze personali, all’interno di contingenze problematiche, e la suggevolezza, o

meglio, l’intermittenza dello scorrere della propria strada professionale, che molto

spesso deve confrontarsi o scontrarsi con durate sincopate degli incarichi dirigenziali o

con antinomiche polarizzazioni tra riforme e controriforme che vedono mutare scenari

di azione e investimento del “soggetto lavoratore” nelle amministrazioni pubbliche.

Tra le variabili dell’esercizio della responsabilità politica e dell’appartenenza ad

un ruolo decisionale, si vede, a volte, qualcuno indugiare nel rimpianto di un’icona, che

pur segnalata come vetusta, autoreferenziale, inadatta al tempo odierno e

rappresentativa di un sistema superato di amministrazione rigida e faraonica, si

configura tuttavia come simbolo stabile e potente, in contrasto con la variabilità e

l’evanescenza attuale.

Quasi segnalandola come risorsa e fonte di continuità e costanza, gli intervistati

si soffermano sull’ osservazione dell’imprescindibile coinvolgimento personale nella

cosa pubblica, che si manifesta, sostanzialmente, in due componenti che ci sembra di

poter definire come attitudini: lo studio e la riflessione. Lo studio, inteso latinamente

come impegno, fatica, laboriosa attenzione rivolta alla propria professione, si declina

nella capacità percettiva, nell’inclinazione a soppesare, valutare, ponderare e pensare

alla propria vicenda professionale, così intrecciata all’attività, al negotium pubblico.

In un colloquio tale disposizione si configura e viene direttamente presentata

come fantasia costruttiva, che sembra ricoprire importanza cruciale nella costruzione

della professionalità dirigenziale e nella conseguente riuscita in termini di carriera. Si

segnala dai colloqui:

Mi hanno favorita la grinta, il fortissimo senso del dovere, l’attaccamento al lavoro e l’aver

studiato molto; mi è sempre piaciuto ed ho sempre cercato di farlo bene, approfondendo ciò che

studiavo.

E ancora:

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Una caratteristica che mi ha favorito nel mio lavoro è lo sforzo di utilizzare una fantasia

costruttiva, non limitarmi all’analisi e alla gestione del presente ma cercare di prevedere

l’impatto di una riforma, i possibili problemi che questa può incontrare, lo studio attento della

sua fattibilità, delle alternative preferibili. Poi un atteggiamento sereno, imparziale, scientifico di

giudizio ed un atteggiamento dialettico e costruttivo che cerca di coinvolgere attivamente gli

altri, di collaborare, di non gestire in modo centralizzato. Nel settore più strettamente gestionale

la diplomazia nei rapporti, l’utilizzo di fiuto e buon senso

A conferma del forte senso di appartenenza già evidenziato, e come conseguenza

delle competenze e predisposizioni di attinenza e coinvolgimento alla cosa pubblica, si

segnala un altro elemento che ricalca e conferma la motivazione e lo stretto rapporto tra

successo personale e successo dell’organizzazione: è la passione. Alcuni dirigenti hanno

fatto notare come il credere nel proprio lavoro con dedizione, attaccamento e passione

costringa a esporsi molto:

Credo nel mio lavoro, e infatti mi espongo in prima persona.

Il forte compiacimento derivante dalla percezione della propria partecipazione al

processo di regolazione e riforma può talvolta vedere tale esposizione trasformarsi, da

forza costruttrice, in elemento destabilizzante. Come emblematicamente esplicitato in

un colloquio:

Io sono molto appassionata, e se da un lato questa caratteristica comporta dei vantaggi, d’altra

parte costituisce un limite. La passione molte volte ti conduce a giungere a tutti i costi a dei

risultati, e il mio ottimismo mi conduce a pensare che ci arriverò. Per quanto riguarda i conflitti,

dovrei gestirli in modo più calmo.

2.3.1.7. La soddisfazione legata alla carriera

Durante le interviste è emerso da parte di tutti i dirigenti la necessità di

realizzarsi attraverso la professione. I dirigenti infatti associano la loro dimensione di

senso soprattutto allo Stato e alla cura della “Cosa Pubblica”.

Il quadro in cui sembra inserirsi sia l’ambito delle competenze proprie di un

ruolo dirigenziale in ambito squisitamente pubblico, sia gli investimenti e le passioni

personali rappresenta, relativamente al confronto con la componente variabile, ma

paradigmatica del cambiamento, la ricerca, da parte del dirigente, di un continuo e

ragionato e personale bilanciamento tra domini etico-morali personalistici e domini

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pubblici. Se la prima modalità si misura come passione e fedeltà ai propri principi,

rispetto ad una valutazione critica e culturale dell’appartenenza al sistema-Stato, il senso

dell’agire politico, normativo o anche meramente esecutivo si configura e si rende

esprimibile nell’adattamento al cambiamento.

Qualora la costante soggettiva di bilanciamento tra convinzione e responsabilità

permetta alla passione di trovare nella prassi il proprio dominio, questa si configura,

oltre che come una sorta di competenza trasversale a tutte la altre, e cioè alla capacità di

sintesi e mediazione (in grado di far convergere livelli di astrazione appartenenti alla

sfera dei valori, dell’etica, dei desideri e della programmazione, con manifestazioni e

problematiche estremamente quotidiane, concrete e tangibili), anche come una

soddisfazione esperienziale ed esistenziale manifestata con compiaciuto orgoglio da

parte degli intervistati.

I bilanci raccolti dalle interviste svolte mostrano in genere percorsi di

soddisfazione di carriera, di riuscita anche esistenziale raggiunta solo “con le proprie

forze”. Il disagio, quando e se compare, si manifesta per la realizzazione ottenuta:

L’esercizio di una assunzione di responsabilità è una cosa particolare… non so come dirle ma io non

ho dato una direzione alla mia vita per raggiungere certi scatti di carriera, ho vissuto un processo di

induzione alla carriera perché è sempre prevalso l’interesse alle cose e di saperle bene non come tutti

gli altri.

Ho avuto spesso l’idea che io stessi superando qualcosa… l’idea di andare su territori mai percorsi

prima… primo della mia famiglia a laurearsi… insomma molte cose sono capitate.

Non c’è bisogno dell’ascesi, ma un po’ di ascesi ci vuole.

Alcuni dirigenti, a volte, ammettono che potrebbero “ottenere di più” se solo si

“rimettessero in gioco”: Ho ancora molto da fare… sono contenta delle scelte che ho fatto. Ma dopo questi 10 anni ferma in

un posto, soprattutto per la mia famiglia, comincio a sentire di poter fare di più.

La voglia di ri-cominciare, di dare di più fa quindi comparire nella narrazioni un

certo disagio, una segnalazione di un aspetto che richiede maggiore studio, dedizione.

Altri dirigenti poi parlano di “delusioni” personali o relazionali all’interno del contesto

di lavoro. Altri ancora lamentano ingerenze politiche nella loro carriera:

[…] ho visto persone passare davanti a me che avevano molti meno meriti di me… per vari

motivi loro sono andati avanti e io sono rimasto qua. Non sono soddisfatto della mia carriera.

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I momenti critici nel mio percorso sono stati legati o a ingerenze politiche o problematiche

personali che potevano venire o dall’alto o dal collega perché si innescano momenti di

conflittualità.

Altro aspetto negativo di questo passato, evidenziato da molti, è come già detto,

la fatica di conciliare la vita familiare, e anche amicale, con quella professionale. Solo

qualcuno vanta la riuscita di questa difficile convivenza:

Tutti gli obiettivi che mi sono posta dopo la laurea hanno seguito una certa continuità, tranne

alcune attività di maggiore intraprendenza, cose che comunque non mi hanno impedito di

avviare e percorrere progetti di tipo anche familiare, raggiungendo gli obiettivi anche personali.

I bilanci tracciati, sfociando nei progetti che i dirigenti esprimono relativamente

al loro futuro, appaiono legati non tanto alle prospettive di carriera, ma anche e

soprattutto al desiderio di una realizzazione ulteriore che il soggetto può raggiungere

attraverso la dimensione lavorativa:

[…] il momento non è particolarmente brillante per me… mi sento in grado di dare cose a questa

agenzia… allo Stato. Sono soddisfatta dei risultati conseguiti e di tutte le esperienze

professionali acquisite. Contemporaneamente cerco di trovare soluzioni alternative in ciò che mi

si presenta quotidianamente.

2.3.2. Area delle competenze

Le diverse caratteristiche personali e professionali che i protagonisti della ricerca

ritengono di possedere rispetto alla loro professione e rispetto al tema della “dirigenza”,

con le ricadute nella vita organizzativa e nel rapporto con l’organizzazione

2.3.2.1. I tratti distintivi del dirigente

Quali competenze si attribuiscono i dirigenti che abbiamo intervistato?

L’analisi delle risposte alla specifica domanda sulle competenze ideali di un

dirigente pubblico e su quelle possedute, in particolare, dai soggetti intervistati mette in

evidenza due approcci diversi.

I due approcci sono:

- uno di tipo tradizionale che identifica le competenze con il dominio delle procedure

amministrativo-contabili e con le conoscenze giuridiche;

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“Nella mia professione è indispensabile una forte competenza nel settore amministrativo; la

conoscenza dei suoi meccanismi, delle procedure, della contrattualistica pubblica..”

“Secondo me non si può prescindere da una solida preparazione giuridica, anche se si proviene

da studi economici o di altro tipo. La norma è comunque il nostro punto di riferimento ed è lo

strumento centrale per la difesa dell’interesse generale. Gli aspetti giuridici sono centrali ….

Senza sottovalutare gli aspetti contabili…”

- l’altro sembra privilegiare le competenze manageriali quali la capacità decisionale e

operativa, la capacità di risolvere i problemi, il governo dell’informazione, la

flessibilità:

“…. La capacità di adattamento …. la capacità di produrre, nel modo più rapido possibile,

risultati operativi …..credo che un'altra caratteristica sia la comunicazione permanente:

informare tutti delle cose che riguardano il lavoro...”

Emerge inoltre l’importanza attribuita al “corretto funzionamento” delle relazioni di

ruolo che determina il clima di lavoro.

Sembra infatti che un buon dirigente pubblico non possa prescindere oggi dalla

necessità di saper creare e portare avanti buone relazioni interpersonali, che vanno

calibrate in base ai diversi ruoli gerarchici e al tipo di cultura organizzativa. Tanto è

vero che qualcuno indica come competenza specifica quella di sapersi relazionare

efficacemente con gli altri:

“ …. A parte le competenze di carattere amministrativo, giuridico e legale, direi la capacità di

rapportarsi agli altri e la capacità di correggersi, di modificare i propri comportamenti …”

“ …. ci sono caratteristiche più personali come la capacità organizzativa, la capacità di motivare

il personale incentivandolo, saper rendere partecipe ognuno come fosse un attore indispensabile,

anche quando non si è interamente convinti del suo valore professionale. E ancora riuscire a

creare un gruppo di lavoro compatto che collabora, coordinato dal vertice ma che sente

l’unitarietà del lavoro.Questo è il percorso che ho cercato di fare io, convocando riunioni

periodiche di dirigenti, condividendo con loro esperienze anche in settori diversi ed è un valore

che cerco di passare anche a loro; questo aspetto di cura, di mentoring è importante per me, forse

proprio per il tipo di formazione che ho ricevuto …”

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Evidentemente il rispetto di ruoli gerarchici molto ben definiti impone un tipo di

relazionalità basata sullo scambio messo in evidenza dalla riflessione psico-socio-

analitica: Genitore/Bambino. Tuttavia, oggi anche le pubbliche amministrazioni stanno

passando da una cultura burocratico-amministrativa a una cultura più basata sulla delega

e l’impegno personale, una visione più adulta dell’organizzazione dove non ci sono

genitori e bambini, ma soggetti autonomi in una relazione di interdipendenza. Come

espresso in questi due stralci di intervista:

“… non basta essere all’apice di un sistema e esercitare un potere per produrre risultati di

cambiamento, ma occorre ridisegnare i percorsi di carriera, i processi formativi, le logiche e le

strategie di governo…”

“ … Preparazione giuridica e preparazione manageriale … sono complementari. Il manager

pubblico deve essere un manager amministrativo e un manager del personale, principalmente.

Senza sottovalutare gli aspetti contabili, che a me non sono familiari ma che sono importantissimi.

Ci vuole una cultura dei controlli di gestione. Bisogna inoltre familiarizzarsi con le tematiche

sindacali, inevitabilmente. Quindi è un quadro di competenze molto variegato. In più, ciò che

manca molto oggi è l’abitudine al confronto con altre realtà, soprattutto con altri sistemi pubblici

statali. Noi ne sentiamo parlare ma in realtà non conosciamo le amministrazioni pubbliche di altri

paesi, c’è solo un sentito dire, non una conoscenza scientifica comparativa ...”

La necessità di integrare la preparazione tecnica (giuridica, economica, contabile, etc)

con le competenze di tipo più manageriale, quali la gestione dei processi, l’analisi e la

soluzione dei problemi, la presa di decisioni in modo coerente e veloce, è fortemente

sentita.

Pochi ricollegano le caratteristiche di un dirigente alla “capacità di lavorare finalizzando

l’azione all’obiettivo”; infine, uno solo, introduce una distinzione basilare tra il

dirigente in senso stretto e il professional:

“ … per la maggior parte delle posizioni non si richiede una preparazione iperspecialistica, mentre

certamente è richiesta una consapevolezza della missione istituzionale. Io non sono fra quelli

che ritengono che il dirigente di base possa essere facilmente sostituibile. Per questo è necessario

condividere lo stesso modello culturale …”

I più giovani si rendono conto di quanto sia importante il gioco di squadra e ritengono

che le competenze cruciali siano legate alla capacità di interpretare i bisogni e di

innovare.

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“ … Lavorare in gruppi di lavoro, capire le problematiche. Avere attenzione verso la customer

satisfaction, essere innovativi… ma sono cose queste che ancora oggi a volte non vengono capite.

