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234 Il futuro è di chi non ha futuro Valerio Millefoglie Il futuro lo può vivere in pieno chi ancora non ne ha uno. Chi an- cora deve nascere. Tutti noialtri arriviamo in ritardo. Per questo motivo quando sono stato invitato a parlare di “leadership futura”, di come i giovani possono cambiare con la creatività il futuro, non mi sono sen- tito io quel giovane. Al massimo potrei parlare di una “leadership pas- sata”, buona parte di quello che mi accadrà domani fonda le basi sul mio passato. Per sapere invece come cambiare davvero il mondo ho pensato di chiederlo a dei veri esperti di futuro: dei bambini. Nelle scuole elementari si è curiosi di tutto perché tutto è scono- sciuto. E anche io che sono sconosciuto vengo accolto con curiosità. Per prima cosa chiedo: “Secondo voi quali sono i problemi del mondo?”. Alzando la mano rispondono nell’ordine: la guerra, la mafia, l’economia, le tante domande senza risposte. Chiedo allora: “Qual è una domanda senza risposta?”. Nessuno risponde. Noto quindi che è effettivamente uno dei gravi problemi del mondo. Il problema della Guerra Li interrogo: “Come facciamo a porre fine a tutte le guerre?”. “Dicendo parole belle”, suggerisce una bambina. “Quali parole belle?”, le chiedo. “Ciao”, mi risponde. Chi dice “ciao”, penso, ha più voglia di incontrarti e di conoscerti. E più ti conosci e più scopri che il nemico è un’invenzione della lon- tananza. Altri bambini suggeriscono parole belle da dire in trincea: ti vo- glio bene, ti amo. Il problema della mafia Domando se il problema della mafia si può risolvere con le stesse armi con cui abbiamo messo fine alle guerre. Si può sconfiggere la mafia andando dai mafiosi e dicendogli: “Ciao, ti voglio bene, ti amo”? I bambini ridono e rispondono che no, se vai da un mafioso e gli dici che lo ami quello ti spara. La mafia, mi spiegano, nasce a Las 03-234-403 Leadership futura_Difesa 21/06/12 15:12 Pagina 234

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RACCOLTA DI INTERVENTI SULLA LEADERSHIP FUTURA ITALIANA ------(IN ORDINE ALFABETICO)--- TESTI DI--- Gabriele Albertini, Magdi Cristiano Allam, Nelso Antolotti, Angelo Benedetti, Pierluigi Bernasconi, Marco Bizzarri, Dario Bonacorsi, Giovanni Bossi, Carlo Brunetti, Ruggero Brunori, Claudio Buja, Matteo Calise, Loris Casadei, Gabriele Centazzo, Marco Colatarci, Andrea Colombo, Gherardo Colombo, Patrick Colombo, Fabio Cusin, Filippo Antonio De Cecco, Giovanni Degli Antoni, Stefano Dominella, Sergio Dompé, Armando Alisei, Piero Fassino, Diego Fusaro, Giancarlo Galli, Vito Gamberale, Vladimiro Giacché, Giordano Bruno Guerri, Vincenzo Ilotte, Edoardo Imperiale, Giancarlo Innocenzi Botti, Simone Lenzi, Massimo Maccaferri, Maurizio Maggiani, Maurizio Marinella, Valentino Mercati, Paola Michelacci, Valerio Millefoglie, Francesco Mutti, Heiner Oberrauch, Massimo Panzeri, Laura Parigi, Giuseppe Pasini, Francesco Pesci, Marina Debra Pini, Giorgio Pisani, Massimo Pizzocri, Alessandro Politi, Cristiano Portas, Vittorio Prodi, Giulio Properzi, Vittorio Raschetti, Lidia Ravera, Giovanni Reale, Ivan Rizzi, Francesco Rezzi, Fabio Rossello, Carlo Salvatori, Giuseppe G. Santorsola, Giulio Sapelli, Massimo Scaccabarozzi, Andrée Ruth Shammah, Roberto Siagri, Alessandro Varisco, Elio Veltri, Michele Vinci, Andrea Vitullo, Eleonora Voltolina, Alberto Zanatta, Luigi Zoja

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Il futuro è di chi non ha futuro

Valerio Millefoglie

Il futuro lo può vivere in pieno chi ancora non ne ha uno. Chi an-cora deve nascere. Tutti noialtri arriviamo in ritardo. Per questo motivoquando sono stato invitato a parlare di “leadership futura”, di come igiovani possono cambiare con la creatività il futuro, non mi sono sen-tito io quel giovane. Al massimo potrei parlare di una “leadership pas-sata”, buona parte di quello che mi accadrà domani fonda le basi sulmio passato. Per sapere invece come cambiare davvero il mondo hopensato di chiederlo a dei veri esperti di futuro: dei bambini.

Nelle scuole elementari si è curiosi di tutto perché tutto è scono-sciuto. E anche io che sono sconosciuto vengo accolto con curiosità.Per prima cosa chiedo: “Secondo voi quali sono i problemi delmondo?”. Alzando la mano rispondono nell’ordine: la guerra, lamafia, l’economia, le tante domande senza risposte. Chiedo allora:“Qual è una domanda senza risposta?”. Nessuno risponde. Notoquindi che è effettivamente uno dei gravi problemi del mondo.

Il problema della GuerraLi interrogo: “Come facciamo a porre fine a tutte le guerre?”.

“Dicendo parole belle”, suggerisce una bambina. “Quali parolebelle?”, le chiedo. “Ciao”, mi risponde.

Chi dice “ciao”, penso, ha più voglia di incontrarti e di conoscerti.E più ti conosci e più scopri che il nemico è un’invenzione della lon-tananza.

Altri bambini suggeriscono parole belle da dire in trincea: ti vo-glio bene, ti amo.

Il problema della mafiaDomando se il problema della mafia si può risolvere con le stesse

armi con cui abbiamo messo fine alle guerre. Si può sconfiggere lamafia andando dai mafiosi e dicendogli: “Ciao, ti voglio bene, tiamo”? I bambini ridono e rispondono che no, se vai da un mafioso egli dici che lo ami quello ti spara. La mafia, mi spiegano, nasce a Las

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Vegas, dove falsificano i soldi, poi da Las Vegas arriva fino alla Sici-lia. La soluzione per estirparla è questa: cercare di non far parte dellamafia in modo che così le persone che ne fan parte invecchiano emuoiono e con loro muore anche la mafia.

Il problema dell’economiaSecondo qualcuno per uscire dalla crisi economica basterebbe di-

minuire lo stipendio. Secondo qualcun altro bisognerebbe invece di-minuire il lavoro e aumentare lo stipendio. A ogni modo ci sono troppebanche, un paio vanno più che bene. Il baratto è impensabile perchépoi c’è chi se ne approfitterebbe e scambierebbe un telecomando perun televisore. Un altro problema dell’economia è che i giovani, mi di-cono, non riescono a trovare lavoro perché gli anziani sono testardi enon vogliono andare in pensione. Una bambina però ha una proposta:“Appena i tuoi figli lavorano smetti di lavorare”.

“E se non hai figli?”.“Se non hai figli basta che hai un’amica che ha figli e allora vale

anche per te”.Da grandi questi bambini sognano tutti di fare un doppio lavoro.

Ballerina fino a trentadue anni e veterinaria fino a sessantaquattroanni, oppure calciatore fino a trentadue anni e poi il paleontologo finoalla pensione. Sanno già che un sogno non basta, ce ne vuole uno diriserva. E la vita sembra contenere almeno due vite, puoi essere qual-cosa fino a una certa età e dopo diventare qualcos’altro. Quando an-davo io alla scuola elementare avevamo tutti un solo sogno per cia-scuno perché il futuro per i nostri genitori era stato più chiaro e sa-rebbe dovuto essere così anche per noi.

Le grandi scoperte scientificheFra le grandi scoperte scientifiche che facciamo stamattina c’è

anche quella che forse riuscirà a dare a tutti un milione di futuri: lamedicina della vita infinita. “Dopo un po’ vivere troppo a lungo nonrischia di annoiare?”. “No”, mi rispondono in coro.

Un bambino mi spiega che per esempio tu giochi tantissimo, poivai a dormire e quando dormi è come se non ci sei, non esisti, così tirisvegli e sei pronto a tornare a giocare tantissimo.

Inventiamo anche la pillola “Cura Tutto”, una sola medicina nelmondo capace di curare qualsiasi male, e scopriamo anche la medicinache ti trasforma in un animale. Una bambina mi spiega che in questomodo se tu vuoi un cane, invece di prendere il cane prendi questa me-dicina e diventi tu il tuo cane di compagnia. A quest’età stanno già met-

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tendo in conto la solitudine. Un altro ragazzino infatti propone una me-dicina per avere dei cloni di te stesso, così sai con chi andare d’accordo.

Il futuroL’invenzione della macchina del tempo non passa mai di moda.

Nel futuro un bambino immagina di costruirne una per tornare nelpassato.

“Dove vorresti andare?”. “All’asilo”. Un altro bambino invece vorrebbe una macchina del tempo per

andare nel futuro. Già nel futuro si immagina in un altro futuro. C’èchi pensa che nel mondo ci sarà più tecnologia e chi dice che saremotutti sterminati dalla guerra, dire “ciao” non funzionerà. C’è anchechi invece pensa positivo e immagina di giocare a pallavolo con i suoisei figli, tre maschi e tre femmine in modo da avere le squadre pari.

La sedia a cavalloNelle bancarelle dell’usato trovi cose che continuano a parlarti no-

nostante siano piene di polvere o malandate. Tempo fa ho trovato unbellissimo libro dal titolo La felicità con il manico. Nella prima paginal’autore scrive che quando la sedia su cui ci sediamo non galoppa più,quando perdiamo la capacità di immaginare un cavallo al posto dellasedia, in quell’esatto momento perdiamo una miracolosa ricetta di fe-licità. Guardo uscire dall’aula tutti questi bambini con cui oggi ab-biamo risolto i problemi del mondo, penso che ai loro occhi tutto èpossibile, sono in grado di immaginare qualsiasi cosa. Poi a un certopunto si diventa adulti e si perde il talento della fantasia. Osservo lesedie vuote e provo a immaginarle occupate dai bambini, ormai adulti,con in mano il proprio futuro. E le redini per galoppare.

(Valerio Millefoglie, musicista e scrittore)

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La leadership pubblica purtroppo non si accompagna necessaria-mente con un comportamento fondato sull’etica, né tantomeno su unprogetto di positività sociale. La storia, da questo punto di vista, ciporta l’esempio di grandi leader che sono spesso stati anche terribilidittatori. La leadership viene generalmente valutata secondo una mi-sura di efficacia, dove conta più un parametro di coerenza e di foca-lizzazione sul risultato piuttosto che sulla moralità delle azioni in sé.Ogni volta che si va alla ricerca di una guida cui affidare un progettoci porta in una zona ad alto rischio, se non si opera con piena consa-pevolezza e massima prudenza. Non ci si deve illudere troppo, la sto-ria degli uomini soli al comando è più ricca di disastri che di successi.Credo che un Paese oggi debba essere guidato da una élite credibilefondata sulla competenza, ma ciò richiede ai cittadini di non cederealle suggestioni e alle scorciatoie del populismo. Il vero rinnovamentopuò essere solo graduale e deve partire dalla base, qualunque sistemasociale complesso che vuole compiere un percorso evolutivo tropporapido finisce per ottenere solo risultati effimeri e non sostenibili neltempo. Il Paese deve ricominciare a fare progetti con lo sguardo ri-volto alle generazioni future.

Negli ultimi decenni, nonostante il benessere raggiunto, abbiamodimenticato il concetto fondamentale che ha sempre guidato la storiaumana e che consiste nel lasciare in eredità a una generazione suc-cessiva una condizione migliore di quella precedente. Una progressi-vità del disegno sul futuro, la fiducia nella possibilità di migliora-mento costante nel tempo è stato al centro dell’azione delle genera-zioni che si sono succedute l’una dopo l’altra. Gli anziani che sannofare rinunce nel presente per garantire il futuro ai figli agiscono conuna logica altruistica che è allo stesso tempo anche un istinto di so-pravvivenza intrinseco della specie. Negli ultimi decenni però si èoperato un ribaltamento di questa prospettiva. Arrivando a preferire lapropria sopravvivenza rispetto a quella dei propri successori si deter-mina una frattura, una discontinuità in seno al meccanismo etico e vi-

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tale che ha ispirato nei secoli la storia dell’umanità: si rompe anchequella disponibilità al proiettarsi oltre la propria esistenza personalein un orizzonte più ampio. “Dopo di me il diluvio” è la sintesi di unpensiero riduttivo, autoreferenziale e sordo al senso progressivo dellaStoria. Un’indifferenza alle sorti dell’umanità che arriva a bruciare ipozzi di approvvigionamento del futuro lasciando una eredità di ari-dità e desolazione e senza generare alcuna occasione di futuro. Esau-rire tutte le risorse in un tempo di carestia può anche essere il fruttodi una necessità, ma averlo fatto in tempi di abbondanza rivela un as-soluto appiattimento su un hic et nunc del tutto incurante del valoretrans-generazionale della Natura e dei beni dei pianeta.

Nichilismo da un lato e avviluppamento su se stessi dall’altrosembrano segnare, con il proprio tratto pessimista e autoreferenziale,il periodo di gran lunga più prospero dell’umanità che si sia fino aoggi conosciuto. Viviamo in un parossismo del consumo, incapaci didialogare autenticamente con le generazioni a venire: si tratta di unasorta di ripiegamento antropologico sulla pura dimensione indivi-duale. Al di là della semplice trasmissione genetica, il dono verso legenerazioni future si configura come un fattore dinamico, espressionedello slancio vitale e della fiducia nelle sorti progressive del genereumano. Proprio nel momento in cui si è arrivati a toccare l’apice delbenessere ci si è unicamente e ulteriormente concentrati sul consumoe sull’edonismo esasperato. Le ragioni di questa involuzione sonomolteplici, quella più significativa è che stiamo seguendo questo con-sumismo autodistruttivo perché la percezione di essere troppo nume-rosi sul Pianeta porta con sé una sorta di inconscia vocazione all’au-todistruzione o perlomeno a un calo del tasso di natalità nei Paesi piùavanzati. Dunque fino a quando non ci si deciderà ad aprirsi a unaprospettiva di progetto a lungo termine, il Paese si vedrà congelato inun immobilismo stagnante.

Questa mentalità determina il fatto di sacrificare le occasioni cheoffre il futuro per concentrarsi ossessivamente sull’immediato. Cisono innumerevoli esempi a questo proposito, come il condono fi-scale o i provvedimenti di depenalizzazione come l’amnistia o l’in-dulto, che di fronte alle urgenze del presente decidono di posticiparele conseguenze negative in un futuro secondo una logica del tutto privadi saggezza. Del resto non possiamo dimenticare il macigno del de-bito pubblico, il nostro peccato originale di italiani, che si è stratifi-cato nel tempo proprio in funzione di questa traslazione in avanti deltempo della resa dei conti, che, come sappiamo, ora è drammatica-mente arrivata.

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Un ulteriore fattore che ha contribuito a determinare il declinoitaliano è stato quello del peggioramento della qualità dell’istruzione.La scuola è una funzione cardine del nostro sistema sociale e valo-riale. La figura del maestro è stata nel passato di massima centralitàsociale e culturale, dotata di un sapere di inestimabile valore fondatosu una conoscenza ampia e non solo teorica, capace di trasmettere ilsapere fondante a educare le menti, e a istituire una logica profondadi relazioni tra i saperi. Scelto dalla comunità per trasmettere il sa-pere, il maestro ha rappresentato l’archetipo della trasmissione dellaconoscenza necessaria a vivere in modo libero e consapevole. Oggil’insegnante attraversa un processo di perdita di identità e di ricono-scimento sociale. Ciò pregiudica la nostra capacità di generare sapere:si deve invertire la rotta e tornare a investire sulla qualità e la centra-lità dell’istruzione come elemento decisivo dello sviluppo di una na-zione moderna. Questo è l’elemento chiave per offrire vere prospet-tive in un mondo che si fonda sul valore sempre più strategico e cru-ciale della conoscenza. È fondamentale crescere nuove generazionicon menti ben strutturate da un pensiero che riesca a coagulare l’in-finità vastità del sapere in una dimensione più euristica che nozioni-stica, per cercare di far convivere e interpolare paradigmi diversi di co-noscenza in un’armonica fusione di umanesimo, tèchne e dimensionedel sacro, un sapere dal forte tenore sapienziale come un libro scrittonei valori sommi dell’etica filosofica, liberata dai dogmi ma ispiratada un principio di libertà di coscienza e di ricerca. In un modello diquesto tipo, diventa possibile anche costruire una cultura di etica pub-blica e di civismo diffuso per le nuove generazioni. Solo un’eleva-zione collettiva del livello di civiltà e cultura dell’etica praticata è ingrado di portarci davvero fuori dalla crisi e aprire autentiche condi-zioni di sviluppo, in una prospettiva di ricerca dell’autentico bene co-mune. La crisi da questo punto di vista è un’enorme palestra di ap-prendimento morale e sociale.

Credo profondamente nel concetto di leadership anche se nonposso negare la presenza di alcuni rischi, in fondo gli stessi che già lafilosofia antica aveva indicato, come la degenerazione possibile dellatirannia. Il rischio di una leadership negativa è purtroppo più fortedell’opportunità di una leadership positiva, e, se escludiamo perso-naggi della levatura morale di Gandhi, i leader hanno spesso mostratopiù il loro lato negativo ed eccessivo piuttosto che equilibrato e posi-tivo. Se la leadership è accompagnata da un popolo che si lascia tra-scinare senza consapevolezza verso una deriva assolutistica e populi-stica si corrono grandi rischi rispetto al mantenimento dell’equilibrio

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del quadro istituzionale e democratico di una nazione. Ho molte ri-serve sugli effetti della seduzione populistica in una fase di grandifrustrazioni come quella che attraversiamo. La leadership alimenta sestessa in una dimensione assolutistica che travalica i grandi princìpietici. Pensiamo al leader che legittima l’omicidio politico in nome deldesiderio di potere. C’è un rischio di amoralità. Spesso il leader è do-tato di una personalità fuori dagli schemi, ridondante e di un caratteresingolare. Il leader è il frutto anche di un’attesa messianica e carisma-tica e di un investimento esagerato di una comunità o di un popolosulle virtù e sul carattere individuale in grado di fungere da guida. Illeader deve essere in grado di autolimitarsi e contemporaneamentepermettere la crescita di persone accanto a sé capaci di interagire inmodo etico, creativo e libero alzando continuamente il livello dellasfida al perfezionamento e partecipando a un processo dialettico nellaricerca delle soluzioni ai problemi.

Quando le istituzioni diventano autoreferenziali e si perde il dia-logo indispensabile tra corpo politico e società civile diventa difficilemantenere un tessuto vitale nella nazione. Un ruolo fondamentale èquello della magistratura che deve garantire forse il compito più deli-cato tra le funzioni dello Stato. La giustizia si fonda su un equilibriodifficile e precario: la norma giuridica può essere aggirata, spesso lalegge è purtroppo assimilabile alla tela del ragno che cattura il piccoloma viene tranciata dal grande, di questo abbiamo purtroppo infinitiesempi. Le norme giuridiche stanno alla base della possibilità del pattosociale che fonda la convivenza tra i cittadini. Una legge che tra le altreriveste un ruolo di assoluta rilevanza proprio perché al centro dellosnodo del sistema politico è la legge elettorale. Malauguratamente unotra i peggiori sfregi al nostro Paese è stata l’approvazione dell’attualelegge elettorale. Il massimo sfregio è stato quando lo stesso autoredella legge, forse con una punta di ironia autobiografica, l’ha battez-zata “porcellum”. Al di là dell’ironia, si deve riconoscere che quandosi arriva al punto di approvare intenzionalmente una legge pessimasolo per convenienza di parte si raggiunge un livello di decadenzasenza pari. Errare è umano, perseverare è diabolico, ma celebrare inpubblico e coscientemente i propri errori è davvero troppo. Fare l’apo-logia dei propri errori è il punto più basso dal punto di vista dell’eticapubblica. Qui abbiamo già oltrepassato la soglia dell’abisso: in una so-cietà dove nemmeno la vergogna ha più la funzione di porre un frenodi inibire l’apologia del degrado. La comunità è ormai talmente obnu-bilata dalla mancanza di rigore che perde la capacità di dirimere, distabilire una soglia tra ciò che è accettabile o meno dal punto di vista

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dell’etica e della decenza pubblica. Manca la capacità di segnare un li-mite invalicabile di fronte al declino morale. Si sono travolti gli arginianche di un minimo senso morale di una decenza pubblica. Viene amancare una pubblica riprovazione, una stigmatizzazione collettiva diciò che è inaccettabile, a causa di un’opinione pubblica disorientatadai media e che non riesce a riflettere con profondità sul senso dei fe-nomeni che stiamo vivendo. C’è una incapacità di ritrovare una dire-zione in un contesto che ha smarrito la stella polare, le coordinate mo-rali di riferimento. Troppi falsi allarmi hanno reso scettica una comu-nità che fa fatica a valutare il vero livello di pericolo morale. Èimportante urlare allo scandalo quando effettivamente di scandalo sitratta e non urlare per il solo gusto di fare rumore. Bisogna ripartire daun’educazione collettiva al rispetto del bene pubblico. Bisogna ripar-tire dalla capacità di dare un senso morale a quello che accade. Il fu-turo è davvero nelle nostre mani. Ci sono alcuni elementi che possonospingere ad aguzzare l’ingegno, in fondo la crisi motiva a un maggioreimpegno e ad affinare l’intelligenza come spinta atavica alla sopravvi-venza. Il nostro Paese può decidere di svegliarsi da questo torpore e co-minciare ad agire. Il futuro non è già scritto, il futuro si costruisce nelpresente. Tutto questo dipende dalla nostra capacità di provare a mi-gliorarci dopo l’inconsistenza del governo degli ultimi anni e la sedi-mentazione di errori sia da destra sia da sinistra. Non basta un semplicecolpo di reni per provare a risollevarsi ma occorre tutta la costanza diun impegno costante e tenace. Serve essere meno consumisti ed edo-nisti ma essere più concentrati su quello che si sta facendo: questa è lalunga marcia che dobbiamo fare, che non è fondata sulla brillantezzadello scatto ma sulla tenacia della resistenza alla fatica. Non ci sonoaltre strade, la guida oggi può essere solo quella di una leadership fon-data sulla credibilità pragmatica dell’esempio e sulla sobrietà di un’e-ducazione al sacrificio.

(Francesco Mutti, CEO Mutti)

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Heiner Oberrauch

La leadership richiede obiettivi precisi, idee chiare e mission bendelineata: quando si possiedono caratteristiche di questo tipo la leader-ship si manifesta immediatamente, si irradia dalla persona grazie auna assoluta determinazione nel ruolo guida. Quando un ruolo è vis-suto con intensità e dedizione assoluta, quando la leadership è inter-pretata in modo serio, allora si comunica sempre, allora il messaggioarriva all’esterno in modo incisivo. Ciò che si vive sul serio viene co-municato con assoluta forza. Il miracolo della comunicazione auten-tica è che la vera convinzione sa convincere. Per questo diventa indi-spensabile l’aver compiuto un percorso di autocritica interiore, di auto-analisi interiore da parte del leader che deve essere in grado diinterrogarsi sulla intensità e la qualità della propria convinzione. Il lea-der deve chiedersi con assoluta sincerità se vuole davvero qualcosafino in fondo senza margine di dubbio. Non si può essere leader conuna convinzione al 90%, lo può essere solo se si crede al 100%.

Ci sono tante aziende con belle idee e ottimi progetti, ma la diffe-renza fa l’esecuzione conseguente e il successo del leader. Il leader nonè solo colui che ispira, ma anche colui che conduce passo dopo passoil percorso dell’impresa verso gli obiettivi. Il leader è il garante dellacoerenza dell’organizzazione, ed è fondamentale il suo contributo allacostruzione dell’identità e della biografia organizzativa dell’azienda.

Le persone che circondano il leader, se non avvertono questa sin-cerità e trasparenza, questa onestà, questa forte determinazione peruno scopo, non sono in alcun modo disposti a seguire una persona chenon riconoscono come vero leader. Ciò non deve essere confuso conpopolarità: la leadership non deve per forza fondarsi sulla popolarità,lo vediamo in questo momento di crisi con Mario Monti che mostra untratto molto asciutto con quasi nessuna concessione al circo media-tico ma assolutamente chiaro e intelligibile, esclusivamente concen-trato sugli obiettivi e con una concezione del potere per cui il traguardoda raggiungere viene sempre anteposto alle scorciatoie della popola-rità incentrate sulla personalizzazione della leadership. C’è una precisa

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scelta di lasciare da parte qualsiasi atteggiamento istrionico.Chi mette al primo posto la propria persona, creando un culto nar-

cisistico del proprio io, in realtà non ha la leadership ma è spesso undebole destinato inesorabilmente a veder crollare il proprio potere.L’obiettivo da raggiungere deve essere sempre sovraordinato rispettoalla propria persona. Serve una nuova sensibilità. In una situazione dicrisi come quella attuale il popolo sente come sia stato a lungo raggi-rato da una leadership non autorevole e concentrata sul tentativo siste-matico di nascondere i problemi dietro una cortina fumogena di di-sinformazione, architettata ad arte nel tentativo di ritardare il mo-mento della resa dei conti con il disagio degli italiani.

Normalmente in azienda i leader migliori sanno calamitare e mo-bilitare il talento delle persone più dotate: ciò moltiplica come un vo-lano il potenziale di una organizzazione mobilitando una vera e pro-pria sfida al fare meglio in una rincorsa di tutti verso l’eccellenza.

A proposito della genesi della leadership, in una sua molto docu-menta ricerca, il professor Malik dell’Università di San Gallo, dopoaver analizzato e comparato i profili di leader di primo piano – dovenascono, che tipo di cultura possiedono, da che tipo di estrazione so-ciale provengono, in che tipo di famiglie vengono educati, che tipo discuole frequentano, in che religione credono, che sport e che hobbypraticano – ha dovuto concludere che non esisteva nulla in comune tratale insieme eterogeneo di personaggi se non due elementi di fondo:la precocità e la presenza di una figura esemplare.

Cominciare il più presto possibile ad avere la possibilità di guidarepersone e assumere ruoli di responsabilità e management consente disperimentare l’arte della motivazione e la gestione strategica delle per-sone leadership, perché si tratta di una attitudine che richiede espe-rienza e raffinamento di tecniche di ascolto e persuasione che richie-dono esperienza e assertività che si nutrono soprattutto di esperienza.Il secondo aspetto che si mostra come una vera propria costante nellagenesi del leader è quello di avere avuto accanto negli anni formativiuna figura esemplare, una guida, un mentore, una figura simbolicamolto significative per il leader in formazione. Serve una struttura in-tellettuale, una personalità forte in grado di plasmare il carattere e lastruttura volitiva del leader.

