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edizioni di archeologia filosofica Paolo Vernaglione Berardi La natura umana come dispositivo I Archeologia filosofica

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edizioni di archeologia filosofica

Paolo Vernaglione Berardi

La natura umana come dispositivo I

Archeologia filosofica

Per estensione e portata la nozione di natura umana sfugge alle molteplici definizioni che ne sono state date nella modernità e scarta l'ordine cronologico in cui il pensiero la attende, mostrandosi al tempo stesso come nozione comune e come generica astrazione. La posta in gioco nel risalire questa soglia è una ridefinizione della modernità che si lascia alle spalle l' “umanità” intesa come l’essenza biologicamente o culturalmente presupposta dell’uomo. Ancora una volontà di sapere, forse, ma ove il soggetto non è la sostanza dell’umano. Il metodo dell’archeologia filosofica qui impiegato delimita il campo di una verità intesa come evento storico singolare. Si cercheranno dunque i confini di una possibile mappa del vivente come essere mortale, la cui natura sono, con Michel Foucault, le formazioni discorsive che lasciano emergere i rapporti tra saperi, poteri e soggetti. Si tratta di indagare i dispositivi di “presa sulla vita” che girano a vuoto lasciando emergere l'Ingovernabile che il fuori ripiega all'interno di essi.

Paolo Vernaglione Berardi, insegnante, è autore di saggi e testi tra cui: Il sovrano l’altro, la storia (Roma, 2008), Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana (Macerata 2010), Filosofia del comune (Roma, 2014), Michel Foucault: genealogie del presente ( a cura di, Roma 2015), Scritti su Walter Benjamin (a cura di, Roma 2016). Ha fondato il Laboratorio “archeologia filosofica” (www.archeologiafilosofica.it).

INDICE

Introduzione

PRIMA PARTE

Del metodo

1. Che cos'è l'archeologia filosofica

2. Anarcheologia

3. Questione di dispositivi

4. La critica come eredità

SECONDA PARTE

Giochi linguistici e forme di vita

1. Il movimento dell'Antropologia: filosofia e pragmatica

2. Antropologia critica

3. La questione della verità degli organismi: ontogenesi e filogenesi

4. Dal linguaggio alla natura umana

TERZA PARTE

Archeologia del soggetto

1. L’inizio e la fine della storia

2. Il “fading” del soggetto

3. Sulla soglia

4. Quando il linguaggio incontra il corpo

QUARTA PARTE

Un altro mondo, un altro sapere

1. Estetica dell'esistenza

2. Come la follia, il sogno

3. Estetica e critica

4. L'occaso delle immagini

5. La vita nuda

6. Da Nietzsche a Nietzsche

7. Il corpo in pensieri

8. La solitudine dei molti

Finis terrae

Bibliografia

Introduzione

L'occasione di questa ricerca risiede nell'urgenza del presente, ma evita l'attuale. Per estensione e

portata la nozione di natura umana sfugge alle molteplici definizioni che ne sono state date nella

modernità e scarta l'ordine cronologico in cui il pensiero la attende, mostrandosi al tempo stesso

come nozione comune e come generica astrazione. Questione filosofica perché riguarda l'universale

della specie umana, – l'istanza che la fa apparire, anche ad un'indagine superficiale la scopre priva

di fondamento. Distesa tra la sua realtà e la descrizione impossibile del suo senso, la natura umana è

considerata per lo più come l'essenza certa per quanto ovvia, dell'uomo. Nozione tautologica al

massimo grado, essa rimanda anzitutto alla natura come sistema degli elementi che operano

secondo leggi non stabilite dagli uomini. Il suo concetto indica così il movimento di risalita dal

significato più pieno e più ingannevole all'idea che lo fonda. Pierre Hadot, nella descrizione storica

dell'idea antica di natura ha mostrato come la parola physis si è trasformata per «nominare una sorta

di essere ideale personificato»1. Nell'Odissea il senso della physis era il risultato della crescita

vegetale. In Empedocle era la “nascita delle cose”; per Eraclito designava un processo di crescita, in

Parmenide era la nascita degli elementi e dell'etere, e nei trattati di Ippocrate era la costituzione

fisica di un paziente “come è dalla nascita”, l'organismo come effetto complessivo della crescita2.