Io credo che le organizzazioni di successo e di eccellenza devono essere innovative, perché devono

rispondere a richieste che cambiano sempre… “

I soggetti intervistati ritengono che la dirigenza pubblica oggi, oltre a dover

necessariamente avere una solida preparazione tecnica e prevalentemente giuridica,

deve possedere anche altre competenze come:

− capacità di risolvere i problemi (problem solving);

− capacità di gestione delle risorse umane;

− capacità di motivare i collaboratori;

− attitudine all’autoriflessione;

− capacità manageriali e operative, anche per la gestione ordinaria;

− capacità decisionale;

− capacità di assumersi le responsabilità in proprio, di farsi carico del proprio ruolo

pubblico con equilibrio;

− capacità di dialogo, di comunicazione e di coordinamento;

− capacità di gestione dei gruppi, dei team;

− capacità di ottenere consenso, piuttosto che di imporre decisioni;

− capacità di premiare i migliori;

− capacità di mantenere rapporti chiari, trasparenti e corretti con i dipendenti;

− saper ascoltare i funzionari anziani e sfruttare la loro esperienza per capire la

memoria storica di un ufficio;

− mantenere il disinteresse e l’obiettività del servitore dello Stato;

− adempiere ai propri compiti avendo come riferimento ultimo il cliente-cittadino;

− favorire l’innovazione e la progettualità all’interno del proprio ufficio;

− capacità di adattarsi ai continui cambiamenti di orientamento politico;

− disponibilità all’aggiornamento continuo.

In sintesi, i protagonisti della ricerca si rendono conto che vengono loro chiesti

comportamenti volti ad assumersi una certa dose di rischio e di responsabilità nel

processo decisionale; un atteggiamento meno rigido; un’attitudine all’iniziativa

personale; un orientamento alla cultura del servizio al “cliente interno” e “esterno”. Per

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questo, se dovessimo trovare tre macro aree in cui inserire tutte le competenze

precedentemente elencate, dovremmo individuare le seguenti:

2.3.2.2. Aggiornarsi sempre: tra stress per il cambiamento ed entusiasmo per il nuovo

La volontà di apprendere sempre, sia dalle situazioni professionali che personali,

è una delle caratteristiche che abbiamo riscontrato:

[Conoscere cose nuove]… Assolutamente sì… soprattutto oggi che per vari motivi siamo

nell’occhio del ciclone… Questa mia struttura è nuova e si confronta con modificazioni costanti,

non siamo noi i protagonisti… non siamo noi che chiediamo di riscrivere l’articolo 18 o la sua

modifica… per cui bisogna sempre conoscere cose nuove.

E ancora:

Credo che un dirigente non debba mai rimanere nello stesso posto per più di due anni, perché ciò

causa un errato rilassamento. E’ giusto conservare l’entusiasmo per le novità.

In bilico tra stress da cambiamento continuo e entusiasmo delle novità, i

dirigenti intervistati si confrontano con la necessità di formazione permanente e di

COMPETENZE “TECNICHE”

− Problem solving − Favorire

l’innovazione e la progettualità all’interno del proprio ufficio

− Solida preparazione tecnica e giuridica

− Capacità manageriali e operative, anche per la gestione ordinaria

− Capacità decisionale − Adempiere ai propri

compiti avendo come riferimento ultimo il cliente-cittadino

− Capacità di interpretare i bisogni

COMPETENZE RELAZIONALI

− Gestione risorse umane − Motivazione dei collaboratori− Ascolto dei funzionari anziani

e utilizzo della loro esperienza per capire la memoria storica di un ufficio

− Capacità di dialogo, di comunicazione e di coordinamento

− Capacità di gestione dei gruppi, dei team;

− Capacità di ottenere consenso, piuttosto che di imporre decisioni

− Capacità di motivare i dipendenti e di premiare i migliori

− Mantenere rapporti chiari, trasparenti e corretti con i dipendenti

COMPETENZE "FILOSOFICHE"

(METACOMPETENZE) − Autoriflessive − Capacità di assumersi le

responsabilità in proprio, di farsi carico del proprio ruolo pubblico con equilibrio

− Capacità di adattamento − Disponibilità

all’aggiornamento continuo

− Mantenere il disinteresse e l’obiettività del servitore dello Stato

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governance delle relazioni complesse che si creano nel rapporto

individuo/organizzazione/gruppo di lavoro.

In questo senso appare chiaro come l’efficacia e il successo del servizio pubblico

dipende da un buon equilibrio tra le caratteristiche, i valori, gli interessi, le storie delle

persone che lavorano nelle pubbliche amministrazioni e le richieste/aspettative di

formazione legate allo specifico contesto organizzativo:

Mi piacerebbe che le amministrazioni pubbliche facessero dei corsi di aggiornamento, di

qualificazione, come nelle imprese private; invece siamo autodidatti. Un dirigente è una risorsa,

un investimento, e bisognerebbe valorizzarlo. Dovrebbero farci corsi seri di gestione del

personale, io ne sento francamente un grande bisogno, finora mi sono inventata un po’ da sola la

gestione del personale. Non ci dovrebbero lasciare così soli…

I bisogni di formazione emersi durante le interviste possono essere così

catalogati:

- formazione tecnica (considerata dai dirigenti facilmente reperibile);

- formazione culturale, tesa a fornire nuovi strumenti per interpretare meglio contesti e

processi di lavoro (considerata dai più come difficile da reperire);

- formazione relazionale, tesa a fornire la conoscenza delle complesse dinamiche dei

rapporti organizzativi tra gli individui e i diversi contesti di lavoro (considerata

rarissima).

In una logica di risposta alle molteplici richieste di cambiamento provenienti

dall’ambiente esterno, i dirigenti ritengono che le politiche innovative nelle pubbliche

amministrazioni, oltre a focalizzarsi sulla soddisfazione del cliente esterno, dovrebbero

iniziare ad avere maggiore attenzione verso la cosiddetta “employee satisfaction”, la

soddisfazione del dipendente visto come protagonista dello sviluppo interno.

Abbiamo registrato anche una netta prevalenza di giudizi favorevoli ad una gestione

aperta, trasparente ed esplicita dei conflitti all’interno delle strutture poste sotto la loro

guida. Lo strumento indicato più spesso è la riunione settimanale fissa nella quale far

emergere qualsiasi tipo di problema e di conflitto interno (anche personale).

Durante queste riunioni l’ufficio elabora collettivamente le strategie migliori per il

futuro, con il coordinamento del dirigente che in ogni caso si assume la piena

responsabilità delle decisioni prese. In molti casi abbiamo notato l’emergere di una

formula basata sulla polarità responsabilità/autonomia, con crescenti sforzi di

democratizzazione e di condivisione delle decisioni all’interno di gruppi di lavoro.

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Quindi maggiore collegialità, ma senza abusi e senza retorica del “gruppo”. In

generale vi è una forte attenzione agli aspetti emotivi, affettivi, familiari, psicologici

dell’attività lavorativa. Molti dirigenti, egualmente distribuiti fra donne e uomini, hanno

sottolineato l’importanza di una buona qualità dei rapporti umani e affettivi sul luogo di

lavoro, al fine di potersi comprendere reciprocamente per condividere le scelte

dell’ufficio e per correggere la rotta di volta in volta.

2.3.2.3. Dirigenza pubblica e privata: differenze e somiglianze

Sono più le differenze che le somiglianze a contraddistinguere il lavoro nel

settore pubblico. La maggiore differenza è individuabile principalmente nella diversità e

nei modi di perseguimento degli obiettivi. Il privato tende al profitto; mentre il pubblico

si mette al servizio dello Stato e della collettività:

[…] credo che ci siano similitudini, ma che le differenze siano molto maggiori. Oggi si fa un

gran parlare di management nel pubblico, ma temo che sia un modo per dimenticare il senso

dello Stato di cui parlavamo prima. Un manager privato può anche non averlo, nostra

caratteristica distintiva invece è questo senso dello Stato, senza di esso non siamo altro che

semplici commessi.

C’è quindi nel vissuto degli intervistati un profondo sentimento di diversità di

scopo dell’attività istituzionale rispetto a quella aziendale; emerge anche la

consapevolezza dei diversi livelli di autonomia per il raggiungimento degli obiettivi:

Non so se posso definirmi un manager, ma decisamente sento di differirne rispetto al senso di

appartenenza all’istituzione. Mi considero aperto agli strumenti manageriali. Rispetto ad

un’azienda godo di maggiore consenso; ci sarebbe da discutere sul fatto che la pubblica

amministrazione trascura da molto tempo questo aspetto. Bisognerebbe razionalizzare la

dedizione, ossia promuovere delle politiche atte a valorizzare quest’aspetto del dipendente

pubblico. Le aziende in questo sono più avanti, perché tendono a dare premi economici. Ciò è

paradossale, perché la pubblica amministrazione avrebbe tutto il materiale a disposizione; credo

si potrebbe ovviare innescando una serie di atti responsabilizzanti.

Se i protagonisti della ricerca celebrano giustamente questo nobile senso dello

Stato che dovrebbe contraddistinguere chi lavoro nel pubblico e per il pubblico, nello

stesso tempo essi sottolineano le caratteristiche negative di un eccesso di “statalismo”.

Un eccesso che si fa vivo nel momento in cui prevalgono le ingerenze di ordine politico:

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[…] le ingerenze politiche nella PA sono grandissime non paragonabili a quelle che avvengono

anzi non avvengono nel privato. Abbiamo molte cose da imparare dal privato, ma anche il

privato deve imparare da noi… Io ho alcuni dirigenti che potrebbero essere paragonati a manager

di imprese private per l’informalità con cui lavorano e le competenze che hanno…

Nel settore pubblico ci sono maggiori condizionamenti, quando cambia il ministro, con lui

cambiano alcuni collaboratori e si perde in continuità, in stabilità ed in qualità.

Non mi sento diverso da un manager di aziende private se non per la maggiore responsabilità

relazionale che credo di avere; ad ogni mossa ci si sente controllati da Ministro, Sottosegretario,

Capi di Gabinetto; si è meno liberi e si deve sottostare a tanti tipi di compromessi perché i

passaggi obbligati per ogni atto o progetto sono numerosi.”

In generale emerge la sensazione della maggiore libertà goduta da un dirigente

che lavora nel mondo del privato rispetto ad un dirigente pubblico:

“Credo che i manager di aziende private siano più liberi, meno condizionati, rispondono per ciò

che producono e, in base a questo, vengono valorizzati. C’è perciò una valutazione più oggettiva

del loro lavoro e si cerca maggiormente la qualità e l’efficienza del personale per avere risultati

immediati.

Qualcuno ha infine messo in evidenza una tendenza che si sta diffondendo anche

nelle pubbliche amministrazioni: un orientamento ai risultati e una maggiore

responsabilizzazione personale nel raggiungimento degli obiettivi.

2.3.2.4. Quale cultura peculiare per le pubbliche amministrazioni?

La cultura di un’organizzazione è la somma degli atteggiamenti degli individui

che la compongono, ma soprattutto delle interpretazioni che gli individui danno dei

modi e dei processi di lavoro presenti in un determinato contesto.

I dirigenti intervistati, di fronte alla necessità di definire la loro cultura di

appartenenza, hanno mostrato qualche difficoltà; secondo alcuni la pubblica

amministrazione non ha una cultura peculiare sua propria o comunque non ha una

cultura sola, si caratterizza invece per un’eterogeneità culturale molto elevata che, negli

ultimi decenni, ha aderito a tre diversi modelli: 1. Il primo corrisponde al vecchio modello che qualcuno ha definito

“faraonico”.

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E’ rappresentato dal burocrate che può tutto, fa riferimento solo a se stesso,

non si cura del cittadino, né del servizio di cui è responsabile.

2. Il secondo è quello del dirigente “mediatico”.

E’ questa la cultura prevalente a partire dagli anni ’80. L’enfasi è posta sulla

comunicazione e sulla cultura mass-mediatica. Tale modello culturale ha

aperto il dirigente al mondo esterno, nel senso di renderlo più sensibile

all’immagine, ma non ha scalfito la sua autoreferenzialità.

3. Il terzo è quello del dirigente “manager”.

E’ questo il modello culturale che sta tentando di prevalere oggi; l’attenzione

si è finalmente spostata sul cittadino inteso come cliente che ha diritto di

ricevere una prestazione di servizio dalle pubbliche amministrazioni. Abbiamo quindi notato una consapevolezza diffusa di questi cambiamenti, ma

anche una certa disillusione rispetto al prevalere effettivo del terzo modello. Le ragioni

di tale disillusione vengono fatte risalire ad alcuni meccanismi di forte dipendenza dal

potere politico di turno, da una sorta di “attesa del principe”:

Forse quello che caratterizza la pubblica amministrazione è la tendenza ad aspettare che la legge

cali dall’alto. Basta pensare a tutte le riforme che sono state fatte. Nonostante tutte le riforme ho

la sensazione che si stia tornando indietro, soprattutto grazie alle pressioni che stanno attuando

su figure che potenzialmente potrebbero emergere. E in più ci sono dirigenti che ricoprono

cariche di altissima responsabilità che assumono come atti personali atti che riguardano

esclusivamente la pubblica amministrazione. Formazione e studio ci vogliono, ma non bastano.

Infine, qualcuno rileva che il terzo modello, quello del dirigente manager,

potrebbe o dovrebbe avere come esito la “razionalizzazione della dedizione”.

L’utilizzazione pratica e riconosciuta del senso dello Stato:

Non ho ancora capito quale è la cultura della pubblica amministrazione. Posso dire quella che mi

piacerebbe potesse avere. Dovrebbe essere una organizzazione che razionalizza la dedizione.

Cioè una struttura che valorizza l’individuo mentre serve il bene comune. La forte dedizione

morale finalizzata al bene pubblico del singolo dovrebbe essere premiata mentre non viene fatto. 2.3.3. Area delle responsabilità e dell’eccellenza

I modi attraverso cui i soggetti intervistati leggono la loro professionalità e la necessità

di aggiornamento continuo nel pubblico impiego

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2.2.3.1. Quali sono le responsabilità incontrate con più frequenza e come vengono

vissute

Il tema della responsabilità è molto sentito.

