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Numero 2 - Gennaio 2015 Riforme istituzionali, diritti civili, factory365 Ospite: Michele Orlando

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“ReagiRemo con più democRazia, più apeRtuRa e più diRitti”JENS STOLTENBERG

In questi giorni, guardando i telegiornali, leggendo la stampa, navigando sul web, mi sono vergognato. Mi vergogno ogni volta che sento chiedere ad un musulmano di prendere le distanze dai terroristi. È come se ogni volta che Israele bombarda la Palestina chiedessimo ad un ebreo di prendere le distan-ze, ad un cristiano di dissociarsi dagli estremisti che in nome del loro Dio compiono stragi (si veda l’Africa) o a noi occidentali di prendere le distanze dai nostri governi quando un missile cruise fa una strage in qualche mercato dell’Afghanistan. Situazioni impensabili, illogiche. A meno che non si tratti dell’Islam.

Lo fanno da tempo i media, nazionali ed internazionali. Ogni volta che qualche pazzo estremista compie un atto terroristico nei paesi del blocco occidentale ecco che riparte la solita trafila di edito-riali a mezzo stampa, o in televisione, che fanno a gara nel chiedere una presa di distanza da parte del mondo islamico. Siamo giunti ad un livello tale di colpevolizzazione che oggi quasi non c’è neanche più bisogno di chiederlo. In questi giorni abbiamo letto sui social network le parole di tantissimi ra-gazzi musulmani che si dissociavano da tutto quello che è successo a Parigi. È un sintomo. Il sintomo della distanza che abbiamo scavato tra noi e loro. Abbiamo fatto credere a questi nostri connazionali, a questi cittadini europei, di essere diversi. Abbiamo scritto e pensato che solo il fatto di pronunciare Dio, Allah, renda degli esseri umani a priori dei sospetti terroristi. Li abbiamo costretti a sentirsi in dovere di dimostrarci di non esserlo. La loro colpa sarebbe quella di “condividere” con i terroristi il credo religioso. Nella nostra fobia quotidiana siamo più attenti a vedere e sottolineare quegli aspetti che li accomunano rispetto a quello che invece li divide.

Sinceramente, quando leggo la storia di Ahmed e dei fratelli Kouachi non mi viene in mente che siano tutti musulmani. Penso subito che il primo fosse un uomo, un padre e marito, che aveva deciso

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di mettere la propria vita al servizio della Francia e dei suoi valori di libertà, uguaglianza e fraternità, mentre i secondi fossero degli esaltati manipolati da qualcuno che ha ben altri interessi che quello di affermare la “verità del Corano nell’Occidente corrotto”.

Guardo le differenze che ci sono tra gli uomini, perché di somiglianze, tra Lassana Bathily che mette in salvo sei persone in un minimarket preso d’assalto e coloro che imbottiscono di esplosivo una bam-bina di 10 anni, proprio non riesco a vederne.

Non siamo davanti ad una guerra di civiltà e men che meno di religione. Chi ce lo vuole far credere lo fa per qualche suo tornaconto Siamo davanti ad un terrorismo politico, come quello che gli europei, e gli italiani, conoscono bene. Da una parte chi cerca di proteggere le libertà e i valori laici della nostra società, dall’altra chi li vuole colpire e distruggere. E poco conta che i secondi siano neri, bianchi, gialli o cristiani, musulmani, atei. Perché chiunque siano i secondi, nei primi ci sono tutti. Perché la forza della nostra società sta proprio nelle parole che il primo ministro norvegese proferì a seguito della strage di Utoya: apertura, diritti, democrazia, non divisioni, accuse, paura.

Se lasceremo che le nostre paure facciano prevalere le divisioni e la barbarie intellettuale avremmo fatto il loro lavoro. Quel giorno noi, tutti, avremmo perso e loro vinto.

Non chiedetegli più che si dissocino e voi non giustificatevi, perché non avete nulla da dimostrare o da farvi perdonare. Siate invece orgogliosi di essere quello che siete, perché, prima di tutto, siete parte di questa società e dei suoi valori.

E non badiamo agli slogan. Non facciamoci dividere da essi come sta succedendo in questi giorni tra chi dice di essere Charlie e chi ribatte di essere Ahmed. Abbiamo voluto aprire questo numero, cambiandone la sua copertina, parlando dei fatti di Parigi. Nel far ciò abbiamo voluto richiamare il titolo di una canzone di un grande cantautore italiano, Fabrizio De André.

Non per istigare a morire per delle idee, ma per trovare il coraggio di vivere per delle idee. E a vivere tutti insieme, perché non esiste un noi e un voi, non esiste chi è Charlie e chi è Ahmed.

Oggi, siamo tutti Charlie e siamo tutti Ahmed!

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DIRITTI CIVILI

#FACTORY365

Ad un anno dalleprimarie, quattro giovani partecipanti ci raccontano di #Factory365

Inseguiamo l’Europa, ma sui diritti civili rimaniamo indietro

RIFORME ISTITUZIONALI

C’è chi dice che Renzi stiadistruggendo la Costituzione e chi afferma che la stia solo rinnovando

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IndiceSommario

Pantone185Numero 2 - Gennaio 2015Periodico mensiledi cultura politica

Direttore editoriale:Andrea Curcio

Hanno collaborato a questo numero:Matteo Domenighini - Giacomo Bressan - Fabrizio Mele - Roberto Gazzonis- Andrea Baldini - Vanessa Tullo - Matteo Gatto - Giulia Zambolin - Michele Cotti Cottini - Stefano Terzi - Jacopo Baraldi - Massimo Reboldi - Massimiliano Morato - Marco Turra - Michele Orlando - Pierluigi Costelli - Enrico Comini

Vignetta:Stefano Ferrara

Copertina:Stefano Ferrara

ControCopertina:Fabrizio Mele - Michele Loda - Daniel Loda

Contatti:[email protected]

Sito internet:www.bresciaacolori.it

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Riforme istituzionali

Diritti civili

#Factory365

L’ospite del mese

8 La politica nella Grecia in crisi

15 Ridiamo autorevolezza al Parlamento19 Fermiamo la riforma della Costituzione 22 Le Camere, circhi o cantieri di futuro?26 Portiamo a compimento una nuova

stagione di riforme28 Con questo “Italicum”, primarie per

legge

31 L’anno che verrà: l’amore non si dis-crimina

35 Diritti omosessuali, una frontiera di civiltà

38 Vorrei poter decidere di non soffrire più40 Odiamo gli indifferenti?

43 Imparate dai Giovani Democratici45 Factory365: un trampolino verso il futu-

ro48 I GD sono il presente del PD

51 Le riforme istituzionali: la sfida del PD, il fallimento dei 5 stelle

Sommario

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La Grecia

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La politica nella Grecia in crisi

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CRISI ECONOMICA E SOCIALE

La Crisi economica, effetto della Grande Re-cessione del 2008, ha trovato in Grecia “terre-

no fertile” grazie alla combinazione di debolezze strutturali dell’economia ellenica: un decennio di elevati disavanzi strutturali e dati elevati nel rapporto debito-PIL hanno inciso negativamen-te sui conti pubblici. Alla fine del 2009 i timori di una crisi del debito sovrano hanno portato gli investitori a dubitare della capacità della Grecia di rispettare i propri obblighi di debito. Ciò ha portato ad una crisi di fiducia, come si evince dall’aumento dello spread rispetto agli altri paesi

della zona euro, soprattutto la Germania. Dopo una consistente crescita economica nel

Dopoguerra, che non ha però attenuato le dispa-rità sociali e territoriali, la Grecia ha conosciuto una fase autoritaria di estrema destra, conosciuta come la “Dittatura dei Colonnelli” (1967-1974), che si accompagnò a una crisi economica (-6% PIL, 1974). Con il ritorno alla democrazia i go-verni greci che si sono susseguiti (sia socialisti che conservatori) hanno dilatato enormemente la spesa pubblica senza porvi un freno. Tali po-litiche erano caratterizzate da grandi deficit per finanziare enormi spese militari, un alto numero di posti di lavoro nel settore pubblico, le pensio-ni e altre prestazioni sociali.

L’economia greca ha conosciuto una rapida crescita dal 2000 al 2007. Durante questo pe-riodo il PIL è cresciuto ad un tasso annuale del 4,2%. Nonostante ciò, il paese ha continuato a registrare elevati deficit di bilancio ogni anno.

Prima dell’introduzione dell’euro la svaluta-zione della Dracma contribuiva a finanziare il debito pubblico greco, ma, dopo l’introduzio-ne dell’euro, lo strumento della svalutazione è scomparso. I problemi dell’economia greca sono stati messi in luce solamente quando la crisi fi-nanziaria globale ha raggiunto il picco nel 2008-2009. La crisi finanziaria ha avuto un impatto particolarmente negativo sull’economia greca: a partire dal 2008 si è registrato un aumento no-tevole del rapporto debito-PIL che è passato dal 127% nel 2009 al 146% nel 2010, sino a raggiun-gere il 175% del 2013; negli stessi mesi del 2009 il Commissario all’economia dell’UE Olli Rehn ha sostenuto che “La Grecia ha avuto una dinamica del debito particolarmente precaria e la Grecia è l’unico Stato membro che ha “truffato” con le sue statistiche false per anni e anni”. Si è constata-to infatti che, durante il governo di centrodestra guidato da Costas Karamanlis (ND), Goldman Sachs e altre banche avevano aiutato il governo

di Enrico Comini

tRa il 2008-2014 è stato spazzato via il 25% del

pRodotto inteRno loRdo della gRecia

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La Grecia

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greco a nascondere parte dei suoi debiti. Nel 2010 i paesi della zona euro, la Banca cen-

trale europea (BCE) e il Fondo monetario inter-nazionale (FMI), cioè la “Troika”, hanno risposto con il lancio di € 110 miliardi di prestito per il salvataggio della Grecia dal default sovrano e per coprire le esigenze finanziarie fino al giugno del 2013. Tutto ciò subordinato alla realizzazio-ne dell’“austerity”, alla promulgazione di riforme strutturali e alla privatizzazione dei beni pubbli-ci.

L’anno seguente, l’aggravarsi della crisi e il ri-tardo nell’attuazione delle condizioni concorda-te nel programma di salvataggio hanno portato all’istituzione di un secondo piano di salvatag-gio, ratificato nel febbraio 2012, del valore € 130 miliardi. Inoltre la Troika ha deciso, nel dicem-bre del 2012, di adottare ulteriori misure per la riduzione del debito, mentre il FMI ha esteso il suo supporto con un supplemento di € 8,2 mi-liardi di finanziamenti anche nel periodo dal gennaio 2015 al marzo 2016 (quando nel “piano” la scadenza coincideva con il Dicembre 2014).

La crisi ha colpito particolarmente il settore del trasporto (marittimo), l’edilizia e il turismo, di fatto i settori trainanti della fragile economica ellenica.

Ad aggravare la condizione dei conti pubblici greci è un altro problema persistente: l’evasione fiscale. In Grecia, a fronte di un totale di evasio-ne fiscale valutato intorno ai 42 miliardi di euro l’anno, solo cinquemila contribuenti dichiarano un reddito superiore ai centomila euro all’anno.

Tra i piccoli evasori c’è pure il 43% di pensio-nati greci che svolge un’attività lavorativa sul cui compenso non paga le tasse. Inoltre si riscon-tra nelle isole e, in genere, nelle località turisti-che, un’evasione che si attesta quasi al 100%. E’ proprio l’evasione fiscale che rende intollerabile l’austerità greca. I dipendenti pubblici e i lavo-ratori privati, oltre che i pensionati, si sono visti ridurre pensioni e salari oltre che aumentare la pressione fiscale, mentre gli autonomi hanno, in maggioranza, continuato a frodare il fisco. Non tutti ovviamente, ma le cifre del disastro greco raccontano che l’evasione fiscale è stata tolle-rata per decenni a livello di massa a vantaggio

di intere categorie che beneficiavano dei servizi pubblici gratuiti senza contribuire però al loro funzionamento. Vizio mediterraneo.

Dati del 2012 stimano che il “mercato nero” greco sia attorno al 24,3% del PIL rispetto al 21,6% dell’ Italia e al 13,5% della Germania. Posta la correlazione tra lavoro autonomo ed evasione fiscale è bene notare come il 31,9% dei lavoratori greci rientri nella categoria degli “au-tonomi”, una massa notevole in grado di condi-zionare pesantemente i risultati elettorali.

Gli effetti della crisi economica si sono tra-dotti in un vero e proprio dramma sociale. La disoccupazione in Grecia è passata dal 7,5% del 2008 al 28% circa del 2013 e ad oggi si attesta ancora al 26%. Insomma ad oggi non si vede an-cora l’inversione di rotta che pure il ritorno sul mercato dei bond societari da parte di qualche banca locale sta a testimoniare. Il numero dei greci senza lavoro resta ancora elevatissimo, nel lasso di tempo 2008-2014 è stato spazzato via il 25% del Prodotto interno lordo della Grecia e il debito pubblico resta ancora ancorato a cifre “stellari”.

La gravità della crisi e i suoi effetti nefasti non possono che contribuire ad aprire scenari inediti nella vita politica greca.

POLITICA

La crisi economica ha avuto enormi ripercus-sioni sul fragile sistema politico greco. Nuovi

partiti, spesso provenienti dalle frange più estre-me del sistema politico, sono emersi dal nulla e grandi partiti storici sono collassati. Lo scenario è molto mutevole e incerto. Di seguito saranno analizzati sommariamente gli esiti delle elezioni che si sono susseguite durante il periodo della Crisi.

politicamente, con le elezioni del 2012, si

può ancoRa paRlaRe di una “tenuta” dei paRtiti

goveRnativi filo-tRoika.

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Dopo il fallimentare governo di Nuova De-mocrazia, il partito conservatore greco, guidato da Karamanlis (ND), sono state convocate ele-zioni anticipate per l’ottobre 2009 in cui ha vinto George Papandreou, leader del PASOK, il Movi-mento Socialista Panellenico.