Physis è ciò che “sboccia da sé”, anteriormente alla distinzione fisiciste tra cose fatte dall'uomo e

cose naturali. In Aristotele è l'ordine di un’unica specie di sostanze, quelle che crescono da sè in

opposizione a quelle fabbricate. Ma già nell'Accademia questa seconda categoria opera

sotterraneamente, fino a che il concetto subisce un cambiamento: physis smette di essere intesa

come ciò che nasce da sè ed è concepita come l'ambito che l'uomo può afferrare. La natura umana

sarà allora zoon logon exxon, l'essere vivente dotato di discorso definito all'interno di una

metafisica antropocentrica. Nel Medioevo i filosofi oppongono il naturale al sovrannaturale e la

nozione di “animale razionale” apre la ricerca delle connessioni e delle segnature di cui erano

tracce. La seconda svolta si ha con l'umanesimo quando il logos fuoriesce dalla natura in cui l'essere

razionale era comunque integrato e designa l'umanizzazione degli enti e la naturalizzazione

dell'uomo. Da allora è il porsi del “sé” che mette in opera le risorse di dominio, e la natura può solo

essere concepita come riserva di energia3.

Sappiamo che questa descrizione identifica quel momento della storia che, con le parole di Michel

Foucault, stacca l'epoca classica dalla modernità agli inizi del XVIII secolo, quando ancora

1 Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell'idea di natura, trad.it., Einaudi editore, Torino, 2006, cit., p. 15. 2 Cfr., Ibid., p.16-17. 3 Cfr., Rainer Schurmann, Dai principi all'anarchia. Essere e agire in Heidegger, trad.it., Il Mulino, Bologna, 1995.

nell'articolazione grandiosa e complessa degli elementi della natura e del cosmo risiedeva la

simmetria del micro e del macrocosmo, risuonava l'eco della grande analogia e l'uomo era una delle

voci del vocabolario della storia naturale. Oggetto e interprete al tempo stesso della natura fino alla

fine dell'età classica, l'uomo non poneva a sè stesso la questione della sua essenza, ma del posto che

occupava nella struttura universale che lo sosteneva. A differenza che nell'antichità in cui il campo

di articolazione dell'épisteme era delimitato dalla physis e dal logos, all'inizio dell'epoca moderna

l'indagine sull'uomo è riscritta all'interno di un perimetro in cui convivono sapere e scienza.

In vista di una mathesis universalis Cartesio costituisce una scienza delle differenze possibili nella

circoscrizione delle scienze naturali. Lo sviluppo dell'anatomia, della medicina sperimentale e della

fisiologia e la subordinazione dei saperi alle scienze recidono i legami che univano l'uomo alla

natura. Si costruisce una verità dell'essere umano che oppone scienza a superstizione, esperienza a

credenza, ricerca locale a sapere universale. La grande analogia dell'universo ancora pazientemente

tessuta alla metà del XVI secolo, si sfalda e si riarticola intorno alla natura umana, non più

considerata come evento dell'organico con funzioni complesse nella serie ordinata degli elementi di

natura, ma come sostanza di qualità diversa rispetto agli enti naturali. La natura compresa come

residuo ambientale, parte insieme comune e subordinata, diviene oggetto puro di sperimentazione

per verificare, a partire dal cogito, la differenza di sostanza tra uomo, animale e macchina. La

rappresentazione, che era stata il luogo comune della “naturale” essenza delle cose, lo spazio

eminente e multiplo in cui si stendevano i rapporti tra gli enti che potevano essere ridisegnati ad

ogni indagine, ricostituiti nell'opera d'arte e adoperati nella mercatura e nei commerci, duplica ora la

struttura interna degli oggetti di desiderio, degli esseri naturali e del linguaggio. Il lavoro,