Tutti i dirigenti intervistati, senza eccezioni, hanno sottolineato il fatto di essere

investiti di forti responsabilità amministrative che, a volte, creano ansia e richiedono un

equilibrio delicato tra gli aspetti politici e quelli professionali, tra competenze tecniche e

relazioni interpersonali.

Come detto in un’intervista che assumiamo come rappresentativa anche delle

altre:

Ovviamente responsabilità di ordine politico. Come ho già detto ho avuto maestri che mi hanno

svezzato a queste responsabilità che sono tutte basate su una forma di equilibrio delicatissima da

raggiungere a metà strada tra la relazione personale e il tecnicismo professionale.

Le responsabilità più pesanti sono quelle civili, anche se quotidianamente le responsabilità sono

a livello contabile e amministrativo. Spesso capita però di scoprirsi denunciati dalla Corte dei

Conti, e altrettanto spesso per motivi futili, banali, e questo perché non si producono riscontri

preventivi. Ma ciò avviene per evitare di ricevere una denuncia. Questo meccanismo grava come

un zavorra sull’assunzione di responsabilità, perché se anche so come e quando agire non posso

farlo liberamente, poiché rischio una vendetta.

Molti poi sentono una crescente esigenza di autonomia che legano

all’assunzione di responsabilità decisionali, sia quantitative che qualitative, limitando

l’area della delega e del rinvio ad altri livelli dell’organizzazione:

Avere una buona capacità decisionale e saperla applicare in tempi ristretti, vale a dire anche

quando non si hanno a disposizione tutti gli elementi necessari. Per me questo non rappresenta

un problema poiché sono di indole decisionista, mentre mi rendo conto che per altri questo può

essere un problema. Le responsabilità che più frequentemente incontro riguardano quindi la gestione del personale,

sia dal punto di vista organizzativo che dal punto di vista relazionale e decisioni importanti sul

bilancio. Queste decisioni sul bilancio sono uno stress abbastanza forte perché le prendo da

sola… con l’aiuto dei collaboratori, ma la responsabilità finale è mia.

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Questa affermazione era di solito accompagnata sia da un certo carico di ansia sia da

una malcelata soddisfazione per la maggiore libertà di movimento e la maggiore

autonomia nella gestione del proprio ufficio.

2.2.3.2. Come i dirigenti valutano il loro percorso professionale

La maturità professionale è un concetto/rappresentazione contraddittorio.

I dirigenti percepiscono il loro percorso professionale come un’esperienza

“mobile”, perché contemporaneamente maturo e immaturo.

Maturo perché il percorso professionale intrapreso ha realizzato i diversi percorsi

di vita, immaturo perché i dirigenti si rendono conto della necessità di continuare a

imparare. Per questo, tutti i dirigenti intervistati hanno evidenziato le caratteristiche di

incompiutezza del loro percorso di carriera, accettando le possibilità di cambiamento.

Nessuno si sente in qualche modo “arrivato” e in molti casi il dirigente ha

esplicitato di essere pronto fin da subito ad una nuova collocazione, ad un nuovo

incarico anche in un ministero diverso, ma sempre all’interno delle amministrazioni

pubbliche, per esplorare nuove competenze e accrescere le proprie conoscenze.

2.2.3.3. Nuove modalità di valutazione del “rendimento” dei risultati ottenuti da un

dirigente pubblico

Molti intervistati hanno sottolineato intensamente e ripetutamente la necessità di

avere maggiore discrezionalità nella gestione del personale. Non è sufficiente introdurre

criteri privatistici di valutazione sul merito e sui risultati se poi il dirigente pubblico non

ha la possibilità di mettere in mobilità o addirittura di allontanare i funzionari che non

collaborano alle attività dell’ufficio o che creano problemi di compatibilità. Molti hanno

sottolineato che da decenni si parla di valutazione, ma non si è mai giunti ad una pratica

effettiva. Gli indicatori si sono sempre rivelati inadeguati, farraginosi, parziali e

arbitrari. La riforma dà più potere e autonomia ai dirigenti, ma non fornisce gli

strumenti gestionali per rendere tale autonomia effettiva e conseguentemente per

valutare i risultati della gestione. L’impossibilità di potersi scegliere i propri

collaboratori è vissuta come un grave handicap che pregiudica qualsiasi valutazione

obiettiva.

Detto questo, vi è però una certa concordia nel ritenere necessari nuovi metodi ,

anche più severi, di valutazione dei dirigenti, basati su:

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− conformità dei risultati rispetto agli obiettivi prefissati di anno in anno;

− gradimento all’interno dell’ufficio;

− equilibrio nello svolgimento delle funzioni pubbliche.

Una minoranza ritiene invece che sia impossibile, per definizione, “misurare” il

rendimento dei dirigenti pubblici, perché la loro attività è talmente complessa da non

poter essere misurata con criteri di efficienza o tramite obiettivi standardizzati. Non

essendoci omogeneità, la sola possibilità è quella di affidarsi alla discrezionalità dei

superiori. Tuttavia poi cadono in contraddizione quando, da un lato, si augurano che si

possa arrivare a definire un profilo professionale complessivo del dirigente, anche se da

sottoporre a continua revisione, e, dall’altro, denunciano che il Ruolo Unico funzioni

solo da “parcheggio” per i dirigenti che hanno avuto conflitti con i loro superiori.

Tutti, in ogni caso, ritengono fondamentale diversificare “localmente” le

procedure di valutazione, perché le competenze e gli obiettivi cambiano profondamente

da ministero a ministero e da ufficio a ufficio. Non ritengono accettabile una modalità

unica di valutazione del dirigente.

Unica eccezione la recente esperienze degli uffici unici delle entrate che, basata

sui metodi SIVAD, SIRIO e BEI per la misurazione di “competenze complesse”,

rappresenta un caso di eccellenza nella valutazione delle performances di lungo periodo.

Ciò che accomuna, dunque, le riflessioni degli intervistati sulla valutazione è il fatto

che essa:

− è delicata, complessa, ma non impossibile;

− deve essere necessariamente plurale, legata al contesto e diversificata;

− deve avere un carattere eminentemente qualitativo.

2.2.3.4. Una visione dell’eccellenza nelle pubbliche amministrazioni

Per definire l’eccellenza, un tema poco frequentato nelle pubbliche

amministrazioni e, non a caso, sentito da molti come un’ideale irraggiungibile,

vogliamo mettere in evidenza i due approcci riscontrati.

Il primo, più semplicistico, fa dell’eccellenza una questione tecnica, legata ad una forte

preparazione disciplinare e a solide competenze relazionali, che fa parte della sfera

professionale del dirigente:

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“[…] l’eccellenza risiede in una solida preparazione di carattere giuridico e nella capacità

gestionale delle risorse umane e strumentali. Bisogna sapersi assumere responsabilità, quindi non

essere passivi”.

Una professionalità capace di raggiungere gli obiettivi:

“Realizzare i propri obiettivi in modo armonioso con quelli dell’ufficio e dei collaboratori. E’

importante realizzare qualcosa per la collettività profondendo il massimo dell’impegno”.

E che diventa per ciò stesso misurabile:

“L’eccellenza deve emergere dai dati, deve avere un riscontro obiettivo. Posso dire che quando

abbiamo progettato il riassetto organizzativo, abbiamo raggiunto un grande successo. Ma questo

testimonia quanto l’eccellenza sia un prodotto individuale, quando ci sarebbe bisogno di una

condivisione di intenti per poter raggiungere una certificazione. C’è bisogno di un leader

condiviso, di una squadra in cui ogni membro deve contribuire con la propria responsabilità. Per

esempio andrebbero introdotti incentivi economici.”

E comunicabile:

“L’eccellenza si dimostra quando un’amministrazione crea qualcosa di realmente utile alle

persone e lo divulga, all’interno e all’esterno, confrontarsi con l’ambiente per poter fare una

valutazione oggettiva riguardo alla corrispondenza ai bisogni dell’utenza. Una dirigenza che è

eccellente è una dirigenza che sa dire quella che fa. Una dirigenza che divulga. E poi occorre

una amministrazione che sa ascoltare. L’eccellenza è quindi: comunicazione, ascolto e servizio.”

Il secondo approccio invece prende in considerazione l’identità personale del

dirigente, la sua soggettività di individuo che deve mantenere una forte sintonia con se

stesso, con la sua personalità:

“L’eccellenza si raggiunge quando un individuo è in contatto con se stesso: è eccellente chi riesce a

coniugare la facoltà organizzativa con il proprio pensiero.

Deve fare quello che fa non solo perché deve farlo, ma per una ragione profonda che non è

tautologica. Può essere estetica, politica, etica, ma deve essere allocentrica.”

Un dirigente che sa trovare e mantenere un equilibrio introspettivo nella

relazione con gli altri:

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“L’eccellenza nella pubblica amministrazione consiste soprattutto nel mantenere un

atteggiamento molto equilibrato con tutti sia con il collega che con il cittadino. Poi conta anche

essere determinato, e direi anche non chiudere mai la porta in faccia. Per me conta molto la

disponibilità, che per me è stata una via al successo; anche se mi rendo conto che questa qualità

non coincide con l’identikit del perfetto manager di successo, tutto intento al raggiungimento del

risultato, ma che non ha tempo per altro. Anzi si teorizza proprio il fatto che non si deve dedicare

tempo a niente altro se non al risultato… però in quel tempo che non si vede o non si vuole

curare c’è il cliente, il contribuente, l’utente… c’è colui che dobbiamo servire.”

Un dirigente quindi che assume connotati psicoterapeutici perché chiamato a

farsi carico degli altri:

“Direi che il problema delle responsabilità è quello di farsi carico… Io penso di appartenere a

una generazione che ha ri-scoperto la necessità di farsi carico. Il che significa anche una certa

modalità di gestione del personale… se uno assume il fatto che esiste un legame tra produttività,

benessere delle persone e qualità della organizzazione allora il processo di cui bisogna farsi

carico non è solo quello organizzativo, ma anche quello di accompagnare chi vive in un certo

contesto di lavoro, il che significa anche occuparsi del benessere degli altri… senza paternalismi

o atteggiamenti da piccolo padre.”

E addirittura a farsi amare:

“Sicuramente la capacità di assumersi le responsabilità del caso, facendo assumere le

responsabilità al personale e facendosi amare. Io in questo ho qualche difficoltà… forse anche

per le esperienze che ho avuto; una donna entrata giovane in un ambiente duro e maschile.”

E ancora:

“E’ bene che vi sia capacità di relazione con le persone, in senso moderno, cioè che non faccia

male agli altri, ad esempio mobbing involontario. Occorre che si capisca davvero che ogni volta

che si sta insieme agli altri si ha a che fare con la loro psiche, che ci si trova al centro di

proiezioni…. Il processo di qualità riguarda anche le relazioni. Ho incontrato tali mostri…”

L’eccellenza – secondo questa interpretazione – è costituita dall’equilibrio tra le

capacità manageriali e le qualità umane e trova nel prendersi cura dell’altro una

caratteristica fondamentale.

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Vi è infine chi contesta un diritto di cittadinanza all’eccellenza nelle pubbliche

amministrazioni e lo fa con un’argomentazione che è difficile contestare:

“Non so cosa sia realmente l’eccellenza nella pubblica amministrazione. Preferirei ci fosse più

<buon senso> generalizzato, piuttosto che punte di eccellenza, perché la pubblica

amministrazione non è fatta di singoli individui; quindi se ci fosse una sola persona eccellente,

inteso come colta, aperta, di buon senso, aggiungerebbe ben poco all’intero apparato se questo

nel suo complesso è mediocre. E sarebbe difficile trovare un linguaggio comune tra questi due

livelli. Meglio un’amministrazione. giovane, moderna, attenta, motivata, di buon senso.

Bisognerebbe far capire di più che si lavora per l’interesse pubblico.”

2.4. Conclusioni 2.4.1. Una sintesi delle autobiografie raccolte

Nel complesso, abbiamo ascoltato racconti di percorsi biografici piuttosto lineari

e prevalentemente interni alle amministrazioni pubbliche durante tutto il loro iter.

Il grado di soddisfazione per la propria carriera è mediamente alto, così come la

motivazione.

L’elemento trasversale che caratterizza unanimemente le testimonianze raccolte

è il forte senso di appartenenza allo Stato. Nel dipanarsi dei colloqui, questo dato

sembra diventare l’elemento costitutivo e peculiare della propria identità professionale;

nel momento della ricostruzione storica dei propri esordi e dei tentativi di esplorazione

di un’iniziale vocazione appare come il segno marcato di una particolare attenzione per

il servizio alla collettività, una sensibilità che predispone alla predilezione per il lavoro

nel settore pubblico rispetto a quello privato.

L’avvio professionale prende le mosse, infatti, da momenti definiti come

occasioni favorevoli, anche se fortuite.

Alcuni hanno scelto di partecipare ai concorsi per caso mentre erano in attesa di

intraprendere altre carriere, altri per un’aspirazione coltivata durante l’università.

L’aspirazione ad entrare nel mondo accademico non è marginale negli

orientamenti iniziali. La partecipazione ad un concorso per la carriera amministrativa

nelle pubbliche amministrazioni è stata una seconda scelta dopo quella

dell’insegnamento, dello studio e della ricerca in università e in alcuni casi nasceva

proprio dalla delusione per il mancato inserimento nell’università. Per alcuni lo

sviluppo agognato per la propria carriera è ancora quello di integrare l’impegno di

dirigente con la docenza.

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L’ingresso nelle pubbliche amministrazioni viene spesso descritto come una

discontinuità imprevista, come una sorpresa, una svolta contingente in un processo di

formazione che prevedeva anche altre strade, come il lavoro in uno studio di avvocati o

di commercialisti, in magistratura o, come abbiamo detto, in università.

La scoperta della “vocazione pubblica” di solito coincide con l’incontro con un

maestro, con il trasferimento in un ufficio particolarmente vivace, con la partecipazione

ad un progetto di rilancio o di neo istituzione di un ufficio.

