Parigi una breve estate

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«Prendetevi tutto, anche quello che scrivo, / m’ap- poggio a un ulivo, / sono in paese cristiano». Come i versi dell’amato Betocchi, le pagine di Angela Giannitrapani regalano al lettore tutta l’esperienza di una vita, racchiusa nel tempo breve di una va- canza a Parigi. «Prendetevi tutto, – annota – anche queste simmetrie che ora strade e stradine e dia- gonali e parallele mostrano, acini stretti nel grap- polo…» Mentre percorre, di piazza in via, di caffè in albergo, le geometrie di Parigi, un’analoga geome- tria di parole nasce sulla pagina. E Parigi si rinnova, dopo secoli di letteratura e di stupori d’arte, nelle sensazioni dolci e dolorose della scrittrice venuta dal paese del tufo e dell’olivo. 12,00 AL BUON CORSIERO PARIGI, UNA BREVE ESTATE DIABASIS ANGELA GIANNITRAPANI Nata nel 1925, laureata in Lettere all’Università di Roma, Angela Giannitrapani ha insegnato a Reading e a Los An- geles; rientrata in Italia, è stata Professore Ordinario di Letteratura Angloamericana alle Università di Messina e poi di Viterbo. Ha pubblicato quattro raccolte di versi (Professione di poesia, 1968; Poesia come seconda lingua, 1970; Popolo sognante, 1977; Caro umano percorso, 1983) e due volumi di racconti (La giovane laica, 1972, premiato a Venezia; L’ala di Dürer, 1992). La sua ampia produzione critica prende in esame soprattutto autori angloamericani: Wistaria. Studi Faulkneriani, 1963; Destination tomb (de- dicato a Beckett), 1971; Un modo di leggere, 1972; I primi racconti di Dylan Thomas, 1973; Pantheon dell’Ottocento americano, 1979; Woodcraft, 1979; Francis Parkman e la fleur de lis, 1984; Memoria critica, 1995; altri contributi, su scrittori americani e italiani, sono apparsi in rivista. Ha collaborato alla Terza pagina di «Paese Sera» e diretto varie riviste letterarie: «Tempo di Letteratura», «Tabella di marcia», «Malavoglia», «The Blue Guitar». Dalla collana AL BUON CORSIERO Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan Manlio Cancogni, L’impero degli odori Manlio Cancogni, Caro Tonino Manlio Cancogni, Gli scervellati Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura Silvio D’Arzo, Casa d’altri. Il libro Stefano Scansani, L’Amor morto Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu Gino Montesanto, Cielo chiuso Tano Citeroni, Il canto del verzellino Giorgio Messori, Nella Città del Pane e dei Postini Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio Salimbene de Adam, Cronaca Antonio Bassarelli, Di Elena e dell’ombra Antonio Bassarelli, La trovatura Giacomo Scotti, Racconti dalla Bosnia Nicolas Bouvier, Diario delle isole Aran Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti Eça De Queirós, La corrispondenza di Fradique Mendes Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema Giorgio Prodi, L’opera narrativa ANGELA GIANNITRAPANI PARIGI, UNA BREVE ESTATE DIABASIS

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«Prendetevi tutto, anche quello che scrivo, / m'appoggio a un ulivo, / sono in paese cristiano». Come i versi dell'amato Betocchi, le pagine di Angela Giannitrapani regalano al lettore tutta l'esperienza di una vita, racchiusa nel tempo breve di una vacanza a Parigi. «Prendetevi tutto, – annota – anche queste simmetrie che ora strade e stradine e diagonali e parallele mostrano, acini stretti nel grappolo…» Mentre percorre, di piazza in via, di caffè in albergo, le geometrie di Parigi, un'analoga geometria di parole nasce sulla pagina. E Parigi si rinnova, dopo secoli di letteratura e di stupori d'arte, nelle sensazioni dolci e dolorose della scrittrice venuta dal paese del tufo e dell'olivo.

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«Prendetevi tutto, anche quello che scrivo, / m’ap-poggio a un ulivo, / sono in paese cristiano». Come i versi dell’amato Betocchi, le pagine di Angela Giannitrapani regalano al lettore tutta l’esperienza di una vita, racchiusa nel tempo breve di una va-canza a Parigi. «Prendetevi tutto, – annota – anche queste simmetrie che ora strade e stradine e dia-gonali e parallele mostrano, acini stretti nel grap-polo…» Mentre percorre, di piazza in via, di caffè in albergo, le geometrie di Parigi, un’analoga geome-tria di parole nasce sulla pagina. E Parigi si rinnova, dopo secoli di letteratura e di stupori d’arte, nelle sensazioni dolci e dolorose della scrittrice venuta dal paese del tufo e dell’olivo.