l'organizzazione anatomica e fisiologica dei viventi e l'analisi del linguaggio sono gli eventi che

rendono autonomi, separati e dominanti i saperi dell'uomo, condensandoli nell'economia, nella

biologia e nella linguistica4. Le scienze subordinano i saperi diffusi e i mondi pre-scientifici della

magia e dell'alchimia, che tuttavia permangono quali sopravvivenze che non si vogliono osservare,

e che solo nello scorso XX secolo saranno nominate da Gaston Bachelard come l'inconscio dello

spirito scientifico. Ridotti a demoni da esorcizzare, assillano la razionalità che non ne comprende il

segreto. «Occorre allora rianimare la critica e riportare la conoscenza a contatto con le condizioni

che l'hanno fatta nascere, tornare ininterrottamente a questo “stato nascente” che è lo stato del

vigore fisico, nel momento preciso in cui la risposta è emersa dal problema»5.

La statistica e il censimento iniziano la lunga produzione dei dispositivi disciplinari che

determinano la forma della sovranità nei modi di governo; la filosofia del linguaggio mentre apre la

4 M. Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane (1966), trad.it., BUR, Milano, 2010, p. 256 e sgg. 5 Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, trad.it., Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 45.

ricerca alle leggi grammaticali di composizione della lingua estende l'analisi del discorso alla

riflessione estetica e condensa nel linguaggio-oggetto e nel metalinguaggio le ragioni della sua

esistenza. Ma soprattutto, intorno alla centralità della vita si addensa il senso della natura umana

come l'essenza non naturale della specie soggetta a processi di individuazione. Le controversie che

oppongono natura a cultura, naturale ad artificiale (l'artificio è considerato la seconda natura

dell'uomo), sono gli effetti di fondazione della riflessione umanista.

L'uomo, compiuto nella differenza rispetto all'animale, lo è anche rispetto alle forme antropomorfe

e agli automi, consegnandosi al potere che ne farà un corpo “docile”. L'umanesimo introduce una

nuova trascendenza dell'umano che la successiva antropologia prosegue nella riflessione filosofica.

Si tratterà allora di ordinare dei valori, un'etica, una politica della vita e un'estetica che adotteranno

in maniera più o meno esplicita la natura umana come il paradigma che distingue l'esplicito

dall'implicito, sanziona le anomalie organiche e attribuisc alla vita la sacertà, – valore intangibile

che diviene proprietà dell'esistenza individuale.

Non sembri paradossale – ma è proprio nell'età della prima conquista dei diritti che la distanza tra

specie e individuo si allunga fino a far scomparire lo spazio effettivo di confronto tra gli ordini della

natura (gli antichi “regni” costituiti sui rapporti tra organico e inorganico) e l'ordine della ragione.

Di questa rottura storica è stata recuperata la genealogia, sono stati dedotti gli effetti di dominio, a

partire dalla valorizzazione della vita, ed è stata ricostruita una morale che ha subìto lo scacco della

cosiddetta civilizzazione. Una concezione lineare della storia è così giustificata; l'individuo si

accampa nel luogo un tempo abitato dalla physis; il progresso testimonia la verità

dell'autocoscienza; la prassi è il campo dell'esperienza; l'agire è il fondamento etico-politico della

sfera pubblica; l'utile spodesta le finalità della natura. Considerate nell'insieme da cui provengono,

le problematiche realtà dell'occidente trovano conferma nel pensiero antropologico che nasce alla

separazione di sensibilità e intelletto.

Certo, questa semplificazione dei contenuti non rende giustizia alle “conquiste della modernità”,

soprattutto quando tace i terrificanti effetti di dominio, ma sintetizza il discorso che la civiltà

articola prescindendo da ciò che è corrotto, non saputo, emarginato, distrutto.

Per questo motivo la ricerca non segue le tappe essenziali dello sviluppo in cui si converte la serie

delle trasformazioni dell'idea di natura umana e, contestando le continuità, cerca piuttosto di

cogliere gli effetti periferici di sapere che il concetto natura umana ha disposto in rapporto ai poteri

e alle forme di soggettivazione.