L’evoluzione del percorso professionale ha caratteristiche diverse per i dirigenti

che operano nelle amministrazioni centrali rispetto ai cosiddetti “periferici”. Per i primi

l’evoluzione procede per maturazione progressiva, iscrivendosi in una continuità “senza

salti”, caratterizzata da una certa stabilità e linearità di carriera. Il percorso professionale

dei dirigenti “periferici” è invece difficoltoso, costellato da spostamenti e momenti di

cambiamento, sia rispetto al ruolo (mobilità di funzione e gerarchica), sia rispetto alla

collocazione geografica.

Se, per i “ministeriali”, i momenti di passaggio sono stati vissuti senza stress,

come naturali progressioni di carriera che consentono di investire il proprio tempo e le

proprie attitudini personali anche su altri versanti culturali e lavorativi, permettendo

l’espressione di soddisfazione in un bilancio professionale e personale:

“[…] sono molto soddisfatto, ho sempre trovato molte motivazioni, arricchimenti, discussioni…”,

“[…] credo di esser sempre rimasto il giovane curioso ed interessato alle novità”;

Nei “periferici” si rintracciano i segni di una maggior fatica, anche in ragione di

disfunzioni pratiche o scarsità di risorse materiali rispetto alle strutture ministeriali

(scarsità di spazi, emergenza di problemi di ricollocazione, carenza di risorse

informatiche, ecc.).

Emerge, in qualche modo, una differenza sostanziale, anche se prevedibile, nella

strutturazione delle competenze di chi ha lavorato in un ministero e chi ha invece

percorso la propria carriera negli uffici periferici: nei primi prevale un approccio

programmatico e “ideativo”, tipico di chi lavora a stretto contatto con il vertice politico

che ha compiti di indirizzo, programmazione, coordinamento e controllo; mentre nei

secondi è rintracciabile una forte componente gestionale e pragmatica, dovuta al

contatto con i cittadini e alla vicinanza ai loro problemi.

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Nel tirare un bilancio professionale si nota un certo compiacimento nel ritenersi

protagonisti del processo di riforma, della costruzione di una pubblica amministrazione

nuova; tuttavia tale atteggiamento positivo si accompagna, a volte, come un rovescio

della medaglia, a un vissuto di insoddisfazione per non essere riusciti a tradurre in realtà

operativa il proprio impegno professionale, visto più come “passione civile” che come

capacità di raggiungere i risultati.

Qualcuno è consapevole dello stretto rapporto tra successo personale e successo

dell’organizzazione (“…Un altro fattore vincente è l’immedesimazione organica, avere la

consapevolezza che il proprio successo sia legato a quello dell’azienda…”), ma gli altri dirigenti

intervistati tendono ad attribuire gli insuccessi dell’organizzazione, o meglio la lentezza

del processo di cambiamento nel senso voluto dalla riforma, più a cause esterne, non

riferibili ai loro atteggiamenti e comportamenti operativi.

Sembra quasi che il loro operare nelle pubbliche amministrazioni, il loro

contributo ai processi decisionali, il loro personale impegno intellettuale e professionale

abbia più l’effetto di rafforzare la già forte motivazione valoriale (il senso sociale e

pubblico del proprio lavoro) che non quello di indurre una rivendicazione dei successi

ottenuti dall’amministrazione.

E infatti, più che adesione alla riforma, sembra più esatto parlare di adattamento

dei dirigenti intervistati ai mutamenti che stanno avvenendo nelle amministrazioni

pubbliche: un adattamento pro-attivo che vede risposte differenziate e che non nasconde

fatiche e resistenze, soprattutto per quanto riguarda il tema della privatizzazione del

rapporto di lavoro e della flessibilità del ruolo.

L’“ibridazione” del rapporto di lavoro pubblico con elementi del privato è

accettata a condizione che non danneggi in alcun modo la specificità del ruolo pubblico

del dirigente.

Si vorrebbe, in altri termini, “prendere” dal rapporto di lavoro privato solo alcuni

aspetti, ma evitare qualsiasi “colonizzazione” o tentazione di esportazione forzata di

modelli privatistici nel pubblico. Secondo molti intervistati, la volontà di “copiare” il

privato è stata finora meramente di facciata e ha comportato soltanto una de-

burocratizzazione superficiale dell’amministrazione pubblica. Nessuno vuole ammettere

di voler “resistere al cambiamento”, ma nel complesso si ritiene che un’impostazione

totalmente privatistica snaturi l’ispirazione pubblica del dirigente.

L’atteggiamento nei confronti della riforma è ambivalente.

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Essi concordano su una ricostruzione storica delle trasformazioni attraversate

negli ultimi vent’anni dalla pubblica amministrazione e ne riconoscono la profondità sul

piano istituzionale, organizzativo e culturale. E’ in atto una vera e propria

“rifondazione” del ruolo pubblico, necessaria ma non esente da alcuni rischi, il più

sentito dei quali è la paura della perdita di un certo tipo di identità professionale e

istituzionale, senza che la nuova identità che dovrebbe sostituire la vecchia abbia i

connotati per essere riconosciuta e assimilata, anche perché le riforme sono per lo più

imposte dai vertici politici e non condivise.

Le connotazioni della “vecchia” amministrazione pubblica sono prevalentemente

negative e nei racconti ruotano attorno ad alcune parole chiave:

− inerzia;

− demotivazione;

− formalismo esasperato;

− organizzazione gerarchica e spirito di “casta”;

− spiccata politicizzazione;

− scarsa sensibilità verso i cittadini come referenti finali della propria attività.

Le connotazioni positive delle amministrazioni pubbliche “di una volta” (cioè

fino alla metà degli anni ottanta) ruotano invece attorno a queste altre parole chiave:

− etica accentuata del lavoro pubblico (che secondo alcuni si sta perdendo);

− elevato livello di professionalità e di competenza tecnica (soprattutto giuridica,

anche questa in calo, ad avviso di alcuni).

La filosofia della riforma è invece espressa, a parere dei più, da queste

caratteristiche:

− maggiore managerialità (dai primi anni novanta);

− maggiore decentralizzazione territoriale;

− attenzione prioritaria agli obiettivi;

− maggiore apertura al cittadino;

− commistione fra efficienza e funzione pubblica nell’esercizio della leadership;

− informatizzazione dei servizi interni ed esterni;

− comunicazione più precisa e puntuale verso l’interno e verso l’esterno.

Gli aspetti negativi del cambiamento in atto si concentrano invece su due aree

tematiche:

− la confusione nell’applicazione delle riforme e il conseguente sentimento di

insicurezza;

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− la scarsa preparazione culturale del personale di cui le amministrazioni non si

fanno carico.

Trasversalmente a queste due aree critiche esiste una problematica espressa, in

modo più o meno esplicito, in tutte interviste:

- la persistente ingerenza dei vertici politici nelle decisioni amministrative.

E’ un tema predominante, anche se sfumato, sul quale ci soffermiamo.

Abbiamo avvertito, innanzitutto, un certo fastidio per una situazione lavorativa

in cui troppo rapidamente cambiano i responsabili politici e, con essi, i loro più stretti

collaboratori ai vertici delle amministrazioni. Ogni volta viene rimesso tutto in

discussione e bisogna “ricominciare da capo”.

Tuttavia, l’argomento delle interferenze politiche è molto marginale nei racconti

autobiografici raccolti. Quando viene sfiorato, vi è una certa unanimità nel ritenere che

la distinzione tra indirizzo politico e attività di gestione sia soltanto teorica e non ancora

praticata. Alcuni hanno spiegato nel dettaglio la delicatezza del confine fra i compiti

“tecnici” del dirigente e la sfera della decisione politica: il dirigente può influenzare, ma

non decidere, anche se in molti casi il politico delega completamente al dirigente di

fiducia la conduzione di una trattativa o la realizzazione di un progetto.

Viene fatto rilevare che l’ingerenza politica, più che condizionare le scelte

“tecniche”, produce una serie di disfunzioni che si ripercuotono sull’organizzazione,

oppure “penalizzano” del tutto il singolo dirigente che non si uniforma, negandogli il

rinnovo del contratto alla scadenza.

Vogliamo contestualizzare quanto detto, riportando alcuni stralci, rappresentativi

delle interviste, dove si può leggere esplicitamente quanto stiamo dicendo.

Nel primo viene fatto capire come l’ingerenza politica produca problemi alla

struttura organizzativa:

“Va detto anche che nel pubblico probabilmente c’è una ingerenza politico-clientelare molto più

grande, soprattutto nelle fasi pre-elettorali… nessuno chiede di fare cose irregolari, ma c’è

comunque una continua pressione. Ma questo fa parte della cultura italiana che si basa

sull’affidarsi al principe. Queste cose fanno perdere molto tempo e spendere parecchia fatica in

termini organizzativi.”

Nei due stralci che seguono si può notare, invece, tutta l’amarezza personale e

professionale che la pressione politica può far vivere al dirigente:

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“Altra cosa che ci diversifica pesantemente è l’incidenza del fattore politico, e più si va in alto, più

si avverte questa ingerenza, nonostante una norma entrata in vigore recentemente avrebbe proprio

dovuto scollegare questi due fattori. Il decreto legislativo 29 che voleva evitare questa ingerenza in

realtà la incrementa e questo genera cose drammatiche. Di fatto, l’ingerenza viene accentuata; e

ciò è drammatico perché questo praticamente si traduce in una cosa molto concreta, per esempio:

ora il dirigente ha un contratto a termine, per il quale se, a scadenza, si è ritenuti invisi al proprio

dirigente di riferimento, si viene trasferiti. Prima non succedeva nulla… Secondo me la situazione

è peggiorata.”

“Il problema è che non sempre vengono assunte le persone sulla base di reali competenze e ci si

avvale troppo di consulenti esterni che non conoscono la storia precedente, così si perde la

continuità, la coerenza della pubblica amministrazione; inoltre, se la parte progettuale viene svolta

da consulenti esterni senza coinvolgere direttamente i funzionari, questi possono cominciare a

provare disinteresse. Separare i compiti politici da quelli gestionali può essere una grande risorsa

ma bisogna anche pensare ai rischi che si corrono.”

Cresce tuttavia la consapevolezza che l’ingerenza impropria della politica possa

essere contenuta da una forte professionalità e da strumenti di gestione più consoni ad

un’amministrazione moderna:

“[…] il dirigente burocrate e faraone ha iniziato a rispondere a necessità di managerializzazione:

non basta essere all’apice di un sistema e esercitare un potere per produrre risultati di

cambiamento, ma occorre ridisegnare i percorsi di carriera, i processi formativi, le logiche e le

strategie di governo.”

C’è invece chi vive in forma dialettica il rapporto con la politica e lo ricollega ad

una specifica capacità positiva del dirigente:

“[…] la capacità “politica” di comporre nella sintesi migliore gli interessi che entrano in gioco,

così da riuscire a suggerire, collaborare con le autorità politiche responsabili del Ministero nel

modo migliore, più efficace, utile.

Proporre, dialetticamente ricercare le soluzioni migliori.”

o chi vuole proteggersi dal potere facendo appello al senso, quasi sacrale del “bene

comune”:

“Il senso dello Stato… cioè il senso della funzione del pubblico potere rispetto alla generalità

……………Lo Stato ………. guarda al bene comune o meglio al bene di tutti e di ciascuno.

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Chi lavora nello Stato secondo me deve avere questa attitudine, è quello che protegge dalla

corruzione del potere.”

Infine ci siamo meravigliati che il tema del decentramento, che pure sappiamo

essere tra le opzioni di fondo della riforma, non compaia molto spesso nei racconti e

non sembra appassionare i dirigenti intervistati. Una spiegazione può essere

riconducibile al criterio con il quale è stato selezionato il campione. La maggior parte

dei dirigenti che hanno avuto una carriera veloce lavorano a Roma, laddove hanno sede

le strutture centrali delle amministrazioni, ed hanno pochi contatti con gli uffici

periferici.

Quando il tema del decentramento compare nei loro racconti emerge una certa

sfiducia e incredulità di fondo sul buon esito dell’operazione, riconducibile alla

confusione, alle incertezze e ai ripensamenti che stanno caratterizzando il processo di

attuazione del cosiddetto “federalismo amministrativo”.

Il principio è ritenuto giusto, ma le modalità di realizzazione sbagliate e

controproducenti. Secondo molti intervistati sarebbe necessaria una maggiore gradualità

e l’introduzione di una pratica di sperimentazione preliminare all’attuazione definitiva

delle riforme, soprattutto nel caso di una riforma così destrutturante come quella

disegnata dalla riforma dei ministeri. E’ ritenuto deleterio continuare a sovrapporre

riforme su riforme senza verificarne gli esiti e senza coerenza.

In sintesi, l’analisi dei colloqui evidenzia alcuni temi forti, trasversalmente

comuni a tutte le conversazioni svolte:

1) Un forte “senso dello Stato” che, unito alla consapevolezza di essere investiti di

una elevata responsabilità pubblica verso la collettività, rivela una spiccata

motivazione professionale;

2) Una buona disponibilità al dialogo, al confronto e all’apprendimento continuo;

in alcuni si poteva avvertire quasi l’ansia di volersi mettere in discussione, di

confrontarsi con altri, di discutere insieme dei problemi e delle prospettive del

lavoro pubblico;

3) Una rivendicazione orgogliosa della specificità delle pubbliche amministrazioni

rispetto alle organizzazioni private, pur condividendo la necessità di introdurre

alcuni elementi organizzativi e gestionali tipici delle organizzazioni aziendali;

4) Il riconoscimento dei mutamenti profondi che le amministrazioni pubbliche

hanno subito negli ultimi anni (quasi sempre indicati come il periodo che va dai

primi anni novanta ad oggi).

