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PAOLO DI TARSO FONTI La vita di Saulo Paolo (il doppio nome era corrente nel l'ebraismo del tempo; per un caso simile di assonanza vedi il secondo dei fratelli Maccabei: in ebraico «Simeone» e in greco «Simone»: ( I Mac 2,3.65) è la meglio conosciuta rispetto a quella di tutti gli altri personaggi del Nuovo Testamento, compreso anche Gesù . Infatti, egli stesso nelle sue lettere ci offre non pochi dati autobiografici. C'è poi il libro degli Atti degli Apostoli che dedica a Paolo la maggior parte della narrazione, senza tener conto degli apocrifi Atti di Paolo e Tecla (fine secolo II). In realtà, la vita apostolica di Paolo è assai più lunga dei soli tre anni, in cui si svolse quella di Gesù; questa maggiore dislocazione cronologica comporta anche maggiori punti di riferimento, così che la sua attività (compresi i suoi scritti) ha più agganci storico-geografici. E se oggi si ritiene cosa ardua se non impossibile scrivere una biografia di Gesù, non altrettanto sembrerebbe per la figura di Paolo. Tuttavia non bisogna farsi illusioni. Il periodo più sicuro della sua vita è quello che va dalla conversione fino all'arrivo a Roma come prigioniero. Occorre però precisare che qui una certa sicurezza si ottiene più a livello di cronologia relativa che assoluta: è cioè abbastanza facile ottenere un rapporto più o meno accettabile fra i vari momenti scaglionantisi all'interno dell'esistenza dell'Apostolo, ma lo è meno stabilire un rapporto irrefutabile rispetto alla datazione esterna della storia del secolo I. Restano inoltre interrogativi parzialmente insoluti: Come fu la sua vita prima della conversione? E cosa avvenne dopo il biennio trascorso a Roma? Questa problematica è aggravata dal giudizio negativo che, specie in ambiente tedesco, oggi si tende a dare circa la storiografia degli Atti degli apostoli . Una cosa è certa: le lettere paoline sono fonti di prima mano, mentre gli Atti, il cui autore con ogni probabilità non conosce quelle lettere, utilizzano tutt'al più fonti di seconda o di terza mano (se si eccettuano forse le brevi «sezioni-noi») E’ inevitabile perciò constatare delle discordanze tra gli Atti, da una parte, e specialmente Gal 1-2 dall'altra; per esempio la salita a Gerusalemme narrata in At 11,27-30 è del tutto sconosciuta anzi inesistente secondo Gal 1,18; 2,1, mentre l'impegno per la colletta sancito a Gerusalemme in Gal 2,10 e tanto ricorrente nell'epistolario paolino è quasi del tutto assente nella narrazione degli Atti (cfr. solo 24,17). La tardività di questo libro e la sua particolare prospettiva teologica ci inducono a ricorrervi per integrare le notizie provenienti dalle lettere, solo quando non ci sia contraddizione tra i due; in effetti, per dirla con il cattolico O. Kuss, «"Luca" non vuole affatto scrivere una relazione storica per l'archivio di storia universale, ma un "libro di edificazione" per la comunità» .

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PAOLO DI TARSO

FONTI La vita di Saulo Paolo (il doppio nome era corrente nel l'ebraismo del tempo; per un caso simile di assonanza vedi il secondo dei fratelli Maccabei: in ebraico «Simeone» e in greco «Simone»: ( I Mac 2,3.65) è la meglio conosciuta rispetto a quella di tutti gli altri personaggi del Nuovo Testamento, compreso anche Gesù . Infatti, egli stesso nelle sue lettere ci offre non pochi dati autobiografici. C'è poi il libro degli Atti degli Apostoli che dedica a Paolo la maggior parte della narrazione, senza tener conto degli apocrifi Atti di

Paolo e Tecla (fine secolo II). In realtà, la vita apostolica di Paolo è assai più lunga dei soli tre anni, in cui si svolse quella di Gesù; questa maggiore dislocazione cronologica comporta anche maggiori punti di riferimento, così che la sua attività (compresi i suoi scritti) ha più agganci storico-geografici. E se oggi si ritiene cosa ardua se non impossibile scrivere una biografia di Gesù, non altrettanto sembrerebbe per la figura di Paolo. Tuttavia non bisogna farsi illusioni. Il periodo più sicuro della sua vita è quello che va dalla conversione fino all'arrivo a Roma come prigioniero. Occorre però precisare che qui una certa sicurezza si ottiene più a livello di cronologia relativa che assoluta: è cioè abbastanza facile ottenere un rapporto più o meno accettabile fra i vari momenti scaglionantisi all'interno dell'esistenza dell'Apostolo, ma lo è meno stabilire un rapporto irrefutabile rispetto alla datazione esterna della storia del secolo I. Restano inoltre interrogativi parzialmente insoluti: Come fu la sua vita prima della conversione? E cosa avvenne dopo il biennio trascorso a Roma? Questa problematica è aggravata dal giudizio negativo che, specie in ambiente tedesco, oggi si tende a dare circa la storiografia degli Atti degli apostoli . Una cosa è certa: le lettere paoline sono fonti di prima mano, mentre gli Atti, il cui autore con ogni probabilità non conosce quelle lettere, utilizzano tutt'al più fonti di seconda o di terza mano (se si eccettuano forse le brevi «sezioni-noi») E’ inevitabile perciò constatare delle discordanze tra gli Atti, da una parte, e specialmente Gal 1-2 dall'altra; per esempio la salita a Gerusalemme narrata in At 11,27-30 è del tutto sconosciuta anzi inesistente secondo Gal 1,18; 2,1, mentre l'impegno per la colletta sancito a Gerusalemme in Gal 2,10 e tanto ricorrente nell'epistolario paolino è quasi del tutto assente nella narrazione degli Atti (cfr. solo 24,17). La tardività di questo libro e la sua particolare prospettiva teologica ci inducono a ricorrervi per integrare le notizie provenienti dalle lettere, solo quando non ci sia contraddizione tra i due; in effetti, per dirla con il cattolico O. Kuss, «"Luca" non vuole affatto scrivere una relazione storica per l'archivio di storia universale, ma un "libro di edificazione" per la comunità» .

Non essendo questo il luogo per descrivere compiutamente la «vita di Paolo» (su cui non mancano studi e libri) , ci accontentiamo di segnalare prima i punti fissi, e al tempo stesso controversi, che permettono di sostenere l'intelaiatura della biografia dell'Apostolo (della quale daremo due tentativi di soluzione particolarmente rappresentativi), per poi tentare di tracciare un profilo biografico dell'Apostolo stesso.

QUESTIONI CRONOLOGICHE

I punti di riferimento maggiormente documentabili, ma anche discussi, per una biografia paolina sono tre. Il fatto più sicuro è dato dalla comparizione di Paolo davanti al proconsole Gallione a Corinto (At

18,12-17).

Da una lettera dell'imperatore Claudio scoperta a Delti nel 1905 , combinata con un testo del Corpus

inscriptionum latinarum (CIL 1256) e con Dione Cassio LX 17,3, si può dedurre, con un possibile ma improbabile scarto di un anno, che Gallione fu «proconsole anthypatos» di Acaia tra il maggio del 51 e il maggio del 52. Quindi, nel corso di questo anno, Paolo fu certamente a Corinto. Ciò che invece rimane incerto è se questa presenza di Paolo corrisponda alla prima visita fatta alla città, quando cioè vi fondò la comunità cristiana (tale è la posizione tradizionale, ancor oggi di gran lunga la più diffusa), o se invece si riferisca a una presenza successiva.

Il secondo dato cronologico è l'editto di Claudio, che cacciò (gli) ebrei da Roma. Lo scrittore cristiano del V secolo Orosio data il fatto nell'anno IX di Claudio, cioè nel 49; in questo caso, il recente arrivo di Aquila e Priscilla a Corinto (prosfàtos, «da poco tempo»: At 18,2) si combinerebbe con il primo soggiorno di Paolo in quella città; così l'opinione comune. Ma ci sono delle difficoltà: dell'editto Tacito non parla, e anche Giuseppe Flavio (che pur viene citato da Orosio) non lo conosce; come altra fonte rimane Dione Cassio LX 6,6, che però non parla di espulsione, anzi la nega e afferma solo una restrizione del diritto di raduno e per di più sembra collocare il fatto nel 41 . Dando la preferenza a Dione si otterrebbe la prima visita di Paolo a Corinto già verso il 41 (così Ludemann). Comunque, non è facile optare per l'una o per l'altra datazione". In terzo luogo, occorre stabilire l'anno in cui avvenne il cambio del procuratore della Giudea da Antonio Felice a Porcio Festo, verifìcatosi dopo l'arresto di Paolo a Gerusalemme al termine del terzo viaggio missionario. Mentre l'opinione tradizionale lo colloca verso il 60, sembrerebbe doversi accettare come più probabile l'anno 55, sulla base di queste fonti: Giuseppe Flavio (Ant. XX 182) narra che Felice a Roma, dopo la destituzione, fu salvato dalla protezione del fratello Pallante, ministro delle finanze di Claudio e poi di Nerone (diventato imperatore nel 54); Tacito {Ann. XII 14) precisa che Pallante cadde in disgrazia verso la fine del 55, poco prima dell'uccisione di Britannico (figlio di Claudio e Messalina e possibile antagonista di Nerone); Svetonio (Cl. 27 combinato con ib. 7 e 14) ci dice che Britannico fu avvelenato poco prima del quattordicesimo compleanno, che doveva cadere il 13 febbraio 56. Stando così le cose, il procuratore Antonio Felice dovette essere destituito entro l'anno 55, ricevendo come successore Porcio Festo entro quello stesso anno. Pertanto, la notizia di At 24,27 («trascorsi due anni») dovrebbe riferirsi al biennio non della prigionia di Paolo, durata pochi mesi, ma della procura di Antonio Felice. In tal caso, il viaggio di Paolo da Cesarea a Roma si svolge tra l'autunno del 55 e la primavera del 56 (cfr. At 27,12; 28,11), e il biennio da lui trascorso a Roma (At 28,30) sarebbe compreso tra il 56 e il 58 (sostengono tale opinione Dockx, Haenchen, Barrett). Su queste basi, si possono proporre due ipotesi di sistemazione cronologica, limitandoci ai fatti maggiori: A. La cronologia tradizionale pone la conversione nel 34-35; il primo viaggio missionario (Pisidia e Licaonia) nel 45-49; il concilio di Gerusalemme nel 48-49; il secondo viaggio missionario (Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto) nel 50-52; il terzo viaggio (Efeso, Macedonia, Corinto, Mileto) nel 53-57/58; l'arresto a Gerusalemme e un biennio di prigionia nel 57-59 o 58-60 (in questi anni avviene il cambio del procuratore); l'arrivo a Roma nel 60-61 e conseguente biennio di prigionia; viaggio in Spagna e ritorno nell'area del Mar Egeo; secondo arresto e martirio a Roma tra il 64 e il 68. Secondo questa cronologia, le lettere (tutte e tredici) si scaglionerebbero tra il 51 e il 67.

B. Tra le molte e discordanti proposte, che si discostano da quella comune, proponiamo la ricostruzione più recente e più originale di G. Ludemann, che si fonda su Gal 1,6-2,14 e sul criterio delle collette per i poveri di Gerusalemme. Ludemann struttura la vita di Paolo non secondo i viaggi missionari, ma secondo le visite compiute a Gerusalemme (il tutto con lo scarto di tre anni, a seconda che si ponga la morte di Gesù nell'anno 27, da lui preferito, o nel 30, che qui seguiamo): la conversione nel 33; la prima visita a Gerusalemme («videre Petrum», Gal 1,18) nel 36; il viaggio con Barnaba in Siria-Cilicia (e Galazia del Sud: At 13-14), più il viaggio missionario autonomo a Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto fra il 37 e il 41; in concomitanza, la fondazione delle comunità galatiche; la seconda visita a Gerusalemme per il concilio nel 50; a Efeso nel 51; la «visita intermedia» a Corinto nel 52 (e incontro con Gallione); Efeso - Macedonia - Corinto nel 53-55; la terza visita a Gerusalemme per portare le collette nel 55; in quest'anno avviene il cambio del procuratore; l'arrivo a Roma nel 56 e la prigionia biennale fino al 58. Stando a questa cronologia, le lettere (solo sette autentiche) si pongono tra il 41 e il 58.

Secondo Dockx , tra il 58 e il 67 si collocherebbe il viaggio di Paolo in Spagna (cfr. Rm 15,28; 1

Clem 5,7) e un nuovo viaggio in Oriente con l'itinerario Creta – Efeso - Macedonia - Nicopoli - Efeso - Troade, documentato dalle lettere pastorali. Secondo l'opinione tradizionale, questi ultimi viaggi si collocherebbero tra il 63 e il 67. Molti autori invece ritengono che Paolo abbia subìto il martirio immediatamente allo scadere del biennio di prigionia a Roma (a motivo sia della finale tronca degli Atti, sia della inautenticità delle lettere pastorali).

PROFILO DELLA VITA DI PAOLO

Saulo nacque non molti anni dopo Gesù a Tarso in Cilicia, nell'attuale Turchia sud-orientale (cfr.

At 21,39). Pur appartenendo a una famiglia di fedele osservanza ebraica (cfr. Fil 3,5-6), già alla nascita ebbe in eredità dal padre la cittadinanza romana (cfr. At 16,37-39; 22,25-29; 25,10-12), che gli permetterà di appellarsi al giudizio diretto dell'imperatore (cfr. At 25,1-12; così faranno poi anche altri cristiani, come leggiamo nella lettera 10,96 di Plinio il Giovane a Traiano all'inizio del II secolo). Il nome romano di «Paolo», che egli usa sempre nelle lettere («Saulo» è testimoniato solo da Luca negli Atti), può derivare o da uno scambio per assonanza così da adeguarsi meglio all'ambiente culturale non giudaico, oppure dal nome di un patrono romano, che può aver trasformato in liberti gli avi dell'apostolo (i quali si sono forse trasferiti dalla Palestina alla Cilicia in seguito all'intervento di Pompeo nel 63 a.C.) . Nella città di Tarso, che già Senofonte definiva «grande e felice», al tempo di Paolo regnava «un grande zelo per la filosofia e per ogni ramo della formazione universale»; essa fu la patria di non pochi filosofi stoici, tra cui Crisippo e poi Atenodoro, precettore di Augusto. Paolo vi frequentò certamente una buona scuola elementare greca, anche se probabilmente di ambito giudaico, consistente nell'apprendimento della lingua greca e soprattutto della Bibbia greca, con la quale egli si dimostrerà familiarizzato. E’ probabile che vi abbia appreso anche elementi di retorica, ma che non abbia studiato i classici della letteratura greca (diversamente dal filosofo ebreo, suo coetaneo, Filone di Alessandria). Stando alla testimonianza del retore-filosofo di poco posteriore, Dione di Prusa (cfr., Oratio 33,47), a Tarso si venerava il dio locale Sandam, assimilato a Eracle, secondo forme cultuali misteriche (morte reviviscenza della vegetazione). Questa molteplice componente grecizzante si manifesta variamente in Paolo: il tema stoico dell'autàrcheia (autosufficienza, (cfr. Fil 4,12), quello della conoscenza naturale di Dio (cfr. Rm 1,19-20), il metodo retorico della diatriba (cfr. Rm 2,27-3,8), un certo vocabolario antropologico (cfr. 2 Cor 4,16-5,9), la conoscenza dei giochi nello stadio (cfr. 1 Cor 9,24-27), una citazione di Menandro (ma forse in termini proverbiali: 1 Cor 15,33), il concetto di coscienza (cfr. Rm 2,15; 13,5 ecc.). Nato nella diaspora greca, Paolo si recò a Gerusalemme (dove doveva avere dei legami di parentela: cfr. At 23,16) per approfondire la sua specifica formazione ebraica ai piedi del grande rabbino Gamaliele I (cfr. At 22,3); qui acquisì anche la tipica conoscenza delle sacre Scritture e in particolare della Torah secondo la scuola dei farisei. Seguendo l'abitudine dei rabbini, imparò ed esercitò un lavoro manuale, consistente nella fabbricazione di tende o coperte da campo, che si può intendere anche come lavorazione del cuoio (cfr. At 18,3: skenopoiòs). Anche come apostolo, egli non vorrà gravare sulle sue chiese, ma lavorerà con le proprie mani per provvedere alle necessità del sostentamento (cfr. At

20,34; e soprattutto 1 Cor 9,7-15; 2Cor 12,13).

Qualche moderno ha suggerito che Paolo si fosse pure sposato, rimanendo poi vedovo o abbandonato dalla moglie in seguito alla sua conversione. Il matrimonio era sicuramente il normale costume

rabbinico; il Talmud babilonese ci attesta l'unica eccezione di Rabbi Ben Azzaj, della fine del secolo I, il quale, rimproverato per il suo celibato, rispondeva: «Che devo fare, se la mia anima brama la Torah? Il mondo può essere conservato da altri! »; certo Paolo era stabilmente solo, quando scriveva la prima lettera ai Corinzi (cfr. 7,8; 9,5).

Non si ha nessun indizio di qualche contatto con Gesù di Nazaret, crocifìsso probabilmente l'anno 30, anche se è verosimile che Paolo fosse a Gerusalemme per la Pasqua di quell'anno. Il suo primo approccio sicuro con il nascente cristianesimo lo ebbe a Gerusalemme con il gruppo giudeo-ellenistico di Stefano e compagni; dev'essere stato per lui, fariseo, qualche cosa di shockante, tanto da infuriarlo, sentirli «pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio », cioè contro la Torah e contro il Tempio (At 6,11-14). Di qui il suo zelo persecutorio, che egli stesso ricorderà ai cristiani di Galazia: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14).

La sua attività si estendeva fino a Damasco. Ma proprio là subì il capovolgimento della sua vita e fu «ghermito da Cristo» (Fil 3,12), al punto che ciò che prima era un valore per lui diventò spazzatura (cfr. Fil 3,7ss). Solo Luca negli Atti ci dà una dimensione narrativa del fatto; ma Paolo nelle sue lettere parla sempre e soltanto, in termini sobri e personalistici, di un decisivo incontro con il Signore risorto, che fece di lui insieme un cristiano e un apostolo (cfr. 1 Cor 9,1; 15,8-10; 2Cor 4,6; Gal 1,15-16; Fil 3,7-12). Secondo il racconto degli Atti, la repentinità dell'evento si combinò con una specifica iniziazione da parte della comunità cristiana tramite lo sconosciuto Ananìa (cfr. At 9,1-18). Si era attorno all'anno 33 (o 35).

D'ora in poi tutte le energie dell'ex fariseo sono posteal servizio di Gesù Cristo e dell'evangelo. Il suo temperamento focoso (cfr. 1 Cor 4,19-21; Fil 3,2), non alieno da momenti di vera tenerezza (cfr. 1 Ts 2,7-9; Gal 4,18-19), rimane intatto, ed è la prova concreta che il cristianesimo non mortifica l'umanità di nessuno. Ma ormai la sua è l'esistenza appassionata di un apostolo che si fa «tutto a tutti» ( 1

Cor 9,22). Ha un primo significativo incontro con «Cefa», cioè Pietro, a Gerusalemme (Gal 1,18). Strutturalmente teso verso nuovi orizzonti, soprattutto sentendo acuto il problema dell'accesso dei pagani al Dio biblico della grazia, che in Gesù Cristo si è reso scandalosamente disponibile a tutti senza eccezioni, egli non trova vita facile all'interno della chiesa-madre di Gerusalemme, di tendenza conservatrice. E’ costretto a rifugiarsi a Tarso. Intanto, a seguito della persecuzione contro il gruppo di Stefano, alcuni di questi sono giunti ad Antiochia di Siria, dove per la prima volta il vangelo viene predicato ai pagani e da essi accettato, così che i discepoli di Gesù in quella metropoli vengono chiamati per la prima volta «cristiani», alla greca (At 11,25-26). È Barnaba, un giudeo- cristiano di origine cipriota ma appartenente alla Chiesa di Gerusalemme, che allora si reca a Tarso a prelevare Paolo perché collabori alle promettenti prospettive missionarie nella città siriana. Qui si impegnano insieme per un anno intero. Poi ancora insieme,mandati dalla Chiesa antiochena, intraprendono un viaggio missionario come nuova esigenza di espansione del vangelo (cfr. At

13-14). Salpati da Seleucia, predicano a Cipro, incontrandovi il proconsole romano Sergio Paolo; di qui proseguono per l'Anatolia centro-meridionale, toccando i seguenti centri abitati: Perge di Panfìlia, Antiochia di Pisidia, Iconio, e poi le città della Licaonia, Listri e Derbe; di volta in volta, il racconto di Luca fa vedere che, mentre i giudei si oppongono attivamente all'annuncio evangelico, i pagani invece lo accolgono gioiosamente. Tornati sui propri passi ad Antiochia di Siria, alcuni cristiani venuti dalla Giudea si oppongono alla loro metodologia missionaria, che prescinde dalla circoncisione e in genere dalla legge mosaica; il contrasto rende così necessario quello che viene chiamato il concilio di Gerusalemme. Qui, per l'intervento di Pietro e di Giacomo, fratello del Signore, si viene a un compromesso: è riconosciuto l'apostolato di Paolo, con l'accordo che egli si rivolga ai pagani (lasciando i circoncisi a Giacomo, Cefa e Giovanni), purché egli si ricordi di fare collette per i poveri della Chiesa gerosolimitana (cfr. Gal 2,1-10); Luca aggiunge anche la richiesta di quattro clausole mosaiche, a cui i pagani avrebbero dovuto attenersi pur rinunciando alla circoncisione (cioè: astenersi dalle carni immolate agli dei, dal sangue, dagli animali soffocati e dai matrimoni proibiti dalla legge levitica), ma Paolo nelle sue lettere non dimostra di conoscere queste disposizioni. Siamo con ciò nell'anno 49 (o al massimo al 50). Paolo ritorna ad Antiochia di Siria, dove in una non meglio precisata circostanza rimprovera Pietro, in nome della «verità del vangelo», per la sua doppiezza a proposito delle prescrizioni dietetiche giudaiche (cfr. Gal 2,11-14). La metropoli siriana, che era la terza città dell'impero dopo Roma e Alessandria, diventa per Paolo la sede abituale e il normale punto di riferimento dopo i suoi viaggi (un po' come Cafarnao per Gesù). Ma è poco più che un pied-à-terre. I viaggi per la fondazione e la cura

pastorale delle molte chiese da lui suscitate lo impegnano per tutto il resto della vita, assorbendo le sue energie migliori, nonostante le noie di una non meglio identificabile malattia, che è stata variamente diagnosticata come cecità, disfasia, epilessia, febbri malariche (cfr. Gal 4,13-15; forse 2 Cor 12,7-9)

Il suo metodo di evangelizzazione lo porta a privilegiare i grandi agglomerati urbani del tempo, dove si rivolge in ordine di preferenza ai poveri, agli intellettuali e ai benestanti (borghesia del commercio). Gli immancabili avversari giudeo-cristiani gli sono sempre alle calcagna (cfr. 2 Cor 11,13-15.22-23; Gal

1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17-18; e anche Col 2,8). Un secondo e più impegnativo viaggio missionario, senza Barnaba, ha il seguente itinerario: Paolo parte da Antiochia di Siria insieme a Sila, passa via terra per Listri, dove prende con sé Timoteo, poi per la Frigia, la Galazia, la Misia, fino a Troade sull'Egeo settentrionale; di qui salpa per l'Europa, toccando l'isola di Samotracia, e poi per le città di Neapoli, Filippi, Anfipoli, Apollonia, Tessalonica, Berèa, giunge ad Atene, dove tiene il celebre discorso dell'Areopago (At 17,16-34), e infine a Corinto. In quest'ultima città si ferma un anno e mezzo, scrive la prima lettera ai Tessalonicesi, è osteggiato dai giudei che lo deferiscono al tribunale del proconsole romano Gallione (fratello di Seneca), ma suscita una delle chiese più vivaci di tutto il cristianesimo primitivo. Riparte da Cencre (il porto orientale di Corinto) e, toccando appena Efeso e poi Cesarea Marittima, sale fino a Gerusalemme per tornare ad Antiochia di Siria. Di là intraprende il suo ultimo viaggio missionario: attraverso la Galazia e la Frigia, giunge a Efeso, dove si ferma per più di due anni. Qui, abbandonata la sinagoga «continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certo Tiranno» (At 19,9: il cosiddetto testo occidentale precisa che vi insegnava dalle ore 11 alle ore 16 ). Da Efeso intrattiene una nutrita corrispondenza con la Chiesa di Corinto, dove si reca una seconda volta via mare, subendo una non meglio precisata offesa (cfr. 2Cor 2,5-11). Di qui scrive anche la lettera ai Galati, vero manifesto della libertà cristiana, per opporsi al tentativo di giudaizzazione di quelle chiese. A Efeso sperimenta anche una sollevazione ostile, provocata dall'argentiere Demetrio in nome della dea Artemide, di cui la città ospitava il tempio Artemision (computato tra le sette meraviglie del mondo). E’ qui che probabilmente conosce anche una prigionia, dalla quale scrive la lettera ai Filippesi e il biglietto a Filemone. Lasciata la capitale della provincia d'Asia, Paolo si dirige verso il nord e, attraversata la Macedonia, giunge in Grecia (probabilmente a Corinto), da dove scrive la sua lettera più importante, quella ai Romani, in cui tra l'altro annuncia il progetto di recarsi in Spagna. Ripartito dalla Grecia in direzione settentrionale, dalla macedonica Filippi salpa verso Troade, e sempre per via mare, toccando Asso, Mitilene, Chio, Samo, Mileto (dove tiene un importante discorso agli anziani della Chiesa di Efeso fatti venire colà), Cos, Rodi, Pàtara, Tiro, Cesarea Marittima, giunge finalmente a Gerusalemme per recarvi le collette messe insieme soprattutto in Macedonia e in Acaia. A Gerusalemme si ripresenta il contrasto con Giacomo e l'interpretazione giudeo-cristiana del vangelo. E in occasione di un subbuglio suscitato contro di lui da alcuni giudei della provincia d'Asia, con l'accusa di opporsi alle istituzioni del giudaismo, viene arrestato da un tribuno della coorte romana. Paolo si difende ripetutamente, sia in pubblico di fronte ai giudei della città sia di fronte al Sinedrio, e anche davanti al procuratore Antonio Felice a Cesarea Marittima, dove viene trasferito. Avvenuto poi il cambio del procuratore, di fronte a Porcio Festo il prigioniero Paolo si appella all'imperatore e, dopo un altro discorso di difesa davanti al re Agrippa II e a sua sorella Berenice (che sarà amante dell'imperatore Tito), viene deferito a Roma. Il viaggio verso la capitale dell'impero seguì questo percorso: con una nave, salpati da Cesarea e passando per Sidone e Cipro, giunsero a Mira di Licia; qui con un'altra nave costeggiarono la Licia fino all'altezza di Cnido, di dove puntarono a sud ovest verso l'isola di Creta, raggiungendo una località chiamata Buoni Porti; nonostante la pericolosità della navigazione per l'avanzata stagione autunnale, ripartono verso l'Italia, ma li sorprende una lunga e violenta tempesta che si risolve in un fortunoso naufragio all'isola di Malta; salpano di nuovo dopo tre mesi con un'altra nave, che aveva svernato nell'isola, e approdano a Siracusa in Sicilia, poi a Reggio in Calabria, per giungere infine al porto di Pozzuoli; percorrendo di qui la via Campana fino a Capua e poi la via Appia, gli vengono incontro alcuni cristiani di Roma fino al Foro Appio (circa settantadue chilometri dalla capitale); giunto finalmente a Roma, vi trascorre sotto custodia militare due anni interi nella casa che aveva preso a pigione. A seconda della cronologia adottata, come abbiamo detto sopra, questa scadenza ci porta all'anno 58 oppure all'anno 63. Dopo questa data non abbiamo più notizie sicure, non sapendo con esattezza se il processo ebbe esito negativo o positivo. Probabilmente comunque il viaggio in Spagna non ebbe luogo; nessuna fonte antica lo descrive: solo gli apocrifi Atti di Pietro, della fine del secolo II, narrano della partenza di Paolo da Roma, ma probabilmente per pura dipendenza da Rm 15,24.28 ( il testo della lettera di Clemente, capitolo 5,

è troppo generico). La tesi tradizionale di un nuovo viaggio in Oriente (Efeso, Creta, Nicopoli in Epiro, Troade) è basata essenzialmente sulle lettere Pastorali, l-2 Tm e Tito, che però oggigiorno vengono diffusamente ritenute deuteropaoline, cioè scritte più tardi da un discepolo. La morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma sotto l'imperatore Nerone e fu violenta, un martirio. La data del 64, in concomitanza con l'esecuzione dei cristiani accusati dell'incendio della città, non è chiaramente proposta dalla tradizione ( cfr. 1 Clem 5,6, secondo cui Paolo fu consegnato «per gelosia e invidia», forse dei giudeo-cristiani della capitale). La data del 67 è suggerita da san Gerolamo, De viris

illustr. 5 e 12 (due anni dopo la morte di Se- neca); da parte sua, Eusebio nel Chronicon suggerisce il 68. Ma, come abbiamo detto, è possibile pensare già al 58. La più antica testimonianza circa il suo sepolcro sulla via Ostiense risale al presbitero Gaio sul finire del secolo II: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli; se vorrai recarti al Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa chiesa» . Una tradizione successiva specifica il martirio come decapitazione alle Acque Salvie, oggi Tre Fontane (Atti di Pietro e Paolo, 80: non anteriori ai secoli

IV-V)

R Penna Paolo di Tarso ( pagine 17-30 ) San Paolo 1992

Date della vita di Paolo (date diverse )

Nascita a Tarso 10 Lapidazione di Stefano 33-34 Conversione 35 33 Prima visita a Gerusalemme 36-37 36 Primo viaggio missionario 45-49 37-41 Concilio di Gerusalemme 48-49 50 Secondo viaggio missionario 50-52 Terzo viaggio missionario 53-57 56 Arresto a Gerusalemme 58 Biennio di prigionia 57-59 56-58 Arrivo a Roma 60-61 58 Viaggio in Spagna ed Oriente 63-67 57-67 Secondo arresto 64-67 Martirio 67 61 Lettere 51-67 51-61

DA PERSECUTORE AD APOSTOLO

Tentare di ricostruire, sia pure brevemente, l'esperienza, che Paolo ha vissuto nella sua vocazione-conversione, è importante non soltanto per delineare con più precisione la sua figura spirituale, ma per individuare, ancora una volta, il centro del suo discorso teologico. Ogni profeta vive di quell'incontro personale con Dio - incontro per lo più inatteso - che costituisce la sua vocazione, l'esperienza fondamentale alla quale, in seguito, non farà che riferirsi. Il profeta è segnato per tutta la vita dalla sua vocazione. Il paragone con i profeti non sembri arbitrario: Paolo stesso, nella Lettera ai Galati, legge la propria vocazione alla luce di quella dei profeti.

LA VOCAZIONE NEGLI ATTI

Atti 9, 1-19 Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si

presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all`improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. Ora c`era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». E il Signore a lui: «Su, va’ sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista». Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest`uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. Inoltre ha l`autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». Ma il Signore disse: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono.

Atti 22, 1-21

«Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa davanti a voi». Quando sentirono che parlava loro in lingua ebraica, fecero silenzio ancora di più. Ed egli continuò: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, come può darmi testimonianza il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti. Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all`improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco. Un certo Anania, un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti, venne da me, mi si accostò e disse: Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell`istante io guardai verso di lui e riebbi la vista. Egli soggiunse: Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando il suo nome. Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nella sinagoga quelli che credevano in te; quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch`io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. Allora mi disse: Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani».

Atti 26, 9-18

Anch`io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l`autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch`io ho votato contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all`eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere. In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l`eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me.

Certamente, i racconti degli Atti degli Apostoli non riflettono direttamente l'esperienza di Paolo, ma l'interpretazione di Luca. E’ pur sempre vero, tuttavia, che si tratta di un'interpretazione che merita attenzione, anche dal punto di vista della fedeltà storica. Per quanto riguarda il significato teologico della conversione i racconti degli Atti degli apostoli e le testimonianze di Paolo coincidono quasi perfettamente. Paolo compare la prima volta negli Atti degli apostoli in occasione della lapidazione di Stefano: i testimoni posero i loro abiti ai piedi di un giovane chiamato Saulo (At 7,58). Poi Luca conclude il racconto del martirio di Stefano con l'annotazione: «E Saulo era consenziente alla uccisione di lui» (At 8,1). Qualche riga più avanti - in un sommario in cui si parla della persecuzione della chiesa di Gerusalemme - Luca scrive: «Saulo devastava la Chiesa e, entrando di casa in casa, arrestava uomini e donne e li portava in prigione» (At 8,3).

Luca ha attribuito all'episodio della conversione di Paolo una importanza eccezionale. La racconta 3 volte, non certo per allungare il suo libro, ma per convincere i lettori che si tratta di un avvenimento di portata decisiva (oltre che in At 9, 1-19, l'episodio è raccontato anche in At 22, 1-21). È Paolo stesso che lo racconta in un discorso di difesa davanti ai giudei. L'Apostolo narra la sua vita per dimostrare che la sua missione fra i pagani è voluta da Dio. L'episodio è, poi, narrato per la terza volta in At 26, 9-18: di nuovo in un discorso di difesa tenuto da Paolo davanti al governatore romano Festo e al re giudeo Agrippa. Confrontare fra loro i tre racconti è istruttivo. Accanto a un fondo comune, si notano differenze non prive di rilievo. Ad esempio, l'episodio di Anania, riportato ampiamente nel primo racconto (At 9,10-19), è molto più breve nel secondo (22,12-16) e scompare completamente nel terzo. Nel primo racconto è solo attraverso Anania che veniamo a conoscere che Paolo è destinato a diventare missionario dei pagani ( 9,15). Nel secondo episodio la vocazione universale di Paolo è dichiarata 2 volte: una volta da Anania («Gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che avrai visto e udito», At 22,15) e una volta da Gesù stesso, in una visione che Paolo ebbe «mentre pregava nel tempio» («Va’, perché io ti manderò lontano fra i pagani», At 22,21). Nel terzo racconto, infine, è solo e direttamente Gesù che rivela all'Apostolo la sua missione. E non gliela rivela in una visione al tempio, come nel racconto precedente, ma nel dialogo dell'apparizione lungo la strada di Damasco: « Su, alzati e rimettiti in piedi. Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio» (At 26,16-18). Come spiegare queste varianti? Alcuni esegeti pensano che Luca abbia attinto a fonti diverse, che raccontavano l'episodio in forme differenti. Ma è una ipotesi che non convince. In ogni caso, resterebbe da spiegare perché Luca non abbia armonizzato le diverse tradizioni di cui disponeva. In realtà le varianti sono intenzionali, e fanno parte della tecnica narrativa di Luca. Le varianti abbelliscono e permettono di insistere sugli stessi temi senza ripetersi. Luca racconta 3 volte l'episodio di Damasco per sottolinearne l'importanza, variando però i particolari per non apparire monotono. Ma ritorniamo al primo racconto per evidenziarne le insistenze, in particolare quei tratti che sono comuni anche alle altre due narrazioni. Luca annota in tutti e tre i racconti che Paolo era un implacabile persecutore dei cristiani: «Fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore» (At 9,1); «Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne» (At 22,4); «Credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l'autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch'io ho votato contro di loro» (At 26,9-10). La conversione è stata per Paolo un brusco e radicale passaggio da persecutore a discepolo. Mettendo in particolare evidenza l'ortodossia giudaica di Paolo e il suo ardente zelo nella persecuzione, Luca vuole probabilmente sottolineare due aspetti: la conversione di Paolo è grazia, puro dono dell'iniziativa divina; e, di per sé, Paolo non sarebbe mai diventato il missionario dei pagani, poiché la sua missione è disegno divino, non decisione umana. Stando al primo racconto e, in parte, al secondo, Paolo non riceve direttamente la missione da Cristo; la riceve tramite Anania, cioè attraverso la mediazione della Chiesa. L'ecclesiologia di Luca qui si mostra in tutta evidenza: nonostante l'apparizione diretta del Cristo risorto, è l'inserimento nella tradizione della Chiesa che legittima la missione apostolica di Paolo. Nel breve dialogo con Gesù, Saulo pronunzia una sola frase, in forma di domanda: «Chi sei tu, Signore?» (At 9,5; 22,8; 26,15). Non c'è in lui alcuna resistenza. E la risposta del Signore è semplice e insieme sconvolgente: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9,5); «Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti» (At 22,8); «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 26,15). In questa brevissima risposta, Paolo scopre anzitutto che Gesù di Nazareth, colui che egli riteneva morto e nemico di Dio, è invece vivo e circondato dalla gloria divina: gli appare, intatti, avvolto nella luce che atterra e acceca, due tratti caratteristici delle teofanie dell'Antico Testamento. Ma, insieme, Paolo scopre la profonda realtà della Chiesa, che qui appare come una misteriosa comunione, quasi un'identità, tra il Cristo e i suoi discepoli: Paolo perseguita i cristiani e si sente chiedere da Gesù: «Perché mi perseguiti?». Il Cristo glorioso è solidale con i suoi discepoli perseguitati. Infine, Paolo scopre in tutta la sua insospettabile gratuità l'amore del Cristo, un amore preveniente e generoso: Gesù si preoccupa di salvare il suo persecutore! Nelle sue lettere Paolo non farà che ritornare continuamente su questo tema: la salvezza viene da Dio, non dall'uomo; è la fede che salva, non le opere.