€ 12,00

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Nata nel 1925, laureata in Lettere all’Università di Roma, Angela Giannitrapani ha insegnato a Reading e a Los An-geles; rientrata in Italia, è stata Professore Ordinario di Letteratura Angloamericana alle Università di Messina e poi di Viterbo. Ha pubblicato quattro raccolte di versi (Professione di poesia, 1968; Poesia come seconda lingua, 1970; Popolo sognante, 1977; Caro umano percorso, 1983) e due volumi di racconti (La giovane laica, 1972, premiato a Venezia; L’ala di Dürer, 1992). La sua ampia produzione critica prende in esame soprattutto autori angloamericani: Wistaria. Studi Faulkneriani, 1963; Destination tomb (de-dicato a Beckett), 1971; Un modo di leggere, 1972; I primi racconti di Dylan Thomas, 1973; Pantheon dell’Ottocento americano, 1979; Woodcraft, 1979; Francis Parkman e la fl eur de lis, 1984; Memoria critica, 1995; altri contributi, su scrittori americani e italiani, sono apparsi in rivista. Ha collaborato alla Terza pagina di «Paese Sera» e diretto varie riviste letterarie: «Tempo di Letteratura», «Tabella di marcia», «Malavoglia», «The Blue Guitar».

Dalla collana AL BUON CORSIERO

Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan

Manlio Cancogni, L’impero degli odori

Manlio Cancogni, Caro Tonino

Manlio Cancogni, Gli scervellati

Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta

Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura

Silvio D’Arzo, Casa d’altri. Il libro

Stefano Scansani, L’Amor morto

Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu

Gino Montesanto, Cielo chiuso

Tano Citeroni, Il canto del verzellino

Giorgio Messori, Nella Città del Pane e dei Postini

Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio

Salimbene de Adam, Cronaca

Antonio Bassarelli, Di Elena e dell’ombra

Antonio Bassarelli, La trovatura

Giacomo Scotti, Racconti dalla Bosnia

Nicolas Bouvier, Diario delle isole Aran

Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre

Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore

Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI

Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini

Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti

Eça De Queirós, La corrispondenza di Fradique Mendes

Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema

Giorgio Prodi, L’opera narrativa

ANGELA GIANNITRAPANIPARIGI, UNA BREVE ESTATE

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In copertinaParticolare dell’Ile de la Cité, dal Plan de Turgot, Paris 1739

Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 652 3

© 2009 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it

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Angela Giannitrapani

Parigi, una breve estateA cura di Marina Giaveri

D I A B A S I S

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Angela Giannitrapani

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Introduzione, Marina Giaveri

Nota biografica

Capitolo ILetargico bellissimo

Capitolo IILa perla

Capitolo IIISu questa pietra

Capitolo IVMio giovane amico

Capitolo VCharbon

Capitolo VIPierrot

Capitolo VIIMuch of the night

Capitolo VIIIStoria-memoria

Capitolo IXPiccolo dolore antico

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Introduzione

Me ocurría a veces que todo se dejaba andar, se ablanda-ba y cedía terreno, aceptando sin resistencia que se pu-diera ir así de una cosa a otra. Digo que me ocurría, aun-que una estúpida esperanza quisiera creer que acaso hade ocurrirme todavía. […]Quién sabe cuánto hace que me repito todo esto, y espenoso porque hubo una época en que las cosas me su-cedían cuando menos pensaba en ellas, empujando ape-nas con el hombro cualquier rincón del aire.

Julio Cortázar

A volte ti capita che tutto si sfrangi, si ammorbidisca e ce-da terreno, accettando senza far resistenza che si possa pas-sare da una cosa all’altra. Accade quando meno te lo aspetti,al solo spingere con le spalle, come dice Cortázar, un qualsia-si angolo dell’aria.

Accade mentre passeggi in una città ben nota, che d’im-provviso – per una luce inconsueta, in uno scorcio diverso –non ritrovi più; accade mentre attraversi una città conosciutain un tempo lontano, e un ricordo ti afferra a un crocevia; ac-cade mentre percorri una città a te nuova, quando un nome distrada ti immerge nelle pagine dei tanti libri letti, ed eccoun’altra città, fatta di parole, di immagini e di immaginazione,diventare la tua città.

Accade tutto questo nel libro di Angela Giannitrapani. Lei passeggia a Parigi nell’estate del 1992. Un piccolo al-

bergo è il centro di piccoli percorsi affaticati – “da panchinaa panchina, quasi trascinandosi” – fra il V e il VI arrondisse-ment, nel cuore del quartiere che è stato degli studenti, degliscrittori, degli editori. Ed ecco una città fatta di carta e di pa-role distendersi ai suoi piedi, dilatando il cerchio magico delQuartiere Latino, traversando la Senna, toccando Arles eRouen, spingendosi oltre le Alpi, oltre l’Oceano.