Sono gli spazi storico-filosofici di valorizzazione ad apparire: l'idea di coscienza; la monade dotata

di appercezione; l' io penso e la sintesi delle facoltà; la coscienza sensibile che perviene al vero

come soggetto; il soggetto della prassi, del lavoro e della storia; l'intenzionalità e l'identità

individuale; l'ottimizzazione delle risorse e il capitale umano.

Si tenterà, in una pratica archeologica, di far parlare quei testi e quei discorsi che hanno contribuito

a formare un altro sapere – non sempre in opposizione alla scienza e all'accademia – in cui la

filosofia arriva in qualche modo a toccare un limite. E di farlo assumendo la distinzione dei campi

del sapere, dei poteri e della soggettività. Seguendo le rispettive linee di frattura, la natura umana

emerge come oggetto di sapere che nello stesso gesto di pensiero non può non essere indagata come

mezzo di potere; perché nel ritorno della sua immagine come metafora, o come rivendicazione

etica, come umanesimo o come presa di posizione contro “l'epoca della tecnica”, l’idea della

permanenza di una natura propria dell’uomo manifesta comunque il dispositivo di assoggettamento

che opera l'individuazione.

Scopriamo allora il senso che si nasconde nella perentoria espressione dell'essenza umana: la

pretesa ideologica all'universale, che non è casuale si potrebbe dire, nei tre campi di sapere che

hanno costituito le prove di verità dell'uomo moderno: la follia, il crimine, il potere. «Mentre

un'analisi in termini di ideologia si sarebbe chiesta: posto che cosa sia la follia –..., posto che cosa

sia la natura umana, l'essenza dell'uomo,...a quali motivazioni...obbedisce il sistema di

rappresentazione che ha condotto alla pratica dell'internamento...Lo studio di tipo anarcheologico è

consistito invece nel prendere la pratica dell'internamento nella sua singolarità storica.»6.

La natura qui non è l'essenza del singolo individuo, ne è l’essenza dell'umanità, di un popolo o di

una comunità. Il definitivo abbandono della posizione umanista e delle retoriche dei diritti e delle

libertà ci porta a scoprire l'evidenza della carcerazione come effetto di una singolare, fragile e

contingente economia delle relazioni di potere che l'hanno resa accettabile; e ci porta a scoprire in

quale forma esiste «...un legame così profondo tra l'esercizio del potere e l'obbligo per gli individui,

di diventare essi stessi attori essenziali nelle procedure di manifestazione della verità...che cos'è

questo doppio senso del termine "soggetto", soggetto in una relazione di potere, soggetto in una

manifestazione di verità?»7.

Interrogando i significati filosofici questa essenza viene piuttosto scoperta come la posizione

oltreumana in cui l'essere è riconosciuto in un dispositivo epocale che opera al livello delle

formazioni discorsive, della produzione di valori, dell'organizzazione dei poteri. In questa soglia

scopriamo l'a priori storico che ha dato luogo al primato della coscienza come facoltà di linguaggio

nell'evoluzione della specie homo, come intreccio di sensibilità e intelletto, potere e verità. E lo

scopriamo al fondo del sapere filosofico se, come ha scritto Giorgio Agamben a proposito del

6 M. Foucault, Del governo dei viventi. Collège de France (1979-1980), Lezione del 30 gennaio 1980, trad.it., Feltrinelli, Milano, 2014, p. 87. 7 Id., cit., pag. 88.

pensiero di Ivan Illich, «...la filosofia è anzitutto memoria dell'antropogenesi, cioè del diventare

umano del vivente uomo.»8.

La posta in gioco nel risalire questo sapere è, immancabilmente, una ridefinizione della “crisi” della

modernità, che si lascia alle spalle l' “umanità” dell'uomo intesa come «...una natura biologicamente

o culturalmente presupposta,...» 9, ed è considerata come l'insieme delle «pratiche immemoriali

attaraverso le quali gli uomini si rendono la vita possibile,...»10.