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5) La consapevolezza delle implicazioni organizzative, procedurali e culturali del

fase di cambiamento che le pubbliche amministrazioni stanno vivendo. In

particolare il cambiamento culturale è avvertito, a livello personale, come la

necessità di saper aggiungere alle conoscenze tecnico-giuridiche già possedute,

che costituiscono il patrimonio comune, quelle più propriamente relazionali. Da

qui deriva la volontà individuale di acquisire e governare nuovi strumenti di

gestione di se stessi e degli altri, la necessità di fare un lavoro su di sé che

potenzi sia l’intelligenza cognitiva, per far fronte alle pressioni derivanti dalle

nuove conoscenze e abilità richieste per la gestione di organizzazioni complesse,

sia l’intelligenza emotiva, per rispondere alle tante e diversificate sollecitazioni

interpersonali;

6) La volontà di comunicare di più e meglio all’interno e all’esterno del contesto

lavorativo;

7) Il desiderio di avvicinare di più le amministrazioni pubbliche ai cittadini,

attraverso una molteplicità di strategie di “familiarizzazione del cliente” (siti

web, servizi on line, numeri verdi, sportelli, consulenza…).

2.4.2. Quale formazione per un dirigente pubblico “di successo”?

I suggerimenti e le indicazioni per lo sviluppo delle competenze che provengono

dagli stessi intervistati sono la vera scoperta di questa ricerca.

I loro bisogni formativi sono più raffinati rispetto all’offerta prevalente: non si

accontentano più dei soliti corsi di lingua o di informatica, chiedono una strategia

formativa integrata, flessibile e mirata ai loro bisogni individuali.

Non ignorano che la velocità richiesta alle loro prestazioni, la spinta a fornire

risultati misurabili e l’innovazione continua dei processi producono uno scenario di

cambiamento continuo che costituisce una sfida non più fronteggiabile con le sole

conoscenze tecniche e professionali possedute, per quanto elevate esse siano.

In questa sfida i dirigenti, in quanto individui, assumono un ruolo più importante

rispetto al passato perché chiamati in prima persona a farsi carico di rischi e di

responsabilità, a fronte dei quali i valori tradizionali dell’etica e dell’imparzialità del

lavoro pubblico possono “proteggere dalla corruzione del potere”, come ha detto un

intervistato, ma non sono sufficienti per governare l’incertezza.

Al dirigente che lavora nelle amministrazioni pubbliche viene chiesto di essere

capace di gestire più situazioni nello stesso momento, di saper lavorare in gruppo, di

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cooperare con gli altri dirigenti della stessa amministrazione o di altre, anche non

italiane, di saper anticipare i bisogni dei cittadini, delle famiglie, delle imprese.

Se, nel recente passato, per fornire un servizio pubblico era necessario avere a

propria disposizione un elevato know-how, cioè una buona preparazione tecnica e

un’elevata conoscenza del proprio ruolo, oggi per riuscire a competere gli individui e le

organizzazioni devono avere anche un know-that e un know-why; non solo nozioni

specifiche ma anche modi per elaborare creativamente quelle stesse nozioni, per

“riflettere sulla realtà” nel confronto con la progettualità e le esperienze di altri contesti

organizzativi, senza trincerarsi dietro la rivendicazione di una diversità insanabile del

settore pubblico.

La parola d’ordine diventa, anche nelle amministrazioni pubbliche, “imparare

sempre”: da se stessi, dagli altri e dall’ambiente esterno per adattarsi e far fronte ai

mutamenti continui.

Il miglioramento si chiama apprendimento, che, negli adulti, si consolida con

l’esperienza e con il confronto costruttivo, la cross fertilization, il bench marking.

L’esigenza di un confronto con la cultura e le pratiche aziendali è infatti

avvertita da alcuni; come è sentito, più diffusamente, il bisogno di analizzare, studiare e

confrontarsi con i diversi sistemi di pubblica amministrazione di altri paesi europei.

Quale formazione va dunque offerta al dirigente pubblico?

Pensiamo, forse un po’ illuministicamente, ad una formazione che sia in grado di

formulare itinerari e strumenti di condivisione delle esperienze (come il “knowledge

management”), di innescare nuove pratiche di apprendimento organizzativo, magari

supportate dalle tecnologie, di promuovere programmi per lo sviluppo di queste

competenze:

- Prevedere, e non solo risolvere, i problemi (visione strategica);

- Comunicare e scambiare le esperienze (confronto);

- Lavorare bene insieme (fare squadra);

- Progettare l’innovazione;

- Programmare e pianificare gli obiettivi;

- Decentrare le decisioni operative;

- Valutare per apprendere dai risultati.

Perché, come dicevano David Osborne e Ted Gaebler in “Reinventing

Government”, se non si misurano i risultati non è possibile distinguere i successi dai

fallimenti e se non si riconoscono gli insuccessi non è possibile correggerli.

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La formazione nella PA, nell’epoca dell’incertezza, non è più solo un intervento

spot, fatto una tantum per dare risposte immediate e fornire strumenti contingenti, ma si

configura soprattutto come un percorso di ascolto e di elaborazione della conoscenza

(individuale e collettiva), per produrre innovazione organizzativa, competenza

professionale, assistenza personale.

In sostanza, la formazione diventa un “partner evolutivo” attraverso cui produrre

sviluppo nell’organizzazione.

Uno strumento complesso che non serva solo per creare benefici immediati

rispetto le diverse necessità contingenti delle amministrazioni, ma riesca a promuovere

lo sviluppo di capacità strategiche in grado di anticipare i bisogni della collettività,

pianificare gli obiettivi, governare le risorse e introdurre trasformazioni.

2.4.3. Ancora sul metodo autobiografico. Un possibile utilizzo nelle pubbliche

amministrazioni

Abbiamo imparato a conoscere, attraverso il racconto delle loro storie

professionali, i dirigenti che abbiamo intervistato; abbiamo imparato a scoprire i loro

punti di forza e i loro punti deboli, a prevedere in anticipo che tipo di risposta avrebbero

dato alla domanda successiva.

Abbiamo incontrato gli entusiasti, i pacati, i “politici”, gli introspettivi, gli eroi, i

tenaci, gli scontenti, i disillusi, gli amareggiati e via dicendo: non solo però stati

d’animo, come potrebbe sembrare, ma caratteristiche personali che possono costituire le

variabili significative per ricoprire al meglio una determinata posizione.

L’accezione di competenza alla quale aderiamo è un concetto complesso che comprende

una serie di componenti quali:

- Conoscenze (sapere), ossia una certa base di sapere che nasce dal corso degli

studi e dall’esperienza;

- Capacità (saper fare), intese come abilità di mettere in pratica determinate

conoscenze in uno specifico contesto organizzativo;

- Atteggiamenti, predisposizione a comportarsi in un determinato modo in

determinate circostanze;

- Immagine di sé, come percezione che il soggetto ha di sé e valutazione che egli

stesso dà di quella immagine;

- Ruolo sociale, come percezione che l’individuo ha dell’insieme di norme di

comportamento accettate e considerate appropriate nella propria organizzazione;

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- Motivazioni (saper essere), come interesse ricorrente che guida, dirige e

seleziona il comportamento dell’individuo.

Riteniamo che il metodo che abbiamo scelto per individuare le competenze dei

dirigenti che hanno avuto una carriera eccellente corrisponde alle nostre aspettative in

quanto ci ha consentito di ricostruire queste componenti in ogni singolo dirigente

intervistato.

Abbiamo individuato le sue conoscenze e capacità attraverso la ricostruzione del

suo corso di studi e delle sue esperienze professionali.

Abbiamo individuato i suoi atteggiamenti attraverso la ricostruzione delle

influenze dei personaggi-chiave della sua storia professionale e personale e delle sue

reazioni nei momenti critici o nelle trasformazioni.

Abbiamo messo a fuoco l’immagine che ha di se stesso sia rispetto a come

valuta la sua carriera che rispetto alla percezione che ha delle sue caratteristiche cruciali

per la sua professione.

Abbiamo ricostruito la percezione che ha del suo ruolo sociale attraverso il

confronto con i dirigenti aziendali e l’auto-valutazione del suo percorso professionale.

Abbiamo ancora messo in evidenza le sue motivazioni che si ricavano da tutte le

risposte messe insieme e che potevano emergere solo nella interazione discreta con il

ricercatore.

Abbiamo infine enucleato dalle sue risposte i valori che condivide con gli altri e

che abbiamo cercato di non generalizzare troppo per non tradire l’approccio

autobiografico della ricerca che attribuisce alla storia del singolo un valore unico e

irripetibile.

Riteniamo che sia proprio questa unicità soggettiva che vada valorizzata e che,

in qualche modo, dovrebbe consentire la scelta dell’ «uomo giusto al posto giusto»,

sempre che colui o coloro che devono sceglierlo abbiano le capacità per valutare e le

competenze per definire gli obiettivi da raggiungere nella posizione organizzativa che

intendono fargli ricoprire e che, infine, non vogliano sceglierlo sulla base di altri criteri,

più o meno oggettivi.

Nel selezionare e commentare i brani che abbiamo riportato è inevitabilmente

intervenuta una scelta interpretativa.

Cercando di non tradire il punto di vista soggettivo di coloro che raccontano il

loro percorso individuale abbiamo cercato di ritagliare degli “elementi di ordine” nella

complessità delle storie che abbiamo ascoltato.

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Inevitabilmente abbiamo privilegiato alcune ipotesi interpretative che abbiamo

cercato di verificare restituendo ai protagonisti della ricerca, durante un workshop

tenuto presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i risultati cui eravamo

pervenuti, al fine di enucleare, insieme a loro, tematiche e problematiche ricorrenti o

significative che potessero trovare, in un laboratorio di formazione co-gestito, il luogo e

il modo per essere discusse e approfondite.

La restituzione delle storie professionali e delle ipotesi interpretative agli

intervistati è un momento importante dell’approccio autobiografico; costituisce un

primo abbozzo di laboratorio autoformativo dove, attraverso la rilettura della propria

storia professionale, l’individuo narrante ha modo di confrontare la propria unicità con

quella degli altri, mettendo a confronto l’immagine che si ha di sé con quella che viene

percepita da colui che ascolta o legge la sua storia.

Siamo stati confortati dalle reazioni dei dirigenti che hanno partecipato al

workshop.

Qualcuno ha affermato che si è sentito “rispettato e rappresentato” dagli esiti

della ricerca.

Ancora una volta è emerso il disagio di lavorare in strutture pubbliche sottoposte

a continue riforme; è emerso il disagio dell’incertezza, della precarietà del ruolo (“la

vita effimera del dirigente”), del mancato riconoscimento del proprio sforzo e della

propria dedizione al lavoro pubblico.

Non sono mancati i riferimenti letterari per esprimere questo disagio, questa

“cognizione del dolore” che accompagna colui che si assume responsabilità verso la

collettività.

Rivedendosi e rispecchiandosi nella narrazione degli altri, i protagonisti della

ricerca hanno avuto la possibilità di riflettere e di re-interpretare la propria vita

professionale.

La ri-appropriazione riflessiva del proprio percorso da parte del soggetto

narrante è parte del metodo autobiografico; questa operazione favorisce l’auto-

consapevolezza senza la quale nessuno sviluppo personale e professionale è possibile.

Il pensiero riflessivo è la chiave che consente di trovare un filo conduttore, un

significato, una negoziazione interpretativa, una condivisione nella complessità delle

autobiografie raccolte.

Crediamo che raccontarsi sia un modo per esplorare la propria vita, per riflettere

su di essa, per ri-orientarsi e far emergere nuovi bisogni di crescita e di apprendimento.

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E’ questo uno degli esiti che, da formatori, ci aspettiamo da questa ricerca.

Perché si concretizzi occorre che le tematiche di maggiore interesse emerse dalle

storie di vita professionale che abbiamo raccolto vengano approfondite criticamente,

con l’aiuto di specialisti delle tematiche stesse e di esperti in metodologie

autobiografiche, nel contesto di specifici laboratori di formazione.

A titolo esemplificativo, i focus dei laboratori potrebbero essere i seguenti:

Laboratorio a): “Il dirigente pubblico: competenze organizzative e autoriflessive”;

Laboratorio b): “Dal sogno al progetto: dirigenza e progettazione professionale”;

Laboratorio c): “Il mentoring nella relazione dirigenti/collaboratori”;

Laboratorio d): “Empowerment professionale e metodologie autobiografiche”;

Laboratorio e): “La dirigenza pubblica e il burn out professionale”;

Laboratorio f): “Pedagogia del lavoro e organizzazione”.

Dei risultati di questa ricerca c’è un’altra possibile utilizzazione che ci sta a

cuore.

Negli ultimi dieci anni la pubblica amministrazione è stata investita da un

processo di riforma ampio e incisivo senza precedenti.

Anche se l’immagine di una pubblica amministrazione ostile ed inefficiente

continua a perdurare nell’immaginario collettivo - più per resistenza culturale che per

esperienza reale -, i cambiamenti, soprattutto quelli legislativi sono stati tanti e ripetuti

nel tempo.

Il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, che costituiva il testo base della

riforma del lavoro pubblico, è stato rivisto, modificato e integrato ben sei volte; nel

2001 è diventato un testo unico e ha cambiato numero, ieri è stato ancora una volta

modificato dall’ultima riforma della dirigenza promossa dal Ministro Frattini, oggi si

appresta ad esserlo di nuovo ad opera del Ministro Mazzella.

Anche se la maggior parte dei cittadini ancora non sa che gli incarichi dei

dirigenti sono a tempo determinato (non più di tre o cinque anni, con l’ultima riforma);

che gli incarichi ai dirigenti di livello più elevato sono conferiti sulla base di un rapporto

fiduciario con il vertice politico dell’amministrazione e che non esiste più la

giurisprudenza esclusiva del giudice amministrativo per il contenzioso che riguarda il

lavoro pubblico, questi ed altri cambiamenti epocali sono stati e vengono vissuti da

coloro che lavorano nelle pubbliche amministrazioni con un senso di spaesamento e di

disagio, dovuto più all’incertezza e alle contraddizioni nella direzione della riforma che

ad una reale resistenza al cambiamento.

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Di questo diffuso sentimento di incertezza abbiamo trovato tracce profonde nelle

nostre interviste.

Crediamo che, almeno in parte, questo sentimento derivi dalla paura di non

essere considerati e valutati adeguatamente.

Trascorsi i tre o cinque anni della durata del contratto, il dirigente pubblico si

trova di fronte alla eventuale mancata conferma dell’incarico.