Poiché di panchina in panchina – di strada in strada, di giar-dino in giardino – parole di poeti rinviano ad altre parole di

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poeti; poiché il muro di una chiesa, l’angolo di un palazzo fan-no nascere architetture letterarie intessute di sangue e di me-raviglia, come il racconto di Flaubert Saint Julien l’hospitalierrievocato dalla piccola chiesa medievale dedicata al Santo; poi-ché le forme austere del Musée de Cluny non racchiudono so-lo la Dame à la licorne ma il ricordo amoroso di un incontro av-venuto nel passato, alonato dalla leggenda del maggio ’68; poi-ché, grazie a un verso di Betocchi, la luminosità dell’estate pa-rigina può condurre nelle campagne di un’infanzia viterbese,anch’essa fatta di chiese medievali e di limpidi azzurri estivi.

Un testo si può percorrere in molti modi: il primo percor-so di Parigi, una breve estate può essere appunto quello di unapasseggiata parigina, quella flânerie fra piazze e boulevards elungosenna trasformatasi in mito letterario caro a WalterBenjamin. Anche il ritmo della scrittura, qui denso di riferi-menti, là dilatato nello spazio bianco di una pagina, ricordaun poco una planimetria urbana di Parigi, nelle belle formeassunte di secolo in secolo sotto la matita dei disegnatori o ilbulino degli incisori: visioni della città a volo d’uccello, inca-stri di edifici e di alberi, scacchiere di isolati abitativi e ampispiazzi a corona di monumenti.

Si dice che, nell’inventare la modernità di Parigi, a metàdell’Ottocento, Haussmann si fosse ispirato ai criteri di orga-nizzazione urbana che avevano presieduto le scelte della Ro-ma papale, centro di secolari pellegrinaggi: una ragnatela dipercorsi convergenti verso i luoghi di culto, favoriti da una re-te di segni urbani – fontane, pinnacoli, obelischi. Anche se ilpellegrinaggio parigino dello scrittore moderno è solitario, glispazi urbani ne assecondano in analogo modo il procedere,inventando piazzette dal fascino riposante, distribuendo ne-gozi e banchetti di bouquinistes, trasformando in salotti i pas-sages nati da esigenze commerciali. I luoghi vibrano di storia,esibiscono orgogliosamente i secoli passati, gli incontri-scon-tri che li hanno illustrati, i nomi che li hanno e vi si sono resi fa-mosi. Camminare a Parigi è immergersi nella gloria.

Parimenti, percorrere il testo di Angela Giannitrapani è se-

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guire un alternarsi di densi tessuti letterari, di brevi folgoran-ti vedute, di bianchi spiazzi di silenzio.

“Da panchina a panchina, quasi trascinandosi” il suo passosegna e percorre uno spazio conchiuso: un giardinetto, unframmento di quartiere. I nomi che si affacciano sulla paginabalzano attraverso i secoli, ma traversano appena il confine frail V e il VI arrondissement: il nucleo medievale costituito dal-la chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre e dal Musée de Cluny, il ver-de tributo rinascimentale del Jardin du Luxembourg, i caffè araggiera intorno all’Odéon, dove i filosofi settecenteschi han-no discusso di stato e di religione, di civiltà e di civismo. I pas-si si allontanano di poco dall’albergo di rue Delavigne, nel tri-dente di strade disegnato dall’aristocratica lottizzazione di fi-ne Settecento; ed è forse solo il ricordo a ripercorrere lo sce-nario di un incontro avvenuto venti anni prima, ad attraversa-re la Senna per aggirarsi fra le strade del Marais, entro le son-tuose dimore del Grand Siècle trasformate in archivi e in mu-sei, nella piazza regale che Napoleone ribattezzò “des Vosges”in onore del Departement più sollecito nei tributi.

La minuscola Parigi di Angela Giannitrapani non è la Pari-gi turistica di tanti viaggi italiani (pur essendo una Parigi affer-rata in un viaggio profondamente italiano): nessuna Tour Eif-fel fora l’orizzonte, nessun Louvre incolonna le folle in attesa,nessuna mandria di consumatori strascica i piedi doloranti suimarciapiedi degli Champs Elisées. È la Parigi appresa dalle pa-gine amate: “Era tuttora la città di Balzac, Baudelaire, Hugo,Delacroix, Nerval…”. Mito, capitale del XIX secolo, vera pro-tagonista del romanzo ottocentesco – come è stata giustamen-te definita – Parigi si disegna nelle parole di infiniti libri lettinell’infanzia, studiati a scuola, percorsi nelle ore di viaggio, diriposo o di attesa; città di carta, si è detto, o – come nella visio-ne di Victor Hugo – libro essa stessa: libro di pietra.

Le pagine amate invitano ad altre pagine, moltiplicandolingue e lettere: pagine nuove nascono nella camera del pic-colo hotel, dilatando lo spazio e afferrando il tempo – queltempo che una emorragia stillante, una paura solitaria e bra-

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vamente celata, un assottigliarsi delle forze nella sofferenzarendono precario.

Lo spazio urbano, lo sappiamo, è in realtà l’umano spaziodisegnato dal corpo che vi si muove, animandone i percorsi; eil momento della vacanza parigina è, per Angela Giannitra-pani, anche quello in cui il corpo si è scoperto malato, sog-getto a una perdita di sangue che ne mina la forza e l’equili-brio. Per questo la flânerie si fa prudente, contenuta in un cer-chio protettivo intorno all’albergo, estendendosi invece in ri-cordi, rimandi, richiami.