Nel panorama politico greco il bipartitismo era consolidato ormai da decenni e nelle elezioni del 2009 non c’è stato uno scostamento significa-tivo da tale peculiarità. I socialisti si sono affer-mati con quasi il 44% e ND è scesa al 33,5%.

Al momento dell’inaugurazione, il governo di Papandreou ha rivelato che le finanze pubbliche versavano in una situazione molto peggiore di quanto precedentemente annunciato dal gover-no Karamanlis, con un deficit annuo del 12,7% del PIL e un debito pubblico di 410 miliardi di dollari. Papandreou, consapevole dell’estrema gravità della situazione, ha risposto attraverso la promozione di misure di austerità, la riduzione della spesa pubblica con tagli pesanti al Welfare, l’aumento delle tasse, l’introduzione di misure volte a combattere l’evasione fiscale e delle pri-vatizzazioni.

L’esecutivo socialista è riuscito a convincere il FMI e l’UE a partecipare a un pacchetto di sal-vataggio della Grecia con € 110 miliardi. Negli stessi mesi la crisi economica ha colpito dura-mente l’economia e i redditi della maggioranza della popolazione. L’adozione delle misure di au-sterità ha portato nelle piazze masse imponenti di cittadini.

Il 25 maggio 2011, il movimento “democrazia reale ora!” ha iniziato a protestare ad Atene. Si apriva un periodo di aspre lotte sociali e di ma-nifestazioni di massa.

Nel 2011 la Grecia versava in una crisi tale che era ormai messa in conto un’eventuale bancarot-ta. Era la fase più aspra della crisi dell’Eurozona, che ha determinato la distruzione del consenso del Partito socialista e ha portato il premier a dimettersi nel novembre del 2011, dopo la con-troversa proposta di sottoporre a referendum popolare il piano di aiuti internazionali a favore della Grecia. Un referendum che avrebbe messo in gioco la permanenza di Atene nell’Eurozona. La proposta è stato pertanto bocciata duramente

dagli altri stati dell’UE e, in particolare, da Ange-la Merkel, che ha minacciato di lasciare il Paese al suo destino.

Il premier George Papandreou, comprenden-do la gravità e l’eccezionalità della situazione, ha deciso di collaborare con l’opposizione con-servatrice, la stessa che aveva “truccato” i conti pubblici. Nel novembre dello stesso anno, con un accordo con Antonis Samaras, leader di ND, il Pasok ha dato vita a un governo “tecnico” di emergenza nazionale, guidato dall’economista Papademos, sotto la stretta sorveglianza della Troika, costituita da FMI, UE, BCE. Tale gover-no avrebbe dovuto traghettare il paese a nuove elezioni anticipate.

Nel maggio 2012 si sono tenute nuove elezio-ni. Il malessere sociale della maggior parte dei greci non poteva che sancire una forte penaliz-zazione per il Pasok di Papandreou, responsabile delle riforme “lacrime e sangue”. Ma in generale nel paese prevaleva un sentimento di rabbia nei confronti dell’establishment politico che aveva guidato il paese negli ultimi decenni. Hanno prevalso così quei partiti da sempre outsider e marginali, come SYRIZA, che hanno fatto pro-prie le istanze anti-austerity.

Il risultato delle elezioni del maggio 2012 ha visto una frammentazione del voto tale da non consentire la formazione di un governo. ND si è attestata come primo partito con il 18,9%, Syriza ha conosciuto un boom raggiungendo il 16,8% e il Pasok è crollato al 13,2%.

L’elettorato è stato così richiamato alle urne nel mese successivo, nel giugno del 2012. Sama-ras (ND) è stato in grado di aggregare attorno a sé il voto moderato, timoroso di un’avanzata

il pasok è oRmai consideRato “modeRato”

dall’elettoRato tRadizionalmente di

sinistRa peR aveR attuato alla letteRa le politiche

di austeRity

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La Grecia

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della sinistra, che, infatti, con Tsipras, leader di Syriza, si è attestata al 26,89%. Politicamente, con le elezioni del 2012, si può ancora parlare di una “tenuta” dei partiti governativi filo-Troika. Infatti sino ad oggi l’esecutivo Samaras, governo che include anche il Pasok, ha continuato a se-guire i diktat imposti dalle istituzioni europee. L’eccezionalità della crisi economica e sociale in questi anni, però, ha portato molti elettori da sempre vicini ai partiti “governativi” a cambiare opinione e a votare diversamente.

Le elezioni europee del maggio 2014 sono una testimonianza effettiva di una tendenza che i sondaggi già prospettavano da mesi: Syriza è diventato il primo partito greco con il 26,57% (+21,87% dal 2009) e ND di Samaras è scesa al 22,72%. I socialisti, presentatisi in coalizione con altre formazioni minori ne “l’Ulivo”, si sono fer-mati a un magrissimo 8,02%, superarti da Alba Dorata, partito di estrema destra noto per le sue posizioni xenofobe.

I partiti che sostengono il governo Samaras complessivamente superano di poco il 30% dei voti: un’ulteriore netta bocciatura delle politiche di Austerity.

Nel Pasok, dopo aver preso atto dell’ennesima debacle, si sono aperte aspre polemiche interne fomentate dalla corrente più vicina all’ ex pre-mier Papandreou. Egli ha accusato il vicepre-mier socialista, Evangelos Venizelos, di aver per-

so contatto con la sua base elettorale, che gli ha voltato le spalle per rivolgersi a Syriza. Il Pasok è ormai considerato “moderato” dall’elettorato tradizionalmente di sinistra per aver attuato alla lettera le politiche di austerity imposte dalle isti-tuzioni europee senza essere in grado di attacca-re i privilegi, di distribuire equamente i sacrifici e di affrontare efficacemente la piaga dell’infe-deltà fiscale.

Il Pasok nei sondaggi degli ultimi mesi si atte-sta attorno al 5% e qualcuno teme che non pos-sa raggiungere la soglia di sbarramento del 3% alle prossime elezioni. Tale disastro annunciato ha indotto la corrente di Papandreou ad abban-donare la barca alla deriva prima che affondi e a “riverniciarsi” di nuovo con una formazione, sorta pochi giorni fa, chiamata “Movimento per il cambiamento”.

Il manifesto politico del Movimento non è ancora stato esposto, ma si può prevedere rical-chi quello del Pasok, magari con qualche con-cessione populistica in più per contendere i voti a Syriza.

Il 2014 greco si è chiuso con la mancata ele-zione del Presidente della Repubblica e dunque con la convocazione di elezioni politiche an-ticipate per il 25 gennaio 2015. E’ un passag-gio politico di grande importanza, destinato a segnare un anno che, in Europa, si concluderà con le elezioni in Spagna (dove già a maggio si voterà per i comuni e le regioni, chiamate “auto-nomie”), paese che conosce un dramma sociale di massa analogo a quello greco. E’ evidente che quelle greche non saranno elezioni di rilevanza solo nazionale: le pesanti ingerenze del governo tedesco e il terrorismo psicologico operato dal-le istituzioni europee e finanziarie inducono a pensare che in gioco vi sia l’assetto complessivo dell’UE, ridefinito e mutato (geneticamente?) in questi anni attraverso la gestione della crisi.

Syriza, con la sua promessa di rinegoziare l’accordo di salvataggio sottoscritto da Atene e di svalutare gran parte del debito pubblico, pur rimanendo nell’Euro, si conferma in testa alle preferenze, davanti a Nea Dimokratia (ND).

Nessuno dei due partiti in testa ai sondaggi sembra in grado di raggiungere la maggioranza

l’occasione che si pResenta è quella di

spezzaRe il bipolaRismo tRa ppe e il pse e,

sopRattutto, il dominio del pensieRo unico, cioè

quel “gRande centRo” che ha RappResentato la

coRnice politica che ha goveRnato l’euRopa in

questi anni

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assoluta e poter formare un governo monocolo-re. Se questo fosse il risultato del voto, l’ago della bilancia per le sorti di Atene sarebbe nelle mani dei partiti minori. Considerando questo scena-rio è plausibile che la mossa di Papandreou sia per lo più “tattica”.

Secondo alcuni sondaggi effettuati prima dell’annuncio della scissione del Pasok, la forma-zione politica guidata da Papandreou potrebbe arrivare al 4-5% dei voti

In queste condizioni, la partita che si appre-sta a giocare Syriza è complicata. Nelle prossime scadenze elettorali in Grecia e in Spagna si gioca una partita fondamentale per aprire nuovi spazi politici in Europa.

L’occasione che si presenta è quella di spezzare il bipolarismo tra PPE e il PSE e, soprattutto, il dominio del pensiero unico, cioè quel “grande centro” che ha rappresentato la cornice politica che ha governato l’Europa in questi anni. Tale contesto politico “governativo” è, seppure con sfumature diverse, legato all’ideologia neoliberi-sta, per cui è il Mercato il deus ex machina che impone, senza alternative possibili, una certa ge-stione delle istituzioni europee (come degli stati nazionali) e dei rapporti capitale-lavoro.

A fronte di questo “pensiero unico” anche il Pse non sembra capace di offrire un’alternativa credibile. Nelle nazioni più fragili, Grecia e Spa-gna, Syriza e Podemos hanno svuotato il centro-sinistra classico, poiché identificato come facen-te parte del “Partito di Wall Street”, il partito del pensiero unico liberista.

Accusato dalla sinistra emergente in Grecia e Spagna di aver “attentato alle condizioni di vita dei lavoratori”, di “aver incentivato la precarietà”, “imposto tagli ai salari” e aver privatizzato molti beni pubblici, il “grande centro europeo” ha fini-to per partorire una pletora di destre xenofobe, a partire da Alba Dorata per arrivare al Front National francese, passando per la Lega Nord di Salvini, che fanno facilmente presa sui ceti po-polari e sulle “vittime” della crisi.

Ceti medi impoveriti trovano spesso nella xenofobia, negli anni della crisi diventata, non a caso, sempre più collante per delle forze etero-genee e populiste, una forma rozza, ma tangibi-

le, per scaricare la frustrazione della perdita di status sui “diversi”, che sono spesso i più deboli.

Queste tendenze estremiste, seppur ancora relativamente minoritarie, sembra che abbiano un forte radicamento nelle società europee.

Non sarà certo un’elezione a modificare il qua-dro della situazione. Tuttavia, il concatenamento tra le elezioni greche e quelle spagnole può apri-re un cambiamento reale.

Tanto Syriza in Grecia quanto Podemos in Spagna parlano ormai esplicitamente della ne-cessità di ricostruire un’ipotesi “socialdemocra-tica” da costruire concretamente in alternativa allo status quo politico imperante. Pur consa-pevoli della inadeguatezza della socialdemocra-zia storica, ormai obsoleta per i mutamenti del mondo del lavoro avvenuti negli ultimi decenni, non si vuole disperdere un patrimonio ideale che con la crisi è apparso sempre più urgente e più che mai attuale: esso si può riassumere nell’i-dea di “Giustizia Sociale”. ◆

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Riforme istituzionali

Negli ultimi 20 anni le riforme istituzionali sono da sempre nell’agenda dei partiti italiani. La discussione sulla riforma delle istituzioni dello Stato, fin da prima dello scandalo di tangentopoli, ha coinvolto tutti gli attori della società italiana producendo proposte anche fortemente in antitesi tra loro.

Se si esclude la riforma del titolo V, però, la Costituzione è cambiata ben poco rispetto alla sua entrata in vigore.

Nell’ultimo anno, il Governo Renzi ha portato in Parlamento la sua proposta che, come mai prima d’ora, riscrive completamente le basi del-la nostra repubblica. Inevitabilmente si è acceso un dibattito tra chi è a favore e chi è contro.

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Negli ultimi mesi dello scorso anno, l’associazione OpenPolis

ha pubblicato una classifica di pro-duttività parlamentare che, seppur basata su indici quantitativi più che su quelli qualitativi, ha evidenziato la forte spaccatura che esiste tra quei pochi parlamentari che ricoprono incarichi di vertice (presidenti, ca-pigruppo e segretari) e la restante componente parlamentare. L’unica eccezione a questo dato è costituita dal gruppo parlamentare del Movi-mento 5 Stelle dove, data la recente costituzione dei gruppi parlamen-tari, non sono ancora presenti ge-rarchie fortemente definite, seppur negli ultimi mesi, con la nascita del direttorio si stia assistendo anche nel M5S ad una svolta in tal senso.

La classifica illustra in maniera molto chiara come l’iniziativa legi-slativa sia nelle mani di pochi che concentrano su di loro gran parte del lavoro parlamentare. A questo primo “indizio” si affiancano i dati relativi al fenomeno chiamato “fi-ducite”, cioè il tasso di votazioni di

fiducia sul totale dei voti parlamen-tari, (si veda il grafico a pagina 17) e quelli sul rapporto tra le leggi di ini-ziativa governativa approvate e quel-le di iniziativa parlamentare. Come si direbbe se fossimo in un film po-liziesco, tre indizi fanno una pro-va: nell’attuale situazione politica, il Parlamento ha una scarsa autorevo-lezza ed è stato, di fatto, esautorato della gran parte delle sue prerogative da parte del potere esecutivo.

Da ultimo, va aggiunto che la ri-forma istituzionale oggi in discus-sione alle Camere ha tra i suoi pi-lastri fondamentali il rafforzamento del potere esecutivo attraverso l’in-troduzione di meccanismi che age-volino l’iniziativa governativa a di-scapito di quella parlamentare.

Fughiamo fin da subito il dubbio; nonostante abbia dato un forte im-pulso a questa tendenza, il Governo Renzi non è il principale responsabi-le dell’attuale situazione. Se la discus-sione su un rafforzamento del potere esecutivo è vecchia quanto la forma repubblicana dello Stato, si è assisti-

ANDREA CURCIOLaureando in Ingegneria Informatica, è resp. or-ganizzazione dei Giova-ni Democratici bresciani e membro dell’assemblea cittadina del PD. In pas-sato ha riccoperto il ruolo di Senatore Accademico dell’Università di Brescia.