LA TESTIMONIANZA DI PAOLO Paolo ritorna più volte nelle lettere sul tema della sua conversione-vocazione (1 Cor 15,8-10; Gal

1,13-17; Fil 3,7-14; 1 Tm 1,12-16).

Prima Corinzi 15, 8-10

Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l`infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha

risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. In 1 Cor 15, 8-10 Paolo non fa un vero racconto della sua conversione, ma un cenno indiretto: la sua attenzione, infatti, cade sull'apparizione del Risorto, non sulla sua conversione. Ma anche un semplice cenno può, a volte, suggerire molte cose, come appunto nel nostro caso in cui è in grande evidenza il motivo della «grazia», come è mostrato dalla triplice ricorrenza del termine charìs e dal fatto che il Risorto è comparso a un persecutore, del tutto indegno di essere chiamato a diventare apostolo: « Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono». Da persecutore ad apostolo, questo il passaggio che ha fortemente impressionato e sorpreso Paolo, riempiendolo di meraviglia ogni volta che vi pensa e ne parla. Nulla più di questo passaggio - da persecutore ad apostolo - lascia trasparire l'assoluta gratuità dell'intervento salvifico del Signore.

Il contesto, poi, ci offre altri due suggerimenti. Il primo è che Paolo pone il suo incontro con il Signore risorto sullo stesso piano delle apparizioni agli altri apostoli. Non lo fa per rivendicare una posizione personale, ma per rivendicare la piena attendibilità della sua testimonianza e l'autorevolezza del suo vangelo. Il secondo suggerimento è forse meno immediato, ma non meno importante. Se Paolo qui accenna alla sua conversione sottolineandone la gratuità, è anche perché vede in essa una esemplare illustrazione dell'espressione «morì per i nostri peccati» che costituisce il primo articolo del vangelo, che lui ha ricevuto e trasmesso e che si predica in tutte le comunità.

Galati 1, 13-17

Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com`ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco

Il racconto che si legge in Gal 1, 13-17 è inserito in un discorso molto polemico. Il suo scopo è di mostrare la legittimità del vangelo che Paolo predica. Contro i giudaizzanti che seminavano dubbi sulla legittimità del suo incarico (per poi negare l'ortodossia della sua predicazione), Paolo afferma di essere stato «incaricato» da Cristo e di essere in comunione con gli altri apostoli. «Udiste, infatti, il mio modo di comportarmi un tempo nel giudaismo: perseguitavo oltre ogni limite la chiesa di Dio e cercavo di rovesciarla, e mi ero spinto, nel giudaismo, oltre tutti i miei coetanei appartenenti al mio popolo, difensore fanatico com'ero, in misura maggiore di loro, delle tradizioni dei miei padri. Quando poi piacque a Colui che mi aveva separato fin dal seno di mia madre e mi aveva chiamato in forza della sua grazia di rivelare il Figlio suo in me, affinché io lo annunziassi ai pagani, subito fin da allora non consultai alcun uomo né partii per Gerusalemme dagli apostoli miei predecessori, ma mi allontanai verso l'Arabia, e di nuovo tornai a Damasco» (cfr. Gal 1,13 ss.).

Il passo è tanto denso che non è facile scioglierlo. Verbi, parole e riferimenti biblici, tutto sottolinea la gratuità dell'iniziativa di Dio: mi scelse fin dal seno materno, mi chiamò con la sua grazia, si

compiacque (...). Paolo non parla direttamente dell'amore di Cristo, ma di Dio: l'incontro è stato con il Cristo risorto, ma questo incontro non è che la manifestazione visibile dell'amore invisibile del Padre. Sorprendente è anche l'insistenza di Paolo nel descrivere la sua condizione precedente: il suo comportamento, il suo zelo per la legge, la sua accanita persecuzione dei cristiani. Perché tanta insistenza? Certamente per dare più risalto alla gratuità dell'iniziativa di Dio, ma anche per porre in evidenza l'ampiezza del mutamento che la chiamata ha comportato. Non c'è chiamata di Dio senza esodo: è questo un motivo che ricorre in tutti i racconti di vocazione. Nel caso di Paolo, però, il cambiamento è teologico, non morale. Paolo non è un trasgressore della legge, ma un giudeo zelante che l'osserva puntigliosamente. E’ a questo giudeo tenacemente osservante che viene rivelata l'identità della persona e dell'evento di Gesù. Al centro dell'esperienza di Paolo non c'è un cambiamento, ma una rivelazione. Ponendo la propria esperienza in riferimento a quella del profeta Geremia (1,2 ss.) - che a sua volta rinvia all'elezione di Israele -, Paolo ribadisce l'assoluta gratuità della iniziativa di Dio («fin dal seno materno»), mostrando al tempo stesso, però, che essa non è stata un gesto inedito nella storia di Dio, bensì un gesto particolarmente rivelatore della sua logica costante. C'è un ultimo tratto da notare: Paolo ha colto nell'incontro con Cristo un immediato legame con la missione ai pagani. Perché? Dove sta la ragione di questo legame tra l'incontro con Gesù e l'universalità della missione? La ragione non può essere che il motivo della gratuità. Se la salvezza di Cristo è gratuita, allora non può essere che incondizionata. Non c'è più spazio per una missione che distingua tra popolo e popolo, tra vicini e lontani.

Filippesi 3, 3-19 Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci

gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l`ottavo giorno, della stirpe d`Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall`osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l`ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch`io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea. Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l`esempio che avete in noi. Perché molti, ve l`ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. Nel passo polemico di Fil 3, 3-19 Paolo parla nuovamente della sua conversione, ricorrendo alla immagine suggestiva della «corsa» e della «conquista». Cristo ha rincorso Paolo per conquistarlo; ma, dopo essere stato conquistato, è Paolo che rincorre Gesù (3,12-14). Il verbo greco katalambano significa «afferrare, prevalere, tenere saldamente, sorprendere». Cristo ha afferrato Paolo sorprendendolo e tenendolo saldamente. L'azione è tutta dalla parte di Gesù: è totalmente grazia. E’ Gesù che ha cercato Paolo, non viceversa. Solo dopo, la ricerca sembra capovolgersi: è Paolo che cerca di afferrare Gesù. L'incontro con Cristo ha aperto a Paolo orizzonti nuovi e inattesi, che hanno fatto impallidire tutte le cose di prima: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta» (Fil 3,13). La rottura, che accompagna ogni vocazione, è qui detta in termini molto belli: dimentico del passato, Paolo si

protende interamente in avanti. Protendersi verso il nuovo che Cristo dischiude, non più volti all'indietro, questa è la conversione. Per dire che le cose che prima tanto importavano hanno perso completamente valore, Paolo usa un linguaggio vigoroso e colorito: ciò che prima era considerato un «guadagno» (kerdos, vantaggio, lucro, utile), ora è considerato una « perdita » (zemia: parola che dice non soltanto l'inutilità, ma il danno, lo svantaggio), addirittura considerato uno skubalon (spazzatura, sterco). La radicalità del cambiamento non poteva essere espressa in termini più forti. Nessun dualismo, però, né ascetico né escatologico. Paolo, infatti, non oppone le cose della materia alle cose dello spirito, né le cose di qua alle cose di là. A ben guardare, Paolo non dice nemmeno che ha lasciato le cose di prima perché deluso, avendone compreso il vuoto e l'inconsistenza, l'inganno. Le cose di prima sono rimaste quelle che erano: hanno perso valore perché Paolo si è imbattuto in qualcosa di immensamente più grande (Fil 3,7-8). Il cambiamento è teologico, non morale. Il contesto polemico nel quale Paolo ha qui collocato il racconto della sua esperienza di conversione ci aiuta a capire meglio la natura della novità teologica che si è dischiusa ai suoi occhi. E’ un modo nuovo di pensare il rapporto con Dio. I giudaizzanti - che Paolo chiama «cani» e «cattivi operai» - si «gloriano» e pongono la loro «fiducia» nella carne (en sarki), i cristiani invece in Cristo (Fil 3,3). I primi vedono il rapporto con Dio dal basso all'alto, i secondi dall'alto al basso. En sarki («nella carne») non significa la sfera del corpo, della materialità e della mondanità, ma la sfera dell'orgoglio dell'uomo che pensa di salvarsi con le proprie azioni, fossero pure religiose, fossero pure le più spirituali. Anzi, soprattutto se religiose. Da quanto Paolo dice (3,4-6), si comprende che fanno parte della sfera della carne la circoncisione, l'appartenenza a Israele, l'osservanza irreprensibile della legge. Sono semplici esempi, ovviamente, ma esempi che toccano il cuore della visione farisaica della salvezza (solo farisaica?). I giudaizzanti - e come loro e più di loro anche Paolo prima della conversione - si sforzano di porsi davanti a Dio con la giustizia derivante dalla legge, il cristiano con la giustizia che deriva dalla fede in Cristo (Fil 3,9). I primi con una giustizia conquistata, il secondo con una giustizia accolta. Qui sta il capovolgimento che costituisce la conversione secondo Paolo. Se egli parla, qui come altrove, della sua esperienza di vocazione non è per parlare di sé, ma per illustrare la sua più profonda convinzione, sempre minacciata: il vangelo della grazia.

Prima Timoteo 1, 12-16 Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha

giudicato degno di fiducia chiamandomi al mistero: io che per l`innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.

Anche in 1 Tm 1,12-16 il racconto della vocazione vuole essere, anzitutto, una proclamazione - o una illustrazione - del vangelo della grazia («Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori»), vangelo che l'autore definisce « parola sicura e degna di essere da tutti accolta ». E’ un dato irrinunciabile della fede. Forse la lettera non è di Paolo, ma di un discepolo. Il pensiero, però, è profondamente paolino. Il gratuito amore di Dio è apparso in tutta la sua grandezza nel fatto che Cristo ha chiamato all'apostolato un «persecutore, bestemmiatore e violento». Ciò che è accaduto a Paolo, però, non costituisce un'eccezione, una singolarità; è una rivelazione particolarmente luminosa di un comportamento divino verso tutti: «Gesù Cristo ha voluto mostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui» (1 Tm 1,16).

AL CENTRO LA CROCE

Pur nella varietà dei particolari, si intravedono nei testi letti alcune linee costanti, che formano il nucleo dell'esperienza cristiana di Paolo, dalla quale egli deriva quello che chiama «il mio vangelo». Paolo non parla mai della sua vocazione in sé e per sé, ma sempre in un contesto ecclesiale (e polemico), cioè per illustrare quel centro irrinunciabile del vangelo che costituisce l'originalità cristiana. Egli è convinto che nel suo incontro con il Signore si è fatto chiaro il senso centrale e irrinunciabile della morte e risurrezione di Gesù: una morte per noi. Ed è convinto, nel contempo, che nella medesima esperienza si è fatta chiara - così che tutti la possano leggere – la logica costante che guida la storia della salvezza: l'amore gratuito di Dio. Paolo ha sperimentato in se stesso un cambiamento radicale: dalle tenebre alla luce, da persecutore a discepolo, da peccatore a credente. Ma non si tratta di un passaggio sul piano morale (dalla malvagità all'onestà), bensì di un passaggio sul piano teologico: da una concezione della salvezza a un'altra, da un modo di comprendere se stesso a un altro, dalla propria giustizia alla giustizia che viene da Dio. Paolo non abbandona una miseria interiore, ma il suo orgoglio. Paolo ha sperimentato (ed è questo l'elemento centrale) che la salvezza è grazia. Il vocabolario della grazia accompagna tutti i racconti di vocazione, che abbiamo letto. La salvezza discende dalla morte di Cristo, non dalle nostre opere. Negare questo significa negare la croce: «Se la giustizia si attua nella legge, Cristo allora è morto inutilmente» (Gal 2,21). La grazia per Paolo è l'unico modo corretto di intendere la croce-risurrezione (cioè che Cristo morì per noi secondo le Scritture) ed è il criterio guida della nuova esistenza. Ed è anche il tema che egli difende e ribadisce in tutte le sue lettere: contro i giudaizzanti che ponevano la loro fiducia nelle opere, sminuendo in tal modo il primato della croce di Cristo; contro i greci che anteponevano alla croce la loro sapienza; contro gli gnostici che cercavano la salvezza nella conoscenza.

B. Maggioni Il Dio di Paolo ( pp. 27-39 ) Ed. Paoline 2008

PAOLO E GESU’

NESSUN INCONTRO STORICO CON GESU Pur essendo Paolo certamente coetaneo di Gesù, tutt'al più con lo scarto di qualche anno in meno, non abbiamo alcuna notizia di un suo incontro storico con lui: né dalle sue lettere, né dagli Atti canonici né da quelli apocrifi. Certo in base alla pura cronologia è possibile che tanto Gesù quanto Paolo si siano trovati contemporaneamente a Gerusalemme almeno durante una celebrazione della Pasqua negli anni della cosiddetta vita pubblica, cioè dal 28 al 30 (cfr. l'obbligo prescritto in Es 23,17). Ma non risulta che si siano incontrati né tanto meno che Paolo abbia assistito alla condanna e all'esecuzione di Gesù. I suoi rapporti documentati si sono verificati soltanto nei riguardi della prima comunità cristiana postpasquale. ( Penna )

NON CONOSCIAMO SECONDO LA CARNE L'unico testo, che solo apparentemente sembrerebbe aver riferimento ad una conoscenza del Gesù storico è 2 Cor 5,16 che, tradotto letteralmente, suona così: «Noi da questo momento nessuno conosciamo secondo la carne; se anche abbiamo conosciuto secondo la carne Cristo, però ora non più conosciamo così». Dopo che in passato non mancò chi scorse in queste parole un accenno a una qualche relazione col Gesù storico, ora l'esegesi è unanime nel negare questa interpretazione. Queste parole di Paolo - non prive, forse, di qualche paradossalità - dicono con forza che la novità cristiana investe profondamente la conoscenza del Cristo. Ma dove sta il vecchio e dove il nuovo? Dove va cercata la radice del cambiamento? Basta un'occhiata al testo greco per accorgersi che l'espressione chiave «secondo la carne» non qualifica l'oggetto della conoscenza, ma il verbo conoscere. Già questo è sufficiente a mostrarci che a Paolo qui non interessa la trasformazione che ha cambiato l'esistenza di Gesù e, quindi, il suo modo di farsi ora presente e raggiungibile: prima, una condizione terrestre, visibile, legata al tempo e allo spazio; ora, una condizione gloriosa, spirituale, sciolta dal tempo e dallo spazio. Tutto questo è vero e Paolo lo sa. Ma ora gli interessa il soggetto del conoscere, non il mistero di Cristo da conoscere. Paolo non dice: non mi interessa il Gesù della storia. Paolo non è uno gnostico. Non è in gioco il Cristo della storia o della fede, ma il modo di conoscerlo: se da uomini vecchi o da uomini nuovi. Se la conoscenza «secondo la carne» va del tutto abbandonata, è «perché in noi è avvenuta una trasformazione: in Cristo siamo creature nuove» (2 Cor

5,17 ). Sono nuovi gli occhi che guardano, non soltanto è nuova la condizione in cui si trova Gesù Signore.

Paolo qui non distingue, né separa, le due facce dell'unico evento di Gesù: il Crocifisso e il Risorto, Gesù di Nazareth e il Signore glorioso. Lo sguardo nuovo investe l'evento di Gesù nella sua interezza. La memoria storica di Gesù di Nazareth non è dimenticata (quasi fosse la dimensione carnale da abbandonare), bensì compresa, proprio perché guardata «diversamente». Se, anzi, c'è un'insistenza è proprio sul Crocifìsso, come mostra il contesto precedente in cui Paolo riflette sulla morte di Gesù. Senza dire, inoltre, che il modo nuovo di conoscere non riguarda soltanto l'evento di Gesù, ma più in generale ogni altra persona («Non conosciamo più nessuno secondo la carne», 2 Cor 5,16) e ogni altra cosa («Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove», (2Cor 5,17). La conclusione, a questo punto, è che parlando di una conoscenza «secondo la carne» da abbandonare, Paolo non invita a relegare sullo sfondo, né a scolorire, l'evento storico di Gesù, accaduto una volta per tutte. Pensarlo significherebbe contraddire l'intero pensiero di Paolo, che ai cristiani della Galazia ha dipinto al vivo Gesù Cristo crocifisso (Gal 3,1) e che ai corinzi ha raccomandato di non svuotare «la Parola della croce» (1 Cor 1,17-18). Ma quando precisamente una conoscenza può dirsi «secondo la carne»? Certo è «secondo la carne» quella conoscenza di Gesù che Paolo aveva prima della conversione: una conoscenza del tutto incapace di cogliere la presenza di Dio nella vicenda di un uomo crocifìsso. Chiusa nella carne è, anzitutto, una conoscenza senza fede. Stando al contesto che precede ( 2Cor 5,14-15) – al quale Paolo lega strettamente le sue affermazioni sulla conoscenza mediante la congiunzione consequenziale cosicché - deve dirsi chiusa nella carne anche la conoscenza di chi «vive per se stesso». A un tale uomo manca la prospettiva giusta per guardare la vicenda di Gesù, che proprio nel dono di sé ha svelato il volto del divino. Secondo la carne è, poi, quella conoscenza che non sa cogliere l'universalità dell'evento di Gesù, rimanendo chiusa nelle circostanze storiche e culturali in cui quell'evento si è espresso. E’ questa la lettura «carnale» dei giudaizzanti, che Paolo probabilmente qui ha particolarmente di mira. Ma è «secondo la carne» anche la lettura – che può apparire «spirituale» e perciò più subdola – degli entusiasti di Corinto, che assorbivano la storia di Gesù nell'esperienza carismatica presente, attuale, comunitaria o personale (cfr. 1 Cor 1,17 ss.). In definitiva, due sono i pericoli sui quali Paolo vigila, entrambi mortali: quello di rinchiudere Gesù nella sua vicenda terrena e quello di staccarlo da quella vicenda. La stessa cosa dicono, in fondo, anche i vangeli, e questo costituisce per noi una conferma. Per la tradizione evangelica la memoria di Gesù di Nazareth non è un ostacolo alla vera conoscenza del Signore che ora si fa presente nello Spirito, ma una via irrinunciabile per raggiungerla. Non si conosce Gesù Signore senza ricordare Gesù di Nazareth. Gli stessi vangeli, però, sono consapevoli di una tensione tra identità e differenza, come si può vedere soprattutto nelle pagine in cui parlano dell'incontro con il Risorto. La condizione di Signore risorto ha tratti di tale novità che ai discepoli — che pure sono vissuti con lui - occorre una rivelazione per capire chi sia. Né da soli, né subito sono in grado di riconoscerlo. Tocca a Gesù stesso farsi conoscere. Ma nel contempo la continuità: non solo perché si tratta della stessa persona, ma perché medesimi sono, alla fine, i tratti per riconoscerlo. Sono i tratti del divino che il Risorto ha manifestato nella sua vita terrena: la carità, il dono di sé, la croce. Il criterio decisivo per riconoscere il Signore risorto e la sua presenza nello Spirito resta, perciò, la memoria di Gesù di Nazareth che i primi cristiani ci hanno consegnato. ( Maggioni )

INCONTRO CON GESU RISORTO L'unico incontro sicuro, anzi determinante ed epocale, con Gesù è stato quello con lui risorto. Di questo avvenimento, che rappresentò il ribaltamento della sua vita, Paolo parla a più riprese e con chiaro linguaggio autobiografico: mai però in termini narrativi, ma sempre con l'intento di mettere in luce le sue componenti di rivelazione, di grazia, di indegnità, di vocazione. I testi sono i seguenti: 1 Cor 9,1; 15,8-11; 2 Cor 4,6; Gal 1,15-16; Fil 3,5-8.12 (e nelle lettere deuteropaoline: Col 1,25; Ef 3,2.7-8; 1 Tm 1,11-14). Il fatto è in qualche modo collegato con Damasco (cfr.

Gal 1,17; 2 Cor 11,32). Solo più tardi l'autore degli Atti si premurò di dare un corpo narrativo a quell'evento, che certamente significò una svolta carica di conseguenze per la storia primitiva, e ne descrisse il compiersi fin nelle minute circostanze; per di più, ritenendolo giustamente decisivo, lo riportò tre volte nel suo libro (At 9,1-30; 22,3-21; 26,9-20).

Però il rapporto esistente fra Paolo e «Luca» è lo stesso fra chi ha vissuto un evento in prima persona e chi ne ha solo sentito parlare. La descrizione offerta dagli Atti si rifà al modulo biblico del racconto di apparizione, mentre le ripetizioni non sono esenti da discordanze e da un certo colorito popolare.

In ogni caso, stando sia alle lettere che agli Atti, non si coglierebbe la portata esatta dell'avvenimento, se lo si qualificasse unicamente come «conversione». L'inadeguatezza di tale etichetta risulta anche solo dal fatto che Paolo non ne parla mai in questi termini (né con metanoéin né con epistréfein). Egli invece preferisce parlare di quell'evento come di una «rivelazione» (cfr. Gal 1,16) e più ancora come di una «vocazione» all'apostolato, o meglio alla missione «in mezzo ai pagani» (Gal 1,16; cfr.

1 Cor 9,1; Rm 1,5; At 9,15). Ed è per questo che egli rivendica con forza e a volte con veemenza il titolo di apostolos, mettendo in discussione la tradizionale teologia del ministero apostolico riservato ai Dodici. Quell'incontro con il Kyrios (Signore), che lo ha fatto «creatura nuova» (2 Cor 5,17), determinò anche e necessariamente la svolta del suo atteggiamento nei confronti della legge. Se con la risurrezione di Gesù sono iniziati gli ultimi tempi (cfr. 1 Cor 10,11) e se con il suo Spirito è già data la «caparra» del futuro (cfr. 2 Cor 1,22; Rm 8,23), è segno che la legge ha terminato la sua funzione in ordine alla salvezza: in questo senso andranno letti i testi di Fil 3,7-9; Gal 2,16; Rm 10,4. Ciò rivela la portata salvifica della croce di Gesù e qui si riassume pure tutto il contenuto del suo annuncio ai pagani (prima: Legge-vanto; ora: Gesù Cristo-fede). Paolo perciò non guarda al tempo passato come a un tempo tormentato dall'impossibilità di osservare la legge, poiché in ciò egli sa di essere stato «irreprensibile» (Fil 3,6); e quindi Rm 7 potrebbe non avere valore autobiografico (cfr. W. G. Kummel).

Piuttosto l'esistenza sotto la legge gli appare «spazzatura» (Fil 3,8), essendosi ormai affermato un nuovo principio che impegna tutto l'uomo: essere «in Cristo» sulla base della giustificazione per fede. E proprio Cristo ora è al centro di ogni sua attenzione e di ogni valutazione delle cose; infatti Paolo si sa «apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti» (Gal 1,1). Certo, questa convinzione non esclude una qualche mediazione della Chiesa e la figura del giusto Ananìa in At 9 sta a dimostrarlo, se non altro per il battesimo che gli somministrò. Tuttavia, egli è in ogni caso «servo di Cristo» (Rm 1,1; Fil 1,1). La concentrazione pressoché esclusiva sul Cristo risorto e glorioso, operata da san Paolo, non è esente dal rischio di ridurre Gesù a un'astrazione o a una pura cifra di salvezza, facendone trascurare la dimensione storica e incarnazionista; ed è ciò che fece lo gnosticismo seguente, specie nel II secolo. Proprio per questo sono molto importanti quei cenni, anche frammentari, che l'apostolo fa nelle sue lettere in riferimento allo stadio prepasquale dell'esistenza di Gesù, ai suoi detti e ai suoi fatti. Egli sa che Gesù è pienamente uomo (Fil 2,7; Gal 4,4), è discendente dei patriarchi (Rm 9,5; Gal

3,16), è di origine davidica (cfr. Rm 1,3), e ha alcuni fratelli consanguinei (1 Cor 9,5; Gal 1,19). Di lui conosce alcuni detti: la preghiera in aramaico «Abbà» (Gal 4,6; Rm 8,15; cfr. Mc 14,36), l'ammonimento circa la repentinità del giorno finale (1 Ts. 5,2; cfr. Mt 24,43), l'ingiunzione dell'indissolubilità del matrimonio (1 Cor 7,10; cfr. Mt 5,32), il tema dell'amore come nuova legge (Gal 6,2; cfr. Gv 13,34), l'invito a prestare sostentamento al missionario (1 Cor 9,14; cfr. Lc 10,7), l'immagine della fede che trasporta le montagne (1 Cor 13,2; cfr. Mt 17,20), forse anche l'invito a pregare per i persecutori (Rm 12,14; cfr. Mt

5,44) e il compendio della legge nell'amore del prossimo (Gal 5,14; Rm 13,8-10; cfr. Mt 22,39-40).

Paolo poi è il primo a riportare una relazione dell'ultima cena di Gesù «nella notte in cui veniva tradito» (1 Cor ll,23ss); e nella deuteropaolina 1 Tm 6,13 si accenna anche alla comparizione davanti a Ponzio Pilato. Soprattutto egli utilizza un abbondante vocabolario in rapporto alla passione di Gesù: per esempio, i sostantivi «croce» (dieci volte) e «morte» (almeno sette volte), con i verbi «crocifìggere» (sei volte) «morire» (sedici volte), «seppellire» (una volta) ecc.. Comunque rimane sorprendentemente assente tutto il materiale evangelico riguardante l'abbondante attività taumaturgica del Nazareno, poiché gli unici «segni e prodigi» vengono attribuiti alla presenza del Risorto nella sua comunità postpasquale (2 Cor 12,12; Rm 15,18-19). Qualcuno ha voluto spiegare il relativo silenzio di Paolo sul Gesù terreno proprio per l'intenzione dell'apostolo di non permettere che Gesù venisse scambiato con uno dei tanti operatori di miracoli del suo tempo; effettivamente Paolo in 2Cor 10,13 intende il proprio apostolato più sulla linea della croce che del trionfalismo di un theìos anér (uomo divino). Tuttavia questa constatazione non basta per dare un senso al comportamento paolino. Pur accettando come cosa sicura e di estrema importanza teologica che per l'apostolo Paolo la grandezza di Gesù non risiede nel suo miracolismo, non è questo un motivo sufficiente per capacitarsi del suo ostinato riserbo: infatti, anche senza accennare ai miracoli, egli avrebbe sempre potuto riportare parecchie cose circa i molti discorsi di Gesù (comprese le parabole), i suoi spostamenti, le sue polemiche con gli avversari. La causa di queste vistose omissioni si può individuare, molto più semplicemente, nello stesso genere epistolare degli scritti paolini e nella loro intenzionalità di fondo. L'apostolo non ha voluto

scrivere un «vangelo», come farà invece Marco; e questo perché il suo interesse teologico e pastorale non lo orientava verso una «ricostruzione», sia pure attualizzante, del passato, ma verso l'edificazione delle sue comunità presenti, delle quali Gesù Cristo è il Signore vivente e attuale. Paolo vuole saldare immediatamente con la loro fede e la loro vita la statura salvifica di questo Signore, che è ora «per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1 Cor 1,30). ( Penna )

PAOLO E IL GIUDAISMO Giustamente, è posto anche il problema dell'interpretazione che Paolo dà (o sembra dare) del giudaismo del suo tempo, interpretazione racchiusa in radice nell'antitesi fede e opere, grazia e legge. Per molti Paolo, così facendo, ha travisato il giudaismo. Costruisce ad arte il bersaglio per poi più facilmente abbatterlo. E’ vero? Rispondiamo con tre osservazioni. Primo: con tale antitesi Paolo ha certo espresso una sua esperienza personale del giudaismo. Paolo ha vissuto il giudaismo come una religione delle opere e si è sentito liberato dalla grazia. Un'esperienza inedita? Ha travisato così il giudaismo? Anche i vangeli riportano una vivace - e teologica - polemica di Gesù con i farisei. Difficile pensare a un'esperienza totalmente isolata. Forse Paolo non polemizza con una struttura che intacca l'anima del giudaismo in sé e per sé, certo però con un modo diffuso di viverlo. Secondo: Paolo, a ben guardare, non polemizza con il giudaismo in quanto tale, ma con alcuni giudei divenuti cristiani. Così nella Lettera ai Galati. E’ rivelazione, di impossibile essere cristiani e, nel contempo, affidarsi ancora alle opere giudaiche. Bisogna affidarsi totalmente a Cristo. Terzo: Paolo fa un discorso che applica a tutti, anche ai cristiani: non è l'uomo che salva se stesso, ma Dio che salva l'uomo. Anche il cristianesimo può trasformarsi in una religione delle opere. Questa è la grandezza e la perenne attualità del messaggio di Paolo: colpisce una malattia della religione, possibile in qualsiasi religione. (Maggioni ) Vedi:

Bruno Maggioni Il Dio di Paolo pagine 41-51 Ed. paoline 2008 Romano Penna Paolo di tarso pagine 31-35 Ed. paoline 1992

PAOLO E LA CHIESA PRIMITIVA

CONTATTI CON LE CHIESE Se Paolo non ha avuto contatti con il Gesù storico, ne ha avuti invece parecchi, e di segno anche contrastante, con le prime, concrete chiese dell'area siro-palestinese: Gerusalemme, Damasco, Antiochia. In questo triangolo geografico si gioca tutta la formazione della sua identità culturale e apostolica: a Gerusalemme trae alimento per il suo giudaismo ortodosso, a Damasco realizza il fondamentale salto di qualità della sua vita, ad Antiochia prende forma e avvio il suo impegno missionario col superamento della legge mosaica e del suo esclusivismo giudaico.

PRIMI APPROCCI CON LA CHIESA Il primo impatto con la comunità cristiana è stato quello della persecuzione, quasi quello del cacciatore con la sua preda. Paolo ne parla ripetutamente nelle sue lettere (1 Cor 15,9; Gal 1,13.23; Fil 3,6): il fatto non è solo storico, ma anche contrassegnato da uno zelo particolare (cfr. Gal 1,13: kath' hyperbolèn:

oltre ogni limite).

Tuttavia alcuni elementi offerti dagli Atti difficilmente godono di attendibilità storica: per esempio, il sommario di 8,3 e la notizia di 9,13.21 (concernenti la sua persecuzione contro i cristiani di Gerusalemme) non possono riferirsi troppo letteralmente alla Chiesa gerosolimitana, poiché Paolo stesso scrive senza possibilità di equivoci che all'inizio della sua attività di convertito era «sconosciuto personalmente alle chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: "Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunciando la fede che un tempo voleva distruggere"» (Gal 1,22-23; cfr. anche

1 Ts 2,14 dove Paolo tace completamente di sé!).

Probabilmente il suo fanatismo persecutorio si esercitava non solo fuori di Gerusalemme, ma anche fuori della Palestina, come sappiamo da At 9 circa la comunità di Damasco. Con ogni verosimiglianza, poi, il suo zelo si esplicava solo mediante la delazione e la cacciata dalle sinagoghe di quegli ebrei divenuti cristiani, con probabili conseguenze sulla loro situazione economico-sociale (come farà poi verso l'anno 90 il sinodo rabbinico di Jamnia). Null’altro al di fuori di questo passato gli suggerisce il senso della sua indegnità a essere chiamato «apostolo» (cfr.1 Cor 15,9) e soltanto la feconda grazia di Dio gli permette tuttavia di difendere gelosamente questa prerogativa (cfr. 1 Cor 15,10).

In ogni caso Paolo non cominciò a conoscere il cristianesimo solo dopo l'evento della strada di Damasco. Il periodo della persecuzione deve essere stato necessariamente già il risultato e insieme una causa della conoscenza di Paolo circa il nuovo movimento iniziatosi a Gerusalemme dopo la morte-risurrezione di Gesù. Non si perseguita ciò che non si conosce. Paolo dev'essersi risolto a un atteggiamento di fiera opposizione, proprio perché si era fatto un'idea sufficientemente chiara dei contenuti della nuova fede predicata, che egli riteneva in netto contrasto con la tradizione giudaica (anche se il racconto degli Atti su Stefano attribuisce le accuse circa le sue «espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio» a dei falsi testimoni: cfr. 6,11-14).

Da buon fariseo non poteva accettare un annuncio che, pur presentandosi come compimento e quindi in continuità con le antiche Scritture ebraiche, implicava inevitabilmente una relativizzazione e un superamento dell'antica economia di salvezza. Ma proprio questo egli apprese, sia pure reagendovi polemicamente, dai suoi perseguitati: che cioè con la persona di Gesù è venuta meno la centralità della Torah, poiché «se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano» (Gal 2,21b) e resterebbe annullata la grazia di Dio (cfr. Gal 2,2l; 5,4), cioè la sua sovrana libertà di venire incontro all'uomo indipendentemente dai preconcetti e dalle strutture religiose di questi. Ciò che egli dichiarerà essere «scandalo per i giudei» (1 Cor 1,23; cfr. Gal 5,11), cioè il messaggio della croce di Gesù, scandalizzò innanzitutto lui stesso, stimolando una forte crisi di rigetto. Ma poiché il Nazareno era già stato condannato (e se Paolo fosse stato presente, si sarebbe certamente unito alla corale richiesta del crucifige), non rimaneva che scagliarsi contro coloro i quali si professavano suoi discepoli perpetuando il suo scandaloso messaggio. Si può perciò dedurre che proprio la testimonianza dei primi cristiani finì per incidere su Paolo, incrinando la sua orgogliosa sicurezza, anche se di questo itinerario interiore le nostre fonti non dicono nulla (a meno di vedere in Rm 7,7-25 la descrizione posteriore di un conflitto vissuto inconsciamente da Paolo prima della conversione). . Forse solo la figura dell'oscuro Ananìa presente negli Atti (9,10-18; 22,12-16) può essere l'indizio di un intervento umano, quasi un paraninfo che presenta Paolo «quale vergine casta a Cristo» (2 Cor 11,2). Per il resto, l'Apostolo aggancia direttamente il proprio annuncio a una rivelazione divina. Sintomatico è il testo di Gal 1,11-12: «Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto ne l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (cfr. anche 1 Ts 2,3-4; Ef 3,3).

L’affermazione è netta e sembrerebbe non ammettere sfumature. Tuttavia occorre tener presenti due cconstazioni, che ne temperano il tono squadrato e perentorio. nnanzitutto queste parole sono inserite in un contesto dalle venature polemico-apologetiche, in cui Paolo difende la legittimità e la libertà della propria predicazione ai pagani, poi autenticata da un doppio incontro a Gerusalemme con gli apostoli (Gal 1, 18; 2, 29 ), nel suo impegno missionario non c’è ombra di opportunismo ( cfr Gal 1, 10 ), ma obbedienza pura all’incarico divino (cfr. 1 Cor 9, 17) concernente la destinazione universale del vangelo nel superamento del mosaiamo. La seconda constatazione da tenere presente sono i debiti reali, obiettivi, che le lettere paoline dimostrano di avere nei confronti della Chiesa e delle formulazioni, oltre che una certa prassi, già a lui precedente.

DOPPIA CONFORMAZIONE DELLA CHIESA

Chiesa di Gerusalemme II cristianesimo primitivo presenta una doppia conformazione, in senso non tanto etnico quanto confessionale. Accanto a un giudeo-cristianesimo, che annetteva molta importanza all'osservanza della legge mosaica, si costituì ben presto un «cristianesimo ellenistico» dalle forme assai originali. Certo Paolo è debitore anche alle comunità siro-palestinesi di lingua aramaica (cfr. per esempio

l'invocazione maranathà, «Signore nostro, vieni!», in 1 Cor 16,22). Ma i suoi legami maggiori sono con il cristianesimo ellenistico, che egli non solo contribuì a delineare, ma che già esercitò su di lui un influsso non trascurabile. Non che tra la primitiva comunità di Gerusalemme e le chiese ellenistiche ci fosse una frattura. L'insieme delle chiese si considera una sola unità, e vediamo per esempio il giudeo ellenista e poi cristiano Barnaba, cipriota (At 4,36), tenere un posto di rilievo nella Chiesa di Gerusalemme (At 9,26-27) così da ricevere l'incarico di una missione dalla comunità cristiana di Antiochia a quella di Gerusalemme (At 15,1-7).