“Alle finestre gerani rossi, il rosso del sangue che lei perde.”Il male, la medicina, la visita in farmacia: mai la scrittura vi in-dugia. Il gocciolio di sangue che indebolisce il corpo diventapiuttosto traccia fiammeggiante che divampa nell’evocazionedella pagina del Saint Julien di Flaubert e della vetrata diRouen che l’ha ispirata: ma la storia del massacro venatorio efamiliare raccontata nella cattedrale e nella sua crudele mime-si letteraria è chiosata in una sintesi fatta di soli colori.

Dalle narrazioni policrome delle chiese medievali, dalle pa-gine azzurre di tanti manoscritti ottocenteschi (gli autori delXIX secolo sanno che la carta cilestrina risparmia gli occhi,affaticati dalla luce delle candele) giungiamo fino ai quadernirigati che per la giovanissima Angela hanno segnato, un tem-po, il viaggio dalla lettura alla scrittura, alla critica, alla crea-zione: anche il gocciolio del sangue è un monito che conducedalla visione della città al sentire del corpo, e dal corpo allapagina che lo riassume, lo contiene, lo acqueta.

Viaggiando così “da un testo vivo a un testo da creare”, ilcorpo – cauto esploratore di spazi urbani o prudentementeimmobile nella stanza del piccolo albergo di rue Delavigne –si proietta sopra la città, la travalica. Un volo di parole legaParigi ad Arles, da dove – si dice – un avo francese giunse inItalia a sedurre un’ava; un volo traversa l’oceano, raggiungela California, ricostruisce i dialoghi di un’amicizia femminiledensa di questioni e discussioni; un volo si spezza in partenzee ritorni fra l’Italia e la Francia, ai tempi di quell’incontro(“Pierre, pierrot, ragazzo non ragazzo…”) che la memoria

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completa di tutti i segni e simboli di una stagione inquieta (Weshall overcome e Guantanamera, sul muro il poster di CheGuevara, nell’aria la speranza di cambiare il mondo…).

Moltiplicando gli spazi, il viaggio immobile della memoriaretrocede fino a quel primo ambito identitario che ha segna-to l’infanzia, ha costruito un’educazione adolescente, ha sug-gerito gusti ed esperienze: strato a strato, nella Parigi del 1992emergono le forme di quella Tuscia – Etruria – Maremma acui hanno dato voce i poeti e a cui anche Angela Giannitra-pani ha già dedicato versi. La “nodosa campagna viterbese”evocata in una sua poesia del 1950, i “mattini d’Etruria / sucui s’aggroppano le crete / perfide funeree degli antichi”, qua-li si disegnavano in una raccolta del 1982, riappaiono a sfon-do di una storia personale consegnata al mosaico narrativo.

Subito, nelle prime pagine, quando ancora si sta disegnan-do la sua figura di cauta flâneuse indugiante nei giardinetti delV arrondissement, una riflessione (“Del resto così agiva suopadre”) introduce l’immagine paterna. Ne seguiamo in rapidiscorci la lezione di sensibilità e di cultura – i libri dello studio-lo, le visite alle chiese dell’Alto Lazio, guidando la figlia bam-bina “alle absidi, agli ipogei, territorio non più d’un pugno,scarsa misura, ma quale pugno, quale misura” – e poi il ripie-garsi doloroso: “padre sopravvissuto ad Auschwitz ormai unassente, forastico”. Dietro il padre si disegna la campagna vi-terbese, che da fondale si tramuta in presenza autonoma,fluendo infine nei tratti e nei colori che riassumono il voltostesso dell’autrice: “gli occhi il miele d’un favo di bosco cheinclina all’oro tenue, vibrazione d’erba, luce del verde, per cuiguardandola chi fosse anziano tornerebbe al primo suo colponella maremma di quando giungevano le quaglie…”

Ritratto di Parigi, ritratto maremmano, il testo di AngelaGiannitrapani è in ciò stesso un autoritratto. L’uso della terzapersona è scelta antica: “l’angolosa ragazza” di una poesia del1956 (“…ma già grama / per lei la vita…”) era riapparsa neiRitratti femminili del 1982 (“Prossimo sente e dolce / il tem-po di vendemmia; le riviene / agli occhi il folle aspetto / delle

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vigne…”); ora la terza persona è ferma opzione che modula itempi (“anni durante i quali l’autrice cresceva mentre la ra-gazzina sempre lì ferma, chiusa in un incanto”) quanto le fun-zioni narrative. Tempi e funzioni si fissano, al centro del testo,nella reinvenzione giocosa di un nome, Charbon: “PerchéCharbon? Il nome della mia negretta di gomma, […] provad’amore in una situazione difficile dopo la morte di un cuc-ciolo. Nera la pupattola, neri i miei capelli: di qui lo stesso vez-zeggiativo.” Ancora un ricordo di anni lontani nell’evocazio-ne di un oggetto presto abbandonato dalla rapida moda deigadgets ma a lei lungamente caro; e ancora una volta la sintesidi un nome. In quella parola che sopravvive alle perdite, la ter-za persona si specchia moltiplicata, arricchita anche da unaprima persona a commento: “Ci sono tre Charbon e non di-stinguo tra loro, non riesco a scindere la fantasia dalla memo-ria, l’invenzione dalla realtà, il presente dal passato, l’io dalnon-io. Ad esempio, chi è la Charbon del brano sul cucciolo?”