RIDIAMO autorevolezza al parlamento

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Riforme istituzionali

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to ad un forte calo dell’autorevolezza del Parla-mento solamente negli ultimi 20 anni, a parti-re dallo scandalo Tangentopoli. Non è un caso, però, che tale fenomeno abbia avuto una brusca accelerata con l’introduzione, nel 2005, della leg-ge elettorale Calderoli, conosciuta anche con il nome di Porcellum. Da allora, e per 3 legislature, i parlamentari sono stati più nominati dai partiti che eletti del popolo. Nonostante alcuni partiti abbiano cercato attraverso lo strumento delle primarie di ridare credibilità alla figura del par-lamentare, si è accentuato il distacco tra cittadini e parlamento. Oggi, meno di un cittadino su 10 afferma di avere molta o abbastanza fiducia nei confronti dell’istituzione parlamentare.

È evidente come sia necessario adottare ini-ziative volte a ristabilire l’autorevolezza del Par-lamento e la fiducia dei cittadini nei suoi con-fronti. Per far ciò, è fondamentale ripristinare un equilibrio tra il potere esecutivo e quello legi-slativo evitando una sottomissione, già presente di fatto, del secondo al primo. Per far ciò è ne-cessario operare attraverso due azioni di stampo

politico legislativo: i partiti debbono cambiare e rendersi più trasparenti, sia nelle loro azioni sia nelle loro strutture, ritrovando così il ruolo gui-da dello sviluppo del paese; i parlamentari de-vono tornare ad avere un collegamento diretto e forte con i propri elettori, essendo essi la fonte della loro legittimazione e autorevolezza.

Per quanto riguarda il primo punto, biso-gnerà lavorare per rendere effettivo l’articolo 49 della Costituzione che stabilisce come i partiti siano lo strumento attraverso il quale i cittadini concorrono alla vita politica della nazione. Una democrazia rappresentativa non può più accet-tare la mancata regolamentazione di quelli che dovrebbero essere gli anticorpi contro il popu-lismo e la deriva autoritaria. Bisogna ristabilire, anche in questo caso, il rapporto di fiducia tra cittadini e partiti. Il punto di partenza non può che essere una battaglia, estirpandolo alla radi-ce, contro il malaffare che negli ultimi anni ha messo le radici in tutti i partiti italiani. Sarà ne-cessario stabilire, in modo chiaro, le regole della democrazia interna e le sue strutture, la traspa-

La fiducia degli italiani nel parlamento

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renza finanziaria e porre rimedio al vulnus cre-ato dall’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (chi, come e con quali limiti si può fi-nanziare un partito politico). In altre parole sarà necessario dire ai cittadini quali saranno, da oggi in poi, i diritti e i doveri dei partiti politici e quali saranno le sanzioni nei confronti di quei politici che commetteranno reato.

Senza una vera azione sul secondo aspetto, però, qualunque riforma sarebbe vana. Il parla-mentare deve tornare ad essere un rappresentan-te territoriale e come tale deve essere fortemente legato al territorio e ai cittadini che su quel ter-ritorio vi abitano. Bisogna permettere al citta-dino di sapere con certezza chi è il suo diretto rappresentante politico. In altre parole, l’eletto dovrà doverci mettere la faccia ogni qual volta prenderà una decisione in Parlamento e il citta-dino dovrà poter sapere chi punire o premiare nell’urna ogni 5 anni.

Per questo motivo, l’impianto generale della riforma istituzionale del Governo Renzi richiede un cambio repentino della legge elettorale. Con

un Senato elettivo di secondo livello e la Camera dei Deputati che diventerà l’unico vero organo legislativo è necessario approvare una legge elet-torale che possa garantire tre requisiti: un rap-porto diretto cittadini-parlamentare da cui far discendere l’autorevolezza del parlamentare ma anche una sua diretta responsabilità; un conteni-mento dei costi della politica per evitare, quanto possibile, le tentazioni del malaffare; la creazione (nel limite del possibile) di una maggioranza di governo stabile.

Il sistema elettorale che consente di raggiun-gere questi tre risultati è quello del collegio uninominale. I piccoli collegi e l’assenza del-le preferenze consentirebbero, da una parte un abbattimento dei costi della campagna eletto-rale (si pensi che la spesa media per le elezioni europee, dove si hanno le preferenze e i colle-gi sono sovraregionali, si attesta, per candidati eleggibili di grossi partiti, attorno ai 150mila euro) e dall’altra un rapporto diretto tra il citta-dino e il candidato. Inoltre, diversi studi hanno dimostrato come con una legge a collegio uni-

Dal suo insediamento, il 22 feb-braio 2014, il governo Renzi ha chiesto, ed ottenuto, il ricorso al voto di fiducia 29 volte su 55 (16 volte alla Camera e 13 al Senato) per una percentuale di “fiducite” pari al 52%.

Dalla XIII legislatura (quella del governo Prodi I) ad oggi, nessun Governo ha avuto un tasso così alto di ricorso alla fiducia.

Inoltre, se dalle 55 votazioni vengono tolte quelle relative alla ratifica dei trattati internazionali, la percentuale sale fino al 74% con 29 voti di fiducia su un totale di 39.

Dati al 2 Dicembre 2014 Associazione OpenPolis

52,72

24,32

45,13

16,42

33,93

15,03

5,58

0

1,33

1,99

9,07

0 10 20 30 40 50 60

Renzi

Letta

Monti

Berlusconi IV

Prodi II

Berlusconi III

Berlusconi II

Amato

D'Alema II

D'Alema I

Prodi I

Tasso Fiducia - Leggi approvate

La fiducite

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nominale il voto dell’elettore è più influenzato dalla figura del candidato rispetto al partito che l’ha candidato. Ciò porterebbe ad una maggiore attenzione e responsabilità da parte dei partiti nella scelta dei candidati alle elezioni politiche e, al contempo, darebbe una propria autorevolezza ed autonomia al parlamentare rispetto al potere esecutivo che, di conseguenza, avrebbe una mi-nor “forza di ricatto” nei confronti degli eletti. Infine, aspetto da non sottovalutare, essendo il collegio uninominale di tipologia maggioritaria, si garantirebbe una forte spinta verso la gover-nabilità e verso una razionalizzazione del siste-ma politico italiano (come dimostrato anche dai sistemi francese ed inglese) senza adottare le forzature tipiche dell’Italicum che, attraverso artifizi regolamentari, impone ad ogni costo una maggioranza anche quando questa è ben lontana

dall’essere presente nel paese. È attorno alla scelta della legge elettorale che

si gioca il rilancio del sistema istituzionale ita-liano e, di conseguenza, del rafforzamento della nostra democrazia rappresentativa. ◆

Il sistema a collegi uninomi-nali, seppur ne esista una sua versioni anche per i sistemi proporzionali, è il tradizio-nale modello utilizzato nelle leggi elettorali a stampo mag-gioritario. Esempi di leggi elettorali che utilizzano i col-legi uninominali sono quel-le statunitensi, britanniche e francesi. Anche in Germania la legge elettorale, seppur di stampo proporzionale, preve-de la ripartizione di una parte dei seggi del Bundestag attra-verso l’adozione dei collegi uninominali.

Il sistema prevede, in modo molto semplificato, la suddivisione del territorio statale in tanti collegi quanti sono i posti da assegnare (ad esempio nel caso italiano, es-sendo la Camera dei Deputati attualmente composta da 630

membri, il territorio italiano verrebbe suddiviso in altret-tanti collegi). Tale suddivisio-ne, anche se nelle democrazie più antiche segue anche logi-che di carattere storico, mira a disegnare dei collegi omoge-nei e continui a livello territo-riale e sociale e, al contempo, che contengano un numero di elettori che non si discosti dalla media nazionale in mi-sura maggiore di quella tolle-rata dalla legge.

In ciascun collegio le liste elettorali (che possono essere singoli partito o coalizioni) possono presentare un solo candidato a testa. L’elettore si trova così a scegliere tra una serie di accoppiate candida-to-lista elettorale, dove non è possibile il voto disgiunto tra candidato e lista. Nei sistemi a turno unico (statunitense,

britannico e tedesco) risul-ta eletto il più preferenziato anche se non raggiunge la maggioranza più uno dei voti (maggioranza relativa). Nei sistemi con il doppio turno (es. modello francese) invece, se al primo turno nessuno dei candidati raggiunge il 50%+1 delle preferenze, i candidati che superano una determi-nata soglia percentuale (o in alcuni casi i due più prefe-renziati) accedono al secondo turno, detto anche ballottag-gio.

Infine, seppur non stretta-mente correlato con la legge elettorale, alcuni sistemi (es. quello statunitense) preve-dono un sistema di primarie a monte delle elezioni vere e proprie per scegliere i candi-dati dei singoli partiti. ◆

i collegi uninominali

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“Si è concluso l’esame della riforma costituzionale nella commissione Af-fari costituzionali di Montecitorio, il 16 dicembre inizierà la discussione in Aula.”

Questa la notizia di qualche setti-mana fa.

La parola “riforma” in se è di buon auspicio ad un cambiamento positi-vo, ma nel nostro Paese purtroppo è da tanti anni che questa parola è sinonimo di modifiche alquanto di-scutibili sul piano di miglioramento e per certi versi ha assunto un signi-ficato di esito peggiorativo (vedi ri-forma del lavoro, riforma delle pen-sioni ecc…).

Essenzialmente la riforma co-stituzionale stravolge i compiti del senato e così facendo tende a mo-dificare gli equilibri istituzionali del nostro Paese.

Prima di iniziare l’analisi del te-sto di questa riforma, vorrei soffer-marmi sulle apparenti motivazioni che vengono citate per giustificare un tale cambiamento. La questione

che viene posta da chi vuole cambia-re l’assetto istituzionale del nostro Paese è quella che il bicameralismo perfetto rallenta e talvolta impedisce al parlamento di operare nei tempi adeguati.

Questa è una falsa verità; basta citare qualche dato per smentire chi afferma ciò: in Italia ci sono circa 18 000 leggi contro le 7 000 Francesi, le 5 500 Tedesche e 3 000 Inglesi. (“Le fonti del diritto italiano: appunti, Giappichelli, Torino, 2004”), quindi non è vero che il parlamento elabora poche leggi, anzi, fin troppe!

Per chi invece sottolinea che il tempo delle approvazioni delle leg-gi è lungo e tortuoso è sufficiente ricordare che il Lodo Alfano venne approvato in soli 20 giorni, a dimo-strazione che basta la volontà politi-ca di fare una legge.

Sfatato il mito della necessità di modificare il senato per velocizzare e snellire l’approvazione delle leggi, i sostenitori di questa riforma potreb-bero volerci far credere che si avrà

MARCO TURRAStudente di economia a Brescia, è un militante del Movimento 5 Stelle per il quale è stato candidato alle elezioni regionali lombarde del 2013

Fermiamo la riforma della costituzione

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un grande risparmio, si ipotizzava addirittura 1 miliardo di euro all’anno. Niente di più illusorio, perché sì, vengono sottratti i 265 stipendi dei se-natori, ma tutti gli uffici, la struttura, l’organizza-zione rimane, oltre a dover loro rimborsare un contributo per le spese di trasferta. Se veramen-te l’obiettivo era il risparmio sarebbe bastato un dimezzamento degli stipendi parlamenti o più drasticamente il dimezzamento del loro numero. Queste due semplici opzioni però non sono state nemmeno prese in considerazione.

Ultima nota prima di entrare nell’analisi della riforma: chi sta facendo questo riforma?

La riforma verrà ratificata da un parlamento delegittimato dalla Corte Costituzionale, la qua-le dichiarò che la legge elettorale con cui sono stati eletti i parlamentari (il Porcellum per inten-derci) è incostituzionale. Quindi se non legal-mente, almeno moralmente, ad oggi siedono in parlamento persone che non dovrebbero esserci e che non sono legittimati a votare la nuova ri-forma costituzionale.

La riforma è stata decisa con il patto del Naz-zareno tra Silvio Berlusconi (che ha delegato De-nis Verdini che giusto per dovere di cronaca, vo-glio ricordare è indagato nell’inchiesta sulla P3 e che gli vengono contestati i reati di associazione a delinquere finalizzata a episodi di corruzione, abuso d’ufficio e finanziamento illecito) e Matteo Renzi Primo ministro del nostro Paese che non è stato legittimato da una volontà popolare ad attuare questa riforma. (Né lui, né un suo pro-gramma politico sono stati votati dai cittadini italiani).

Questa è la premessa.Per comprendere al meglio le logiche dell’as-

setto istituzionale del nostro Paese, farò un breve riassunto sull’attuale condizione e spiegherò poi le modifiche che si vogliono apportare.

Attualmente l’Italia è una repubblica parla-mentare. Questo sottintende la centralità del parlamento, esso infatti è la rappresentazione democratica del popolo italiano.

Il Parlamento è formato da camera e senato; questi due organi hanno pari poteri e dialogano costantemente. Fu scelto questo assetto per far si che le leggi venissero lette e discusse da entram-

be le camere così che in corso d’opera una leg-ge potesse essere corretta e migliorata dall’altra camera. Questo sistema ha garantito fin qui la democrazia nel nostro paese Italia.

Il parlamento elegge la Corte Costituzionale, il Presidente della Repubblica e il Governo.

Ora, modificare anche una sola camera com-porta cambiare gli equilibri dell’intero assetto istituzionale della Repubblica Italiana.

Il punto fondamentale è che l’attuale riforma non permetterà più l’elezione da parte dei citta-dini dei senatori che invece verranno eletti tra i consiglieri regionali. Di fatto vuol dire che i politici sceglieranno altri politici per fare i se-natori: in tutto saranno 100 di cui 74 eletti tra consiglieri regionali, 21 tra i sindaci e 5 di no-mina presidenziale. Se ne deduce che i sindaci e i consiglieri regionali scelti, come dopo lavoro avranno il compito di legiferare nelle vesti di se-natori, avranno il tempo per farlo bene ??

I compiti spettanti al nuovo Senato, in armo-nia con la Camera dei Deputati, saranno le rifor-me costituzionali, le leggi costituzionali, le leggi sui referendum popolari, le leggi elettorali degli enti locali, il diritto di famiglia, matrimonio e salute e le ratifiche dei trattati internazionali. Il nuovo Senato inoltre, potrà avere un potere con-sultivo su tutti i lavori svolti dalla camera. Non esprimerà più il voto di fiducia al governo.