Ci sono personalità di tipo etero-motivate che ricevono la motiva-zione dall’esterno e ci sono invece altre personalità di tipo auto-moti-vate che producono la motivazione dal proprio interno; ci sono personefondamentalmente etero-dipendenti, e persone autonome; le personeautonome e che sono in grado di produrre la motivazione da sé riflet-

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tono una tendenza naturale alla leadership. Si tratta di un modello psi-cologico che dipende in gran parte da esperienze profonde che hannoorigine sin dalle esperienze infantili o dal periodo di metamorfosi del-l’adolescenza in cui si modellano i tratti più compiuti della personalità.

La funzione del leader è quella di assumersi la responsabilità e latempestività della decisione. Fondamentale per il leader in sé è la fun-zione delle antenne che devono funzionare per intercettare i messaggi,i segnali provenienti dal mondo ma anche dal futuro. Se il leader noncoltiva il contatto con la “base” dell’organizzazione e le persone riceveinformazioni non adeguate e perde il contatto con la realtà e cominciail declino. Non si può vincere il futuro con le armi del passato. La vi-sione del leader è per forza di cose frutto di un talento volitivo e di unospirito individualistico, non è democratica ma è elitaria. Per essere lea-der ci vuole passione e coraggio, come seconda istanza c’è poi un fil-tro razionale di logica e calcolo di costi e benefici per raffinare unastrategia efficace, ma se si parte solo da una analisi razionale di tenta-tivo di controllo alla luce dell’esperienza, la leadership non può funzio-nare perché rimane agganciata a paradigmi del passato, a schemi giàrealizzati e dunque per definizione obsoleti e inadatti ad affrontare ilnuovo che arriva.

Il coraggio è fondamentale: perciò lo abbiamo inserito nei nostrivalori aziendali: abbiamo creato un premio per incentivare la propen-sione all’innovazione ma anche un riconoscimento a chi sa assumersidei rischi anche senza aver ottenuto risultati positivi. L’uomo è un “ani-male abitudinario” che tende alla ripetizione: soprattutto tende a reite-rare i comportamenti e le procedure che hanno ottenuto successo. Fa-vorire l’attitudine al cambiamento dei paradigmi richiede un grandeimpegno da parte del leader della trasformazione. Tocca al leader ispi-rare e perseguire strade non confortevoli ma creative e innovative.

L’etica nel passato è stata diretta da una formazione religiosa ma infondo tutto quello che conta davvero sono i rapporti umani, l’autenticovalore della vita. Credo che anche il turbo-capitalismo con il suo mioperagionare sul breve debba confrontarsi con l’interrogazione sul propriosenso e anche sulla propria efficacia, visti i risultati distruttivi sul lungoperiodo. Oggi c’è una eccessiva enfasi e inflazione della parola “soste-nibilità” mentre sarebbe più utile ripensare al concetto di “responsabi-lità”. Serve più sensibilità e lungimiranza da parte dei leader ma ancheda parte del mercato. Il consumatore valuterà maggiormente tutto ciòche è “vero” e quello che sta “dietro” il prodotto. Serve una maggioreattenzione selettiva che sappia riconfigurare un’etica della verità nelcommercio e nello scambio economico. È fondamentale la circolazione

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di informazioni corrette e verificate per mettere a prova la vera traspa-renza dei valori delle aziende, non basta una spolverata di green imagesulle aziende per ricostruire una autentica credibilità: serve piuttostouna analisi rigorosa e approfondita che tenga conto dell’identità realee storica di un brand nel tempo, della sua moralità economica.

Bisogna mettere in atto tutta l’energia di trasformazione operandoun cambiamento strutturale, generazionale e morale nelle istituzioni:bisogna rivitalizzare le istituzioni con nuove idee e nuove persone.Quando un sistema politico è marcio, quando si assiste impotenti allapolarizzazione estrema della ricchezza e all’impoverimento sistema-tico della classe media che è il sale di una nazione, quando c’è unastruttura istituzionale non più in grado di dare risposta alle istanze dimodernizzazione e di giustizia ed equità provenienti dalla società civile,allora bisogna aver coraggio di cambiare. Perciò si deve rompere que-sta struttura ormai incapace di rispondere alla trasformazione e al bi-sogno di futuro. Si deve snellire e accelerare il tempo dell’approva-zione dei provvedimenti legislativi conservando tutto il coefficiente didemocraticità del parlamentare. Si deve avere il coraggio di rivoluzio-nare una struttura che non funziona modificando radicalmente l’archi-tettura dei poteri nel sistema politico, a partire da una riduzione del nu-mero dei parlamentari: basterebbero a mio avviso cento parlamentari diqualità. Il politico deve godere della massima reputazione sia perso-nale sia professionale: allora può essere anche pagato profumatamentemeritando la piena stima e la considerazione degli elettori e dei citta-dini. La rappresentanza politica e il pluralismo sono certamente im-portanti, ma possono essere garantiti anche diminuendo il numero diparlamentari. Serve maggiore velocità e misurabilità dei processi deci-sionali della politica da attuare semplificando il modello di policymaking e decision making. Senza cedere al populismo leghista, ma seil sistema è così marcio si deve rompere un meccanismo, certamente sideve essere saggi e capire cosa deve essere locale e cosa deve esserecentrale. In una Europa coesa c’è spazio per un sano livello di sussidia-rietà: molte decisioni devono essere decise a livello locale perché nonpuò più essere deciso tutto in base a un rigido modello centralistico. Ilcittadino deve poter partecipare direttamente e controllare immediata-mente l’operato di chi amministra il territorio. Serve una maggiore per-centuale di democrazia diretta: ci sono molti argomenti sui quali il po-polo è maturo e deve poter decidere direttamente in molte questioni ri-tornando a essere protagonista e riappropriandosi della propria dignità.

(Heiner Oberrauch, presidente Gruppo Oberalp-Salewa)

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Energia di trasformazione

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Oltre l’autoreferenzialità burocratica

Massimo Panzeri

Il ruolo di un leader all’interno di una PMI credo consista nel di-stribuire in modo efficace, razionale ed equo, mansioni e compiti trai collaboratori, diritti e doveri, regole intelligibili e trasparenti, all’in-terno dell’organizzazione, determinando obiettivi realistici e moti-vanti secondo un livello adeguato di responsabilizzazione personale.

La mia attività essendo in posizione apicale è fondamentalmentequella di gestire e correggere gli altri. Bisogna ammettere che le per-sone oggi tendono a non considerare i vincoli e le norme che li ri-guardano, questo porta inevitabilmente a far pagare a qualcun altro lepropria mancanza di responsabilità determinando un circolo viziosodi scarico di responsabilità e un effetto di deresponsabilizzazione a ca-tena che genera una entropia della macchina organizzativa del lavoroe dei servizi pubblici. Ripristinare un quoziente maggiore di respon-sabilità individuale è un valore etico e insieme un veicolo di mag-giore efficienza per arrestare una deriva sempre più diffusa nel nostroPaese. Vedo con preoccupazione affermarsi questo atteggiamento siain azienda sia all’esterno. Si tratta di un costume deprecabile che in-veste non solo il mondo del lavoro ma è una tendenza degenerativa delsistema nel suo complesso, frutto di una crisi del concetto di respon-sabilità che ha un tratto ormai di tipo generale e culturale. Farsi caricodi un problema in prima persona, farsi parte attiva della risoluzionedi una questione affrontandola proattivamente sta diventando sempreraro: lo scopriamo semplicemente vivendo in questo Paese. Ciò av-viene a tutti i livelli, nessun escluso: chi ha che fare con la PubblicaAmministrazione, con un istituto bancario, con un ospedale, con ilcall-center di una azienda. A volte, non dico risolvere un problema,ma solamente riuscire a prendere contatto, a parlare con una PubblicaAmministrazione, richiede una defatigante gimkana, un percorso trafunzionari e ostacoli procedurali e burocratici.

La leadership funziona solo a partire da una processo di corrispon-dente empowerment o responsabilizzazione da parte dei collaboratori.Senza una reciproca relazione tra leadership ed empowerment non è

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possibile istaurare una relazione di influenza e feedback che consentedi crescere in una direzione coerente con una visione e una missione.

Una questione fondamentale è quella delle competenze e dellavera professionalità. Le persone tendono ad appiccicarsi un titolo in-dipendentemente dalla reale competenza, con totale noncuranza ri-spetto a quello che oggettivamente sono in grado di fare: c’è una ten-denza ad appropriarsi di titoli senza possedere alcuna professione. Afuria di concentrarsi solo per titoli finisce per mancare la reale com-petenza e la conseguenza sono inefficienze macroscopiche: l’ospe-dale che non funziona, l’azienda modello che di colpo inspiegabil-mente fallisce, la banca che smette di erogare credito.

Questo rapporto puramente nominalistico e non esperienziale conil lavoro genera un processo di crescita ipertrofica delle aspettativesenza corrispondere a una reale capacità. Ci fermiamo ai titoli, il me-dico, l’ingegnere, l’architetto, questo crea una situazione che non stain piedi e il mercato, che non guarda in faccia ai titoli di nessuno, cipunisce. Il titolo rende poi il professionista sempre più autoreferen-ziale e non disponibile a collaborare in una organizzazione, sia privatasia pubblica.

Certamente il ruolo del vero leader è quello di attuare delle ma-novre correttive per ripristinare lo spirito di collaborazione nei con-fronti del gruppo attraverso una ricostruzione del senso dell’azionecollettiva. Il leader deve contribuire a ricreare un tessuto di connes-sione nei rapporti tra l’organizzazione e i collaboratori. Nel sistemapubblico, la tendenza è ancora più forte a causa della strutturazione al-tamente burocratica e parcellizzata dei processi di gestione ammini-strativa e di ripartizione delle competenze, che accentuano la separa-zione stagna tra uffici e fanno perdere il senso e lo scopo finale a cuiè indirizzata l’azione amministrativa. Lo Stato ha perso il contatto conla realtà sociale e produttiva. Il tentativo di semplificazione della bu-rocrazia spesso attuato con poca convinzione si trasforma in una ul-teriore complicazione burocratica e una ulteriore ridondanza di re-gole. Questa burocrazia insensata, opaca e irrazionale, sta distrug-gendo le possibilità di sviluppo di un intero Paese zavorrandolo alsuolo in un’epoca in cui il capitalismo leggero viaggia ai livelli più altidell’atmosfera.

Il problema principale del nostro sistema Paese non è di mancanzadi creatività o di non sapere confezionare un prodotto di alta qualità odi eccellente design, ma è il fatto di non riuscire a poterlo realizzare inItalia a costi competitivi. Subiamo enormi vincoli burocratici che in-cidono negativamente e che oltretutto non ci pongono neppure al riparo

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Oltre l’autoreferenzialità burocratica

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dalla concorrenza sleale di produzioni di altri Paesi. È una burocraziaautoreferenziale fatta di rigidità e controlli formali e priva di sostanza.La burocrazia ci chiede di adeguarci a essa, pretende che siamo noicittadini ad adeguarci senza far nulla per adeguarsi alle istanze di mo-dernizzazione e semplificazione. Ci affidiamo a una leadership esclu-sivamente mediatica e virtuale di annunci e manifesti: il banchiere cheannuncia alla stampa una nuova politica di credito alle piccole aziende,mentre poi sul territorio non si trova una filiale disposta davvero a ero-gare credito alle aziende. Ci si avvale dell’effetto annuncio per tranquil-lizzare l’opinione pubblica, ma la realtà del Paese è tutt’altro, una rap-presentazione pilotata dall’alto e veicolata dai media.

È assente una guida autentica organica e integrata, una politicadelle riforme strutturali. La leadership pubblica deve rappresentareun punto di riferimento di credibilità e una guida morale per un Paesesmarrito. Quello che è indispensabile e manca è un riconoscimentocollettivo delle nostre colpe a livello di etica pubblica: non c’è unavera autocritica, ma solo comprendendo dove abbiamo sbagliato pos-siamo provare a ripartire. Un simulacro di tutto questo rigore che cimanca è l’inasprimento della lotta all’evasione fiscale ma, pur meri-torio, non sembra una svolta radicale, un cambiamento di marcia sulversante dello crescita. Si deve ripartire da una maggiore coerenzanelle scelte e nelle professioni; serve una seria politica meritocraticaa partire dalle competenze professionali: si deve ripristinare il princi-pio per cui si può fare carriera sulla base delle proprie risorse e nongrazie alle conoscenze e relazioni personali. Non è tanto una que-stione dei livelli di retribuzione dei dirigenti pubblici e dei boiardi diStato, ma piuttosto dell’introduzione del principio di misurabilità deirisultati e della comparabilità delle loro prestazioni professionali ri-spetto a quelle delle altre nazioni. In Italia ci troviamo di fronte allasituazione per cui persone spessissimo incompetenti occupano posi-zioni apicali nella Pubblica Amministrazione e dal vertice infondonola loro impronta negativa a tutta la struttura. In Italia le municipaliz-zate sono circa 11mila su 8mila comuni italiani, di queste soltanto lo0,3 per cento sono in attivo, tutte le altre sono in perdita: si tratta diuna inefficienza clamorosa e insostenibile.

L’Italia di oggi non si muove alla stessa velocità del resto delmondo: è necessario un cambiamento, un percorso e una visione chiaradi dove si vuole arrivare. Manca la certezza del diritto, manca il sup-porto a chi avviare una nuova impresa: c’è una pregiudiziale anti-indu-striale che demonizza l’impresa a priori. Il Paese ha bisogno di ripren-dere un percorso anche lento, ma virtuoso, dove la leadership politica,

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economica, giudiziaria, amministrativa smetta le abitudini corporativee operi una credibile convergenza sul bene comune. C’è bisogno dicertezze anche sul piano fiscale: chi non paga le tasse deve essere pu-nito, ma chi le paga non deve vivere il terrore di errori dell’Agenziadelle Entrate. La Pubblica Amministrazione tende troppo spesso adagire in un rapporto di sovra-ordinazione e non in condizioni di paritàrispetto ai cittadini che troppo spesso arrivano a percepirsi come sud-diti inerti alla mercé di un pubblico potere arbitrario.

La speranza per L’Italia è quella di un ricambio a livello politicoe industriale che sappia finalmente mitigare l’effetto delle rendite diposizione. Purtroppo i parassiti sono resistenti e riescono a sopravvi-vere anche nelle condizioni estreme, riescono a perpetuarsi anche alcambio dei climi e delle ere geologiche. Siamo arrivati a un puntocosì basso che diventa indispensabile ripartire da zero. Occorre pren-dere coscienza che lo sviluppo industriale è la base da cui partire percreare lavoro, per contribuire all’efficienza e al funzionamento del-l’apparato pubblico e del sistema della relazioni sociali e del welfare.La mia impressione è che ben pochi abbiamo la percezione, la di làdella crisi, di che cosa si vuole ottenere, e prevale il tentativo di puromaquillage con delle piccole correzioni superficiali. Singoli provve-dimenti isolati a mio avviso non in grado di determinare una vera ri-partenza del sistema. La crescita del PIL non si risolve con il tagliodelle pensioni o con una variazione di qualche aliquota fiscale.

Ci si accapiglia in un frontale muro contro muro sull’articolo 18dello Statuto dei Lavoratori, si parla di maggiore flessibilità del mer-cato del lavoro, ma dove oggi dove si può trovare lavoro nel nostroPaese? Chi perde lavoro a Palermo dove può ritrovarlo? Forse trasfe-rendosi a Milano troverà un istituto di credito disposto a concedere unminimo di credito per aprirsi un mutuo? Può un giovane imprendi-tore con una brillante idea ottenere un fido bancario senza offrire so-lide garanzie immobiliari? Non mi sembra che ci sia un disegno glo-bale integrato, una visione d’insieme. Vedo proposte spot su singolitemi, improvvise avanzate e poi timide ritirate, nonostante la tenaciadel professor Monti. Mi piacerebbe che da questa crisi potesse aprirsilo spazio per un nuovo Stato italiano con la progressiva correzionedei nostri principali difetti strutturali. Il vero problema è che non sitratta solo di un impoverimento diffuso del Paese, ma è il fatto cheattraversiamo una crisi totale sistemica, che investe ogni settore pro-duttivo del nostro Paese. In Italia gli investitori investono meno diquanto dovrebbero perché c’è troppa incertezza. Noi possiamo ancheavere grandi idee ma poi manca il combustibile, l’ossigeno finanzia-

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rio, tutto diventa inutile. Siamo in un piccolo stagno quando gli altriPaesi sono in mari più grandi dove nuotano pesci più forti e più ag-gressivi, e noi come industria andiamo a perdere occasioni su occa-sioni, investimenti, competenze. Leadership politica significa poteredi indirizzo nel Paese e potere contrattuale in termini di politica indu-striale internazionale e in sede europea.

Si deve come prima cosa incentivare il lavoro: lo Stato deve ri-durre il carico fiscale sul lavoro, allargando la base occupazionale piùampia: il benessere economico è infatti condizione necessaria per ren-dere più liberi. La mancanza di occasioni lavorative obbliga ad accet-tare qualunque proposta e induce a seguire come messia qualsiasi pif-feraio magico o istrione della politica nei suoi incantamenti che ciportano ad annegare in un fiume di illusioni.

Si deve poter arrivare a essere in grado di scegliere con raziona-lità e libertà il nostro destino collettivo di nazione democratica ed evo-luta, evitando le scorciatoie di facili promesse di leader incantatori.

(Massimo Panzeri, amministratore delegato Atala)

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Intelligenza emotiva del leader

Laura Parigi

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In che modo è possibile costruire un percorso di ricambio dellaclasse dirigente del nostro Paese?

Statistiche e studi approfonditi ci propongono da qualche tempoil ritratto di un Paese nel quale la classe dirigente presenta una pre-senza femminile risicata, un livello di istruzione meno elevato rispettoa quello delle classi dirigenti francesi o tedesche, giusto per citare unpaio di esempi, e un’età media elevata, tra le più alte d’Europa.

Dicevano Gary Hamel e Gary Getz: “L’innovazione è il combusti-bile della crescita. Se una società rimane senza innovazione, rimanesenza crescita”. La certezza che una società che invecchia e stenta atrovare un equilibrio tra le generazioni nella sfera sociale, politica edeconomica sia destinata a restare priva di partecipazione reale e con-seguentemente di spinte innovative, dovrebbe spingere la classe diri-gente attuale a intraprendere con urgenza misure atte a investire nellapreparazione di una classe politica futura che possa guidare il Paesecon lungimiranza.

Partendo quindi dalla consapevolezza che in momenti di profondocambiamento, come quelli che stiamo vivendo, vi è la necessità digrande energia e visione illuminata da parte della classe dirigente at-tuale, occorre che essa predisponga attività mirate al trasferimento delleconoscenze alle generazioni future, incentrate, anche all’interno delmondo politico, all’accompagnamento passo dopo passo dei giovani.

A questo riguardo, in una recente intervista, il presidente Napoli-tano ha detto: “Se i giovani rimangono lontani dalla politica questaandrà sempre peggio”. Egli si è poi riferito alla politica come espres-sione dell’impegno collettivo generale di tutti i cittadini, augurandosiche il disinteresse e la sfiducia che i giovani spesso confessano di pro-vare per la politica siano di stimolo ai partiti ad aprirsi sempre di più aforze nuove che guidino il Paese verso un cambiamento strutturale,verso una visione della politica che ponga la persona sempre al centro.

Un percorso quindi di responsabilizzazione progressiva, durante ilquale prevalga un atteggiamento di coaching, di delega graduale ma pro-

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gressiva da parte della classe dirigente attuale, nel quale si infonda fidu-cia, si conceda la possibilità di sbagliare e si intervenga solo per evitaregli errori più gravi, condurrà senza dubbio ad aprire le porte a giovani ditalento, proattivi, che sanno mettersi in gioco, educandoli a ricoprire lefuture posizioni di responsabilità, sia a livello economico sia politico.

I giovani non dovrebbero essere soffocati dal confronto continuoe assillante con chi li ha preceduti ma guidati dalla classe dirigente at-tuale al cambio generazionale con la convinzione che solo il dialogo,il confronto, l’accettazione delle nuove idee, il riconoscimento del me-rito e la valorizzazione dei talenti porteranno nuova linfa a un Paese chepuò tornare a crescere e a essere rispettato sulla scena internazionale.

Come trasformare un processo di inesorabile declino del paese inuna opportunità di cambiamento?

Famiglia e scuola, educatori e figure di riferimento per i giovanidevono tornare a parlare, con il loro esempio, di senso di responsabi-lità, di diritti ma anche di doveri, di meritocrazia, di rispetto delle re-gole di convivenza civile, di valori positivi, di etica, di lotta alla corru-zione, tornando a trasmettere valori essenziali ai giovani: rispetto deglialtri, impegno, sacrificio, onestà intellettuale, rispetto di se stessi.

Trasmissione di valori cardine e capacità di progettare il domanidovrebbero portare innanzitutto la classe dirigente attuale a dare prio-rità a politiche che incidano sul sistema educativo e dell’istruzionedelle generazioni future, per riappropriarsi della funzione educativa,così centrale per lo sviluppo e la crescita dei giovani.

La speranza delle giovani generazioni risiede inoltre in un sistemad’istruzione in grado di fornire strumenti culturali e tecnici per ec-cellere nella competizione globale fondata sempre più sulla bontàdelle conoscenze, sul saper fare e il saper innovare, e nel quale docentipreparati siano in grado di trasmettere conoscenze in modo accatti-vante, sintonizzandosi sul loro linguaggio.

Per compiere un salto di qualità e formare una classe dirigente ade-guata a guidare il Paese anche in periodi di turbolenza come questo oc-corrono nuovi strumenti. I politici italiani non provengono dalle Gran-des Écoles francesi, né possono godere del ruolo formativo che a livellopolitico hanno avuto nel passato alcune grandi università inglesi. Tutta-via sarebbe auspicabile non circoscrivere la formazione delle futureclassi dirigenti al mero ruolo formativo dei partiti politici, ma dotare ingenerale la scuola di un sistema d’istruzione che esalti la tenacia, la co-stanza, il senso di responsabilità in tutti i campi; che promuova il colle-gamento reale con il mondo delle imprese non solo attraverso forme

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come lo stage o l’alternanza scuola-lavoro, ormai in vigore da anni, mache sia in grado di implementare nella scuola alcuni concetti attinti dalmondo delle imprese come il lavoro per obiettivi, il lavoro in team, losviluppo di progetti specifici; un sistema che incentivi il dialogo tra cul-ture diverse, inteso come ricchezza e non come pericolo, che dia visibi-lità ai giovani che hanno realizzato progetti interessanti, mettendosi ingioco ma non facendo notizia, che offra modelli diversi da quelli so-vente proposti dai masse media e di cui poco si parla. Il sistema d’istru-zione del futuro dovrà essere in grado, a mio avviso, di coniugare il sa-pere classico con l’innovazione, la tradizione con le nuove tecnologie,in un mondo in cui internet rende disponibile ogni sorta di informazionia chiunque, in qualsiasi luogo e momento, in cui la conoscenza sidiffonde istantaneamente su scala internazionale, dove tutto accade intempo reale, dove siamo chiamati a essere sempre tutti connessi.

Soprattutto in questo contesto e in questo momento storico so-gniamo un paese nel quale la guida di persone di maturità e di espe-rienza, ma ancora troppo legate alla conservazione dello status quo edelle posizioni acquisite, ceda il passo a una nuova generazione pre-parata a raccogliere la sfida di una nuova leadership, che armonizzitradizione e innovazione, che si attivi per porre in essere un cambia-mento vero e per la quale la valorizzazione del talento e il riconosci-mento del merito non siano un’eccezione ma diventino la regola.

Come donna non posso che augurarmi che si vincano presto al-cune resistenze ancora presenti nel scegliere una donna per ricoprireincarichi di responsabilità in alcuni settori e che si veda presto ilgiorno in cui anche il nostro Paese possa avere l’onore di avere unacandidata donna alla Presidenza della Repubblica o alla Presidenzadel Consiglio e che possa essere eletta. Anche questa scelta rappresen-terebbe una svolta verso un cambiamento vero e profondo nella lea-dership e nella guida del Paese.

Quali sono le caratteristiche personali e le competenze necessa-rie di un leader credibile?

La perdita di fiducia nella leadership dell’attuale classe dirigenteva di pari passo con il cambiamento del concetto di autorità. L’auto-rità un tempo era fondata in se stessa, per il solo fatto di esistere ra-ramente veniva messa in discussione. Non è più così.

Non basta impartire ordini per vederli realizzati, sia in aziendache in altri contesti. Una riflessione sulla figura del leader si è quindiimposta con il passare del tempo.

Si pensi ai concetti introdotti da David Goleman sull’intelligenza

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Intelligenza emotiva del leader

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emotiva del leader: egli deve possedere empatia, cioè deve essere ingrado di sviluppare la capacità di mettersi in sintonia e in accordo coni propri interlocutori; autocoscienza, cioè l’abilità di riconoscere e ge-stire i propri sentimenti, le proprie emozioni e capire l’impatto che illoro manifestarsi potrebbe avere sugli altri; l’autoregolazione, cioè lacapacità di “sospendere il giudizio” e di controllare i propri impulsi;la motivazione, che va oltre il denaro e lo status che dalla posizionedi leader deriva, in una parola l’energia e la passione per raggiungeregli obiettivi prefissati; le capacità sociali, ossia l’abilità di gestire re-lazioni e costruire rete (networking).

Avrà successo, in futuro, il leader che sarà in grado di saper co-struire rapporti duraturi e trovare intese all’interno e all’esterno dellapropria realtà aziendale.

E ancora Kjell Nordstrom e Jonas Ridderstrale nel loro Funky Bu-siness Forever dicono: “Questa è l’epoca del tempo e del talento, l’e-poca nella quale stiamo vendendo tempo e talento, sfruttando tempo etalento, organizzando tempo e talento, confezionando tempo e talento.”

Il talento è inteso come la somma di capitale intellettuale, capitalesociale e capitale psicologico, a sottolineare il fatto che oggi l’indivi-duo per essere leader necessita un costante aggiornamento delle pro-prie competenze (talento). L’apprendimento oggi è in corso d’opera,la scolarizzazione non si ferma quando una persona varca la sogliadel mondo del lavoro, l’apprendimento è continuo, ed è generatoanche in contesti eterogenei, a volte non formali.

Il leader oggi è inoltre colui che gestisce il fattore tempo in modoottimale, aumentando reattività e flessibilità, mantenendo, pur in unasocietà che richiede di essere perennemente connessi, un equilibriotra la sfera professionale e quella privata.

Anche in questo contesto vi sono comunque alcune caratteristichepersonali a mio avviso imprescindibili dalla figura del leader incampo economico, politico e sociale: il leader è una persona che en-tusiasma e ispira, capace di influenzare altre persone, di guidare eorientare, grazie anche al suo ascendente, un’organizzazione. Il lea-der trasmette passione con entusiasmo.

“Il cattivo leader è colui che gli individui disprezzano, il buon lea-der è colui che gli individui onorano, il grande leader è colui che fadire agli individui ‘l’abbiamo fatto noi’”. Lao Tsu

Il buon leader è colui che possiede vigoria intellettuale ed esube-ranza emotiva, che è in grado di cogliere le differenze all’interno diuna squadra, saperle gestire, portando gli individui di quella squadraa raggiungere risultati che da soli non avrebbero saputo cogliere.