Una nota folgorante di Jorge Louis Borges fissa l’immaginedello scrittore intento a disegnare tutto un mondo, ma poiconsapevole di aver tracciato in realtà il proprio ritratto.

Qui l’autoritratto è molteplice: letterario innanzitutto, fat-to di libri prediletti (un indice dei nomi darebbe una piccola,squisita biblioteca); poi biografico, sommariamente “senti-mentale” (in senso sterniano) nella scelta di figure, paesi, mo-menti; e infine autoriale. Il viaggio attraverso Parigi si con-clude sulla pagina, luogo che racchiude il tempo e il mondo.

Dall’evocazione iniziale (la storia di Saint Julien nelle tren-taquattro formelle rosso-azzurre della vetrata di Rouen) finoal Piccolo dolore antico delle pagine finali (sul restauro, nel1944, degli affreschi di Lorenzo da Viterbo in una cappellabombardata) un modello si propone al testo: quello del “rac-conto frantumato”. Mosaico, dunque, come nelle arti visive,con parole e segni d’interpunzione che mimano le scaglie dicolore e le impiombature dei vetri; mosaico concepito trami-te la scrittura quanto ritrovato tramite la memoria. L’analo-gia, ancor più che con il racconto scandito in scene nella vi-

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trea agiografia francese, è forse con la storia sacra affrescata daLorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta e sminuzzatain quasi 20.000 briciole dalla guerra. Un lavoro – compiutosotto la direzione di Cesare Brandi e poi divenuto esemplarenella storia del restauro – ricompose l’affresco, integrando atratteggio alcune parti scomparse. Così, nel recupero dellamemoria, si compongono scaglie ritrovate e vuoti; qui un rigofranto o un accenno di verso è posto a suggerimento di unosviluppo testuale, come, sulle pareti, il tratteggio verticale cheriempie senza coprirlo un piccolo vuoto di colore; là il bian-core della pagina allude a una scomparsa, a un oblio, a unacensura, come la sinopia ridisegnata dai restauratori a indica-re una più vasta superficie irrimediabilmente distrutta.

L’autoritratto d’autore è un percorso di poetica: lo stesso rit-mo, apparentemente accidentale, che contraddistingue il gi-rovagare urbano (soste prudenti, spazi definiti) e che segna l’i-tinerario temporale nelle sue scansioni (infanzia maremmana,viaggio in California, soggiorni francesi dal ’68, rimembrati nel’92 ) sottende gli squarci metaletterari, ove l’oggetto della scrit-tura è la stessa struttura testuale. La riflessione teorica si insi-nua con naturalezza nel dialogo fra i personaggi (pochi, essen-ziali) come nel monologo d’autore. Anche il panorama di let-ture, pitture, musiche che a quei personaggi ha fornito tratti esfondi si rivela un ambito preciso entro cui sono definite scel-te estetiche e soluzioni tecniche. Così, per esempio, Malte Lau-rids Brigge è evocato dapprima come un compagno, pur fitti-zio, di quartiere (“Quasi dietro lo spigolo […] Rilke ha stabi-lito la dimora di Malte […], la stupenda dramatis persona se-condo la quale a Parigi si viene per vivere e in realtà si muore”).Lo ritroviamo poi presso “le aiuole delle Tuileries”, lo sentiamocitato in un dialogo, lo intuiamo presente al Musée de Cluny(alla cui Dame à la licorne il testo rilkiano ha dedicato pagine fa-mose). Ma il suo ruolo non è quello di semplice avatar parigi-no, immagine che riappare di scena in scena a segnalare unacontinuità di riferimenti: introduce spesso un’interrogazionesulla genesi del testo, sul suo processo di sviluppo, sui possibi-li esiti: “Malte non muore, cresce da episodio a episodio, per-

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ché chi scrive ha il dovere di far crescere i suoi protagonisti…”“‘Un narratore! Prego, un narratore’, invoca Malte”.