I rischi insiti in questa riforma sono molte-plici:

I senatori NON eletti dai cittadini potran-no modificare la Carta Costituzionale, votare il Presidente della Repubblica e votare i membri della Corte Costituzionale, questi organi sono fondamentali per il nostro assetto istituzionale e sarebbero alla completa mercé di politici eletti da altri politici. La camera che promulgherà le leggi, di fatto sarà una sola, non ci sarà più l’altra camera a discutere e migliorare i testi di legge.

Non solo ma con la nuova riforma elettorale il governo acquisterebbe più potere non avendo bisogno dell’approvazione del senato e si rischie-rebbe una dittatura della maggioranza.

In conclusione, i nostri padri fondatori scris-sero la nostra Carta Costituzionale memori della guerra e del fascismo, illustri personaggi dell’au-

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torità di Nenni, Pertini, Ruini stilarono le regole fondamentali dello stato basate su pesi e con-tro-pesi per permettere l’attuazione di una vera e piena democrazia.

Ora Berlusconi e Renzi intendo apportare delle modifiche senza curarsi di quei pesi e con-tro pesi che per tanti anni hanno salvato l’Italia da una possibile svolta autoritaria.

Molti costituzionalisti hanno firmato un ap-pello per impedire che ciò accada.

I nomi sono dei più illustri, qui un breve elen-co:

Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Gaeta-no Azzariti, Elisabetta Rubini, Alberto Vannuc-ci, Simona Peverelli, Salvatore Settis, Costanza Firrao

Informa, condividi e partecipa anche tu per fermare questa riforma costituzionale. ◆

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Le Camere,circhi ocantierIdi futuro?

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Parlamentari che giocano in aula, imprecisioni nelle leggi, com-

mi spariti, valanghe di voti di fi-ducia, corse ad ostacoli sui banche del governo, sedute fiume, senatori addormentati, deputati che guarda-no le partite, ghigliottine, canguri... Immagini, fatti che ci hanno colpi-to fortemente a tutti, che ci hanno scandalizzato, spesso solo il tempo di una condivisione su facebook.

Davanti a questo c’è chi vedreb-be di buon grado la chiusura delle aule del parlamento, la loro trasfor-mazione in “bivacco di manipoli”. Queste pulsioni non mi apparten-gono, non devono appartenere ad alcuna cultura democratica e non ritengo nemmeno siano da prende-re in considerazione. Una riflessio-ne sul come vengono individuati i rappresentanti del popolo e quali

criteri di scelta guidano gli italiani, sarebbe doverosa ma su questo non voglio soffermarmi, lo faranno altri e meglio di me in questo numero, ma ritengo che il rappresentante sia semplicemente una immagine del rappresentato...

Un problema come questo, ormai persistente nel tempo, che va peggio-rando col passare delle legislature, al variare dei parlamentari, dei partiti politici, al mutare dei governi. Un problema sistemico, la cui soluzione deve essere sistemica.

L’unica soluzione proposta è una profonda riforma delle Costituzione, percorso lungo e impegnativo, sia nella procedura che nella sostanza. Solo in pochi ambienti, sommessa-mente, si propone una diversa solu-zione, più semplice ed immediata: la profonda revisione dei regolamenti

STEFANO TERZI25 anni, studente magistrale di mate-matica prossimo alla laurea, è consigliere comunale di maggio-ranza a Desenzano con il Partito Demo-cratico con delega alle politiche giovanili.

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delle Camere, ben più semplice e veloce di una revisione costituzionale senza porsi in antitesi ad essa.

Il lavoro nelle Camere andrebbe spostato dall’aula alle commissioni. La seduta plenaria dovrebbe, dopo una breve discussione, solo ap-provare o bocciare il testo elaborato in commis-sione. In caso di bocciatura, dopo un’altra breve discussione, o rimandare in commissione il testo o impedire alla stessa di ritornare sul tema per un determinato lasso di tempo.

La commissione è il luogo in cui i testi di leg-ge vengono approfonditi, gli argomenti svisce-rati con l’aiuto delle audizioni, è l’ambito in cui meglio si possono esprimere le competenze spe-

cifiche dei parlamentari che non possono essere tuttologi. La commissione è il luogo dove il lavo-ro può essere costruttivo, in cui il testo può esse-re modificato e rimaneggiato per acquisire una forma più organica e razionale. La commissione è il contesto in cui mancando l’ansia di presta-zione, il circolo mediatico, l’atteggiamento tende ad essere più costruttivo.

L’ostruzionismo è uno strumento forte nelle mani dell’opposizione, ma questo è ormai abusa-to, dovrebbe essere uno strumento di ecceziona-lità, invece è la normalità, ogni disegno di legge è il perfetto campo di scontro per un contesto di continua campagna elettorale, è la risposta ad un sistema mediatico che richiede il continuo alzar-si dei toni. Gli strumenti attuali furono concepiti in un contesto di reciproco rispetto tra le forze politiche che ora purtroppo non esiste più. Gli strumenti in mano alle opposizioni non devono diminuire, devono mutare. Il numero di emen-damenti, anche nel contesto delle commissioni, deve essere limitato, perchè questi siano solo di sostanza. Le opposizioni devono poter avere

il lavoRo delle cameRe andRebbe spostato

maggioRmente dall’aula alle commissioni

« Ogni disegno di legge, presen-tato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissio-ne e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per arti-colo e con votazione finale. Il regolamento stabilisce procedi-menti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza. »

Già oggi, l’attività dei Par-lamentari si suddivide tra la Camera e il lavoro in Com-missione; ogni Parlamenta-re deve, infatti, appartenere come titolare ad una Com-missione. Esse sono composte

rispettando le proporzioni dei gruppi parlamentari presenti in aula. Come stabilito dall’ar-ticolo 72 della Costituzione è nelle Commissioni che avvie-ne il primo vaglio delle pro-poste di legge.

Il loro funzionamento, di-verso tra Camera e Senato, è disciplinato dai rispettivi re-golamenti, ma resta salva la prerogativa, stabilita sempre dall’Articolo 72 della Costi-tuzione, che «Il disegno di legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della commissione richiedono che sia discusso o

votato dalla Camera stessa op-pure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto. »

Gli Onorevoli, a differenza di quanto avviene nelle sedute plenarie, nelle Commissioni si occupano di argomenti spe-cifici. La discussioni in am-biente numericamente ristret-to e la “sensibilità” del singolo Parlamentare interessato agli argomenti trattati, insieme alla possibilità di avvalersi anche del contributo degli esperti attraverso il meccani-smo delle audizioni, fa si che la maggior parte delle discus-

Le Commissioni

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spazio dedicato a loro progetti di legge in com-missione, la possibilità di portare alcuni testi al voto in aula anche contro il parere delle commis-sione competente. Il ruolo di una opposizione deve diventare propositivo, non solo distruttivo.

Anche il governo deve poter richiedere l’ana-lisi di suoi disegni di legge da parte delle com-missioni competenti con tempi determinati. La fiducia, possibile sia in commissione che in aula, non avrà più la scusante dell’ostruzionismo, ma servirà solo per imporre alla commissione o all’aula un testo specifico non gradito alla stessa. La richiesta di fiducia, quindi, sarebbe caricata di maggior peso politico e sarebbe più difficilmente giustificabile davanti al Parlamento e all’opinio-ne pubblica.

Dividere il lavoro tra le commissioni per-metterebbe di ottimizzare i tempi, l’analisi di più provvedimenti e problematiche aiuterebbe a rendere più omogenei gli argomenti dei testi, scoraggiando testi “omnibus”. Nelle commissio-ni potrebbero tornare centrali le competenze dei singoli membri, spingendo anche i partiti e sce-

gliere con più cura i propri candidati...Fino a quando le discussioni in Parlamen-

to serviranno a far perdere tempo, a dilatare i tempi, sarà inevitabile avere aule deserte o disat-tente. Chi mai ascolterebbe una persona che sta parlando solo per parlare? Come si può pensare che qualcuno trovi utile seguire un discorso il cui unico scopo è ottenere un video da twittare?

Cambiare i regolamenti delle Camere potreb-be risolvere tanti problemi, aiuterebbe a riporta-re la politica a riconcentrarsi sui contenuti con fare costruttivo. Ma è questo che gli elettori vo-gliono? E’ questo che il pubblico chiede? Con-centrarsi sui contenuti costa molta più fatica che cliccare “mi piace” su facebook... ◆

sioni e delle mediazioni oggi avvenga nelle Commissioni.

Le Commissioni perma-nenti sono 14 sia alla Came-ra sia al Senato e ricalcano i medesimi temi (si riportano i nomi delle Commissioni permanenti della Camera dei Deputati):

1. Affari costituzionali, Presidenza del consi-glio e interni

2. Giustizia3. Affari esteri e comuni-

tari4. Difesa5. Bilancio, tesoro e pro-

grammazione6. Finanze

7. Cultura, scienza e istru-zione

8. Ambiente, territorio e lavori pubblici

9. Trasporti, poste e tele-comunicazioni

10. Attività produttive, commercio e turismo

11. Lavoro pubblico e pri-vato

12. Affari sociali13. Agricoltura14. Politiche dell’Unione

europea

Oltre alle 14 Commissioni permanenti, ogni ramo del Parlamento può istituire delle Commissioni speciali a carat-

tere temporaneo su specifici temi di interesse.

Infine la Costituzione pre-vede la possibilità, per temi particolarmente sensibili, di istituire Commissioni bica-merali dove sono presenti sia Senatori sia Deputati. ◆

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Quando nel febbraio di quasi un anno fa Renzi si presentò alle

camere per la fiducia, annuncian-do il suo programma di governo e i tempi e le modalità delle riforme molte speranze si accesero su di lui e sul governo succeduto a Letta.

Molte altre volte nella storia del Paese altri capi di governo si sono spinti sul terreno delle riforme con discorsi troppo generosi. Solo con grandi difficoltà e dopo molte di-scussioni si è pervenuti dopo due decenni dall’approvazione della Co-stituzione alla creazione delle regio-ni negli anni settanta, o alle nazio-nalizzazioni delle società elettriche degli anni sessanta.

Certamente da allora i tempi della politica sono mutati e ogni parago-ne tra le riforme di allora e di adesso sarebbe certamente forzato. Vivia-mo però, come allora, un momento unico per il paese, in cui non possia-mo perdere la grande occasione per fare le riforme di cui abbiamo tanto bisogno per costruirci un futuro più

sereno dopo la navigazione tanto difficoltosa di questi ultimi anni. Le riforme potrebbero aiutarci a cor-reggere alcuni vizi genetici di questo paese, uno tra tutti, la questione del-la pubblica amministrazione, che ha segnato la storia della Repubblica fin dai suoi albori.

Il momento è propizio e certa-mente il Partito democratico sta cercando di costruire un clima fa-vorevole per le riforme, isolando l’azione del movimento cinque stel-le e recuperando la fiducia di molti italiani alla politica. Sul futuro e sul buon esito delle riforme inciderà il modo in cui si stanno compiendo e nel modo in cui si stanno realizzan-do si legge il segno che il segretario e la squadra di governo intendono dare alle riforme.

Molte erano state le riforme an-nunciate nel febbraio scorso, e mol-te volte negli ultimi mesi modalità e tempistiche attraverso cui le riforme dovevano essere attuate sono muta-te. La riforma della scuola ad esem-

JACOPO BARALDIStudente di giurispruden-za all’Università Statale di Milano è segretario del circolo PD di Provaglio d’Iseo e membro delle di-rezioni provinciali del PD e dei Giovani Democratici

Portiamo a compimento una nuova stagione di riforme

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pio doveva essere ultimata in questi mesi. Certa-mente Renzi non è il primo a fare delle riforme uno strumento per allargare il consenso e conso-lidare il buon risultato delle elezioni europee ma occorre fare attenzione a non perdere di vista il risultato nel suo insieme e l’incisività che l’im-pianto riformatore deve avere in un momento come questo.

Le riforme poi da sole non bastano per conso-lidare il ruolo e la forza del Partito Democratico, né alcune piacevoli sorprese in busta paga. Oc-correrà un lavoro sui territori e una nuova sensi-bilità del Pd nel suo complesso e nelle sue varie articolazioni locali e non per ritrovare il passo con un paese in movimento costante. Quello che molti, in definitiva, si auspicano è che i tempi si-ano maturi per le riforme e il clima sia favore-vole per metterle in atto nei prossimi tempi con un Pd che riesca a garantire la giusta stabilità a questo processo.

La preoccupazione è che si rischi un groviglio in cui i temi siano usati come strumenti politici e in cui si perda di vista il risultato ultimo delle riforme. Il pericolo è che ci si aggrovigli in un reticolo di annunci e di proclami da cui potrebbe essere difficile districarsi e più il tempo passa mi-nore sarà l’attenzione delle persone e più il clima favorevole per le riforme potrebbe venire meno.

Inutile dire come le conseguenze di questo fallimento potrebbero avvantaggiare enorme-mente la nuova Lega nord di Salvini e resuscitare i “penta stellati” ricostruendo un credibile fronte avverso.

Si cerchi di non perdere il poco tempo a di-sposizione cercando di realizzare le riforme di maggiore importanza per la salute del paese; in questi giorni si entrerà nel vivo della riforma del-la scuola, si costruisca una scuola degna di que-sto paese e della sua storia, che possa formare le future generazioni. Si parla molto del coinvolgi-mento di insegnanti e genitori per questa rifor-ma il che è fondamentale, ma si vada al centro del problema investendo nuove risorse e cercan-do di capire quale potrebbe essere una riforma degna di tale nome per la scuola. Si completi il corso delle riforme più urgenti per il paese cer-cando di non essere appiattiti sul presente ma di

pensare all’Italia di domani. Si ponga mano con serietà ai problemi in cui

è avvolto il paese: potremmo non avere altre oc-casioni. ◆

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Ci siamo: la stagione delle Ri-forme Istituzionali tanto au-spicata, è finalmente arrivata.