Chiesa di Antiochia In effetti, comunque, Antiochia diventa «l'altro polo» del cristianesimo primitivo: qui «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26), cioè con un nome tutto greco (non più «nazorei» come in At 24,5, o «galilei» come ancora in Epitteto); di qui parte, con Barnaba e Paolo, la prima missione tra i pagani (At 13,14); qui si prendono i cibi senza tener conto delle prescrizioni giudaiche, a differenza di ciò che accade a Gerusalemme (cfr. Gal 2,11-13); e ancora di qui parte una delegazione verso Gerusalemme per esporre il vangelo che si predica tra i pagani (At 15.1-2).

Ma l'inizio di una certa divaricazione deve essere avvenuto nella stessa Gerusalemme, a opera di un gruppo di giudeo-ellenisti passati al cristianesimo: Stefano e compagni. Costoro videro subito nella nuova fede l'inedita possibilità di rimanere fedeli alle antiche Scritture e insieme di prescindere dall'osservanza della legge mosaica e dalla frequenza al Tempio, che invece facevano parte integrante dell'identità dell'ala giudeo-cristiana (cfr. At 6,11.13-14). In seguito al martirio di Stefano, probabilmente solo quel gruppo fu perseguitato e disperso (At

8,1); ma questo fatto increscioso fruttò appunto la fondazione della comunità di Antiochia: «Non predicavano la Parola a nessuno fuorché ai giudei. Ma... ad Antiochia cominciarono a parlare anche ai greci... e un gran numero credette» (At 11,19-21). La comunità di Antiochia perciò fin dal suo sorgere reca evidente l'impronta cristiano-ellenistica. L'esperienza che qui inizia è tanto più rilevante e densa di conseguenze, se si tiene conto dell'eminente ruolo politico-sociale-culturale tenuto da quella città, vera metropoli dell'Oriente. Per quanto riguarda Paolo, ciò che egli espresse rispettivamente a Gerusalemme e ad Antiochia (Damasco entra in gioco in maniera solo subordinata rispetto a Gerusalemme; cfr. At. 9,22-23: poco tempo; At 22,12: giudeo-cristianesimo) si può dedurre solo dalle sue lettere, nella misura in cui il patrimonio di fede e di vita ecclesiale ivi contenuto si può riportare alla specifica configurazione di quelle due comunità. Il grado di certezza oscilla tra la possibilità e la probabilità.

Paolo e Chiesa di Gerusalemme A Gerusalemme (At 9,26-29; cfr. Rm 15,27) Paolo, oltre a conoscere il gruppo dei «Dodici», imparò i più antichi titoli cristologici applicati a Gesù: «il Santo e il Giusto» (At 3,14; cfr. 4,27.30); «Maranathà» con valenza escatologica (Signore nostro, vieni!); «Messia», in senso storico-salvifico; «Figlio di Davide», riecheggiato solo in Rm 1,3; e «Figlio dell'uomo», che però nei suoi scritti non ricorre mai, certo perché in greco non aveva senso. La stessa cosa vale per la prassi del battesimo e della cena, interpretati in prospettiva escatologica (cfr. Mc 14,25; Rm 6,5; 1 Cor 11,26). Poi, anche se la cosa non è sicura a motivo dell'assenza del tema nei primi discorsi degli Atti, forse iniziò a Gerusalemme l'interpretazione della morte di Gesù in termini soteriologici (cfr. le categorie cultuali giudaico-bibliche dell'«espiazione», del sacrificio di alleanza e del sacrificio pasquale) in unione con la risurrezione. In particolare, qui affonda le sue radici la costante speranza escatologica di Paolo. Inoltre, già a Gerusalemme è chiara la coscienza di averricevuto lo Spirito degli ultimi tempi (cfr. il racconto di Pentecoste con il discorso di Pietro in At 2), che fa dei cristiani una comunità di «santi» (cfr. At 9,13.32; Rm 15,25-26), eredi dell'antico popolo di Dio.

Paolo e la Chiesa di Antiochia Ad Antiochia (At 11, 25-26a) probabilmente fu coniato il concetto tipico di euanghélion (vangelo, buona novella), desunto dal greco ma caricato di un nuovo contenuto e usato in maniera tecnica prima sconosciuta. Analogamente si deve dire la stessa cosa per il termine parusia (presenza escatologica, avvento). Qui in base al superamento del valore salvifico della legge, s'impone anche il concetto di «fede» in quanto astrae dal valore salvifico delle opere. Fu poi approfondito il senso della morte di Gesù nel suo valore soterico, servendosi della Bibbia greca (dei LXX). Tra i titoli cristologici si impose quello di kyrios (Signore), cui si diede il prevalente significato di rapporto immediato del Risorto con la sua comunità presente (e non più soltanto in prospettiva escatologica come per «marana») e certamente anche quello di «Figlio di Dio» in senso ora più greco che semitico (cioè più in rapporto alla natura che alla funzione di Gesù); probabilmente ad Antiochia erano note anche le speculazioni del giudaismo alessandrino sul concetto di una «sapienza» personificata e le forme della sua polemica anti idolatrica. Anche la celebrazione della cena dev'essere stata intesa più nel senso di una presentificazione dell'evento salvifico che di un orientamento verso il futuro escatologico (come risulta da 1 Cor 11,23ss); così il battesimo, più che preparare all'avvento del regno (un termine, questo, che del resto è molto raro in Paolo), unisce immediatamente il cristiano al Signore crocifisso-risorto (cfr. Gal 3,26-27; Rm 6,2-4).

Inoltre, a diversità del contesto missionario tra gli ebrei, davanti ai pagani occorreva formulare chiaramente la fede monoteistica, strutturandola in forma bipartita: «Un solo Dio... e un solo Signore» (1 Cor 8,6). Infine, circa l'organizzazione della comunità ecclesiale, non ci sono notizie dell'esistenza ad Antiochia (a differenza di Gerusalemme: At 11,30; 15,2.4.22.23; 20,17; 22,18) di «presbiteri» con funzione ecclesiale direttiva, ma solo di «profeti e dottori» (At 13,1); la stessa cosa si può notare nelle lettere paoline sicuramente autentiche (cfr. per esempio 1 Cor 12,28). Si elaborò, pertanto, un concetto di ekklesìa (con un

termine derivante dalla tradizione greca), che da una parte fa posto a specifiche funzioni ministeriali di responsabilità, però moltipllicate su larga scala e dall'altra include paritariamente ogni suo membro in un'unica entità organica, che tende a diventare non solo un corpo sociale ma addirittura il corpo di Cristo e il tempio vivente dello Spirito divino. Forse anche le esigenze morali derivanti dal nuovo messaggio vengono parzialmente formulate ad Antiochia con il ricorso ai cosiddetti cataloghi di vizi e di virtù e ai codici domestici, in cui si riflette originariamente l'etica della filosofia greca, poi adottata dal giudaismo ellenistico e di lì appunto confluita nelle comunità etnico-cristiane.

DIPENDENZA DALLA CHIESA Se Paolo appare assai riservato nell'ammettere apertamente la propria dipendenza dalla fede e dalla vita della Chiesa primitiva (gerosolimitana o antiochena) e nel riconoscere questa come madre e maestra, tuttavia da parte sua si tratta obiettivamente di un vero obbligo, le cui dimensioni risultano con sufficiente chiarezza da un esame morfologico del suo epistolario. Il problema è insieme storico, letterario e teologico; esso riguarda l'individuazione delle possibili fonti della fede e dell'annuncio dell'Apostolo, astraendo dalla pura rivelazione soprannaturale da lui sottolineata. Questa sottolineatura, del resto, conferisce alle fonti storiche del suo vangelo tutta la nobiltà e normatività che loro compete. Per compiere un esame del genere, occorre letteralmente setacciare l'epistolario paolino, onde ricavarne eventuali forme letterarie che rivelino e documentino eventuali agganci con l'ambiente cristiano precostituito. Gli studi in questo senso (a prescindere dagli elementi di pura cornice, riguardante il genere epistolare) sono praticamente tutti posteriori all'ultima guerra mondiale, e si sono imposti dopo la fruttuosa applicazione della Formgeschichte ai vangeli sinottici. Essi sono fioriti soprattutto negli anni '60-'70. a} In primo luogo, il caso più evidente di dipendenza si ha là dove lo stesso Apostolo ammette in termini espliciti un aggancio con la paradosis o «tradizione». A proposito della cena eucaristica, egli scrive: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1 Cor 11,23); e il complemento «dal Signore» non deve oscurare l'effettiva mediazione ecclesiale, confermata dal forte parallelismo del racconto paolino (1 Cor 11,23b-25) con quello lucano (Lc 22,14-20), oltre che con gli altri sinottici (Mc 14,22-25; Mt 26,26-29). Il complemento «dal Signore» significa soltanto che il Kyrios è la fonte trascendente e l'origine storica di ogni tradizione (con implicito valore contestuale, nel caso di 1 Cor 11, di una messa in guardia da celebrazioni indegne). Del resto, a motivo della sua formazione giovanile, Paolo conosce certamente la formula rabbinica «ricevere la tradizione» (Mishnà, P. Ab. 1,4-6-8-10.12), con cui si esprime la trasmissione da uno all'altro nella catena dei Maestri. Un altro esempio esplicito si ha in 1 Cor 15,3a: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto»; l'inversione dei participi «trasmesso-ricevuto», rispetto al testo precedente, pone più l'accento sulla funzione attiva di Paolo tradente che non su quella di ricevente, e perciò, a proposito di quest'ultima, mentre sarebbe inopportuna una specificazione «dal Signore» rimane anche superfluo precisare «dalla Chiesa» (o simili); tanto più che la formulazione di ciò che è stato oggettivamente ricevuto e poi trasmesso si presenta con i connotati di un'evidente storia preletteraria. E qui non si tratta più solamente di una celebrazione sacramentale, ma di un compendio contenutistico della nuova e tipica fede cristiana di impronta cristologica. b) In secondo luogo, bisogna citare le invocazioni aramaiche Maranathà («Signore nostro, vieni!»: 1 Cor 16,22), di prospettiva escatologica e Abbà («Padre! » nel senso di papà: Gal 4,6; Rm 8,15) come preghiera battesimale. Esse tradiscono un'ovvia dipendenza da una tradizione risalente alla prima comunità giudeo-cristiana di lingua siro-palestinese, le cui espressioni eucologiche si sono imposte al punto da acquisire diritto di cittadinanza anche nelle comunità di lingua greca. c) In terzo luogo, è possibile individuare alcune formule tradizionali che hanno a che fare con la confessione o proclamazione della fede cristiana. Si tratta di quelle che molti autori distinguono, chiamandole rispettivamente «professione di fede» (o formula kerigmatica) e “homologhìa”, mentre gli altri le unificano qualificandole semplicemente come «formule del credo». La loro distinzione sembra suggerita da Rm 10,9: «Se confesserai (eàn homologhése-i-s) con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai (pisteuse-i-s) con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo».

La homologhìa equivale a una solenne dichiarazione, quasi un'acclamazione, che riguarda l'identità personale di Gesù; l'esempio più chiaro è in 1 Cor 12,3: «Gesù è il Signore!»; e altrettanto si deve dire di Fil 2,11 (cfr. 1 Cor 1,2); probabilmente appartiene a questo ambito anche la formula bipartita di 1 Cor 8,6: «Per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui» (cfr. anche Ef 4,4-6; 1Tm l,5s). La professione di fede, invece, verte sull'evento salvifico compiutosi nel passato; essa ha per contenuto o la sola risurrezione di Gesù (cfr. Rm 10,9) o la sola sua morte (cfr. Rm 5,6; 14,15; 2 Cor

5,14-15) o tutte e due insieme. In quest'ultima forma, il testo più celebre e certamente più antico è 1 Cor 15,3-5: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto, e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa, poi ai Dodici». Poiché non è questo il luogo per offrire un esame completo del testo, basti dire che l'esplicito rimando alla paradosis fa praticamente di questa formula una citazione del credo protocristiano: una formula risalente, se non a Damasco o a Gerusalemme, certamente ad Antiochia verso la metà degli anni 30 del I secolo. Altri esempi di questo tipo (combinazione di morte e di risurrezione, come sintesi e culmine dell'evento salvifico) si rinvengono in 1 Ts 4,14; Rm 4,25; 14,9. A motivo dell'espressione «per i nostri peccati», presente in 1 Cor 15,3 (con la preposizione hypér), è lecito dedurre che tutte le formulazioni paoline costruite allo stesso modo, e che rappresentano l'interpretazione soteriologica della morte di Gesù, costituiscono un debito dell'Apostolo nei confronti del cristianesimo primitivo (cfr. 1 Cor 1,13; 11,24; 2

Cor 5,14.15.21; Gal 1,4; 2,20; 3,13; Rm 5,6-8; 8,32; 14,15; Col 1,24; Ef 5,2.25).

Un altro tipo di professione di fede è quello che si trova in Rm l,3b-4a, chiaramente isolabile dal testo: «Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio in potenza (cioè: potente) secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti» (cfr. 2Tm 2,8). Questa formulazione, invece di insistere sul binomio morte risurrezione, adotta lo schema degli estremi «biografici» (ma carichi di senso cristologico): nascita-risurrezione, tra i quali la morte rappresenta solo un momento (taciuto). E’ del tutto probabile che una formula del genere risalga al primitivo ambiente giudeo-cristiano (più che a quello ellenistico-cristiano), anche a motivo dell'accenno alla discendenza davidica di Gesù, oltre che per motivi linguistici (come la rarissima locuzione pneùma haghiosynes). E’ altamente verosimile che tutte queste formule abbiano il loro originario Sitz im Leben o ambiente vitale nel catecumenato, cioè nella preparazione battesimale, e che perciò esse vadano ritenute di impronta catechetica. Oppure all'origine possono anche appartenere a momenti di celebrazione liturgica, soprattutto per quanto riguarda la homologhìa. Un ultimo esempio di confessione di fede, di risonanza più propriamente kerigmatica, cioè rispecchiante il momento della missione e specificatamente quella rivolta ai pagani, si trova concordemente in 1 Ts l, 9b-10: «Sono loro (cioè, gli altri cristiani) infatti a parlare di noi, dicendo come noi siamo venuti in mezzo avoi e come vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall'ira ventura». Questa formulazione affonda le sue radici nell'antica polemica anti idolatrica della Bibbia; tale constatazione, unitamente a una marcata componente escatologica, permette di ricondurre questo kerigma a un originario ambiente cristiano d'impronta giudeo-ellenistica nel suo impatto con il paganesimo. Non è escluso, inoltre, che anche il già citato testo di 1 Cor 8,6 appartenesse in un primo tempo a una medesima preoccupazione tipica della predicazione ai pagani (e non di quella ai giudei). d) In quarto luogo, spiccano nell'epistolario paolino alcuni inni o pagine di prosa innica, sul cui genere letterario e sul cui carattere di derivazione ab extra la critica odierna è sostanzialmente d'accordo: Fil 2,6-11; Col 1,12-20; Ef 1,3-14; 1 Tm 3,16. A proposito di questi testi, sono oggetto di discussione soprattutto i seguenti punti: la loro esatta estensione, la loro struttura, la configurazione dell'intervento redazionale operato su di essi, il loro sfondo tanto ecclesiale quanto religionista-comparatistico (oltre ad alcuni dubbi sull'effettivo carattere

prepaolino di Fil 2,6-11). Qui non possiamo che rimandare allo studio delle rispettive lettere, anche perché si tratta di passi piuttosto ampi. Per ora basti osservare come l'epistolario attinge (perché lo riflette e lo documenta) al patrimonio ideale della Chiesa primitiva (cfr. anche Ef 5,14), alle sue già consolidate espressioni di fede, trasformate in canto dall'ampio respiro storico-salvifico. Questi testi, infatti, uniscono insieme la formula del credo, la homologhìa e una diffusa meditazione-celebrazione del mistero della salvezza imperniata in Cristo.

e) In quinto luogo, vanno notate alcune forme di euloghia (Rm 1,25; 9,5; 2Cor 1,3; 11,31;

Ef 1,3) e altre di dossologìa (Gal 1,5; Rm 11,36; 16,25-27; Fil 4,20; Ef 3,21; 1 Tm 1,17; 6,16; 2 Tm 4,18). Si tratta di esclamazioni di lode, di sicura derivazione biblico-giudaica (anche se Rm 11,36 presenta dei

paralleli stoici), rivolte senza eccezione a Dio solo, di cui si confessa e si celebra l'imperscrutabilità, l'eternità e, appunto, la gloria. Il loro Sitz im Leben non necessariamente è liturgico, poiché il genere può anche appartenere al linguaggio religioso quotidiano, come dimostra la tradizione giudaica. f) In sesto luogo, si possono rinvenire nelle lettere paoline degli schemi ricorrenti di parenesi o esortazione morale, in forma di elenco di doveri sia in chiave positiva che negativa. Si distinguono, da una parte, cataloghi di virtù (Gal 5,22-23; 2Cor 6,6; Fil 4,8; Col 3,12; Ef 4,2-3; 4,32-5,2; 1

Tm 4,12; 6,11; 2Tm 2,29; 3,10) e di vizi ( Rm 1,29-30; 13,13; 1 Cor 5,10-11; 6,9-10; 2 Cor 12,20-21; Gal

5,19-21; Ef 4,31; 5,3-5; Col 3,5-8; 1 Tm 1,9-10; 6,4-5; 2Tm 3,2-5; Tt 3,3). Le loro rispettive convergenze o ripetizioni fanno pensare, se non a una matrice comune, a un identico modello culturale, che si trova effettivamente documentato sia nella tradizione greca che in quella giudaica. Dall'altra parte si distinguono pure nettamente dei codici domestici, riguardanti i doveri dei genitori, dei figli, delle donne, degli schiavi, ricorrenti però solo nelle lettere deuteropaoline (Col 3,18-4,1;

Ef 5,22-6,9; cfr. anche 1 Tm 2,9-15; 3,2-6; 2 Tm 2,24s; Tt 1,7-8; 2,1 10). Anch'essi affondano le radici in schemi analoghi, rinvenibili sia nell'ambiente greco che in quello giudeo-ellenistico. In questi casi, dunque, i debiti di Paolo non sono tanto nella Chiesa primitiva quanto nello stesso mondo culturale del tempo, a meno di ritenere che tra questi e le lettere di Paolo già la prima comunità cristiana abbia svolto un ruolo di mediazione. g) Infine, occorre rilevare l'utilizzazione dell'Antico Testamento, che emerge soprattutto in contesti di polemica con i giudei e i giudaizzanti. Pur senza ricorrere all'ipotesi dell'esistenza di una raccolta prepaolina di testimonia o florilegi specifici (che non si può dimostrare, se non adducendo l'esempio qumranico di 4Qtest), si può notare che l'apostolo impiega dei testi veterotestamentari cari anche alla Chiesa primitiva. In questo senso si possono citare: Sl 110,1 (in Cor 15,25; Rm 8,34; cfr. Mc 12,36; At

2,34s ), Is 53 (in 2 Cor 5,21; Rm 4,25; cfr. Mt 8,17; Gv 1,29; At 8,23s; 1 Pt 2,10), Os 2,23s (in Rm 9,25s;

cfr. 1 Pt 2, I0). Come si vede, i fili che legano Paolo alla Chiesa primitiva sono molteplici e di varia natura. E il prenderne atto ci conduce a giudicare fortemente impropria, se non falsa, l'affermazione fatta già da F. Nietzsche, poi da W. Wrede, e spesse volte ripetuta sul fronte «laico», secondo cui l'apostolo Paolo sarebbe il secondo fondatore del cristianesimo. Egli cioè avrebbe predicato un cristianesimo suo, irrimediabilmente grecizzato, dimostrandosi, specie in rapporto al giudaismo, come «il teologo del malinteso». A parte il fatto che egli viene dal giudaismo stesso (non solo ellenistico, ma anche da quello palestinese), il quale lascia nei suoi scritti un'impronta indelebile, è determinante la constatazione storica, secondo cui tra Gesù e Paolo si interpone ineludibilmente la primitiva comunità cristiana, che è diretta emanazione del primo e matrice del secondo. Se il messaggio di Gesù riceve dopo la sua risurrezione un nuovo taglio, con spostamenti di accento e addirittura contenuti parzialmente nuovi, ciò si verifica non certo con Paolo, ma già con il movimento protocristiano a lui anteriore. Certamente occorrerà studiare e chiarire le implicanze storico-teologiche di un simile fenomeno. Di sicuro Paolo, a sua volta, ha ulteriormente immesso nuove categorie nella teologia cristiana, almeno in rapporto a quella delle chiese di provenienza giudaica, provocandone così un importante sviluppo. Egli non è un ripetitore, né si accontenta di luoghi comuni. Però, resta vero ciò che ebbe a scrivere L. Cerfaux, che cioè «il cristianesimo è nato due volte»; e, se la prima fu sulle strade di Galilea con la predicazione del Nazareno, la seconda non fu certamente sulla via di Damasco, ma già a Gerusalemme, quando il Risorto apparve al gruppo dei suoi primi discepoli e li mandò a predicare a loro volta il vangelo con la forza del suo Spirito. Paolo non nasce cristiano, né la sua conversione sembra dovuta a un'opera di convinzione di uomini di Chiesa. Egli aggancia la propria identità cristiana e apostolica direttamente al Cristo Signore. E tuttavia le sue lettere contengono le più diffuse e originali riflessioni del Nuovo Testamento. Esse sono provocate con certezza dalla meditazione sulla natura delle «assemblee» da lui stesso fondate; ma anche vi hanno influito i suoi personali rapporti con quella comunità di «santi» a lui preesistente (cfr.1Ts 2,14; 1 Cor 1,2; 11,6), nella quale ebbe modo di vedere l'intervento lievitante dello Spirito escatologico e di attingervi a piene mani il materiale di base della propria fede cristiana e della propria predicazione missionaria.

PAOLO NEGLI ATTI

10 d.C. (?) 22,3 nasce a Tarso di Cilicia formato presso Gamaliele e Gerusalemme 22,25 cittadino romano 26,5 ebreo, fariseo osservante (cf Fil 3,5; 2Cor 11,22) 33-34 7,58 lapidazione di Stefano

8,3 Saulo presente al martirio di Stefano (35) 9,1-30 conversione e battesimo

22,6-21 conversione...(discorso apologetico ai Giudei) (26,12-18 conversione... (discorso apologetico ad Agrippa)

34-36 9,20 a Damasco e in Arabia (cf Gal 1,17; 2Cor 11,32) 36-37 9,26-29 ritorno a Gerusalemme cf Gal 1,18-19) 37-42 9,30 si ritira a Tarso (cf Gal 1,21) 43 11,25 con Barnaba presso la comunità di Antiochia (41-54) 11,28 imperatore Claudio (grande carestia nell’impero) 44 11,30 con Barnaba colletta per i fratelli di Gerusalemme 47-48 13,1-14,28 primo viaggio missionario con Barnaba (discorsi) 49 (50-51) 15,1-29 il concilio di Gerusalemme (cf Gal 2,1)

30-35 soggiorno ad Antiochia 52 15,36-18,22 secondo viaggio missionario senza Barnaba, con Sila

e Timoteo (15, 1) e presumibilmente con Luca ( 16, 11) 49-50 16,11-40 a Filippi (in Macedonia) 50-51 17,1-9.10-14 a Tessalonica e Berea 51-52 17,15-34 d Atene (22-31: discorso all'Areopago) 18,1-17 a Corinto 12-17:proc. Gallione) (1 Tess) 18,18-22 ritorno ad Antiochia (per Efeso e Cesarea) 53-58 18,23-21,17 3° viaggio missionario 54-57 (52) 19,1-41 ad Efeso ( prima prigionia ) (Gal, Fil , Fm, 1 Cor ) 57 20,1-2 in Macedonia ( 2 Cor ) (ed Illiria: cf Rm 15,19 ) 57 -58 20,2 a Corinto (Rm: prim. del 58) 58 20,3-21,16 ritorno a Gerusalemme (cf Rm 15,25-32-2) 20,17-35 discorso agli «anziani» di Efeso 58-60 (56) 21,17-26,32 arrivo ed arresto a Gerus. 24,1-26 col procuratore Antonio Felice 24,27-26,32 col procuratore Porcio Pesto ed Erode Agrippa 60-61 (57-58) 27,1-28,16 viaggio da Cesarea fino a Roma

61-63 (58-60) 28,17-31 prigionia e predic. in Roma 63-64 - - - - viaggio in Spagna (cf Rm 15,24-32) 64. o 67 (60) - - - - secondo arresto (prigionia) e martirio a Roma

La cronologia fra parentesi ( ) propone un'altra ipotesi diversa dalla tradizionale.

Messaggio paolino in Atti

LIBRO NARRATIVO Gli Atti degli Apostoli non sono un trattato dottrinale, ma un libro narrativo. Perciò non bisogna attendersi di trovarvi elencate in maniera sistematica le credenze dei primi cristiani. Bisogna inoltre tener presente che esso è stato scritto come continuazione del terzo vangelo. Perciò non vi vengono esposte le cose che il lettore già conosce dal racconto precedente. Tuttavia lo scopo dell'autore era certamente quello di comunicare, attraverso la storia, degli importanti valori dottrinali e un autentico messaggio, valido per ogni tempo. Secondo la frase lapidaria di Lutero, « con questo libro, san Luca istruisce la cristianità fino alla fine del mondo » (Vorreden sur Bibel, Hamburg 1967, p. 141). «Esso, riprende un autore recente, è un libro per tutti i tempi, un libro molto attuale per il nostro tempo. Bisogna leggerlo tutto in una volta, così come si leggono avidamente i ricordi di famiglia, nei quali si comprende donde veniamo e perché veniamo » . Per avere un quadro sintetico degli elementi dottrinali presenti negli Atti bisogna partire dall'evento centrale da cui ha origine tutto il movimento cristiano, cioè la risurrezione di Cristo. Dio l'ha operata facendo partecipe Gesù della sua gloria. L'esaltazione di Gesù non coincide però con l'avvento finale del regno e la restaurazione messianica. Questi eventi devono essere preceduti dalla diffusione del messaggio del risorto a tutte le genti. Il dono dello Spirito abiliterà gli apostoli a questa testimonianza, a cui molti presteranno fede, costituendo così la prima comunità dei credenti in Cristo, di coloro che si faranno battezzare nel suo nome e riceveranno la remissione dei peccati e il dono dello Spirito, segno dei tempi messianici.

DIO Passiamo ora ad un esame analitico dei temi principali sopra elencati. Non si insiste molto sul concetto di Dio, che si suppone già perfettamente conosciuto attraverso l'educazione religiosa dell'Antico Testamento. Ciò che di Dio viene messo maggiormente in risalto è che Egli è Colui che ha risuscitato Gesù dai morti (2,24) e ha dato lo Spirito promesso (2,33), effondendolo su tutti gli uomini senza distinzione di persone (2,17-20; 10,34-35; 11,17-18).

Soltanto nei discorsi ai pagani si sviluppa più a lungo il tema del Dio unico, in polemica con l'idolatria e il politeismo. Egli è il creatore onnipresente (4,24; 14,15; 17,24-28), che governa ogni cosa con la sua provvidenza (1,7; 2,23; 14,27).

GESU’ CRISTO Al centro della predicazione apostolica sta la figura di Gesù Cristo. Egli è stato predetto nelle Scritture dell'AT. In particolare Mosè, che fu respinto dai Giudei e, nonostante ciò, fu il loro capo e salvatore, era una prefigurazione di Gesù. Profeti come Mosè, Davide, Isaia, hanno previsto la sua predicazione, la sua morte e risurrezione, e l'annuncio della salvezza nel suo nome predicata a tutte le genti. Gesù è nato dal seme di Davide, ha predicato e operato miracoli, è stato poi tradito e messo a morte sotto Ponzio Filato. È risorto il terzo giorno ed è apparso ripetutamente agli apostoli, infine è asceso al cielo, esaltato alla destra di Dio come Messia e Signore universale. Di là invia lo Spirito Santo e continua a dirigere la sua Chiesa, manifestandosi talora ad alcuni uomini privilegiati. Gesù glorificato costituisce l'oggetto della fede della chiesa (9,13), e la predicazione ha appunto lo scopo di mostrare che egli è il Messia predetto dalle Scritture, colui che è stato costituito giudice dei vivi e dei morti, il figlio di Dio (9,

20). Soltanto per la fede in lui (16,31) e per il battesimo nel suo nome (2,38) è possibile ottenere la salvezza (cf 4,12) e la remissione dei peccati (5,31). Egli è anche il servo sofferente predetto da Isaia (52,13-53,12), che con i suoi dolori ci redime (8,32 35). (Benché l'unica citazione esplicita dei passi di Isaia si abbia in 8,32-33, si hanno probabilmente altre allusioni al servo-figlio in 3,13.26 e 4,27.30, le quali mostrano che Luca, pur non dando grande rilievo alla soteriologia, intendeva far comprendere che la passione e morte di Gesù aveva quel valore di riscatto che è espresso nel passo di Isaia, e i cui effetti appaiono nella remissione dei peccati). Gesù era dunque per i primi cristiani la figura terrena, di cui permaneva il ricordo, e insieme una figura celeste, vivente presso il Padre e partecipe della sua gloria, e di cui si attendeva il ritorno. Nel modo con cui gli Atti ci presentano la persona di Gesù è inclusa la coscienza di quella che in documenti posteriori sarà detta più esplicitamente la sua « divinità ».

SPIRITO SANTO Lo Spirito Santo, promesso dai profeti e da Gesù stesso, pervade con la sua presenza e il suo influsso tutta la vita e l'espansione della Chiesa primitiva. La manifestazione fondamentale dello Spirito, tipo e punto di riferimento per tutte le manifestazioni successive, si ha nella Pentecoste, che rappresenta per la dottrina sullo Spirito un po' quello che la risurrezione rappresenta per la cristologia. Dal modo con cui la Pentecoste viene descritta in At 2,1-13 e spiegata ulteriormente nel discorso che segue, appare chiaramente il significato escatologico del fatto. Essa rappresenta, con la risurrezione e l'ascensione di Gesù, l'inizio del tempo messianico definitivo. In essa si realizza quell'effusione dello Spirito di Dio, senza più limitazione a singole persone o tempi privilegiati, che è la caratteristica degli ultimi tempi (At 2,16-20). Lo Spirito continua la presenza di Gesù presso i suoi, dando anch'egli testimonianza per il Cristo (5,32). La Pentecoste segna anche l'inizio dell'attività della Chiesa. Nella presenza, tra i testimoni della Pentecoste, di molti provenienti dai principali popoli allora conosciuti si manifesta la vocazione universale della Chiesa, e la sua missione di essere un segno di unità tra i diversi popoli. In tutto il seguito degli Atti la persona e l'azione dello Spirito sono menzionate con grande frequenza: Egli è colui che ha parlato per bocca dei profeti (1,16; 3,18-21; 4,25; 28,25). Mentire a lui è mentire a Dio (5,3-4). Egli dà istruzioni a Filippo e a Pietro (8,29; 10,19), prende l'iniziativa per l'azione missionaria di Paolo (13,4). Talora trattiene l'azione dei predicatori per dirigerla altrove (16,6-7). Consola (9,31), assiste nei momenti della prova (7,55; 11,28), ed è oggetto di uno speciale insegnamento (19,1-7). Dei suoi doni sono pieni i cuori dei fedeli (2,4.38; 5,32; 6,3; 10,46, ecc.).

LA CHIESA La Chiesa (5,11) appare come la comunità di coloro che hanno creduto nel Cristo risorto, e vivono in unità sotto l'autorità degli apostoli, testimoni della risurrezione (2,32; 4,20, ecc.) che sono maestri autorizzati (2,42) e capi della comunità (5,2), e più tardi dei presbiteri (11,30; 14,23) o di altre personalità come Giacomo (21,18). Tra gli apostoli Pietro gode di una posizione speciale. A lui, come a portavoce degli altri apostoli, sono attribuiti i discorsi missionari della prima metà degli Atti (fino al c. 10). Egli si distingue per il suo potere di operare miracoli (5,15; 9.32-38, ecc.), di scrutare i cuori e conoscere i disegni divini (5,1-11; 10,9-20). Nelle persecuzioni egli appare maggiormente preso di mira (4,8; 5,29; 12,3-

17). A lui spetta il ruolo fondamentale nel problema cruciale di tutto il libro, l'ammissione dei pagani nella Chiesa (10,1-11,18; 15,7-11).

HANNO UN POSTO IMPORTANTE È importante pure ricordare il posto che hanno negli Atti la fede (si veda ad es. 2,44;

3,16; 4,4.32; 5,14; 6,7; 8,12.13; 10,43; 11,17; 14,22.27, ecc.), il battesimo (cf 2,38; 8,36; 10,47, ecc.), l'imposizione delle mani per conferire lo Spirito (8,15-17; 19,5-6), l'eucaristia (2,42.46; 20,7.11), la preghiera (si veda ad es. 4,24-30; 10,9; 12,5; 16,25 e molti altri luoghi: si può dire che non c'è situazione della Chiesa primitiva o personaggio importante di essa che Luca non ci presenti senza un qualche accenno alla sua preghiera). Anche le diverse situazioni attraverso a cui passano le comunità cristiane (crescita, persecuzione, dispersione, riconferma della fede) e i loro atteggiamenti, frutto dello spirito (gioia, carità, scambio fraterno dei beni, mutuo aiuto, unione, prontezza a soccorrere anche i lontani, ospitalità, coraggio, apertura di cuore e di orizzonti, ecc.) affiorano di. continuo nella narrazione. Si ricava così dalla lettura del libro un quadro ricchissimo della vita dei primi cristiani, quadro che viene presentato alle chiese di tutti i tempi come modello e come stimolo.

RIASSUMENDO Volendo riassumere brevemente il messaggio religioso permanente del libro, si può dire dunque che esso consiste nella proclamazione del fatto che l'attività di Dio, iniziata nell'AT e manifestatasi in pienezza nella vita, morte e risurrezione di Gesù, continua ora nelle comunità cristiane, nate dalla fede nel Risorto. Le caratteristiche della vita comunitaria dei primi cristiani, come la docilità all'azione dello Spirito Santo, la sottomissione agli apostoli, la carità che unisce i cuori di tutti, la gioia nelle persecuzioni, l'apertura universale senza preclusioni razziali o culturali, tutto ciò non è soltanto un momento particolarmente felice del cristianesimo delle origini, ma è parte del disegno rivelante di Dio, e manifesta le caratteristiche di cui egli ha voluto insignire l'opera della salvezza, indicando insieme ai cristiani di tutti i tempi i segni di cui deve essere fornita perennemente la Chiesa, per mostrare la propria continuità con la primitiva comunità apostolica. ( Carlo Maria Martini- Bibbia – Marietti )

LETTERE DI PAOLO

Romani ( Rm 57-58 )

La lettera è scritta alla comunità di Roma, che Paolo non aveva né fondato, né visitato ai tempi

della composizione. La stesura risale a verso la fine del primo viaggio missionario nel 57-58. Luogo della composizione è Corinto. I temi sono simili a quelli della lettera ai Galati e la tesi è quella enunciata in Romani 1, 16-17: “ Il Vangelo è potenza di Dio, capace di salvare chiunque crede, prima il giudeo poi il pagano, perché nel Vangelo viene ad esplodere la potenza salvifica di Dio (giustizia) allorquando l’uomo accede alla fede la quale fa accadere per lui la salvezza che mira alla vita”. Questa giustizia non è quella che si esprime nella condanna per il peccatore, ma è la fedeltà di Dio alle sue promesse di salvezza, e in base ad essa Dio rende giusti i credenti in Cristo, al di là di ogni distinzione di meriti o demeriti, di etnia o status religioso; il pagano è ammesso alla stessa eredità dell'ebreo, in base all'unica fede in Cristo. Questo argomento viene sviluppato nei primi 5 capitoli, dove l'ultimo fa anche da cerniera con ciò che segue, e cioè le implicazioni dell'evangelo (capp. 6-8): inserito in Cristo attraverso il battesimo, il credente viene liberato dal peccato e dalla Legge, per pervenire così alla vita secondo lo Spirito. Tre capitoli affrontano la questione scottante della sorte di Israele (capp. 9-11) e chiudono la parte più dottrinale, mentre i restanti capitoli prima della conclusione (capp. 12-15) pongono l'amore-agape come criterio centrale del comportamento cristiano. Si nota la mancanza di un rapporto diretto tra Paolo e le sue comunità. le tematiche sono generali; esse risultano rivolte a un uditorio ampio, con buona probabilità rispecchiano un periodo storico, in cui la dottrina cristiana andava consolidandosi. A ragione la lettera ai Romani è considerata uno degli scritti più importanti delle origini cristiane, punto di riferimento continuo della teologia fino ai nostri giorni. Tra le lettere paoline è la meno legata a circostanze concrete della comunità a cui si rivolge (la chiesa di Roma non fu fondata da Paolo, era già consolidata a partire dal suo nucleo originario di giudeo-cristiani a cui si erano aggiunti sempre più credenti di provenienza gentile), per questo la più "pensata" e quindi strutturata secondo un disegno ben preciso, per cui alla fine risulta una sintesi particolarmente riuscita della teologia dell'apostolo.