Come, nel primo decennio del Novecento, Rilke aveva pro-posto nel Malte Laurids Brigge un “romanzo-non romanzo”audacemente affrancato dai paramenti della tradizione otto-centesca quanto non riducibile alle nuove formule dell’e-spressionismo, così il testo di Angela Giannitrapani proponeun “racconto-non racconto” pienamente consapevole del re-taggio novecentesco – comprese le sperimentazioni sul fram-mento – quanto libero dalle aporie del post-moderno. È unaforma squisitamente modellata sulle esigenza di una sensibilitànuda e disarmata, a cui una densità di riferimenti letterari e ar-tistici giunge depurata ed essenziale: è un prezioso tessuto(“testo”, appunto) fatto di prosa e verso, di bianco e di nero,di parola e di spazio significante, che, percorso nella sua inte-rezza, rivela precisi rinvii e approfondimenti tematici a sot-tendere la frantumazione testuale. Tessere è, d’altra parte,l’immagine che la nostra cultura ha scelto a fondamento dellastessa attività autoriale: il poeta opera “entrebescant / los motze l so afinant / lengu’entrebescada / es en la baizada”. Così An-gela Giannitrapani, poeta e narratore e saggista, intesse le pa-role e affina il suono – lingue intrecciate come nel bacio.

All’alba della poesia occidentale, Bernart Marti chiudevail suo testo evocando il trionfo amoroso dei corpi; a chiusa diParigi, Angela Giannitrapani riattraversa il tempo di una vita,ricongiunge la passeggiata parigina ai vagabondaggi dell’in-fanzia viterbese, abbandona lo straniamento della terza per-sona e consacra anche la scrittura al riconoscimento d’amore:

Per me bambina gli anni tra campi e maremma e foglie d’autunno.

Etruria,autunno,amore da imprigionare nel pugno.

Marina Giaveri

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Nota biografica

Nata nel 1925, laureata in Lettere all’Università di Roma,Angela Giannitrapani ha insegnato a Reading e a Los Angeles;rientrata in Italia, è stata Professore Ordinario di LetteraturaAngloamerica alle Università di Messina e poi di Viterbo.

Ha pubblicato quattro raccolte di versi (Professione di poe-sia, 1968; Poesia come seconda lingua, 1970; Popolo sognante,1977; Caro umano percorso, 1983) e due volumi di racconti(La giovane laica, 1972, premiato a Venezia; L’ala di Dürer,1992). La sua ampia produzione critica prende in esame so-prattutto autori angloamericani: Wistaria. Studi Faulkneria-ni, 1963; Destination tomb, 1971 (dedicato a Beckett); Unmodo di leggere, 1972; I primi racconti di Dylan Thomas,1973; Pantheon dell’Ottocento americano, 1979; Woodcraft,1979; Francis Parkman e la fleur de lis, 1984; Memoria critica,1995; altri contributi, su scrittori americani e italiani, sonoapparsi in rivista.

Ha collaborato alla Terza pagina di «Paese Sera» e direttovarie riviste letterarie: «Tempo di Letteratura», «Tabella dimarcia», «Malavoglia», «The Blue Guitar».

Caratteristica delle sua scrittura poetica, come ha scrittoGiovanni Raboni, ospitandone due “partiture” nei Quadernidella Fenice da lui diretti presso Guanda, “è la quantità diemozioni e di informazioni reali convogliata da raffinati mec-canismi simbolico-formali nei quali si manifesta la straordi-naria sensibilità culturale dell’autrice. Si potrebbe pensare auna poesia ‘cubica’ che abbia per argomento centrale la pro-pria esistenza e per fine la dimostrazione della propria asso-

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luta autonomia. Ma in realtà le cose non stanno così o, me-glio, non stanno soltanto così, grazie al mirabile equilibrio chela Giannitrapani riesce a stabilire fra tensioni formali e ten-sioni materiali, fra intelligenza e passione, fra le delicate o se-vere o enigmatiche pulsazioni dell’oggetto e il prepotente far-si avanti e testimoniare di sé del soggetto. [Ne risulta] unapoesia eccezionalmente prensile e sostanziosa, capace di mu-tare incessantemente in trascinante ricchezza espressiva lalimpida, geometrica precisione della propria struttura.”

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Mio giovane amico

Era stata G.T. a recitarle strofe del codirosso, a dispiegareil ventaglio dei boschi e dell’oceano – sequoie, rocce, cormo-rani, i fiumi del Sur. E Monterey, l’ex-capitale spagnola, maJeffers in mezzo alla natura (G.T.: “Amava il granito, i fal-chi”).

Non l’uomo.Non le città.Neanche i suoi stessi versi.G.T. delirava un po’, recitando, ogni sillaba un ringhio

(l’acredine di Jeffers).Ebrea del Mid-West, clan qua e là negli USA dei vari Hoo-

ver Roosevelt Truman Eisenhower Kennedy; funzionaria ingamba nonostante troppo sesso e nicotina e alcool; matura-tasi alla scuola dei gruppi di protesta, dell’impegno di JoanBaez + Joan Didion, poi Pete Seeger, i ragazzi congolesi e itamburi della Missa Luba. Vicende così esplosive che l’oranotturna – muto l’hotel “îlot de verdure au coeur de la cité”– suggerisce una nicchia nella narrazione, un glifo per laribelle. Ma alt. Ma stop. Sarebbe sfida al nucleo. Già gli annisi mescolano, un prima, un prima del prima, un dopo, undopo del dopo, e deridono chi scrive o vuole scrivere, goffaeuropea pur sempre adescatrice d’immagini, pigra perditem-po pur sempre allieva di Chaucer, sul litorale losangelinocompagna della figlia dei ghetti straniata fra schemi della vio-lenza e della non-violenza; a chiusura le ceneri nell’oceano(Hazel: “G. un tutt’uno con le maree e la sabbia”). Quellasabbia calpestavano i loro piedi nudi.