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Quali sono i valori/le caratteristiche non negoziabili che devonoispirare la leadership?

L’integrità morale, la trasparenza nei rapporti con gli altri, la credi-bilità sono valori strettamente connessi all’esercizio della leadership.

Essere autorevoli, determinati, curiosi, gestire i conflitti, avereuna visione e l’ambizione di realizzarla, assumersi la responsabilità didecisioni solitarie e rischiose, essere affidabile, saper ascoltare e co-municare, avere passione e manifestarla con entusiasmo sono trattifondamentali di un leader, in ogni campo.

Ma non basta. Un buon leader, a mio parere, deve saper motivarei propri collaboratori, dare feedback, essere in grado di presidiare gliaspetti organizzativi della struttura nella quale opera e deve sapercreare un clima di apprendimento e di progresso continuo dei propricollaboratori e delle future leve dirigenziali, grazie al proprio sup-porto e a specifiche azioni di coaching, orientate all’assunzione dimaggiori responsabilità.

È possibile parlare di leadership etica?A mio avviso si esercita una leadership etica nel momento in cui

la stessa è coerente con gli obiettivi e la mission che la struttura stessasi è data, nel rispetto della storia, dell’identità e della cultura dell’or-ganizzazione. Il leader etico manterrà inoltre un rapporto di traspa-renza con i sui collaboratori, ispirato da valori quali l’onestà intellet-tuale e la correttezza.

La leadership etica antepone il bene dell’organizzazione al pro-prio, promuove il rispetto della res publica, intesa come il patrimonioche un’organizzazione, un’azienda, una nazione devono salvaguar-dare a beneficio di tutti i suoi membri.

(Laura Parigi, presidente e direttore generale Parigi Group International)

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Intelligenza emotiva del leader

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L’Europa “siamo noi”

Giuseppe Pasini

Ognuno di noi, all’interno del proprio ruolo e nel rispetto reci-proco delle competenze, deve sentirsi parte attiva di un processo col-lettivo e condiviso che deve aprire un cambiamento profondo dellacultura civile, economica, sociale e politica del Paese. Gli imprenditoridevono fare fino in fondo la propria parte, devono spingere ancora dipiù l’acceleratore dell’innovazione, impegnandosi al massimo, perchésolo così l’Italia può davvero trasformare la crisi epocale che sta attra-versando in un’occasione per cambiare: disinvestire e lasciare il Paeseal suo destino in un momento come questo sarebbe come decidere diabbandonare una nave che affonda. Non ci si salva da soli, la ricchezzaè collettiva, non c’è scampo se non si prende coscienza che a salvarsideve essere innanzitutto il tessuto connettivo che rappresenta l’animadella nazione. Dalle crisi si deve e si può uscire, ma per farlo occorrereinventarsi. Lo spirito di un imprenditore deve essere quello di esseresempre pronto a rilanciare, a ristrutturare i processi, i business, a cam-biare marcia, pensando a investire sulla formazione, sul futuro, sui gio-vani, sull’innovazione, a investire quindi sul cambiamento.

Nel bilancio economico delle imprese ci sono degli elementi comel’investimento in formazione che purtroppo non vengono sufficiente-mente evidenziati e che pure rappresentano una risorsa fondamentalee un investimento sul futuro. Per questo, come Feralpi nel 2004 ab-biamo intrapreso un cammino volto a rendicontare con trasparenza lanostra attività ponendola sotto la lente della sostenibilità. Nel 2005 ab-biamo pubblicato il primo bilancio di sostenibilità rendicontando iltriennio precedente. Poi abbiamo lavorato su base biennale, pubbli-cando i bilanci nel 2007, nel 2009 e l’ultimo pubblicato nel dicembre2011. La formazione del personale ricopre un ruolo fondamentalenella generazione, sviluppo e mantenimento delle conoscenze e dellecapacità su cui si fonda il vantaggio competitivo di qualsiasi impresa.

Leadership economica e politica rappresentano due poli fonda-mentali della vita del Paese che, mantenendo autonomia ed evitandocommistioni e conflitti di interesse, devono evitare di delegittimarsi a

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vicenda, ma collaborare assumendosi la responsabilità di contribuirea traghettare l’Italia fuori da una crisi che non è solo finanziaria e con-giunturale, ma strutturale, sistemica e morale. La tanto vituperata po-litica è solo la punta dell’iceberg di un Paese attraversato da una crisiche si somma a decenni di declino. Conosciamo tutti bene i limitistrutturali di un Paese che per anni si è arroccato in una antistoricaconservazione e proprio per questo siamo chiamati come classe diri-gente ad assumerci gli oneri di abbandonare le rendite di posizione econtribuire al cambiamento. I limiti del Paese sono sotto gli occhi ditutti e il riconoscimento di ciò fa parte di una necessaria operazione diverità a cui non possiamo sottrarci: come imprenditori non possiamoconsolarci attribuendo tutte le responsabilità alla politica, dobbiamofarci carico delle nostre dirette responsabilità. L’imprenditore è già persua natura uomo di azione, di assunzione di responsabilità in primapersona perciò è chiamato a un ruolo anche simbolico ed esemplare:deve diffondere il senso e i valori della cultura d’impresa. Leadershipsignifica innanzitutto responsabilità e assunzione di oneri in primapersona senza mai rinviare agli altri quello che si può fare diretta-mente. Leadership significa anche fare da subito, senza procrastinareall’infinito, il peso delle decisioni in un attendismo tattico e troppoprudente. Come imprenditore e come Presidente della Federacciaisento di dovere questo impegno di dignità per la mia azienda, per il set-tore produttivo che rappresento e per il mio Paese, che ha bisogno diritrovare una credibilità internazionale a partire dal rapporto con i part-ner europei. A questo proposito mi ritengo un europeista non solo con-vinto, ma superconvinto, perfettamente in linea con quanto efficace-mente sostenuto da Mario Monti quando, interrogato a proposito delnostro rapporto con le istituzioni comunitarie, ha significativamentedichiarato: “L’Europa siamo noi”.

Credo che i supermanager strapagati, sia nel privato che nel pub-blico rappresentino un pessimo esempio quando avulsi dai risultaticoncretamente raggiunti. È un fatto che non solo urta la sensibilità col-lettiva, ma che si contrappone anche alle ragioni dell’impresa produt-tiva. Non mi riferisco certo all’azzeramento dei compensi del top ma-nagement legati alle stock options, ma alla necessità di assumere l’im-pegno di moralizzare un sistema, spesso irrazionale, che arriva ancheall’eccesso di compensare persino pessime performance dei manager.È indispensabile, al contrario, mitigare l’effetto della macroscopicapolarizzazione della ricchezza tutta a favore del top management. Oltrea essere iniqua e ingiusta, alimenta una distorsione della distribuzionedella ricchezza che fomenta malesseri con il rischio, nei casi più

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L’Europa “siamo noi”

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estremi, di incentivare sollevazioni sociali. La sensibilità delle demo-crazie occidentali nei confronti di questo modello così sbilanciato staerodendo lo spessore della classe media e si scontra con i ceti intellet-tuali e, soprattutto, lede gli interessi legittimi delle giovani generazioni,sempre più indignate di fronte a questi meccanismi ingiustificati einaccettabili di remunerazione finanziaria non legata ai reali valoridella produzione. Servono buon senso e nervi saldi, la divisione so-ciale non fa bene a nessuno, non si possono rimuovere le ragioni delmalessere facendo finta di nulla, le immagini che provengono dallaGrecia sono sotto gli occhi di tutti. La classe dirigente, la leadership po-litica, economica, le parti sociali devono collaborare per cercare diascoltare, comprendere e cercare di dare risposta alle piazze sempre piùcalde di questa crisi senza confini e di cui ancora nemmeno si intravedela fine. Non è solo il settore pubblico, ma anche il privato a dover ri-dimensionare certe storture e privilegi. Da una parte la casta della po-litica, con i suoi mille privilegi immotivati, dall’altra i compensi fuorimisura del top management delle grandi corporation: è il sistema dellaleadership in se stesso ad avere perso il senso della misura e del con-fronto con la realtà. Sempre più i leader si trovano a vivere in unastratto iperuranio del privilegio che non si confronta con la dimen-sione concreta della realtà e della responsabilità.

Sono convinto che la politica, che il settore dell’amministrazionepubblica non siano, come sostiene un certo qualunquismo antistatali-sta, un tutt’uno da buttare. C’è molto da salvare, ma anche tanto da mi-gliorare. Per parte pubblica, non si può più intendere il crocevia di milleconflitti di interesse, oppure un terreno di caccia per chi è alla ricercadi affari vantaggiosi. Il settore pubblico non può essere il trampolino dilancio delle carriere di opportunisti e parassiti. Il pubblico siamo tuttinoi. Per questo chi governa la cosa pubblica deve essere dotato di con-vinzione autentica e privo di interessi personali. La leadership pubblicarichiede una cultura delle istituzioni e della trasparenza amministra-tiva. La gestione della cosa pubblica non può prescindere dalle doti diascolto e mediazione, attitudine all’inclusione, rispetto delle opinionidissenzienti e capacità di prendere decisioni anche impopolari.

In un Paese con un tale livello di economia sommersa, rappresentaun aspetto decisamente importante e fondamentale il ricominciare apartire da una riqualificazione del valore della legalità come fattore es-senziale della qualità della vita economica del Paese. Noi con il bilan-cio sociale intendiamo dare una risposta anche a questo perché sen-tiamo il bisogno di lavorare nella più completa trasparenza. L’Italia nonpuò continuare a essere la maglia nera in Europa per quanto riguarda

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il sommerso. C’è bisogno di rafforzare la nostra cultura sociale. De-vono essere salvaguardate e premiate le imprese che da questo puntodi vista hanno un approccio esemplare. Gli italiani devono riprenderea essere orgogliosi del valore della legalità come elemento decisivo edistintivo della dignità individuale e collettiva. Si tratta di essere rispet-tosi anche nei confronti di coloro che non possono sfuggire ai controllie che sono la stragrande maggioranza del Paese: i dipendenti privati epubblici su cui grava gran parte del carico fiscale del nostro Paese.

Ormai le scuole di partito non ci sono più. Con esse abbiamo persola capacità di trasmettere il valore e la passione per la politica volta albene del Paese, con visioni lungimiranti e intuizioni capaci di dise-gnare un futuro migliore per l’Italia e per gli italiani. È ovviamente piùche anacronistico pensare di tornare a un sistema di scuole di partitocome ai tempi della Democrazia Cristiana e al vecchio Partito Comu-nista. Sarebbe solo frutto di una nostalgia immotivata che la fine dellaguerra fredda, il crollo del muro di Berlino e la fine della prima re-pubblica hanno consegnato definitivamente agli archivi della storia.

Oggi, purtroppo, abbiamo davanti ai nostri occhi una classe poli-tica fatta di persone senza alcuna esperienza o, peggio ancora, fieri dileggere in questa mancanza di cultura politica un elemento distintivo dipregio e garanzia di differenza costitutiva rispetto al ceto politico. Que-sto è ciò che abbiamo visto con l’esperienza riconducibile all’ascesadella Lega Nord. Oggi, questa si è rivelata una mera illusione. Dopoquasi un ventennio di potere locale e nazionale, ha mostrato il suo verovolto che non si discosta dal livello medio della classe politica.

In realtà è ingenuo o arrogante pensare che chiunque, sprovvistodi cultura o di esperienza amministrativa possa svolgere con profes-sionalità il difficile compito che spetta a un vero politico. Sarebbesolo un’improvvisazione dannosa per il Paese.

È indispensabile ripartire da una concezione nobile e qualificatadella formazione politica e non invece da una immagine populisticae vernacolare della funzione politica, che tende ad allontanare i gio-vani talenti e le migliori risorse intellettuali e morali del Paese. Se sivuole crescere come leadership del Paese si deve partire proprio dauna professione di umiltà da parte di chi deve amministrare lo Statonel riconoscimento che per gestire la cosa pubblica servono nonpoche, ma molte qualità: tecnica e competenza, moralità personale,etica pubblica, e una grande dose di capacità di ascolto.

(Giuseppe Pasini, presidente Federacciai)

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Francesco Pesci

Secondo la mia esperienza la leadership è fatta principalmente ditre componenti: la prima è la competenza professionale intesa noncome competenza specifica o specialistica ma come una solida cono-scenza del settore in cui si opera, la seconda è l’attitudine all’assun-zione diretta di responsabilità in prima persona: per essere leader bi-sogna infatti sapersi assumere pienamente la responsabilità delle pro-prie decisioni e quindi sapersi esporre direttamente non limitandosia svolgere il ruolo di “camera di compensazione” di decisioni chevengono prese ad altri livelli. Il leader deve assumersi il ruolo di forzamotrice dell’organizzazione. Un leader deve possedere una propen-sione a un problem-solving di tipo dinamico e pragmatico.

La terza componente della leadership consiste nella visione allar-gata a tutte le componenti dell’organizzazione: il leader deve essere ingrado di raggiungere un punto di equilibrio tra tutte le componenti ot-tenendo una sintesi a costo di scontentare qualcuno. In realtà spesso di-venta necessario scontentare un poco tutti per riuscire a creare equili-brio tra le varie componenti. Il leader ha il dovere istituzionale di rag-giungere il punto di migliore equilibrio possibile dell’organizzazione.

Per quanto riguarda la leadership pubblica in Italia si sente lamancanza una istituzione formativa superiore di alto livello come l’É-cole nationale d’administration francese. In Francia si percepisce unsenso dello Stato molto più forte e dunque si sente la necessità dellapresenza di una alta burocrazia con un alto senso dello Stato. Sensodello stato significa per il burocrate agire lealmente per conto delloStato e non per conto di una parte politica che si trova al potere in undeterminato momento. Questa impostazione morale e culturale del-l’alta burocrazia funge da argine rispetto a possibili sconfinamentiche la classe politica con al sua naturale bramosia di occupazione delpotere può avere avuto anche oltralpe: si tratta di un indispensabilecontropotere tecnico che è perciò in grado di resistere alle pressioniindebite della classe politica al potere. Purtroppo in Italia non dispo-nendo di una istituzione formativa superiore di tale livello è difficile

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creare una alta burocrazia tecnica in grado di rappresentare un bacinodi competenze e di attitudine all’imparzialità capace di resistere alleseduzioni e alla cooptazione del potere politico. La mancanza di unacultura tecnica della burocrazia rende gli apparati dello Stato menoautonomi e capaci di assertività nella tutela della imparzialità dell’a-zione amministrativa. In Italia la burocrazia amministrativa ai suoivertici è espressione diretta del potere politico, né è troppo spesso unaemanazione fondata sul principio della lottizzazione politica trannealcune lodevoli eccezioni tra cui spicca la Banca d’Italia, che proprioper l’eccellenza e l’imparzialità dei suoi uomini viene considerata unasorta di “riserva della Repubblica” a cui attingere nei momenti di crisie impasse delle istituzioni.

Io auspico che nel nostro Paese si avvii una seria e meditata rifles-sione sulla necessità di contribuire a conferire maggiore senso e di-gnità alle istituzioni e alle funzioni pubbliche: troppo a lungo si è de-legittimato e condotto campagne di comunicazione in cui si conti-nuava a considerare lo Stato come un ingombro, un impiccio controcui combattere oppure come un organismo da occupare a favore deipropri interessi politici. Delegittimare lo Stato è un gesto suicida peruna nazione. Troppo spesso si dimentica che lo Stato siamo noi, se loStato è inefficiente o paralizzato nella sua azione è la nostra stessacomunità nazionale che ne risente direttamente. Considerare lo Statoun corpo estraneo alla comunità rappresenta un fattore tanto demago-gico quanto distruttivo. Mi sembra che questa insistenza su questotasto demagogico di sistematica delegittimazione delle istituzioni ri-veli tutta la nostra immaturità di italiani rispetto su questo argomento.Occorre compiere su tali questioni una riflessione seria e ponderatasvincolandosi dalle pulsioni più emotive. Auspico anche che sia pos-sibile nominare ai vertici della Pubblica Amministrazione delle per-sone provviste di comprovato possesso di un senso alto e nobile del-l’etica pubblica ispirate dalla sola passione per il perseguimento del-l’interesse collettivo. Oggi in Italia c’è un deficit di cultura morale atutti i livelli: politico, professionale, imprenditoriale, amministrativo.Quando si occupa una posizione di potere all’interno di una determi-nata amministrazione si deve essere provvisti di una capacità di auto-censura, di freno rispetto alle tentazioni del potere.

La cronaca recente ci ha rivelato situazioni grottesche al limitedel ridicolo che investe il ceto politico con una cortina di fango maivisto neppure nei momenti peggiori della storia del nostro Paese. C’èbisogno di una svolta significativa, un salto epocale di discontinuitàcon un costume morale da basso impero che travolge il senso della

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moralità pubblica. Persone ai vertici della politica incapaci di resi-stere ai privilegi e agli agi della casta conducendo vite dispendiosealle spese dello Stato che si fanno persino rimborsare vacanza extra-lusso in alberghi e centri di benessere a carico della collettività. Que-sto è un sintomo di un malessere più profondo, che non è semplice-mente dovuto all’invadenza dei partiti ma che ha invaso le menti dellacasta. Lo spettacolo a cui abbiamo assistito recentemente è desolantenon solo dal punto di vista politico, ma umano: il livello di dignitàespresso dai politici in questi tempi è stato davvero inqualificabile.La soluzione è un diverso meccanismo di selezione dei cittadini inParlamento e questo rimanda alla questione del meccanismo della se-lezione della classe dirigente in Italia. Il carattere della dignità è fon-damentale. I comportamenti esecrabili sono diventati non l’eccezionedeviata ma la norma sfacciata dell’abuso sistematico e della totale as-senza di pudore. A spaventare è soprattutto questa assenza di vergo-gna, questa protervia disposta a tutto.

Storicamente, gli interessi mercantili che hanno costituito la spintapropulsiva del sistema capitalistico europeo hanno sempre saputo tro-vare degli anticorpi per individuare al proprio interno dei limiti agliinteressi della rapacità prettamente individuale. Però la borghesiaodierna rispetto a quella del passato mi sembra essere più in difficoltànel sapersi autolimitare allo scopo di mantenere il Paese coeso nelsuo insieme come comunità di interesse. Se la borghesia vuole conti-nuare ad assolvere un ruolo di classe dirigente come ha sempre fattoa partire dal momento in cui ha cominciato ad acquisire il potere dallaclasse aristocratico monarchica, deve essere effettivamente in gradodi farsi portatrice di interessi di classi che non appartengono esclusi-vamente a quella propria di riferimento. Per questo è indispensabileesprimere una leadership illuminata. Una leadership che sia in gradodi rappresentare un punto di equilibrio tra quelli che sono gli interessiin conflitto tra le varie categorie sociali che costituiscono il Paese. Laborghesia italiana in passato è stata in grado di rappresentare questoequilibrio, a partire da un certo periodo in poi non è più riuscita ad as-solvere a questa funzione proprio perché si è sempre più manifestatouno scadimento in termini di motivazione ed etica pubblica e di sensodello Stato. L’irruzione delle masse sulla scena politica ha de-sogget-tivato la responsabilità individuale determinando al contempo il pro-dursi di visione sempre più opaca ed appannata rispetto alla necessitàdi assumere una responsabilità per il bene collettivo. Si deve costatareuna difficoltà da parte degli italiani di oggi di fare “mea culpa” e diassumersi la responsabilità dei propri insuccessi. Senza una presa di

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coscienza non si può arrivare a riconoscere la radice del problema, aindividuarla con precisione e innestare efficaci azioni correttive.

Quando ci sono state le manifestazioni per la ricorrenza dei 150anni dell’Unità di Italia, la risposta degli italiani di ogni genere, classee generazione mi è sembrata estremamente chiara dalle Alpi fino allaSicilia, non solo da parte degli intellettuali o dei dirigenti di partito,ma dalla maggioranza delle persone comuni che hanno manifestato unprofondo attaccamento nei confronti della storia e dell’integrità ef-fettiva della nazione.

Anche nel passato esistevano partiti contrapposti, ma i partiti sirendevano conto che quando erano al governo non potevano governareesclusivamente in funzione dei propri elettori ma dovevano agire inrappresentanza di tutti gli italiani. Una svolta capace di riassegnarealla politica una funzione di mediazione e sintesi darebbe un fortis-simo contributo alla fiducia nei confronti delle istituzioni da parte deicittadini comuni. La dialettica politica può essere anche forte a par-tire dalla campagna elettorale, ma quando un partito arriva al potereperché è stato voluto dalla maggioranza degli italiani, deve trasfor-marsi in rappresentante di interessi collettivi e nel protettore perma-nente di una sola parte. Noi da troppi anni viviamo un tasso di con-flittualità permanente che impedisce la soluzione concreta dei pro-blemi. La soluzione dei problemi non passa attraverso un’ottica ditipo conflittuale e della semplificazione, ma in un’ottica di media-zione e di comprensione della complessità e dell’interdipendenzadelle soluzioni. A questo proposito la vicenda della TAV non mi sem-bra che abbia mostrato un deficit di discussione sull’argomento; sipuò continuare a discutere all’infinito, ma il principio è che bisognaristabilire la capacità di scegliere: se un’opera pubblica viene appro-vata da una comunità nel suo complesso non si può poi continuare arimanere indefinitamente ostaggio dei veti e degli ostruzionismi estre-mistici di una parte o di una minoranza che impedisce l’attuazione diun provvedimento legittimamente già deciso. Se non usciamo da que-sta contrapposizione infinita e incapace di sintesi il Paese rimarrà eter-namente bloccato. In questa pessima “Seconda Repubblica” la classepolitica e un sistema mediatico connivente hanno incoraggiato unaforma perversa di politica-spettacolo, che ha determinato lo scadi-mento del livello del dibattito politico alla peggiore rissa: questo li-vello di abbassamento si è replicato nella dimensione del dibattito trasemplici cittadini in una diffusione emulativa del dibattito rissoso atutti i livelli di discussione collettiva sul territorio. Le passioni politi-che vengono declinate seguendo il paradigma della discussione tra

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tifosi del calcio. Questa è la conseguenza di una ventina di anni ditolleranza nei confronti dell’imbarbarimento e impoverimento del dia-logo politico, che abbiamo subito passivamente come italiani.

Il governo tecnico è il frutto non di una decisione sovrana del po-polo italiano ma delle pressioni dei mercati internazionali e delle isti-tuzioni politiche sovranazionali. La genesi del governo tecnico rivelaperciò il senso della effettiva gravità e patologia del momento chestiamo vivendo come sistema politico. Gli italiani hanno una respon-sabilità collettiva e diretta in quella deriva irresponsabile che ha de-terminato l’acuirsi di una crisi morale su una crisi economico-finan-ziaria internazionale; bisogna assumersi la responsabilità di quelloche è accaduto in Italia negli ultimi venti anni senza scaricare le colpesulla congiuntura economica internazionale. Serve una analisi ap-profondita che sappia trarre le dovute conseguenze. Il rischio altri-menti è di ricadere nella condizione precedente, nei vizi di sempredel nostro Paese. Un rischio cui andiamo purtroppo incontro è quellodella rimozione del passato. Fino agli anni Ottanta i governi che sisono succeduti, nel bene o nel male, ma comunque una direzione alPaese hanno saputo indicarla. Dagli anni Ottanta in poi invece si èmanifestata una situazione di crisi di idee, di valori e di visione del fu-turo. Pensiamo alla costruzione delle grandi infrastrutture autostra-dali e alla situazione attuale del contenzioso sulla TAV. Se negli anniSessanta, quando si costruì l’autostrada del Sole, ci fossero stati motisul tipo di quelli che oggi vediamo contro la TAV, certamente nonavremmo una grande rete autostradale capace di unire la Penisola.

Il nocciolo della questione è il tema dell’autoreferenzialità deipartiti politici. Senza una trasformazione culturale, in grado di modi-ficare la concezione dell’agone politico come lotta per la sola edesclusiva occupazione del potere senza ritornare alla concezione delpotere come arte del governare la collettività, non basterà un maquil-lage della legge elettorale per dare una svolta effettiva. Sin dall’iniziodegli anni Ottanta Enrico Berlinguer evocò inascoltato la questionemorale in questo Paese senza che nessuno sia arrivato a dare una ri-sposta: è un problema morale di etica pubblica che i partiti non sonostati in grado di risolvere. Gli Italiani hanno fiducia nei tecnici anzi-ché nei governi politici. Ma il rischio cui andiamo incontro è che lapopolazione italiana arrivi a ritenere che dei partiti politici non ci siadavvero più bisogno e quindi il Paese possa essere governato perma-nentemente dai tecnici: ma questo creerebbe un gravissimo vulnus perla democrazia che richiede una legittimazione con libere elezioni euna competizione tra partiti politici alternativi. Se, come Cincinnato,

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dopo aver esaurito il suo compito, il presidente Monti allo scaderedella legislatura dovesse ritornare al suo ruolo di Rettore della Boc-coni, che cosa accadrebbe davvero in Italia? Ci troviamo innegabil-mente infatti a un punto di svolta epocale, credo che i cittadini ita-liani non sopporteranno il ritorno a governi ispirati da partiti autore-ferenziali dediti esclusivamente all’occupazione della cosa pubblica.Il tempo a disposizione è breve, brevissimo rispetto ai compiti che ilgoverno tecnico si è prefisso, è solo quello che resta fino alla naturalescadenza della legislatura. D’altra parte non si può negare che reite-rare un governo tecnico significa rischiare di uscire dal regime di de-mocrazia parlamentare così come l’abbiamo conosciuta per arrivarea una svolta di tipo elitario o tecno-autoritaria che, senza passare perun golpe violento, comunque significa un processo di formazione digoverno di emergenza fondato sul principio di legittimazione per com-petenza e non per volontà popolare. Una sorta di aristocrazia del po-tere come strumento di legittimazione politica del governo rappre-senta un arretramento del concetto di democrazia come delineatosinell’Occidente. I partiti politici rappresentano il medium indispensa-bile per l’articolazione del dibattito e delle proposte politiche. I mo-vimenti sono importanti, l’opinione pubblica altrettanto, ma poi è in-dispensabile la funzione di raccordo dei partiti politici rispetto all’at-tività parlamentare. Per esempio il movimento viola ha mostrato unagrande capacità di mobilitare persone e consenso dell’opinione pub-blica. Ma un movimento a-partitico quale tipo di risultati può raggiun-gere? Se le proposte non possono essere raccolte da nessuno, dove sipuò articolare una proposta politica in grado di intervenire efficace-mente sulla realtà? Questo brillante modello movimentista della po-litica rischia però la sterilità limitandosi a un fenomeno di protestaincapace di tradursi in azione concreta. Per questo serve una idea pre-cisa, una visione precisa sul proprio Paese. Serve una autocoscienzanazionale circa il nostro ruolo a livello mondiale. Noi in Italia ci di-mentichiamo di quale deve essere il nostro ruolo come Paese nelmondo. Quello che sono le nostre responsabilità nei confronti di noistessi e della comunità finanziaria e industriale internazionale. Mancauna leadership europea, siamo lontanissimi dall’epoca di fondazionedella comunità europea, non possiamo più confidare in un leadershipeuropea forte che supplisce alle nostre debolezze politiche nazionali.Dobbiamo avere il coraggio di affrontare queste debolezze perché c’èbisogno di più Italia in Europa. Siamo un decisivo per l’Europa per-ciò abbiamo la responsabilità di contare di più nelle istituzioni e nellepolitiche comunitarie.