1 Corinzi ( 1 Cor 55 )

La prima lettera ai Corinzi è stata scritta da Paolo per porre rimedio ad alcuni abusi della comunità e per dare risposta a numerosi quesiti postigli dai Corinzi. E’ dell’anno 55 e comunque prima del 57. Scritta quattro o cinque anni dopo che l'Apostolo aveva predicato l'evangelo in quella città e fondato questa chiesa tra i pagani (cf. At 18), tra tutte le lettere paoline è quella più "occasionale", visto che tratta per lo più di problemi contingenti, questioni di vita comunitaria che rischiavano di creare tensioni, divisioni o scandali, e di cui Paolo era venuto a conoscenza tramite alcuni inviati; egli affronta le questioni una per una senza che ci sia una successione preordinata; chiave di lettura accomunante è che ogni soluzione è prospettata a partire dalla relazione con Cristo, potenza e sapienza di Dio; non a caso egli inizia indicando la «parola della Croce» (1 Cor 1,18) e termina con la resurrezione (cap. 15), come per sottolineare che tutto il discorso pastorale è come sostenuto da queste due arcate. Ecco gli argomenti toccati: le divisioni interne alla comunità (capp. 1-4); i disordini sessuali (5-6); il matrimonio e la verginità (7); il culto pagano e quello cristiano (8-11); in dettaglio tratta i problemi sollevati dai cristiani che partecipano a banchetti di amici in templi pagani; propone il suo esempio di apostolo, e dà indicazioni sul comportamento durante le assemblee liturgiche); l'uso dei carismi (12-14); la risurrezione dei morti (15); colletta e saluti (16). In particolare la lettera contiene il più antico racconto della cena del Signore

(11,23-26), l'attestazione della prima tradizione cristiana sulle apparizioni del Risorto (15,3-7), e il celebre "inno" all'amore cristiano (13).

2 Corinzi ( 2 Cor 57 )

La seconda è l’ultima di altre lettere, di cui due non pervenute. Paolo tratta delle sue relazioni con la comunità e dà istruzioni per le elemosine in favore della Chiesa di Gerusalemme. E’ stata scritta tra la fine del 56 e il 57. I rapporti con la comunità di Corinto furono piuttosto movimentati e quest'altra lettera ne è ulteriore conferma. Composta probabilmente uno o due anni dopo la 1 Cor, ha come scopo principale quello di favorire la pace, dopo che alcuni avversari di Paolo durante la sua assenza avevan gettato scompiglio mettendo in cattiva luce il lavoro e le stesse intenzioni dell'Apostolo. Dopo una prima difesa del proprio apostolato (capp, 1-7), Paolo dedica due capitoli per raccomandare la colletta in favore dei poveri di Gerusalemme (8-9), quindi torna a difendersi, questa volta dall'accusa di debolezza (10-13); qui c'è una delle frasi che meglio esprimono il tipico paradosso paolino: «Quando sono debole, è allora che sono forte!», 12,10). Vengono delineati in queste pagine alcuni tratti degli avversari di Paolo, che sembrano essere personalità anche di spicco, appartenenti all'area dei giudeo-cristiani (cf. 11,22-23); Paolo non è tenero con quelli che definisce "falsi maestri" e "superapostoli", perché è in gioco la stessa identità cristiana radicata sull'evangelo. Ricca di riferimenti autobiografici (cf. la famosa «spina nella carne», una dura prova, forse una malattia che non gli ha impedito di far emergere la forza di Dio), la lettera sottolinea soprattutto la grandezza del compito di mediazione che ha il ministro di Cristo, in vista della riconciliazione a cui esorta i Corinzi: «Lasciatevi riconciliare con Dio!» (5,20).

Galati ( Gal 57 )

Inviata da Paolo ai cristiani della Galazia del nord. E’ il vangelo della libertà. Ha molte somiglianze con la lettera ai Romani ed è stata scritta solo sei mesi prima, durante l’inverno del 57-58. Indirizzata a più comunità come una sorta di "circolare" (cf. Gal 1,2: «Alle chiese della Galazia»), tra tutte le lettere paoline è la più appassionata e polemica, l'unica in cui Paolo salta l'iniziale passaggio dedicato ai ringraziamenti per andare subito al sodo (v. 6: «Mi meraviglio che così in fretta... passiate ad un altro evangelo!»), e in cui raggiunge toni drastici: «Stolti Galati, chi vi ha incantati, voi dinanzi ai cui occhi Gesù Cristo fu presentato crocifisso?» (3,1). In questi termini vuole ammonire severamente quei credenti della Galazia provenienti dal paganesimo che avevano ceduto alle pressioni di chi, intervenuto da fuori dopo la predicazione di Paolo, voleva imporre loro la circoncisione e l'osservanza della Legge mosaica, deformando così l'evangelo. Per questo ricorda che l'evangelo da lui predicato gli è stato rivelato

direttamente da Cristo (menziona qui la sua conversione) e che ha ricevuto l'approvazione degli apostoli (1.11- 2,10), e va difeso da ogni compromesso, da qualunque parte esso venga (2,11-14); ciò lo induce a parlare - la prima volta con una certa estensione e a più riprese nel seguito dello scritto - del tema della giustificazione (2,16ss), per cui è la fede e non l'osservanza della Legge mosaica che rende giusti. In questa verità dell'evangelo si pongono le basi per superare tutte le discriminazioni religiose, sociali e sessuali (cf. Gal 3,28). Al cap. 5 troviamo proclamata in termini memorabili la libertà di cui il credente gode in Cristo, e che egli è chiamato a investire nell'amore, sotto la guida dello Spirito Santo. Le intuizioni qui espresse "a caldo" sui grandi temi teologici (tra cui anche la figliolanza e la funzione della Legge) saranno riprese in modo più pacato e articolato in Romani.

Colossesi ed Efesini Le lettere ai Colossesi e agli Efesini fanno parte del gruppo della "Lettere dalla prigionia" (insieme a Fil e Fm), in quanto l'autore, che si presenta come l'apostolo Paolo, afferma di trovarsi in prigione. Esse presentano molte somigilianze tra loro, già a partire dalla lingua e dallo stile: a parte la maggiore lunghezza, Efesini sembra quasi una rilettura più approfondita dei maggiori temi trattati in Colossesi. Entrambe presentano due parti ben definite, la prima di stampo dottrinale sul mistero di Cristo e della Chiesa (Col 1-2; Ef 1-3), la seconda di tipo esortativo, sul comportamento del cristiano (Col 3-4; Ef

4-6). In entrambe vengono ripresi e sviluppati temi tipicamente paolini, a volte con angolature diverse.

Efesini (Ef 61-63 )

Paolo si trova in carcere (Ef 3, 1;4, 1; 6, 20; Fm 9, 10.13.23; Col 4, 3.10.18), è circondato dagli stessi compagni, incarica Tichico di una medesima missione ( Col 4, 7-8; Ef 6, 21-22 ) . Per questi e vari motivi interni alla lettera, gli studiosi hanno formulato varie opinioni sull’autore, i destinatari, la data di composizione. Le opinioni possono essere così riassunte:

1° La lettera non fu scritta da Paolo, ma da un cristiano della generazione successiva, in un ambiente molto influenzato dalle idee paoline.

2° Paolo avrebbe affidato ad un segretario la stesura dello scritto, dopo avergli fornito alcune direttive; questi avrebbe tenuto presente anche la lettera ai Colossesi.

3° La lettera è di Paolo, dell’ultimo periodo della sua vita, scritta durante la prigionia di Roma; essa rappresenta una delle riflessioni più mature dell’Apostolo: in primo piano non vi sono problemi particolari, ma gli aspetti più generali ed essenziali del mistero della salvezza, compiuta in Cristo e presente nella Chiesa. Il tema centrale della lettera agli Efesini è il disegno di Dio (mistero ), fissato da

tutta l’eternità, rimasto velato lungo i secoli, eseguito in Gesù Cristo, rivelato all’Apostolo, annunziato

alla Chiesa.

Colossesi ( Col 61-63 )

Non tutti gli studiosi attribuiscono la lettera a Paolo. A partire dal secondo 19°, alcuni hanno contestato la tradizionale attribuzione paolina, in base all’analisi interna dello scritto, ma altri più autorevoli pensano che se ne possa sostenere l’autenticità e spiegano le innegabili differenze con le altre lettere con le particolari preoccupazioni pastorali e polemiche di Paolo e con l’evoluzione del suo pensiero favorito dalla prigionia, durante la quale la lettera è stata scritta.

Per la data e il luogo della composizione sono state fatte tre ipotesi. Che sono relative ai periodi in cui ha sofferto la prigionia: Efeso ( 54-57 ), Cesarea ( 58-60 ), Roma (61-63 ).

Il messaggio: Cristo è mediatore unico e universale tra Dio e il mondo creato; tutto avviene per mezzo di lui, dalla creazione alla salvezza- riconciliazione; poiché Dio lo ha posto a capo dell’intero universo, noi, che siamo uniti a lui, morti e risorti con lui, non dobbiamo temere nulla e nessuno; nessuna realtà celeste o terrestre può ormai renderci schiavi, condizionarci, condurci a questo o a quel tipo di alienazione; l’unico impegno della fede in Cristo e della carità verso tutti ci procura già ora una vita caratterizzata da vera sapienza e serena libertà.

Filippesi (Fil 61-63 )

La lettera è indirizzata alla comunità di Filippi, che era stata la prima fondata da Paolo in suolo europeo durante il suo secondo viaggio, la comunità con la quale ha avuto il rapporto più armonico e affettuoso (l'unica dalla quale ha accettato di ricevere un aiuto materiale, cf. 4,15-16). Le crescenti ostilità avevano ben presto costretto Paolo ad interrompere la sua permanenza in quella città (At 16, 11; 1 Tm 2, 2), per cui la comunità rimase presto in balia di sé stessa, ma, sebbene circondata da pagani, aveva dato buona prova di sé.

Secondo alcuni sarebbe stata scritta ad Efeso mentre si trova nella condizione di carcerato (cf.

1,7.13.17) nello stesso tempo della lettera ai Corinzi nel 56 o 57, secondo altri, dal momento che si fa cenno ad una condizione di prigioniero, durante la prima prigionia a Roma del 61-63. Paolo si presenta come un padre che intrattiene affabilmente i suoi figli spirituali, comunica le sue notizie, li esorta alla gioia, all’unità, all’umiltà, secondo l’esempio di Cristo. Tuttavia, dietro la figura del padre affettuoso si affaccia quella del maestro, vigile, attento, preoccupato dell’integrità dell’insegnamento. Non spiccano grandi temi che facciano da asse portante dello scritto (se valesse soltanto la frequenza, bisognerebbe scegliere quello della gioia, cf. 1,4.18.25; 2,2.17.18.28.29; 3,1; 4,1.4.10), piuttosto a Paolo sta a cuore di ringraziare i cristiani di Filippi, di informarli sulla propria situazione, e soprattutto di esortarli a vivere secondo l'evangelo, restando saldi e uniti nel combattimento della fede, anche nei confronti degli avversari (cf. 1,27-28 ); a questi ultimi, probabilmente dei giudeo-cristiani che ponevano la Legge mosaica e la circoncisione al di sopra di Cristo, indirizza parole molto dure: «Guardatevi dai cani... da quelli che si fanno evirare! I veri circoncisi siamo noi»; (cf. 3,2-3.18-19); a questo scopo indica il grande esempio di Cristo, riprendendo un antico inno che poi è divenuto meritatamente celebre: «Cristo Gesù, pur essendo di condizione divina, non considerò un tesoro geloso l'essere come Dio...» (2,5-11); da segnalare che in uno dei brani autobiografici più importanti di tutto l'epistolario paolino (3,5-14), fa la prima comparsa il tema della giustificazione per fede (3,9), che poi si troverà sviluppato in Galati e soprattutto in Romani.

Tessalonicesi Paolo ha scritto due lettere agli abitanti di Tessalonica (oggi Salonicco, seconda città della Grecia

). La prima è degli inizi del 51 ed è il primo scritto del Nuovo Testamento, essendo di appena una quindicina di anni dopo la morte di Cristo. Nella seconda, scritta poco tempo dopo, Paolo risponde ad alcune obiezioni che gli sono giunte dopo la prima lettera, quanto al fatto della parusia, che alcuni annunziavano imminente, predicando sciagure e rinunziando a lavorare per l’imminenza della fine del mondo.

1 Tessalonicesi ( 1 Ts 51 )

La prima lettera ai Tassalonicesi è in assoluto lo scritto cristiano più antico che conosciamo, quello che Paolo invia verso il 50 alla comunità di Tessalonica, da lui fondata pochi mesi prima, durante il secondo viaggio missionario (At 17). La lettera non presenta le grandi tematiche teologiche paoline ma è molto interessante per conoscere il clima che si respirava in alcune chiese delle origini. Dopo il saluto e l'ampio ringraziamento iniziale a Dio (cf. 1Ts 1; al cap. 3 si apprende che le confortanti notizie Paolo le ha ricevute da Timoteo, che aveva fatto visita ai Tessalonicesi), Paolo rievoca il suo apostolato in quella comunità, di come si sentiva disposto a fare tutto per loro, similmente a una madre o a un padre (cap. 2). Nella parte successiva affronta alcune questioni specifiche che riguardavano i credenti: la messa in guardia dall'impudicizia, l'amore fraterno, lo status dei morti e dei vivi nel momento della venuta del Signore alla fine dei tempi, la necessità della vigilanza nell'attesa (4,1-5,11). Nell'ultima parte prima dei saluti finali troviamo un elenco di esortazioni (quindici verbi all'imperativo) che illustrano i punti principali dell'impegno cristiano per una vita comunitaria fraterna (5,12-22; v. 21: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono»).

2 Tessalonicesi ( 2 Ts 52 )

Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi – che sostanzialmente riprende e sviluppa alcuni temi della prima Lettera ai Tessalonicesi –si trova una esplicita messa in guardia a «non lasciarsi turbare... quasi che il giorno del Signore sia imminente» (2Ts 2,2). Due sono le parti della lettera: nella prima, che occupa il cap. 2, si affronta la questione della venuta finale di Cristo, nel tentativo di rispondere al clima di attesa spasmodica che si è diffuso nella comunità; nella seconda (cap. 3), Paolo richiama i credenti a una vita impegnata nel lavoro, nella carità fraterna e nei propri doveri.

Filemone (Fm 61-63 )

E’ la più breve lettera, appena un biglietto, rispetto alle altre lettere paoline (soltanto 25 versetti), scritta da Paolo, in favore di Onesimo schiavo fuggitivo di Filemone. E’ la più personale e confidenziale di tutte; essa svela un tratto tutto particolare della sensibilità dell'apostolo e della sua capacità di persuadere. Alla fine della lista dei condestinatari si menziona la comunità che si riunisce da Filemone (cf. v. 2), nel tono è però quasi una lettera privata per quest'ultimo, con lo scopo di convincerlo a riaccogliere Onesimo - suo schiavo che era fuggito - come fratello nel Signore. Paolo si trova in prigione (cf. vv. 1.9.10.13.23), probabilmente la stessa da cui scrive la Lettera ai Filippesi e cioè quella di Efeso, verso l'anno 54-55; probabile luogo di destinazione è la città di Colesse. Secondo altri sarebbe stata scritta durante la prigionia romana (61-63).

1 Timoteo (1 Tm 63) 2 Timoteo (2 Tm 67) Tito (Tt 67) Le due lettere a Timoteo e quella a Tito sono chiamate "pastorali" perché indirizzate ai responsabili di comunità cristiane identificati con importanti collaboratori di Paolo e incentrate sull'ordinamento ecclesiastico interno.

Tutte tre sono indirizzate a singole persone, ma sono in realtà scritti ufficiali per le comunità cui sono preposti Timoteo e Tito. Tutte tre trattano dei doveri inerenti all’ufficio di pastore e contengono istruzioni simili e tutte tre presuppongono la medesima situazione storica. Nelle lettere si trova la presenza di una strutturazione già piuttosto definita, che prevede il ministero di episcopi, diaconi e presbiteri, assieme a citazioni di affermazioni teologiche presentate come note e accolte, è il segno di un "deposito" della fede e della tradizione già piuttosto ricco e ormai in via di consolidamento. La seconda lettera a Timoteo è considerata il testamento spirituale dell'apostolo, presentato in catene e ormai vicino al marti- rio: «II mio sangue sta per essere versato ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7).

Risalgono con probabilità all’ultimo periodo delle vita dell’apostolo. Dopo la liberazione dalla prima prigionia in Roma, Paolo fece coraggiosamente, nell’anno 63, un tentativo missionario in Spagna, sul quale non sono state conservate notizie sicure ( Rm 15, 23 ), poi si diresse nuovamente verso l’Asia Minore e la Grecia e visitò Efeso, dove lasciò come suo rappresentante, il fedele collaboratore Timoteo (1 Tm 1, 3; 4,14 ), che era figlio di padre pagano e di madre giudeo-cristiana di nome Eunice di Listra (Asia

Minore ). C’è però anche un’altra interpretazione che fa risalire le lettere a due decenni più tardi e pone in

discussione la stesura personale dell’apostolo.

PAOLO APOSTOLO

APOSTOLO Sorprende che all'inizio di alcune lettere Paolo rivendichi energicamente di essere apostolo. «Paolo, chiamato a essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio», così inizia la 1 Corinzi (1,1; cfr. 2Cor 1,1). E similmente, ma con accento polemico, nella Lettera ai Galati: «Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» (1,1). E nella grande Lettera ai Romani: «Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio» (1,1). Paolo ha dunque chiara coscienza di essere apostolo e annunciatore del vangelo, e con queste prerogative - che rivendica con forza - si presenta alle sue comunità. Le rivendica, perché fu accusato di non meritarsele. Non tutti condividevano il suo metodo missionario e la sua predicazione, giudicata troppo aperta ai pagani e condiscendente; Paolo annunzia sì il Cristo morto e risorto, ma troppo frettolosamente libera i pagani convertiti dall'osservanza della legge mosaica e delle costumanze giudaiche. Parla agli uomini per compiacerli e adatta il vangelo al mondo pagano per riscuotere facili successi, ecco l'accusa che colpisce l'Apostolo nell'intimo della sua coscienza, lui che non aveva altra passione e altro orgoglio all'infuori di essere «servo» fedele di Gesù Cristo, totalmente dimentico di sé. E poi: chi lo ha autorizzato a proclamarsi apostolo e chi lo ha incaricato della missione? Lo ha deciso da sé. D'accordo che la sua conversione fu miracolosa e che gli apparve il Signore risorto, ma questo non basta. Non ha incontrato Gesù durante la sua vita terrena - « Dal battesimo di Giovanni fino all'Ascensione» (At 1,22) -, non ha camminato con lui ascoltando le sue parole e osservando i suoi gesti, e neppure appartiene al gruppo che il giorno di Pentecoste fu investito dallo Spirito. Paolo è un cristiano della seconda generazione, e dunque deve scrupolosamente attenersi alla tradizione dei discepoli della prima ora. Paolo, a queste accuse, reagisce con durezza, rivendicando il titolo di apostolo e la piena legittimità della sua evangelizzazione. Come gli altri, anch'egli è un testimone della risurrezione: «Ultimo fra tutti apparve anche a me, come a un aborto» (1 Cor 15,8); «Non sono un apostolo? Non ho forse veduto Gesù, Signore nostro (...). Questa è la mia difesa contro quelli che mi accusano» ( 1 Cor 9,1-3). La sua opera di evangelizzazione egli la svolge in forza di un incarico preciso: non evangelizza per decisione propria, né per volontà di altri uomini, ma per volontà di Cristo: «II Vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo: non l'ho ricevuto né imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1,11-12). Dunque, egli è davvero un apostolo, parola che significa «inviato». Sa benissimo che due sono, alla fine, le verifiche obiettive della legittimità di una missione e della ortodossia di una predicazione: la fedeltà alla tradizione e la sintonia con tutte le Chiese. Queste due condizioni Paolo le ha appunto rispettate sino in fondo. Il vangelo che annunzia è fedele alle origini; egli «trasmette» ciò che a sua volta ha « ricevuto »: « Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» ( 1 Cor

11,23); «Vi ho trasmesso quello che anch'io ho ricevuto» ( 1 Cor 1.5,3). Del resto il suo programma missionario fu sottoposto agli apostoli di Gerusalemme, ricevendone piena approvazione: «Riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi» (Gal 2,9-10). E il vangelo che predica appartiene alla fede di tutte le Chiese: «Sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto» (1 Cor 15,11).

Dall'insieme delle annotazioni che abbiamo raccolto si ricava un'impressione molto netta: se Paolo rivendica il titolo di apostolo - ponendosi, in un certo senso, sullo stesso piano dei dodici -, non lo fa per attribuirsi non so quale dignità o potere, ma unicamente per difendere il suo vangelo, la sua missione e le sue comunità. Quello che veramente gli importa è la legittimità della sua predicazione. Più tardi Luca - in parte fedele a un vocabolario più tradizionale e in parte, forse, per il desiderio di chiudere una controversia che ancora si trascinava — rivede tutta la questione. Raccontando negli Atti degli apostoli le vicende di Paolo, gli attribuisce tutta la sostanza di ciò che egli aveva sempre strenuamente rivendicato, e cioè il suo essere testimone del Cristo risorto e la piena legittimità del suo vangelo e del suo metodo missionario. Ma nel contempo Luca puntualizza: non gli attribuisce mai il termine apostolo, che invece riserva al gruppo dei primi discepoli. Per lui apostolo non è semplicemente chi testimonia la risurrezione di Gesù, né chi legittimamente lo annunzia, ma chi lo ha accompagnato nella sua attività terrena, « testimone di tutte le cose che egli ha fatto nel paese dei giudei e in Gerusalemme» (At 10,39). Paolo e Luca, insomma, usano lo stesso termine, ma con significato differente e per scopi diversi: Paolo è preoccupato di legittimare la sua predicazione contro i molti attacchi denigratori che gli erano rivolti; Luca è preoccupato di mostrare la continuità tra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa.

PURCHE’ CRISTO SIA ANNUNZIATO Tutta la vita di Paolo può essere riassunta in una semplice frase: «Purché Cristo sia annunziato» ( Fil 1,18). Molte le vicende della sua vita, ma tutte orientate in una sola direzione e sostenute da un'unica tensione. Paolo è sempre in viaggio, sempre sulle strade: l'orizzonte della sua missione è il mondo. Una missione oltremodo faticosa, come egli stesso per rapidi cenni ebbe a confessare (2Cor 11,23 ss.): gli interminabili viaggi per terra e per mare, in regioni montuose e deserte, i naufragi, le persecuzioni, i disagi di ogni genere. Il suo programma è di evangelizzare l'oriente e l'occidente, fino alla Spagna. Ce lo dice lui stesso concludendo la Lettera ai Romani: « Da Gerusalemme e dintorni fino all'Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo (...); non trovando più un campo d'azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna, spero, passando, di vedervi» (15,18-24). È sorprendente constatare, da una parte, la brevità del tempo impiegato e, dall'altra, le distanze percorse e il numero delle comunità fondate. Paolo cerca i centri importanti, le grandi città e i nodi commerciali, da cui è più facile l'irradiazione nell'intera regione. Perché è appunto questo il suo metodo: costruire basi missionarie, isole nel mare dell'impero, affidando loro la responsabilità dell'intera regione. Così egli poteva mirare a nuovi traguardi e mettersi di nuovo per strada, convinto che il vangelo è come il fuoco che spontaneamente si espande da ogni lato. Questo non significa, naturalmente, che egli fosse indifferente verso le comunità che fondava: le sue lettere dimostrano quanto fosse a esse affezionato e come sentisse la responsabilità della loro maturazione. E più di una volta ha cambiato i suoi programmi per visitare una comunità che aveva bisogno del suo intervento. Nel suo lavoro missionario c'è come una tensione tra due esigenze contrapposte: da un lato, la vastità del campo e quindi la fretta per raggiungere il maggior numero di regioni; dall'altro, la responsabilità verso le comunità che nascevano e, quindi, la necessità di fermarsi e di ritornare. La sua fretta, però, non fu mai superficialità, perché accanto all'universalità urgeva in lui un'altra passione altrettanto forte, e cioè l'esigenza di comunione. Paolo - ed è un secondo tratto qualificante del suo metodo missionario - è un costruttore di comunione: non soltanto comunione all'interno di ogni singola comunità, tra membro e membro, tra gruppo e gruppo (1 Cor 12-14), ma anche tra comunità giudaiche e comunità ellenistiche. Nel suo frenetico lavoro missionario, Paolo ha trovato il tempo di organizzare una grande colletta per i cristiani poveri di Gerusalemme, un segno di concreta fraternità: «Per il momento vado a Gerusalemme a rendere un servizio a quella comunità; la Macedonia e l'Acaia, infatti, hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme» (Rm 15,25-26). Paolo parla di questa colletta in tre passi delle sue lettere, e già questo ne dice l'importanza, tanto più che egli sente ripetutamente il bisogno di spiegarne il significato. Per Paolo la colletta non è semplicemente un dono, ma uno scambio: i cristiani di Gerusalemme hanno condiviso con i pagani i loro beni spirituali, e questi ora ricambiano aiutandoli nelle loro necessità materiali (Rm 15,27). In realtà la colletta resta pur sempre un dono, non però un dono di me all'altro, bensì un dono che viene da Dio per tutti e due. E’ all'interno di questa visione che la colletta diventa veramente un segno cristiano. Trova la sua motivazione e la sua misura nell'evento di Gesù, non semplicemente in una relazione fra Chiese. In proposito Paolo è chiarissimo: «Conoscete, infatti, la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da

ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Si dona ciò che si è ricevuto: non necessariamente ricevuto dalle altre Chiese, ma da Cristo. Si tratta dunque di uno scambio asimmetrico: la sua misura e la sua qualità è il dono di Dio, non la risposta dell'altro. C'è poi una terza caratteristica che qualifica il metodo missionario di Paolo, e cioè il posto centrale della predicazione. Paolo è l'uomo della parola. Certo egli conosce l'importanza del battesimo e dell'eucaristia, ma egli sembra riservarsi soprattutto la parola. Scrive ai corinzi: «Non ho battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio? Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefano, ma degli altri non so se ho battezzato alcuno; Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo» ( 1Cor 1,14-17). Paolo è un uomo tutto dedito all'evangelizzazione, senza distrazioni e senza altri interessi, convinto che il vangelo è una parola non solo da annunziare, ma da rendere credibile con la propria vita, quasi una parola da visualizzare. Cosa che Paolo ha fatto, al punto da poter dire: «Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi» (Fil 3,17).

AL CENTRO DELL’ANNUNZIO Al centro dell'annunzio paolino c'è sempre - e si potrebbe dire unicamente - l'evento di Gesù Cristo. E questo il contenuto pressoché unico del termine vangelo che egli usa con frequenza. Si legga, a modo di esempio, 1 Cor 15,1-11: «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto». Il centro dell'annunzio - proveniente dalla tradizione apostolica, irrinunciabile, da conservare e tramandare con assoluta fedeltà pena la perdita della salvezza - è sintetizzato in questa formula: « Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, apparve a Cefa e poi ai dodici». E’ questo un annunzio che deve risuonare in tutte le Chiese. Ma Paolo sa anche che questo annunzio non è privo di conseguenze nei confronti della società e delle sue strutture. Tanto è vero che proprio a partire dal vangelo, egli si sente autorizzato a denunziare il mondo idolatra e ingiusto che lo circonda. Non lo denunzia perché non cristiano, ma perché è idolatra, immorale e ingiusto. Lo denunzia perché non è umano.

SEMPRE IN VIAGGIO Diversi indizi permettono di concludere che Paolo era un po' più giovane di Gesù (probabilmente, nacque tra il 5 e il 10 dopo Cristo): era giovanetto al tempo della lapidazione di Stefano (circa il 33 - 35). Paolo è un giudeo della diaspora (nativo di Tarso), ma la sua educazione è completamente giudaica: fu discepolo, a Gerusalemme, del celebre rabbi Gamaliele. Per capire le sue lettere bisognerà sempre tenere presente questo aspetto biblico e giudaico della sua educazione e della sua cultura. Dopo la conversione e un breve ritiro nel deserto e un rapido viaggio a Gerusalemme, egli si dette all'apostolato e alla predicazione fra i pagani. Non possiamo indicare qui tutte le tappe della sua travolgente attività missionaria: ci limitiamo a indicare i suoi tre viaggi principali: 1) Primo viaggio (anni 45-48): insieme con Barnaba, parte da Antiochia e si porta a Cipro, per poi passare in Asia Minore, e attraverso Iconio e Listri, giunge fino a Derbe. Troviamo le notizie di questo primo viaggio in At 13,1 - 14.27. 2) Secondo viaggio (anni 50-53): insieme con Sila e, più tardi, con Timoteo, Paolo visita le comunità fondate nel primo viaggio; poi si porta in Macedonia e fonda le comunità di Filippi e Tessalonica; da qui passa ad Atene (dove tiene il famoso discorso all'Aeropago) e poi - scoraggiato dall'insuccesso di Atene - si porta a Corinto: da qui scrive ai tessalonicesi le prime sue due lettere. La narrazione di questo secondo viaggio si trova in At 15,36 - 18,22. 3) Terzo viaggio (anni 53-58): Paolo visita di nuovo le vecchie comunità d'Asia e si porta a Efeso, dove dimora tre anni:

spinto da una sommossa contro di lui, va in Macedonia e poi a Corinto; ritorna in Macedonia e via mare giunge a Gerusalemme. La narrazione di questo terzo viaggio si trova in At 18,23 - 21,16. Paolo fu poi arrestato a Gerusalemme e condotto a Roma per essere processato. A questo punto le notizie si perdono. Fu certamente assolto e, probabilmente, passò in Hispania e poi in Asia Minore. Di nuovo arrestato, subì il martirio nell'anno 67. Concludendo questo rapido sguardo ai viaggi di Paolo, è bene leggere 2Cor 11,6 - 12,10: è un testo in cui Paolo stesso narra, a larghi tratti, la sua vita apostolica. Non lo fa per il gusto di parlare di se stesso. Egli ne parla per confermare un insegnamento teologico e per difendere la validità della sua azione apostolica di fronte ai giudaizzanti che tentavano di sminuirla. Paolo non può accettare che la validità della sua azione apostolica (in particolare della sua predicazione) venga messa in dubbio: ne andrebbe di mezzo il vangelo che annunzia, ne andrebbe di mezzo Cristo. Una cosa questa che Paolo non potrà mai tollerare. Cristo è il suo unico interesse, l'unico motivo capace di spingerlo a parlare di sé. I tratti biografici, sparsi nell'epistolario, sono diversi, ma tutti occasionali e tutti raccontati unicamente perché utili alla causa del vangelo.

NON CI SCORAGGIAMO Paolo incontrò ostacoli alla propria missione non solo da parte del mondo o dei giudei, ma anche da parte delle sue stesse comunità. E’ questa la smentita più dolorosa, e che richiede molto coraggio: «Investiti di questo ministero (...). non ci scoraggiamo» (2Cor 4,1). Un'ampia descrizione dei travagli dell'Apostolo si legge in 2 Cor 11,23-29: l'apostolato è una dura fatica. Ma non è la fatica che scoraggia. Paolo, continuamente tallonato dai giudeo-cristiani che non condividevano il suo modo di annunziare il Cristo fra i gentili, fu perennemente accusato di non essere un apostolo autentico, di storpiare il vangelo e di cedere alla moda per piacere agli uomini (Gal

7 1-2). Fu accusato di essere pusillanime, salvo poi fare la voce grossa da lontano (2Cor 10,1); di fingersi disinteressato, per poi rifarsi con sottili sotterfugi e astute strumentalizzazioni (2 Cor 12,16). Accuse gravissime e umilianti. Tuttavia anche queste accuse non furono per Paolo la sofferenza maggiore né la principale causa di scoraggiamento. Più grande fu la delusione di vedere le proprie comunità affascinate e sedotte da predicatori abili nel confondere e nel contrabbandare le proprie idee in nome di Cristo (2Cor 11,2-6); la delusione, si direbbe, di vedere un lungo e paziente lavoro distrutto, ripetutamente constatando che la parola del vangelo appare, a volte, più debole di altre parole. Al fondo c'è proprio questa esperienza: la ripetuta constatazione della Parola rifiutata e tradita. Dunque, nell'esperienza apostolica di Paolo non sono mancati motivi scoraggianti: la tenace persecuzione degli avversari, il tradimento delle proprie comunità, il vedersi incompreso e accusato proprio in ciò che gli era più caro (la fedeltà a Cristo, il disinteresse e la libertà), l'inefficacia (apparente) della Parola annunziata. Come ha reagito Paolo a tutto questo? Come ha letto la propria esperienza? Dove ha trovato i motivi profondi per mantenere viva la speranza? Per rispondere a queste domande - che molto possono contribuire alla conoscenza di Paolo - ci serviamo di un passo autobiografico di grande profondità teologica e spirituale (2Cor 4,1-18). La libertà e il coraggio di Paolo nascono, anzitutto, dalla convinzione che Dio, e solo Dio, è il vero protagonista di ogni azione apostolica. Paolo è un apostolo sereno, sottratto a ogni rischio di demagogia e a ogni scoraggiamento, perché convinto che il suo incarico viene da Cristo, libero perciò dalle decisioni degli uomini e dai loro interessi. Paolo sa di dover rendere conto a Dio, non agli uomini. E perciò il suo è un servizio che si muove nella libertà. La sua unica preoccupazione è di restare fedele a Cristo. Non si preoccupa del successo, né di compiacere: « Non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù, il Signore» (2 Cor 4,5). Certo, ogni apostolo è a servizio degli uomini (« Siamo vostri servi per Gesù », 4,5b), ma questo servizio trova la sua origine e la sua ispirazione ultima nell'amore di Cristo e per Cristo («per Gesù»). Nel cuore dell'apostolo l'amore di Dio precede l'amore del prossimo. Una precedenza che non annulla l'amore del prossimo, ma lo libera. Il prossimo non deve essere la ragione ultima del lavoro apostolico: l'apostolo ne diverrebbe schiavo e mendicherebbe il suo appoggio, e incontrando il rifiuto diventerebbe un uomo scoraggiato. Dopo aver rivendicato la libertà del suo servizio, Paolo prosegue: «Portiamo questi tesori in vasi di terracotta, affinché appaia che questa potenza straordinaria proviene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7). La metafora del vaso di terracotta, umile e casalingo, attira di nuovo l'attenzione sul paradosso che accompagna sempre la presenza del regno di Dio: una presenza spesso nascosta dietro apparenze che

sembrano smentirla. Il vaso di terracotta è poco appariscente, non dà a vedere di nascondere qualcosa di prezioso. E’ sempre il tema, per dirla con Giovanni, della «gloria» presente nella «carne». E’ il tema del regno presente come «un seme» - presente cioè in una storia, che avanza tra smentite, contraddizioni e frammentarietà - del discorso in parabole (Mc 4). Chi pretende una presenza di Dio visibile a ogni costo, appariscente, clamorosa, immediata, non incontrerà mai il Signore, e ne resterà perennemente scoraggiato. E sarà sempre tentato di affrettarne i tempi con mezzi non evangelici. La parola di Dio, certo, è efficace, ma non spetta all'uomo determinarne i tempi e le modalità. La potenza di Dio si fa presente nella debolezza, nella fragilità, nell'inadeguatezza: è così che Dio mostra che l'efficacia è sua, non dell'uomo. In proposito, si legga 2Cor 12,7-10: «La mia potenza si esprime nella debolezza (...); quando sono debole, allora sono forte». E’ questo un tema sul quale Paolo ritorna spesso e con molta forza (1 Cor 2,4-5). È il tema della croce, che per Paolo non soltanto costituisce l'oggetto dell'annunzio, ma anche ne determina il metodo. L'annunzio stesso, nelle modalità in cui avviene e nelle strade che percorre, deve adeguarsi alla logica della croce. Paolo è poi profondamente convinto della realtà della vita futura e della perenne comunione con Cristo: «Ecco perché noi non ci scoraggiamo; anzi, ancorché in noi l'uomo esteriore si consuma, tuttavia quello interiore si rinnova di giorno in giorno. La nostra tribolazione, momentanea e di lieve peso, procura a noi, assolutamente al di sopra di ogni misura, un peso di gloria eterna, dato che non miriamo alle cose visibili, ma alle invisibili: perché le cose visibili sono effìmere, le invisibili invece eterne» (2 Cor 4,16-18). Il pensiero di Paolo è qui molto chiaro e non richiede commento. Non si dimentichi però che per lui le «realtà eterne» non sono semplicemente future: future nella pienezza, questo sì, ma già ora parzialmente sperimentabili. La risurrezione, ad esempio, non è vissuta da Paolo semplicemente come premio finale e come attesa, ma è sperimentata già ora come una forza operante, come capacità di amare in modo nuovo, come vittoria sul peccato, come ostinata volontà di sperare a dispetto di ogni smentita, di sentirsi vivo a dispetto di ogni contrarietà: « Tribolati, ma non finiti; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; abbattuti, ma non distrutti» (2Cor 4,8-9).