Se ha lavorato bene e non si è inimicato colui che gli deve rinnovare il contratto,

può sperare in una riconferma.

Ma, che fare se, con un cambio di governo, i vertici politici e amministrativi

cambiano?

E, che fare per poter legittimamente ambire ad incarichi di maggiore prestigio e

responsabilità?

In assenza di metodi di valutazione consolidati o di una conoscenza diretta, il

rischio di discriminazioni nelle opportunità, sia per il dirigente stesso che per colui che

deve sceglierlo, è elevato.

Esistono molti metodi per valutare le prestazioni di un dirigente ed altrettanti per

individuarne le competenze.

Certo è improbabile che, senza una conoscenza diretta, i decisori si accontentino

del confronto tra curricula per scegliere “l’uomo giusto al posto giusto”. Vorranno

sapere qualcosa di più; chiederanno informazioni a chi lo conosce.

Ebbene, noi crediamo che una raccolta di storie di vita professionale, basata

sull’approccio autobiografico e costruita con il consenso degli interessati, possa fornire

più elementi di valutazione rispetto ad un freddo curriculum vitae.

La traccia dell’intervista autobiografica che riportiamo in Appendice non è che

una prima bozza di uno strumento da utilizzare in una ricerca che verifichi

quantitativamente la validità dell’approccio che proponiamo.

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Appendice

1. La traccia del colloquio a) Storia di vita e storia professionale tra cambiamenti, proiezioni e aspettative

personali

1. Può raccontarmi quale è stato il Suo percorso professionale e come ha raggiunto la

Sua posizione attuale all’interno della Pubblica Amministrazione (la posizione

ricoperta, le funzioni svolte, i passaggi fondamentali, eventuali

svolte/cambiamenti)?

2. In questo Suo percorso professionale, a Suo avviso, che cosa è cambiato e che cosa è

rimasto come prima (Quali elementi di continuità e di discontinuità ravvede nella

Sua storia professionale fino ad ora)?

3. Secondo Lei, quali sono state le caratteristiche del Suo carattere che l’hanno favorita

e quelle che l’hanno svantaggiata (Quale è stata la storia dei Suoi rapporti con i

colleghi)?

4. Quanto sono state importanti le Sue origini familiari e la Sua rete di relazioni

personali in rapporto alla Sua storia professionale (alla carriera)?

5. Quali sono state le figure cruciali per la Sua formazione e la Sua carriera? Ha avuto

un collega più anziano che può definire oggi un “maestro”?

b) Cambiamento

6. Che cosa significa per Lei “cambiamento”? In particolare, che rapporto si è creato

fra i Suoi cambiamenti personali (e professionali) e i cambiamenti generali che

hanno investito negli ultimi anni le organizzazioni contemporanee, portandole

verso gradi più elevati di flessibilità, di autonomia e di decentramento? (Quanto

ha influito sulla Sua carriera, storia professionale/personale, lo spostamento

geografico (se vi è stato), dalla Sua regione di origine e di formazione ad

un’altra? Che ripercussioni ha avuto la mobilità territoriale sulla Sua carriera,

storia professionale/personale?)

7. Si sente in generale soddisfatto della Sua carriera? Le gratificazioni sono in qualche

modo superiori alle difficoltà? (Lei avrebbe mai pensato di arrivare dove è arrivato?

Quale era la Sua proiezione personale nella fase iniziale della Sua carriera, quali

erano le Sue aspettative di fondo?)

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c) Competenze

8. Quali sono a Suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che definiscono in

modo appropriato la Sua professione?

9. In quali competenze specifiche si riconosce maggiormente?

(Articolazioni ulteriori della domanda/stimolo: a) Le risorse personali e

professionali che Le permettono di svolgere con competenza il Suo ruolo nella

Pubblica Amministrazione sono principalmente autoriferite, hanno cioè un’origine

prevalentemente soggettiva, oppure sono eteroriferite, cioè in qualche modo

“oggettive”? b) Elaborare i conflitti e le tensioni interpersonali è una competenza

importante per la Sua professione? c) E’ in qualche modo “emozionante” il Suo

lavoro? Le emozioni sono una dimensione pertinente per il suo lavoro? d) Quanto

sono diventate importanti nel corso del tempo gli aspetti di “cura”, cioè le pratiche

di tutoring, di mentoring, di coaching nella sua professione?)

10. Lei è riuscito a comunicare e a condividere le Sue competenze con altri colleghi

all’interno della Sua organizzazione? Si è mai sentito un “formatore”?

11. Esistono a Suo avviso meccanismi efficaci di “apprendimento” e di autocorrezione

nella Sua organizzazione? (Articolare, se necessario, facendo riferimento alla

velocità dei processi di gestione, di organizzazione e di cambiamento)

12. In che cosa si sente diverso e in che cosa si sente uguale rispetto ad un manager di

aziende private?

13. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a Suo avviso una

“cultura”, o forse addirittura un’etica, peculiari oppure no?

d) Criticità

14. Come ha vissuto i momenti critici e i momenti di successo della Sua carriera ? (Si

può articolare in: a) mi vuole raccontare un episodio particolarmente felice della

sua carriera? b) mi vuole raccontare un episodio negativo della sua carriera ? c)

quali sacrifici emotivi o personali pensa ci siano stati nella Sua storia professionale

e nella Sua carriera?)

15. Che rapporto esiste fra il Suo successo personale e il successo della Sua

organizzazione?

16. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse “interne” (cioè personali,

emotive, di carattere…), oppure le risorse esterne (cioè del gruppo, dei superiori,

dell’organizzazione, del contesto…)?

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e) Responsabilità ed eccellenza

17. Nel Suo lavoro quali sono le responsabilità più frequenti che incontra? Come vive

su di sé queste responsabilità quotidiane? (a) Le danno più un senso di potere o più

di timore ? (b) Lei tende ad assumersi in prima persona tali responsabilità oppure

avverte nella Sua organizzazione la tendenza a rinviare ad altri livelli le

responsabilità decisionali?)

18. Ritiene che il Suo percorso personale e professionale sia incompiuto?

19. Che cos’è l’eccellenza professionale nella Pubblica Amministrazione? Che cos’è

l’eccellenza? (a) Lei crede che il grado di eccellenza di un dirigente sia

proporzionale al peso delle responsabilità che egli si assume nel suo operato ? (b)

Lei crede che nella Pubblica Amministrazione chi ha commesso errori di

valutazione e di gestione renda effettivamente conto del proprio operato ?)

20. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del “rendimento”

e dei risultati ottenuti da un dirigente di Pubblica Amministrazione?

21. Lei pensa che sia possibile misurare in qualche modo il rendimento di un dirigente

di Pubblica Amministrazione?

22. Che cos’è l’eccellenza ?

2. Alcune interviste esemplari 2.1. Intervista autobiografica n. 1

a) Area del cambiamento

1. Può raccontarci qual è stato il suo percorso professionale e come ha raggiunto

la sua attuale posizione all’interno della pubblica amministrazione?

Ho iniziato la mia vita lavorativa alla Scuola Superiore della P.A. avendo vinto un

corso-concorso per l’accesso alla carriera direttiva nel 19…; intanto frequentavo il

quarto anno del corso di laurea, stavo preparando una tesi molto impegnativa in

filosofia del diritto. Tra l’altro una delle clausole del bando richiedeva di completare il

corso di laurea entro un anno solare, e per un disguido burocratico non riuscii a

completare il corso di studi. E’ stato un setting formativo molto importante, poiché

molto competitivo, omogeneo. Mi sono classificato ai primi posti ma in virtù di quel

disguido non entrai nella P.A. prima dell’…... Non mi hanno fatto scegliere e sono

entrato nell’amministrazione più sociale tra quelle in bando. Anche perché avevo

sviluppato da molti anni mio interesse nel volontariato e facevo assistenza all’infanzia,

ho diretto una associazione… ho coniugato nella mia attività di lavoro successiva

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interessi filosofici e esistenziali con quelli professionali. Avevo una forte motivazione e

questo mi ha portato ad emergere direi anche con un grosso merito nel settore delle

politiche pubbliche.

Ho lavorato alla direzione generale de …………. dal ’.. al ’.., occupandomi di

…………. Dal 200.. sono diventato dirigente con un profilo di esperto in ………..

Ho fatto la Scuola Superiore come tanti… di quel periodo ricordo le alzate alle quattro

del mattino, ma ripeto è stato importante il clima della scuola. C’era l’idea di formarsi

per un lavoro che seppur vecchio aveva caratteristiche innovative.

2. In questa sua storia professionale che cosa è rimasto come prima (di lei e della

sua vita) e che cosa è cambiato?

Dal ’92 ho incontrato vere e proprie stratificazioni geologiche: persone con una spiccata

capacità di galleggiamento in mezzo ai problemi, con una scarsa sensibilità di confronto

con il cittadino, ma con un’elevata sensibilità a livello politico, aspetto, questo, visto

come alleato di carriera. Solo da pochi anni la P.A. è orientata alla performance, al

meglio. L’atmosfera prima era di scarsa produttività; solo poi sono emerse figure

protagoniste in grado di produrre un cambiamento a livello di immagine.

La svolta del ‘.. - dalla circolare [nome del ministro] - fu di notevoli dimensioni

organizzative, poiché legava la funzione dei dirigenti più ai risultati in termini di

percorso, dove diventavano chiare le procedure e i livelli di verifica. E’ cambiato

moltissimo. Aver lasciato la [settore precedente] ha significato lasciare un mondo a cui

sono legato da profondi vincoli personali.

La richiesta di cambiamento è in atto, ossia l’[nome della attuale struttura di lavoro] si

sta organizzando per obiettivi, e questo comporta una riorganizzazione delle prestazioni

dei dipendenti pubblici. Questo fenomeno incontra delle resistenze nella struttura.

3. Secondo lei, quali sono state le caratteristiche della sua personalità (o

carattere) che l’hanno favorita e quelle che l’hanno svantaggiata nella sua

storia professionale?

L’attitudine, l’intuizione è un grande regalo della mia formazione filosofica: la capacità

di individuazione dei nodi critici tentando di dare delle risposte culturalmente congrue

rispetto ai problemi.

Non mi sono mai depotenziato intellettualmente di fronte ad un problema, ma ho

cercato di cogliere la possibilità di lavorare nel pubblico per aggredire quei problemi.

Di contro, ho una sensibilità che molte volte mi porta ad espormi, ma anche a farmi

carico. Ci vuole anche la disponibilità a fare il salto nel vuoto, a fidarsi.

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Ho quella che gli psichiatri infantili inglesi chiamano “mother mind minded”, ossia

avere una testa che, oltre a pensare delle cose, ricomprende il mondo circostante, anche

inconsapevolmente. Non tutti lo fanno, e questa è la ragione per cui il nostro mondo è

segnato dal degrado. Mi piace occuparmi del benessere altrui, ma senza atteggiamenti

paternalistici.

Aggiungo la sensibilità, io sono uno che si espone e a volte mi espongo un po’ troppo

correndo il rischio di farmi male.

Infine, anche l’empatia, credo, mi sia stata d’aiuto, perché credo che la prevalenza degli

aspetti formali rischia di cortocircuitare la capacità di visione dei processi e dei

problemi reali.

4. Quanto sono state importanti le sue origine familiari e la rete delle sue relazioni

personali rispetto al suo percorso professionale e alla sua “carriera”?

Mi sono tornati utili tanti elementi delle vicende professionali di mio padre e di mia

madre. Vengo da un famiglia piccolo borghese, e non dimenticherò mai le ragioni per le

quali esisto; conosco la sofferenza, quindi mi interessano di più i processi immateriali,

tra i quali necessariamente il senso di appartenenza allo Stato, il senso filosofico della

funzione del pubblico potere. Chi lavora nello Stato deve avere questa percezione.

5. Quali sono state le figure cruciali (“maestri” e/o “anti-maestri”) per la sua

formazione e la sua carriera?

Sicuramente [nome e cognome del “maestro”], perché persona molto diversa da me. E’

un laico di formazione marxista e in parte ebraica. Io sono invece uno che ha una

formazione più cattolica… personalistica…

La sua capacità di lavoro e soprattutto di lui ammiro l’irriducibilità alla figura

stereotipata del burocrate, nonché la straordinaria capacità di valorizzare chi gli sta

attorno.

E’ una persona che sa riconoscere se di una materia non sa nulla, vale a dire che lascerà

che la persona competente si possa esprimere. Inoltre credo che ci possano essere tanti

maestri, ma bisogna possedere la predisposizione ad apprendere da tutti, anche

dall’autista..

6. La sua storia è una storia (anche) di “cambiamento/i”? Che cosa è per lei il

cambiamento e che cosa significa?

Elaborare il lutto. Il cambiamento ti costringe a rimettere in discussione esperienze,

affetti, legami… quando cambi devi elaborare lutti. Quando ho lasciato il mondo del

sociale… la casa famiglia in cui sono state per sette anni… ho dovuto elaborare questo

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lutto. Sono sempre disponibile al cambiamento a patto che… non lo so se possiamo

davvero cambiare. Per esempio io sono arrivato alla dirigenza generale per le mie

conoscenze specifiche perché ho sostituito il collega che era qui prima di me. Se avessi

avuto un profilo meno definito forse la scelta sarebbe andata su qualcun altro… In

questo senso la specializzazione che non può cambiare è un elemento di successo. Non

so se è un fattore di buona gestione.

7. Si sente in generale soddisfatto della sua carriera? Quale erano le sue

aspettative di fondo all’inizio?

L’esercizio di una assunzione di responsabilità è una cosa particolare… non so come

dirle ma io non ho dato una direzione alla mia vita per raggiungere certi scatti di

carriera, ho vissuto un processo di induzione alla carriera perché è sempre prevalso

l’interesse alle cose e di saperle bene non come tutti gli altri.

Ho avuto spesso l’idea che io stessi superando qualcosa… l’idea di andare su territori

mai percorsi prima… primo della mia famiglia a laurearsi… insomma molte cose sono

capitate.

Non c’è bisogno dell’ascesi, ma un po’ di ascesi ci vuole.

b) Area delle competenze

8. Quali sono a suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che

definiscono in modo appropriato la sua professione?