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Oggi in Italia c’è bisogno di persone che siano disponibili ad as-sumersi determinate responsabilità: purtroppo non è più vero quelloche l’ironia pessimistica di Roberto Saviano ha detto sul nostro Paesee cioè che: “Per fare la rivoluzione in Italia occorre che ognuno fac-cia il proprio mestiere”. Oggi forse non basta nemmeno questo,ognuno di noi deve andare oltre l’ordinario spendendo il proprio co-raggio. Sempre per parafrasare Flaiano, Monti rischia di diventarecome il “Marziano a Roma” in una città disincantata della politicache non è disposta a concedere a nessuno più del tempo necessario,che è pronta voltare le spalle a tutte le novità, anche le migliori: perquesto il tempo è il vero avversario del governo tecnico. Per questoserve una sorveglianza morale e un impegno serrato: bisogna tenerel’Italia in una condizione di allerta permanente perché il debito pub-blico, la mancanza di crescita economica, i problemi infrastrutturali,la diffusione della corruzione e la presenza di una criminalità organiz-zata in grado di controllare il territorio di molte aree del Paese unitaal divario fortissimo tra Nord e Sud fanno dell’Italia una nazione arischio. Questo non è – come diceva Giulio Andreotti – “Il momentodi tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia”, oggi occorre fareuno scatto di orgoglio verso l’ideale oltre il cinismo della real-politik.Non possiamo più permetterci di abbandonarci all’autocompiaci-mento della decadenza neppure se dorata. Non è più tempo di vagheg-giare l’irresponsabilità.

(Francesco Pesci, amministratore delegato Brioni)

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Il ruolo pedagogico della leadership pubblica

Marina Debra Pini

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L’etica nella nostra azienda è fondata su un codice di comporta-mento fatto di valori come onestà, correttezza, trasparenza, assenza didiscriminazioni di qualsiasi forma e valorizzazione della persona.Gore negli anni ha realizzato una vera e propria mappatura evolutivadel terreno simbolico dei valori aziendali che contraddistinguono lapropria vision per arrivare a declinare un codice etico capace di ab-bracciare la complessità di una concezione moderna di azienda glo-bale. Tutti i nostri collaboratori, a qualsiasi livello, prestano il proprioconsento al nostro codice etico Associates Standard of Ethical Con-duct non solo apponendo l’atto formale della propria firma, ma rice-vendo una formazione, un training mirato per apprendere a confron-tarsi con i dilemmi e le questioni più rilevanti dell’etica applicata allavita aziendale. L’etica infatti non deve ridursi a posa intellettuale, apura dichiarazione di intenti, ma deve tradursi in una prassi quoti-diana di comportamento, un modus operandi vissuto all’interno delledinamiche e dei processi aziendali e delle relazioni di lavoro. L’eticaè allo stesso tempo un valore individuale, una modello di responsabi-lità in prima persona, ma deve estendersi anche a una forma collettiva,a un noi declinato in un costume collettivo.

In questo senso è decisivo trovare un punto di incontro, un co-mune sentire tra il sistema valoriale personale e quello aziendale.Sarei disposta a cambiare azienda domani se l’azienda mi chiedessedi tenere comportamenti incompatibili con il mio personale modelloetico. Non avrei nessun esitazione a mettere le mie dimissioni sul ta-volo qualora venissi indotta a comportamenti contrari alla mia perso-nale concezione di moralità; ma altrettanto sono convinta, per la miaesperienza che questo non avverrà, del resto sono da vent’anni in que-sta azienda che da sempre rispecchia il mio modo di interpretare i va-lori. L’etica si trova in un punto di equilibrio delicato quando deveproiettarsi da una dimensione soggettiva, personale e fondata sullaconvinzione e deve trovare una sintesi intersoggettiva, condivisa, al-l’interno di una dimensione allargata, collettiva di una organizzazione

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come l’impresa, o di una comunità territoriale. L’etica richiede impe-gno, coraggio e assertività, perché per tenere comportamenti etici ènecessario disporre della forza di resistere a pressioni indebite: essereetici significa non prestare il fianco a comportamenti non lineari, allescorciatoie ai bordi della legalità, agli sconfinamenti dentro zone gri-gie dove il confine tra moralità e immoralità si fa più opaco. L’eticadipende da una visione del mondo e da una educazione della volontà,da una cultura e da una forza di resistenza alle chimere e alle tenta-zioni dell’egoismo e della comodità. L’etica è uno sforzo di resistenzaalle illusioni della banalità. L’etica non può essere imposta ma puòessere compresa e condivisa, per questo è fondamentale il valore dellacomunicazione e della dialettica della diversità nel confronto razionaledei valori e dei sistemi culturali in una società sempre più globale.Solo dal confronto della diversità si può arrivare all’elaborazione diun modello universale dei valori etici condivisi.

In una azienda fondata sulla qualità e il talento delle persone èfondamentale il ruolo pedagogico ed esemplare del role model fon-dato sulla leadership. La leadership si fonda sulla capacità di autono-mia morale e di resistenza alle pressioni in un contesto ad alta ten-sione al risultato. La leadership richiede contemporaneamente sia ca-pacità di concentrazione e focalizzazione sul risultato sia larghezzadi orizzonte di visione, capacità di interpretare in modo sistemico lecomplesse interdipendenze tra le varie dimensioni di un problema.

Il leader si contraddistingue più che per le competenze tecniche ohard competences per le soft skills, al punto che in alcune occasioni èaccaduto che collaboratori di grande livello sono stati allontanati pro-prio per disallineamento rispetto ai valori della gestione delle persone.Noi abbiamo valori che devono comunque essere adattati e modulatisulla variabile cultura presente in un determinato ambiente. La culturadi Gore negli anni si è evoluta storicamente, altrimenti diventa sterile,diventa un limite alla crescita dell’azienda, ma mantenendo pilastri fon-damentali inalterati come trust, fairness, freedom, commitment, water-line, che significa mantenimento della linea di galleggiamento azien-dale: ognuno deve godere della libertà di sviluppare nuove idee e nuoviprogetti commettendo eventualmente errori, l’importante è che l’errorenon comprometta l’azienda nel suo complesso, come nel caso di unbuco sotto la linea di galleggiamento che fa naufragare l’intera nave.

Una leadership autentica emerge naturalmente e non deriva da in-vestitura o cooptazione dall’alto. Il leader non è necessariamente lapersona più competente, il leader è un facilitatore, non è necessaria-mente colui che trova le idee ma è certamente colui che favorisce lo

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scambio di idee, i processi di comunicazione e di condivisione. Avolta prendiamo decisioni drastiche, come uscire da determinati bu-siness perché non si trovano in linea con i nostri princìpi, oppure pos-sono provocare potenziali rischi che l’azienda non vuole assoluta-mente correre.

Gore gode del privilegio di essere una azienda con una proprietàprivata, se fosse una azienda quotata in Borsa non potrebbe forse per-mettersi di essere così rigorosa e intransigente dal punto di vista del-l’etica. Ha la fortuna di poter perdere anche dei soldi in un trimestrepiuttosto che andare contro i propri valori. La capitalizzazione esternapuò rendere meno forte l’autonomia etica di una azienda. L’autonomiafinanziaria interna all’azienda consente di concedersi momenti diaspettativa e di scegliere uno stile etico di governance. Etica degli af-fari non significa trasformarsi in una charity, ovviamente il businessè ricerca di profitti, ma certamente si possono fare affari garantendoi principi di lealtà ed equità negoziale nei confronti degli stakehol-der: dei clienti, dei fornitori, dei collaboratori e degli associati.

Gore è una azienda fondata sulla forza e l’iniziativa individuale,sulla libertà, sul riconoscimento delle idee, sulla meritocrazia, sullafacoltà di contaminare le conoscenze e uscire dal binario delle compe-tenze esclusivamente settoriali. Si tratta di un modello organizzativoispirato dalla flessibilità della mente creativa e innovativa. Una strut-tura organizzativa libera e de-gerarchizzata mobilita un modello crea-tivo di pensiero e di dinamiche relazionali che si traduce in propen-sione al cambiamento e all’innovazione permanente. Oggi l’innova-zione non è più esclusivamente realizzata nel chiuso dall’attività dellaboratorio ma dipende da cross-fertilization e scoperte anche casualiche dipendono da metodiche creative. L’anima creativa non si fermamai e vuole sempre migliorare e trasformare. Il leader di un’organiz-zazione creativa sa riconoscere e promuovere questo modello incenti-vando la collaborazione, il clima di fiducia e la disponibilità a costruireinsieme un sistema di relazioni ispirato alla condivisione della cono-scenza. Questo è il modello di leader a cui ci ispiriamo in Gore e checi piacerebbe che potesse essere applicato, con i dovuti aggiustamenti,anche al sistema dell’organizzazione e delle istituzioni pubbliche.

Nel nostro Paese è di estrema urgenza la necessità di una svolta ra-dicale per far cessare l’annosa e indecente pratica del nepotismo chepervade il settore delle carriere e delle professioni, sia nell’ambitopubblico che privato. Questo richiede di andare contro una derivatroppo a lungo accettata a tutti i livelli di responsabilità del nostroPaese. Eliminare il nepotismo significa ripristinare il valore del ta-

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lento e del merito, significa ripristinare equità nell’accesso al lavoro,significa dare spazio alle giovani generazioni impegnate nella ricercadi una realizzazione fondata sulle capacità individuale e non sulla ren-dita derivante dalla nascita e dal cognome che si porta o dall’essere in-seriti in un network di relazioni privilegiate. L’Italia ha visto prevalerenella sua storia l’istinto primordiale del cosiddetto familismo amo-rale, l’atteggiamento della famiglia chiusa in se stessa che non credein una comunità al di fuori di se stessa, sull’apertura al senso civicodi una cittadinanza matura.

Se la leadership privata può essere il risultato di una legittima am-bizione di carriera, una leadership pubblica dovrebbe nascere esclu-sivamente dalla generosità di offrire la propria competenza e il propriotempo al servizio esclusivo della nazione, ma proprio questa motiva-zione etica, questa gratuità è in qualche modo assente: a mancare è ilsenso dello Stato: chi viene eletto deve essere a disposizione dell’in-teresse generale della nazione e di interessi particolari o di gruppo dilobby d’interesse. Il paesaggio etico della nostra classe dirigente po-litica è desolante da questo punto di vista: attraversiamo un momentoorrendo. Si deve ripartire da un concetto di comunità, da una centra-lità della politica come gestione del bene collettivo, come qualità dellavita pubblica, una dignità della vita in relazione alla comunità. L’eticacome prodotto della fiducia nelle relazioni comunitaria fondate sulrispetto reciproco. Il leader del futuro non può limitarsi a possederecarisma, ma deve saper essere un role model, deve essere esemplare,deve essere un punto di riferimento pedagogico per valori che intendecomunicare: non può esistere una doppia verità, un doppio binario,una vita pubblica e una vita privata del leader, che deve essere traspa-rente e credibile in una coerenza che ne sappia permeare con una lineadi continuità i valori dichiarati e i valori praticati. In questo momentonel nostro Paese c’è una necessità di coerenza, sobrietà, trasparenzaassoluta per i leader pubblici per ristabilire dei parametri ordinari dicredibilità del sistema politico. La leadership pubblica non può evi-dentemente prescindere dall’onestà, ma deve anche andare oltre i pa-rametri di una stretta legalità in senso giuridico formale, arrivando aqualificare una forma mentis, una ampiezza morale della personalità,un profilo umanistico della sua azione. L’arma segreta della leadershippubblica è la cultura, l’ampiezza di orizzonti, l’apertura mentale, ladialettica, la curiosità per il futuro, la cura della persona, l’interesseper l’Altro. La leadership pubblica deve avere come finalità princi-pale della propria azione l’attenzione alla dignità della vita.

Ognuno sembra perseguire esclusivamente interessi privati o cor-

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porativi senza curarsi dello stato di salute dei beni collettivi, per que-sto una nazione così ricca di qualità ed eccellenze si trova di fronte aun disastro non solo di solvibilità della finanza pubblica, ma di tra-collo di reputazione e credibilità internazionale. Siamo riusciti solodopo un lunghissimo tempo a cambiare la leadership politica del no-stro Paese visto che la precedente ha la responsabilità non solo perquello che ha fatto ma anche per quello che non ha fatto: pur dispo-nendo di una larghissima maggioranza in entrambi i rami del Parla-mento non è stata in grado di attivare alcuna riforma utile al Paese. Ilpiatto infame della politica degli ultimi anni ha offerto solo indigna-zione negli italiani onesti e vergogna per chi ogni giorno ha a che farecon un contesto internazionale del tutto incredulo rispetto all’incapa-cità di reazione da parte del popolo italiano di fronte alle bassezzemorali e al clima da basso impero che ha contraddistinto la leader-ship politica in questa grottesca stagione.

Ci dobbiamo augurare che il sistema politico, nel suo insieme, con-senta ai tecnocrati di varare le riforme ineludibili di cui il Paese ha as-soluta necessità. Se non si realizzeranno queste ineludibili riforme,precipiteremo nel baratro. Mario Monti è una personalità coerente disolida cultura liberale, di grande competenza tecnica e di comprovataonestà intellettuale, il capo dello Stato Giorgio Napoletano ha saputoricorrere a un saggio impiego del proprio potere di moral suasion perinterpretare con coraggio una leadership fondata sulla fedeltà aiprincìpi costituzionali e sul richiamo alla moralità della funzione po-litica. Viviamo una stagione di crisi, di transizione verso un nuovoequilibrio, un tempo che non può essere affrontato solo con la compe-tenza della conoscenza, ma che richiede anche la sapienza dell’etica.C’è un quid specifico, una qualità propria dell’etica, che consiste nellasua intrinseca dimensione salvifica: l’etica salva se stessi e la comu-nità, se comincio a migliorare io, allora migliora anche il mondo. L’e-tica salva se stessi e anche la comunità. Nel nostro Paese stiamo trascu-rando la cura della democrazia, stiamo dimenticando che la democra-zia è un processo che richiede di essere alimentato dalla partecipazionedei cittadini e che la perdita di cultura civica rappresenta il terreno dicoltura della deriva post-democratica che si alimenta nel distacco dellasocietà civile rispetto alle decisioni collettive.

Dobbiamo non solo cambiare la classe politica ma trasformareanche i cittadini. Ciò richiede un enorme sforzo pedagogico di trasmis-sione ai giovani, con un codice di linguaggio vicino e appropriato, divalori nobili che sappiano sconfiggere la mediocrità dell’opportuni-smo e la spietatezza del cinismo su cui la generazione dei padri ha cer-

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Il ruolo pedagogico della leadership pubblica

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tamente troppo indugiato. La lezione del passato può insegnare manon può bastare. Ai giovani dobbiamo insegnare a essere più esigentiverso se stessi e verso i propri rappresentanti politici, dobbiamo edu-care le future generazioni a essere più intransigenti, più severe versola qualità della gestione della cosa pubblica. Grazie ai nuovi media,grazie alla libera informazione priva di filtri e censure della rete, oggiè possibile esercitare un controllo stringente e accurato dell’operatodei leader politici.

Ormai la rete è uno spazio pubblico nuovo. Dalla rete possono ve-nire anche nuove idee, la rete è un prezioso catalizzatore di idee: oggii politici più avveduti sanno impiegare lo strumento del social networkper attingere in tempo reale a un intero mondo di relazioni dando vitaa un modello pluralistico di leadership innovativa e non gerarchica,aperta e non autoreferenziale. Viviamo in un mondo plurale arricchitodal valore della differenza, solo i leader che sapranno cogliere le im-mense opportunità offerte dalla complessità saranno degni di guidarequell’universo in trasformazione che ci attende.

(Marina Debra Pini, presidente W.L. Gore & Associati Italia)

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La leadership tende ad affermarsi sulla base della relazione che siè riusciti a creare nel rapporto con gli altri e dei risultati ottenuti. Per es-sere riconosciuta la leadership richiede credibilità, professionalità e tra-sparenza. Nella mia azione ho privilegiato la delega, concedendo fidu-cia alle persone che intuivo essere in grado di accoglierla, e arrivandoa costruire team di alto livello. La mia filosofia è stata quella di crearepartecipazione grazie a relazioni fiduciarie e solidi rapporti con la pro-pria struttura, in modo da approdare a una sana gestione condivisa. Sele deleghe sono riposte nelle persone giuste, se sono posti obiettivi ade-guati e realistici, se vi è una riconosciuta capacità di condurre l’azien-da in funzione di risultati obiettivi, la leadership viene accettata in ter-mini automatici, a prescindere dalla personalità del leader. Se il leadersa essere un buon direttore d’orchestra in grado di esprimere correttez-za e lealtà di rapporti umani, perfetta trasparenza, fuori da un dirigismoisolato in una torre d’avorio inaccessibile, la leadership viene ricono-sciuta in modo chiaro. Personalmente ho avuto una esperienza profes-sionale ad alti livelli manageriali sin da giovane: ciò mi ha permesso disperimentarmi nella gestione di squadre ad alto potenziale, imparandoad armonizzare risorse e talenti coinvolgendoli attorno a obiettivi con-divisi. Il leader è un direttore d’orchestra a cui non sono consentite sto-nature, ma che deve saper armonizzare grandi musicisti dotati di talen-to per il singolo strumento in una polifonia perfettamente accordata ein grado di seguire lo spartito dei valori aziendali. Il leader deve pos-sedere doti intuitive e un sesto senso da rabdomante nello stabilire pro-getti e strategie. Si deve possedere una spiccata capacità di visione e diascolto: questa è la competenza indispensabile che costituisce l’essen-za più tipica della leadership. Non si tratta necessariamente di profes-sionalità tecnica o culturale, ma consiste in una capacità di individua-re il fattore chiave, il progetto giusto, la situazione giusta, è una formadi sensibilità per le situazioni in divenire. Con un team giusto e ben coin-volto, il gioco di squadra consente di riflettere e confrontarsi con lo staffsul piano del realismo in un dialogo critico che è in grado anche di mi-

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tigare gli errori e i margini di insuccesso insiti nell’attività del prende-re decisioni. Gestire l’azienda con ragionevolezza e buon senso è la dotepiù importante. La mission è legata a obiettivi ideali ma non utopici chedevono essere possibili sulla base delle proprie competenze e caratte-ristiche misurabili. Il leader è un vettore di motivazione, per questo èindispensabile comunicare impiegando con grande abilità la leva del-l’emozione e della seduzione di cui è composto il carisma. Quando sitratta di una azienda, il bersaglio della comunicazione del leader non puòperò essere solo la squadra, ma deve essere anche il mercato: perciò illeader deve essere in grado di comunicare anche all’esterno l’eccellen-za che contraddistingue e identifica l’azienda. Il leader deve possede-re un talento raffinato per cogliere i punti di sensibilità su cui far levaper persuadere il proprio interlocutore. Il leader deve fare breccia, farein modo che si apra la porta interiore, la chiave emozionale in grado diaprire una comunicazione empatica con il suo interlocutore.

In Italia purtroppo abbiamo vissuto una perdita di qualità demo-cratica, una perdita di cultura politica: a un modello eccessivamente ri-gido e ideologico, abbiamo sostituito però un modello troppo super-ficiale e demagogico che influenza e determina le scelte politiche. Ri-spetto alle passioni che la politica sapeva suscitare anche solo unaventina di anni fa, assistiamo oggi a una progressiva perdita di coin-volgimento diretto da parte dei cittadini. In questi anni si è percepitauna sempre maggiore enfasi su interessi particolari e individuali piut-tosto che pubblici e collettivi: la politica non è stata in grado di rispon-dere con una adeguata competenza alla deriva sempre più privata esempre meno sociale dei cittadini. Si sono esasperate tutta una serie divizi della politica che hanno finito per tradirne la missione originariadi tutela della “cosa pubblica”.

Come italiano che ha scelto di risiedere in Svizzera ho l’occasionedi sperimentare, al di là dei facili stereotipi e luoghi comuni, due si-stemi politici molto diversi e con un differente grado di rispetto deibeni pubblici. C’è un diverso grado di pragmatismo nella Confedera-zione Elvetica: gli Svizzeri hanno superato questa fase che gli italianistanno vivendo con il governo Monti e si può dire che siano più inte-ressati a una formula di politica tecnica, piuttosto che alla versione tec-nico-politica interpretata dall’attuale governo italiano. Il tema dell’au-togoverno del territorio e di una applicazione di un vero decentramentofederalista rappresenta un vero e proprio fiore all’occhiello dell’orga-nizzazione istituzionale della Svizzera. Il dibattito politico, pur rappre-sentato da diversi orientamenti e partiti, trova sempre un punto di me-diazione ed efficienza nel nome di un efficiente pragmatismo e un

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equilibrio di distribuzione delle decisioni tra il territorio e governo fe-derale. Si trova sempre un punto di equilibrio nella mediazione poli-tica per perseguire gli interessi della Confederazione. Il governo fe-derale è retto da un gabinetto di pochissime persone altamentecompetenti e ispirate da un modello di gestione dello Stato efficien-tista e pragmatico delle questioni di specifico interesse nazionale. Perquanto riguarda il territorio vi è un rispetto molto forte dei margini diautogoverno locale, una gestione e un indirizzo molto sottile perchéè una democrazia diretta, con un controllo quotidiano dell’elettoratosulle cose più importanti: un sistema di governo che privilegia un ap-proccio partecipativo di tutta la comunità alle scelte politiche. Non èvero che l’elettorato non è in grado di affrontare direttamente certequestioni, lo strumento del referendum come viene impiegato in Sviz-zera si rivela infatti uno strumento di partecipazione e crescita demo-cratica. Il senso della responsabilità cresce con il maggiore coinvol-gimento del popolo. La Svizzera è certamente facilitata nell’impiegodello strumento del referendum dall’essere costituita da una piccolapopolazione di solo nove milioni di abitanti. Il futuro certamenteconsentirà ai sistemi informatici di esprimere al meglio con plebiscitopermanente le proprie volontà da parte dal popolo, in tempo reale: que-sta è la dimensione di un ritorno a una forma antica di democrazia sulmodello dell’antica polis greca reso possibile dalla tecnologia.

La credibilità di un leader pubblico si fonda sul fatto di non trovarsia essere in una condizione personale di conflitto di interessi, né reale neapparente, di offrire una trasparenza assoluta e un comportamento eticounanimemente riconosciuto, e poi evidentemente anche il fatto di essereuna figura competente e dotata di una intelligenza aperta e capace di af-frontare il processo di decision-making con equilibrio e pragmatismo.

In questo momento storico il governo dei tecnici si è assunto l’o-nere della leadership del Paese non solo per una situazione congiun-turale di estrema emergenza ma anche come surrogazione a una classepolitica mai come oggi delegittimata da inchieste giudiziarie e com-portamenti diffusi di palese amoralità che hanno generato profonda di-saffezione per non dire nausea da parte dell’elettorato. A mio avvisoè evidente che questa fase politica emergenziale segna un salto di di-scontinuità: a questo punto non torneremo più indietro e la figurastessa dell’uomo politico sarà costretta, volente o nolente, a compiereuna svolta, una riconversione a una maggiore sobrietà ed eticità per ri-spondere alle istanze degli elettori che sembrano ritornati a una mag-giore severità etica nel giudicare i propri governanti.

Un mondo sta terminando e sta cominciandone un altro dove l’etica

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finalmente ritorna ad assumere una nuova centralità e fonte di legittima-zione come criterio fondamentale di giudizio sull’integrità della personae della sua missione politica: davvero una svolta se si pensa a quanta ir-risione vi è stata in questi anni da parte della classe politica verso qual-sivoglia istanza di moralizzazione della leadership pubblica. Si vota cer-tamente dentro un quadro di riferimento politico-ideologico, machiunque sia a destra, al centro o a sinistra vuole votare per una personain grado di offrire garanzie di correttezza, di punti fermi dal punto di vi-sta morale, anteponendo, cosa non del tutto scontata dopo anni di de-grado della politica, il bene pubblico all’interesse privato. L’etica devediventare il paradigma di riferimento, la coerenza e la genuinità dellescelte deve essere il parametro di misura ancor prima del giudizio sul me-rito della politica. Non si tratta di essere sognatori ma realisti, perché l’e-tica è fatta di concretezza, l’onesta è un valore pratico e non teorico. Sideve dare garanzia di correttezza nell’amministrazione dei beni pubblici.Guardarsi in faccia nello specchio della moralità della democrazia di-retta. Moralità richiede rinuncia ai privilegi, a maggior ragione in un mo-mento di crisi come l’attuale che alimenta tensioni e diseguaglianze for-tissime, e tutto ciò viene percepito dai cittadini come fattore insostenibilee ingiustificato. Pensiamo alle auto blu della nomenclatura politica. C’èuna reazione contro la casta nella forma quasi biologica di “antigene-anticorpo”. L’antica polis greca si fondava su un dialogo serrato e unainterrogazione sulla struttura etica del politico che mostrava il propriovolto nell’agorà senza sottrarsi all’esame e alle domande.

La politica deve essere razionale, essere troppo passionali comportarischi e di cadere nell’ideologia che può accecare lo spirito razionale. Cisono dei valori non negoziabili per chi svolge attività pubblica che sonoil servire le istituzioni e il perseguire unicamente il bene collettivo. A que-sto aggiungerei la richiesta di una certa professionalità tecnica. Pensiamoal Ministero dell’Economia o a quello della Salute dove la competenzatecnica è ormai diventata un requisito quasi indispensabile. Quando sicomincia a entrare in un’area di emergenza come oggi non è più possi-bile consentire sprechi superficialità e mancanza di competenza.

Facciamo molta fatica a inserire i giovani in posizioni di leader-ship quando potrebbero fare davvero molto bene. Ho sempre cercatodi investire nei giovani anche perché ho avuto al fortuna di venire im-piegato sin da giovane come leader, e se ho avuto la fortuna di fare unacarriera rapida ciò dipende dal fatto che qualcuno ha creduto in mequando non avevo ancora trent’anni. I giovani hanno freschezza esfrontatezza necessaria anche a superare timori reverenziali e gerar-chie troppo rigide per arrivare al dunque. Chi è giovane manca di espe-

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rienza ma ha energia, voglia di arrivare e capacità di sintesi, noi dimezza età siamo più ponderati, più cauti e ciò significa che tendiamoanche a perdere ogni tanto delle opportunità. Se noi leader maturisiamo affidabili come motori diesel, i giovani sono come sportivi mo-tori a benzina ad alte prestazioni, perfettamente in grado di prenderedecisioni con menti più aperte al futuro e alla globalità. La nostraclasse dirigente sia pubblica sia privata è ormai troppo vecchia: i gio-vani di talento ci sono ma a essi viene concesso poco spazio di azione:ciò determina un’assenza di nuove idee che poi sono l’unica vera ri-sorsa che ci può traghettare fuori dal declino italiano ed europeo.Siamo un continente che deve ritrovare una mission culturale nelmondo e deve avere il coraggio di non essere follower nella competi-zione con i Paesi del far east, ma deve ritrovare una leadership e un’i-dentità all’altezza dei propri valori e della propria tradizione.