NON MI VERGOGNO DEL VANGELO In un passo di grande densità teologica - che sembra in qualche modo far da titolo all'intera Lettera ai Romani - Paolo scrive: «Non mi vergogno infatti del vangelo, poiché è potenza di Dio per chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco. In esso infatti si manifesta la giustizia di Dio di fede in fede, come è scritto: il giusto vivrà in forza della fede» (Rm 1,16-17). Non dobbiamo fare l'analisi dettagliata di questa affermazione paolina, e alcune incertezze di traduzione non ci riguardano. Il nostro scopo, infatti, è circoscritto: Che cosa fa sì che il «vangelo» sia per alcuni - certo, per giudei e greci-, ma anche probabilmente per alcuni predicatori cristiani, qualcosa di cui vergognarsi? Dicendo con fierezza: « Non mi vergogno». Paolo lascia chiaramente intendere che altri, invece, se ne vergognavano. Che cosa sia per lui «il vangelo», Paolo lo dice ampiamente in 1 Cor 15,1-11. «Vangelo» è il dato tradizionale ed essenziale della fede, predicato in tutte le Chiese, e perciò da conservare intatto nella sua identità- si direbbe, «alla lettera» -, pena l'inutilità della fede. Ricorrendo a una formula già in uso nella catechesi della comunità (15,3b-5), Paolo ne evidenzia tre aspetti: la reale storicità dell'evento della croce e risurrezione, la sua dimensione salvifica («per i nostri peccati»), la sua conformità alle Scritture («secondo le Scritture»). Nel passo della Lettera ai Romani che stiamo leggendo – un passo da leggere assieme a Rm 3,21-26, che ne costituisce la ripresa e la spiegazione - il vangelo è descritto come il luogo « in cui si rivela la giustizia di Dio ». Questo luogo, in cui si è manifestata e continua a manifestarsi la misericordia di Dio, è contemporaneamente l'evento storico della croce (in Rm 3,25 Paolo definisce Gesù «strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue») e la corretta predicazione che lo annunzia (Rm 1,15).

Tutto questo concorda con il primo dei tre elementi sottolineati in 1 Cor 15,1-11. Né manca il terzo, cioè la conformità alle Scritture (l,17b; 3,21b; 4,1 ss.). È però il secondo («per i nostri peccati») che Paolo qui sviluppa maggiormente. Il vangelo è la manifestazione di una salvezza che sorprende (e scandalizza) per più ragioni. In primo luogo, per la sua gratuità: il vangelo racconta una salvezza che discende gratuitamente dalla croce e, cioè, da accogliere nella fede «indipendentemente dalla legge» (Rm

3,21). Un amore tanto gratuito e sconfinato da apparire incredibile: «Ora, a stento, si trova chi sia disposto a morire per un giusto (...). Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori. Cristo è morto per noi» (Rm 5,7-8).

Poi il vangelo sorprende (e scandalizza) per la sua universalità: la misericordia di Dio raggiunge non solo il giudeo ma anche il greco («Il giudeo prima e il greco poi»), senza fare distinzioni (Rm 3,22). Soprattutto, però, il vangelo sorprende (e scandalizza) per la sua debolezza. Dicendo che per lui il vangelo è «potenza (dynamis) di Dio» (1,16), Paolo lascia intendere che per altri è invece debolezza. Tale appare l'evento della croce, tutto il contrario della potenza e del prestigio di Dio: evento inefficace, inutile, che ha lasciato le cose del tutto irrisolte. Se le prime due ragioni dello scandalo toccano soprattutto il giudeo, la terza tocca certamente anche il greco, sia pure con sfumature diverse. Che Paolo abbia fatto della croce il centro della sua evangelizzazione appare con chiarezza anche da quanto egli scrive ai cristiani della Galazia: « Voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso» (3,1). Il disegno del Crocifìsso vivamente tracciato da Paolo viene, però, da altri predicatori scolorito. Si tratta dei giudaizzanti che ripropongono il discorso della legge e delle opere. Predicare anche la circoncisione - cosa che, oltre tutto, gli eviterebbe la persecuzione - significa per Paolo « annullare» lo scandalo della croce (Gal 5,11). Ed è proprio ciò che fanno i giudaizzanti: non negano il fatto della croce, ma lo «svuotano» della sua forza salvifica, attribuendo alle opere della legge ciò che invece appartiene soltanto alla croce: « Se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano» (2,21). L'esclusività salvifica della croce è certamente uno scandalo per il giudeo, ma per Paolo è uno scandalo che non si deve in alcun modo attenuare, bensì dipingere al vivo. Costituisce, infatti, il centro della rivelazione, il punto più luminoso in cui il volto di Dio si è manifestato.

ANNUNZIATORE DELLA GRAZIA La grazia è il principio architettonico che regge tutta la costruzione paolina: è cioè quel principio ricco di infinite variazioni, che permette alla riflessione di Paolo di abbracciare tutte le situazioni della fede e insieme di ricondurle a unità. La salvezza/grazia muta alla radice il modo di concepire il rapporto con Dio (che diventa essenzialmente un rapporto di accoglienza e di gratitudine), i rapporti all'interno della comunità (nella quale deve regnare l'ordine della donazione reciproca, non della stretta giustizia) e i rapporti della Chiesa con il mondo (rapporti di servizio e non di autoglorificazione). E’ anche interessante notare che la salvezza/grazia è la radice che ha suscitato e strutturato tutta la missione di Paolo, e questo almeno sotto tre aspetti. Primo: la grazia è la realtà da annunziare, il vangelo da portare a tutti. Ecco il costante e monotono annunzio missionario di Paolo: Cristo è morto e risorto per noi e, di conseguenza, siamo salvati dall'amore gratuito di Dio apparso sulla croce, non dalle nostre opere. Secondo: la salvezza/grazia è la radice della universalità dell'annunzio. Anzitutto nel senso che la salvezza sta nella fede e non nelle culture, e quindi tutte le culture possono aprirsi al Cristo, e nessun popolo può imporre a tutti nel nome di Cristo la propria particolare cultura. Paolo fu sempre uno strenuo assertore della libertà del vangelo. Poi nel senso che cadono le barriere tra uomo e uomo, tra popolo e popolo: non ci sono più i vicini e i lontani, i degni e gli indegni, e questo per il semplice motivo che l'amore di Dio è gratuito, in nessun modo condizionato dalle opere degli uomini, dalla loro appartenenza a un popolo o a un altro. Ecco perché Paolo si è sentito contemporaneamente chiamato alla comunione con Cristo e alla missione fra le genti: la salvezza/grazia è radice di universalità. Terzo: la salvezza/grazia dice la direzione dell'esistenza. Significa che l'uomo deve concepirsi come dono gratuito, come un'esistenza regalata, che non può quindi rimanere chiusa in se stessa ed essere sfruttata per se stessi, ma deve aprirsi e farsi dono gratuito per tutti. Se questo non avvenisse, il movimento di Dio verrebbe interrotto e distorto: l'amore gratuito che raggiunge l'uomo verrebbe dall'uomo capovolto; non più dono ma possesso, non più servizio, ma potere.

R Maggioni Il Dio di Paolo - pp. 11-27.39-40 Ed. paoline 2008

2 Corinzi 4, 1-18 Perciò, investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d`animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio. E se il nostro vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio. Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo. Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l`inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d`un momento, quelle invisibili sono eterne.

2 Corinzi 11- 6 – 12, 10 Capitolo 11

E se anche sono un profano nell`arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come vi abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a tutti. O forse ho commesso una colpa abbassando me stesso per esaltare voi, quando vi ho annunziato gratuitamente il vangelo di Dio? Ho spogliato altre Chiese accettando da loro il necessario per vivere, allo scopo di servire voi. E trovandomi presso di voi e pur essendo nel bisogno, non sono stato d`aggravio a nessuno, perché alle mie necessità hanno provveduto i fratelli giunti dalla Macedonia. In ogni circostanza ho fatto il possibile per non esservi di aggravio e così farò in avvenire. Com`è vero che c`è la verità di Cristo in me, nessuno mi toglierà questo vanto in terra di Acaia.

Questo perché? Forse perché non vi amo? Lo sa Dio! Lo faccio invece, e lo farò ancora, per troncare ogni pretesto a quelli che cercano un pretesto per apparire come noi in quello di cui si vantano. Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce.

Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere. Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri come un pazzo, o se no ritenetemi pure come un pazzo, perché possa anch`io vantarmi un poco. Quello che dico, però, non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto, nella fiducia che ho di potermi vantare. Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch`io.

Infatti voi, che pur siete saggi, sopportate facilmente gli stolti. In realtà sopportate chi vi riduce in servitù, chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia. Lo dico con vergogna; come siamo stati deboli! Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch`io. Sono Ebrei? Anch`io! Sono Israeliti? Anch`io! Sono stirpe di Abramo? Anch`io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch`io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.

2 Corinzi cap. 12 Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest`uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato, perché direi solo la verità; ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me. Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l`allontanasse da me.

Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.

PAOLO RIVELA L’AMORE DI GESU’

Atti 9, 1-30 1Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si

presentò al sommo sacerdote 2e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina

di Cristo, che avesse trovati. 3E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a

Damasco, all`improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4e cadendo a terra udì una voce che gli

diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». 5Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io

sono Gesù, che tu perseguiti! 6Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi

fare». 7Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la

voce ma non vedendo nessuno. 8Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla.

Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, 9dove rimase tre giorni senza vedere e

senza prendere né cibo né bevanda. 10Ora c`era a Damasco un discepolo di nome Anania e il

Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». 11E il Signore a lui: «Su, và sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di

Tarso; ecco sta pregando, 12e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli

le mani perché ricuperi la vista». 13Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest`uomo ho udito

da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. 14Inoltre ha l`autorizzazione

dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». 15Ma il Signore disse: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re

e ai figli di Israele; 16e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». 17Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu

riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». 18E improvvisamente gli caddero dagli occhi

come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, 19poi prese cibo e le forze gli

ritornarono. Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, 20e subito nelle

sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. 21E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?». 22Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco,

dimostrando che Gesù è il Cristo. 23Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un

complotto per ucciderlo; 24ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la

guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; 25 ma i suoi discepoli

di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta. 26Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo

ancora che fosse un discepolo. 27Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in

Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. 28Così egli poté stare con loro e

andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore 29e parlava e

discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. 30Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.

UN MISTERO D’AMORE

Nel primo dei tre racconti della "illuminazione" di Saulo sulla via di Damasco, Luca presenta non solo il fatto dell' incontro decisivo per Paolo e per gli sviluppi del cristianesimo , ma fa intravedere anche l'esperienza che ha messo in contatto Paolo con il mistero di Cristo. Un mistero di amore. Un mistero che parte dal cuore di Cristo per coinvolgere il cuore e l'intera esistenza di Paolo. Un mistero continuamente approfondito e ripreso a contatto con gli eventi della sua vita movimentata di evangelizzatore. In ambienti modernisti Paolo è stato accusato di aver corrotto la religione del cuore predicata da Gesù. Come si può parlare di Paolo, rivelatore del cuore di Gesù? Seguendo il racconto di Atti 9,1-30, si cercherà di evidenziare le qualità dell'amore che unisce il cuore di Cristo al cuore del suo apostolo. SAULO (1) Saulo Paolo: è una personalità ricca e complessa: porta due nomi, viene da due culture, parla due lingue, lo conosciamo da due fonti. E' un giudeo, fiero di essere un fariseo, educato però prima in ambiente ellenistico a Tarso, e poi in ambiente giudaico nella prestigiosa scuola di Gamaliele a Gerusalemme. La famiglia doveva essere facoltosa, dal momento che Paolo poteva dirsi cittadino romano per nascita, cosa piuttosto rara in Oriente. Alcuni ipotizzano che il padre l'avesse ricevuta la cittadinanza romana per i meriti nei confronti dell'amministrazione imperiale, perché fornitore di tende all'esercito romano. Saulo Paolo dimostra di conoscere bene sia il greco che l'ebraico e quello che sappiamo di lui viene da due fonti indipendenti e parallele, ma sostanzialmente convergenti: le sue lettere, scritte a cavallo degli anni cinquanta e verosimilmente raccolte e pubblicate verso la metà degli anni novanta e gli Atti degli Apostoli, redatti da un suo discepolo, che pare non conoscesse le sue lettere, verso gli anni ottanta. Il Paolo delle lettere ha tratti diversi da quello degli Atti: più in presa diretta con i problemi da affrontare e quindi più vivo quello delle lettere, più pacificato e forse già idealizzato quello degli Atti. MINACCIA STRAGE (1) Saulo è presentato come un violento, attivo e intraprendente persecutore della giovane comunità dei credenti in Cristo. Per i discepoli è il nemico da cui bisogna guardarsi. Per Saulo i seguaci di quel nazareno, bestemmiatore giustiziato sulla croce, vanno estirpati: la loro rapida diffusione e la loro vivacità missionaria li rendeva estremamente pericolosi nei confronti della fede del giudaismo tradizionale. Gente disposta a morire come Stefano va resa innocua , prima che si espanda troppo e metta in crisi il sistema. UNA LUCE DAL CIELO ( 3) Ma ecco che quel nazareno gli appare nello splendore stesso di Dio: quello che era morto, è vivo, circonfuso di luce divina, lo affronta bruscamente e gli parla amichevolmente. Paolo comprenderà che è stato chiamato per pura grazia, per un amore misericordioso che ha voluto trasformare un persecutore

in un "vaso di elezione", in uno strumento speciale. Nella sua riflessione, la salvezza, allo stesso modo della chiamata, sarà vista come pura grazia. Anzi tutto sarà visto come dono, tutto è grazia. Paolo sarà il teologo della grazia, perché fin da questo momento si sente "graziato", distolto dalla sua follia. Dio ci accoglie non perché siamo giusti, ma per farci giusti: è l'azione gratuita di Dio, che ci previene, ci insegue, ci vuole. "Noi crediamo che per Grazia del Signore Gesù siamo salvati" (Atti 15,10) : sarà la tesi di Paolo fatta propria da Pietro nel concilio di Gerusalemme e da tutta la Chiesa. L'amore di Dio in Cristo è gratuito, totalmente gratuito. Quello che è successo sulla via di Damasco, come in seguito, è opera gratuita di Dio, non nostra: opera di un Dio misericordioso e amorevole, che non ci abbandona ai nostri capricci. "E Dio che disse: "Splenda la luce fra le tenebre", è quello che risplende nei nostri cuori per far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio, che rifulge sul volto di Gesù Cristo" (2 Cor 4.6). Questa volta è Gesù stesso che vuol rivelare al cuore di Paolo il suo cuore, far brillare lo splendore del suo amore. Ecco l'amore gratuito. UDI’ UNA VOCE (4) Gesù si identifica con i discepoli e quindi i discepoli possono identificarsi con Lui: Gesù e i suoi sono un tutt'uno. Paolo, accolto tra i discepoli di Gesù, si sente di identificarsi con Gesù, si sente immerso in Lui, ambiente vitale: "Per me vivere è Cristo". L'uso frequente dell'espressione "In Cristo Gesù", è conseguenza della precedente: "Io mi trovo inserito nell'ambiente vitale che è Cristo Gesù": è Lui la mia vita, in Lui ho la vita. E in lui trovo anche una comunità di fratelli, che vivono della stessa vita e dello stesso amore. "In Cristo" non significa solo "io e Cristo", ma "io, Cristo e i credenti in Cristo", nel Cristo totale: capo e corpo, dirà più tardi Paolo o un suo discepolo. Una realtà sola, un solo corpo, un solo essere. Ecco l'amore coinvolgente. NON VIDE NULLA ( 8) "Quando Paolo non vide nulla, allora ha potuto vedere l'amore di Cristo per Lui". E' proprio necessario chiudere gli occhi sulle proprie convinzioni precedenti, per entrare nella luce di Cristo. Occorre del tempo, tre simbolici giorni, per ritrovarsi nella nuova vita, nell'uomo nuovo, nella nuova creatura "in Cristo Gesù". Tre giorni per rinascere, per risuscitare, per "rinascere in Cristo", "risuscitare con Lui". Il Paolo sicuro di sé è inoltre ritornato un bambino, bisognoso d'essere condotto per mano, per guarire. Impara che ormai la sua sicurezza non è in sé, ma in un altro: egli vedrà tutto con occhi nuovi, risanati. Ecco l'amore risanante. STRUMENTO ELETTO (15) Il Signore dice all'inquieto e perplesso Anania circa Paolo: "Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome davanti ai popoli". Paolo scopre d'essere oggetto d'un amore trasformante: da nemico a fratello, da persecutore a strumento speciale per missione speciale: una trasformazione completa operata da Dio. Ogni elezione nella Bibbia non è per un di più dell'onore, ma per un di più di servizio e, spesso, di impegni. QUANTO DOVRA’ SOFFRIRE (16) Grande missione e grandi sofferenze: portare il nome, portare il peso, come una bestia da soma che porta il basto. Essere in missione esige capacità di soffrire. Luca presenta Paolo come l'eroe cristiano capace di sofferenza: è imprigionato, liberato, lapidato, percosso, fa naufragio, ma va avanti come se nulla fosse accaduto. Basta vederlo in azione a Filippi, dove dopo essere stato bastonato, è in prigione con Sila e di notte canta inni, ascoltato attentamente dagli altri prigionieri. E' così anche nelle altre città: nessuno lo piega o lo ferma. Gli Atti ce ne danno un'immagine indimenticabile: è l'incarnazione dell'evangelizzatore, è presentato come una grande personalità, un uomo di azione, energico e passionale, un uomo di pensiero acuto e mistico. E' colui che ha contribuito più d'ogni altro a far conoscere che cosa significhi Gesù per il mondo, pagando un prezzo personale altissimo. Paolo stesso ne parlerà: "Spesso in pericolo di morte; cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso una notte e un giorno in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli nelle città, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericolo da parte di falsi fratelli, fatica e travaglio,veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?" (2 Cor 11,23-29)

VIAGGI FATICOSI E PERICOLOSI

Viaggiatore infaticabile per terra e per mare, comincia con i giudei e finisce con i pagani. I viaggi di Paolo non sono quelli di un turista odierno. "Dobbiamo immaginarci Paolo che cammina stanco morto per quelle strade, portando in un sacco le poche cose che aveva e facendo al massimo una trentina di chilometri al giorno. Paolo non era che un artigiano ambulante, doveva guadagnarsi da mangiare con il suo lavoro e non poteva certo disporre di un mezzo di trasporto a ruote. Qualche volta, quando riusciva a guadagnare un poco di soldi col suo lavoro, se viaggiando incontrava una locanda, poteva pagarsi un posto dove passare la notte - o nel cortile vicino al fuoco, oppure, pagando di più, in una stanza che dava sul cortile e dormire in un letto infestato di cimici. Spesso tuttavia era costretto a dormire per terra sul ciglio della strada, in mezzo al freddo e alla neve. Era povero e quindi poteva facilmente cadere in mano ai briganti. I viaggi per mare non erano molto più sicuri: i naufragi erano all'ordine del giorno. Viaggiare sul ponte di una nave da cargo, mangiando le poche provviste che ci si portava a bordo non era certo molto più comodo che viaggiare per terra. E una volta che Paolo arrivava alla meta, lo aspettavano altre difficoltà. Chi visita oggi le grandiose rovine di una città come Efeso non può fare a meno di ammirare la grandezza e potenza della cultura greco-romana testimoniata da maestosi edifici, santuari, templi e statue. Eppure, ecco qui un ebreo con uno zaino in spalla, deciso a sfidare tutto questo nel nome di un criminale crocifisso, davanti al quale - a sentir lui - deve piegarsi ogni ginocchio in cielo e in terra e sotto terra! Quel ciarlatano, come leggiamo in Atti 17,18, i raffinati gentili lo accoglievano con disprezzo e scherno" (R.Brown Introduzione al Nuovo testamento - pp 600 ss )

Salute cagionevole e inadeguatezza Paolo fa l'esperimenta la sua fragilità; "Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi". A volte sperimentiamo dolorosamente la nostra debolezza e la nostra pochezza, ma è allora, quando crolla il nostro Io "che rifulge il tesoro che abbiamo in noi": il nostro non infrequente senso di impotenza, fa brillare "la forza straordinaria di Dio". E quindi è possibile dire: "Sovrabbondo di gioia in mezzo alle mie tribolazioni": la forza che viene dalla risurrezione è quella dello Spirito Santo. Frequente è la constatazione che i discepoli erano: "Pieni di gioia e di Spirito Santo", proprio in mezzo alle sofferenze della missione. Ecco l’ amore a caro prezzo. SAULO. FRATELLO MIO (17) Paolo ricupera la vista. Dio toglie il velo, rivela, e Paolo vede cose nascoste e Paolo vede altre dimensioni del Signore risorto e si inoltra ulteriormente nella comprensione del suo mistero: Gesù glorioso è Colui che era maledetto, perché condannato in nome della Legge, e che è stato approvato da Dio: allora non è la Legge, che salva, ma l'ascolto della parola di Gesù, anzi lo sguardo a Gesù Parola. Si pensi allo sconcerto: un morto che è il vivente, il condannato in nome della Legge santa, che è esaltato da Dio... terremoto totale psichico, culturale, religioso..... Un oscuro galileo che è rivestito dello splendore di Dio è fonte di luce...un lampo nella notte. Ma allora è Lui il Signore, il dominatore del mondo visibile e invisibile: è Lui che bisogna ascoltare e servire. La comprensione di Dio e della realtà va fatta alla luce di Gesù. Paolo capisce l'unicità di Cristo: se ha detto di essere Figlio di Dio e se Dio l'ho ha risuscitato, Dio l'approva. Da questo momento Paolo si confronta unicamente con Cristo, si dedica solo a Lui, vede tutto alla sua luce. Paolo si considera schiavo di Cristo, sua conquista, suo possesso: "afferrato da Cristo". Paolo comprende la portata unica della risurrezione: "Dio innalza gli umili", "proclama la vittoria dell'amore", rovesciati i criteri valutativi puramente umani...ma anche : la risurrezione fa di Cristo, l'unico, non confrontabile con nessun altro. Paolo sottoscrive ora le parole, prima per lui blasfeme di Pietro: "Non c'è nessun altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvi" (Atti 4,12).

Cristo senza volto Da notare che il Cristo di Paolo è senza volto: non è come quello dei vangeli, esigente in Marco, maestro in Matteo. misericordioso in Luca, solenne in Giovanni. Mentre i vangeli sottolineano quello che Gesù faceva, Paolo si sofferma sui perché lo faceva: mi ha amato ed è morto per me. Paolo presenta più il cuore di Cristo che il volto di Cristo.

Paolo ha incontrato il crocifisso risuscitato, non il rabbi di Nazareth, che va per le strade palestinesi: il suo è un Cristo incontrato nella sua essenza d'amore, nel suo cuore "ricco di misericordia". A Paolo non interessano tanto i fatti della vita terrena di Gesù Cristo, quanto il significato globale della sua vita, morte risurrezione. Paolo vede il cuore di Cristo in profondità perché si è sentito trafiggere il cuore, è stato "sedotto con la forza e con l'amore". Si sente accettato così come è. L'amore di Gesù è incondizionato. Accetta, giudei e greci, schiavi e liberi. E' in questo contesto che egli parlerà della giustificazione per la fede. Paolo sperimenta d'essere accettato incondizionatamente, assolto gratuitamente dall'amore misericordioso di Dio, manifestato nella croce di Cristo, nel costato aperto, direbbe Giovanni, e per questo può dire "siate lieti nel Signore", perché davanti al credente non sta il terribile giudizio di Dio, ma la gloria promessa ai giusti (giustificati). Se Dio mi accoglie così come sono, tutta la vita cristiana diventa un inno di gratitudine per il dono ricevuto e una risposta d'amore per l'amore con cui siamo amati. L'uomo mediante la fede nel Cristo morto e risorto, riceve un'assoluzione anticipata e il giudizio finale, terribile per tutti coloro che avranno rifiutato di credere e "si saranno dilettati dell'ingiustizia", sarà per i credenti molto più simile a una distribuzione dei premi. Questi, purché abbiano condotto una vita 'santa', saranno certi del loro accesso alla vita eterna (Rm 14,1: 1 Cor 3). La tranquilla sicurezza dei credenti quanto alla loro salvezza eterna verrà dal fatto che essi hanno ricevuto, nel momento in cui dichiaravano la loro fede in Cristo, un'assoluzione anticipata che varrà loro al momento della comparizione ultima davanti al tribunale divino. Dichiarati giusti da Dio per aver riposto in lui piena fiducia, possono affrontare senza timore il giudizio ultimo, pur sapendo che la loro sorte sarà più o meno gloriosa a seconda di quanto avranno fatto durante la vita terrena. La grazia ricevuta diventa il fattore dominante dell'esistenza umana, nella quale l'ansia e lo sforzo vengono sostituiti dalla gratitudine e dall'amore disinteressato. (Cf. Trocmè p. 115 ) E’ l’amore incondizionato. FU SUBITO BATTEZZATO (18) Perché mettersi subito a provocare pericolosamente i suoi risentiti correligionari? I giudei non erano il popolo scelto? E i greci non erano pie persone? Perché disturbarli e provocare la loro comprensibile reazione? Paolo deve aver fatto un'esperienza così profonda e liberante di Gesù, da volerne far partecipi tutti. La missione nasce da questa esperienza, da questa convinzione, da questa dolce schiavitù: dove c'è amore per Gesù, lì c'è anche zelo missionario. "Amarti e farti amare": non era questo il programma di una piccola e grande santa della fine del XIX secolo? Dove diminuisce l'amore per Gesù, non diminuisce anche lo slancio missionario? UN COMPLOTTO PER UCCIDERLO ( 22) Perché Paolo affronta questi rischi? Prima di quel giorno drammatico della sua conversione degli anni 30, Paolo era vissuto in pace con se stesso e con il suo Dio. Era esemplare nell'osservanza religiosa, aveva buoni rapporti con le autorità religiose. Un primo motivo del cambiamento l'ha data lui stesso : "Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo mio Signore" (Fil 3,8)." Tuttavia la rivelazione e la conoscenza non spiegano adeguatamente la sua attività missionaria entusiasta. Qualcosa di ben più importante dev'essere accaduto a livello personale. Nella rivelazione Paolo, che già conosceva l'amore dimostrato dal Dio dei suoi Padri israeliti, scoprì un amore che non avrebbe mai immaginato. Si sentì allora "conquistato" da Cristo Gesù. Con timore e tremore, Paolo esclama: "II Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20). Ciò che egli afferma in Rm 8, 35- 37, deve averlo ripetuto molte volte nelle dure prove: "Chi ci separerà dall'amore di Cristo ? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?...Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati". Questo amore divenne il fattore trainante della vita di Paolo, quando riuscì a comprendere l'universalità: "L'amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti" (2 Cor 5,14). Ma come possono gli uomini conoscere l'amore di Cristo se non ne sentono parlare? La missione ai gentili si traduce in un'azione motivata dall'amore sovrabbondante di Dio che aveva sperimentato. "Le difficoltà incontrate nel suo apostolato divennero per Paolo ben più di mezzi indispensabili per raggiungere il fine. Se l'amore di Dio si era manifestato nell'offerta che Cristo aveva fatto di se stesso, in nessun altro modo si poteva mostrare agli altri l'amore di Cristo: "Avemmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita (1 Ts 2,8). Perciò Paolo portava nel suo corpo la morte di Gesù, per rivelare anche la vita di Gesù. Quando siamo tribolati è per vostra consolazione e salvezza" (2 Cor 1,6).

(R.Brown, ivi 602-4) Le fatiche dell'apostolo sono non solo un mezzo, ma la partecipazione alle sofferenze di Cristo. Ecco l'amore riconoscente e operoso.

La tristezza di Paolo

"Ho nel cuore una grande tristezza e un incessante dolore" (Rm 9,2), quella di non essere riuscito a conquistare a Cristo i suoi fratelli, anzi d'aver provocato la loro rabbia e il loro odio mortale. Altro motivo: i falsi fratelli, i falsi apostoli, che lo osteggiano e minano la sua credibilità: "non ha conosciuto il Signore"- insinuano- "si inventa tutto lui", "non ha l'approvazione degli apostoli", "svende il messaggio" , "ha successo a buon mercato". Spesso è solo con Colui che l'ha inviato e con la Parola che gli è stata affidata. Solo contro lo strapotere di predicatori che si richiamavano alle radici ebraiche del cristianesimo. Invece di abbandonare il campo per l'isolamento prende forza per predicare il vangelo della libertà, il vangelo di Gesù Cristo. Siccome Dio è tutto differente da come pensa l'uomo, anche il suo messaggio è differente. E quindi si sente solo con il suo messaggio e la sua Parola, che non sono suoi, ma del suo Signore. Per me vivere è Cristo: sono solo con Lui, cioè con la vita della mia vita. VENUTO A GERUSALEMME (26) Paolo incontra, oltre l'avversione dei giudei, anche la diffidenza e l'incomprensione dei fratelli cristiani. E' un uomo che ha suscitato gravi contrasti, in vita e post mortem, "segno d'indicibile odio e d'indomato amor". Gli ebrei lo detestano, oggi, come ieri: è un rinnegato, e ha staccato il cristianesimo dal ceppo giudaico. I mussulmani lo considerano un empio perché ha trasformato il profeta Gesù nel Figlio di Dio. Parecchi studiosi gli addebitano d'essere stato l'inventore del cristianesimo (non è poca cosa!). Lui si chiamava apostolo, ma il suo più celebre discepolo, Luca, gli nega questo titolo decisamente. I giudei convertiti lo accusavano d'essere un avventuriero e lo contestavano animosamente. Lui non si considera un convertito, ma un giudeo fariseo che ha riconosciuto il messia atteso portando a compimento "la speranza d'Israele", ch'egli identifica nella risurrezione dai morti. La sua vita fu un fallimento doloroso, mentre il suo destino postumo è stato straordinario. Ecco l'amore contrastato. BARNABA LO PRESENTO’ (27) Barnaba non è soltanto il suo garante, ma anche colui che lo completa. Se avessero continuato assieme sarebbero stati la coppia ideale: Paolo colui che chiamava le folle al Signore Gesù Cristo, Barnaba il coordinatore di comunità fraterne. Ma l'ideale non sempre si fa reale. Barnaba se ne fa garante a Gerusalemme dove comprensibilmente non si fidavano di lui: e se facesse finta d'essere convertito per contarci? E poi, quand'anche fosse convertito, che cosa sa di Gesù, se non l'ha visto? Sarà questo uno dei crucci di Paolo il quale insisterà tenacemente e spesso inutilmente: se non ho conosciuto Cristo secondo la carne, prima, l'ho conosciuto nello splendore della sua risurrezione, l'ho incontrato dopo... Ma il sospetto che fosse un visionario l'ha sempre accompagnato: e se inventasse? Il sospetto verso i visionari è sempre stato ben radicato nella chiesa: la fede apostolica ha una base oggettiva ben diversa. E' la fede basata sulla constatazione e l'accertamento dell'identità tra il Cristo della vita prima della morte e il Cristo risorto. PARLAVA E DISCUTEVA (29) Paolo non ha un carattere facile: è portato alla polemica, si impegna appassionatamente e tende a personalizzare i problemi. A volte è ironico e sprezzante. Ad ogni viaggio cambia compagno: non resistono al suo ritmo, al suo carattere? E' aggressivo con chi lo ostacola o lo contraddice, è intransigente con Giovanni Marco ha delle difficoltà anche con il suo migliore amico, il mitissimo Barnaba, che era stato il suo garante sia a Gerusalemme, sia ad Antiochia. Luca è un aperto ammiratore di Paolo, tanto che ne fa il più interessante personaggio degli Atti: metà dello spazio è suo, dopo il ciclo di Pietro. Ma non si può nascondere che le sue tesi suscitavano perplessità tanto che si parla di "antipaolinismo nel NT". C'è un antipaolinismo nel NT: la Lettera di Giacomo (cap 2) e il Vangelo di Matteo (cap 5): "non sono venuto per abolire la legge, ma per compierla in modo perfetto" (Mt 5,17). Senza parlare dell'esplicita messa in guardia della 2 Lettera di Pietro (3,15-16). Eppure in Paolo il Dio della continuità è più forte di quello della rottura: Paolo capisce che Gesù realizza le attese del suo popolo, è il messia atteso. Non si sente traditore del suo popolo, ma sempre più inserito nel popolo. Paolo non è un convertito, ma ha capito dove portava la speranza di Israele a tutti, in Gesù. Paolo si mette subito in azione , predicando che Gesù è il Cristo (il Messia), l'atteso da secoli, preparato da Dio per essere "luce delle nazioni e gloria del suo popolo Israele".

PARTIRE PER TARSO (30) E poi c'era il carattere polemico di quel nuovo convertito, che sembrava provocare gli altri, e col pericolo di nuove persecuzioni, dopo quella di Stefano. E presto, lo rispediscono a casa: Gerusalemme oltre alla preoccupazione per la vita di Paolo, voleva restare in pace . E di fatto, subito dopo la sua partenza, Luca chiosa: "la Chiesa era dunque in pace" (9,31). A Tarso farà una lunga pausa di riflessione di alcuni anni, prima di entrare da protagonista del ciclo di Antiochia. E da questa città cominciano i suoi celebri viaggi che sono lo specchio del viaggio della Parola: da Gerusalemme a Roma, centro dell'universalismo, passando da Atene. Luca ha più fiducia di Roma che di Atene. Paolo, civis romanus, stima l'amministrazione romana, per l'equità, il senso della misura, per la capacità di chiedere ai vari popoli quello che possono dare, per il respiro universale. La presenta favorevolmente, anche se non sempre può parlare favorevolmente dei suoi funzionari. Il progetto culturale di Paolo e di Luca è quello di presentare il Dio di Israele quale il Dio di tutti, in Gesù, grazie ai testimoni. Gerusalemme e Roma contribuiscono a stabilire l'identità del cristianesimo. Gerusalemme l'identità e Roma l'universalità. Inoltre: la sua teologia è stata orientata non solo da Damasco, ma anche da Antiochia. L'esperienza d'essere rifiutato dai giudei ed accolto dai pagani lo ha fatto maturare verso la comprensione della universalità del messaggio cristiano: Paolo ha compreso che la salvezza era rivolta a tutti, incondizionatamente. Il cuore di Paolo si conforma al cuore di Gesù Cristo, che è il Crocifisso e Risorto, il Signore, il Kyrios di tutti i viventi e di tutto quanto esiste. Paolo ha compreso che quello di Gesù è un amore per tutti, un amore senza confini e senza limiti. Antiochia e Roma. Ecco l'amore universale.

ALLA GUIDA DI UNA TRANSIZIONE Alla guida di una transizione feconda dal mondo giudaico al mondo greco-romano, dal mondo rurale della Palestina al mondo urbano dell'Asia Minore e della Grecia, dal mondo più o meno armonioso del giudaismo al mondo pluralista delle grandi città dell'impero, da una chiesa fatta solo di giudei convertiti ad una chiesa aperta che accoglie tutti, da una chiesa legata alle comunità benestanti della diaspora a una chiesa del povero popolo delle periferie: è il primo teologo cristiano, ed acquisisce presto un respiro universale.

PAOLO E LA MISSIONE E cosi l'antico persecutore non solo ha una missione o fa una missione ma si identifica con la missione, ne è assorbito: "Guai a me se non evangelizzo". Non ha distinzione tra vita personale e missione; sembra non aver altro interesse che per la missione. Si è dedicato anima e corpo, con orgoglio e umiltà, alla causa di Gesù Cristo. Viaggia, ma non sembra vedere la natura, l'arte, le varie dimensioni della realtà che lo circondano. Ad Atene non sembra vedere le meraviglie di Fidia e del Partenone, ma resta colpito dal politeismo. Tuttavia è capace di coinvolgere in questa sua passione discepoli affezionatissimi, come dimostrano gli addii strazianti, descritti negli Atti. C'è in lui il fuoco che arde e che vorrebbe incendiare il mondo. Questo fuoco è espresso nelle lettere, mentre in Atti è presentato in azione, anche se in modo meno esplosivo. Il libro degli Atti presenta Paolo in movimento, come la locomotiva che trascina con sé le comunità costruite, una locomotiva possente che lascia immaginare la forza che la sospinge. E' un fanatico? No, perché non molesta nessuno, non organizza complotti e, quando non è accetto va altrove. Predica la non violenza (non vendicarsi), persino il non farsi giustizia. Si può dire: è deciso, convinto, travolgente, ma non violento, propone ma non impone.