Essa riguarda l’architettura dello Stato e inevitabilmente la legge per eleggere il Parlamento.

Le principali novità del primo fronte riguardano il declassamento del Senato e delle Provincie a enti di secondo livello, i cui rinnovi non passano più dal voto popolare, ma diventano prerogative dei membri del Consiglio Regionali per il Sena-to, dei membri del Consiglio Comu-nale per le Provincie.

Ma andiamo con ordine. Non credo ci si debba stracciare le vesti per il mutamento del Senato: l’elimi-nazione del bicameralismo perfetto, figlio di un’altra epoca le cui ragio-ni oggi sono superate, ci permetterà una maggiore rapidità nell’attuazio-ne delle leggi. Il Senato, composto da 100 membri tra Sindaci, Rappre-sentanti di Regioni e nominati del Presidente della Repubblica, fun-gerà da raccordo tra Stato, Regioni e Comuni, non voterà la fiducia e manterrà diritto di voto per riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi sui referendum popolari, leg-gi elettorali degli enti locali, diritto di famiglia, matrimonio e salute e ratifiche dei trattati internazionali. Restano dunque in capo funzioni importanti e credo sarebbe stato più saggio mantenere il voto popolare. Magari lasciando il diritto di candi-datura ai soli Consiglieri Regionali e

Sindaci.Con un filo di preoccupazione in

più vedo invece la riforma Del Rio, che ha modificato l’assetto delle Pro-vincie. “Oggi” di fatto, gran parte delle funzioni attribuite sono quel-le di “ieri” e l’unica cosa che è stata eliminata, possiamo dirlo, è il diritto di voto dei cittadini. E i trasferimen-ti statali. Se pensiamo inoltre che la nostra provincia conta 1milione 300mila abitanti, che per estensione territoriale e numero di abitanti po-trebbe tranquillamente essere anno-verata tra le regioni e non tra le pro-vincie, questa riforma sta mostrando diverse lacune. Un abito pensato su misura per quelle “aree vaste” d’I-talia di 200-300mila abitanti, com-poste da capoluogo e poco più, sul modello delle provincie dell’appeni-no tosco-emiliano. Non è proprio il nostro caso.

Passiamo ora al tema più con-troverso: le legge elettorale per la Camera. Pongo una riflessione: ma ogni quanti anni gli altri stati eu-ropei cambiano legge elettorale? E’ normale modificare le regole del gioco ogni 3-4 turni elettorali?

Non c’è bisogno di scomodare gli

MASSIMO REBOLDILaureato in Ingegneria Meccanica a Brescia. Rico-pre la carica di Presidente del Consiglio Comunale ad Ospitaletto, suo paese natale, e di responsabile lavoro per la Segreteria Provinciale del PD

Con questo “Italicum”, primarie per legge

il bicameRalismo peRfetto è figlio di un’altRa epoca

le cui Ragioni oggi sono supeRate

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amici d’oltremanica, che da sempre votano con un metodo maggioritario uninominale, per ac-corgersi di come sia una peculiarità tutta italica.

I tedeschi votano con il loro sistema di doppio voto proporzionale e uninominale dal ’53 (con la riforma del 2013 han solo aggiustato e reso più chiaro il criterio per l’assegnazione dei seggi in eccedenza), gli spagnoli invece mantengono il loro proporzionale su scala di piccoli collegi plurinominali dalla cacciata di Franco nel ’79. I francesi infine, dalle legislative del ’58, votano con il tradizionale doppio turno su scala unino-minale.

In Italia abbiamo avuto nell’ordine: il propor-zionale della prima Repubblica, il Mattarellum, il Porcellum, e tra poco l’Italicum. Modificare la legge elettorale è roba complessa, senz’altro per la materia in questione, ma tutto si complica per ciò che essa comporta: difficile trovare qualcuno disposto a votare una nuova legge che lo faccia perdere, o che comunque riduca le possibilità di vittoria. Da sempre nel PD ci siamo detti che il Porcellum andava superato, prima ancora che ce lo dicesse la Corte Costituzionale. Ed è chiaro che la nuova legge deve avere alcune caratteristi-che: a) garantire la possibilità di scelta del par-lamentare per restituire credibilità alla Politica rinforzando rapporto tra territorio e istituzioni; b) che sia rappresentativa della volontà dei citta-dini; c) che consegni stabilità al Paese. Senz’altro questo Italicum consegnerà al prossimo partito la stabilità necessaria per governare, ma restano aperti i primi due punti. Non si può dire che il listino corto risolva i problemi, perché il proble-ma è il metodo di attribuzione dei seggi! E non mi riferisco solo alla questione preferenze, di cui non sentivo particolarmente la mancanza. Il meccanismo invece prevede che in alcuni col-legi possa essere eletto il candidato di una lista perdente e che non venga eletto invece il candi-dato vincitore, ad esempio. Oppure che, con il

sistema dei capilista bloccati, ogni partito potrà nominare capilista nei 100 collegi i candidati de-siderati, cosi da avere in caso di vittoria 1/3 degli eletti “nominati”, tutto il gruppo parlamentare di “nominati” dalle segreterie in caso di sconfitta.

Se cosi dovesse terminare la discussione, sa-ranno necessarie leggi chiare per i partiti che intendono costruire liste in occasione delle ele-zioni: oltre ai bilanci e alla rendicontazione, an-che la selezione della classe dirigente attraverso meccanismi di primarie di iscritti o elettori. Do per scontato, sperando di non essere smentito, che il PD individuerà i capilista con le primarie, ma non è sufficiente che lo si faccia solo noi. Ne va dell’Italia e della nostra democrazia. Non può essere lasciato tutto alla buona volontà dei de-mocratici.

Tutto ciò a meno che non si riveda la Riforma del Senato e dell’Italicum nel suo complesso: ad un Senato di nominati infatti si aggiungerebbe una Camera di nominati capilista per circa 350-400 membri su 630. E i deputati eletti (e non no-minati) sarebbero solo quelli della lista vincitri-ce. ◆

(Per maggiori informazioni sul funzionamento dell’Italicum si veda l’infografica curata dagli uffici della Camera dei Deputati disponibile a questo link)

è noRmale modificaRe le Regole del gioco ogni 3-4 tuRni elettoRali?

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Pantone185 Gennaio 2015

Diritticivili

Sempre più studi e classifiche certificano il deficit dell’Italia nel tema dei diritti civili. Anche se oggi è forse il tema maggiormente dibattuto, non è solo sui diritti dei cittadini omosessuali ed omofobia che l’Italia sconta un grave stato di arretratezza. Testamento biologico, eutanasia, diritti religiosi, laicità dello Stato sono solo alcuni degli altri temi che rientrano nella grande agenda dei diritti civili.

Anche questo differenzia il nostro paese dal resto dell’Europa “civiliz-zata” che a grandi passi sta riconoscendo questi diritti ai suoi cittadini.

La generazione Erasmus chiede a gran voce che la politica metta in fun-zione la macchina dei diritti, per poter dire di vivere in un paese più civile.

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Sarà l’anno buono? Nel 2015 l’Ita-lia riuscirà finalmente a darsi una

legge che riconosca le coppie omo-sessuali?

Intendiamoci, le carenze del no-stro Paese in materia di diritti civili non si esauriscono nella condizione di clandestinità cui sono costretti gay e lesbiche. Basta, ad esempio, leggere una qualsiasi relazione sul-le condizioni dei detenuti italiani per rendersi conto di quanto siano urgenti provvedimenti in grado di allineare il nostro sistema carcerario all’art. 27 della nostra Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rie-ducazione del condannato»). O, an-cora, basta far riaffiorare alcuni tra i temi più aspramente dibattuti negli ultimi anni (fecondazione assistita, testamento biologico, ius soli) per constatare che su nessuno di que-sti fronti la politica ha permesso al

nostro Paese di fare un passo avanti; in alcuni casi è stata la magistratura a intervenire per metterci qualche pezza. Tornando al tema delle fami-glie di fatto, va peraltro sottolinea-to come questo non sia prerogativa esclusiva del mondo omosessuale. Da questo punto di vista l’ultimo Rapporto Annuale Istat non fa che confermare un dato che è amplia-mente parte del nostro vissuto quo-tidiano: «Le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili hanno fatto registrare un incremento del 70 per cento tra il 2006-2007 e il 2012-2013 raggiungendo quota 606 mila fami-glie. In totale, le libere unioni sono oltre un milione. (…) Nel 2012 oltre un nato su 4 ha genitori non coniu-gati. Le nascite fuori dal matrimo-nio si sono particolarmente diffuse nell’Italia del Nord. (…) Accanto alla scelta dell’unione di fatto come modalità alternativa al matrimonio, sono in continuo aumento le convi-

MICHELE COTTI COTTINIResponsabile, per il Par-tito Democratico della provincia di Brescia, del Dipartimento Diritti Civil.

L’anno che verrà:

l’amore non si Discrimina

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Diritti civili

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venze pre-matrimoniali, le quali possono avere un effetto sulla posticipazione del primo matri-monio».

Certo è che innanzitutto per le coppie omo-sessuali l’attuale legislazione italiana è una palese ingiustizia. Nel non riconoscere in alcun modo l’esistenza e il valore delle coppie omosessuali, l’Italia perpetua una discriminazione ingiustifi-cabile. Durante l’anno appena trascorso, come Dipartimento Diritti Civili del Pd bresciano, abbiamo promosso diverse iniziative pubbliche, tutte sotto il titolo “L’amore non (si) discrimina”. Volevamo sottolineare, appunto, come di fondo in gioco ci siano sentimenti e dignità: sentimenti che non possono essere discriminati, dignità che non può essere negata ad una coppia o ad un cit-tadino per la ragione di non essere eterosessuale.

La legislazione in materia di unioni civili non è una “questione etica”, non è un affare seconda-rio da demandare alla “libertà di coscienza” dei parlamentari. In Austria, Belgio, Croazia, Dani-marca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Porto-gallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria, la convivenza tra due persone omosessuali è, in vario modo, ricono-sciuta; ne discendono valorizzazione ed inclu-sione sociale, diritti e doveri.

In Italia sembriamo ostaggi di estenuanti e continui stop and go: promesse, dichiarazioni, polemiche, annunci. Ma, volendo guardare al bicchiere mezzo pieno, c’è anche l’ottimo testo di legge della sen. Cirinnà che, unito alle sue dichiarazioni di fine anno, fa ben sperare («Su unioni civili e coppie di fatto si va avanti con tempi certi. Dopo la legge elettorale a marzo si parte con le riforme sui diritti civili»). Staremo a vedere.

Anzi no. Non possiamo limitarci a “stare a vedere”. Per far compiere questo passo avanti culturale al nostro Paese, c’è bisogno di un im-pegno collettivo, di una mobilitazione corale che coinvolga non solo gli attivisti delle associazio-ni Lgbt, ma iscritti, elettori, amministratori del Partito Democratico. Va in questa direzione un ordine del giorno approvato all’unanimità a di-cembre dalla Direzione Regionale del Pd, cui fa-

remo seguire un dibattito anche all’interno della nostra Direzione Provinciale.

Proprio a Brescia nelle ultime settimane del 2014 si è assistito ad un’escalation di posizioni integraliste e conservatrici, che hanno provato a mettere nel mirino la Giunta Del Bono. Evi-dentemente non per casuale coincidenza, ciò è avvenuto in concomitanza con l’avvio del dibat-tito sulla petizione popolare promossa dal Coor-dinamento “Nuove Famiglie Uguali Diritti”. Alla stampa locale non era interessato granché, ma in quei giorni, animati da sentinelle e controsen-tinelle in piedi e sedute, avevo steso una breve riflessione che riporto qui integralmente.

Davvero le famiglie bresciane sono in perico-lo? Davvero c’è la necessità di raccogliere firme contro l’adesione del Comune di Brescia alla rete

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degli enti locali contro le discriminazioni per orientamento sessuale ed identità di genere?

Da quasi un anno rivesto il ruolo di respon-sabile del Dipartimento Diritti Civili del Pd bre-sciano. In questi mesi ho partecipato a diverse iniziative promosse sul nostro territorio dalle associazioni che si battono contro l’omofobia e per il riconoscimento delle coppie omosessuali. Mai ho avuto la sensazione che dovessi mettere in allerta i miei familiari e le coppie di amici: mai ho sentito minacciata la mia famiglia, né le loro. Mai ho udito discorsi volti ad impedire a mia sorella di essere mamma della sua bella bambi-na e al suo compagno di esserne il papà. Mai ho avuto paura che l’educazione che riceverà la mia nipotina sarà un indottrinamento sottomesso alla fantomatica ideologia gender, fissazione che,

a quanto pare, turba invece il sonno di qualcuno in città.

In questi mesi ho piuttosto ascoltato coppie omosessuali interrogarsi preoccupate sul pro-prio futuro, anche in relazione alla possibile fine del loro rapporto d’amore, e mi sono reso conto che scioccamente non mi ero mai fermato a pen-sare ai problemi che possono emergere quando due gay e due lesbiche cessano la loro conviven-za. Mi sono sempre battuto per il diritto delle coppie omosessuali a vedere riconosciuto il va-lore della loro unione, senza capire che nelle loro rivendicazioni non c’è solo il desiderio di uscire dal buio, ma anche un’intrinseca voglia di re-sponsabilità: la consapevolezza che sia giusto as-sumere doveri – oltre che diritti – nei confronti della persona amata.

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In questi mesi non ho provato paura, semmai imbarazzo e vergogna per gli estenuanti ritardi e rinvii con cui la politica – anche il mio partito – ha troppe volte liquidato il tema, magari addu-cendo che ben altre sono le priorità. Ho provato imbarazzo e vergogna soprattutto nei confronti di quegli amici gay di cui conosco le difficoltà di percorso, sul piano personale, familiare, lavo-rativo: persone, non macchiette, non stereotipi; persone che meritano una società accogliente che non li faccia sentire fuori posto, o, peggio, “deviati” da tollerare o “malati” da recuperare.