È necessario stabilire dei punti fissi sulle condizioni etiche del la-voro, sul modello di sviluppo sociale e della qualità del lavoro defi-nendo standards e norme universali sui contratti di lavoro, gli orari ele condizioni di sicurezza, salute e dignità dei lavoratori. Siamo nelterzo millennio ma l’uomo sta ritornando schiavo in determinati paesi.Noi abbiamo aziende in Cina con circa 500 dipendenti che trattiamocome se fossero lavoratori europei, ovviamente non sui salari ma sullecondizioni contrattuali, e veniamo percepiti come anomali, come uto-pisti filantropi nel continente della manodopera a basso prezzo. Amio avviso noi europei dobbiamo avere il coraggio e l’orgoglio dellanostra differenza di tipo etico, esportando la qualità europea che è den-tro questo grande retroterra umanistico e filtrato attraverso la grandestagione culturale dei diritti umani: questa è la chiave etica per avviareuna nuova legittimazione di una leadership europea sul piano della ci-viltà morale e politica, a partire dalla dimensione della tutela della qua-lità e della creatività del lavoro e dei lavoratori. Serve una internazio-nalizzazione dei diritti e non solo del lavoro, delle merci, dei capitali.Se fossimo in grado di arrivare a stabilire dei paletti di tipo etico-giu-ridico sulle condizioni irrinunciabili di lavoro, a quel punto la concor-renza del lontano Oriente perderebbe parte della sua forza dirompentee il costo del lavoro sarebbe in prospettiva destinato riequilibrarsi a li-vello mondiale, attenuando la forza destabilizzante della crisi globalee permettendo di ripristinare una relazione tra sviluppo economico ecrescita della qualità dei diritti e dell’etica pubblica.

(Giorgio Pisani, presidente e amministratore delegato IBSA Farmaceutici Ita-lia/Bouty)

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La leadership rappresenta un moltiplicatore di potenzialità nasco-ste o inespresse, quasi inconsce, del team. Il leader o è direttamentecapace di realizzare determinati risultati, oppure è in grado di fare inmodo che vengano ottenuti dagli altri: questi sono i due poli della lea-dership. C’è bisogno, come in tutte le pratiche di sviluppo personale,di training anche per la leadership. L’allenamento consente di incre-mentare la prestazioni, ma, come anche un atleta, il leader, privo diprerequisiti innati, difficilmente può ottenere risultati eccellenti. L’ap-partenere alla categoria dei leader che tendono a fare in prima personarispetto a quella di quelli che tendono a far fare agli altri, dipendedalla propensione individuale di un leader a essere più accentratore opiù abituato a delegare.

In una azienda un manager gestisce nella continuità e può portarebuoni risultati, ma un vero leader sa affrontare le discontinuità e le cri-ticità dell’impresa riuscendo a trasformare una problematicità in unaopportunità. Mentre il manager identifica ciò che è opportuno o inop-portuno per raggiungere le proprie mete, al leader spetta di intuire qualè la direzione. La qualità del leader è più rara, ci sono tanti managerin azienda, ma molti meno leader. Al leader serve intuizione e capacitàdi visione per cogliere la direzione giusta e il coraggio di perseverarespesso andando controcorrente. Un leader oggi deve essere disposto asopportare livelli di stress intensi con grande frequenza. Il leader esi-ste in funzione di un gruppo: senza un gruppo funzionante la leader-ship da sola non può bastare.

Il requisito fondamentale per il lavoro del team è la fiducia. Il rap-porto fiduciario è fondamentale per operare con velocità in un conte-sto ad alta competizione, la fiducia permette di potersi affidare senzaperdere tempo in dubbi sugli altri appartenenti al gruppo.

Il secondo requisito fondamentale per un gruppo ad alto potenzialeè il talento e la competenza dei singoli membri: al leader spetta perciòdi riconoscere e assegnare la risorsa giusta per ogni ruolo nel gruppo.

La terza funzione, non indispensabile come le altre, ma in grado

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di fare la differenza, è la visione strategica: quando in un gruppo visono dei collaboratori che vivono l’organizzazione al di fuori di unadimensione di ripetizione della performance di routine e sanno ve-dere in prospettiva evolutiva il senso della direzione. In un gruppo seil clima emotivo è positivo c’è la possibilità di esprimere fino in fondoil massimo potenziale. Il carisma è un talento innato che generalmentesi mostra nella capacità di esplicitare di comunicare e di trascinare, mavi sono però anche leader che fondano il proprio carisma su una sortadi understatement con registro di comunicazione per sottrazione chesi fonda non tanto su quello che si dice, ma su quello che si fa com-prendere con ciò che non si dice, ma che si sottintende. Il carisma delleader serve soprattutto a farsi seguire dal gruppo; l’altro lato dellaquestione, poi, è che forza carismatica dipende a sua volta da quantoun gruppo è in grado di seguire un leader: si tratta perciò di una dire-zione non univoca, ma biunivoca quella tra leader e gruppo. Nel breveperiodo l’impatto energetico del carisma del leader può avere un ruolodeterminante nell’essere da stimolo pungolando il team, ma nel lungoperiodo il gruppo deve invece affrontare carichi di stress decisamenteminori rispetto al leader, e proprio per poter dare il meglio, deve ritor-nare a un clima diffuso di serenità.

Non sono favorevole all’idea di un leader politico di mestiere, mipiace più pensare a un politico che nel corso della propria carrierapossa essere prestato, per competenza, per passione, per idealismo,per interesse verso il bene pubblico a un impegno politico. Ciò chetende a far appassire e poi deteriorare la buona fede della passionepolitica è in generale la durata, che, nel nostro Paese molto spessotende a proseguire nel tempo indefinitamente. Se l’esperienza politicaviene vissuta lungo tempi anche medi come un decennio, c’è spaziosufficiente a servire il Paese. Una estensione oltre questa durata ine-vitabilmente impedisce un sano e fisiologico ricambio generazionale.Bisognerebbe avere la forza morale di porre autonomamente un li-mite temporale alla propria esperienza politica. Nel primo periododella propria attività si contribuisce con il massimo della propria ener-gia innovativa per mutare lo status quo, successivamente si viene as-similati troppo dal sistema per volerlo ancora veramente riformare.

C’è una differenza costitutiva, una differenza quasi ontologicanella fenomenologia della leadership aziendale rispetto a quella poli-tica. La permanenza al top in azienda è legata ai risultati misurati sulcampo, mentre il percorso politico è fondato sul mantenimento delconsenso. Ciò significa una prospettiva radicalmente diversa tra logicadel mondo pubblico e logica del mondo del privato. Se chi entrasse in

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politica avesse di fronte una prospettiva temporale a termine, peresempio due mandati, allora si troverebbe di fronte una esperienza ef-fettivamente misurabile rispetto ai risultati politici conseguiti. Ciò da-rebbe alla variabile tempo una accelerazione fondamentale ai tempilunghi, quasi infiniti della politica, dove non si percepisce l’urgenza,la fretta che contraddistingue il mondo dell’impresa.

La politica non sembra mai sentire lo scorrere del peso del tempoche invece è la “spada di Damocle” che perennemente aleggia soprala testa del leader d’impresa. Nella carriera pubblica sembra che l’im-portante sia di rimanere sempre agganciati a un meccanismo di purasopravvivenza nell’arena politica, ciò fa perdere di vista gli obiettiviambiziosi. Manca una chiarezza temporale del mandato. C’è una ten-denza ad appropriarsi di una posizione pubblica e mantenerla indefi-nitamente. Certamente in questo modo si può incorrere nel problemadel dover perdere le competenze di alcuni politici di grande esperienzae di lungo corso, ma del resto e si mettono a confronti costi e bene-fici di un eventuale provvedimento di dimissioni obbligatorie dopo lascadenza di due mandati politici; credo che i benefici in termini di ri-cambio generazionale siano decisamente maggiori rispetto ai costi.

Il concetto fondamentale che deve accomunare il settore privatoa quello pubblico deve essere quello della sostenibilità. La leadershipdeve essere imperniata sul dovere di compiere scelte in grado di ag-giungere valore, nei confronti del mercato nel caso del settore privato,e nell’interesse pubblico nel caso del mondo pubblico. Costruire va-lore seguendo un parametro di sostenibilità di lungo periodo e di con-seguenza eticità sia nell’ambiente privato sia pubblico è il dovere ca-tegorico della leadership. La ricaduta della creazione di valore in unadimensione diffusa e non solo autoreferenziale è l’obiettivo di unaleadership che sente una responsabilità sociale.

Bisogna migliorare la razionalità complessiva dell’organizzazionedel sistema paese puntato sulla selezione delle eccellenze, dobbiamofocalizzare gli sforzi sulle realtà che esprimono il meglio dell’identitàdel nostro Paese: turismo, cultura, lusso, design, moda, gusto. È dif-ficile competere per noi in settori dove non c’è valore aggiunto, nonsiamo i produttori più economici, non siamo i più efficienti, ma siamocertamente i più creativi, perciò bisogna concentrarsi ed investire sulsupporto a questi assets fondamentali del Paese.

Occorre assegnare la priorità alla massimizzazione dell’efficienzadella rete infrastrutturale necessaria a sostenere la competitività sulpiano internazionale, ma per questo è fondamentale una mobilitazionedi energie fresche e uomini competenti e dinamici e consapevoli del re-

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spiro internazionale e pragmatico che deve sempre più assumere l’Ita-lia nel migliorare e snellire il sistema dell’organizzazione dello Stato.Un modello di relazioni corretto che esprime in modo esemplare la si-nergia tra leadership politica e di impresa, dove l’interfaccia tra rap-porto pubblico e privato si svolge in modo fluido e razionale è quellorealizzato durante la presidenza Obama nel settore automotive degliUsa, dove, durante la crisi recente, tali imprese ritenute di rilevanzastrategica vengono supportate dal pubblico ma relativamente per unperiodo definito di tempo e non reiterando indefinitamente gli aiutipubblici. Una volta che il settore supportato riprende vigore e autono-mia, lo Stato ritira la propria tutela dal finanziamento del settore perevitare di creare occasioni di inefficienza sistemica. La filosofia del-l’amministrazione Obama è che l’impiego delle risorse pubbliche persalvaguardare settori in crisi deve rappresentare non la regola ma l’ec-cezione e deve essere attuato secondo garanzie di obiettività, traspa-renza ed equità nel rispetto all’interesse generale senza essere sbilan-ciato a favore di alcuni settori e a discapito di altri.

Nel nostro Paese è notorio che esistono imprese che hanno bene-ficiato per molti decenni di sussidi, di finanziamenti privilegiati eaiuti di ogni tipo: non è con questo che si aiuta la impresa a compe-tere sul libero mercato nel lungo periodo. L’impresa deve darsi un mo-dello di sostenibilità nel tempo altrimenti deve uscire dal mercato, aquesto può fare eccezione il caso di imprese che operano in settoristrategici di interesse nazionale, ma si deve trattare di pochissimiesempi ben delimitati. Nell’impresa si risponde al proprio azionariato,pur con responsabilità ulteriori che riguardano più in generale l’am-biente e la società in cui opera, però è evidente il nesso diretto chelega il top management alla proprietà dell’azienda. Il contesto dellacreazione di valore per l’ambiente pubblico è legato invece alla comu-nità. Perseguono obiettivi diversi. L’azionista da una parte, il cittadinodall’altra parte. Un leader imprenditore comanda in funzione del ri-schio che si assume investendo il proprio capitale. Un top managerche gestisce soldi altrui dispone esclusivamente del proprio capitaledi reputazione e integrità che si è costruito nella propria carriera: que-sto è il suo vero asset, il suo bene fondamentale. Il politico, sotto que-sto aspetto, è come un manager perché dispone esclusivamente dellapropria credibilità personale, può spendere solamente il proprio volto.Il problema è che non avendo una metrica chiara e oggettiva di misu-razione sui risultati effettivi che consegue il politico viene misuratosulla base del consenso che porta piuttosto che in funzione di risultatieffettivamente tangibili.

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Il valore autentico di riferimento su cui si misura la leadership,rispetto al mandato della rappresentanza politica, è quello della di-gnità nel prendere impegni e mantenerli, nel rispettare le promesse, diavere una parola credibile, di stare ai patti stipulati secondo la mas-sima “pacta sunt servanda”. Il leader può avere l’intuizione di unavisione anticipatrice, può offrire un sogno, ma quello che in fondo èdecisivo è il riuscire a mobilitare persone ed espandere forze attornoal sogno che altrimenti rimane una promessa senza seguito. La coe-renza nella vita è un pregio, nella politica può essere poco funzionalerispetto al trasformismo e all’opportunismo che da sempre la ali-menta, ma certamente dovrebbe sempre essere un valore di riferi-mento, un parametro fisso per l’identità e la credibilità della leader-ship pur nell’agitarsi funambolico dell’equilibrismo della politica. Illeader è davvero tale solo se riesce a lasciare una impronta, chi è in-coerente e trasformista è privo di identità e scrive una storia che nonlascia tracce.

(Massimo Pizzocri, vice presidente Epson Europa e amministratore delegatoEpson Italia)

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Leadership: cosa significa in tempi di guerra

Alessandro Politi

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È subito il caso di chiarire, anche a beneficio dei teorici della teo-ria situazionale o della contingenza situazionale, che gli anni dal 2006al 2018 circa non sono semplicemente tempi di crisi, recessione o crisieconomica globale senza precedenti. Sono tempi di guerra perché,senza quasi accorgercene per via della sua dimensione immateriale,stiamo vivendo la prima guerra finanziaria mondiale1.

È una guerra finanziaria (financial warfare) che non è stata scate-nata da Stati, come la vecchia economic warfare o guerre économi-que, ma da un pugno di conglomerati finanziari e da un piccolo gruppodi manager di fondi altamente speculativi con pochi obbiettivi impor-tanti: guadagnare plusvalenze, assaltando, con la leva debitoria, le eco-nomie più vulnerabili dell’euro; indebolire l’euro come moneta com-merciale alternativa al dollaro, per mantenere il più a lungo lo statusquo nell’attesa di una soluzione al quasi inarrestabile declino del signo-raggio del dollaro; permettere ai conglomerati finaziari (vulgariter ban-che) di rastrellare soldi freschi e beni comuni estrattivi, industriali einfrastrutturali per rimpiazzare la montagna di bit monetari finti ge-nerati in 30 anni di deregulation finanziaria ed economica.

È una guerra che, nel mondo delle democrazie opulente e indebi-tate, non mostra il suo volto tradizionale. Certo, alcuni Stati come l’I-talia o il Regno Unito sono costretti a un brutale disarmo militare si-lenzioso, in molti Paesi aumentano i suicidi e le depressioni causatidall’economia, ma non si vedono le case distrutte, gli edifici bombar-dati, le persone uccise, i borsaneristi nelle piazze, i plotoni d’esecu-zione. Si vedono però le file davanti agli ostelli caritatevoli diventaresempre più lunghe e più bianche di colore, la mobilità urbana sfoltirsistraordinariamente (come se aerei invisibili scoraggiassero con i loro

1 Le teorie situazionale o della contingenza situazionale (leadership situa-tional theory or situational contingency theory) postulano che la leadership siafrutto di una situazione storica più ancora che di un insieme di caratteristichepersonali e caratteriali.

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mitragliamenti gli spostamenti non necessari), i negozi ridurre drasti-camente il campionario e la sua qualità mentre altri falliscono, le raf-fiche di cartelle delle agenzie di recupero crediti private e pseudopub-bliche, i consumi d’alcolici, stupefacenti e giuochi d’azzardo aumen-tare per compensare il nero quotidiano.

La guerra economica è come la bomba al neutrone, non distruggegli edifici e lascia vivere gli esseri umani, sino a quando, nei Paesi piùpoveri, la denutrizione li finisce a causa dell’innocente fluttuare di unacommodity, e nei Paesi più ricchi la disoccupazione, lo strozzinaggiolegalizzato e la mafia non li inghiottono nelle loro spirali silenziose.

In questo contesto tutte le vecchie strombazzate teorie e pratichedel management come arte suprema della governance economica, edunque politica, si sono rivelate inutili e dannose. Al di là delle parolepoliticamente corrette, il succo del management si può riassumere inpochi punti:

• prima il profitto, poi gli stipendi• la legge non lo prevede• le regole non valgono per nessuno (tanto meno per il capo)• il lavoro è una commodity, anzi lo è il tempo di chi lavora (ma-

nager incluso, a seconda del grado di vassallaggio)• non è un mio problema• la responsabilità è un costo da ribaltare sino all’ultimo• brainstorming = ascoltatemi e annuite.Questo insieme di regole ha creato dei veri e propri open space

lager, dove la motivazione della manovalanza e della mentevalanzascende a livelli bassissimi e dove la legittimità del sistema finanzcapi-talista viene quotidianamente smascherata e corrosa.

È il sistema che ha prodotto i “capitani coraggiosi”, “i furbetti delquartierino”, “il nuovo miracolo italiano” e l’inesorabile perdita dicompetitività dell’azienda Italia nonostante la spietata compressione disalari, tempo, pensioni, servizi pubblici e diritti di chiunque lavorasse.

Oggi, quando si parla del fallimento della politica o, ancor più inmalafede di “colpo di Stato”, si dimentica che dal 1981 (deregulationReagan-Tatcher) è in atto uno strisciante sequestro della politica daparte dell’economia. Non è quindi questione, come prezzolati opinio-nisti organici all’establishment dicono, di politica o antipolitica oppuredi volti nuovi o di vecchi partiti: è un’intera classe dirigente (impren-ditoriale e politica) ad aver fallito paradigmi, futuro e sostenibilità,spesso avvitandosi nel suo narcisismo tossico. Con una certa dose d’u-mor nero è da osservare che non ha fallito sinora la sua missione:estrarre ricchezza da larga parte del ceto medio e basso (cioè dalle par-

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tite IVA medie in giù) a profitto dell’1 per 1000 della popolazione mon-diale e nazionale.

Rispetto agli anni della Resistenza, il mercato deregolato ha pro-dotto non libera concorrenza, ma oligopoli che hanno creato un tota-litarismo dolce, decentrato, in rete e pluralista: mille piccoli fratelli,mentalmente clonati all’ideologia del finanzcapitalismo e del cosid-detto pragmatismo, ripetono il verbo e applicano le Standard OperatingProcedures aziendali per dispiegare un management predatorio. I ne-mici sono sfuggenti, virtuali, pervasivi e spesso impersonali; le zonegrigie di trasversalità contiguità acquiescenza complicità sono moltopiù vaste e fluide e la contrapposizione dei valori è oscurata dalla pre-senza di sistemi politici che garantiscono un’alternanza per evitare ognialternativa.

Cosa è dunque la leadership “ai tempi del colera”? Non è quel fra-sario classificatorio che la distingue in “achievement-oriented, direc-tive, participative, supportive”, un latinorum da Don Abbondio e nem-meno il sofisticato gioco della comunicazione che rende grande unpersonaggio solo sui pixel di uno schermo.

Non è nemmeno, con buona pace dei cavalieri antiqui, l’ardire diun Rommel o la quadrata semplicità di un John Wayne e neanche unaleadership post-eroica, alla “Dick” Cheney per esempio. Anche il ce-lebre motto britannico, che pure ha conservato intatta la sua forza di-rettiva “Keep Calm and Carry On” è insufficiente all’emergenza delperiodo, proprio perché i quadri rassicuranti si stanno rapidamentesfarinando, insieme all’altrettanto famosa triade conservatrice “DioPatria e Famiglia” (carry on what? quale famiglia?).

L’attitudine al comando si trova oggi confrontata da una triplicesfida nel definirsi: rete, isarchia e diffusione di responsabilità. La reteè il brodo di cultura e il tessuto connettivo di ogni serio tentativo rifor-matore e/o rivoluzionario, ma è anche il luogo in cui l’emergere diguide ha un valore relativo sia in termini assoluti che relativi2.

La rete e il sottoinsieme delle reti e dei media sociali funzionano suuna combinazione di isarchia e anarchia sistemate come le strutture diuna fibra composita e questo spiazza due volte le persone che natural-mente si pongono come capi. C’è infatti un alto grado di anarchia pas-siva che non frena solo perché c’è l’umanissima inerzia ad agire, po-tente da secoli, ma perché l’isteresi tra impulso e reazione è la difesa più

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2 Il riformismo è solo la finzione del cambiamento, travestita da moderniz-zazione della gestione dell’esistente, in quanto vuole assolutamente evitare dicontrapporsi ai poteri forti.

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collaudata e immediata delle parti sociali più angariate (giovani, donne,immigrati e pensionati depauperati) dalle pretese della globalizzazione.

Poi ci sono i pregi e i limiti dell’isarchia; l’essere inter pares, siapure a livelli di diversa primazia in un insieme di nodi di pari dignitàe comparabile influenza, offre la creazione di fronti ampi in un tempostraordinariamente breve anche grazie a una diffusione di responsabi-lità che non è una diluizione, ma può essere un moltiplicatore di forzedell’elemento guida di una moltitudine.

Eppure tutto questo fermento d’idee, così simile a quello generatodagli Enciclopedisti e dai pensatori socialisti nei secoli scorsi, rischiadi scomparire appena si passa dall’agorà virtuale alla piazza reale edalla caduta del regime oppressivo alla costruzione di una nuovarealtà. Da un lato si tratta di una storia già vista: quasi nessuno deigrandi intellettuali ha avuto la forza di elevarsi al potere rivoluziona-rio e post-rivoluzionario. Dall’altro è un dilemma del potere abba-stanza inedito: come mantenere la spinta al cambiamento quando lapiramide non ha più un vertice?

Una prima risposta è stata data, sotto la sferza della necessità, dal-l’antico e ormai fiaccato avversario qa’edista. Al Qa’eda ha saputocombinare per decenni con successo un gruppo dirigente rivoluziona-rio e terrorista con un’attività di rete a livelli d’assoluta eccellenza,mettendo insieme delega, rete, franchising e volontarismo. In questoOsama bin Laden e Ayman al-Zawahiri hanno saputo applicare LaoTze: “Per guidare il popolo, camminagli accanto. In quanto per quelche tocca i capi migliori, il popolo non nota la loro esistenza. La mi-gliore alternativa successiva è che le persone onorino e lodino. Quelladopo, che temano ed in ultimo quella che odino i capi. (Eppure)quando il lavoro del miglior capo è compiuto, la gente dice ‘l’abbiamofatto da soli’”.

La parabola qa’edista passa proprio dallo zenith al nadir durante lasua metamorfosi da dirigenza accanto a consistenti parti del mondoarabo e mussulmano a gruppo prima temuto e poi francamente odiato,innanzitutto dalle popolazioni irachene.

La seconda paradossale indicazione jihadista viene invece propriodai suoi punti di forza, quelli che tutte le popolazioni smarrite e op-presse confusamente sentono come necessari in un’azione di guidaconvincente: etica, ideologia e responsabilità. Fortunatamente la ma-turazione delle condizioni sociopolitiche ha condotto al rovesciamentoprodotto dalle Rivoluzioni Arabe in direzione di democrazie, inveceche di nuovi emirati, evitando la trappola di un terrorismo sanguinarioe fallimentare come strumento generale e come esperienza specifica.

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Manca un passo decisivo, ma indispensabile per approfondire l’on-data rivoluzionaria anche in contesti diversi dall’oppressione che co-nosce il mondo arabo: la non violenza e la disobbedienza civile dimassa. In questo aspetto il genere femminile, superata l’ubriacaturadell’imitazione dei tipici modelli maschili (Baroness Thatcher e moltedonne manager), può riservare diverse sorprese sul piano politico. Pre-cursore di questa sintesi di caratteristiche individuali e coerenze collet-tive possono essere la leader cilena studentesca, Camila Vallejo Dow-ling, e la guida politica birmana, Aung San Suu Kyi.

Esse combinano diverse qualità:• una base machiavelliana, filtrata dall’esperienza sociopolitica

marxista-leninista o un base di Realpolitik, combinata con un’i-deologia gandhiana e buddhista;

• una visione del futuro elaborata;• una combinazione da nativa digitale delle tecniche di comuni-

cazione di massa, cura dell’immagine e del sentiment collettivo,delega e simultanea risonanza focalizzante sulla rete nel casodella prima e un tenace aggiramento con ogni mezzo digitaledelle barriere imposte dalla dittatura nel caso della seconda;

• una forte carica etica e ideologica, corroborata da convincenticomportamenti privati e da un forte senso di responsabilità;

• il rischio di vedere nel loro futuro una democrazia ancora sottotutela militare indiretta o diretta;

• l’uso della non violenza come metodo e discriminante politica.C’è un ultima caratteristica che dovrebbe diventare patrimonio dif-

fuso di una classe dirigente imminente: il cosmopolitismo. Esso è l’e-satto opposto dell’omogeneizzazione alienante della globalizzazioneperché parte dalle differenze, riconoscendole, e punta alla creazione diuna nuova sintesi in cui le diverse culture si sinergizzano. Il Che,Gandhi, Mandela, San Suu Kyi e Vallejo sono ancora guide locali as-sunte a simboli mondiali, mentre invece un Alessandro il Grande è statocapace di creare una koiné intercontinentale essendo già da vivo il sim-bolo di nuove unioni.

Non sapremo se le nuove guide porteranno dalla guerra verso unapace democratica e libera o verso nuove forme di autoritarismo illumi-nato, ma siamo ragionevolmente sicuri che senza nuove etiche e nuoveideologie queste figure di riferimento non potranno né emergere, né di-spiegare la loro azione nei confronti di popoli che vogliono fidarsi dinuovi contratti sociali.

(Alessandro Politi, saggista, direttore Osservatorio scientifico “Nomisma”)

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Codice d’onore, etica del rigore

Cristiano Portas

Il Paese attraversa una fase storica che dire non facile è riduttivo,un puro eufemismo del tutto insufficiente a rendere la reale gravitàdella situazione: con i costumi da bagno della nostra azienda po-tremmo forse contribuire a vestire adeguatamente un’intera classe po-litica ormai a mollo e con una credibilità affondata ben al di sotto illivello di galleggiamento.

Leadership di una nazione significa slancio e visione strategica dilungo periodo, non tattica di breve o brevissimo termine. Leadershipvera è capacità di guidare con una visione ampia, con una idea forte edecisa da perseguire con entusiasmo e convinzione in una prospettivacollettiva. Il leader autentico deve mostrare comportamenti ispirati allacompostezza e alla sobrietà, mai abusando della posizione di verticeper fini edonistici né abbandonandosi a decadenze da fine impero. Lafuga dal confronto con la realtà, il ritiro nella corte autoreferenzialedei compiacenti, inducono purtroppo troppo spesso la leadership a tra-sformarsi in una maschera tragica o patetica o farsesca, a seconda delcopione che scelga di interpretare. Per seguire ancora una volta la me-tafora balneare, occorre auspicare un salutare bagno di realtà da partedei nostri politici. Sono molteplici e sedimentate nel tempo le causeche hanno determinato questa condizione comatosa nella quale stasprofondando il Paese. Il proverbio dice “il pesce puzza sempre dallatesta”, però nel caso della politica occorre ricordare che la testa delpesce viene eletta dal popolo ed è dunque innegabile la corresponsa-bilità tra società civile e società politica, e perciò in definitiva – in de-mocrazia – “ la puzza certamente viene anche dalla coda”.