INESAURIBILE EVANGELIZZATORE Percorre le principali città del Mediterraneo, predicando e mantenendosi col lavoro delle sue mani, sempre inseguito dai suoi vecchi compagni, dalla diffidenza di molti, e dall'affetto dei suoi, mettendo il Vangelo di fronte agli interessi economici, ai potenti, agli umili, sempre creativo. Stanco, vuole riconciliarsi con Gerusalemme, viene arrestato nel tempio, arriverà a Roma, dopo una lunga prigionia. Qui predica liberamente.. .e poi non ci sono più notizie. Il racconto si interrompe: il vangelo è arrivato dove può partire "sino ai confini della terra". Il cuore di Cristo ha portato il suo apostolo nel cuore pulsante del mondo. La sua missione è compiuta. Paolo può dire: "Ho servito il Signore" (20,17): sono stato suo schiavo: schiavo dell'amore del mio Signore. Si vede e si sente che "è stato ferito al cuore", "convinto totalmente", "sedotto e soggiogato" dall'amore del Signore, "che ha dato la sua vita per me".

Un uomo così a chi poteva dedicare i suoi interessi, il suo tempo, il suo cuore? Non è lui che parla del "cuore indiviso"? (1 Cor, 7).

PER CONCLUDERE

Paolo rivela nel suo dire, nel suo essere, nel suo fare, l'amore di Gesù, suo Signore. Ne è un annunciatore appassionato, instancabile, e, possiamo dire "innamorato": Cor Pauli, cor Christi! L'amore di Gesù lo sente in tutte le sue sfumature, come gratuito, coinvolgente, risanante, di elezione, a caro prezzo, incondizionato, riconoscente, contrastato, mobilitante, universale... E' l'amore del quale ogni credente è invitato a fare esperienza, per una più elevata qualità di vita e per nuovo smalto alla missione. E' l'amore che viene dal cuore del Figlio di Dio, che ha dato la vita per noi e vuol toccare i nostri cuori.. "Nello sguardo di Gesù, immagine del Dio invisibile, irradiazione della gloria del Padre, si coglie la profondità di un amore eterno e infinito che tocca le radici dell'essere. La persona che se ne lascia afferrare, non può non abbandonare tutto e seguirlo. Come Paolo, essa considera tutto il resto una perdita di fronte alla sublime conoscenza di Cristo Gesù, a confronto del quale non esita a ritenere ogni cosa come spazzatura al fine di guadagnare Cristo. La sua aspirazione è di immedesimarsi con lui, assumendone i sentimenti e la forma di vita. Questo lasciare tutto e seguire il Signore costituisce un programma valido per tutte le persone chiamate e per tutti i tempi" (Vita consacrata, 18). Il cuore di Cristo che ha conquistato il cuore di Paolo, conquisti anche i nostri cuori.

(Pier Giordano Cabra)

Riferimenti bibliografici: R. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana 2001 E. Trocmé, San Paolo, Queriniana 2005 P. G. Cabra, Il libro degli Atti degli apostoli, Queriniana 2007

CENTRO E TEMI DELLA TEOLOGIA DI PAOLO

SFORZO DI INDIVIDUAZIONE Lo sforzo di individuare nella teologia di Paolo un principio ispiratore centrale, intorno al quale ruoti tutto il resto, ha impegnato molti studiosi in tempi recenti. Tutti sono d'accordo nel riconoscere che il pensiero di Paolo non si presenta come sistematico, quanto piuttosto come «occasionale». Ma detto questo, l'accordo finisce. Se ci domandiamo quale sia il «centro» per Paolo, quale sia il principio di coerenza che sta al fondo della sua teologia, veniamo a trovarci davanti a una disorientante varietà di risposte. In genere, le indicazioni che vengono fornite soffrono del fatto di essere o troppo ristrette o troppo ampie. Quelle che si limitano a dire semplicemente che «Gesù Cristo è il centro della vita e del pensiero di Paolo» o che «Paolo vedeva la vita posta sotto la signoria di Cristo» (cfr. Gibbs; Dunn 369-372) sono ovviamente vere, ma non aiutano molto nel decifrare la complessità della mente di quest'uomo. Né rendono conto dell'elasticità e sensibilità con cui Paolo mostra di aver risposto alle situazioni via via da lui incontrate. La stessa critica va fatta alle indicazioni che puntano tutto su singoli titoli cristologici o più genericamente su un sommario globale dell'opera salvifica di Cristo.

PROPOSTE RECENTI La posizione luterana classica (sostenuta da Kàsemann 168-169; ma cfr. Conzelmann 203-204, in critica a Bultmann), considera come centrale il tema della giustificazione per fede. Ma questa affermazione è stata recentemente contestata da parecchi esegeti (elencati in Plevnik 461-462).

All'altro estremo troviamo indicazioni troppo generiche e quindi dall'applicazione troppo vasta. Sanders (605-606), per esempio, attira l'attenzione su «due convinzioni identificabili subito come primarie, che dominarono la vita cristiana di Paolo: 1. che Gesù Cristo è Signore, e che in lui Dio ha provveduto alla salvezza di tutti quelli che credono...; 2. che egli, Paolo, era chiamato a essere apostolo dei Gentili». Anche in questo caso dobbiamo osservare che entrambe le affermazioni risultano chiaramente dimostrabili, ma non ci portano direttamente al cuore del messaggio di Paolo. C. J. A. Hickling (199-214) accetta queste due proposizioni come sostanzialmente appropriate, ma si spinge oltre e aggiunge un ulteriore elemento: «In Cristo, Dio ha già realizzato una decisiva e finale trasformazione del tempo». La posizione di Hickling ci porta più vicini al centro paolino, in quanto pone l'accento sulla nuova era e la nuova vita entrata nel mondo attraverso Cristo; Hickling, inoltre, apprezza in modo adeguato la novità della grazia divina. E tuttavia, il suo quadro dualistico rimane un po' astratto, poiché ha bisogno di essere riempito di contenuto e applicazione personale. Anche J. C. Beker adotta un analogo quadro apocalittico, e ritiene che proprio l'apocalittica sia «lo strumento indispensabile per capire l'interpretazione (che Paolo dà) dell'evento Cristo». Ma Beker integra questo schema fornendo un paradigma dell'uso che Paolo fa di termini «simbolici» per applicare la sua convinzione del trionfo cosmico di Dio alle contingenze particolari rappresentate dalle situazioni dei suoi lettori. Questa «interazione fra centro di coerenza e interpretazione contingente» è presentata come la chiave per accedere all'ermeneutica di Paolo e, in ultima analisi, alla sua teologia. Rimane, tuttavia, una

domanda importante: in che modo una serie di eventi di portata cosmica può diventare normativa ed essere strettamente vincolante per le varie situazioni umane? La discussione più ampia e globale sul centrum paulinum, che ci viene offerta da Plevnik, fa riferimento nella sua conclusione a un vasto spettro di componenti che, vi si afferma, costituiscono il ventaglio di base delle convinzioni di Paolo; il che vuoi dire che «ogni centro della teologia paolina deve perciò includere tutti gli elementi costitutivi del vangelo dell'apostolo: la sua comprensione di Cristo e di Dio, la sua comprensione dell'azione salvifica di Dio attraverso Cristo, che include l'evento pasquale e le sue implicazioni, la signoria presente di Cristo, la sua venuta futura, e l'appropriazione della salvezza» (Plevnik

477-478). Non sorprende quindi che la conclusione finale sia che «il centro non è pertanto un singolo aspetto di Cristo... ma il Cristo intero». In tal modo, la rete è gettata a così ampio raggio che quasi ogni elemento della predicazione di Paolo vi è ammesso o viene considerato come ugualmente significativo.

LINEE ESSENZIALI Le linee fondamentali del pensiero teologico di Paolo, che si possono ricavare soprattutto dalle sue lettere generalmente accettate come autentiche, sono le seguenti:

Grazia di Dio II primato della grazia di Dio, che prende l'iniziativa e promuove il recupero dell'uomo (Rm

8,29-30; Fil 1,6; 1 Cor 15,10; 2 Cor 5,18-21; cfr. 2Ts 2,13; Ef 2,1-10).

Il cosmo Una simile operazione, pur intervenendo nella storia umana attraverso la persona di Gesù di Nazaret e in un determinato punto del tempo (Gal 4,4; cfr. Ef 1,10), ha ripercussioni che toccano la scena cosmica e coinvolgono anche misteriose intelligenze spirituali cui si fa spesso riferimento nella visione del mondo di Paolo (vedi Angeli, arcangeli; rlementi del mondo; principati e potestà). Queste forze cosmiche sono considerate come create da Dio e anche come allontanatesi da lui (Col 1,15-20; cfr. Ef 3,9-10; Rm

8,38-39; 1 Cor 8,5-6).

La croce

La croce - sia come evento nel tempo sia nel suo rapporto con la restaurazione del creato e con i bisogni dell'umanità peccatrice - rimane centrale nell'insegnamento di Paolo relativo alla salvezza. Ma con uguale insistenza Paolo guarda alla croce come a uno strumento di autorinnegamento, tramite il quale la «carne» è vinta e viene resa possibile una nuova vita, dominata dalla figura della croce e caratterizzata dalla diaconia, dallo spirito di servizio (Gal 2,20; 6,14; ).

Imperativo etico

C'è dunque la necessità di creare un ponte che colmi la distanza fra 1'«essere» storico e il «dover essere» etico, e di fornire una base logica all'affermazione apostolica secondo cui la morte e risurrezione dell'uomo Gesù incide sull'attività umana sia in quanto potere capace di spezzare la morsa del male, sia in quanto appello efficace a una nuova vita (Rm 6,1-23; Gal 1,4; 5,13-26; 1Cor 15,20-28.34;

2Cor 5,18-21; I Ts 5,9-10; ) .

Mandato missionario Non possiamo poi sorvolare sul modo in cui la teologia di Paolo era collegata con la sua personale vocazione. Egli era insieme un cristiano e un missionario, caricato del mandato di proclamare e vivere fino in fondo la verità salvifica che egli sosteneva di aver trovato in Gesù Cristo (Rm 1,1-5; Gal 1,15-

16; ICor 9,16-18; Rm 10,14-17). Parola e vita per Paolo andavano di pari passo; e la teologia missionaria comprendeva appunto altrettanto ovviamente sia il kerygma sia lo stile di vita che Paolo proponeva come esempio e attuava nei suoi rapporti pastorali con persone rozze (a Corinto) e di fronte a situazioni spiacevoli (a Filippi).

Riconciliazione A nostro avviso, il tema generale in cui la maggior parte, se non tutti, questi criteri trovano riscontro è quello della riconciliazione. Ciò non vuol dire che la famiglia di parole katallass sia dominante negli scritti di Paolo; è evidente che non è così. Ne si può affermare che il termine «riconciliazione» sia impiegato con la stessa sfumatura di significato nei luoghi in cui ricorre: è evidente che non è così. Questo

non toglie, tuttavia, che il concetto di riconciliazione fornisca un utile ombrello sotto cui raccogliere i tratti principali del kerygma e del lavoro pratico di Paolo (cfr. Lemcio 1988, 3-17; 1990, 3-11, per un'enfatica evidenziazione di che cosa questi tratti o «categorie» fossero, riassumibile in «Dio [che] mandò o risuscitò Gesù. Una risposta nei confronti di Dio apporta benefici»). Inoltre, c'è il fatto che la giustizia è uno dei motivi principali della teologia missionaria paolina. Il termine riconciliazione ha una preistoria nella tradizione che Paolo riprese molto volentieri, come in 2 Cor 5, 18-21. Ma egli non volle lasciare il termine aperto al fraintendimento; e abbiamo prove di tipo critico-formale, linguistico e di storia della tradizione che dimostrano come egli abbia modificato il significato della parola con sottili adattamenti redazionali al contesto circostante. In particolare Paolo ha purificato il termine da ogni sua coloritura gnosticizzante, ancorando la riconciliazione agli eventi storici della passione di Gesù e collegandola agli effetti di trasformazione morale nella vita umana. Gli argomenti contrari avanzati da Paolo sono sempre al livello delle relazioni personali, di cui la remissione dei peccati è la grande realtà condivisa dall'apostolo e dalla gente. A tale esperienza egli si richiama con una ricca varietà di immagini: nuova creazione, giustificazione, redenzione, figliolanza, il dono dello Spirito e la promessa della risurrezione. Contro quei seguaci entusiastici che credevano che il loro battesimo portasse la realizzazione completa della salvezza qui e ora, e contro i maestri che si introducevano di soppiatto e disdegnavano il rispetto della moralità come superfluo dopo che lo spirito è stato salvato, Paolo si assunse la difesa della «clausola escatologica», del «non ancora» della riconciliazione la quale, a differenza della giustificazione, è ancora in corso e ha bisogno di essere rinnovata continuamente. Di qui l'appello ai cristiani di Corinto, «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20), perché non accada che essi riceva- no la grazia di Dio invano (2Cor 6,1) e manchino di sperimentare in concreto il perdono già da lui pronunciato (2Cor 2,5-11; 6,11-13). La riconciliazione è dunque mirabilmente adatta a esprimere e salvaguardare nella teologia morale di Paolo l'elemento esistenziale. Dio ha operato una riconciliazione finale del mondo, ma c'è bisogno che le persone imparino a vivere con sensibilità morale e in stato di vigilanza fino a che non arrivi la fine. La combinazione dell'azione di Dio e del ruolo di Paolo come agente della riconciliazione a Corinto e nel biglietto a Filemone illustra in che modo possa realizzarsi la transizione dall’attualità storica all'obbligazione etica. Il termine medio è il «ministero della riconciliazione» di Paolo (2Cor 5,18), unica chiara descrizione del suo compito che Paolo ci abbia lasciato. Quel che Dio ha fatto esprime il suo grande amore, con la croce di Cristo al centro (Rm 5,1-11). Allorché Paolo, pieno di gratitudine, si rallegrava di quell'amore in quanto diventato esperienza concreta, guidata dallo Spirito, egli vedeva la propria missione come tesa a modellare quel che Dio aveva fatto richiamando i Corinzi alla loro vera fedeltà ed esortando Filemone a tener conto delle implicazioni sociali della nuova vita in cui si era imbarcato. Vediamo qui in embrione l'intelaiatura di un'adeguata teoria etica, anche se poi ai cristiani occorreranno diciotto secoli per elaborare la forza e l'importanza di questo ammonimento. La stessa cosa si può dire ugualmente dell'insegnamento di Ef 2,11-22. Qui la riconciliazione assume una direzione orizzontale. L'inveterata ostilità fra Giudei e non Giudei (vedi Gentili) è superata nella croce di Gesù, che ha riconciliato gli uni e gli altri in un corpo solo (vedi Corpo di Cristo). La «nuova persona unica» al posto di due suggerisce l'idea di una «terza razza», una nuova specie di umanità, che diventando parte della famiglia divina costituisce un microcosmo di quella nuova società che è un po' un vessillo del di- segno di Dio di ricapitolare tutta la vita cosciente nel Cristo cosmico (Ef 1,10). ( R. P. Martin

)

Osservazione

Le idee a vasto raggio e peculiari — che coprono insieme gli aspetti cosmici, personali, sociali ed etnici della nostra storia umana - fanno tuttavia parte di un modello totale, il cui disegno riempie l'arazzo. I diversi fili sono fittamente intessuti e intrecciati fra loro in maniera inestricabile. E tuttavia non sono accumulati insieme in un quadro unico privo di un preciso disegno. Al contrario, ne emerge un chiaro profilo e un dipinto coerente. (da Ralph P. Martin in “Dizionario di Paolo e delle sue lettere” - San Paolo

2000

Alcuni temi

Paolo è debitore di non pochi elementi della sua teologia alla Chiesa primitiva, sia di Gerusalemme che di Antiochia, ma egli, più di qualunque altro autore del Nuovo Testamento è stato capace di fondere insieme dati di varia provenienza (cristiani, giudaici, pagani), così da creare un sistema teologico nuovo. Ecco un brevissimo cenno su alcuni temi della teologia paolina:

Il mistero pasquale La morte-resusrrezione di Gesù dà l’intonazione all’intera teologia di Paolo e ne condiziona le varie componenti. Anche il discorso su Dio, l’uomo, il mondo è da Paolo condotto nell’ottica della Pasqua. Il mistero pasquale assurge così a chiave interpretativa di tutto il messaggio cristiano di Paolo.

Titoli cristologici di Gesù La cristologia di Paolo affonda le proprie radici nell’evento pasquale, specie per quanto riguarda i titoli più caratteristici di Gesù. Troviamo in Paolo il titolo di “Signore”, connesso con la presenza del Risorto nella sua comunità; di “Cristo” , che tende a diventare nome proprio, così da qualificare Gesù come colui che è morto e risorto; di “ Figlio di Dio”, che ricorre diciassette volte ed esprime l’immediata vicinanza di Gesù con Dio. Altri titoli coniati da Paolo sono: “ultimo Adamo”, “spirito vivificante”, “sapienza di Dio, “primogenito”, “capo”, “sposo”, “salvatore”: essi definiscono Gesù a partire dalla sua morte-risurrezione. Mancano in Paolo i titoli attribuiti al Gesù terreno: Rabbi, Maestro, Profeta, Figlio di David, Figlio dell’Uomo.

La salvezza L’evento pasquale sta alla base della salvezza. Sia alla morte che alla risurrezione di Gesù vengono commessi gli effetti salvifici L’annunzio della giustizia di Dio è caratteristico dell’Apostolo ed è quasi l’emblema del suo vangelo.

L’uomo L’ ”uomo vecchio” vive un’esistenza che è resa non autentica dalle pretese della legge, dalle insidie della carne, dalla schiavitù del peccato e dall’inevitabilità della morte. Su quest’uomo vecchio cade l’evento della morte e risurrezione di Gesù, che lo rende “creatura nuova”. L’uomo si apre alla grazia che viene dalla Pasqua con la fede, così che si può dire che l’uomo è giustificato dalla fede.

La Chiesa La chiesa è il corpo di Cristo, ed è in qualche modo identificata con Cristo, che è il suo capo, in quanto è risorto e suo sposo in quanto l’ha amata dando se stesso per lei.

Escatologia Gesù con la sua risurrezione ha inaugurato gli “ultimi tempi”, di cui egli è la primizia. Al termine della storia umana sulla terra ci sarà la parusia, quando saremo tutti col Signore

Il mistero trinitario

Negli scritti di Paolo, Dio appare come il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Lo Spirito Santo è lo “Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti”, ed è lo Spirito di Gesù Cristo, del Figlio. Nel ritmo della vita trinitaria entra a far parte anche il battezzato. (Brevi cenni tratti da: R.

Penna- “Paolo di Tarso” pp. 63-73 -. San Paolo 1992 )

CRISTO AL CENTRO

DALLA TORAH’ A CRISTO Bisogna rendersi conto di quello che era stata la Legge, la Toràh, per un fariseo zelante e dotto qual era Saulo, per capire almeno in parte che cosa abbia significato per lui la persona di Cristo. Il giudaismo ortodosso aveva preso sul serio le prescrizioni mosaiche contenute nel Deuteronomio : « Ascolta Israele …..Queste parole (della Legge) che oggi ti do, ti staranno nel cuore; le ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te le legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra i due occhi, e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulla tua porta» (Dt 6,6-9). Tutto l'ardore e il puntiglio con il quale il rabbino Saulo si rapportava alla Toràh e alle sue meticolose prescrizioni vengono rivolti dopo la sua conversione alla persona di Cristo, il quale gli starà sempre davanti agli occhi e nel cuore. Già il grande Commentario al Nuovo Testamento dal Talmud e dal Midrash di Strack-Billerbeck (Mùnchen 1924) notava riguardo al prologo di S. Giovanni che tutti gli attributi che l'evangelista riferisce al Logos erano dai rabbini applicati alla Torà. Lo stesso, e forse a maggior ragione, si può dire di S. Paolo. La conversione ha segnato per lui il passaggio dalla Legge a Cristo e lo ha portato a trasferire su di lui tutte le qualifiche fondamentali della Toràh. Vita, luce, sapienza, salvezza, norma di vita, «acqua viva», fonte di grazia e di giustificazione, asse della comunicazione divina con gli uomini, principio creatore dell'universo, cardine di sussistenza, centro di attrazione e di convergenza di tutte le creature, principio di unificazione e di riconciliazione di tutti gli uomini, archetipo dell'umanità futura, germe interiore di vita nuova e sovranità sulla storia, oggetto delle promesse date ai padri e dell'attesa escatologica, tutto per S. Paolo si concentra in Cristo, « nato da Davide secondo la carne », « Figlio di Dio secondo lo Spirito » (Rm 1,3-4), costituito signore universale, « poiché piacque a tutta la pienezza di risiedere in lui, e di riconciliarsi, per mezzo suo, tutti gli esseri » (Col 1,19-20). Essere con Cristo, vivere in Cristo, entrare in comunione con Cristo, partecipare al mistero della sua morte e risurrezione, riceverne lo Spirito e conformarsi a lui, riprodurre nel proprio esistere il ritmo della sua donazione per gli uomini e per Dio, instaurare un vincolo con lui che né la morte né alcuna potenza maligna potrà mai più infrangere, seguirne i passi fino alla morte nella certezza della risurrezione, tale è il credo interiore di S. Paolo subentrato in termini risoluti al precetto della Toràh.

RAPPORTO CON CRISTO

Al rapporto con la Toràh si è dunque sostituito il rapporto con Cristo. E insieme al termine del rapporto mutò anche il modo. Il riferimento alla Legge era oggettivo, impersonale e prestava il fianco ad essere stornato sia in senso elusivo sia in direzione formalistica, chiusa alle istanze profonde dell'ethos individuale e sociale. L'assillo della perfezione si traduceva in norme, durezze e cavillosità, e cadeva facilmente nel giuridismo. Il rigore delle prescrizioni esterne non confortava la consistenza interiore dell'io, anzi come un ferro rovente su un tessuto fragile ne metteva in risalto le intime cedevolezze e propensioni al male. La pagina di Rm 7, con la drammatica descrizione del dissidio interiore dell'uomo, acutizzato dal dettame della Legge, non è necessariamente un racconto autobiografico, ma non potrebbe essere stato scritto senza una reale empatia del prepotere degli istinti interiori e dell'impotenza della Legge di fronte ad essi: «Io non conobbi il peccato se non attraverso la Legge; non avrei infatti conosciuto il desiderio passionale se la Legge non dicesse: Non desiderare. Ma il peccato, trovato un punto d'appoggio, mediante il comando ha suscitato in me ogni sorta di desideri passionali. Il peccato infatti senza la Legge è morto. Ma io un tempo senza la Legge vivevo. Ma venuto il comando, il peccato si destò a vita, ma io morii ; e il precetto che doveva darmi la vita, divenne per me causa di morte... Uomo infelice che sono! Chi mi libererà dal corpo che porta questa morte ? Grazie a Dio per mezzo di Cristo nostro Signore » (7,7-10.24). « Gesù Cristo nostro Signore » è dunque il termine al quale S. Paolo si rapporta, il fondamento su cui poggia, la linfa che lo fa vivere, il modello sul quale si conforma, il fine che si propone. In questa Persona egli prende rifugio e speranza, da lei attinge la forza e la ragione del vivere. La relazione interpersonale raggiunge qui il suo apice di intensità e di creatività. Si tratta infatti di un rapporto creativo e trasformatore : entrando in contatto con Gesù, l'Apostolo ne resta assimilato, ne riceve la mente e il cuore, ne condivide la passione e ne sperimenta la forza della risurrezione. Egli fa nascere in lui un essere nuovo, la a “nuova creatura “, “l'uomo interiore” che gli fa esclamare : « Per questo non ci perdiamo d'animo, ma se anche il nostro uomo esteriore cade in sfacelo, il nostro uomo interiore si rinnovella di giorno in giorno » (2 Cor 4,16).

CONTATTO CON LA TRINITA

Ma non è tutto. Il contatto con la persona di Gesù Cristo introduce Paolo nell'intimo del mistero di Dio, gli svela un nuovo tratto del volto di Dio, quello del Padre, cosicché ora può invocarlo con la stessa espressione filiale di Gesù: « Abbà, Padre » (Rm 8,15). Gesù gli apparve così il Figlio e il grande dono del Padre, che dalle profondità insondabili del mistero divino si è manifestato agli uomini, anticipando loro un raggio della luce e dell'amore divino. « Dio che disse :Brilli la luce dalle tenebre, è brillato nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2 Cor 4,6). Oltre che mediatore dell'incontro con il Padre, Gesù mette in comunicazione con lo Spirito, che è ad un tempo Spirito suo e del Padre (cf 1 Ts 4,8; 2 Cor 3,17). Questa tripolarità misteriosa dell'essere divino, diventata accessibile attraverso l'umanità di Gesù Cristo, rappresenta la profondità e la radice dell'esistere di Paolo, il vertice delle sue aspirazioni, l'oggetto del suo stupore, il movente e la norma del suo agire pieno di speranza. « La speranza non delude, poiché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo datoci in dono. Infatti, quando noi eravamo ancora senza forze, Cristo, al tempo stabilito, morì per gli empi. In realtà, a fatica uno è disposto a morire per un giusto, e per una persona dabbene uno oserebbe forse morire. Ma Dio dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per noi » (Rm 5,5-8). Si è sempre nel centro del pensiero di Paolo. Grazie alla scoperta di Cristo S. Paolo ha fatto la scoperta dell'uomo, del « fratello per il quale Cristo è morto » (1 Cor 8,11). Quando tenta di esprimere questo mondo archetipale, vero regno delle madri dell'esistere cristiano, il dire dell'Apostolo diventa denso e straripante di contenuti. Ci domandiamo quindi : che cosa è « l'amore di Dio riversato nei cuori»? È l'amore di Dio per gli uomini, che diventa in loro principio di vita nuova ? Oppure è l'amore degli uomini per Dio ? O è lo stesso « Spirito Santo », il quale è il dono per eccellenza dell'amore divino e diventa nell'uomo principio e fonte di nuove disposizioni ulteriori, analoghe a quelle di Cristo che si è dato per gli uomini ? Così sembra essere, anche se forse è meglio lasciare alla frase tutta la sua densità e indefinitezza. Certo è che la scoperta di Cristo ha aperto a Paolo gli occhi sulle altre persone, sugli uomini suoi fratelli, oggetto dell'amore tripersonale di Dio in Cristo e chiamati a rinnovellare la propria dignità e destino sul modello che si è attuato e reso accessibile in Cristo.

AMORE PER L’UOMO L'amore supremo di Dio e di Cristo verso ogni uomo, anche se peccatore, infermo o nemico, diventa così l'archetipo e la norma del vivere cristiano. È perciò significativo che la seconda lettera ai Corinzi, la più burrascosa e patetica di tutto l'epistolario, diretta a una comunità sconvolta da lacerazioni e lotte, termini con il più grande e comprensivo degli auguri di Paolo. « La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi » (2 Cor 13,13). E nella lettera agli Efesini, la più sistematica delle epistole, il comportamento cristiano viene così sintetizzato :«Imitate Dio come figli diletti, e camminate nell'amore, sull'esempio del Cristo che vi ha amato e offerto se stesso per noi, oblazione e sacrificio di soave odore a Dio » (Ef 5,1-2). All'etica della Legge è subentrata l'epoca dell'amore interpersonale appreso alla scuola di Gesù e alimentato dal suo Spirito. Con questo insegnamento S. Paolo staccava la morale dalle prescrizioni della Legge e la fondava sulle esigenze della persona stessa, nobilitata e innalzata dall'essere oggetto dell'amore di Dio e di Cristo, spremendo, per così dire, l'etica dalla dignità intrinseca alla persona umana. Di qui l'accettazione, il rispetto, l'eguaglianza, l'impegno, la donazione per l'altro « per il quale Cristo è morto » (1 Cor 8,11). Tutto ciò significa per lui amare il prossimo, espressione nella quale si adempie e culmina ogni precetto della Legge (cf . Rm 12,9-10).

In quella medesima età la filosofia stoica, dominante tra le scuole dell'epoca, era impegnata a spremere l'etica dalla ragione, dal lògos, e innalzava a modello di tutti il saggio, il quale sapeva infrenare ogni suo comportamento nelle maglie della ragione, risolvendolo finalmente nella sottomissione al Lògos universale, principio di coesione e di sussistenza del cosmo fisico e sociale. S. Paolo si mostra aperto a non poche istanze di questo éthos e ne accoglie con simpatia gli ideali di bellezza, di decoro, di ordine, di armonia, di eguaglianza, di sufficienza e di libertà. « Tutto avvenga nel decoro e nell'ordine » scrive ai Corinzi riferendosi alle celebrazioni comunitarie (1 Cor 14,40). Ma il fondo del pensiero dell'Apostolo non si lascia connettere con modelli greci, così come si distacca dalla matrice rabbinica.

SOLO CRISTO

Il suo modello e ispiratore è Cristo, il quale è diventato per lui «sapienza, giustizia, santificazione e redenzione » (1 Co 1,30). Egli non vuole sapere altro che lui, non intende gloriarsi in nulla che non sia lui e la sua croce, emblema d'amore per gli uomini (Gal 6,14). La persona e l'opera di Cristo lo hanno aperto sul mondo delle persone, ispirandogli un nuovo modo di rapportarsi vitalmente con gli uomini in una maniera « accetta a Dio » e liberante. (Pietro Rossano – da: “Bibbia” – Marietti 1991)

Cristo è la nostra pace

Lontani- vicini Un frammento di grande bellezza cristologica si trova in Ef 2,11-18: «Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando per mezzo della sua carne la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni gli altri, al Padre in un solo spirito». «Un tempo eravate lontani, ora siete divenuti vicini», scrive Paolo. Non viene precisato da chi o da che cosa erano lontani né a chi o a che cosa sono ora divenuti vicini. Paolo parla di vicinanza e di lontananza senza precisazione, come in senso assoluto. Certo lontananza da Dio, ma anche - e forse è proprio questo aspetto in primo piano - lontananza tra due popoli, giudei e pagani: una lontananza nel contempo religiosa, razziale e politica, non priva di ostilità e di avversione. Sulla parete del tempio di Gerusalemme, che separava il cortile interno da quello esterno, era scritto in tre lingue (ebraico, greco e latino) il divieto ai non giudei di entrare, pena la morte. Il Cristo ha invece con la sua croce avvicinato i diversi, ha fatto crollare il muro divisorio.

La pace, di cui qui si parla, si realizza in un movimento in avanti, verso Dio, non in forza di un semplice avvicinamento di un popolo all'altro. Giudei e gentili, infatti, devono entrare in una dimensione nuova: «Per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo» (Ef 2,15). Non dunque un cammino orizzontale, ma in verticale, verso una novità di uomo e di mondo. Non si costruisce la pace semplicemente con un avvicinamento, ma con una trasformazione. La pace esige una comune tendenza in avanti, qualcosa da costruire insieme e non semplicemente qualcosa da spartire.

Mediante la croce Paolo è poi molto chiaro sul modo con cui si è realizzata la pace: «mediante la croce». Questo non dice solo che la pace è a caro prezzo, e neppure soltanto che la pace richiede la vittoria sul peccato, bensì che la pace passa attraverso la gratuità e il perdono, il dono di sé e la non violenza. Tutto questo, infatti, è la croce. Ciò è ricco di conseguenze per la Chiesa e per ogni cristiano. L'operatore di pace non può semplicemente accogliere chi si avvicina. Non accoglienza ma iniziativa, ricerca e appello. Senza dire, inoltre, che lo sforzo di costruire la pace deve sgorgare nella Chiesa e nel cristiano da un amore preesistente e gratuito, specchio di quello di Dio, come la croce di Gesù: un amore verso questo mondo concreto, storico, lontano, così come è fatto. Non si trasforma il mondo per poi amarlo, ma lo si ama già prima di trasformarlo.

Quale pace Ma quale pace? Che cosa intende Paolo per pace? L'affermazione (Ef 2,17): «Venne per annunziare pace a voi, i lontani, e pace ai vicini» richiama testi messianici grandiosi, come Is 9,5 e Mic 5,4. Su questo sfondo la pace va intesa nel senso pieno e concreto dell'ebraico shalom. La parola shalom (comunemente tradotta con pace) significa originariamente completezza e integrità, diciamo una condizione alla quale non manchi nulla. La sua accezione è tanto ampia che può applicarsi sia alle esigenze più comuni, di ogni giorno, sia alle aspirazioni più profonde e alle aspettative religiose più alte. La pace è una realtà globale, che comprende la pratica della giustizia, l'osservanza del diritto, l'accoglienza dei poveri, l'ordine, il benessere, la fedeltà religiosa. Dicendo che Cristo è la «nostra pace», Paolo intende certamente riferirsi a un «noi» ecclesiale, a una Chiesa in pace anche se composta da pagani e giudei, anche se composta da razze e culture diverse. Non è, dunque, la pace spirituale, chiusa nella coscienza, come quando si parla di pace del cuore, pace con se stessi e con Dio. La pace è – come è detto più avanti in Ef 4,3 - il vincolo della pace, cioè un dato relazionale, oggettivo e visibile, pubblico, direi sociologico e politico: un evento «sociale e politico», come ha scritto K. Barth. Per Paolo, il riferimento a Cristo è strettissimo: «Cristo è la nostra pace». Cristo, dunque, non è semplicemente colui che costruisce la pace e la dona, è lui il «costitutivo della pace, il fattore decisivo della coesione» . Parlando di pace, Paolo non ha soltanto in mente la croce di Gesù, ma anche la Chiesa: «In un solo corpo» (Ef 2,16). A questo punto la traiettoria della pace è completa. La pace discende da Dio, costruisce la Chiesa, e dalla Chiesa passa a tutti gli uomini e al mondo. Questo significa che la comunità cristiana è al centro del movimento della pace: essa è chiamata a essere figura di pace e strumento di pace. Un luogo di pace che, però, si irradia senza risparmio verso l'universalità. Senza questa essenziale tensione universale, la comunità cristiana perderebbe ogni identità e forza, perché interromperebbe il movimento di pacificazione che discende da Dio. La pace non può restare circoscritta. La comunità, lo ripeto, è al centro del processo della pace; essa è nel mondo la porzione di umanità già in pace, ma deve anche, in un certo senso, dimenticarsi per far sì che la pace di Cristo passi nella società e nel mondo. (Bruno Maggioni – Il Dio di Paolo - Sanpaolo 2008

Cristo dei testi paolini nella liturgia

Il punto di coagulo e di concretizzazione di tutto il pensiero paolino è Cristo, in quanto in lui si realizza il mistero della nostra redenzione in tutte le sue varie fasi. La liturgia ha fatto bene, perciò, a ricorrere a Paolo per commentare i misteri centrali della nostra salvezza.

Avvento Così, ad esempio, il senso di lunga attesa e di preparazione, che è un po' come l'anima del periodo di Avvento, è bene espresso dal denso prologo della lettera ai Romani che si legge appunto nella 4° domenica di Avvento (ciclo A): « Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi Profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dei morti, Gesù Cristo, nostro Signore. Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato, per ottenere l'obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome... » (Rm 1,1-7). Le affermazioni cristologiche di questo brano sono molteplici: a) in Cristo c'è una misteriosa « dualità », per cui egli è «dalla stirpe di Davide secondo la carne » ed è « costituito Figlio di Dio secondo lo Spirito di santificazione »; b) la risurrezione dai morti lo costituisce « Signore », cioè sovrano universale; e) in forza di questa potenza e sovranità universale egli chiama tutti gli uomini all'« obbedienza della fede » mediante « la gloria dell'apostolato » da lui conferita a Paolo; d) c'è una « continuità » nel disegno di Dio che già attraverso il messaggio dell'Antico Testamento punta su Cristo: « il vangelo di Dio riguardo al suo Figlio » è già contenuto nelle «promesse » dei Profeti (vv. 1-3). In questo senso tutta la storia dell'umanità è un grande « avvento », in attesa dell'incontro con Cristo: e anche tutta la vita del cristiano è un continuo « avvento », in attesa dei molteplici incontri con Cristo.