Secondo un letterato Prix Médicis il narrare ha l’infantilecrudeltà dello sventrar bambole – fuga dal plot per tornarvi

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e nuovamente dissociarsene. Fantasioso viavai che livellereb-be l’oggi, lo ieri, l’altroieri in rue Delavigne ove luci minanoil buio e diavolerie celesti dei vetri, e lo specchio raddoppia ilibri, e da una coscienza sopita esige zelo il remoto nucleo.“Un narratore! Prego, un narratore”, invoca Malte.

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C’è poco da invocare. Non è lui il narratore? Non ha lui leredini? E nell’ultimo paragrafo d’un brano, al culmine dellatensione, si blocca, lancia un SOS – tre punti tre linee trepunti?

Lei lo sa: di volta in volta annebbiato astuto ambiguo sven-tra la sua bambola, al presente negandosi, al presente tornan-do, dentro la memoria e fuori, quel viavai quasi modello delcome procedere fra righe statiche e derive di strutture finoalle “isole” blu della dama dell’unicorno, Musée de Cluny;poi, scaglia dopo scaglia, fino a Orange, al teatro romano incui a recitare è l’attesa: il vuoto. Modello per chi. Per un’esi-stenza impastata di pagine, scaglia dopo scaglia, modellodopo modello? Per lei forestiera che supplica i globuli rossidi non abbandonarla in un hotel o lungo la Senna? Ha timo-re del vuoto. Giardini, giardinetti – square Desruelles, squareLouvois, square du Vert-Galant, square Chevtchenco –potrebbero risucchiare con gorghi e falasie. A Vienne, meri-dione francese, un intellettuale del nord scopriva il tempioaugusteo sigillato sul nulla: fenditura nella promessa delleCittà bianche. Città bianche o città grigie, solari o plumbee,continuava Joseph Roth a illudersi nonostante Weimar eappena più tardi un’Europa in fiamme, la sua agonia? Nessu-no degli altri scritti lo mostra illuso.

E nasce il dubbio che pur gli ovali blu style-mille-fleurssiano zone di grazia precarie. Sequenze ghiacciate da sortile-gio; loro scudo i forti maschi della fauna e le mezzelune e ilrosso araldico degli emblemi virili.

(È guida nel Musée de Cluny il narratore:muoviamoci piano –

per assorbire, capire una quiete così quieta).

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Non lui la sua guida. Durante la rivolta studentesca l968 ilnumero “Spécial Étudiants” de «Les lettres françaises» usci-va tempestivo a chiarire i fatti: la destra (l’Occident) Nanter-re-Parigi; Cohn-Bendit e il 22 Mars; la Sorbona e l’Interna-zionale; al di qua e al di là dei boulevards St-Germain, St-Michel, la morsa dei flics. Su un muricciolo nell’ora vesperti-na lei con il dossier ed ecco alla lettura unirsi un ragazzo sfug-gito agli arresti, non alla brutalità dei cui segni andar fiero.“Tra noi i liceali, i lavoratori. Si muovono Sartre TruffautChabrol. Truffaut. Godard”. Mai lei avrebbe dimenticatoquel dossier, quel vespro, le ferite del quartiere (oltre le feritedi Berkeley e di G.T.). Come G.T. il ragazzo torturava le paro-le. Infine buio, i primi globi e altra la voce quasi scolpisse ognisillaba ma ogni sillaba – eretta – lì lì per crollare. Sarebbecrollato il ragazzo. “Ho sonno. Sonno. Su, vieni a casa mia”.

Tempo dopo ritrovarsi, già preistoria il numero de «Leslettres françaises». Tacciono increduli, gravi. Oh la Tyche,una coincidenza, un convergere e proprio nella cour d’hon-neur tra le più serene, il fiabesco di residui dall’Alto Medioe-vo e dettagli del flamboyant.

Dunque, al Cluny, è Tyche la guida.

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Flamboyant addirittura il mattino con la bizzarria dellenuvole in un cielo incandescente, le nuvole velando guglie erosoni e da specchio a specchio d’acqua, da fontana a fonta-na, satiri mostri ninfe.

Ritrovarsi. Nella cour d’honneur un pozzo, una ghiera:questo l’incipit della loro storia privata – pozzo, ghiera,ombra arborea –; così presso il bel gioiello entrambi solleva-re lo sguardo finché gli sguardi s’allacciano e sul momentofermi entrambi, senza respiro.