Nel nostro Paese si è cronicizzata una tendenza di fondo versol’arte di arrangiarsi, verso l’uso – o meglio l’abuso – di bassi espe-dienti per sopravvivere in un contesto collettivo a basso tasso di eticapubblica. Una tendenza cosi diffusa nei comportamenti privati da in-taccare il tessuto connettivo dei costumi nazionali. Una eredità storica,figlia del ritardo nella costruzione di una identità nazionale e di unethos condiviso per un Paese troppo a lungo attraversato dalle prepo-

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tenze e dalle scorribande delle dominazioni straniere e perciò inca-pace di elaborare una coscienza collettiva forte e condivisa. Privilegidi nascita e disparità dei punti di partenza hanno caratterizzato troppoa lungo una Penisola segnata da profonde differenze di opportunitàsociali. Secoli di dipendenza da sovrani stranieri e signorotti varihanno determinato il diffondersi trasversale e pervasivo dell’arte delservaggio e della compiacenza, che ha garantito alle masse una so-pravvivenza fondata sulla sudditanza invece che sulla cittadinanza.Una dipendenza dal potente piuttosto che una relazione col potere hacaratterizzato l’identità italiana troppo a lungo. La ricerca di vantaggie privilegi personali concessi dal potente di turno. Ci siamo abituatinei secoli a ossequiare il signorotto sulla carrozza, così come oggi su-biamo passivamente il parcheggio in seconda fila della Bentley di unpaparazzo qualsiasi, in una Italia fondata sull’ostentazione che ha so-stituito i privilegi della nobiltà con la mitologia cafona del kitsch.Molti hanno posto nella massima gerarchia dell’ambizione non piùla cultura, la scienza, l’arte ma la figura nazional-popolare del cal-ciatore o del fotografo di gossip. Una volta era chi stava davanti all’o-biettivo a rappresentare il mito, oggi è chi vi sta dietro. In una Italiaossessionata dal voyerismo e dal presenzialismo a ogni costo, vienemitizzato il ruolo del paparazzo che, nell’enfasi del vuoto assoluto,contribuisce a creare personaggi di cartapesta.

D’altro canto, il Paese ha vissuto una fase di progresso economicoassolutamente ingiustificato e immeritato negli anni Ottanta, il periododel CAF, fase terminale della cosiddetta “Prima Repubblica”, dominatada politiche di bilancio irresponsabili, esclusivamente basate su finielettorali. Tale follia gestionale, insieme al sistema della corruzione,hanno determinato il prodursi del fenomeno iperbolico del debito pub-blico: una spada di Damocle che incombe sulle future generazioni. Aquesta decadenza etica della classe dirigente è purtroppo corrispostauna perdita di ambizione e di motivazione morale a tutti i livelli. Amancare è lo slancio, lo spirito di sacrificio, l’ambizione personale, losforzo all’auto-perfezionamento quotidiano. È venuta meno la culturae l’etica dell’impegno fondata sull’umiltà, sul senso del dovere, sulladignità del fare. La ricerca di scorciatoie per il successo riempie le filedi una nuova figura antropologica: quella dell’aspirante al reality e altalent show, che vanta un diritto al successo senza nessun talento da of-frire. Troppo spesso le nuove generazioni sono figlie di genitori inca-paci di trasmettere valori e insegnamenti semplici e fondamentali, ca-paci di strutturare un’ identità e un carattere morale.

Una classe politica da avanspettacolo dove è difficile distinguere

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la realtà dalla caricatura della satira, come nel caso della vicenda del-l’acquisto della casa affacciata sul Colosseo da parte del noto ex mi-nistro. Una situazione paradossale che offende il buonsenso dei co-muni cittadini che conoscono bene l’ordinaria procedura di un rogitonotarile. In Germania uno stimato ministro che aveva mentito circauna tesi di laurea maldestramente copiata ha ritenuto doveroso rasse-gnare il proprio incarico, ignorando le molteplici esortazioni a conti-nuare. In Italia si può scommettere che, dopo un breve periodo di bassoprofilo, il nostro eroe tenterà a ogni costo di tornare al centro dellascena politica. Il problema è che i politici non danno certamente il buonesempio, ma siamo noi cittadini ed elettori a essere perversi e autole-sionisti nel continuare a conferire consenso a questa casta politica, con-vincendola di essere davvero intoccabile. Una classe politica che hamostrato un degrado culturale e morale, una forma di analfabetismolinguistico e istituzionale. È ora di cambiare! Stiamo pagando una talequantità di tasse da impedire qualsiasi rilancio dei consumi e dell’eco-nomia, mettendo il Paese in ginocchio per pagare un differenziale dispread sui titoli pubblici e finanziare gli errori perpetrati in anni discempio politico e sociale. Destra, sinistra e centro sono riferimentiormai privi di alcun significato. Ben altre sono le risposte che i citta-dini si attendono: un sano liberalismo, contemperato da equità, giusti-zia e pari opportunità di partenza. Ciò di cui abbiamo davvero bisognoè un popolo informato, maturo e responsabile, capace di svolgere unruolo più attivo di critica e di controllo sul sistema politico. Senza que-sta azione forte e decisa, sarà difficile, se non impossibile, scardinarei monopoli privati e la lobby dei poteri forti. Serve una leadership eticache favorisca e promuova la cultura, l’informazione e il lavoro di squa-dra, oppure la speranza che un fiume in piena trascini via un intero si-stema politico, consentendo un ricambio generazionale che ridefiniscaanche antropologicamente il modello di politica, sperando che possa fi-nalmente dimostrare consapevolezza, serietà, competenza e autenticointeresse al bene comune.

(Cristiano Portas, amministratore delegato Arena Italia)

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Svolta sostenibile

Vittorio Prodi

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Il modello energetico che ha alimentato l’economia del petroliosta pericolosamente tendendo a impattare sull’intero equilibrio del pia-neta a causa di un potenzialmente devastante fenomeno come il riscal-damento globale. Il progressivo inarrestabile riscaldamento del globoterrestre dipende da un uso intensivo di combustibili fossili che si tra-ducono in una concentrazione di gas responsabili del cosiddetto “ef-fetto serra”. Siamo ormai prossimi a un punto limite, un cruciale tur-ning point da non oltrepassare, prima del quale è indispensabile pren-dere piena coscienza del fenomeno e operare una svolta radicale e unainversione di tendenza senza la quale la sostenibilità ambientale delPianeta non è garantita. Il tema del riscaldamento globale rappresentaperciò non solo il sintomo, ma anche il simbolo più evidente della di-mensione olistica, transnazionale e interdipendente che caratterizza lacomplessità totalizzante e priva di confini delle grandi questioni del fu-turo del nostro Pianeta. La complessità inviluppata come un nodo gor-diano in un rompicapo intricato di molteplici problemi, è la forma incui si presenta la cruciale questione energetico-ecologica-economicache richiede di essere affrontata con un metodo fondato su una visionedi insieme, di largo orizzonte, nella consapevolezza della connessionereciproca tra le questioni della sostenibilità economica e le ragionidella sostenibilità ambientale. La questione ambientale richiede unanuova rivoluzione di paradigma che riporti la Terra al centro delle at-tenzioni. (Una sorta di paradossale e metaforico ritorno al modello To-lemaico, un nuovo modello “geocentrico”, non tanto dal punto di vistacosmologico, ma piuttosto da quello dell’etica ambientale). Salvaguar-dare il futuro del pianeta è perciò la vera e assoluta priorità geopoliticache assume anche una valenza di convenienza economica. L’equilibrioambientale del Pianeta si fonda sulla presa di consapevolezza dellapresenza di due ordini fondamentali di limiti dentro i quali deve mo-dularsi l’impatto trasformativo delle attività umane: da una parte laTerra può solamente offrire risorse naturali in quantità limitate, dal-l’altra parte esiste anche un limite rispetto alla capacità del Pianeta di

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accogliere gli scarti derivanti dai processi produttivi. Dal punto dellerisorse energetiche, abbiamo un limite di disponibilità dei giacimentidi combustibili fossili: a questo proposito è già stato raggiunto il peakoil, il livello massimo di estrazione di petrolio da cui la produzione èdestinata a diminuire. Non è più possibile continuare a usare i combu-stibili fossili come nel passato a motivo del limite all’approvvigiona-mento ma anche in relazione all’affacciarsi sulla domanda globale difabbisogno energetico dei Paesi di nuova industrializzazione.

Una governance credibile e responsabile del futuro delle nuove ge-nerazioni deve prendere con coraggio consapevolezza di questi limiti in-valicabili dell’economia del petrolio senza temporeggiare ulterior-mente: il futuro comincia da ora. A fronte della progressiva scarsità deigiacimenti di petrolio abbiamo a disposizione l’enorme e praticamenteinesauribile fortuna dell’energia solare. Una leadership responsabile hal’onere di pianificare e approntare un percorso di avvicinamento versola progressiva implementazione di energie rinnovabili in un arco ditempo rapido e realistico.

La tecnologia è a disposizione e certamente potrà essere perfe-zionata anche grazie a investimenti e ricerca, quello che è però asso-lutamente indispensabile è un lavoro politico-culturale per coagulareun consenso e una volontà politica su questa linea all’interno delleistituzioni comunitarie: Parlamento ma soprattutto Commissione eu-ropea. La roadmap europea prevede di raggiungere la piena indipen-denza dai combustibili fossili entro la metà del secolo arrivando a unasua totale sostituzione con le fonti rinnovabili. Nell’attuale modelloindustriale il suolo, il mare, l’aria costituiscono gli inevitabili approditerminali dei residui inquinanti nelle loro molteplici forme. Diventaperciò determinante la decisione di ripensare i processi produttivi alloscopo di eliminare o attenuarne sensibilmente l’impatto ambientalegrazie a un processo intelligente di riuso e di riciclo dei processi. Sitratta di organizzare non solo una trasformazione dei processi indu-striali di produzione, distribuzione e allocazione dei beni e delle ri-sorse, ma di stimolare un processo capillare e diffuso di cambiamentodei comportamenti personali e degli stili di vita e di consumo.

Questa rivoluzione etica e comportamentale non dipende solo dauna riconfigurazione sistemica dei processi di produzione, consumoe reimpiego dei beni, ma da un cambiamento intrinseco nella conce-zione stessa della parola “rifiuto” al punto da arrivare sino alla can-cellazione stessa della parola “rifiuto”: infatti nulla è inutile, ogniscarto può essere intelligentemente e creativamente ritrasformato, ri-collocato dentro un processo di circolarità ciclica. Sono maturi i tempi

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per una democrazia energetica fondata su un modello distribuito diproduzione diffusa, fondato su una sempre maggiore partecipazionee responsabilizzazione individuale e collettiva nella questione energe-tica. Una nuova architettura del sistema di produzione energetica rap-presenta una rimodulazione delle opportunità per i cittadini in unmondo sempre più ecologicamente sensibile e responsabile.

Questo nuovo paradigma economico e sociale si fonda sulla con-siderazione della sempre maggiore inattualità e insufficienza del pa-rametro del PIL come strumento di misurazione del benessere collet-tivo. È dunque diventato indispensabile trasformare il modello di ri-levazione della ricchezza delle nazioni andando oltre il convenzionalestrumento del PIL che rappresenta la variazione della produzione equindi del consumo dei beni materiali. La scienza economica e di con-seguenza la politica economica è vittima dell’errore metodologico edella distorsione percettiva indotta da un paradigma che assume indogma il PIL come valore macroeconomico di riferimento. Il ProdottoInterno Lordo, per definizione obbedisce all’imperativo categoricodella crescita a qualsiasi costo come valore assoluto. Il presupposto difondo è dunque di credere quasi fideisticamente all’illimitato poteredella crescita economica: ciò significa coltivare una illusione di cre-scita illimitata che nega le leggi della fisica e della logica e che siscontra con la realtà empirica e la storia dell’economia. Per questooccorre fare un salto metodologico ma anche etico e culturale, abban-donando una concezione “pil-centrica” e imparando ad attribuire si-gnificato economico a tutti quei valori di benessere e sviluppo umanoche rivelano attinenza diretta con la qualità effettiva della vita comela conoscenza, la salute, la qualità delle relazioni sociali, la solida-rietà: si tratta di valori in grado determinare qualitativamente le con-dizioni esistenziali, il grado di felicità vissuta dalle persone sia nelladimensione privata sia sociale. La leadership pubblica ha il doveremorale di riconsegnare centralità politica a valori concreti e vitalicome benessere e felicità, a lungo oscurati da concetti meccanicisticicome produzione e consumo. È indispensabile assegnare una nuovacentralità al bene comune troppo a lungo oscurato dai miti del neoli-berismo. Comunità e condivisione, solidarietà e partecipazione sonole coordinate etiche e sociali della leadership futura.

Nell’invocazione evangelica del “Dacci oggi il nostro pane quo-tidiano”, non a caso il bene simbolico ma anche essenziale alla nostrasopravvivenza – il pane – viene declinato al plurale, enfatizzandoneil carattere di bene e diritto collettivo. Si deve anche riconfigurare ilvalore dei beni immateriali, culturali, spirituali, rispetto a quelli esclu-

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sivamente materiali; oltretutto, mentre non c’è limite alla crescita deibeni immateriali, ci sono evidenti limiti strutturali alla crescita deibeni dotati di una consistenza materiale, sia dal punto di vista dell’ap-provvigionamento di materie prime, sia dal punto di vista dell’im-piego di energia per la trasformazione. Dunque la strada dovrà essereuna sempre maggiore concentrazione e valorizzazione sui beni im-materiali, sociali e culturali rispetto ai consumi.

Una leadership pubblica deve contribuire ad avviare un processodi sutura delle profonde ferite sociali determinate dal progressivo al-largarsi della diseguaglianza e iniquità nelle opportunità, invertendola direzione rispetto a un modello di relazioni sociali sempre più fon-dato sull’antagonismo, la competizione, l’aggressività, invece che col-laborazione, inclusione e condivisione. Il compito di una leadershipautentica è saper indicare un progetto di sviluppo sociale e di dignitàa beneficio di tutto il corpo sociale e non solo di alcune soltanto dellesue componenti e classi. A questo proposito un precetto evangelicocome: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostridebitori”, non è un generico auspicio ma una precisa indicazione circal’importanza di prevenire in radice i conflitti sociali ed economici, at-traverso la capacità di perdonare e quindi di ricomporre la dicotomicapolarizzazione sull’asse delle relazioni di dare-avere, di debito-cre-dito, imparando a convivere apertamente in un tessuto sociale fon-dato sulla fiducia, la buona fede e la tolleranza reciproca. La salute diuna comunità passa attraverso una pacificazione, ri-tessitura della teladei rapporti sociali ricostituendo una trama di relazioni interrotte. Larelazione economica non può essere esclusivamente ridotta alla solamatrice patrimoniale ma deve sottendere anche una relazione umanae morale, improntata al rispetto e alla fiducia e non al mero interesseutilitaristico. Quello che davvero conta è la volontà di lavorare as-sieme, di condividere un progetto fondato sulla reciprocità capace disuperare la concezione dell’Altro come un limite, come un antagoni-sta o un nemico ma piuttosto come un’occasione di incontro e possi-bilità e crescita reciproca, fondata sul riconoscimento del valore delladiversità come opportunità. Una leadership futura non può che fon-darsi su una concezione antropologica basata sull’apertura all’eventodella comunicazione con l’Altro come fonte di ispirazione per riuscirea improntare lo stile di convivenza tra differenze nella comunità. Unavisione fondata su un modello di società accogliente oltre una meratolleranza e capace di vivere un futuro arricchito dallo stimolo delladifferenza e del valore della multiculturalità.

La nozione di bene comune, il principio di solidarietà, l’equità,

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l’uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale sono princìpisanciti in quel testo che rappresenta un patrimonio culturale impre-scindibile e di grande equilibrio e modernità che è la nostra Costitu-zione. L’orientamento personalista presente nella Costituzione e il ri-conoscimento della dignità della persona come centro dell’interessedella politica rappresentano la pietra angolare dell’architettura valo-riale contenuta nella Carta Costituzionale. Dobbiamo riprendere erafforzare i valori dei “padri costituenti” cercando di attuare piena-mente il diritto di ogni persona all’accesso paritario alle opportunitàcostituite delle risorse naturali garantendone il godimento anche a fa-vore delle generazioni future.

È indispensabile una trasformazione culturale che ristabilisca unmaggiore equilibrio tra l’uomo e il suo habitat, è necessaria maggioreumiltà da parte dell’uomo rispetto alla Natura: una esasperata visioneantropocentrica impedisce di mettersi in ascolto rispetto al linguaggiodella natura. La Terra non è destinata solo a un impiego produttivo eallo sfruttamento intensivo da parte dell’uomo. È indispensabile un ap-proccio alla Natura fondato sul rispetto della ricchezza della biodiver-sità vegetale e animale fondata su delicati equilibri che si sono formati,lungo un arco lunghissimo di tempo, come risultato di un’azione di per-fezionamento continuo lungo catene evolutive rette dal vitale principiometamorfico e adattivo della Natura. Nel libro della Genesi si descrivela Natura come un giardino che deve essere custodito, l’uomo non è si-gnore e padrone della Terra, ma è piuttosto il custode della natura. Tuttii linguaggi sapienziali e di rivelazione evocano paradisi naturali, giar-dini dell’eden e luoghi di beatificazione non astrattamente metafisici,ma sempre associati a un immaginario naturalistico. Ciò rivela un nessoprofondo tra gli archetipi della Natura e la rappresentazione dei pae-saggi della beatitudine. Dai paesaggi spirituali della perfezione ai pae-saggi simbolici dell’eternità, è sempre presente un legame inscindibile,una costante culturale tra l’immaginario e la rappresentazione della fe-licità umana e il suo rapporto idilliaco con la Natura. La spinta alla rea-lizzazione di una perfetta armonia tra uomo e Natura richiede a suavolta una maggiore sintonia ed empatia tra uomini.

Abbiamo assoluta necessità di una società più accogliente per vi-vere l’incontro con la differenza come occasione stimolante e arric-chente. Perciò è indispensabile una leadership fondata sull’inclusionee la partecipazione che sappia accrescere la dignità della dimensioneumana. Bisogna operare una conversione della leadership trasforman-dola da pura gestione del potere a occasione di responsabilità che sap-pia raccogliere la sfide della ricerca del bene comune. Il potere è stato

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troppo a lungo considerato come meccanismo autoreferenziale fina-lizzato solo al proprio vantaggio da parte di chi ne detiene le miste-riose chiavi di accesso: si deve invece rovesciare questa condizionenarcisistica del potere ritrovando le motivazioni autentiche di princi-pale catalizzatore della trasformazione sociale, finalizzato alla crea-zione di un sistema valoriale che abbia al centro della propria azionela persona con le sue imprescindibili istanze materiali e spirituali. Ilcontributo al bene comune può derivare da una leadership pluralistache rispetti e valorizzi il policentrismo degli attori e della molteplicitàdelle attività della comunità: dall’impresa, alle istituzioni politiche,al terzo settore. Siamo stati troppo a lungo compressi come Paese,dominati e umiliati da una politica interpretata come mera gestionedel potere e preoccupata delle alleanze, delle strategie, dei compro-messi con gli ideali morali e non invece del destino dell’uomo. Al-l’opposto la vera politica è dotata di un profilo alto come le sfide chesi prefigge: è un’antropologia in azione, una forma di conoscenza ap-plicata e implicata nell’azione di trasformazione dell’uomo. Una po-litica di alto respiro mira a porsi domande fondamentali su quale tipodi uomo nuovo contribuire a creare: una politica davvero degna aspiraad arricchire l’esperienza dell’umano nella sua dimensione sociale edesistenziale. Dopo aver attraversato le sabbie mobili e l’impasse diuna politica autoreferenziale, distante e impossibilitata a risponderealle istanze di trasformazione, il recente ritorno alla partecipazionediretta dei referendum ha rappresentato un segnale davvero signifi-cativo a fortiori in un momento così attraversato da una diffusa sfidu-cia generalizzata verso la funzione della rappresentanza politica e deisuoi protagonisti. Dobbiamo tornare a questo significato originario,seguendo il senso etimologico della politica come cura degli interessipubblici della città piuttosto che della sua deriva populista sintonizzatasulle peggiori pulsioni incontrollate di una società sempre più sban-data, spaventata nevrotica e isterica. La politica deve rispondere alletendenze alla paranoia e alla paura dell’Altro e del nuovo con la forzadella razionalità e di un ottimismo fondato sulla speranza nella inesau-ribile perfettibilità dell’uomo.

L’etica, sia nella sua ispirazione personalista che kantiana, cispinge a rifiutare qualsiasi strumentalizzazione del valore della per-sona umana, che deve essere sempre interpretata come un fine e maicome un mezzo. Capacità critica e autocritica rappresentano i due poliin cui il pensiero etico è in grado di fungere il proprio ruolo propedeu-tico di stimolo culturale e metodologico per la concretezza della prassidell’azione politica. Chi crede nell’umanità non può in alcun modo ri-

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nunciare a impegnarsi perché alla persona venga offerta l’opportunitàdi crescere in consapevolezza e piena occasione di espressione. Ilcompito del politico è in fondo quello di contribuire al massimo gradopossibile alla felicità e al benessere della società, svincolandosi dauna visione esclusivamente utilitarista o economicista.

La leadership è magnanimità nei rapporti con gli altri senza ri-corso all’autoritarismo, è equità e mitezza dell’azione verso gli altri.La verità si fonda su una proposta che non può essere un’imposizione:il leader non può essere il detentore esclusivo della verità imposta dal-l’alto in nome della competenza, della superiorità intellettuale, dellaforza economica, ma deve convincere grazie al sapiente e pazienteuso del dialogo. La leadership dovrebbe in fondo fondarsi su un atteg-giamento di benevolenza non tanto nella variante di un buonismo in-genuo alla “vogliamoci bene” ma piuttosto nel senso del riconosci-mento del presupposto che ciascuna persona ha una propria identità,dignità e ruolo indispensabile e deve essere messa in grado di viverlopienamente. La qualità della leadership è decisiva, in particolare inmomenti di svolta come quello che stiamo vivendo, per contribuire arifondare il sistema valoriale di una civiltà, offrendo un contributoalla speranza di cambiamento collettivo. La paura si manifesta nellachiusura dei nazionalismi, negli arroccamenti e nei localismi, invecela speranza ci offre la dimensione dell’apertura sull’orizzonte glo-bale: oggi non ci è più concesso di vivere isolati. Il modello di sovra-nità evolve in funzione della ormai irreversibile tendenza alla interdi-pendenza a livello globale: ciò significa che dobbiamo imparare a tro-vare una modalità consensuale per gestire al meglio e senzaprevaricazioni questa interdipendenza globale. Il concetto di sovra-nità non è più assoluto e unilaterale ma richiede un paradigma di sin-tesi politica di tipo consensuale e multilaterale rispetto alla soluzionedi questioni globali. La leadership svolge un ruolo indispensabile nelsuperare l’interesse individuale e trovare una sintesi nel bene comune.Il leader è la figura chiave nello sforzo per cementare la nostra civiltàattorno a un sentire comune. Il concetto di bene comune è proprioquello su cui si può aprire un ponte culturale tra l’individualismo dellasocietà occidentale e la filosofia cinese, che tende a trascurare la per-sona e attribuire il ruolo fondamentale alla collettività. Leadership ècapacità di mostrare una strada in cui tutta l’umanità possa ricono-scersi in un destino condivisibile.

(Vittorio Prodi, deputato, membro della “Commissione per l’ambiente, lasanità pubblica e la sicurezza alimentare” al Parlamento Europeo)

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Giulio Properzi

Esiste una molteplice fenomenologia, e una ampia letteratura, sullaleadership che spazia in contesti tra loro molti diversi prendendospunto dal comportamento animale e arrivando a descrivere il mondoumano. L’etologia ci fornisce esempi interessanti sulla genesi del com-portamento del leader: per esempio il ruolo assunto dal capobranco traanimali come i lupi, che si sottomettono alla forza del soggetto domi-nante riconoscendone il potere e l’utilità per la sopravvivenza dell’in-tero branco. Del resto la condizione ferina dell’Homo homini lupus de-scritta da Hobbes non è poi così diversa da una umanità biologicamentee geneticamente poco lontana dagli antenati predatori.

Nel mondo dell’organizzazione aziendale, gli stessi imprenditorivengono spesso associati ai cosiddetti animal spirits proprio per il modointuitivo e spontaneo con cui praticano un comportamento economicoseguendo l’imprinting dell’istinto e la sensibilità rabdomantica del se-sto senso che li avvicina più al mondo istintuale che alla stretta razio-nalità deduttiva dell’homo sapiens. Ci sono modelli di leadership fon-dati sulla credibilità etica e il pieno rispetto delle regole e all’oppostocomportamenti di leadership fondati sull’uso della forza o dell’astuziae dell’inganno. Un vero leader è non solo chi viene investito di un ruoloin virtù del solo destino o del puro caso, ma è anche colui che è in gradodi conquistare la credibilità della comunità di riferimento. Il leader viveuna necessità intrinseca di riconoscimento, senza cui non si può diven-tare leader a pieno titolo e si rimane in un perenne limbo del potere,eterna anticamera del comando. Tuttavia qualunque leader scelto oeletto deve avere un certo numero di poteri chiari per operare e farsiconfermare la fiducia. I leaders senza poteri o pochi poteri passano iltempo in lotte di sottogoverno per la loro stessa sopravvivenza.

Io ho cominciato il mio percorso alle soglie dei trent’anni, quandomio padre mi consegnò il simbolico bastone del comando con l’invitoa proseguire la storia dell’azienda. Ricordo nel ’70, dopo l’Universitàcome direbbe Heidegger “gettato” nella vita, da un padre che mi portain azienda ancora fresco di studi, ad affrontare nella più totale inespe-

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rienza un momento storico come quello dell’autunno caldo e relazioniindustriali segnate da una conflittualità estrema. Sono stato fortunato nelpotermi aggrappare alla cultura classica, alla filosofia che avevo colti-vato grazie alla spinta e alla passione di mio padre. Non è stata la lau-rea in ingegneria a formarmi di fronte al compito di imparare a viveree ad agire nel mondo dell’impresa e nel terreno minato della relazioniindustriali di una stagione calda diventata poi di piombo. Anni di for-mazione sul campo, imparando a riconoscere il valore e la qualitàumana degli uomini, a leggere le intenzioni, la buona o cattiva fede ne-gli altri: anni di scelte drammatiche e insieme appassionanti. Si diventaleader leggendo la vita dei cesari? O facendo corsi sulla leadership o inbusiness administration? Le Vite parallele di Plutarco rappresentaronoper me una grande scuola di vita, un itinerario conoscitivo sull’influenzadei caratteri sul destino. La leadership in azienda richiede di impararea valutare le persone, i collaboratori, trovare un giusto equilibrio tra as-sertività e spirito collaborativo. Certamente non è una forma mentis ditipo tecnico a risolvere i nodi intricati della leadership. È richiesta la du-plice attitudine a stare fianco a fianco alle persone e riuscire nel con-tempo a stare da soli: richiede una predisposizione e anche la voglia disoffrire perché fare il leader non è divertente e complica di molto la vita.Richiede il coraggio di mostrare il proprio volto assumendosi respon-sabilità in prima persona. Molti preferiscono affrontare le certezzedella routine o vivere sotto traccia protetti dalla comodità di non esseresempre esposti al giudizio. Molto dipende da una propensione di fondo:si può essere primi violinisti o direttori d’orchestra, ma quasi mai è datoessere contemporaneamente entrambe le cose: si tratta di due attitudini,di due forme di protagonismo molto diverse.