Natale Il mistero del Natale viene illustrato, soprattutto nei suoi aspetti di commovente « gratuità », da due passi molto affini della lettera a Tito. Il primo si legge nella messa della notte: « Carissimi, è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro

grande Dio e Salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone» (Tt 2,11-14). Il secondo si legge nella messa dell'aurora: « Carissimi, quando si sono manifestati la bontà di Dio, Salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventiamo eredi, secondo la speranza, della vita eterna » (Tt 3,4-7). Anche in questi brani abbiamo delle affermazioni cristologiche di notevole importanza: a) la venuta di Cristo in mezzo agli uomini è un gesto gratuito di amore e di salvezza da parte di Dio: « è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11; 3,4);

b) lo scopo di tale gratuito « darsi » di Cristo, « per noi », è quello di « riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone » (Tt 2,14); c) la cristologia è ordinata alla « soteriologia », perciò coinvolge necessariamente l'uomo, il quale si salverà solo se accetterà di vivere sull'esempio di Cristo che, con « l'abbassamento » della sua incarnazione, « ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell'attesa » del suo glorioso ritorno alla fine dei tempi (Tt 2,12-13); d} è interessante mettere in evidenza questa tensione «escatologica » della incarnazione: l'arco della salvezza, pur consumandosi nel tempo, poggia sull'eternità. È per questo che il Natale è solo l'inizio del processo salvifico, che però si matura al di là del tempo: l'incarnazione senza la ascensione e il ritorno di Cristo nella sua gloria non avrebbe significato. È importante perciò che i cristiani attuino lo stile dell'incarnazione, senza però dimenticare la spinta di ritorno verso il cielo, a cui li sollecita il loro Signore.

Palme ed Esaltazione della Croce Del resto, tutto questo ce lo ricorda Paolo in un altro testo molto significativo e che la liturgia utilizza in occasione delle festività delle Palme e della Esaltazione della S. Croce. È il famoso inno cristologico, forse anch'esso di origine liturgica, come già abbiamo accennato, della lettera ai Filippesi: « Cristo, pur essendo di natura divina, / non considerò un tesoro geloso / la sua uguaglianza con Dio; / ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo I e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, / umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte / e alla morte di Croce. / Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome / che è al di sopra di ogni altro nome; / perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi / nei cieli, sulla terra e sotto terra; / e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, /a gloria di Dio Padre » (Fi l2,6-11). Qui la incarnazione non viene considerata più in tono festoso, come nei due brani della lettera a Tito (2,11-14; 3,4-7), ma nei suoi aspetti drammatici di abbassamento che culmineranno nella morte di Croce: « ...spogliò se stesso... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte... di Croce». Al di là di questa fase opaca, però, Paolo ci fa vedere la glorificazione del Cristo risorto, che non si esaurisce nel gesto di potenza e di vittoria sulla morte, ma si estende al dominio universale ed eterno di Cristo sugli uomini e sulle cose: «Per questo, Dio l'ha esaltato... perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei

cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre ». L'incarnazione non è dunque fine a se stessa, quasi per dire all'uomo che egli è grande perché Dio l'ha scelto e lo ha preferito ad ogni altro essere creato, ma porta verso il suo superamento che è la esaltazione del Cristo nel regno eterno del Padre, a cui hanno ormai accesso anche gli uomini in quanto « mèmbri » di questo grande « corpo » dei redenti di cui Cristo è il « capo » glorioso.

Cristo Re – 15 perannum C Questa ultima immagine del Cristo-capo è sviluppata in un altro noto inno cristologico, ripreso dalla lettera ai Colossesi (1,12-20) e che la liturgia ci fa leggere, oltre che nella 15" domenica (ciclo C), in occasione della festa di Cristo Re (ciclo C), a coronazione dell'anno liturgico, quasi a dire ai cristiani qual è il punto di arrivo della loro esperienza di fede: il totale riassorbimento in Cristo, con tutta la realtà da lui creata e da lui e in lui redenta; « Ringraziamo con gioia il Padre che... ci ha trasferiti nel Regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è l'immagine del Dio invisibile, / generato prima di ogni creatura; / poiché per mezzo di lui / sono state create tutte le cose, / quelle nei cieli e quelle sulla terra, / quelle visibili e quelle invisibili: / Troni e Domi-

nazioni, / Principati e Potestà. / Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. / Egli è prima di tutte le cose / e tutte sussistono in lui. / Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa; / il principio, il primogenito di coloro / che risuscitano dai morti, / per ottenere il primato su tutte le cose. / Perché piacque a Dio / di fare abitare in lui ogni pienezza / e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, / rappacificando con il sangue della sua croce, / cioè per mezzo di lui, / le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (

Quasi in forma di dittico, Paolo espone qui il primato universale di Cristo: nell'ordine della creazione naturale (vv. 15-27) in quello della “nuova” creazione, cioè della redenzione (vv 15-17). Tale primato gli appartiene in quanto è “l’immagine del Dio invisibile”, da sempre presente e “operante” presso il Padre e che egli rende « visibile » soprattutto nell'incarnazione e nell'opera di redenzione da lui compiuta: in forza della redenzione egli « restaura» la prima creazione, già segnata col sigillo della sua presenza, «rappacificando con il sangue della sua croce le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli ». Da sempre, dunque, la creazione ha un rapporto di causa e di effetto con Cristo; proprio per questo essa non può non ritornare a lui!

15 perannum B È una grandiosa cristologia « cosmica » quella che Paolo qui ci descrive e che obbliga l'uomo a uscire da se stesso per imprimere il sigillo del sangue di Cristo su tutte le cose, perché in lui ritrovino il loro significato originario. È così che tutto viene « ricapitolato in Cristo », come si dice nel celebre prologo della lettera agli Efesini (1,3-14), che viene letto nella 15 domenica durante l'anno (ciclo B). La tematica della nostra « filiazione » adottiva in Cristo. Proprio questo brano della lettera agli Efesini mette in evidenza un'altra tematica, caratteristica del pensiero paolino e intimamente collegata con quella cristologica, precedentemente esposta: Cristo non è soltanto oggetto della nostra fede, ma è «protagonista» della nostra vita, nel senso che la trasforma associandola alla sua e facendone come una espressione della sua. In tal modo anche noi diventiamo «figli di Dio ». Proprio questa nostra associazione a Cristo nell'unica figliolanza che ci apparenta al Padre che sta nei cieli, fa parte dell'eterno disegno salvifico di Dio, come ci ricorda il prologo della lettera agli Efesini: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà... In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il Vangelo della nostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria» (Ef 1,3-14). Cristo è al centro del disegno di Dio fin dall'eternità, però non da solo, ma associato a tutti coloro che crederanno in lui: la nostra figliolanza adottiva perciò non è automatica, ma nasce da una libera adesione di fede a lui (v, 13) che, se vissuta fino in fondo, ci fa essere «santi e immacolati al suo cospetto nella carità » (v. 4). Il nostro inserimento in Cristo, perciò, non è solo un dono, ma anche un impegno quotidiano. Si sarà notato come in questo brano Paolo parla di noi non solo come « figli » ma anche come « eredi »: « In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto

opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo » (1,11-12). Poco dopo si parla dello Spirito Santo come «caparra della nostra eredità» (1, 14). Che significa tutto questo? È l'aspetto non ancora completo e maturo della nostra figliolanza: c'è qualcosa in noi che deve ancora fiorire, ed è il possesso definitivo della « gloria », insieme con Cristo. Questa è la nostra «eredità» futura, che attendiamo in virtù della « speranza » che è in noi e di cui abbiamo come un anticipo, una « caparra » appunto, nel dono dello Spirito Santo che ci conforma sempre più a Cristo con il «suggello» misterioso della sua presenza trasformante (1,13-14).

Trinità B Questo tema della nostra figliolanza adottiva Paolo lo sviluppa ampiamente soprattutto nella lettera ai Romani e in quella ai Galati. La liturgia ha utilizzato in modo particolare il capitolo ottavo della

lettera ai Romani, suddividendolo in diverse pericopi che adesso non possiamo esaminare dettagliatamente. Nella festa della SS. Trinità (ciclo B), ci fa leggere il brano più denso, che suona così: « Tutti quelli che sono giudicati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!". Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria » (Rm 8,14-17). Il testo è evidentemente trinitario: e questo spiega il perché della sua collocazione liturgica. Nello stesso tempo, però, esso vuoi celebrare la grandezza dell'uomo redento da Cristo: un esame ormai aperto all'infinito, perché in lui agisce lo Spirito Santo che ci libera da ogni « paura », anche quella della morte, e ci fa chiamare Dio « nostro Padre », adoperando lo stesso termine, di origine aramaica, che Gesù adoperò nell'orto del Getsemani: « Abbà, Padre» (Mc 14,36), per chiedergli di liberarlo dalla morte.

Commemorazione Defunti Con l'aggiunta dei versetti immediatamente successivi (8,18-23) il medesimo brano viene adoperato per la commemorazione di tutti i fedeli defunti. Specialmente gli ultimi due versetti sono significativi e ci riportano in pieno al discorso che stiamo facendo: « Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo intcriormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (8,22-23). La morte sembra interrompere il nostro rapporto di «filialità» amorosa con Dio, e in un certo senso è vero: proprio per questo lo Spirito che è in noi ci fa « gemere », cioè supplicare ardentemente, la realizzazione completa della nostra «filiazione adottiva», che avverrà solamente quando anche il «nostro corpo» sarà « redento », cioè riscattato dalla morte. La risurrezione finale farà esplodere in maniera definitiva la nostra condizione di « figli » di Dio e ci collocherà per sempre nella sua « eredità » di gloria.

15-16-17 perannum A Lo sviluppo di questi pensieri, che si ha nei versetti che seguono (8,18-30), viene proposto nella 15 , 16 e 17 domenica durante l'anno (ciclo A). Vogliamo riportare solo la lettura dell'ultima domenica: « Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati » (Rm 8,28-30). Siamo « figli » di Dio perché Cristo ci ha assunti come suoi « fratelli ». Ed è precisamente questo che ci dà piena sicurezza di essere salvati: l'eredità della « gloria » futura è talmente sicura per « coloro che amano Dio » che può essere espressa al passato, come un fatto già compiuto («quelli che ha giustificati li ha anche glorificati»). Tutto questo è conseguenza dell'averci fatto Cristo suoi « fratelli », e perciò anche « figli di Dio » per adozione. ( Settimio Cipriani in “Bibbia” Marietti 1980 )

LA CROCE IN PAOLO

«Noi predichiamo Cristo crocifisso» (1 Cor 1,23). La centralità della croce per la proclamazione del vangelo di Paolo è racchiusa in questa frase enormemente suggestiva, tratta dalla lettera ai Corinzi. Fin dal principio del XVI sec., la frase «teologia della croce» è stata usata per fare riferimento a una teologia centrata sulla crocifissione; si può far risalire l'origine della frase alla disputa di Heidelberg (1518), in cui Martin Lutero opponeva a una «teologia della gloria» (che considerava marginale la croce di Cristo) una «teologia della croce», che aveva il suo centro in Dio, come egli stesso si era rivelato in e per il Cristo crocifisso. Per Lutero la croce non era soltanto la base della salvezza umana; era la base dell'autorivelazione di Dio, nella quale soltanto può essere fondata «la vera teologia e la conoscenza di Dio». Quest'enfasi sulla centralità della croce è rimasta una caratteristica costante della teologia cristiana, sebbene forse si rifletta più pienamente negli inni che nelle opere di teologia. Negli anni recenti la teologia della croce ha trovato espressione soprattutto nelle opere di J. Moltmann e E. Jùngel, con contributi significativi anche da parte di D. J. Hall e altri. Ma che dire della teologia paolina della croce? Quale ruolo ha avuto la croce nella concezione paolina della teologia cristiana e della vita cristiana?

TEOLOGIA DELLA CROCE Che cos'è una «teologia della croce»? In un certo senso, ogni teologia cristiana potrebbe rivendicare questo titolo in quanto fa almeno qualche riferimento alla crocifissione di Gesù Cristo. Perfino l'imperfetta teologia dei Corinzi attaccata da Paolo sembra aver inserito la croce nelle proprie riflessioni. Tuttavia, una «teologia della croce» in senso stretto si può definire nei seguenti termini (Luz): Causa di salvezza. Una teologia della croce considera la croce come motivo esclusivo di salvezza. Tutti gli altri eventi all'interno della storia della salvezza (come la risurrezione di Cristo o il suo ritorno nella gloria) appaiono inseriti nel proprio contesto mediante la croce. Così, nel caso della teologia dei Corinzi, potentemente criticata da Paolo, la risurrezione appare distaccata dalla croce e sembra rendere relativa la crocifissione. La teologia della croce nega questo sviluppo relativizzante.

Punto di partenza della teologia cristiana. Una teologia della croce dichiara che la croce è il punto di partenza della teologia autenticamente cristiana. La croce non è un aspetto individuale isolato della teologia, ma è essa stessa il fondamento di questa teologia. Lungi dall'essere un capitolo isolato in un manuale di teologia, la croce domina e permea ogni vera teologia cristiana, costituendo la trama dell'intero tessuto. Centro del pensiero cristiano. Una teologia della croce considera la croce come il centro di tutto il pensiero cristiano, in quanto dal suo centro irradia le affermazioni cristiane sull'etica, l'antropologia, la vita cristiana e così via. Le dottrine di rivelazione e salvezza, così facilmente isolate l'una dall'altra, convergono sulla croce. In questo senso forte dell'espressione, Paolo e Marco (e forse 1 Pietro) emergono come principali rappresentanti di una teologia della croce nel corpus neotestamentario.

KÀSEMANN : PAOLO E TEOLOGIA DELLA CROCE Gli studi recenti sulla centralità della croce nel pensiero di Paolo sono stati dominati dall'influenza di E. Kàsemann, specialmente per il suo saggio “Il valore salvifico della morte di Gesù in Paolo”. Kàsemann sostiene con forza la necessità di riappropriarsi delle intuizioni della grande Riforma, relative alla teologia di Paolo; più esattamente quelle di Lutero. Saldo nella tradizione luterana dell'interpretazione paolina, Kàsemann dichiara che ogni altro approccio alla teologia di Paolo può tutt'al più abbracciare solo qualcuno dei suoi molti aspetti; solo l'approccio di Lutero afferra nella sua totalità la teologia di Paolo. Perciò, quali sono, secondo Kàsemann, le caratteristiche fondamentali della teologia della croce di Paolo? Analizzando i testi paolini, Kàsemann traccia una precisa distinzione tra quei testi che Paolo eredita, e che riflettono la tradizione liturgica e dossologica di una tradizione prepaolina, e quei testi che si può dire debbano la loro origine direttamente allo stesso Paolo, sono questi ultimi, si dice, a essere più autenticamente paolini. Per cominciare, possiamo considerare quelli che si pensa derivino da una tradizione precedente. Kàsemann ritiene che i passi che si riferiscono alla morte di Cristo sulla croce, possedendo importanza salvifica, derivino in gran parte da questa tradizione precedente. Tuttavia, egli scorge un processo di reinterpretazione, con cui Paolo introduce elementi radicalmente nuovi in questo materiale tradizionale. In parte, questa reinterpretazione consiste nel far volgere di nuovo l'attenzione dal «non ancora» della risurrezione al «già qui» della crocifissione; un elemento-chiave della sua controversia con i Corinzi. Si riprendono, dunque, elementi giudaico cristiani (in Rm 3,24-26), ma si redigono in modo da produrre un significato più ricco (cfr. Kàsemann 1980, 91-101). Ma si deve vedere questa reinterpretazione soprattutto nell'insistenza di Paolo sulla giustificazione dell'empio. La croce fa aprire gli occhi sulla profonda gravità del peccato, dichiara l'impotenza dell'umanità decaduta a raggiungere la salvezza e rivela quanto sbagli l'uomo nel considerarsi più giusto degli altri. Le lettere di Paolo includono parecchi esempi di tradizione prepaolina, interpretata o redatta da Paolo. Due di tali esempi sonoparticolarmente importanti. Rm 3,24-26 esemplifica l'osservazione generale che nella tradizione prepaolina manchi l'enfasi radicalesulla croce, che appare così tipica dello stesso Paolo. Più significativamente, sembra che Paolo aggiunga enfasi sulla croce in Fil 2,6-11, generalmente considerato come tradizione prepaolina. Lafrase «fino alla morte su una croce» spezza la scansione del testo,suggerendo che sia stata aggiunta da Paolo. Il cambiamento significativo di questo testo, che ora include un esplicito e importante riferimento alla croce, è un esempio dell'interesse di Paolo a porre al centro della sua teologia il Cristocrocifisso. Che dire, allora, di quei passi che si devono considerare come provenienti direttamente da Paolo, sue creazioni personali, piuttosto che ereditati dalla tradizione prepaolina? È in questi che si trova, nella sua pienezza e tipicità, il messaggio dello scandalo della croce con tutte le sue conseguenze teologiche. Forse il più significativo di tali passi è 1 Cor 1,18-31. Qui troviamo l'enfasi tipica di Paolo sul fatto che Dio giustifica l'empio mediante la scandalosa crocifissione di Gesù, come criminale pubblicamente maledetto da Dio. In particolare, Kàsemann considera con attenzione due caratteristiche tipiche di questa teologia: il suo carattere polemico e la sua predisposizione al rifiuto da parte del mondo. La teologia paolina della croce è polemica, non perché sia diretta contro false comprensioni della natura di Dio al di fuori della Chiesa, ma perché si oppone a comprensioni errate del vangelo all'interno della Chiesa stessa, come la devozione legalistica di circoli cristiani giudaizzanti le false idee sulla risurrezione a Corinto. La teologia paolina della croce «fu sempre un attacco critico alla tradizionale interpretazione dominante del messaggio cristiano, e non fu per caso che essa caratterizzò gli inizi

protestanti» (Kàsemann 60). E quella teologia è orientata al rifiuto da parte del mondo. Kàsemann pone in rilievo che il ministero personale di Paolo può apparire come una presentazione autobiografica dell'impatto della croce, in quanto evoca afflizione, sofferenza, rifiuto e persecuzione. Dovunque la Chiesa prenda sul serio la croce di Cristo, può aspettarsi di incontrare ostilità. Verso la fine del suo saggio, Kàsemann introduce un'importante discussione sulla relazione tra la teologia della croce e la predicazione, diretta evidentemente contro coloro che accentuavano la storicità e l'obiettività della crocifissione. Non si può permettere che la fede dipenda da ricordi meramente storici di un evento passato. La morte di Cristo è importante, non solo come evento storico, ma per la predicazione della Parola (Rm 10,14) e la conseguente chiamata alla fede. L'approccio di Kàsemann alla teologia paolina della croce è brillante e originale, ed egli resta un interlocutore altamente significativo per ogni discussione della teologia paolina della croce. Si possono notare alcuni punti ovvi di critica del saggio, che convergono sulla sua distinzione tra componenti prepaoline e paoline del corpus. In primo luogo, perché si dovrebbe ritenere il materiale prepaolino in qualche modo meno importante delle sezioni proprie di Paolo? Proprio il fatto che Paolo si soffermi su una tradizione precedente può indicare che voleva accoglierla in tutta serietà e che intendeva investire quelle sezioni di un particolare peso interpretativo. Troviamo un esempio chiaro in 1 Cor 11,23-25, dove Paolo chiaramente vuole citare una tradizione precedente per possedere un'autorità sufficiente a ribadire il suo argomento (cfr. anche 1

Cor 15,1-4). In secondo luogo, come si può essere cosi sicuri come Kasemann che Paolo abbia modificato radicalmente del materiale più antico? Questo problema è collegato metodologicamente a quello della possibilità di distinguere chiaramente tra materiale tradizionale redazionale, che non è così semplice come vorrebbe farci credere Kasemann. Per quanto si può vedere, Paolo non modifica sempre materiale precedente; ci deve sempre essere un minimo dubbio sulla natura, l'estensione e il significato della rielaborazione della tra- dizione precedente da parte di Paolo. Si può dire tuttavia che il saggio di Kasemann, integrato da una serie illustre di scrittori successivi, ha stimolato un nuovo interesse nei confronti della teologia paolina della croce, specialmente nella scuola di lingua tedesca, e sempre più tra gli scrittori del Nord America (per esempio Beker, Cousar). Il resto di questo saggio tenta un'analisi generale di questa teologia, alla luce di quest'opera.

CROCE E ATTRIBUTI DI DIO L'impatto della teologia paolina della croce sugli attributi di Dio appare meglio dall'analisi di 1 Cor 1,18-2,5. Questo passo sembra rivolto a una comunità che ha perso di vista la centralità della croce a causa di una preoccupazione per un'idea quasi gnostica di risurrezione o esistenza divina nel mondo presente. Significativamente, Paolo sembra chiedere che ogni discorso sugli attributi divini sia fondato sul Cristo crocifisso, piuttosto che su pregiudizi umani di ciò che si considera «sapienza». Ci sono stretti paralleli tra la teologia della croce e la dottrina della giustificazione: proprio come il mondo cercava di conoscere Dio con la propria sapienza (1 Cor 1,21), così pensava di ottenere la giustificazione con le opere della Legge (Rm 3,21-26). Non è tanto un'indicazione dell'insufficienza della sapienza umana, ma un'affermazione che l'idea naturale umana di sapienza è talmente viziata, che l'umanità capovolge completamente il rapporto «sapienza» - «follia». Cristo diventa per noi la «sapienza di Dio» (1 Cor 1,

30); un'idea che forse si comprende meglio dicendo che Cristo diventa il paradigma della divina sapienza. Il Cristo crocifisso è la struttura interpretativa per capire Dio. Il passo può essere considerato una dimostrazione efficace della libertà di Dio. Dio non è vincolato dalle limitazioni di categorie umane. Le idee umane di sapienza si rivelano false, inventate dagli uomini, piuttosto che rivelate. Troviamo dei paralleli con l'argomento analogo sviluppato in Rm 1,19-25, dove Paolo sostiene che uomini corrotti tendono naturalmente a confondere la creazione col Creatore, sostituendo entità create malgrado siano state fatte da Dio. L'argomentazione di Paolo chiaramente si basa sul fatto che si è permesso all'umanità di definire la struttura di riferimento per poter comprendere Dio, piuttosto che permettere a Dio di stabilire egli stesso questa struttura. 1 Cor 1,30 vuol dire che le idee umane di sapienza, giustizia, santificazione e redenzione non sono soltanto relativizzate, ma dimostrate false dalla crocifissione di Gesù Cristo. Non si tratta solo di comprendere che le vie di Dio non sono le nostre vie; ma i nostri modi di pensare ci impediscono di vedere al primo posto quelle vie. Si può comprendere tale questione considerando la discussione paolina del concetto di «giustizia di Dio» in relazione alla giustiticazione dell’ empio (per esempio, Rm 3,21-26). Accanto ad allusioni alla fedeltà di Dio all'alleanza, c'è l'idea che Dio è in qualche modo definito in relazione all'evento

giustificazione. Dio è colui che, nonostante ciò urti l'idea umana di giustizia, giustifica l'empio. Ai credenti è chiesto di confidare in colui «che giustifica l'empio» (Rm 4,5), cioè Dio. Proprio come Dio giustifica l'empio (urtando e contraddicendo così, allo stesso tempo, l'idea umana di giustizia e di rettitudine), così Dio sceglie coloro che sono deboli e stolti agli occhi del mondo (urtando e contraddicendo così, allo stesso tempo, l'idea umana di sapienza). La croce, allora - più esattamente, il Cristo crocifisso - funge da fondamento del modo autenticamente cristiano di considerare Dio, e da giudice di quei modi di considerare Dio che gli uomini assorbono acriticamente dal mondo intorno a loro, e inconsapevolmente incorporano nelle riflessioni teologiche. Se Kàsemann ha ragione, e la teologia paolina della croce è veramente polemica per natura nei confronti di teologie inadeguate all'interno della Chiesa stessa, allora la teologia deve sottomettersi a questo criterio.

CROCE E RISURREZIONE Che rapporto hanno fra loro la croce e la risurrezione? Kàsemann ha protestato con forza contro chi vedeva la croce e la risurrezione come «due anelli di una catena». La catena in questione è la sequenza ordinata di eventi che portano dalla preesistenza al ritorno finale di Cristo, prendendo come pietre miliari la nascita (o incarnazione) e l'ascensione. Come notavamo sopra, la teologia della croce insiste nel dare priorità alla croce su tutti gli altri eventi della storia della salvezza. Kàsemann dichiara che croce e risurrezione sono in rapporto fra loro come «enigma e interpretazione». Questo contrasta con la tradizione prepaolina (per esempio, 1 Cor 15,3-4), dove croce e risurrezione sono trattate come eventi in sequenza. Mentre si potrebbe dire che la croce è il presuppost necessario della risurrezione (in quanto, senza la morte di Cristo, non potrebbe esserci risurrezione), quest'idea non è necessariamente significativa teologicamente. Non è che la croce sia un capitolo nella storia della risurrezione, in cui la risurrezione supera in importanza la croce. Piuttosto, la risurrezione dà significato alla croce, che è il vero centro di gravità. Si potrebbe quasi dire che la risurrezione sia un capitolo in un libro sulla teologia della croce. Prima di Paolo, la croce di Gesù era il problema che trovava una risposta nel messaggio della risurrezione. L'apostolo ha capovolto decisamente questo modo di vedere. Nella sua controversia con gli entusiasti il problema era proprio l'interpretazione della risurrezione, un problema a cui si poteva rispondere solo alla luce della croce. La situazione a Corinto chiarisce bene questo punto. L'interpretazione più ragionevole della situazione di Corinto può essere riassunta secondo le seguenti linee. Una sezione della Chiesa aveva sviluppato idee che suonano simili a quelle di Imeneo e Fileto (2Tm 2,17-18), e cioè che la risurrezione era già avvenuta. Questa idea di una «risurrezione realizzata» spiega molti temi caratteristici connessi con la situazione di 1 Corinzi. L'enfasi sul «non ancora» può essere diretta contro quelli che credevano di avere già raggiunto il compimento, che udivano già voci spirituali e celesti, e che già parlavano con lingue di angeli. L'accento posto da Paolo sulla croce sembra inteso a sottolineare che non si può evitare la croce sulla via della risurrezione. Prima di partecipare alla vita della risurrezione e alla sua pienezza, i credenti devono attraversare l'ombra della croce, che si incontra nell'intero ambito dell'esistenza cristiana. Un'idea analoga emerge dalla discussione di Paolo sul battesimo, soprattutto nella lettera ai Romani (Rm 6,1-11). Si mantiene qui una coerente riserva escatologica, come nella precedente lettera ai Corinzi. Mediante il battesimo, i credenti partecipano alla morte di Cristo sulla croce, e parteciperanno alla sua risurrezione. I credenti, uniti con lui nella sua morte, saranno uniti con lui nella sua risurrezione (Rm 6,5). I credenti sono morti con Cristo; vivranno con lui nella sua risurrezione (Rm 6,8-9) . Il battesimo, così, non porta direttamente a partecipare alla risurrezione: partecipare alla morte di Cristo è il «già qui», per il quale, partecipare alla sua risurrezione è il «non ancora». Il rilievo dato da Paolo alla partecipazione attuale dei credenti alla morte di Cristo àncora ferma- mente la vita di fede a questo mondo e presenta il cielo come una realtà futura, presente in promessa, ma non ancora di fatto: non in re sed in spe (Lutero).

LA CROCE E LA REDENZIONE UMANA Trattando la teologia paolina della croce in relazione alla redenzione umana, si scopre che Paolo presenta e sostiene idee che sembrano risalire alla tradizione prepaolina. L'idea che Cristo «è morto per (hyper) i nostri peccati» è profondamente radicata nel corpus paolino (per esempio, Rm 5,6.8; 14,15; Gal 1

4; 2,20). In modo molto significativo, la frase è citata dalla tradizione prepaolina (1 Cor 15,3) in modo da non lasciare dubbi sulla sua considerevole autorità sia per Paolo che per i suoi lettori. All'evento storico

della crocifissione si aggiunge un importante elemento interpretativo, in cui la storia diventa storia di salvezza. Ma come si deve cercare di conoscere ancora questo evento di salvezza? L'esposizione paolina dell'aspetto salvifico della morte di Cristo sulla croce è complessa, in quanto spesso mescola in uno spazio molto ristretto una varietà di immagini ricche e profondamente suggestive. In 2 Cor 5,14-6,2 molte immagini si intrecciano per costruire un quadro composito del modo in cui si può dire che la croce ci redime. In Rm 3,24-26, tre immagmi significative si integrano per darci una visione di vasta portata dell'evento redenzione. Ed è difficile ridurre qui, o altrove, le affermazioni di Paolo alle semplici teorie tanto amate da certi teologi. Per esempio, in Rm 6,1-11 Paolo pensa chiaramente a una partecipazione: il credente partecipa ora alla morte di Cristo, e parteciperà alla fine alla sua risurrezione. Ma in 2 Cor 5,21 si usa un linguaggio vicario: c'è un interscambio di peccato e giustizia tra il credente e Cristo (Hooker). Il dibattito si concentra su un certo numero di immagini-chiave, usate nel corpus paolino per descrivere «i benefìci di Cristo» (Melantone). Se ne possono osservare tre particolarmente importanti. 1. La parola greca hilasterion è tradotta tradizionalmente «espiazione» o «propiziazione», sebbene il termine «espiatorio» (cfr. Lv 16) trovi sempre più favore tra gli esegeti. Questo termine tecnico ricorre solo una volta nel corpus paolino, rendendo la sua interpretazione tanto importante quanto difficile, data la sua funzione cardine in Rm 3,24-26. La traduzione «propiziazione» darebbe l'idea di «un'azione diretta a soddisfare l'ira divina» (Morris). Il forte legame tra peccato e ira di Dio (per esempio, Rm 1,18;

3,5) le dà buone possibilità. Tradurre il termine con «espiazione» significherebbe che la morte di Cristo «fa ammenda per i peccati», indicando che mira a correggere il peccato piuttosto che a riconciliare con Dio. «L'ira di Dio nel caso della morte di Gesù non è tanto retributiva, quanto preventiva» (Dunn). Insomma, si deve lasciare aperta la discussione. Comunque si comprenda, si intende che la morte di Cristo arriva fino alla radice del peccato. 2. L'atto di Dio che giustifica l'empio. (Abbiamo deliberatamente evitato il sostantivo «giustificazione» per restare fedeli al fatto che Paolo quasi invariabilmente usa il verbo.) Quest'idea esprime molte idee fondamentali di Paolo: il potere di Dio, l'azione cosmica e universale per cambiare la situazione tra l'umanità colpevole e Dio, per cui Dio può assolvere i credenti, ponendoli in una relazione giusta e di fede nei suoi confronti. La morte di Cristo può essere vista come una simultanea affermazione della personalità di Dio e un perdono autentico delle colpe umane (Rm 3,26). 3. L'idea di «redenzione» (Rm 3,24) è collegata al mondo del mercato di schiavi o della prigione. Il tema dominante è quello di liberazione dal «dominio del peccato» (Rm 3,9). Il peccato qui inteso come un potere o una forza che esercita autorità e dominio sull'umanità colpevole. La morte di Cristo spezza questa forza pericolosa, rendendo gli uomini capaci di acquisire la gloriosa libertà dei figli di Dio . Si deve sottolineare, comunque, che a Paolo non interessa costruire una teologia sistematica della redenzione, come quella di molti teologi scolastici. L'orizzonte di Paolo è dominato dalla realtà e non da una specifica teoria del potere di Dio di liberare dal peccato mediante la morte di Cristo. Le immagini usate a tale scopo sono illustrative e si farebbe bene a evitare selettività e priorità che inevitabilmente accompagnano la sistematizzazione dell'evento della redenzione. La teologia della croce ha molto da dirci qui, ricordandoci che il cuore del vangelo cristiano è la croce, il Cristo crocifisso, e non una teoria.

CROCE E VITA CRISTIANA In che modo la croce riguarda la vita cristiana? Qui, forse, diventano chiare le conseguenze di una teologia della croce. Perché la teologia diventa spiritualità, non spiritualità nel vago senso umanistico di un mezzo di accrescimento della religiosità umana, ma nel senso proprio di formare un popolo che è in cammino per diventare spirituale. La croce modella la vita cristiana, un fatto che Paolo sviluppa in una serie efficace di passi autobiografici, in cui racconta come egli sia stato modellato dalla croce e conformato al modello del Cristo crocifisso. In molti passi importanti Paolo indica come ci si può aspettare la presenza della croce nella vita dei credenti. Possiamo ritrovare i temi nei seguenti passi.

2 Corinzi 4,7-15 In questa lista di tribolazioni, che ha un rapporto significativo con la «letteratura delle avversità» del periodo classico, Paolo indica come si imprime nella sua esistenza la croce di Cristo. Essere un credente significa portare i segni di sofferenza, conflitto e rifiuto. L’idea chiave è espressa nella frase fortemente evocativa: portare sempre ed ovunque nel nostro corpo la morte di Gesù ( 2 Cor 4, 10 ). Per Paolo, Cristo e la sua croce sono la causa e il paradigma della sofferenza del credente. C’è un forte senso del

credente che partecipa alla vita e quindi alla sofferenza di Cristo, un’idea forse espressa più pienamente in Rm 8, 17 . ( Cfr Col 1, 24 )

Galati 6, 14 “ Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso , come io per il mondo.” Questo passo significativo è importante per la critica di coloro che, per ragioni mondane, vogliono costringere i cristiani ad adottare uno stile di vita estraneo al vangelo. Il mondo è visto come un potere che entra in urto con la vita dei credenti, mentre non ne ha l'autorità. Il passo implica una relazione organica fra tre crocifissioni: quella di Cristo, di Paolo e del mondo. A causa della croce Paolo è morto per il mondo, e il mondo è morto per lui. «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne» (Gal

5,24). Il potere, esercitato una volta dal mondo su di lui, è stato spezzato. Paolo ora partecipa alla nuova creazione posta in essere dalla crocifissione, nella quale sono stati distrutti l'autorità e il dominio del mondo. Niente più di questo: il mondo è stato crocifisso.

Filippesi 3,8-12 Questo passo di grande vigore si basa sull'idea della partecipazione alla risurrezione e alle sofferenze

di Cristo a causa del rapporto dei credenti con lui. Paolo esprime il desiderio appassionato «che io possa conoscere lui [Cristo], la potenza della sua risurrezione, e possa partecipare alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte» (Fil 3,10). Poiché Cristo li ha fatti sua proprietà (Fil 3,12), i credenti possono aspettarsi di condividere tutto ciò che egli è e ha, inclusa l'associazione alle sue sofferenze, divenendo simile a lui nella sua morte, e infine (nota il «non ancora»), partecipando alla sua risurrezione. Passi come questo hanno spinto Lutero a scrivere che «il christianus deve essere crucianus». Conoscere Cristo vuoi dire conoscere le sue sofferenze. Nota l'idea di «diventare come Cristo nella sua morte»; il greco ha forse il senso di «essere conforme a Cristo nella sua morte», così la vita cristiana può essere pensata come un processo che rimodella e riplasma sull'immagine del Cristo sofferente. E allora come dev'essere descritta la teologia paolina della croce? Possiamo dire che, per Paolo, la croce si trova - inamovibile - come punto fondamentale di riferimento della fede. È da qui che la fede ha iniziato, e qui ritornerà continuamente, a essere nutrita dal Cristo crocifisso. Mediante la partecipazione in Cristo, il credente partecipa alle sue sofferenze e alla sua morte, e un giorno - ma non ancora! - parteciperà alla sua gloriosa risurrezione. E la speranza ci custodirà e deve custodirci nella fede! I credenti possono intravedere il regno dei cieli, possono anche udire voci lontane di angeli, ma restano qui, affidati al Cristo crocifisso, in mezzo a un mondo sofferente. Il regno dei cieli resta nel futuro, anche se ora si può udire la sua musica lontana. La croce è l'immagine della vita cristiana nel mondo, proprio come significa la speranza oltre questo mondo, che i credenti condividono con Paolo.

Joel B. Green

in: “Dizionario di Paolo e delle sue lettere” San Paolo 2000

FEDE IN PAOLO

ENFASI SULLA FEDE ìÈ difficile poter negare l'enfasi di Paolo sulla fede. Egli usa il termine pistis 142 volte, mentre nel resto del NT ricorre solo 101 volte. Usa anche il verbo pisteuo («credere») 54 volte e l'aggettivo pistos («fedele», «degno di fiducia») 33 volte. Indubbiamente le parole relative alla fede giocavano una parte importante nel vocabolario paolino. O. Michel fa notare che l'esigenza della fede era qualcosa di nuovo che iniziava con i cristiani: «Néa Qumràn, né in Giovanni Battista, né tra gli antichi movimenti zeloti c'era una esplicita richiesta di fede»; al contrario, «il Cristianesimo è un evento di fede unico» (Michel, in Becker -

Michel 599, 605). Per Paolo la fiducia in Dio era di capitale importanza ed è significativo che parli dei cristiani come di «coloro che credono» (per esempio, Rm 1,6; 1 Cor 1,21). Egli non si riferisce a un'esperienza superficiale, ma al credere con il proprio cuore (Rm 10,9); e il suo punto centrale è il Dio che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti e ha inaugurato la nuova era (cfr. Ljungman).