Ricordo che ad un’iniziativa pubblica ricordo avevo seduta di fronte a me una coppia di lesbi-che con in braccio le loro due bambine: non ho provato paura, forse un po’ di smarrimento. E tenerezza. E sorpresa. Nel rilevare come, anche a Brescia, piaccia o no, pur nell’immobilismo della legislazione nazionale, la società si evolve. Mentre la politica ancora si accapiglia su come adeguare le nostre leggi agli altri Paesi europei, rispondendo alle sollecitazioni della Corte Co-stituzionale in materia di unioni di fatto, nuovi bisogni emergono ed emergeranno. Come il bi-sogno di quelle due bambine di vivere una vita serena, garantita dall’affetto delle persone che le stanno crescendo.

Non vedo come una risposta positiva a tale bisogno possa mettere in pericolo mia nipote e tutti gli altri bimbi che stanno crescendo in una famiglia – per così dire – tradizionale. Tuttavia la questione della genitorialità omosessuale neces-sita senz’altro di una discussione aperta, in cui ciascuno possa apportare il proprio contributo fatto di convinzioni profonde, valori, dubbi.

Ho però l’impressione che da più parti si stia-no prendendo posizioni e si stiano lanciando campagne completamente “fuori tema”, con la sola conseguenza di creare disorientamento. Ciò di cui si sta discutendo a Brescia non è infatti la possibile genitorialità omosessuale, nemmeno limitatamente alla facoltà di poter adottare i fi-gli del partner (la cosiddetta stepchild adoption, che pure fa parte del “modello tedesco” di unio-ni civili, più volte indicato da Renzi come la via maestra).

A Brescia oggi c’è altro in gioco.

Innanzitutto, la conferma di una buona scelta compiuta dalla Giunta Del Bono contro l’omo-fobia: l’adesione alla rete Ready. Una decisione di valore, in linea con il Trattato di Amsterdam dell’Unione Europea, che all’art. 13 afferma e so-stiene il principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale.

In secondo luogo, la possibilità di mettere in campo uno strumento amministrativo idoneo a riconoscere le unioni di fatto, omosessuali ed eterosessuali, nella consapevolezza che l’esten-sione dei diritti e doveri non rappresenta affatto una minaccia per chi questi diritti e doveri già li ha.

Come si vede, nulla a che vedere con le po-lemiche e le preoccupazioni manifestatesi negli ultimi giorni.

L’auspicio è che, superati i pregiudizi, ci si possa ritrovare nel considerare i vincoli affettivi come un valore di cui tutta la comunità bene-ficia, a prescindere dal fatto che una coppia sia eterosessuale o omosessuale. Riconoscerne il ca-rattere valoriale contribuirebbe a costruire una cultura inclusiva ed ampliare le possibili forme della solidarietà tra persone, sulle quali si regge una comunità democratica. ◆

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Negli ultimi anni il tema dei dirit-ti omosessuali ha preso sempre

più piede nel dibattito politico ita-liano, senza però che ciò si riflettes-se in un conseguente adeguamento normativo, al contrario di quanto è gradualmente avvenuto, più o meno recentemente, nel resto dell’Europa ed in particolare dei Paesi membri dell’UE.

Osservando la situazione euro-pea si può infatti notare come l’Ita-lia sia uno dei pochi Paesi (insieme a Bulgaria, Cipro, Grecia, Lettonia,

Lituania, Polonia, Romania e Slo-vacchia) a non prevedere forme di tutela per le coppie omosessuali; in un recente sondaggio promosso dall’Unione Europea, inoltre, l’Italia è risultata essere il Paese con il più alto tasso di discriminazione sociale e politica nei confronti delle persone omosessuali. Tale discriminazione è percepita, secondo il sondaggio, in particolar modo nei discorsi po-litici: la diffusione di un linguaggio omofobo in questo ambito si atte-sta, secondo gli intervistati, attorno

GIULIA ZAMBOLINLaureanda presso la fa-coltà di Medicina dell’U-niversità degli Studi di Brescia, è responsabile attualmente la segretaria dei Giovani Democrati-ci della città di Brescia

diritti omosessuali, una frontiera di civiltà

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al 90%, contro una media europea del 44%. Un dato preoccupante che rimanda direttamente alle cronache politiche di questi giorni, in cui la Regione Lombardia ha organizzato, nell’ambito di una serie di eventi legati ad EXPO, una confe-renza in difesa della “famiglia naturale” e contro il riconoscimento di qualsiasi forma di famiglia alternativa ad essa.

Al di là dei singoli episodi è comunque chia-ro come la legislazione italiana in tale campo sia attualmente inadeguata ed arretrata rispetto ad una forma di società civile in continua evoluzio-ne.

Nell’ambito dei diritti civili molti sono stati i tentativi di adeguare la situazione italiana a quel-la della maggior parte dei Paesi dell’UE, ma ad oggi nessuno di essi è andato a buon fine: basti pensare al destino della proposta sui DICO du-rante il governo Prodi o al feroce dibattito nato attorno all’ipotesi di estendere la legge Mancino

anche a reati di natura omofoba.Ciò che più preoccupa nello scenario italiano

è sicuramente la completa assenza di legislazio-ne in materia di diritti omosessuali, con tutti i rischi che ne conseguono.

Il primo di questi rischi è sicuramente quel-lo di una frammentazione normativa: sempre più Comuni, infatti, tentano di porre rimedio al vuoto legislativo in materia attraverso norme o iniziative (spesso anche soltanto simboliche) che da un lato hanno la funzione di sottoline-are quest’importante mancanza, ma che dall’al-tro stanno andando a creare nel nostro Paese un puzzle normativo eterogeneo e privo di ri-ferimenti univoci a livello nazionale. In questo modo i diritti di una parte dei cittadini non sono garantiti dallo Stato, ma divengono “concessio-ni”, peraltro spesso prive di riscontri pratici, di singole amministrazioni territoriali.

Proprio questa concezione è alla base del secondo grande rischio, che è quello di creare

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cittadini di “serie A” e di “serie B” sulla base di diritti che vengono loro garantiti o meno; una questione che non coinvolge soltanto le perso-ne omosessuali, ma che si estende purtroppo ad altre categorie di cittadini quali donne, disabili, immigrati ed altre fasce “deboli” della società, creando diseguaglianze che vanno a minare sia la stabilità sociale che la possibilità per la nostra Democrazia di evolversi e realizzarsi pienamen-te nel solco tracciato dall’Articolo 3 della Costi-tuzione, secondo cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”.

Proprio per questo motivo la politica italiana non può esimersi dal risolvere questa situazione, e tale impegno dovrebbe essere assunto in par-ticolar modo da quelle parti che si dicono pro-gressiste, ma che troppo spesso hanno preferito rimandare la discussione (e l’azione) su queste tematiche per non turbare sensibilità o rompere equilibri.

Per troppo tempo il tema dell’omosessualità è rimasto escluso dalla nostra legislazione per-ché relegato ad una mera questione di morale e ritenuto, quindi, estraneo alla discussione poli-tica. Oggi è più che mai necessario un cambio di prospettiva, e la politica italiana deve avere la capacità di affrontare in modo laico la questione per colmare questo vuoto giuridico, passo fon-damentale per continuare a tracciare quel per-corso che porta verso la piena realizzazione della nostra Democrazia. ◆

(Le immagini sono prese dal sito espresso.repub-blica.it dall’articolo “Omofobia, la mappa dell’o-dio in Europa. E l’Italia è il Paese che discrimina di più” di Lorenzo Di Pietro)

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Diritti civili

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In questo numero parliamo di Diritti e sono tanti quelli di cui avremmo bisogno, quelli che sen-tiamo ci dovrebbero appartenere, quelli che ci vengono negati. I Dirit-ti rappresentano la realizzazione di un bisogno, la necessità di possedere qualcosa che ci dovrebbe spettare. La domanda che mi pongo è se vale la pena lottare per tutti questi diritti se ci viene negato il diritto per eccel-lenza: il diritto di scegliere della no-stra vita?

Adriano Sofri scrisse che “La peg-giore delle tirannidi non è quella che uccide i suoi sudditi: è quella che ar-riva a impedire loro perfino di ucci-dersi”.

Per alcuni la vita dovrebbe ap-

partenere a noi soltanto, come bene supremo al quale dev’essere possibi-le rinunciare, per altri la nostra vita appartiene a qualcuno di superiore che ha ogni diritto su di essa. Non siamo qui a discutere quale delle dif-ferenti visioni sia quella giusta ma a chiederci come il Legislatore debba intervenire su questo tema. Com-pito del Legislatore è quello di dare un ordine alla società, un ordine che permetta la massima libertà che non danneggi l’altro o la collettività. Tutti dovremmo avere il diritto di dispor-re della nostra esistenza senza dan-neggiare l’altro, quindi è innegabile che dovremmo spogliarci di ogni soggettiva credenza e permettere all’individuo di scegliere della pro-

MATTEO GATTODottore in Storia e spe-cializzando in Scienze Storiche, è Capugruppo in Consiglio Comuna-le a Palazzolo sull’Oglio.

“VORREI POTER DECIDERE DI NON SOFFrIRE PIù”

#LIBERIFINOALLAFINE

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pria vita.Davanti alla bellezza della vita umana è dif-

ficile accettare che vi si possa rinunciare, è ve-ramente qualcosa di incomprensibile. Eppure ci sono situazioni, ci sono catastrofi per le quali per qualcuno la vita non vale più la pena di esse-re vissuta. La decadenza del fisico e della mente possono trasformarsi in un abisso di sofferenza nel quale uno Stato non può tenere imprigio-nati i suoi cittadini. Scegliere di rinunciare alla propria vita quando questa si trasforma solo in dolore irreversibile non può essere considerato un atto di debolezza. Non possiamo provare che grande ammirazione per chi sceglie di attaccarsi alla vita con i denti e con le unghie, per chi è pronto ad affrontare le atrocità della malattia per rimanere un minuto in più su questa terra. Ma allo stesso modo non possiamo che ammirare l’incredibile forza di chi decide che è arrivato il suo momento, di chi rinuncia a tutto, a l’unica cosa che ci appartiene incondizionatamente, con la consapevolezza straziante di non poter andare oltre con dignità.

Sinceramente non so quali dei due tipi di forza mi potrebbe appartenere ma non riesco ad accettare che mi sia impedito di scegliere, di prendere in mano la mia vita che dev’essere solo e unicamente mia e di poterne tenere saldamen-te le redini.

Non può scegliere una morale che forse non mi appartiene, non può scegliere una classe po-litica debole e pavida, non può scegliere chi non prova la sofferenza sulla propria pelle.

Fondamentale è non fare l’errore di confonde-re l’Eutanasia con il suicidio (sul quale ci sarebbe anche tanto da dire), perché Eutanasia non vuole dire permettere di morire ma permettere di sce-

gliere di che morte morire, e farlo con dignità.Ogni tipo di sondaggio ormai dimostra che

la grande maggioranza degli italiani è favorevole al testamento biologico (la scelta preventiva di rinunciare all’accanimento terapeutico e all’ali-mentazione e idratazione forzate) e anche all’Eu-tanasia, termine del quale mi piace ricordare la traduzione letterale dal greco: Buona Morte.

Nonostante ciò la situazione è ferma da anni, un tema che la classe politica ha paura di affron-tare, nonostante le firme raccolte per la presenta-zione di numerose proposte di legge di iniziativa popolare tutto tace, anche l’informazione è timi-da quasi si trattasse di un argomento intoccabile.

La battaglia che da anni è portata avanti da molte associazioni e da parte della società civi-le è per richiedere un Diritto talmente semplice da risultare spiazzante “Vorrei poter decidere di non soffrire più. A chi appartiene la mia vita?”.

Chi tra voi lettori è pronto a sentirsi respon-sabile della sofferenza altrui? Chi di voi è pronto a negare questo diritto al prossimo?

Vi invito a visitare il sito www.eutanasialega-le.it per conoscere e condividere questa battaglia e per renderla meno silenziosa. Chiediamo in-sieme che tra tutti i Diritti ci sia dato soprattut-to quello fondamentale di decidere della nostra vita.

Perché come recita la campagna di sensibiliz-zazione su questo tema:

se l’eutanasia fosse legale non aumenteRebbeRo le moRti, diminuiRebbeRo le soffeRenze. si tRatta solo di RiconosceRe un diRitto umano, il diRitto di

moRiRe. paRRebbe semplice no? ed è semplice, basta cominciaRe a discuteRne.

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Diritti civili

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Quando ci riferiamo ai diritti ci-vili, la nostra mente balza im-

mediatamente a diritti assoluti qua-li il diritto alla vita e alla libertà in senso lato, mentre quando parliamo di lavoro parliamo di diritti sociali che nel sentire comune hanno una natura certamente differente e meno intensa.

Io vorrei però cercare di darne una lettura più ampia e dire che il lavoro, con relativa equa retribuzio-ne, non è semplicemente una attività di sostentamento ma una modalità di essere che permette ad un indivi-duo di emanciparsi e trasformarsi da adolescente ad adulto autonomo in grado di progettare il proprio futuro e di plasmare la propria identità. In poche parole, di autodeterminarsi. Quindi non stiamo parlando di di-ritto al lavoro, difficile da definirsi e da attuarsi, ma del diritto a costruire il proprio futuro. Non è questo forse un diritto assoluto e inviolabile?

E allora perché nonostante la mia generazione stia vivendo una gra-

vissima violazione di un diritto in-violabile ed assoluto come potrebbe essere la violazione della libertà per-sonale o di espressione, non sta fa-cendo nulla per opporsi?

Certamente non è solo responsa-bilità nostra, ma delle generazioni che ci hanno preceduto e che non hanno saputo trasmettere ed inse-gnare non solo l’importanza della rivendicazione dei propri diritti, ma anche il coraggio di farlo. E soprat-tutto non ci hanno insegnato ad as-sumerci le nostre responsabilità. Da quando è cominciata la vera crisi, siamo scesi in piazza come giovani a reclamare i nostri diritti e a preten-dere che la politica davvero attuasse riforme coraggiose di superamento delle logiche economiche che han-no portato alla depressione attuale e di valorizzazione delle nostre gene-razioni che sono ancora oggi total-mente dimenticate?