Viviamo un momento che sembra abdicare al dovere del comando,agli oneri della leadership pubblica di compiere scelte con coraggio e condecisione. Preferiamo come Paese avvolgerci nell’ambiguità di una non-scelta generalizzata. Sartre affermava che non è possibile non scegliere.Invece l’Italia che viviamo sembra volersi ostinare nel parossismo di unanon scelta, nel paradosso di scelta di non scegliere: l’ossimoro noncome figura retorica, ma come prassi di governo. Questa astensione daldovere di scegliere rivela l’intenzione nascosta di mantenere vie di fugaper non rischiare tutto, per non assumersi responsabilità. Si vuole tuttoe il contrario di tutto, così si arriva a pretendere: “la botte piena e la mo-glie ubriaca”. Vogliamo l’industria nazionale ma non rinunciamo ai van-taggi della de-localizzazione. Vogliamo più benessere ma meno fabbri-che; vogliamo più traffici ma meno traffico; vogliamo più libertà ma piùleggi, regole e leggine; vogliamo più privacy ma tutti i supercontrolli e

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si potrebbe continuare all’infinito. Vogliamo una cosa e il suo contrario:siamo avvinti nella spirito di auto-contraddizione. C’è troppa confusione,dovremmo ritornare ad Aristotele imparando ad apprendere da una lo-gica rigorosa in grado di rispettare il principio di non contraddizione.

La logica è scomparsa dall’orizzonte mentale dei governanti sopraf-fatta da un movimento anarcoide e cieco, irrazionale e individualista sinoalla protervia. Mentre gli uomini del Risorgimento o del secondo dopo-guerra furono una élite di idealisti illuminati, di romantici, di utopisti,di filantropi ispirati dalla cultura unita al coraggio dell’avventura, oggiassistiamo alla distruzione delle belle lettere, alla rimozione sistematicadella cultura e l’ostracismo dell’arte autentica. Le nuove generazionisono sempre più lontane dall’esperienza culturale ed esistenziale dellagrande esperienza formativa umanistica e del romanzo borghese chehanno caratterizzato le migliori classi dirigenti del passato prossimo. Igiovani vengono allevati in un terreno di nichilismo, ribellismo acefaloo conformismo inerte. L’indistinta moltitudine incolore sconta una pre-parazione banale, per questo tende a reagire ai problemi della vita conrisposte univoche e troppo manichee, applicando un moralismo inbianco e nero lontano dalla verità e dalla complessità dell’esperienzaumana. In realtà l’uomo attraversa difficili compromessi, il più crucialedei quali è il compromesso con la propria coscienza. Viviamo la più altacomplessità e rispondiamo con la banalità riduttiva della semplificazione.Tutto dipende in fondo da un immiserimento della preparazione cultu-rale, da un’amnesia del passato e della lezione della storia. Assistiamoa una perdita della cultura politica del Paese che trova come principalenodo gordiano quello della leadership nell’intrico dei fili confusi del co-mando. Solo un secolo fa un intera nazione veniva gestita nel chiuso diquattro stanze, con pochi leader che gestivano le scelte decisive dialo-gando e lottando tra di loro. Chi dimostrava nelle piazze veniva norma-lizzato con il pretesto dell’ordine pubblico. I centri di potere nel temposi sono ampliati, ma con una tendenza dell’élite a prendere ancora de-cisioni tra un gruppo comunque ristretto di attori e protagonisti nei ruoliantagonisti di progressisti o conservatori. Oggi quel potere fatto di re-lazioni dell’establishment trova sempre più difficoltà. Ciò significaforse maggiore democrazia, ma non maggiore efficienza rispetto all’in-teresse generale. Chi comanda si vuole ricamare una legge a maglie lar-ghe, ritagliata sui propri interessi. C’è una pratica diffusa di voto di scam-bio fra corporazioni che inquina la politica e che nessuna formulaelettorale è comunque mai riuscita a debellare perché non è una leggeelettorale a poter mutare da sola una intera cultura di intrecci tra affarie politica. Una ricerca di un consenso fondata sulla concessione di pre-

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bende per interessi personali o di categoria inficia alla base qualsiasi po-tere di leadership che diventa ostaggio del populismo. Un interesseesclusivo per il proprio “particulare”, senza alcuna prospettiva sull’in-teresse davvero generale. La svolta necessaria implica un disegno di ri-scrittura dei poteri istituzionali e della premiership in particolare. Il si-stema di architettura costituzionale del nostro Paese, indubbiamenteavanzato negli anni del primo dopoguerra, oggi sconta una certa inattua-lità in termini di pragmatismo ed effettività di decision making. Il lea-der non deve essere così forte da poter essere un Caligola ma abbastanzaforte da esser un Augusto. Nella migliore tradizione romana il dittatore,extrema ratio di un potere eccezionale e limitato al compito di “salva-tore della patria”, vedeva nella limitazione temporale del suo mandatoil limite all’abuso e alla tirannia autocratica. Purtroppo oggi in Italia cisono troppi poteri in conflitto tra di loro che determinano una condizionedi impasse. Siamo partiti dalla classica tripartizione dei poteri di Mon-tesquieu per arrivare a una complicata ragnatela di poteri diffusi che siuniscono a quelle tradizionali dello Stato centrale e degli organi costi-tuzionali: il potere dei Media, cioè la casta dei giornalisti, del Sindacato,di Confindustria, dei Giudici, delle Regioni, dei Sindaci, delle Province,dei Cattedratici, degli Ambientalisti e perfino... dei tassisti. Tutti poterisenza una vera, precisa e individuata leadership e quindi senza respon-sabilità. Serve una riformulazione complessiva del quadro istituzionaledel potere e del sistema decisionale del Paese e valutarne l’efficacia ef-fettiva in modo realistico e non propagandistico. Un leader senza suf-ficienti poteri si riduce a leader di facciata che persegue i propri inte-ressi o interessi di parte o si perde nella lotta… per superare i poteri chelo ostacolano. È chiaro, invece, l’esempio positivo delle aziende che ri-cevono da un forte capofamiglia un input verso il successo e la situa-zione – perdente – delle famiglie allargate o dei gruppi manageriali doveil conflitto interno sciupa molte opportunità potenziali o porta alla pa-ralisi. Senza poteri effettivi si creano solo finti leader che sono moltopiù pericolosi e infidi dei leader autentici. Senza un sistema in gradodi conferire chiari poteri non si può garantire un governo del Paese. Inpolitica il potere centrale viene troppo spesso interdetto da gruppi di in-teresse e minoranze attive e organizzate. Serve un potere di decisionecentrale per stabilire priorità di interesse pubblico. Scarsa leadership po-litica significa maggiore sottogoverno e mancanza di trasparenza.

Trovo anche sbagliato quel tono della vulgata giornalistica per cuisiamo sempre – anno dopo anno – sull’orlo dell’abisso, attraversiamosempre il momento più drammatico della storia. Gli stessi economistihanno vaticinato crolli non sempre avveratisi e comunque mai in fondo

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letali per la storia di un capitalismo tuttora vivo seppure sempre più di-sordinato e imprevedibile. La finanza mondiale è talmente complessache nessun soggetto è in realtà più in grado di controllarla. Mentre i veriimprenditori vivono un sentimento di attaccamento affettivo e personaleall’azienda e detestano licenziare nei momenti di difficoltà, i super ma-nagers global sono spesso freddi calcolatori che operano tagli e ridimen-sionamenti spinti dal solo interesse dell’incremento degli indici borsi-stici. Spesso sono manager che sanno rispondere alle difficoltà di unaazienda con la sola leva dei licenziamenti.

Questo è un capitalismo dal volto inumano che è alimentato ancheda una cattiva informazione economica fatta da opinionisti irresponsa-bili. Ancora ieri i partiti riuscivano a influenzare il sistema mediatico,adesso invece è il sistema mediatico a influenzare i partiti. La proprietàdei grandi giornali è spesso fondata su una governance a forma di sca-tole cinesi con partecipazioni incrociate, conflitti di interessi e patti disindacato che determinano linee politiche e strategie e campagne distampa a favore o contro determinate politiche per interesse di parte. Ladisinformazione è un immorale furto di verità che comporta la distru-zione della possibilità di determinare una scelta libera e dunque è unfurto di democrazia per i cittadini. Spesso non configura un vero ille-cito in senso stretto ma certamente rappresenta la violazione di unanorma etica: quella del dire la verità e di esprimere opinioni secondola regola della buona fede. Mentre un politico può essere non rieletto,un autorevole opinionista rimane al proprio posto malgrado eventualierrori, faziosità e scorrettezze nel fornire informazione. La ripetizionedella notizia diviene il criterio della verità secondo una logica per cuitutto ciò che è ripetuto viene creduto. La serietà nell’informazione è unbene troppo importante per la democrazia che si fonda sulla regola fon-damentale del “conoscere per deliberare”, se l’opinione pubblica vienemale informata o informata solo parzialmente (l’assimetria informativasecondo i Nobel Stigliz e Spence) si viene a creare un vulnus fondamen-tale nella possibilità stessa di determinare un voto libero e consapevole.

Più che di norme giuridiche il Paese necessita di regole etiche, diuna maggiore moralità nei governanti ma anche da parte dei governati,nella consapevolezza che viviamo in uno strano Paese che perdona qual-siasi malefatta ma vive una strana forma di irriconoscenza verso chi sicomporta in modo corretto, come non perdeva occasione di ricordarmimio padre dicendomi amaramente: “Comportati bene, ma non farebuone azioni se non sopporti l’ingratitudine”.

(Giulio Properzi, presidente e CEO Continuus-Properzi)

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Prova d’orchestra

Vittorio Raschetti

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Nel film Prova d’orchestra, girato nei turbolenti e libertari anniSettanta, Federico Fellini mette in scena l’allegoria grottesca della ri-bellione anarcoide di un gruppo di musicisti persi nei loro particolari-smi individuali, riluttanti o incapaci di seguire gli ordini di un direttorenevrotico dall’implacabile accento teutonico. Solo il colpo di scena del-l’improvvisa distruzione di una parete a opera di una sinistra enormepalla nera impone nel finale un ambiguo “ritorno all’ordine” inducendoi musicisti all’ubbidienza dell’elitario maestro d’orchestra tedesco. Intedesco i leider sono composizioni musicali, c’è una curiosa omofoniatra la parola inglese leader e quella tedesca leider che offre suggestionicirca il misterioso legame tra il comandare, il guidare e l’armonizzareuna canzone. Il direttore d’orchestra si offre allo sguardo dei suoi mu-sicisti, anticipando con gesti misurati il distendersi delle note, prece-dendo di qualche impercettibile istante il tempo che poi detta ai musi-cisti. Prevede e armonizza la polifonia della voci, trattiene le intempe-ranze dei solisti, le fughe in avanti dei primi violini, il borbottare deitromboni, le dissonanze e le dissidenze. Il Maestro d’orchestra legge isegni dello spartito, traduce la partitura adattandola alla sensibilità con-temporanea, improvvisa come un jazzista, contribuendo a modificarela musica nel suo farsi. Saper leggere i segni del tempo come un sen-sitivo, saper decrittare messaggi ancora incastonati nel futuro: perchéla musica è estensione del passato ma anche anticipazione del futuro.Le mani, lo sguardo, la postura del direttore d’orchestra scolpiscono lamusica nello spazio solido afferrando lo spazio fluido del possibile econgelandolo in un presente insieme puro e sfuggente come il ghiac-cio. Il carisma è misterioso potere di attrazione, magnetismo ipnotico,istrionico occhio che cattura e fa accadere per azione a distanza, senzaalcun contatto fisico: è metafisico e si muove nel vuoto; il potere simuove in un vuoto pneumatico ma sempre sotto pressione.

La fisiognomica del potere da sempre si esercita a interpretare isegni solo apparentemente più superficiali del comando, cercando didecifrare i tratti che segnano il volto e lo sguardo insondabile del co-

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mando, ma tutto sa nascondersi in superficie. Elusivo, ignoto, metico-loso, presente e lontano come nella perfezione dei ritratti di Hans Hol-bein. Il potere è policefalo, un mostro mitologico, un Leviatano impla-cabile, come una testa di Medusa velenosa insieme inguardabile e at-traente. L’occhio del potente è vuoto e silente, come l’occhio del ciclonedove tutto è fermo. L’occhio del potere è preistorico e predatorio, ine-spressivo e concentrato come quello dello squalo che si fa guidare dal-l’odore del sangue. Il potere si muove protetto dalla notte diurna abis-sale e procede per istinto profondo. Il potere è ambiguo e anfibio. Hapazienza, attende in agguato nei fondi limacciosi e si nasconde sotto lasabbia. Il potere è ubiquità, coazione alla presenza, insieme dapper-tutto e in nessun luogo. Si riposa in scena, si affanna dietro le quinte.Si sposa in nozze incestuose. Accende e spegne l’attenzione a co-mando: gestisce il telecomando. Il mito dell’infallibilità, dell’uomosolo al comando, dell’uomo del destino, dell’architetto del futuro, deldemiurgo della nazione: l’uomo della provvidenza senza decenza nécompetenza, l’uomo che non c’entra. L’uomo che non c’era. L’uomoombra. L’uomo senza qualità. Peter Sellers, nel film Oltre il giardinodi Hal Ashby, interpreta il ruolo di un giardiniere timido e analfabetache, venuto a contatto con l’élite americana, si trova a essere scambiatoper grande intellettuale capace di fornire perle di saggezza. I silenzivengono scambiati per pause ispirate, le risposte naïve vengono inter-pretate come sentenze ironiche e oracolari. Sulla base di questo frain-tendimento arriva a essere richiesto come nuovo genio della politicapronto al ruolo di eminenza grigia del Presidente.

Gli snodi e gli snob del potere. Si diffonde una forma sempre piùad assetto variabile del potere, un reticolo di complice solidarietà, murielastici e inaccessibilità tra conclavi segreti, udienze private e indul-genze plenarie controriformiste. L’antica arte dell’obbedienza tra inti-midazione e convenienza, a suo agio tra i precetti manieristi del Casti-glione del Cortegiano o tra i ciambellani della corte barocca della Ver-sailles delle Memorie di Saint-Simon. I giardini del potere all’italianao alla francese sono stucchevoli fondali nell’arte della conversazioneinfluente e nelle strategie dell’ascesa sociale, ma non è più tempo di ar-rampicate, piuttosto di cadute sociali: più miserie che splendori tra “il-lusioni perdute” balzachiane e illusionisti al potere. Machiavellici prìn-cipi senza princìpi. Prìncipi principianti da educare: delfini educati alpotere da squali. Passaggi segreti, trame, intrighi, colpi di scena, poli-tica da cappa e spada. Le verità pericolose, la “ragion di stato” comesonno della ragione che genera mostri. La diserzione della ragione. Lavera autobiografia del potere è l’Elogio della pazzia di Erasmo da Rot-

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terdam. Leader-ship alla guida di una nave dei folli: un battelloubriaco, un vascello fantasma. Regicidi dovuti.

Leader-shame. Il “cursus dis-honorum” di potenti recenti ha sve-lato una celebrazione di incompetenze. Nessuno specchio deformante,nessuna cosmesi è in grado di restituire decenza ai volti bolsi e cadentidi chi ricorre all’abuso di spezie per cercare di dare sapore a un co-mando insipido. Una catastrofe culturale, una regressione antropolo-gica che ha consentito uno stupro di gruppo ai danni della speranza. Ènecessario evirare questo modello di potere. È indispensabile una me-tamorfosi radicale dell’architettura funzionale e morale. Serve un in-flessibile e razionale uso dell’indignazione e dell’orgoglio ritrovatoper porgere nuove istanze a una nuova guida all’altezza della attese, unpotere profetico all’altezza della libertà. È indispensabile riattivare icanali di formazione delle domande collettive, colmando la distanzasociale, il piano inclinato che apre il baratro alla declino economico,per riattivare un terreno fertile e creativo di produzione e dissemina-zione di onde di significati. Serve un leader-shock, una scossa ai maliprofondi, al patto dissennato e dissoluto tra plutocrazia e populismo.

Dispute dinastiche rese ormai inutili dai moti nei paesi del deserto:ormai il ghiaccio che ricopre il lago si sta sciogliendo, mentre i potenticercano di guadagnare l’ultima sponda della salvezza. Lo scettro delcomando giace seppellito indifferente in acque profonde incrostatocome un relitto che nasconde tesori irrecuperabili. Il fantasma del po-tere aleggia tra le rovine reiterando a ogni alba un congedo solo prov-visorio, pronto a siglare un inutile patto notturno tra giuramenti sper-giuri e tradimenti.

L’aria del dissolvimento nel silenzio irrespirabile dei ritratti di cortedi Diego Velázquez, l’apatia del comando nel sudore freddo dell’attesadello svanire. Nessuna innocenza nel Ritratto di Innocenzo X di Veláz-quez. Francis Bacon cita Velázquez dipingendo un deflagrante e stra-niante urlo afono inascoltabile del Papa. Nel breve racconto di Kafka Ilmessaggio dell’imperatore, l’imperatore, in punto di morte, affida a unsuo ambasciatore un messaggio da consegnare a un suddito, ma il mes-saggero, malgrado gli sforzi, non potrà mai consegnare il messaggio,perdendosi nell’infinità labirintica sconfinata maestosità del palazzodel potere. Il messaggio dell’imperatore non potrà mai essere ascoltato.

(Vittorio Raschetti, docente di diritto)

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Prova d’orchestra

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Diventare aggressivi!

Lidia Ravera

I giovani sono come le donne. Tutti ne parlano esibendo propositivirtuosi. Sono contenitori a perdere di buone intenzioni elettorali, ser-vono a darsi un tono, un voto, una patente. Livia Turco diceva in untalk show del mattino, a chi criticava il radicamento dei partiti sul ter-ritorio: vai a farti un giro nei circoli del PD, sono pieni di giovani. Ri-gurgitano ragazze e ragazzi. Vai e contali, vai e controlla. Vedrai tantigggiovani. Vero? Falso? Non ha importanza.

I giovani sono una medaglia da appuntarsi sul petto. I gggiovani.Spesso gli si raddoppia la G. Recitazioni retoriche. Con le donne èuguale. Tutti sbandierano la democrazia di genere, la pari rappresen-tanza. Cinquanta e cinquanta? Socchiudono gli occhi, rapiti dalla tua at-titudine al sogno. Beh, 50 e 50, magari, adesso, no...col tempo... forse...Come dire: oggi non siamo ancora pronti. Oggi viene considerato vir-tuoso chi riserva una quota alle donne. Una quota ai giovani. I giovanie le donne sono quote. Quote, elemosine, a disposizione del maschiobianco maturo, senile, longevo. Attaccato alla sedia con la colla. Quotedi giovani, quote di donne. Se poi le donne sono anche giovani, la quotavale di più. Puoi incorniciarla ed esporla e far venire le scolaresche acontemplarla. Guarda che bella quota. Le donne giovani, nello stile delgoverno precedente, subivano (o brandivano) meccanismi di selezioneestetica. Poche ma bionde. I ggggiovani maschi meno, bruttini e obbe-dienti, carini e obbedienti, obbedienti. Essere gggiovani maschi è sem-pre stato un po’ meglio che essere gggiovani donne. Ne ho conosciutetante che hanno pagato la loro naturale riservatezza con una decelera-zione di carriera, quando non con l’espulsione dai piani alti. Della po-litica. E non solo. Ma certamente dai piani alti della politica.

Io, se fossi giovane, maschio o femmina, non vorrei essere scelta epiazzata e votata e mostrata in giro come una miracolata, la campio-nessa di una specie protetta. Non vorrei essere cooptata. Per meriti ana-grafici, per occultare l’ingordigia degli anziani con qualche presenzadelle generazioni seguenti. Io vorrei, se fossi giovane, maschio o fem-mina, conquistare un posto a sedere nei piani alti della politica scal-

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zando chi è seduto lì da 40 anni o 30. Scalzare, scansare, sostituire. Enon perchè abbia nostalgia di tempi più violenti, sarei, fra l’altro, es-sendo io anziana, masochista. Ma perchè penso che soltanto con la forzadi una visione del mondo diversa, alternativa, con il vigore figlio dellapassione politica, i giovani si possono/devono affermare. I figli devonotravolgere i padri. Ed è logico che i padri facciano resistenza.

È sempre stato così. Non si può pretendere che uomini e donne an-cora forti, sani e lucidi si facciano da parte. La natura condiziona le no-stre azioni, le nostre idee, i nostri comportamenti. Il dato obbiettivo. Ildato è l’allungamento dell’aspettativa di vita. Oggi a 60 anni hai an-cora 30 anni da vivere davanti davanti a te. 30 anni fa non era così. Nonpuoi chiedere a un uomo politico di suicidarsi a favore di un uomo piùgiovane. Ed ecco che allora, l’uomo politico di 60 anni, messo allestrette dalla scarsa presenza giovanile, coopta un giovane, per fare buonafigura con la storia, ma coopta un giovane che non gli dia ombra. Ilgioco è “vinca il peggiore”.

Cari Giovani, mi spiace, dovete diventare aggressivi. Se la societàperfetta che avete in mente è migliore di quella in cui viviamo (non èdifficile, no?), il nostro sacrificio avrà un senso. La domanda è: che so-cietà avete in mente? Che relazioni fra i cittadini, quali priorità, qualeorganizzazione del lavoro, quali regole condivise, che giustizia, quali vieper l’uguaglianza e la libertà. Che cosa vorreste abrogare, cancellare, di-struggere? Qual è il vostro sogno, l’utopia, la speranza, il progetto?

Dai giovani ci si aspetta il disegno di un nuovo assetto per la collet-tività. Ci si aspetta una maggiore energia creativa, una libertà mentalenon inquinata da abitudini, meno irrigidita in cattive posture mentali oideologiche.

La domanda è: quali agenzie di formazione esistono oggi, per co-struire la leadership del futuro? Non penso tanto alle scuole. La Bocconipiuttosto che qualche altra fabbrica di master. Penso a una piazza. Unapiazza, non un mercato. Agorà. Penso a un luogo di discussione per-manente. Un osservatorio sulla realtà. Un luogo di confronto.

Io credo che si forma facendo politica la leadership politica del fu-turo. Ma facendo politica dove? I partiti sono gusci vuoti, nomenclature,caste contrapposte o agglomerate. I giovani non fanno più politica par-tendo dalla loro condizione. Di studenti, di operai, di immigrati, di pre-cari, di disoccupati. Eppure la condizione giovanile mai come oggi èstata tribolazione e discrimnazione. Al massimo del potere del corponon corrisponde, oggi, la prevedibile ricchezza di occasioni, di offerte,di possibilità. I belli e dannati sono, oggi, “belli e disoccupati”.

La bellezza, poi, viene sovrastimata per ghettizzarvi meglio, gio-

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Diventare aggressivi!

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vani. Siete sani siete carine siete forti siete integri siete atletici sietebelli. Che altro volete? Facciamo finta che la transitoria bellezza deicorpi recenti sia importante, impegnamo tutti a perseguire addominaliscolpiti, così li distraiamo. Siete bellini, che cosa volete di più? Anchecontare qualcosa, eh sù, ragazzi, che pretese! Andate in discoteca, chat-tate twittate tubate e non lamentatevi. Fate i giovani. Consumate i pro-dotti per giovani venduti mostrando quanto è bella giovinezza. Tran-quilli. Tanto il tempo passa e questa condizione di gioventù vi cadrà didosso come l’allegra livrea che certi uccelli vestono nei giorni dell’ac-coppiamento. Il tempo batte implacabile. Vi troverete a 40 anni ancoraa fare i giovani. Senza un progetto, senza potere, senza potervi sposareduplicare riposare. Sarete giovani scaduti, prima di essere vecchi. E al-lora? E allora incazzatevi! Prendete in mano il vostro destino. Riuniteviin gruppi, in movimenti, in partiti. Fate come le donne 40 anni fa con ilfemminismo. Partite dal vostro disagio, dal dolore, dall’umiliazione,dal senso di vuoto, unitevi fra esseri umani che vivono la stessa condi-zione, e organizzatevi e scendete in campo. Nel campo di battaglia.

Perchè di questo si tratta. Di una guerra.Questa organizzazione del lavoro, del consenso, questa distribu-

zione delle risorse, questa corruzione, questa società a meritocraziabloccata, vi ha nuociuto e più ancora vi nuocerà se non fate qualcosa.

Imparate a combattere. Combattendo per il vostro diritto a vivere,combatterete per un mondo migliore.

E imparerete quello che serve imparare per assumere la leadership.Io non vi starò fra i piedi, la battaglia è vostra. Resterò nelle retrovie alottare perchè non vengano calpestati i diritti delle donne. Giovani, ma-ture, vecchie. Resterò a guardarvi con fiduciosa trepidazione.

A fare il tifo.

(Lidia Ravera, scrittrice, giornalista)

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La complessità della crisi di oggi

Giovanni Reale

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1. Radici spirituali della crisi contemporanea

La crisi che oggi viviamo ha delle cause assai complesse chehanno profonde radici culturali e morali.

La prima e più profonda delle cause è di carattere culturale e spi-rituale.

Fino all’inizio dell’età moderna l’uomo credeva che il suo fineultimativo consistesse nell’al di là, nel raggiungimento di un’altraforma di vita nella dimensione spirituale dell’eterno.

A partire dall’età moderna e fino a qualche decennio fa, l’uomoha mutato la sua fede, e ha posto il suo fine ultimativo nell’al di qua.Ha creato la grandiosa idea del Progresso, considerandolo come unaforza capace di creare il Paradiso proprio sulla terra.

Da qualche decennio, invece, l’uomo ha incominciato a rendersiconto dell’illusorietà di tale idea del Progresso, constatando in modosempre più forte e impressionante gli effetti collaterali negativi cheesso comporta. L’uomo ha compreso che gli effetti negativi che il pro-gresso tecnologico comporta, superano, o comunque potrebbero su-perare, anche a breve termine, gli effetti positivi.

Due psico-terapeuti francesi Miguel Benasayag e Gérard Schmit,nel loro libro L’epoca delle passioni tristi, scrivono: «L’Occidente hafondato i suoi sogni di avvenire sulla convinzione che la storia dell’u-manità sia inevitabilmente una storia di progresso. […] Oggi c’è unclima diffuso di pessimismo che evoca un domani molto meno lumi-noso, per non dire oscuro… Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianzesociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie: la lunga lita-nia delle minacce ha fatto precipitare il futuro da un’estrema positi-vità a una cupa e altrettanto estrema negatività».