ì Per Paolo la grande verità centrale è che Dio ha agito in Cristo per realizzare la salvezza dei peccatori . La salvezza non può essere meritata o guadagnata, ma dev'essere ricevuta come un dono di grazia. I peccatori non possono meritarsi la salvezza, ma solo credere in Dio o, come dice Paolo, aver fede in Dio (o in Cristo). È una caratteristica tipicamente cristiana che il verbo pisteuo («credere») sia spesso seguito dalla preposizione epi («su») o eis («in»), e Paolo segue quest'uso. Questo evidenzia la verità che i cristiani fondano la loro fede “su” Gesù o sono introdotti “nell'unione” con lui. Bultmann cita Rm 10,9 per mostrare che credere col proprio cuore e «il riconoscimento della signoria di Gesù con l'ammissione (= convinzione della reale verità) del miracolo della sua risurrezione costituiscono il contenuto della fede cristiana» (Bultmann, GLNT X, 434).

ìLa fede ha molti aspetti. «È risposta alla rivelazione come opposta alla scoperta di una nuova conoscenza» (Blackman 222). Implica da parte nostra il riconoscimento di essere peccatori e perciò incapaci da soli di abbandonare il male e compiere il bene. Forse Socrate riteneva che conoscenza e virtù fossero la stessa cosa, cosicché conoscere ciò che è giusto porta le persone a fare ciò che è giusto, ma Paolo non sarebbe stato d'accordo. Per lui la fede implica sia il riconoscimento che siamo peccatori, sia il riconoscimento che Dio ha provveduto al nostro perdono attraverso ciò che la morte di Cristo ha operato per noi. Fede significa unire l'ammissione dell'impossibilità di conseguire noi stessi la salvezza con l'accettazione della verità che Dio ha fatto tutto ciò che è necessario. La «buona novella», il «vangelo», è «la potenza di Dio per la salvezza di chiunque

crede» (Rm 1,6). E fede significa impegno. Coloro che credono non solo riconoscono le loro mancanze, ma si impegnano a essere il popolo di Cristo.

FEDE E CROCE L'opera salvifica di Dio è compiuta in Cristo. Paolo accentua costantemente la centralità della croce, talvolta usando proprio questo termine, talvolta ricorrendo a qualche figura per spiegare la verità. Perciò parla di Dio come colui che compie la «redenzione» e la «propiziazione» e subito aggiunge «per mezzo della fede» e «nel suo sangue» (Rm 3,24-25). L'ultima espressione fa capire chiaramente che l'apostolo si riferisce alla morte espiatrice del Redentore, mentre la prima insiste sul fatto che questa non è una cosa automatica per tutti. La fede è la modalità stabilita da Dio; in verità c'è «un solo Signore, una sola fede» (Ef 4,5); i due vanno insieme. La redenzione è il pagamento di un prezzo per liberare delle persone, e non dobbiamo trascurare l'importanza della libertà nella comprensione che Paolo ha della fede. Egli non collega espressamente la libertà con la terminologia della fede, ma un passo come Rm 5,16-21 suppone impossibile che il credente entri nella libertà senza la fede, che è la porta d'ingresso nella nuova era della salvezza messianica. Paolo considera centrale ciò che Dio ha fatto in Cristo e unisce la fede alla grazia (Rm 4,16). Scrive infatti agli Efesini: «Per questa grazia siete salvi mediante la fede» (Ef 2,8). La grazia è importante per la comprensione della fede, perché sottolinea che la salvezza è un dono libero, non una ricompensa per una qualche conquista umana, nemmeno una ricompensa per una fede eccezionale. ( E’ ugualmente la fede che dà accesso alla grazia nella quale si trovano i credenti e che conduce alla gioia (Rm 5,2). Paolo sembra essere al servizio dei Filippesi per il «loro progresso e la gioia della loro fede» (Fil 1,25). E, fatto interessante, un po' più avanti fa un commento sul «sacrificio e il servizio» della fede dei Filippesi (Fil

2,17). La loro fede si risolve in un servizio sacrificale. In Cristo i credenti hanno «il coraggio di avvicinarsi in piena fiducia in lui» (Ef 3,12). Oppure Paolo sottolinea la potenza divina: «Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,5 ).

GIUSTIFICAZIONE La giustificazione è il processo mediante il quale il peccatore viene accettato da Dio. Paolo vede la caratteristica della comprensione cristiana della giustificazione nel fatto che si basa su ciò che Dio ha fatto, non su qualche conquista umana: viene concessa per fede, senza fare affidamento su meriti umani. L'apostolo esprime il messaggio centrale del cammino cristiano affermando che il vangelo è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede», e continua dicendo che la giustizia di Dio si rivela «di (= dal greco ek) fede in fede», fede dall’ inizio alla fine! Continua ancora citando il famoso testo di Ab 2,4: «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,16-17). La «giustizia di Dio» viene «per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono» (Rm 3,22). Dio è al tempo stesso giusto e giustifica tutti quelli che hanno fede in Gesù (Rm 3,26). Gli uomini sono giustificati «dalla (ek) fede», dove la preposizione ek indica l'origine; è dalla fede riposta in Dio che gli uomini sono giustificati, ed, essendo giustificati, sperimentano la pace di Dio (Rm 5,1). Paolo può anche variare il suo modo di presentare ciò dicendo che si è giustificati «non dalle opere della Legge, ma dalla fede in Gesù Cristo» (Gal 2,16). Egli sottolinea la verità che i credenti sono giustificati dalla fede del tutto indipendentemente dalle «opere della Legge» (Rm 3,28). O egli guarda al futuro, quando sarà trovato in Cristo «non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede» (Fil 3,9). Ancora nel futuro «attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo» (Gal 5,5); questa giustificazione è l'assicurazione dell'assoluzione nell'ultimo giorno, ed è ovvio che Paolo considera la fede importante in questa connessione. Questo grande tema mette in rilievo tutto ciò che Paolo scriveva ed è fondamentale per lui e centrale per il vangelo, alla cui proclamazione dedicò la propria vita. Con o senza questa terminologia, egli mette costantemente davanti ai suoi lettori la verità che questo tema trasmetteva. L'uomo non può fare nulla per meritarsi la salvezza, ma Paolo ripete la verità che tutti coloro che vengono a Dio nella fede ricevono la salvezza come un libero dono.

FEDE E LEGGE Per i Giudei del I sec. era una questione di grande importanza che Dio avesse dato la Legge al loro popolo tra tutti i popoli della terra. Era un dono di cui bisognava far tesoro e costituiva la base di tutta la vita. Paolo però mette in evidenza che la promessa di Dio ad Abramo e ai suoi discendenti era «non in virtù della Legge... ma in virtù della giustizia che viene dalla fede» (Rm 4,13). La promessa è assicurata a tutti i

discendenti di Abramo, non sulla base dell'osservanza della Legge ma sulla base della fede (Rm 4,16). La Legge può essere distinta dalla fede, perché «la legge non si basa sulla fede» (Gal 3,12). Come sostiene F. F. Bruce, «Legge e fede in Paolo sono senza rapporto: il vangelo richiede la fede, mentre la Legge richiede le opere» (Bruce 1982, 162). Paolo è molto chiaro sul primato della fede e afferma perciò chiaramente: «Noi (il pronome è enfatico: "noi cristiani" per distinzione dai non cristiani) abbiamo creduto in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge», aggiungendo poi la forte affermazione: «Poiché dalle opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2,16). Per Paolo la Legge ha un posto, ma solo in attesa che la fede sia «rivelata» come la via (Gal 3,23); egli può dire che la fede «è giunta» (Gal 3,26), la vede attiva. Paolo è interessato sia alla salvezza dei Giudei che dei Gentili. Per E. P. Sanders è «chiaro che una delle principali preoccupazioni di Paolo è affermare che la salvezza è sia per i Giudei che per i Gentili e che essa ha lo stesso fondamento. Questo fondamento, non potendo essere la Legge, dev'essere la fede» (Sanders 669). L'errore dell'antico Israele era stato di non cercare di conseguire la giustificazione con la fede, ma piuttosto con le opere della Legge (Rm 9,31-32). Paolo era molto preoccupato per Israele (Rm

10,1) ed era per lui una disgrazia che gli Israeliti non fossero arrivati a Dio attraverso la fede in Cristo. Il fatto che essi enfatizzassero tanto la Legge era un segno che erano nell'errore, un errore nel quale Paolo vede il compimento di una profezia (Rm 9,33, che cita Is 28,16 e 8,14). Egli non vuol dire che nessun israelita era salvato; dopo tutto egli stesso era israelita e se ne vantava, e lo erano anche molti dei suoi collaboratori. Però essi sono giustificati allo stesso modo dei Gentili, per la fede (Rm 3,30). La Legge non è lo strumento della salvezza; mostra che gli uomini e le donne sono peccatori, ma non porta la salvezza (1

Cor 3,6-16). In verità, Paolo parla di una «legge della fede», che oppone chiaramente alla legge «delle opere» (Rm

3,27). Può sembrare paradossale che si parli di «una legge della fede», ma l'espressione rivela qualcosa del forte rilievo di Paolo sulla centralità della fede. Se qualcuno vuol vedere una «legge» nel modo di arrivare a Dio, allora quella legge suppone che si venga a lui per la fede, e non per un qualche merito proprio. Se coloro che vengono per mezzo della Legge ereditano la benedizione, allora la promessa fatta ad Abramo è nulla, il che è impensabile; significherebbe che la promessa di Dio non valeva nulla (Rm 4,14). La Scrittura, dice Paolo, «ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo» (Gal 3,22). Le stesse Scritture alle quali i Giudei attribuiscono tanto valore sottolineano il peccato in modo tale che chiunque le legge correttamente non può non vedere che l'uomo non può raggiungere la salvezza con le proprie azioni. Essi devono rivolgersi alla promessa, e la promessa implica fiducia in quel Dio la cui fedeltà è dimostrata nella sua promessa di alleanza fatta al patriarca e confermata in Cristo e nella Chiesa (cfr. 2 Cor 1,17-22; cfr. van Unnik).

ABRAMO Paolo fa appello all'esempio di Abramo, il progenitore del popolo di Dio (ne parla 19 volte). Due volte abbiamo uno sviluppo alquanto lungo sul modo in cui Abramo fu accettato da Dio ed entrambe le volte si sottolinea che il grande patriarca fu accettato solo sulla base della fede (Rm 4; Gal 3). Per Paolo è significativo che Abramo fu accettato da Dio semplicemente perché credette che quanto Dio gli aveva promesso lo avrebbe compiuto. L'apostolo esclude esplicitamente le opere come base per l'accettazione di Abramo davanti a Dio (Rm 4,2). Ciò che era importante era la fede di Abramo nella fedeltà divina. Gn 15,6 è per Paolo un testo fondamentale che dimostra chiaramente sia che Abramo credette, sia che Dio lo accettò sulla base di questa fede (Rm 4,3-4; Gal 3,6). Se il grande patriarca fu accettato in questo modo, per Paolo è ovvio che gli altri che sono accettati non lo sono in un modo diverso. I Giudei del tempo di Paolo attribuivano enorme importanza alla circoncisione, un rito che era stato introdotto per loro da Abramo per ordine di Dio e come «segno dell'alleanza» (Gn 17,11); in effetti. Dio aveva detto ad Abramo: «Questa è la mia alleanza» (Gn 17,10). Ma Paolo fa notare che l’accettazione di Abramo da parte di Dio ebbe luogo prima che fosse circonciso, deducendo da questo ordine di successione che la circoncisione non ha l'importanza ad essa attribuita dai Giudei del suo tempo, cioè un segno di identità e un distintivo del loro status di alleanza (Dunn 1988). Egli può parlare di Abramo come del «padre dei circoncisi (lett. "di circoncisione")», ma vede ciò come una paternità non per quelli che sono semplicemente circoncisi, ma per quelli che «camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione» (Rm 4,12). La fede fu accreditata ad Abramo come giustizia (Rm 4,22), una verità registrata non semplicemente come un fatto di storia, ma «anche per noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore» (Rm 4,24). Paolo fa di questo una base per l'accettazione dei Gentili nella Chiesa

cristiana. Sono quelli che vengono «dalla fede (ek pisteòs)» che sono «figli di Abramo» (Gal 3,7), quelli «dalla fede» che «vengono benedetti insieme ad Abramo che credette» (Gal 3,9); è una verità prevista nella Scrittura (Gal 3,8). Paolo considera la circoncisione come una barriera contro la salvezza quando essa viene rivendicata come un privilegio esclusivo (Gal 5,2): ciò che conta è la fede (la fede che opera per mezzo della carità; Gal 5,6). Se una persona è circoncisa per il suo zelo per la Legge ma non ha fede, non può essere giustamente annoverata tra i figli di Abramo. Non tutti i discendenti di Abramo sono suoi veri figli (Rm 9,7); discendenza di Abramo ed «eredi secondo la promessa» sono piuttosto coloro che appartengono a Cristo (Gal 3,29). Degna di nota è l'affermazione di Paolo secondo cui l'opera redentrice di Cristo nel diventare «una maledizione per noi» fu «perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai Gentili» (Gal 3,13-14). La fede è l'unica via.

FEDELTÀ «Fedele è Dio», scrive Paolo, «dal quale siete stati chiamati» (1 Cor 1,9), e questo costituisce la base per tutta la concezione cristiana dell'agire di Dio nei riguardi del suo popolo, sia nella prima che nella seconda alleanza. Nessuna debolezza umana può annullare la fedeltà di Dio (Rm 3,3). Essendo Dio fedele, quelli che egli chiama devono riflettere la qualità che hanno imparato da lui, cioè in risposta alla sua lealtà nell'alleanza. Ci si può riferire ai credenti come a «i fedeli in Cristo» (Ef 1,1; cfr. Col 1,2). Il termine pistis viene generalmente tradotto con «fede», ma talvolta può significare «fedeltà» (per esempio, Gal 5,22). Certamente è così quando Paolo chiede: «La loro incredulità può forse annullare la fedeltà (pistin) di Dio?» (Rm 3,3). Più diffìcili sono i casi in cui ci troviamo di fronte all'espressione che può essere tradotta letteralmente con «una giustizia di Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo» (Rm 3,22; cfr. Rm 3,26; Gal

2,16.20; 3,22; Fil 3,9). Molti sono d'accordo che l'espressione vada intesa come «fede in Gesù Cristo», sebbene sia possibile vedere il significato come «fedeltà di Gesù Cristo» o come «la fede che fu di Gesù Cristo», considerando le parole in riferimento alla piena umanità di Gesù. L'ultima interpretazione, che considera il genitivo di pistis Christou come un genitivo soggettivo (cioè «fedeltà di Cristo») ha ottenuto alcuni consensi tra gli studiosi, essendo sostenuta molto autorevolmente da R. Hays (1983, 1991; cfr.

Howard, ABD, per la storia dell'interpretazione). La posizione tradizionale sostiene che il genitivo sia oggettivo («fede in Cristo»; cfr., per esempio, Dunn 1988, 1991). Il problema continua a essere dibattuto (per una prospettiva linguistica e strutturale sul significato di ek pisteòs e dia pisteòs e l'influenza di Ab 2,4, ( cf

Campbell), ma, come ha fatto notare Dunn, ciò significa che se Paolo desiderava attirare l'attenzione sulla fedeltà di Cristo, ha perso qualche opportunità. In Rm 4, per esempio, il modello è la fede di Abramo, non la fedeltà di Cristo (Dunn 1988, 1.166; ma cfr. Longenecker 1990, 87-88). Probabilmente dobbiamo intendere nel senso che Paolo si riferisca alla fede in Gesù come oggetto, anche se le altre possibilità ci ricordano sia che egli era fedele al Padre, sia che visse con fede. Paolo include la fede nella lista di quelli che egli chiama «i frutti dello Spirito» (Gal 5,22). Questo significa probabilmente che lo Spirito Santo suscita una fede salvifica nel credente, ma è molto più verosimile che in questa lista la parola denoti fedeltà, la qualità della piena attendibilità. Così è anche quando l'apostolo parla di una serie di doni fatti ai credenti e include «la fede, per mezzo dello stesso Spirito» (1 Cor 12,9). Dato che queste parole sono precedute dall'espressione «a un altro», significa che l'apostolo non si riferisce alla fede salvifica, essendo questa un bene comune a tutti i cristiani, non un dono fatto dallo Spirito a un credente piuttosto che a un altro. È possibile che si riferisca alla fedeltà, anche se, naturalmente, altrove egli parla di avere «la pienezza della fede così da trasportare le montagne» (1 Cor 13,2) e può darsi che sia di una tale fede che egli parla qui (cfr. la classificazione di O. Wischmeyer di questa come Wunderglaube

opposta a Kerygmaglaube, cioè fede nel potere miracoloso di Dio contro la fede salvifica del credente nel

vangelo). W. Schmithals, è vero, sostiene che questa si riferisce alla controversia con gli gnostici, che sostenevano che solo un limitato numero di cristiani sono «pneumatici» («spirituali»), mentre Paolo obietta invece che tutti i cristiani hanno la fede e che perciò sono «pneumatici» (Schmithlrs 172-173). Ma indipendentemente dalle obiezioni che possono essere sollevate contro la posizione generale di Schmithais, sembra che egli non abbia prestato sufficiente attenzione all'espressione «a un altro». Paolo non sta descrivendo la posizione di tutti i veri cristiani, ma parla di un dono fatto solo a qualcuno di essi, sebbene sia possibile che qui, come in 1 Cor 13,2, dobbiamo vedere il dono dello Spirito o il carisma del potere di guarigione esercitato nella fede.

FEDE E SPIRITO SANTO Paolo vede la fede come il necessario prerequisito per la presenza dello Spirito Santo nel credente. Egli rimprovera i Galati di voler abbandonare la fede che aveva segnato la loro esperienza iniziale e aveva portato loro il dono dello Spirito. Dice di avere da porre loro solo una domanda: «È per le opere della Legge che avete ricevuto lo Spirito o per l'ascolto della fede?», ma poi la pone in una forma leggermente diversa: «Colui che vi concede lo Spirito... (lo fa) grazie alle opere della Legge o per l'ascolto della fede?» (Gal 3,2.5). In questo passo l'apostolo riporta i Galati all'inizio della loro esperienza cristiana e ricorda loro che allora essi avevano semplicemente creduto e che da ciò era derivato il dono dello Spirito Santo. Erano allora accadute cose soprannaturali, e simili manifestazioni di potere miracoloso erano il risultato della venuta dello Spirito in risposta alla fede, non a qualche osservanza della Legge. L'uso del tempo presente implicache queste cose ancora continuavano. Dio ancora concedeva loro lo Spirito e continuava a farlo per la fede, invece che per la Legge. Coloro che credono hanno ricevuto «il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso» (Ef

1,13), dove la metafora del sigillo segna i credenti come appartenenti a Dio: hanno ricevuto il marchio di Dio. Lo stesso passo continua affermando che lo Spirito è «la caparra» o «pegno» (arrabòn) della loro eredità. L''arrabòn” era una caparra, una garanzia che il resto di ciò che era stato promesso sarebbe stato pagato nel tempo dovuto. Paolo lo usa per esprimere il pensiero che, mentre l’attuale dono dello Spirito Santo è ora una prova della salvezza, molto di più è ancora da venire nel futuro escatologico. Paolo inoltre dice che Cristo «ci ha riscattati dalla maledizione della Legge» e ciò «perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai Gentili», e aggiunge un’ ulteriore frase finale: «Perché noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3,13-14). La fede non va considerata come un atto meritorio che viene ricompensato con il dono dello Spirito. Paolo dice piuttosto che c’è un'azione divina nei credenti e che è mediante la fede che essi ricevono il dono dello Spirito di Dio, e perciò il dono della fede che salva (1 Cor 12,3). Egli dice anche che è «per virtù dello Spirito» che i credenti attendono dalla fede la speranza della giustificazione (Gal 5,5). Dobbiamo anche ricordare che la «fede» è uno dei frutti dello Spirito (Gal

5,22) e che Dio con il suo Spirito concede il dono della «fede» (1 Cor 12,9). Dato che questo dono viene concesso «a un altro», l'apostolo non pensa alla fede salvifìca che è un bene comune di tutti i cristiani, ma a un dono speciale (charisma). Ma per il nostro scopo la cosa importante da osservare è che questo tipo di fede che si esercita in un ministero che ha il potere dei miracoli è un dono dello Spirito. Paolo dice di avere «lo stesso spirito di fede di cui sta scritto."Ho creduto, perciò ho parlato"», e aggiunge: «Anche noi crediamo e perciò parliamo» (2 Cor 4,13). La citazione è del Sl 116,10 e, come osserva R. P. Martin, «la fiducia di Paolo viene fatta risalire all'assicurazione simile che egli trovava nel salmista... Egli considera il suo ministero della parola come una testimonianza della sua fede - e di quella del salmista - nel trionfo della vita sulla morte» (Martin 89). Non è facile vedere qui un riferimento specifico allo Spirito Santo nel senso normalmente inteso dal NT. Ma per la stessa ragione non è facile escludere un simile riferimento, perché è chiaro che l'apostolo considerava il suo agire e il suo parlare come sotto l'ispirazione dello Spirito Santo

FEDE E VITA CRISTIANA Paolo non considera la fede come una specie di passaporto per la salvezza, come se fosse per noi necessario credere per essere considerati tra i salvati, e, ottenuto tale passaporto, dovessimo poi vivere con i nostri stessi sforzi. Egli parla di Cristo che abita nei cuori dei credenti «per la fede» (Ef 3,17), il che indica un'attività che continua, non una visita fugace. La fede non è statica, ma deve crescere. Paolo fa capire chiaramente che ci sono diversi livelli di fede. Alcuni credenti, ad esempio, hanno una fede che muove le montagne (1 Cor 13,2); l'implicazione è che si tratta di una fede che compie miracoli, non della fede che si presume in ogni cristiano; cfr. 1 Cor 12,29, dove gli interrogativi suppongono una risposta negativa. L'apostolo dice dei Corinzi che «abbondano» nella fede (2 Cor 8,7) e si aspetta che questa fede cresca (2Cor 10,15). Similmente, egli dice agli Efesini che Dio ha concesso alcuni doni alla Chiesa per la sua edificazione, «finché arriviamo tutti all'unità della fede e delle conoscenza del Figlio di Dio» (Ef 4,13). La fede dei Tessalonicesi «cresce abbondantemente» ( 2 Ts 1,3; cfr. 2Cor 10,15). D'altra parte, egli riconosce che alcuni credenti sono «deboli nella fede» (Rm

14,1). Peggiori sono quelli che professano la fede, ma negano che Cristo sia risorto dai morti, perché se Cristo non è risuscitato «la vostra fede è vuota» (1 Cor 15,14) o «vana» (1 Cor 15,17). La menzione della «fede sincera» (1 Tm 1,5) indica forse che non era sconosciuta una fede falsa (per questa distinzione, cfr.

Gundry Volf, specialmente sezione VII ).

La fede è collegata con altre importanti qualità cristiane, in particolare con la carità (come Fm 5). In un trio degno di nota Paolo di- ce: «Ora permane la fede, la speranza e la carità, queste tre cose» (1 Cor 13,13), dove il verbo al singolare unisce strettamente i tre elementi (a meno che non concordi semplicemente con il soggetto più vicino (cfr. BDF 135), oppure Paolo raggruppi le tre qualità in un soggetto unificato; (cfr. Martin 1984, 54-56). Queste tre qualità si trovano unite anche in altri passi (per esempio. Gal

5,5-6; Ef 1,15-18; Col 1,4-5; 1 Ts 1,3). Questa connessione della fede con la speranza e la carità è chiaramente una verità che Paolo esprime con frequenza. E, naturalmente, egli collega la fede con altre importanti virtù cristiane quando elenca «i frutti dello Spirito» (Gal 5,22-23). Egli prega che Cristo possa abitare nei cuori dei cristiani efesini e prosegue con l'idea che essi sono «radicati e fondati nella carità» (Ef

3,17). Conclude la lettera agli Efesini con la preghiera che la pace, la carità e la fede «da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo» sia con i fratelli e le sorelle (Ef 6,23). Oppure collega la fede con «la speranza del vangelo» (Col 1,23). Non dobbiamo pensare alla fede come a una virtù che i cristiani conseguono con il loro agire meritorio. I credenti sono peccatori e del tutto incapaci di ottenere una qualità come la fede salvifica con le proprie forze; è Dio che la concede, che la dà come un dono (Rm 12,3; cfr. 12,6). Questo concorda col fatto che la fede viene talvolta vista come la base di tutta la vita cristiana. «Camminiamo nella fede» (2Cor 5,7): la fede pervade tutta la vita cristiana. E Paolo usa una significativa espressione quando dice di «essere morto alla Legge, per vivere per Dio», e aggiunge: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede nel Figlio di Dio» (Gal 2,19-20). Si tratta di affermazioni molto profonde, ma per il nostro scopo la cosa importante è che Paolo possa dire che tutta la sua vita è vissuta «nella fede del Figlio di Dio».

La fede è centrale in tutta la sua vita. La fede non è sempre pacifica e Paolo ammette che è inevitabile un conflitto tra il bene e il male, che coinvolge il popolo di Dio. Molte volte ricorre alla metafora dell'armatura e considera importante «lo scudo della fede»; con esso i credenti possono «spegnere i dardi infuocati del maligno» (Ef 6,16). Da un altro punto di vista usa il concetto di conflitto quando esorta i Filippesi a restare saldi e a combattere «per la fede del vangelo» (Fil 1,27) .

FEDE E OBBEDIENZA All'inizio della lettera ai Romani Paolo parla di «obbedienza della fede» (Rm 1,5; 16,26), un'espressione che è stata intesa in vari modi. È poco probabile che significhi «obbedienza alla fede» (Moffat: in questo caso sarebbe stato usato senz'altro l'articolo). «Obbedienza che consiste nella fede» o «obbedienza che deriva dalla fede» sono significati più verosimili. Per il nostro scopo il punto importante è che la fede e l'obbedienza siano collegate. Non dobbiamo prendere l'enfasi che Paolo pone sulla fede nel senso che elimini l'importanza dell’obbedienza. Coloro che veramente hanno fiducia in Cristo obbediscono alla sua volontà. «La parola della fede» (Rm 10,8) è forse un altro modo per esprimere l'esigenza di obbedienza, con il significato di «il messaggio che richiede obbedienza». Paolo non formula una serie di regole alimentari, ma viveva in un tempo e in un luogo in cui le regole alimentari erano comuni tra le persone religiose. Se un cristiano aveva una fede che gli permetteva di considerare che quelle regole alimentari erano irrilevanti, allora poteva benissimo mangiare cibi proibiti; ma «chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce per fede» (Rm 14,23); Paolo aggiunge: «Tutto quello che non viene dalla fede è peccato». La fede (o la mancanza di fede) determina quello che possiamo mangiare! Non dobbiamo pensare che la fede elimini il comportamento etico. La fede, piuttosto, porta a una responsabilità etica, specialmente dove sono coinvolti nuovi cristiani.

FEDE E CHIESA Paolo sottolinea l'importanza di essere membri della famiglia celeste. «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede», egli scrive, e aggiunge: «in Cristo Gesù» (Gal 3,26), che va inteso probabilmente non tanto come «fede in Cristo» (sebbene questo sia vero), quanto «figli di Dio» e anche persone «in Cristo Gesù» (così Bruce). È la fede, non una qualche conquista umana, che ammette i credenti tra i membri della famiglia di Dio. Paolo presume che i suoi convertiti siano uniti in comunità di fede. Parla di tutta la Chiesa come della «casa della fede» (Gal 6,10). Ciò che caratterizza un gruppo di credenti ai quali scrive è che hanno fede. Si rallegra del fatto che la fama della fede dei cristiani romani si diffonda in tutto il mondo (Rm 1,8). Dice di aver sentito della fede degli Efesini nel Signore Gesù (Ef 1,15), tanto essa era diffusa. E, sebbene fosse una guida in quanto apostolo, sembra essere incoraggiato dalla fede dei cristiani di Roma (Rm

1,12). Egli minimizza la parte avuta dai rivali predicatori e capi cristiani a Corinto. Dice di non aver

autorità sulla fede dei Corinzi e afferma chiaramente: «Perché nella fede siete già saldi» (2Cor 1,24). I cristiani di Corinto avevano la loro diretta relazione con Dio mediante la fede e Paolo non aveva alcuna autorità di interporsi. L'aggettivo pistos significa «fedele» e viene usato per sottolineare che Dio è fedele (1 Cor 1,9;

10,13). Ma anche i credenti possono essere definiti «fedeli», sia i credenti nel loro insieme (Ef 1,1; 1 Tm

4,12), sia un singolo credente come Timoteo (1 Cor 4,17) o Tichico (Col 4,7). In verità Paolo afferma che egli stesso è fedele (1 Cor 7,25; cioè, attendibile, cfr. 1 Cor 4,2).

LA FEDE Il più delle volte Paolo parla della fede in relazione alla fiducia in Cristo o in Dio. È l'atteggiamento fondamentale che porta l'uomo dalla sua condizione di peccato alla giusta relazione con la divinità. La fede è così fondamentale che il termine può essere usato per indicare tutto il cammino cristiano, e viene usata l'espressione «la fede» non semplicemente come un modo per riferirsi alla fiducia in Cristo che è così basilare, ma come un modo per attirare l'attenzione su tutto l'insieme dell'insegnamento e delle pratiche che caratterizzano il gruppo cristiano. Tutto scaturisce dalla fede ed è un'espressione di fede, eppure essa articola ed esprime ciò che i cristiani credono, la loro dottrina o «deposito» (un termine frequente nelle lettere pastorali). Perciò Paolo può dire che ora predica «la fede» che prima perseguitava (Gal 1,23), non intendendo certo dire che perseguitava delle persone che avevano fiducia in Dio; dice piuttosto che perseguitava coloro che accettavano tutto il sistema cristiano di verità che dava tanta importanza alla fede. Non va sottovalutato il fatto che la fede è così centrale per il Cristianesimo, tanto che questo può essere caratterizzato con questa stessa parola. Però qui non si intende il semplice esercizio della fiducia in Cristo, ma il modo cristiano di credere che deriva dalla fiducia. Questo si può vedere anche in un passo come: «Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova» (2 Cor 13,5). Queste parole sembrano significare qualcosa di più del «mettetevi alla prova se avete ancora fiducia in Cristo»; hanno di mira piuttosto una comprensione della verità che scaturisce dalla fiducia nel Salvatore. Lo stesso è per l'esortazione di Paolo ai Corinzi: «State saldi nella fede» (1 Cor

16,13), dove si pensa certamente all'insieme dell'insegnamento cristiano. I Filippesi sono esortati a combattere «per la fede nel vangelo» (Fil 1,27), dove si può vedere un uso molto chiaro della «fede» nel senso di contenuto dottrinale del vangelo che veniva predicato (a meno che non si intenda l'espressione nel senso della «fede causata dal vangelo»). Nelle lettere pastorali è importante che le persone, in particolare i capi, siano «saldi nella fede» (Tt 1,13; 2,2). Paolo profetizza che negli ultimi tempi alcuni «si allon- taneranno dalla fede» (1 Tm 1,4; cfr. 4,6). Ma quando sentiva che per la sua vita ormai si avvicinava la fine, egli scriveva: «Ho con- servato la fede» (2 Tm 4,7).

Leon Morris in: Dizionario di Paolo ( pp 605-615) Ed. Paoline 1999

GIACOMO : LA FEDE E LE OPERE

La Lettera di Giacomo può essere considerata un correttivo nei confronti di un cristianesimo di troppe parole, dibattiti, tavole rotonde e documenti e, anche, nei confronti di un cristianesimo di sole preghiere. Non è che Giacomo dimentichi «la Parola»: soltanto insiste dicendo che ciò che conta, alla fine, è essere « esecutore della Parola». Fin dall'inizio della sua lettera Giacomo denunzia, da angolature differenti, la dissociazione tra parola e azione, tra ascoltare e fare, tra fede e vita. Qualsiasi forma assuma e su qualsiasi pretesto si fondi, si tratta sempre per Giacomo di una dissociazione mortale. Egli non crede alla verità di una parola che non diventi gesto, o alla verità di una fede che resti conoscenza teorica. Il suo sguardo va dal visibile all'invisibile; solo dalle opere si riconosce la verità e la vitalità della fede, solo dal fare si riconosce la sincerità dell'ascolto. Per Giacomo non c'è altra seria possibilità di verifica. La preoccupazione di mantenere l'unità tra l'ascolto e la vita è il filo rosso, come già dicevo, che percorre tutta la lettera. Ma è in Gc 2,14-26 che questa preoccupazione si fa più esplicita, più intensa e, più probabilmente, polemica. Si legga Gc 2,14-17, dove il discorso assume la forma di un dibattito in cui compaiono il difensore e l'avversario, l'obiezione e la risposta. “ Che giova, fratelli miei se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti o sprovvisto del cibo

quotidiano e uno di voi dice loro: “ Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Cos’ anche la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa. L'oggetto della discussione è dichiarato nei due interrogativi iniziali: Che giova avere la fede senza le opere? Può forse la fede salvare l'uomo?

La prospettiva, dunque, è la salvezza (Giacomo pensa alla salvezza finale, al giudizio di Dio) e ciò che è definito inutile, incapace di dare salvezza è la sola fede. Non si nega l'importanza della fede, ma si sostiene che la fede da sola, senza le opere, non salva. Anzi, una fede senza le opere non è neppure fede. Non è poi un caso che fra le possibili opere che incarnano la fede, Giacomo abbia scelto un'opera di carità. Le opere della fede sono le opere dell'amore. La fede si realizza - cioè diventa vera – nelle opere dell'amore. Giacomo 2, 21, 25 così prosegue: “Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull`altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l`uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.” In Gc 2, 22 si legge un'affermazione particolarmente rivelatrice: «La fede agiva insieme con le sue opere e la fede è completata dalle opere». Così si dice di Raab. Giacomo, dunque, non accentua le opere a scapito della fede. Anch'egli sa molto bene che senza la fede non c'è salvezza. E neppure vede la fede e le opere come realtà distinte e semplicemente accostate, giustapposte. Fede e opere interagiscono in una vivente unità. La fede suscita e anima le opere e le opere mostrano la fede, inverandola. A questo punto il pensiero di Giacomo è chiaro: egli non colloca la fede da una parte e le opere dall'altra, come due realtà separate, sia pure ambedue necessarie per la salvezza, bensì afferma che la condizione per la salvezza è una sola: la fede che si trasforma in opera. A questo punto, a modo di conclusione della nostra riflessione, osserviamo una frase di Giacomo che sorprende (1,25) «La legge perfetta della libertà». Giacomo non intende la libertà della legge ma, al contrario, la libertà nell'obbedienza della legge. Questa paradossale coesistenza di libertà e obbedienza - che può suonare contraddittoria alle nostre orecchie - è in realtà profondamente biblica. Ma come intendere questa libertà nella legge? Lo specifico cristiano non è la libertà da, bensì la libertà per. Libero è chi si sottrae alla prigionia dell'egoismo per appartenere interamente al Signore. Un'appartenenza che libera, perché realizza la struttura più profonda, originaria, dell'uomo progettato per la comunione con Dio. Una legge può chiamarsi libertà se propone un cammino che realizza l'uomo e se, di conseguenza, non agisce sull'uomo dall'esterno, con violenza, ma muove l'uomo dall'interno, come una vocazione. Perché «perfetta»? L'aggettivo greco significa una realtà giunta a maturazione, completata, a cui non manca più nulla. Probabilmente Giacomo pensa al vangelo, manifestazione completa e definitiva del disegno salvifico di Dio. La legge dell'antica alleanza non è rinnegata, ma completata, come quando un frutto giunge alla sua piena maturazione («Non sono venuto per abolire, ma per condurre a pienezza», Mt 5,17). Paolo e Giacomo non assumono posizioni opposte. Forse in alcuni particolari, nel linguaggio, ma non nella sostanza. Paolo prende in esame il medesimo episodio di Abramo, concludendo però in una direzione che sembra - almeno a prima vista - del tutto opposta a quella di Giacomo. Paolo polemizza con i giudeo-cristiani che cercavano nelle opere la sicurezza della salvezza: quasi una salvezza-conquista, una salvezza-merito, anziché una salvezza-dono. Gli avversari di Paolo ponevano la loro fiducia nelle opere che compivano più che nella croce di Gesù. Giacomo, invece, polemizza contro certuni che vantavano una fede teoretica, di parole, di idee; una fede parlata, dichiarata, ma non praticata né mostrata. Paolo ha di mira i legalisti e Giacomo i lassisti. Giacomo non polemizza contro la giustificazione mediante la fede, bensì contro la pretesa di una giustificazione senza una vita impegnata. Anche Paolo ha sempre esigito una vita impegnata: condannava soltanto chi poneva la ragione della propria salvezza in se stesso, anziché nel gratuito amore di Dio. E se si studia la fede in Giacomo, si scorge che egli richiama le opere, ma mai disgiunte dalla fede. In ogni caso, Giacomo è il corrispettivo necessario perché Paolo non venga frainteso.

Bruno Maggioni : Il Dio di Paolo ( pp . 223-227) Ed. paoline 2008