Ancora una volontà di sapere, si dirà. Sì, ma che è all'opera all'interno delle variazioni storiche, ove

il discorso sulla natura è il suo divenire. Ove il soggetto etico non è la sostanza umana e l'ordine

della produzione implica soggettivazione.

Per pensare altrimenti il rapporto tra interiore ed esteriore; per de-ontologizzare la differenza

sessuale; per indagare una “psicoanalisi minore” che liberi dalla sessualità; per circoscrivere il

campo di una verità intesa come evento storico singolare, si cercherà di tracciare i confini di una

possibile mappa del vivente, la cui natura è intesa come un dispositivo che deriva da rapporti di

forza, conflitti, resistenze. Si tratta di indagare dispositivi di “presa sulla vita” che girano a vuoto

lasciando emergere l'Ingovernabile che il fuori ripiega all'interno di essi.

Appropriandosi in maniera indebita dell'età classica questa ricerca tenterà la coincidenza del

metodo e dell'oggetto. L'archeologia filosofica risale qui la genealogia della natura umana la cui

immagine è il modo in cui le parole nominano le cose. Non però con la pretesa di simmetria propria

di un realismo ormai esausto, bensì cercando nelle pieghe del non sapere, nell'esperienza difficile

del rapporto tra soggetto e de-soggettivazione, una ridefinizione del potere inteso come governo

della vita. Ecco allora che, non essendo in questione sulla base di un sapere del soggetto, le

configurazioni della soggettività e la tradizione della filosofia politica che non cessa di cantare il

ritornello della necessità del potere, sono còlte come archivi precari di un’esteriorità. Archivi che

non sono classificazioni più o meno ordinate di testi, discorsi e pratiche in cui scorre la storia

dell'idea, ma costellazioni discorsive in cui la critica della coscienza, dell'intenzionalità e della

prassi, scopre la soglia anonima di produzione del soggetto.

Il testo, riconosciuto canonico nella storia della filosofia lascia intravedere il taglio obliquo dello

strato pre-logico che lo ha generato; la vicenda del potere sovrano è assegnata al gioco di rapporti

di forze distesi nello spazio e nella distanza tra l'origine teologico-politica della sua verità e la prassi

governamentale.

Tutto questo è stato detto e scritto da una critica minoritaria, di cui la pratica genealogica è il lascito

8 Giorgio Agamben, Introduzione, in Ivan Illich, Gender. Per una critica dell'uguaglianza, Neri Pozza Editore, 2013; BEAT, 2016, p. 9. 9 Ibid., cit., p. 9. 10 Ibid., cit., p. 9.

più prezioso; il metodo archeologico non è forse divenuto (in un'opera ancora non compiuta)

applicazione di un paradigma invisibile alle differenze tra saperi?

Può darsi che al presente la critica si eserciti nella forma della ripetizione del discorso nelle zone di

indeterminazione di poteri e resistenze, saperi valorizzati e pensiero, individuazione e

soggettivazione. Può darsi che l'archeologia filosofica in un'articolazione più generica non sia che

un'ermeneutica complicata dall'erudizione. Ma anche qualora sia giudicata in rapporto alla filosofia

insegnata, alle forme storiche di soggettivazione e ai rapporti di potere vigenti, rimane degno di

nota il fatto che, come insegnava Enzo Melandri, l'archeologica rileva i simboli nella loro verità di

sintomi; che scopre l' “io” nella sua costituzione anonima; e che le tecnologie di controllo mostrano

i modi effettivi d'esercizio dei poteri.

Queste emergenze sono osservate nel divenire, le transizioni nelle rotture, le continuità presunte e le

derivazioni canoniche assumono una direzione contraria al loro senso. Così emerge la superficie

mobile del discorso della scienza. Il pensiero dell'uomo sull'uomo, che sia una terapeutica della

psiche o una teoria che reintegra la figura della legge denunciandone la scomparsa, sarà investito

dalla dissolvenza del suo oggetto; il fondamento assente del potere che continua a far parlare della

sua necessità dispiega l'an-archeologia che lo produce.