Appena respirano urge un problema. Chi è lui. Chi è lei.Ritrovarsi vuol dire riconoscersi? Il ragazzo delle barricatenon è oggi, dopotutto, davvero ragazzo. Nella memoria squa-me d’un mosaico, non l’identità totale. E l’identità di lei?Voce, capelli, pallore, anch’essi squame. Ha mozzato i capel-li? Oggi flamboyant anche il suo io, mattino nuvoloso, cielobruciante, ninfa, naiade, sirena? Ridono e Tyche li guida den-tro il museo, uniti in contemplazione.

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Da oggi in poi uniti, quest’anno e il successivo e l’altro,solo limite la brevità dei periodi e il lavoro, sebbene vicini ilMusée de la Chasse dove va lui e Les Archives Nationalesdove va lei, così un salto e di nuovo insieme nella strada, nonsi sciupa tempo, splendido ogni clima – purché lui noncambi umore.

Cambia umore. Gheriglio chiuso dentro il suo invo-

lucro, o burattinaio e burattino, svenevole pierrot, false lacri-me, zuccherata mina vagante, mentre nei giorni del dossierera il guerriero, aveva o voleva avere un ruolo a protezionedell’Alma Mater (per Puvis de Chavannes Bois sacré?), trop-po sfrenato se si esclude la notte con il sonno quando i riccidall’apparenza ruvida lei glieli scioglieva in uno spiumarsi,tenui della volatile tenuità di fiori campestri a una bava d’a-ria. Metallo invece la zazzeretta nera nera da cui traggonovantaggio gli occhi color miele, agrigno il pierrot nello scom-pigliarla ma sprofondando in quel miele a suo dire “preso daifavi di bosco” perché “oro lieve, vibrazione d’erba”. Imme-diatamente il nucleo narrativo sepolto risuscita. Risuscitanoluoghi remoti stringendosi al nucleo. Lei trema. Neri capellie occhi oro lieve: la ragazzina del nucleo. Guarda il pierrotcon meraviglia. Lui non sa d’aver acceso un fuoco.

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Però sveglio, in gamba: quello sguardo, quel tremore. Lesta davanti, le gironzola davanti e dietro (un circuirla). Otto-bre, l’Alma Mater1 non ha più bisogno di protezione e lui puòdedicarsi a chi di protezione ha bisogno: una natura specula-tiva sebbene elementare come humus o acqua; grazia filtratada pensiero lungo, lungo, sottile (sotterraneo, sottinteso); cen-tri nervosi di forza ascendente. Ed è sotterranea schermaglia,lui e centri nervosi di forza ascendente suoi, lei incline al giocomeditabonda o no, entrambi moderati, in entrambi pudore daorfani famelici mentre dopo il Musée de la Chasse e Les Archi-ves divorano braciole funghi crudités, leggono, inchiodano unquadro, a tutto volume i tamburi dei Troubadours du RoiBaudouin – la Missa Luba della Los Angeles di G.T. –, né è uncaso che il pierrot si chiami Pierre e ignaro riavvii con varian-ti un duello fra lei e il padre, Pietro: nelle strade d’anteguerranon frequentate le loro bici ostruirsi, scontrarsi, per l’uomouna stessa velata forma di protezione. Poi subentravano lettu-re e pellegrinaggi dai Cristi dei tabernacoli e dalla Torracciaagli affreschi di Lorenzo – minime le dosi e sorridendo,comunque pur sempre lavorio di bulino. O innesto. Ma allafine solo fase monca.

In quanto a Pierre nessun bulino o ceppaie magliuoli get-toni poiché è all’oscuro della storia d’una crescita. D’altron-de non ha valore che il presente, culmine, sì, d’una crescita,ma cresciamo tutti giorno per giorno e come negar la prov-visorietà del culmine. Riguardo a vecchie ombre non più latalea è una talea, la barbatella una barbatella, superata dun-que la fase monca. Superata? Con il rapporto padre-figlia arodere una scrittura, cioè talmente dentro lei figlia che ilcorpo lo assorbe bloccando ogni accesso? Il nucleo narrativoplagia l’esistenza della narratrice o è la narratrice a spec-chiarsi nel nucleo, e il corpo sfrutta la confusione, geloso delleparole ormai nervi e sangue, parole ormai sue. Dar loro l’addio,

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rinunciare ai semi alati, all’ash-key? In una poesia ZbigniewHerbert darà l’addio alla penna all’inchiostro al lume.

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Nello smemorarsi

e rimemorarsi di una vita

dei suoi libri delle sua città

visibili e invisibili

degli incontri

e delle origini

cosmicamente

intrecciate

in un’estate parigina

del millenovecentonovantadue

riflesso specchio soglia

e nello smarrirsi ora

su ciglio della notte

è la storia

di questo

piccolo e prezioso libro

di Angela Giannitrapani

fotocomposto nel carattere

su carta Arcoprint

delle cartiere Fedrigoni

e stampato

dalla tipografia SAGI

di Reggio Emilia

per conto di Diabasis

nel novembre dell’anno

duemilanove

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