Le dobbiamo dividere in due: le caratteristiche della dirigenza della prima era e quelle

attuali.

Le caratteristiche delle dirigenza della “prima era” sono:

una grande capacità di galleggiamento, un non governo dei problemi vissuto all’insegna

della navigazione dei problemi, una scarsa sensibilità nei confronti dei cittadini come

termini di riferimento e una elevata attenzione all’ingerenza politica percepita come

alleata di carriera; una scarsa percezione della proprio ruolo nel senso che non ci si

configura ma ci si lascia configurare dal potere di turno…

Negli anni Ottanta invece è emersa una specie evoluta di dirigente pubblico che ha

percepito la possibilità del proprio esercizio del potere sia verso il politico (anche grazie

a una elevata mortalità delle formazioni di governo) sia verso i media… Prima la

dirigenza non aveva una esposizione alla opinione pubblica, dagli anni ottanta in poi

invece questa esposizione è aumentata molto.

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Questa dirigenza ha avuto un protagonismo mediatico sconosciuto in precedenza. In

questo periodo si è fatta molta immagine ma nessun empowerment. Sono stati però

iniziati percorsi importanti come questo della Scuola… le politiche riformiste che sono

iniziate negli anni Ottanta hanno avuto il merito di aver contribuito a rinnovare la P.A.

Poi c’è una terza fase iniziata nel’92 in cui il dirigente burocrate e faraone ha iniziato a

rispondere a necessità di managerializzazione: non basta essere all’apice di un sistema e

esercitare un potere per produrre risultati di cambiamento, ma occorre ridisegnare i

percorsi di carriera, i processi formativi, le logiche e le strategie di governo.

9. In quali competenze lei si riconosce maggiormente?

Il senso dello Stato… cioè il senso della funzione del pubblico potere rispetto alla

generalità. Se invece per senso dello stato intendiamo l’attaccamento al potere pubblico

è una cosa diversa… Lo Stato ha potere, interesse, ma guarda al bene comune o meglio

al bene di tutti e di ciascuno.Chi lavora nello Stato secondo me deve avere questa

attitudine, è quello che protegge dalla corruzione del potere.

10. Lei ritiene che la sua carriera abbia bisogno di aggiornamento continuo?

Certo sempre… soprattutto di tipo filosofico e questo lo dico ovviamente dal versante

della mia formazione. Comunque credo che non sia il curriculum di studi a determinare

l’aggiornamento prima e il successo poi nella professione ma fattori personali, come la

motivazione.

11. Esistono a suo avviso meccanismi efficaci di apprendimento (individuale e

collettivo) da sviluppare nelle Pubbliche Amministrazioni?

Occorre sviluppare sistemi di condivisione delle cosiddette migliori pratiche.

Bisognerebbe poi creare degli approcci di apprendimento dinamici che si basino sullo

scambio delle informazioni e delle esperienze molto più veloce e preciso di quelli che

possediamo, anche sulle applicazioni delle leggi.

12. In che cosa si sente diverso e in cosa si sente simile da un manager (dirigente)

di aziende private?

Io credo che ci siano similitudini, ma che le differenze siano molto maggiori. Oggi si fa

un gran parlare di management nel pubblico, ma temo che sia un modo per dimenticare

il senso dello Stato di cui parlavamo prima. Un manager privato può anche non averlo,

nostra caratteristica distintiva invece è questo senso dello Stato, senza di esso non siamo

altro che semplici commessi. Anche l’aziendalizzazione da questo punto di vista non ha

senso.

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13. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a suo avviso

una “cultura” peculiare? Se sì quale?

Stanno cambiando molte cose… come le dicevo abbiamo avuto tre periodi: quello del

dirigente faraone, quello del dirigente mediatico, quello del dirigente manager… ora

siamo in questa ultima fase e io personalmente sono al centro di questi cambiamenti.

Dal 95’ al 2000 sono state scritte anche col mio contributo diretto tutte le leggi più

importanti che disciplinano ciò di cui mi occupo, come la legge [numero della legge]

del ’98 che disegna per la prima volta un sistema di [oggetto della legge] e che investe

1100 miliardi dal ’98 al 2001… ed è una legge federalista in cui lo Stato esercita solo

funzioni di orientamento e controllo. La legge [numero della legge] del ’97 che mette

in campo un sistema di [obiettivo della legge]. Insomma siamo al centro di un grande

cambiamento… in cui attività periferiche si mescolano con quelle centrali.

14. Come ha vissuti i momenti critici della sua professione?

Tra i negativi decisamente le morti dei colleghi, e anche le invidie.

Vorrei avere un atteggiamento più lieve… vorrei essere più libero di essere quello che

sono: non posso dimenticarmi che per me la musica è un elemento distintivo e non

accessorio. Uno non è fatto solo di una etica ma anche di una estetica. Mi pesa quando

percepisci che per invidia una persona viene manipolata.

Una soddisfazione personale invece l’ho raggiunta quando abbiamo portato settemila

persone a [nome di una città italiana] per una conferenza nazionale su [oggetto della

conferenza]: fu una cosa enorme. Oppure quando è stato pubblicato qualcosa a cui

tenevo molto, ad esempio su riviste.

15. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse interne (cioè le sue

caratteristiche personali) oppure le risorse esterne (cioè le caratteristiche della

sua organizzazione)?

Sicuramente quelle interne… lo studio e la sofferenza… non ho una visione sacrificale,

ma conosco la sofferenza, penso che ci siano molte ragioni per cui esiste la sofferenza

(non solo di natura economica). Parlo di sofferenza sul lavoro ma non solo perché a me

interessano i processi immateriali. Lo studio, cioè la capacità di riflessione sul reale, mi

ha aiutato… quella la capacità di non fermarsi all’aspetto fenomenico, ma sentirsi

altrove pur sentendo di far parte della realtà, anche se stai nella “stanza dei bottoni”.

c) Area delle responsabilità e dell’eccellenza

16. Nella sua professione quali sono le responsabilità più frequenti che incontra?

Come vive su di sé queste responsabilità quotidiane?

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Direi esistenziali e morali… quando ci si occupa di politiche …….. … si toccano da

vicino mondi come [campi di intervento delle politiche cui ha fatto riferimento

prima]…Direi che il problema delle responsabilità è quello di farsi carico… Io penso di

appartenere a una generazione che ha ri-scoperto la necessità di farsi carico. Il che

significa anche una certa modalità di gestione del personale… se uno assume il fatto che

esiste un legame tra produttività, benessere delle persone e qualità della organizzazione

allora il processo di cui bisogna farsi carico non è solo quello organizzativo, ma anche

quello di accompagnare chi vive in un certo contesto di lavoro, il che significa anche

occuparsi del benessere degli altri… senza paternalismi o atteggiamenti da piccolo

padre.

Infine direi: gestire il potere. Credo che Tolkien avesse ragione quando diceva che il

potere è veramente questo anello che rischia di ucciderti nella vita e nella mente. Se ti

lasci prendere dalla burocrazia e dal potere viene ucciso nell’animo, perdi l’orizzonte di

senso.

17. Lei ritiene che il suo percorso professionale sia in qualche modo incompiuto?

Assolutamente sì… soprattutto oggi che per vari motivi siamo nell’occhio del ciclone…

Questa mia struttura è nuova e si confronta con modificazioni costanti, non siamo noi i

protagonisti… non siamo noi che chiediamo di riscrivere l’articolo 18 o la sua

modifica… per cui bisogna sempre conoscere cose nuove.

18. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del

“rendimento” dei risultati ottenuti da un dirigente della Pubblica

Amministrazione?

Lo sforzo di legare insieme i risultati della responsabilità del dirigente con i percorsi in

cui si realizza questa responsabilità non è ancora compiuto. Si sconta una deriva

inerziale dell’amministrazione pubblica e questo sforzo tocca proprio i dirigenti.

19. In conclusione, cosa – secondo lei – è l’eccellenza nella sua professione e come

si manifesta all’interno di un contesto professionale come la Pubblica

Amministrazione?

L’eccellenza si raggiunge quando un individuo è in contatto con se stesso: è eccellente

chi riesce a coniugare la facoltà organizzativa con il proprio pensiero.

Deve fare quello che fa non solo perché deve farlo, ma per una ragione profonda che

non è tautologica. Può essere estetica, politica, etica, ma deve essere allocentrica.

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E’ bene che vi sia capacità di relazione con le persone, in senso moderno, cioè che non

faccia male ali altri, ad esempio mobbing involontario. Occorre che si capisca davvero

che ogni volta che si sta insieme agli altri si ha a che fare con la loro psiche, che ci si

trova al centro di proiezioni…. Il processo di qualità riguarda anche le relazioni. Ho

incontrato tali mostri…

E poi ci sarebbe la dirigenza senza quelli che vengono diretti? Non ci sarebbe dirigenza

senza quelli che vengono diretti. Se ti senti altro a prescindere, non sei dirigente, ma un

consulente.

2.2. Intervista autobiografica n. 2

a) Area del cambiamento 1. Può raccontarci quale è stato il suo percorso professionale e come ha raggiunto

la sua attuale posizione all’interno della pubblica amministrazione?

Il mio approccio nella P.A. nasce non nello Stato ma nel mondo ospedaliero. Appena

laureato ho tentato di entrare nel mondo privato, avrei dovuto entrare in [nome di una

società], ma avevo il militare di mezzo… finito il militare l’[nome della precedente

società] era ancora disponibile ma nel frattempo era andata in crisi. Mi sono laureato in

Scienze Politiche e poi ho tentato alcuni concorsi. Sono arrivato alla direzione del

personale nell’ospedale di […] come capo del personale. Ho scelto quest’ambito perché

più simile ad un’azienda privata nel contesto del pubblico impiego. Dopo altri concorsi

sono passato all’ospedale di […] sempre con funzioni di direzione personale. Poi mi

sono spostato dalla Lombardia al Friuli.

Rientrato in [una regione italiana], ho partecipato al concorso per un posto da Segretario

Generale, sfruttando la riforma della [settore della pubblica amministrazione]. Sono

diventato Segretario Generale molto giovane: avevo 32 anni. Così sono passato ad

un’attività di supporto al Ministro di [settore della pubblica amministrazione]

sviluppando il primo contratto nazionale collettivo per il personale di servizio […]; è

stato uno dei lavori più complessi che ho svolto. Poi nell’86 ho avuto la nomina a

Direttore Generale presso il Ministero di [settore della pubblica amministrazione]. Devo

dire la verità: ho accettato quella nomina, che non mi interessava, solo perché avevo la

necessità di stabilizzare la mia posizione gerarchica. Il Ministero di [settore della

pubblica amministrazione] era appena nato e quindi… diciamo che è stata un’esperienza

interessante e gradevole. Presuntuosamente è stata un’esperienza che mi ha dato la

consapevolezza personale di poter fare tutto. Perché il mio primo incarico è stato quello

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di Direttore del servizio [nome del servizio], che per me era un argomento del tutto

sconosciuto. L’ho accettata anche perché mi interessava la difesa di [missione del

servizio], la conservazione di […]. E dall’86 al 99 sono stato al Ministero di [settore

della pubblica amministrazione]… nel 99 sono stato messo a disposizione del ruolo

unico. Io ho sempre fatto questo mestiere rivendicando l’esercizio del ruolo. In realtà

sono stato a casa… mi sono autodenunciato alla Corte… l’ho fatto non per creare

problemi al Ministero, ma solo perché avendo imparato come funziona tutta la

macchina non volevo realizzare le condizioni perché qualcuno un domani mi potesse

chiedere: “cosa facevi a casa?” Poi nel marzo 2001 sono stato ripescato dal Ministero di

[settore della pubblica amministrazione] e credo che ciò sia avvenuto per motivi di

anzianità perché non c’è stata altra ragione per la chiamata. L’impatto con il mondo di

[settore della pubblica amministrazione] è stato molto gratificante… anche se è un

mondo alquanto strano, perché non coincide con la mia idea di Amministrazione e non

si concilia nemmeno con le mie esperienze pregresse. E’ un mondo nel quale si dicono

tante parole, si progetta molto, ma si fa poco. E devo dire che è esattamente l’opposto

delle mie esperienze, soprattutto con quella ospedaliera dove la risposta andava data

sempre e comunque.

2. In questa sua storia professionale che cosa è rimasto come prima (di lei e della

sua vita) e che cosa è cambiato?

E’ cambiato ovviamente il contesto esterno… ma non quello interno. Io ho mantenuto

sempre le mie caratteristiche comportamentali e per cui alla fine finisco sempre per

apparire un diverso. Cioè è anomalo che io pretenda il rispetto delle norme, che io

risolva i problemi, che io risponda il giorno dopo… questo sicuramente non viene

apprezzato.

3. Secondo lei, quali sono state le caratteristiche della sua personalità (o

carattere) che l’hanno favorita e quelle che l’hanno svantaggiata nella sua

storia professionale?

Credo che ad aiutarmi sia stata quella che io definisco una certa duttilità nei

comportamenti e la disponibilità a spostarmi fisicamente. Però poi dal punto di vista

operativo in molte circostanze la mia duttilità nell’operare mi ha creato qualche

problema… Se posso fare un esempio: nel mondo ospedaliero la figura del Segretario

Generale è molto particolare. Faceva parte del Consiglio di Amministrazione, senza il

diritto di voto ma partecipava in toto alla responsabilità… una anomalia. Per essere

esonerati dalla responsabilità bisognava esprimere dissenso motivato. Allora, molte

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volte mi è successo di esprimere dissenso motivato. Lì esisteva una sorta di equilibrio

tra l’essere duttili e il non esserlo…

Nello Stato degli ultimi anni ciò non è più possibile. Il Dirigente è totalmente

prigioniero della politica.

4. Quanto sono state importanti le sue origine familiari e la rete delle sue relazioni

personali rispetto al suo percorso professionale e alla sua “carriera”?

Non mi sono lasciato condizionare molto perché c’erano tutte le realtà. Le mie origini

non mi hanno influenzato. Nella mia famiglia c’erano tanti tipi di esperienza: libera

professione, ambito pubblico e ambito privato.