Certamente non abbiamo né vo-luto e né creato questa situazione, ma saremo comunque responsabili

VANESSA TULLOLaureata in Giurispru-denza all’Università degli Studi di Brescia, attual-mente svolge il lavoro di Pa-trocinatrice legale. Ricopre l’incarico di responsabile Diritti Civili della segrete-ria provinciale dei Giova-ni Democratici di Brescia.

Odiamo gli indifferenti?

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per non averla cambiata. Non possiamo nascon-derci dietro un dito continuando semplicemente a lamentarci o aspettando che l’uomo nuovo fac-cia miracoli.

Siamo milioni di giovani preparati e pronti a contribuire allo sviluppo del nostro Paese, fermi ai blocchi di partenza da procedure farraginose e dinamiche economiche e di potere totalmente estranee alle nostre vite, ma che le condizionano così profondamente da non consentirci di con-cretizzare i nostri sogni e tali da portare tantissi-mi di noi ad espatriare.

Dati ISTAT 2013 alla mano, l’emigrazione giovanile italiana è giunta a quota 68.ooo unità equivalente a +36% in un anno, il numero più alto in 10 anni. Il rapporto Istat spiega che “negli ultimi cinque anni se ne sono andati quasi 100 mila giovani, per l’esattezza 94mila. Il flusso di uscita dei laureati è di 6.340 unità, con un saldo di -4 mila 180 unità”.

Ci stiamo arrendendo? Io spero di no. È al-trettanto vero però che forse siamo ancora con-vinti che qualcosa cambierà senza uno strappo, senza una forte rivendicazione da parte nostra. Nessuno ci regalerà nulla e noi stiamo rimanen-do immobili.

Mi rivolgo a tutti i miei coetanei ed in parti-colare ai più sensibili ed attivi, come ad esempio ai tanti Giovani Democratici che si sono espressi e mobilitati contro la riforma dell’art. 18 Statu-to dei lavoratori, con i quali posso condividere l’opposizione all’eliminazione forse non necessa-ria di una garanzia a favore dei lavoratori dipen-denti, che molti di noi non saranno mai, e mi chiedo perché tutta questa preziosa energia non venga veicolata anche a favore di una pretesa a voce alta di vere riforme per le nostre generazio-ni che stanno subendo una repentina ed ignobile

cancellazione delle garanzie a tutela del lavoro. E una rivendicazione che ricomprenda tutti, an-che chi come me sta cercando di accedere ad una professione di fatto in grande difficoltà, come è evidente dalle inique modalità di selezione.

Ci riempiamo la bocca delle parole di Gram-sci e ci brillano gli occhi al verso “odio gli indif-ferenti”, ma noi che cosa siamo oggi rispetto alla nostra stessa condizione?

Ci stanno rubando il futuro e dobbiamo mo-bilitarci per riprendercelo, perché non ci sarà nessuno a farlo per noi. ◆

non abbiamo né voluto e né cReato questa

situazione, ma saRemo comunque Responsabili

peR non aveRla cambiata

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#Factory365

Il 7 ed 8 dicembre, nel pieno dello scandalo che ha scosso le fondamenta del potere di Roma Capitale, più di un migliaio di Giovani Democratici si sono ritrovati nel centro dell’Urbe per dare vita ad uno dei più grandi momenti di confronto politico organizzati negli ultimi anni.

Ad un anno dalle primarie che hanno incoronato Matteo Renzi segre-tario del Partito Democratico, la prima convention veramente comune, con oltre 50 tavoli di discussione, ha fatto dire a molti che, finalmente, il PD che morivà con lo scandalo della Terra di Mezzo, in quegli stessi attimi rinasceva sotto una nuova luce e con nuovi protagonisti.

Ospitiamo nelle pagine seguenti alcune riflessioni di giovani che hanno partecipato a #Factory365.

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Antoine de Saint-Exupéry ha scritto il Piccolo Principe nel

lontano 1943. Uno dei testi fonda-mentali della letteratura mondiale, per quanto assai ridotto in dimen-sioni e difficoltà di lettura. Credo che più o meno tutti nel mondo l’abbia-no sfogliato almeno una volta; temo tuttavia che pochissimi l’abbiano ca-pito – e ne sono ogni giorno sempre più convinto. Affascinanti fenomeni di miopia di massa, anche all’interno delle classi dirigenti, indicano come l’ignoranza regni sovrana e la sem-plicità sia sempre messa in disparte in nome dei grandi giochi del potere.

Per un semplice motivo: fare le cose bene e semplicemente non rende né economicamente né personalmente. Figure intellettualmente marginali hanno possibilità di emergere solo nel caos più totale e quindi puntano a crearlo.

Succede così indicativamente in ogni contesto, dove ciascuno fa calcoli su calcoli per massimizzare la propria utilità, fregandosene del bene comune. Ma, soprattutto, suc-cede così in molti ambiti della po-litica, dove personalismi, correnti e trasformismi sono alquanto premia-

GIACOMO BRESSANStudente presso l’Univer-sità Bicocca di Milano , è iscritto ai Giovani De-mocratici della federazio-ne di Monza e Brianza

Imparate dai giovani democratici

“I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stanca-no a spiegargli tutto ogni volta.”

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#Factory365

Gennaio 2015 | Pantone185

ti. È da questo semplice principio che nascono le frammentazioni dei partiti, basate ormai troppo spesso sui nomi e non sui contenuti: sostenere qualcuno per andare da qualche parte, accorda-re a qualcuno il sostegno per un posto al fine di ottenerne un altro; ma anche organizzare eventi interi per infastidire le minoranze o la maggio-ranza, incontrare il proprio pubblico per insul-tare fette più o meno ampie di partito e sentirsi applaudire. Ormai, il correntismo non è più ela-borazione politica; è autoerotismo collettivo. È il gioco degli applausi al leader che ripete quel che il pubblico vuole sentirsi dire, è la disgregazione del partito nelle parole dei più svariati signorot-ti che insultano i vicini. Non è più, purtroppo, qualcosa di nobile, basato sui contenuti e sulla discussione, basato su dei programmi – che ven-gono invece stravolti ogni giorno di più.

La cosa più triste, però, è che il correntismo sembra ormai l’unico modo possibile per fare at-tività di partito.

In realtà, in due giorni i Giovani Democratici hanno dimostrato che non deve necessariamen-te essere così. Che si può parlare di politica in modo serio e costruttivo, facendo sedere a uno stesso tavolo renziani, civatiani, cuperliani, da-lemiani per discutere di temi, e non di chi tra i politici sopracitati sia più bello o simpatico. Pre-ciso: facendo sedere a sessanta tavoli più di mille persone, tutte temporaneamente al di sopra delle correnti che dilaniano il partito. Altro che Leo-polda o Leopoldina. Factory365 è stato qualcosa di molto ma molto meglio: è stato, finalmente, un evento politico dei Giovani Democratici e del Partito Democratico – e non più degli ultras di Renzi o Cuperlo.

nei due gioRni della factoRy365 i gd

hanno dimostRato che il coRRentismo non è

l’unico modo peR faRe politica

D’altronde, sono stati molti i grandi nomi ap-parsi sul palco e ai tavoli: da Orfini a Cuperlo, da Zanda a Speranza, da Benifei a Renzi. È strano che, per una volta, nessuno di loro abbia sparato a zero contro gli altri – sarà stata l’atmosfera.

Il punto è però che Factory365 non si deve fermare oggi, 9 dicembre 2014. Si tratta di una grandissima occasione per riportare finalmente la discussione sui temi politici e a livello di base del partito; può essere davvero il punto di par-tenza per una rivoluzione della partecipazione nel partito e della giovanile, che riporti al centro l’iscritto e dia finalmente un pochettino di credi-bilità alla politica. Tuttavia, bisogna anche nota-re che un evento così grande può essere incredi-bilmente pericoloso: come Giovani Democratici abbiamo aperto la via della partecipazione e della discussione a chiunque volesse fare la fatica più o meno gravosa di venire a Roma; ora, da oggi e sempre in futuro, non chiudiamoci mai più nelle nostre stanze, non abbandoniamo quegli iscritti e quei cittadini che abbiamo per una volta coin-volto davvero. Ora serve cura per quello che si è messo in moto. Qualcosa che, tra l’altro, può essere finalmente il punto di partenza per quel CONGRESSO che si aspetta da più di un anno e che non potrà essere una semplice conta, pena il fallimento completo e la falsità di tutto quel-lo che è stato fatto in questi giorni. Bisogna dir-lo: siamo ripartiti dopo più di un anno di stasi, questa reggenza ha permesso all’organizzazione giovanile di farlo; ora non azzoppiamoci nuova-mente, per quanto possa andare di moda. ◆

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Molti ricorderanno nei prossi-mi anni come, da un semplice

tweet, i Giovani Democratici abbia-no potuto realizzare la più grande manifestazione dei primi 6 anni del-la loro storia. Tutto è cominciato il 25 ottobre, una delle giornate più brutte della politica italiana nell’an-no appena concluso.

A Firenze, il comitato BigBang svolgeva il convegno che ha reso celebre Matteo Renzi, la Leopolda, contando 19 mila persone che in tre giorni hanno partecipato ai 104 ta-voli di lavoro e hanno ascoltato gli interventi di volti noti della politica e dell’imprenditoria italiana. Una grande kermesse, che ha dato rilan-cio mediatico all’azione del Governo di Matteo Renzi, il quale, senza in-dugi, ha rafforzato la propria linea politica condividendola con i parte-cipanti.

Nello stesso momento, a Roma, si svolgeva la manifestazione sindacale della CGIL, in opposizione alla ri-forma del lavoro messa in campo dal Governo. Il corteo ha visto protago-nisti anche molti esponenti della mi-noranza PD, dagli ex-candidati alla segreteria nazionale Gianni Cuperlo e Pippo Civati, ad altri esponenti di

spicco, come Stefano Fassina e Cesa-re Damiano, negli anni scorsi rispet-tivamente già Viceministro dell’Eco-nomia e delle Finanze e già Ministro del Lavoro.

Quel 25 ottobre non era diviso solo il Partito Democratico, ma era divisa anche quella larga fetta di so-cietà unita nella convinzione che sia necessario portare avanti riforme strutturali che rilancino il mercato del lavoro italiano, ma in contrappo-sizione sulle modalità e sulle misure che il Governo deve adottare.

Quel giorno i Giovani Democra-tici hanno deciso di fare un passo in avanti per provare a superare questa contrapposizione. Spesso i mediato-ri non richiesti non sono graditi dal-le parti in causa: non è andata così

ROBERTO GAZZONISLodigiano, studia Giuri-sprudenza all’Università di Pavia. Ricopre l’incarico di Segretario dei Giovani Democratici lombardi.

FActory365: un trampolino verso il futuro

tutto è cominciato il 25 ottobRe, una

delle gioRnate più bRutte della politica italiana

nell’anno appena concluso

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questa volta. Dopo quaranta giorni di lavoro, nel weekend dell’Immacolata si è svolto Factory365, o come l’hanno ribattezzata i giornalisti, la Le-opolda dei GD. Sono stati registrati circa mille partecipanti provenienti da tutta Italia, ripartiti in sessantaquattro tavoli di lavoro a cui hanno presenziato decine di parlamentari del Partito Democratico e relatori competenti. I temi dei Forum spaziavano dall’ambiente al lavoro, dai diritti all’istruzione, alla forma partito.

Tanti dirigenti territoriali della giovanile sono stati coinvolti nell’organizzazione, sia logisti-ca che contenutistica: la ricerca dei relatori e la preparazione del dibattito dei tavoli infatti era lasciata alla discrezionalità di chi aveva il com-pito di coordinare, al fine di rendere condivisa la responsabilità e gratificando l’impegno profuso nelle Federazioni Provinciali e nelle Unioni Re-gionali.

I risultati di questo grande evento sono mol-teplici. Cogliamo innanzitutto con entusiasmo il rilancio dell’iniziativa politica nazionale dei Giovani Democratici, capace di promuovere un evento non solo contenutisticamente valido, ma anche mediaticamente efficace: finalmente abbiamo saputo sfruttare le potenzialità dell’or-ganizzazione giovanile più numerosa d’Italia e maggiormente radicata nel territorio e nei luo-ghi del conflitto sociale. Spesso abbiamo riscon-trato difficoltà nell’affermare le nostre idee e le nostre battaglie nel panorama politico italiano e anche nella pluralità interna al Partito Demo-cratico: confidiamo che Factory365 possa fun-gere da trampolino di lancio per praticare un rinnovamento strutturale del nostro partito, che molto frequentemente fatica a tradurre parole di

cambiamento in azione.Un altro aspetto molto importante che ha

caratterizzato la manifestazione consiste nel-la funzione di formazione che l’impostazione dei tavoli di lavoro consegna ai partecipanti: lo strumento del dialogo informale con politici e personalità competenti è molto più efficace del dibattito frontale a cui convegni e conferenze ci hanno spesso abituati. Una grande occasione di crescita per molti Giovani Democratici, che hanno avuto l’opportunità di esprimere libera-mente le proprie opinioni, imparando dall’ascol-to e dal confronto. Confronto avvenuto con tanti iscritti, ma anche con diverse persone che non

confidiamo che factoRy365 possa

fungeRe da tRampolino di lancio peR pRaticaRe

un Rinnovamento stRuttuRale del nostRo

paRtito

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avevano mai partecipato attivamente ai Giovani Democratici, ma che esprimevano l’interesse di comunicare con il mondo della politica: questo spirito di apertura sia di sprono a tutti noi nel convincerci che non bisogna temere il dialogo con chi s’impegna al di fuori della nostra orga-nizzazione, ma anzi la pluralità dell’elaborazione politica può tramutarsi in quel passo in avanti verso la valorizzazione e l’arricchimento della nostra proposta ed iniziativa.