Ciò accade perchè il testo è reperito nella zona di indistinzione di filosofia e pensiero; il soggetto,

sia esso autore, artista, psicoanalista, filosofo, è atteso nei luoghi storici in cui l'opera lo dissolve; e i

rapporti tra forme di vita e tecnologie di governo sono spiati nell'oscillazione tra la necessità e la

libertà possibile. Vediamo allora che l'archeologia sottrae il testo al senso che gli appartiene in una

storia del pensiero creduta universale; d'altra parte vediamo anche come i discorsi e gli insiemi di

enunciati che li realizzano, vivono in una costellazione singolare. Questa doppia articolazione del

metodo comporta una doppia selezione: al livello dei testi che indicano la trasformazione degli

enunciati sulla natura umana, e al livello della letteratura che il tema ha promosso, delle

interpretazioni e delle discussioni che ha animato, dei conflitti che ha innescato.

La prima selezione è intesa a scartare le visioni sistemiche che collocano l'opera all'interno dello

sviluppo progressivo della ragione, per recuperarne la conflittualità rispetto alla tradizione. La

seconda tenta di sottrarre ciò che è stato scritto all'ermeneutica infinita, all'attualizzazione e alla

canonizzazione, riportando il testo alla dimensione della produzione originale. In questa doppia

procedura l'idea non risulta più assoggettata a necessità gnoseologiche, nè alla ricostruzione di

modelli interpretativi, nè a momentanee e strumentali prese di posizione filosofiche; risulta invece

essere, una volta disinvestita dagli effetti di ripresa e di annuncio, la traccia di un divenire che

sospende la dialettica di ciò che è stato e ciò che è.

Si cerca dunque un'altra critica che non lavora alla replica delle posizioni storiche che il documento

ha assunto in vista di ciò che potrebbe essere, ma alla produzione dell'origine non originaria in cui

opere e discorsi vivono nella lettura e nell'ascolto. D'altra parte gli enunciati non si trovano isolati

nel fondo epocale in cui hanno circolato, che hanno ripreso o adoperato nell'elaborazione delle

teorie; al contrario vivono una chance di espressione nella contemporaneità, cioè a dire in quella

«...singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze;...

quella relazione col tempo che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo»11.

Ancora un doppio spostamento: dall'autore al testo e all'opera; e dalla singola opera alla

costellazione che illumina. Si cercherà così di rendere conto dei modi in cui certe enunciazioni

esprimono il tema là dove si presentano come testimonianze che eccedono il pensiero dell'autore; e

si cercherà di evidenziare come l'opera parli dei rapporti con l'intorno del testo, nell'intreccio di

parola scritta e strato pre-discorsivo in cui è saputa, come scrittura e come esteriorità. Della critica

romantica rimane l’indicazione di un modo dell'anonimo, secondo cui l'opera interpreta se stessa

meglio del suo autore12; dell’attribuzione “irrazionale” al fondo prelinguistico rimane la percezione,

possibile solo nel linguaggio. Si tratta di riconoscere il modo in cui l'autore, perdendosi, è inscritto

nell'opera, e il modo in cui il discorso parla nell’afasia che lo origina e nell'infanzia che esprime13.

Gli enunciati intorno al dispositivo "natura umana" saranno scelti nella determinazione che riscrive

i rapporti tra normale e patologico, analogia e anomalia, verità ed errore. Il dispositivo di

valorizzazione e normalizzazione emerge infatti nella rottura epistemologica che al di qua della

modernità definisce la physis come armonia e la malattia come disturbo; e al di là, come patologia

localizzata, esteriorità qualitativa, principio morale negativo14. Dal momento della rottura con

l'empirismo ingenuo e il positivismo le biotecniche di cura e ricostituzione genetica situano il

sapere naturale nel laboratorio dell'evoluzione, che converte la natura in lavoro biologico.15 Quella

rottura e questo divenire sono assunti come positività che ritrovano l'identità di fisiologia e

patologia come in un breve periodo agli inizi del XIX secolo16.