5. Quali sono state le figure cruciali (“maestri” e/o “anti-maestri”) per la sua

formazione e la sua carriera?

Come maestro sicuramente direi il Segretario Generale dell’ospedale di […]; anche se

non ho mai avuto la fortuna di collaborare strettamente con lui, ho visto come aveva

attuato la riorganizzazione. L’ho ritrovato a distanza di alcuni anni quando abbiamo

lavorato per la costituzione del Contratto Nazionale. Però questo è un ragionamento che

sto facendo adesso a posteriori… perché non me lo ero mai posto. Credo l’esperienza

che ho visto attraverso di lui mi abbia consentito di ripensare molte vicende

riorganizzative che ho vissuto successivamente.

[Nome dell’Ospedale] è stato un momento molto importante della mia vita lavorativa.

6. Si sente in generale soddisfatto della sua carriera? Quale erano le sue

aspettative di fondo all’inizio?

Non lo so. Non lo so perché francamente credo che occorre una presa di coscienza

soprattutto da parte di chi svolge una attività di gestione per conto dello Stato deve

avere una sua indipendenza vera e questo non c’è… per cui non so se posso dirmi

soddisfatto.

b) Area delle competenze

7. Quali sono a suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che

definiscono in modo appropriato la sua professione?

La capacità di lavorare finalizzando l’azione all’obiettivo, rendere coerenti qualsiasi

azione all’obiettivo di riferimento. Le regole sono fatte per essere rispettate, e se non

vanno bene vanno modificate, mai infrante. Il dirigente ha il dovere di prendere contatto

con i bisogni della collettività e poi cercare di fornire le risposte migliori.

8. In quali competenze lei si riconosce maggiormente?

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In tutte quelle che ho detto... Non si fanno assenze sulle regole. Personalmente odio

quando ricevo risposte incomplete, quindi cerco di non commettere mai questo errore.

9. Lei ritiene che la sua carriera abbia bisogno di aggiornamento continuo?

Si. Ci dovrebbe essere poi un orientamento molto più grande nell’amministrazione.

10. Esistono a suo avviso meccanismi efficaci di apprendimento (individuale e

collettivo) da sviluppare nelle Pubbliche Amministrazioni?

Credo che la Dirigenza mediamente abbia presenti i suoi criteri e doveri di lavoro e

cerchi di applicarli… apprendendo sul lavoro. C’è forse un’altra cosa che va in negativo

che è l’incapacità di resistere ad alcune pressioni. Certo le condizioni del contesto non

sono fatte per resistere.

11. In che cosa si sente diverso e in cosa si sente simile da un manager (dirigente)

di aziende private?

Molte cose… tanto è vero che credo che non si possa veramente parlare nel pubblico di

privatizzazione. Quando lei sta in una azienda privata, lei ha comunque qualcuno che

investe e rischia in proprio e che alla fine è giustamente legittimato a dire l’ultima

parola. Nel pubblico non è così. Perché il ministro non è il proprietario. Il proprietario è

il cittadino comune.

12. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a suo avviso

una “cultura” peculiare? Se sì quale?

Non mi sono mai posto il problema… ma visto che me lo pone credo di sì. Dovrebbe

essere la gestione dell’ordinarietà, ma il quotidiano non è oggetto dell’attenzione

politica. La cultura peculiare si basa su un paradosso. Ciascuna struttura

dell’Amministrazione dovrebbe rispondere ai bisogni degli utenti, ma nessuno osserva

questi bisogni. Allora io posso essere bravissimo nell’attuare tutte le direttive e non aver

fatto niente per la vita ordinaria. E viceversa posso essere un pessimo direttore perché

ho soddisfatto tutti i bisogni, ma non sono stato capace di svolgere e conseguire

l’obiettivo particolare che mi era stato consegnato. Complessivamente credo però che ci

sia stato un peggioramento. E’ per questo che molti dirigenti sono andati via e hanno

fatto il salto nel privato.

13. Come ha vissuto i momenti critici della sua professione?

I momenti critici nel mio percorso sono stati legati o a ingerenze politiche o

problematiche personali che potevano venire o dall’alto o dal collega perché si

innescano momenti di conflittualità. Li ho vissuti e basta.

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14. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse interne (cioè le sue

caratteristiche personali) oppure le risorse esterne (cioè le caratteristiche della

sua organizzazione)?

Le risorse interne. Come le dicevo prima ho una grande duttilità sia mentale che

comportamentale e questo mi ha permesso di reagire e andare avanti.

c) Area delle responsabilità e dell’eccellenza

15. Nella sua professione quali sono le responsabilità più frequenti che incontra?

Come vive su di sé queste responsabilità quotidiane?

Nei diversi lavori che mi sono trovato a fare devo dire che esiste un filo conduttore: la

supremazia della parte comportamentale sulla questione tecnica. Cioè i lavori che ho

fatto e quindi le responsabilità conseguenti richiedevano tutti un alto livello di capacità

relazionale.

16. Lei ritiene che il suo percorso professionale sia in qualche modo incompiuto?

Come le dicevo non so se posso dirmi soddisfatto della mia carriera per cui non saprei

cosa rispondere a questa domanda.

17. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del

“rendimento” dei risultati ottenuti da un dirigente della Pubblica

Amministrazione?

Credo che questo ragionamento si possa fare solo se si trovano degli indicatori idonei

oltre che congruenti... non le saprei rispondere sugli indicatori giusti da adottare, forse

dovrebbero essere trovati indicatori settore per settore. Non è possibile pensare che ciò

che vale nel mondo della Sanità valga anche nel mondo dell’Istruzione. Non credo che

oggi il meccanismo che si è messo in piedi, il controllo di gestione, non aiuta i dirigenti.

18. In conclusione, cosa – secondo lei – è l’eccellenza nella sua professione e come

si manifesta all’interno di un contesto professionale come la Pubblica

Amministrazione?

L’eccellenza appartiene a coloro i quali sono capaci di osservare il quadro normativo di

riferimento e rispondere al meglio ai bisogno che i cittadini esprimono. Da un certo

punto di vista direi anche la qualità con la quale soddisfano le risposte del Ministro pro

tempore. E infine capire sempre quale misura di riferimento si vuole adottare, nel senso

che possono esistere diversi tipi di eccellenza.

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2.3 Intervista autobiografica n. 3

a) Area del cambiamento 1. Può raccontarci quale è stato il suo percorso professionale e come ha raggiunto

la sua attuale posizione all’interno della pubblica amministrazione?

Mi sono laureata in Economia e Commercio in tre anni accademici e una sessione (devo

dire che ho accelerato i tempi ), ho sostenuto l’esame di stato per l’abilitazione alla

professione di Dottore Commercialista, ho poi partecipato al corso-concorso della

Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione per il reclutamento di funzionari. Ho

lavorato per diversi anni presso il Ministero del …., occupandomi di bilancio e

programmazione economica; successivamente ho vinto il concorso pubblico di

Dirigente presso il Ministero de …... Nell’arco di questi otto anni ho partecipato ad

iniziative formative bandite dalla S.S.P.A., seminari tematici in materia economica e di

contabilità pubblica e corsi di formazione per formatori. E’ stato un buon volano per

l’espletamento della mia attività professionale. Si è sviluppato, tra l’altro, il concetto di

rete: conoscendo persone con diverse competenze mantengo tuttora rapporti di scambio

con altre amministrazioni e settori. Ho inoltre avuto la possibilità di tornare in ambito

universitario come Cultore della Materia per la cattedra di Economia Pubblica e tuttora

questa attività mi è utile per tenermi aggiornata.

Ho preso poi servizio nel ….. nel Ministero de …., in qualità di dirigente

amministrativo e sono stata poi richiamata dal Ministero de …, che è la mia vecchia

amministrazione, per sottoscrivere il contratto.

Richiamata poi al Ministero de … con ruolo dirigenziale presso il Servizio …., mi

occupo della gestione di un programma operativo di assistenza tecnica.

2. In questo sua storia professionale che cosa è rimasto come prima (di lei e della

sua vita) e che cosa è cambiato?

Tutti gli obiettivi che mi sono posta da dopo la laurea hanno seguito una certa

continuità, tranne alcune attività di maggiore intraprendenza, cose che comunque non

mi hanno impedito di avviare e percorrere progetti di tipo anche familiare,

raggiungendo degli obiettivi anche personali, quindi.

3. Secondo lei, quali sono state le caratteristiche della sua personalità (o

carattere) che l’hanno favorita e quelle che l’hanno svantaggiata nella sua

storia professionale?

Tenacia, capacità, volontà, carattere.

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4. Quanto sono state importanti le sue origine familiari e la rete delle sue relazioni

personali rispetto al suo percorso professionale e alla sua “carriera”?

La mia famiglia è stata determinante, ha consentito di farmi studiare fino all’assunzione

nel Servizio Pubblico senza dover ricorrere ad altri strumenti e mi ha aiutata a crearmi

una mia personalità, elemento fondamentale per raggiungere l’autonomia.

5. Quali sono state le figure cruciali (“maestri” e/o “anti-maestri”) per la sua

formazione e la sua carriera?

Molti professori sia del corso di laurea, sia del corso di Reclutamento della Scuola

Superiore della P. A. mi hanno trasmesso una buona dose di positività e mi hanno

insegnato ad interpretare i documenti di finanza pubblica e, in questo modo a costruire

la mia carriera.

Altri maestri sono stati tutti i ministri che partecipavano alle riunioni politiche quando

lavoravo nella Segreteria del … e che mi hanno dato la possibilità di approfondire

aspetti fino a quel momento estranei.

6. La sua storia è una storia (anche) di “cambiamento/i”? Che cosa è per lei il

cambiamento e che cosa significa?

L’educazione alla flessibilità per me è subentrata solo in un secondo momento,

successivo all’ingresso nella P.A., coincidente con il Corso di Formazione per

Formatori. Fino a quel momento avevo una rigidità di interpretazione dei segnali, che

progressivamente è stata smussata nei due anni di Corso. Anche l’esperienza dell’aula,

la necessità di controllare le emozioni educando l’atteggiamento, mi hanno migliorata e

mi è dispiaciuto non poter attuare l’attività di formatore nel mio campo.

7. Si sente in generale soddisfatto della sua carriera? Quale erano le sue

aspettative di fondo all’inizio?

Sicuramente sono molto soddisfatta, sicuramente anche gli aspetti economici hanno

accompagnato le motivazioni e le aspettative iniziali.

b) Area delle competenze

8. Quali sono a suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che

definiscono in modo appropriato la sua professione?

Differiscono rispetto a quelle di un Funzionario pubblico in quanto un Dirigente ha una

responsabilità diretta, personale, patrimoniale. Il Dirigente sottoscrive un contratto col

Direttore Generale, in questo contratto sono indicati obiettivi, strumenti e risorse e

risponde del raggiungimento dei risultati, similmente al settore privatistico. Inoltre,

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gestire il personale ed agire tramite altri, creare sintonia nel proprio ufficio è molto

difficile.

9. In quali competenze lei si riconosce maggiormente?

Credo di essere molto determinata, di essere dotata di competenze acquisite con lo

studio e l’impegno.

10. Lei ritiene che la sua carriera abbia bisogno di aggiornamento continuo?

Certamente

11. In che cosa si sente diverso e in cosa si sente simile ad un manager di aziende

private?

Non avendo avuto esperienze dirette nel settore privatistico, non le saprei rispondere.

12. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a suo avviso

una “cultura” peculiare? Se sì quale?

La P.A. ha avuto una “cultura peculiare” in passato, adesso, cominciando a parlare di

privatizzazione del Pubblico Impiego, è stata messa in secondo piano; certe logiche

vengono ora interpretate in maniera più flessibile e vengono superate tante rigidità,

continuando però ad attenersi a certe disposizioni.

13. Come ha vissuto i momenti critici della sua professione?

I momenti per me maggiormente critici sono stati i momenti di stasi derivanti da

incertezze. Quando si parlava di accorpamenti, si notava del pessimismo diffuso tra i

superiori gerarchici che si ripercuoteva su tutto il personale e che si cercava di

combattere aspirando a dei miglioramenti attraverso la partecipazione a dei concorsi.

E’ fondamentale mantenere l’ottimismo anche nelle situazioni estremamente critiche e

negative, trovare gli aspetti positivi per riuscire a produrre prodotti positivi.

Un altro fattore vincente è l’immedesimazione organica, avere la consapevolezza che il

proprio successo sia legato a quello dell’azienda.

14. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse interne (cioè le sue

caratteristiche personali) oppure le risorse esterne (cioè le caratteristiche della

sua organizzazione)?

Determinazione e forza di volontà.

c) Area delle responsabilità e dell’eccellenza

15. Lei ritiene che il suo percorso professionale sia in qualche modo incompiuto?

Non si è mai arrivati, e mai finiscono gli esami. Mi pongo obiettivi più alti di me per

non appiattirmi sul presente.

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16. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del

“rendimento” dei risultati ottenuti da un dirigente della Pubblica

Amministrazione?

E’ già possibile la valutazione del rendimento, soprattutto in termini quantitativi

(numero di procedimenti amministrativi conclusi, numero di procedimenti avviati che

prevedono un certo numero di istruttorie… ).

E’ misurabile il rendimento, tanto è vero che la nostra retribuzione consta di una parte

fissa e di una variabile a seconda del merito. Anche la possibilità di trasferimento dei

dirigenti che non raggiungono gli obiettivi, è da salutare favorevolmente, perché sprona

al miglioramento e al perseguimento dell’efficienza dell’amministrazione.

17. In conclusione, cosa – secondo lei – è l’eccellenza nella sua professione e come

si manifesta all’interno di un contesto professionale come la Pubblica

Amministrazione?

L’eccellenza si manifesta in una carriera già di per sé eminente, risultato di una

combinazione di elementi tra cui la componente del tempo impiegato per arrivare ad

una certa posizione. Altre componenti sono invece riferibili all’atteggiamento e non

sono percepibili dalle carte, sono quindi da valutare attraverso il contatto.