Tanti sono gli aspetti positivi che abbiamo ri-scontrato al ritorno da Factory365, per questo appoggiamo e condividiamo l’impegno del Co-ordinatore Nazionale Andrea Baldini di ripro-

porre la Leopolda dei GD anche nel 2015: con la speranza che giornate come il 25 ottobre scorso non siano più necessarie per dare lo stimolo ai Giovani Democratici di pensare in grande e di sperimentare. ◆

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Il 7-8 dicembre anche i Giovani Democratici di Brescia, in buon

numero (eravamo la seconda dele-gazione lombarda), hanno parte-cipato a Factory 365. I commenti dopo quel week end erano davvero positivi da parte di tutti, anche chi ha ormai anni di militanza alle spal-le non nascondeva come questa sia stata una delle migliori esperienze vissute. Per capire le ragioni di tale entusiasmo, può essere utile innan-zitutto spiegare cosa è stata questa iniziativa e qual’era il significato po-litico che ne stava alla base.

Come scritto nel manifesto della Factory, l’obiettivo che come GD ci siamo posti era: “mettere in circolo le idee, farle confrontare, sperimentare nuove forme di discussione anche all’interno del Partito Democratico, e non solamente nelle organizza-zioni di corrente”. Abbiamo voluto, cioè, battere un colpo per dire che noi non ci stiamo ad assistere passivi a questa fase in cui vediamo il nostro Partito estremamente frammentato e incapace di dare quella dimostra-zione di compattezza che sarebbe necessaria per affrontare con spirito deciso le grandi sfide che abbiamo davanti.

Sia chiaro, la presenza di tradi-

zioni e sensibilità politiche diverse all’interno del PD è un fatto assolu-tamente pacifico e che di per sé rap-presenta certamente una ricchezza, soprattutto per un partito come il nostro che aspira a rappresentare una percentuale sempre crescente di cittadini italiani. E’ anche vero che non è certo la prima volta che nel no-stro partito si dibatte di aree, di fran-chi tiratori piuttosto che di scissioni. Tuttavia, probabilmente mai come in questo periodo, le tensioni si sono fatte acute e soprattutto minano un sentiero che dobbiamo necessaria-mente percorrere insieme come PD (e chi altri può farlo?), ossia quello delle grandi riforme di cui l’Italia ha estremo e urgentissimo bisogno. A volte nel nostro dibattito interno, in tutte le varie fazioni, sembra che

MATTEO DOMENIGHINILaureando in giurispruden-za all’Università di Brescia, ricopre l’incarico di segreta-rio provinciale dei Giova-ni Democratici di Brescia

I GD sono il presente del PD

noi non ci stiamo ad assisteRe passivi

a questa fase in cui vediamo il

nostRo paRtito estRemamente

fRammentato

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qualcuno si dimentichi che in questo momento stiamo sostenendo un governo che vede a capo un esponente del PD (il segretario!!). Soprattut-to mi pare che ci si dimentichi troppo spesso che a questo governo ci sono ben poche alter-native, che i cittadini ci hanno dato un segnale importante di fiducia alle elezioni europee ma che questa fiducia è tutt’altro che incondizionata e le tensioni dell’antipolitica sono sempre pronte a riesplodere (a volte peraltro non proprio ingiu-stificate), ove non lo abbiano già fatto.

Il dibattito all’interno del PD, in questa fase storica così importante, però, è spesso sgancia-to dal merito dei temi dei vari provvedimenti legislativi, ed è spesso offuscato, “drogato”, da dichiarazioni e prese di posizione che mirano soltanto al proprio posizionamento o a propri interessi personali. Insomma, un dibattito asso-lutamente autoreferenziale che finisce solo per produrre provvedimenti peggiori di quello che sarebbe stato possibile, e di nuovo allontanare schifati e disorientati gli italiani. Il dibattito non può ridursi, da una parte, al richiamo alla disci-plina di partito (seppure a volte necessario, oggi come in passato) su pacchetti già preconfenziati, piuttosto che, dall’altra parte, alle affermazioni di chi accusa il governo di dialogare con il ne-mico Berlusconi (dimenticandosi che su alcune riforme è necessario, ma dimenticandosi anche che nel nostro governo ci sono anche ministri che tutt’oggi fanno parte del centro destra).

È necessario che sia il Partito Democratico, per le ragioni esposte, ad affrontare questi pro-blemi con coraggio e con un rinnovato spirito di unità, non nel senso favoleggiante di un mondo dove tutti siamo d’accordo su tutto e facciamo i girotondi felici dandoci la mano, ma piuttosto un’unità fondata sulla comune consapevolezza della decisività dell’azione del PD, in tutte le sue componenti, per dare un futuro al nostro Pae-se. Il PD, cioè, deve riscoprire (o inventarne di nuovi) luoghi di confronto vero con al centro il merito delle questioni. Esistono già tante ini-ziative organizzate dalle varie correnti, di per sé legittime e positive, anche se spesso si riducono più che altro a vetrine per qualcuno, ma che co-munque non possono bastare e soprattutto non

possono sostituirsi al ruolo fondamentale che un partito deve svolgere. Non voglio assolutamente pensare ad un partito dove le discussioni si pro-traggano per secoli senza mai arrivare ad una vera conclusione e attuazione, ma un partito ca-pace di dibattere e confrontarsi al proprio inter-no è un partito che può poi agire con maggiore incisività e persino rapidità.

Noi Giovani Democratici, quindi, abbiamo voluto fare proprio questo, ossia dire al partito che noi abbiamo bisogno di questi spazi di con-fronto e che siamo pronti a prendere noi l’inizia-tiva se altri non lo faranno. Peraltro, come GD, anche noi abbiamo qualcosa da farci perdonare: per anni siamo stati inermi o comunque inca-paci di assumere con forza una posizione come avremmo dovuto, preferendo a volte un dibattito fine a sé stesso e incapace di coinvolgere con pas-sione nuovi giovani. In un momento così impor-tante questa iniziativa (ben diversa da quella che a suo tempo fu #occupyPD) è stata per molti un vera boccata d’ossigeno. Vedere un migliaio di giovani partecipare è stato bellissimo (mi chiedo quante altre associazioni/partiti/movimenti ab-biano al proprio interno un’organizzazione gio-vanile capace di organizzare qualcosa di simile), ma anche il segno della grandissima voglia di partecipazione che va davvero assecondata e rac-colta. È anche il segnale per noi, che, se saremo capaci di non disperdere questo spirito, il fiume di ragazzi e ragazze presenti potrà diventare un oceano e allora la nostra non potrà essere una voce inascoltata. Come ha detto bene la nostra giovane parlamentare Giuditta Pini, dobbiamo sempre essere consapevoli e fortemente convinti che, seppure giovani, noi non siamo il futuro del PD e di questo Paese, noi siamo già il presente. ◆

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L’ospitedel mese

L’articolo che vi prestate a leggere è un’interessante riflessione sulla ne-cessità delle riforme istituzionali e sul comportamento tenuto fino ad oggi dalle due principali forze politiche che dominano la scena politica italiana: il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle.

L’autore ed ospite di questo mese è Michele Orlando, attuale Segretario della Federazione bresciana del Partito Democratico e sindaco, al se-condo mandato, del comune di Roncadelle.

Orlando non è nuovo al mondo giovanile essendo stato, per lungo tem-po, un punto di riferimento della Sinistra Giovanile bresciana, movi-mento giovanile legato all’allora partito dei Democratici di Sinistra.

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Nelle pagine precedenti di questo maga-zine (a proposito, ragazzi, complimenti per il progetto, per l’impostazione grafi-

ca, per la qualità dei contenuti) è stato approfon-dito il tema principale di copertina, quello delle riforme istituzionali; vorrei dunque condividere con voi questo mio contributo ragionando attor-no all’atteggiamento che, in proposito, hanno te-nuto le due principali forze politiche presenti in Parlamento e al loro attuale stato di salute.

Di grandi riforme si parla in Italia da almeno 30 anni; ci hanno provato – vado a memoria – Craxi, Iotti e D’Alema (con le rispettive commis-sioni), Maccanico (con il relativo lodo). Qualco-sa è anche andato in porto (penso al Titolo V), oggettivamente senza raggiungere però risultati particolarmente lusinghieri. Inoltre, si dice spes-so che la nostra Costituzione sia la più bella del mondo, una delle più avanzate e delle più attuali; ed è un giudizio che, al di là dell’iperbole, risulta condivisibile.

E allora è davvero necessario riformarla, la Costituzione, e insieme ad essa le principali isti-tuzioni del Paese?

Io credo di sì, tenendo conto delle cose appe-na dette: e cioè che se la nostra è una delle mi-gliori Costituzioni, non va toccata la sua prima parte, quella dei principi generali e dei diritti e dei doveri dei cittadini (se non per ampliare il novero di questi ultimi, adeguandoli all’evolu-zione sociale nel frattempo intervenuta) e che sarebbe opportuno, questa volta, evitare pasticci, formulazioni confuse e ridondanti che sono sta-te all’origine degli eccessivi conflitti istituzionali

che si sono succeduti nell’ultimo decennio. Le riforme sono necessarie per un motivo

molto semplice: se la politica, almeno in Italia, fatica a star dietro ai processi sociali ed econo-mici in atto, se le risposte arrivano con mesi, se non addirittura anni, di ritardo rispetto alle attese, la responsabilità è anche di un “processo legislativo” decisamente complesso, farraginoso, arcaico. Qui è necessario intervenire, con deci-sione; tenendo assieme – cerco di riassumerla così – il principio della celerità, con quelli dell’ef-ficacia (e dunque della qualità delle leggi) e della rappresentanza democratica (e dunque del con-fronto politico).

Se ne parla da 30 anni, recentemente qualche errore l’abbiamo commesso, il tempo per fare (e rimediare) è adesso: il Paese non può più per-mettersi di aspettare.

Il Partito Democratico, con Letta prima e so-prattutto con Renzi poi, ha dimostrato consape-volezza rispetto all’urgenza di questo percorso riformatore: ha avviato un confronto con tutte le forze politiche presenti in Parlamento (e dun-que rappresentanti di larghe fette dell’elettorato italiano), ha messo sul tavolo diverse ipotesi di riforma, ha verificato le reali volontà di andare avanti, ha raggiunto un accordo con quanti si sono dimostrati disponibili, per il bene del Paese (come si dice in questi casi), e l’ha incardinato nelle commissioni di Camera e Senato, chieden-do tempi “umani” per i quattro passaggi parla-mentari previsti dall’articolo 138 della Costitu-zione. Una chiara volontà di fare, e fare bene.

LE RIFORME ISTITUZIONALI:LA SFIDA DEL PD,

IL FALLIMENTO DEI 5 STELLEdi Michele Orlando

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Opposto l’atteggiamento del Movimento 5 Stelle, che alle politiche di due anni fa ottenne un consenso equivalente a quello del PD (intorno al 25%) e che oggi versa in una crisi che a molti pare irreversibile. Se ascoltiamo le voci che arri-vano da dentro, pare che le responsabilità siano da attribuire tutte ai cosiddetti “ribelli”, amma-liati, da un lato, dalle sirene dei vecchi partiti e troppo interessati, dall’altro, alle indennità di ca-rica, con relativi annessi e connessi. Ma io credo che queste versioni siano allo stesso tempo trop-po semplicistiche ed eccessivamente assolutorie: non è solo una questione di scontrini, come vor-rebbero farci credere…

Io sono convinto che la crisi (di consenso, ma non solo) in cui versa il M5S dipenda fondamen-talmente dal fatto che non sia proprio possibile ottenere, dal nulla, un risultato straordinario come quello del 2013 (il M5S arrivò secondo di un soffio, solo a causa del voto degli italiani re-sidenti all’estero, perché il voto degli italiani re-sidenti in Italia lo consacrò, seppur dello stesso soffio, primo partito nazionale) e poi prenderlo, quel consenso, e metterlo nel congelatore. Non è possibile e non è accettabile, in particolare in un Paese come il nostro che, in tutto lo scibile uma-no direi, ha un disperato bisogno di riforme.

I 5 Stelle, nella primavera di due anni fa, han-no perso un’occasione storica: approfittare del fatto che nessun partito avesse la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento e far pesare il proprio consenso accettando di sostenere, ma-gari anche dall’esterno, un Governo di centro si-nistra e condizionandone le scelte. Ma avete di idea di cosa avrebbe potuto fare una compagine simile? Di quale spinta riformista sarebbe stata capace? L’idea di rivoltare, per davvero e final-mente, questo Paese come un calzino non avreb-be potuto essere più a portata di mano…

E invece niente. I 5 Stelle si chiusero nella loro torre, pensando di proteggere le loro presunte purezza e diversità, e il corso delle cose italiane prese un’altra piega. Purtroppo, mi sento di ag-giungere personalmente ancora oggi. Per tutti noi, ma soprattutto per loro: perché questo at-teggiamento sprezzante e poco attento alle esi-genze generali lo stanno pagando tuttora con ab-

bandoni, liti interne, forte perdita di consenso. Gli italiani evidentemente non hanno accettato la loro incapacità di essere in concreto protago-nisti di quel cambiamento che hanno a lungo e con molta enfasi invocato. Altro che scontrini!

E i risultati elettorali sono lì a dimostrarlo: un testa a testa PD-M5S nel 2013, un doppiaggio bello e buono (PD oltre il 40%, M5S intorno al 20%) alle europee dell’anno scorso.

Eccole qui le differenze fondamentali tra noi e loro, che mi confortano una volta di più sulla bontà delle scelte che abbiamo compiuto e che vanno completate nel corso di questo 2015. È in corso, come sembra, un ripensamento in casa 5 Stelle: ottimo. Vorrà dire che finalmente, ma con due anni di ritardo, arriverà anche il loro contri-buto: per rinnovare le istituzioni del Paese, per renderle più attuali e in grado di dare le risposte giuste nei tempi giusti; per ammodernare la no-stra Costituzione, nel rispetto dei grandi valori e dei forti principi che vanno non solo salvaguar-dati, ma rafforzati; per far ripartire il Paese, per liberarne le energie migliori, affrontare e risol-vere le principali emergenze sociali e riportare così sviluppo, nuova occupazione, più equità e quindi maggior benessere. ◆