Su questo presupposto, forme di vita in rapporto a determinati giochi linguistici delimitano il campo

dell'antropologia che agli inizi del XX secolo da pragmatica diviene filosofica. Percorriamo il

movimento del sapere dalla pragmatica della natura umana alla sua determinazione 11 Giorgio Agamben, Che cos'è il contemporaneo, nottetempo, Roma, 2008, p. 9. 12 Cfr., Walter Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, trad.it., Einaudi, Torino, 1982. 13 Cfr., G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, 1982, 2008, p. 115. 14 Cfr., Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, trad.it., Einaudi, Torino, 1998. 15 Cfr., Melinda Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre Corte, Verona 2013; M. Cooper, Katherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi, Roma, 2015. 16Cfr., M. Foucault, Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico (1963), trad.it., Einaudi editore, Torino 1998.

fenomenologica: la malattia non ha più alcun rapporto con una responsabilità individuale, ma è

involta nello strato interno del “corpo proprio”. L'identità di anomalo e anormale ci permette di

leggere la storia delle teorie biologiche come questione della verità degli organismi e di osservare

come, nelle opposte concezioni ontologica e positivista-quantitativa della malattia, l'idea dell'errore

si trasformi in descrizione di un originario vizio di forma macromolecolare.

Il limite positivo a cui giungono le “scienze della vita” manifesta per contrasto la distanza della

biologia genetica e delle neuroscienze dalle filosofie del soggetto, con un curioso scambio di senso:

il decorso della ricerca neurobiologica scopre oggi il soggetto compassionevole, mentre la

decostruzione del genere non cessa di affermare processi di desoggettivazione che sfiniscono

l'identità individuale. Questo perché le scienze della vita hanno archiviato, almeno dalla fine degli

scorsi anni Sessanta, le ripetitive, noiose diatribe tra organico e macchinico, quando emerge la

novità dell'autopoiesi.

Ma le scienze umane, i cui residui vivono ancora dell'opposizione tra scienze e umanesimo,

cercando di svegliarsi dal sonno antropologico intonano l'esausta melodia dei valori e della

differenza qualitativa della specie umana rispetto alle altre specie viventi, tanto che l’invito a

pensare l’essere umano come mortale, in cui consiste la verità della finitudine, rimane inascoltato.

Se il ritorno della morale con il nome di bioetica è l'effetto del resistere della coscienza, dell' “io”

che si vuole ridotto ma comunque volente e agente in maniera ipertrofica, ogni potenza destituente

non può che intraprendere un'archeologia del soggetto. Risalendo dalla coscienza singola e dal

sapere assoluto alla fine della storia, lo spazio aperto dal pensiero femminista e dalle teorie del

genere ci permette di guardare all'interno del dispositivo della soggettività per scoprirvi la

genealogia delle forme di vita che l'antropologia filosofica aveva significativamente abolito.

Così un altro sguardo si profila. Un altro sapere si costituisce, un altro mondo forse emerge. Una

resistenza, fino ad oggi reale quanto subordinata, si scopre inoperosa potenza d'essere; un'estetica

dell'esistenza riconduce l'aisthesis alla critica del gusto e delle facoltà. Essa infatti fa parlare il folle,

il malato, l'artista, l'attivista, il marginale, il sognatore, nella lingua del rifiuto. Provoca i corpi

occidentali a dichiarare la provenienza orientale delle immagini; evoca una particolare, unica notte.

Scopre Nietzsche prima e dopo le interpretazioni. Racconta il governo dei viventi nella storia

politica contestando la sovranità dei corpi politici. Fomenta la non necessità del potere. Al fine di

destituire la sostanza come fondamento, l'uomo come “animale razionale”, l'umano come qualità e

valore, l'origine come inizio e comando. Per scoprire alla fine ciò che è difficile pensare: che il più

definitivo è ciò che meno ci appartiene.