E precisano: «Tutta la cultura moderna si è fondata […] su unacredenza fondamentale: il futuro era promesso come una specie di re-denzione laica, di messianismo ateo. Ma questa promessa non è statamantenuta. Ecco perché la crisi attuale è diversa dalle altre a cui l’Oc-

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cidente ha saputo adattarsi: si tratta di una crisi dei fondamenti stessidella nostra civiltà».

I giovani, entrando nel mondo, trovano anziché un paradiso terre-stre, uno sconvolgente caos. Si pensi che in alcuni Paesi, addiritturail 50% dei giovani non trova lavoro. Per di più, non poche volte, i gio-vani trovano il caos anche in famiglia (separazioni e divorzi, con tuttele conseguenze che questo comporta).

I due terapeuti francesi dicono che non hanno mai avuto in curatanti giovani come ora. E soggiungono che per curarli non ci sono senon cure limitate, in quanto la vera cura consisterebbe nell’elimina-zione delle cause, il che non è possibile.

Molto saggiamente il filosofo Nicolás Gómez Dávila dice in unsuo aforisma: «Dubitare del Progresso è l’unico progresso».

2. Sostituzione dell’idea di progresso con quella di crescita e sviluppo

Tuttavia l’uomo ha trovato modo di mantenere fede a quell’ideain altro modo, considerandola non più in modo mitico, ma scienti-fico, e mutando il nome di ‘Progresso’ i quello di ‘sviluppo’, consi-derato come la via che l’umanità deve comunque seguire per miglio-rare le condizioni di vita e per raggiungere il benessere.

Ora, non c’è ‘sviluppo’ senza ‘crescita’, e, di conseguenza, sicerca di puntare in tutti i modi possibili su di essa.

Ma ecco le osservazioni assai pertinenti che il filosofo-sociologofrancese Edgar Morin fa a questo riguardo.

Nel suo ultimo libro La via: Per l’avvenire dell’umanità (appenauscito in traduzione italiana), per confutare l’idea assai diffusa che“la crescita sia il motore dello sviluppo senza limiti”, chiama in causaun pungente aforisma di Kenneth Boulding, che dice: «Chiunquecrede che la crescita esponenziale possa durare sempre in un mondofinito è un folle o un economista». E lo commenta efficacemente nelmodo che segue. Si è calcolato che, se la Cina raggiungesse una mediadi 3 auto ogni quattro abitanti, come accade oggi negli Stati Uniti, ciòcomporterebbe un aumento del numero di automobili al punto taleche «le infrastrutture necessarie (reti stradali, parcheggi) occupereb-bero una superficie approssimativamente uguale a quella destinataalla coltivazione di riso. […] L’idea fissa della crescita dovrebbe es-sere sostituita da un complesso che comporti diverse crescite, diversedecrescite, diverse stabilizzazioni».

Perciò Morin formula due efficaci paradossi analoghi a quello diBoulding: «Lo sviluppo è un viaggio che comporta più naufraghi che

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passeggeri»; e: «L’idea di sviluppo è un’idea sottosviluppata».Naturalmente, si parla di sviluppo eslege, di uno sviluppo a cre-

scita esponenziale, in cui, purtroppo, alcuni continuano a credere.Lo sviluppo dovrebbe trovare la “giusta misura” e rispettare la re-

gola della “sostenibilità”.

3. L’uomo di oggi ha perso il senso dell’unità e dei fondamentiultimativi della conoscenza

In secondo luogo, la conoscenza dell’uomo ha perso l’unità difondo, e le varie scienze particolari l’hanno parcellizzata in modo im-pressionante.

Un grande amante delle scienze, ma vero filosofo della statura diEdgar Morin, con pungente ironia, scrive quanto segue sulle conse-guenze dell’intelligenza che si sviluppa solamente nelle direzionidelle scienze particolari: «L’intelligenza, parcellizzata, compartimen-tata, meccanicistica, disgiuntiva, riduzionistica rompe il complessodel mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò cheè legato, unidimensionalizza il multidimensionale. È un’intelligenzanello stesso tempo miope, presbite, daltonica, monocola; finisce il piùdelle volte per essere cieca».

L’intelligenza parcellizzata, pertanto, non comprende la realtànella sua profondità, e rimane quindi assai lontana dalla verità.

4. La trasformazione della scienza in idolo

Inoltre, le conoscenze scientifiche sono state trasformate in idoli,e la considerazione dei loro asserti sono stati presi come oracoli. Equesto costituisce un esito veramente tragico, come è risultato dalleanalisi degli epistemologi, da Lakatos a Popper a Kuhn. Tuttavia leloro conclusioni non sono state ancora recepite in modo adeguato, enon hanno ancora liberato la communis opinio da gravi errori.

In particolare, sulla base delle conoscenze delle scienze partico-lari, sono stati messi in crisi i valori e gli ideali spirituali, che soli sonoin grado di dare un preciso senso alla vita.

Il grande sociologo Zygmunt Bauman scrive: «Non è la pressionesoverchia di un ideale irraggiungibile che tormenta gli uomini e ledonne del nostro tempo, quanto l’assenza di ideali: la penuria di ri-cette eindeutig, univoche, per una vita decente, di punti di riferimentofissi e stabili, di una destinazione prevedibile per l’itinerario dellavita. La depressione mentale – questo sentimento di impotenza e di in-

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capacità di agire, e soprattutto di agire razionalmente, e di inadegua-tezza rispetto ai compiti della vita – diviene la malattia emblematicadella nostra epoca tardomoderna o postmoderna».

5. L’ideologia del tecnicismo

L’ideologia scientistica è sorretta soprattutto dall’ideologia tec-nicistica.

L’uomo moderno si è convinto che con la scienza e con la tecnicapotrà risolvere tutti i problemi che lo assillano, e per questo si deve cer-care di realizzare tutte le possibilità che la scienza e la tecnica offrono.

Lorenz giustamente diceva: «La semplice possibilità tecnica direalizzare un determinato progetto viene scambiata con il dovere diporlo effettivamente in atto. Si tratta di un vero e proprio comanda-mento della religione tecnocratica: tutto ciò che è in qualche modorealizzabile deve essere realizzato».

In questo modo, sono venute meno le forze di controllo e di rego-lazione che dal punto di vista assiologico trascendono la tecnologia edipendono da valori superiori, con tutte le conseguenze che questocomporta, le quali più che mai pesano sull’uomo di oggi.

La grandezza dell’uomo consiste non nel fare tutto ciò che si puòfare, ma nel saper fare la giusta scelta di ciò che si deve fare, e quindinel non fare molte cose che di per sé, con le nuove tecnologie, si po-trebbero fare.

Ma, per poter realizzare questo, l’uomo deve saper dissacrare quel-l’idolo della tecnologia che si è costruito insieme all’idolo dello scien-tismo. Deve pertanto riconquistare la regola della “giusta misura”, ossiadel “nulla di troppo”, regola aurea consacrata dai Greci, di cui diremo.

Esprime una verità incontrovertibile quello che dice al riguardo inun aforisma Nocolás Gómez Dávila: «L’uomo finirà per distruggersi,se non rinuncerà all’ambizione di realizzare tutto quello che può».

6. Smarrimento del senso dell’uomo come persona

Si è smarrito il senso dell’uomo come persona, e si è sostituitoquello dell’uomo come “individuo”, come “singolo”, con tutta unaserie di conseguenze che ne derivano.

Viene perduto il vero senso del sociale e del politico in sensoforte, e l’individuo non è più in grado di essere un vero “cittadino”.

Le vite degli uomini si riducono, come è stato ben detto, a “con-sorzi di egoismi”.

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Bauman precisa: «Se l’individuo è il peggior nemico del citta-dino, e se l’individualizzazione è foriera di guai per la cittadinanza eper la politica basata su di essa, è perché gli interessi e le preoccupa-zioni degli individui in quanto tali riempiono lo spazio pubblico pro-clamandosi i soli legittimi occupanti ed escludendo ogni altra cosadal discorso pubblico».

L’uomo come individuo in senso estremo diventa un “solitario”,che sa vivere solo per sé e non per gli altri.

Perciò, dice ancora Bauman: «Gli individui oggi entrano nell’a-gorà solo per trovarsi in compagnia di altri individui solitari come loro,e tornano alle proprie case con una solitudine corroborata e ribadita».

Ma il ricupero del senso della persona come rapporto dell’io conil tu è assolutamente necessario, a tutti i livelli.

Particolarmente significativo è il criterio adottato da alcune ditteamericane, di costringere, almeno per un giorno alla settimana, i di-pendenti a comunicare all’interno direttamente gli uni con gli altri,proibendo per quel giorno l’uso dell’e-mail e del computer. Il rap-porto diretto con l’altro è diventato un vero e proprio dramma, con-seguenza dell’individualismo spinto all’eccesso.

7. Il doppio senso del sottosviluppo: quello dei sottosviluppatimaterialmente e quello dei troppo sviluppati

Da qualche tempo è stato giustamente rilevato, in particolare daEdgar Morin, che il “sottosviluppo” è di due tipi diversi e addiritturaopposti: c’è il “sottosviluppo” dei ben noti “sottosviluppati” del terzomondo, e c’è anche il “sottosviluppo degli sviluppati”.

Il primo è caratterizzato soprattutto dalla malnutrizione cronicache provoca ogni anno milioni di morti per mancanza di cibo.

Però il problema non si risolve solo cercando di mandare aiuti ma-teriali, anche ingenti, come molti pensano, trattando il problema sullabase dei presupposti ideologici dell’Occidente.

La soluzione è assai più complessa.Un antico proverbio cinese recita: «Se un uomo ha fame, non dar-

gli il pesce, insegnagli a pescare». Ma se sta morendo, come è stato giustamente osservato, devi inter-

venire immediatamente dandogli il pesce. Però, non appena si è ripreso,deve dargli di più. Continuare a dargli del pesce, significa dargli dimeno, anzi addirittura danneggiarlo; bisogna insegnargli a pescare.

E insegnargli a pescare vuol dire molto di più di quello che di primoacchito si potrebbe pensare. Significa insegnargli le ragioni per cui deve

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farlo, con le implicazioni e con le conseguenze individuali e sociali chequesto comporta. Se si continuasse a dargli il pesce invece che inse-gnargli a pescare, non lo si aiuterebbe, in quanto non lo si educherebbe.

Dambisa Moyo, una sociologa nera nata e cresciuta nello Zam-bia, e formatasi culturalmente a Oxford e ad Harvard, ha scritto unsignificativo libro dal titolo emblematico, La carità che uccide, titoloancora più forte nell’originale: Dead Aid (Aiuto inefficace o Aiutomorto), riedito da poco dalla BUR. Infatti, la carità rende gli aiutati di-pendenti dagli aiutanti, e quindi incapaci di crescere, come in modoassai significativo dice il sottotitolo del libro della Moyo: Come gliaiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo.

8. La grande massima dei Greci che ci potrebbe aiutare a guariremolti mali

La massima più famosa e più forte della saggezza dei Greci,scritta nel tempio di Delfi come aforisma dei Sette Sapienti, diceva:«Nulla di troppo», dove per “troppo” è da intendere sia “il troppotanto”, sia “il troppo poco”.

Ebbene, la situazione del mondo di oggi rispecchia in modo per-fetto proprio una tragica realizzazione del contrario di ciò che vienedetto in tale massima. Nel terzo mondo prevale il troppo poco, nelmondo industrializzato il troppo tanto.

E questo corrisponde esattamente a quello che, come sopra abbiamospiegato, si verifica nel “sottosviluppo” nei suoi due sensi, nel “sotto-sviluppo dei sottosviluppati” e nel “sottosviluppo degli sviluppati”.

Il primo è quello di cui abbiamo detto, ed è in prevalenza di ca-rattere materiale, con le conseguenze morali che esso comporta.

Il secondo è di carattere prevalentemente morale e spirituale conuna serie di conseguenze. Morin lo ha chiamato anche malessere omale della civiltà, e lo ha spiegato nel modo che segue: «Il sottosvi-luppo degli sviluppati è un sottosviluppo morale, psichico e intellet-tuale. Certo, in ogni civiltà vi è una penuria affettiva e psichica più omeno grande, e dappertutto vi sono gravi sottosviluppi dello spiritoumano: ma dobbiamo vedere le miserie morali delle società ricche, lamancanza d’amore delle società sazie, la malvagità e l’aggressivitàmiserabile degli intellettuali e dei professori universitari, la prolifera-zione delle idee generali vuote e delle visioni mutilate, la perdita delglobale, del fondamento, della responsabilità. Vi è una miseria chenon diminuisce con la diminuzione della miseria fisiologica mate-riale, ma aumenta con l’abbondanza e con il tempo libero. Vi è uno

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sviluppo specifico del sottosviluppo mentale sotto il primato della ra-zionalizzazione, dell’astrazione, della perdita di responsabilità: e tuttociò provoca lo sviluppo del sottosviluppo etico».

E ancora: «L’istruzione iperspecializzata rimpiazza le anticheignoranze con una nuova cecità. Questa cecità è mantenuta dalla illu-sione che la razionalità determini lo sviluppo, allorché questa illu-sione confonde razionalizzazione tecnologica e razionalità umana[…]. Il calcolo non ignora solo le attività non monetizzabili […], gliaiuti reciproci, ma ignora anche e soprattutto, quello che non può es-sere calcolato né misurato: la gioia, l’amore, la sofferenza, il senti-mento stesso della nostra vita».

Il modo di uscire da questo malessere della civiltà è uno solo:riacquistare, dal punto di vista intellettuale e morale, il senso di quellagrande massima ellenica del “nulla di troppo”. L’uomo deve impararea non volere sempre di più.

Si dirà che questa è solo una idea e che vale di più qualcosa di reale. Ma la mia risposta è quella che dava Dostoevskij: «Nella storia ciò

che trionfa non sono le masse di milioni di uomini, né le forze mate-riali, che sembrano così forti e irresistibili, né il denaro né la spada néla potenza, ma il pensiero, quasi impercettibile all’inizio, di un uomoche spesso sembra privo di importanza».

La realtà oppone resistenza, ma non riesce a respingere e annul-lare idee forti che la contraddicono.

Come è stato giustamente detto, il reale non è sempre la forza piùpossente; anzi, chi vince nella dura lotta fra l’idea e il reale, una lottache può essere anche lunga e dolorosa, alla fine è proprio l’idea.

(Giovanni Reale, filosofo)

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Francesco Rezzi

La Marvell rappresenta un caso controcorrente in un panoramaitaliano così segnato dalla stanchezza, dalla disoccupazione giovanilee dalla scarsa propensione alla ricerca nel campo delle tecnologieavanzate. Assumere giovani talenti in una fase recessiva non solo eu-ropea, ma mondiale, con mercati ovunque in contrazione, richiede didisporre di un orizzonte di credibilità a medio-lungo periodo. Fidu-cia nel futuro significa investire su un modello di innovazione auten-tica fondata su competenze avanzate e qualità di risorse umane alta-mente creative. Si tratta di un business model imprenditoriale che con-tiene, a mio avviso, importanti messaggi di ottimismo che possonorivelarsi utili anche in una dimensione allargata al contesto collettivo:insomma non solo una visione privata e aziendale ma anche un para-digma esportabile per molti aspetti anche al sistema pubblico. Indub-biamente una ricetta preziosa in una fase recessiva dove la prioritàdella crescita sembra essere diventata il problema cruciale per il no-stro Paese. In Italia spesso ci si lamenta della mancanza di investi-menti stranieri. È perciò utile tentare di comprendere a fondo le ra-gioni di chi scommette sul futuro del nostro Paese. Marvell in menodi 5 anni ha assunto 70 dipendenti, in gran parte ricercatori, e disponedi margini ancora rilevanti di crescita negli anni a venire a fronte dellecriticità che i mercati globali stanno vivendo di questi tempi. Quellodell’elettronica analogica e dei sistemi misti analogico-digitali è pursempre un settore di ricerca di nicchia ma ad alto potenziale e apertoa una dimensione globale di competizione. Una filosofia di alta fo-calizzazione e di grande innovazione, che non si rinchiude in un con-testo protetto ma si apre alla competizione dei mercati raccogliendola sfida di selezionare con cura nuovi temi di ricerca capaci di ali-mentare significativi filoni di sviluppo industriale.

Il vero problema del nostro Paese, da questo punto di vista, èquello di non riuscire a raccordare il sistema pubblico-privato, otti-mizzando il sistema di relazioni e le sinergie tra la ricerca di basesvolta in prevalenza nelle Università e il settore industriale. Purtroppo,

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ancor oggi, il modello europeo della ricerca tende a essere troppo bu-rocratico ed eccessivamente fondato sulla priorità dell’ottenimento disussidi e finanziamenti pubblici. Si arriva al paradosso di scrivere pro-getti con l’unico obiettivo di ricevere finanziamenti a fondo perduto:si confezionano perciò bandi ritagliati su misura dei soggetti che si in-tende finanziare con una decisione a priori. Il modello americano dellaricerca invece si fonda su un approccio opposto, meritocratico, com-petitivo e incentrato su un libero mercato privato dei finanziamenti. Aldi là dell’Atlantico la filosofia della ricerca si fonda su una maggiorefiducia nel futuro e sulle virtù di un mercato dei capitali aperto, dina-mico, selettivo e competente dove l’idea innovativa non è mai svinco-lata da una legittima logica di ritorno sugli investimenti. In Europa laricerca vive la dicotomia, la contrapposizione ideologica tra ricercapura o di base e ricerca applicata legata all’industria; si tratta di un mo-dello incompatibile col pragmatismo del sistema americano dove inbase alla credibilità dell’idea si ricevono finanziamenti e dove il pro-getto, prima ancora di essere di ricerca, deve essere di investimento eperciò fondato su un piano industriale con un credibile business plan.Il venture capitalist rappresenta il motore finanziario dell’innovazioneamericana che consente di catalizzare grande energia e spinta propul-siva in idee avveniristiche, ad alto rischio ma di potenziale alta reddi-tività e che è alla base di modelli di successo come quelli della SiliconValley. Il sistema finanziario del nostro Paese da questo punto di vistarappresenta il fanalino di coda in Europa, con la sua scarsa propen-sione al rischio e scarsa attitudine all’investimento in progetti innova-tivi. Così facendo il sistema si regge prevalentemente su stanziamentipubblici che diventano terreno di caccia per fondi da spendere senzarealmente avere alla propria base un progetto innovativo che possa in-nescare processi di trasformazione virtuosi che vengano premiati dalmercato e che portino alla fine una crescita occupazionale. In Italianon c’è, da parte del sistema finanziario, alcuna vera propensione al ri-schio calcolato per cui si deve rientrare in breve per qualsiasi prestito,mentre invece la filosofia del venture capital si basa sul fatto che ma-gari 9 investimenti su 10 vanno male ma poi quello che funziona remu-nera ampiamente il fallimento degli altri progetti. Non si tratta di teme-rarietà imprenditoriale, ma di rischio calcolato e attitudine a misurarsicon il possibile, il futuro, con le grandi opportunità che nascono con ifiloni di ricerca industriale in grado di generare grandi sbocchi.

Negli anni Novanta anch’io ero nella West Coast: si viveva un climafrenetico, una febbrile corsa al nuovo oro nella sabbia del silicio, unagold rush che spingeva giovani brillanti ingegneri a cercare il successo,

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nei garage della California si creavano laboratori e start-up alla ricercadi miracolose killer applications, tecnologiche in grado di rivoluzionareil mercato. Da questo spirito, da questa fiducia, da questo modello in-ventivo e imprenditoriale sono nate aziende multimiliardarie e visiona-rie come Google, Apple e Facebook ma anche centinaia di altre aziendeforse meno note al grande pubblico come Marvell. Steve Jobs per moltiaspetti rappresenta in modo esemplare l’archetipo del leader ispirato,alternativo e creativo, in grado di trasformare una fredda tecnologia inun oggetto di culto user friendly denso di valori emozionali. Steve Jobsanalizza intensamente un device elettronico con uno sguardo non tec-nologico, ma estetico, emotivo, simbolico: cosi il suo brand da trade-mark si trasforma in lovemark. Jobs è il modello del leader guru, ispi-rato e mistico, tiranno e filosofo, concentrato sui dettagli con un per-fezionismo maniacale rivolto al raggiungimento del minimalismodell’oggetto. Senza questa visionarietà, senza questa capacità di inter-pretare i segni del futuro, il leader non va da nessun parte. Senza com-prendere la psicologia profonda delle persone è impossibile essere unleader in grado di muovere le leve e le motivazioni dei propri collabo-ratori e comprendere il senso e le dinamiche dei mercati che altro nonsono che aggregati di scelte individuali. Jobs ha compreso questo fat-tore umano della tecnologia e questo ha fatto la differenza. La tecno-logia deve essere intuita e meditata prima ancora di essere realizzata.Jobs, pur non essendo stato strettamente un tecnico, anzi forse proprioin virtù del non esserlo, ha saputo cogliere al meglio questa bellezza in-trinseca fatta di semplificazione della forma nella complicazione dellafunzione: la sua leadership è soprattutto legata alla filosofia e alla coe-renza che ha saputo ispirare ai suoi collaboratori.

Senza avere una visione, una prospettiva, una filosofia, è impos-sibile guidare con successo un’azienda o un’organizzazione. Le di-namiche evolutive degli scenari tecnologici e di mercato procedonotroppo velocemente per essere perfettamente comprese: non si di-spone mai del giusto tempo per una riflessione analitica e accurata. Cisi dovrebbe fermare a riflettere più spesso per interrogarsi sul sensodi tutto questo processo di incessante sviluppo e metamorfosi conti-nua. Chi lavora a ritmo frenetico non può fermarsi a pensare, a riflet-tere, a cercare il senso. Perciò c’è bisogno di qualcuno che possa com-prendere con uno sguardo di sorvolo cosa si sta effettivamente fa-cendo e dove si sta andando. Il leader ha il compito di fare questo,deve riuscire a indirizzare e vedere lontano al di là del singolo pro-getto. Deve comprendere in anticipo la direzione da prendere. Tal-volta le strade per raggiungere una meta possono essere depistanti, ci

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si trova gettati in un labirinto inestricabile, in fondo anche un micro-chip è un immenso labirinto microscopico, un crocevia di direzionipossibili in cui ci si può perdere: è facile smarrirsi nella ridondanzadelle opportunità offerte dalla tecnologia se manca la guida di unaleadership salda con una direzione. La leadership risponde a questobisogno di sintesi, di semplificazione dei problemi dopo una accurataanalisi. La leadership si esprime in questa capacità di compiere unsalto in parallelo, uno swich-off, che consente di interrompere una im-passe e riposizionarsi su un altro modello di soluzione di problemi.

Ho sempre lavorato in una dimensione americana, la mia espe-rienza professionale di management mi porta a identificare come dif-ficoltà più forte quella di incanalare le pulsioni individuali dei sin-goli collaboratori in una direzione univoca e coerente: si lavora con ungruppo di persone, ciascuna della quali ha legittime aspirazioni al faree all’esprimere. Si tratta di sviluppare talenti, di contribuire a daremotivazione a ciascuno, compensando i migliori ma anche svilup-pando le competenze degli altri che si trovano in difficoltà. Motivaretutti, quando ci si trova in una struttura dimensionale ancora limitataè più semplice e può avvenire in un contatto diretto vis a vis, ma in unadimensione allargata questo diventa impossibile. Una azienda che co-mincia a crescere richiede una maggiore strutturazione di regole enorme per sostenere la motivazione, la tensione al risultato e massi-mizzare la gestione del potenziale e delle personalità. Quando però siimpongono delle regole che tutti devono rispettare, senza motivare laloro finalità, si rischia di non farne comprendere il senso: tutto si tra-sforma allora in un sistema di norme formali calate dall’alto che si de-vono solo rispettare passivamente senza alcuna partecipazione effet-tiva e autonomia interpretativa. Da questo punto di vista il modelloamericano è più individualista e incentrato sulla valorizzazione dellepersone non appiattito su un egualitarismo che schiaccia la differenzee tende a uniformare la responsabilità.

Estendere il modello di leadership di impresa al contesto della ge-stione dei problemi di una comunità territoriale o di una nazione com-plica però esponenzialmente la complessità delle questioni. Il leaderpolitico deve valorizzare le individualità e indirizzarle verso un benecomune, questo credo che sia un principio valido a tutti i livelli, piùdifficile da implementare su una macroscala e dunque a livello so-ciale, più facile su microscala e dunque a livello di azienda, però nellelinee di fondo le dinamiche sono abbastanza simili. I grandi leaderpolitici sono quelli che hanno saputo canalizzare le grandi pulsionipresenti nella società e indirizzarle verso un obiettivo, riuscendo a

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mobilitare e catalizzare una comunità verso una nuova chimica deirapporti sociali. Capire dove le persone vogliono andare e indirizzarleverso una direzione comune che possa realizzare il bene della societàè l’obiettivo di un leader di spessore. Il tema dell’etica della leader-ship poi è un’altra questione, perché nella storia abbiamo avuto lea-der sia positivi sia negativi. Ci sono stati leader negativi che hannoincanalato le pulsioni della società verso un male comune. Ci sonoleader del male che hanno interpretato il desiderio autodistruttivo,l’impulso di morte latente in alcune società, di cui parlava Freud, in-canalandolo verso la catastrofe (basti pensare al nazismo). Il leaderpuò rappresentare talvolta nella storia lo strumento che amplifica ildestino tragico di un popolo, di una nazione o di una intera civiltà.

Non esiste una leadership per decreto, c’è un elemento per cosìdire auto-generativo della leadership che poi viene formalizzato conuna investitura di competenza e di responsabilità, ma si fonda su unprocesso di selezione quasi naturale all’interno della dinamica dellerelazioni del gruppo. Un leader deve essere direttamente a contattocon i propri uomini, non può ricevere un’investitura dall’alto ma deveessere accettato e riconosciuto dal suo gruppo di riferimento. A que-sto proposito ricordo che il mio ex capo americano, alla mia richiestadi assumere maggiori responsabilità e di crescere nell’azienda mi ri-spose: “Io ti posso mettere a capo di un gruppo di persone, ma è fon-damentale che siano quelle persone a riconoscerti come capo”.

Il leader deve rappresentare un role model, deve essere esemplare;solo se dimostra la propria eccellenza viene promosso direttamente sulcampo dai suoi uomini, dipendenti o cittadini essi siano, senza biso-gno di ulteriori investiture formali. È indispensabile costruire una re-lazione reale ed emotiva, empatica, identificativa con il leader, chealtrimenti diventa irraggiungibile, astratto, senza possibilità di iden-tificazione con i suoi uomini. Pensiamo al leader che se sta nel grat-tacielo nel suo corner office lontano dalla vita dell’azienda, che nonpartecipa alla vita di tutti. Nella nostra azienda tutto il management hauffici open space con delle piccole pareti. I manager non vivono in unufficio a parte ma stanno insieme ai propri collaboratori. Anche il pre-sidente lavora in un spazio come gli altri impiegati. L’immersionenella vita aziendale è fondamentale per assumere credibilità presso ipropri dipendenti. Pensiamo, all’opposto, al mondo finanziario dovela leadership è astratta, separata, con una forte chiusura e nessuna tra-sparenza: spesso il top management è imperscrutabile e autoreferen-ziale e agisce sulla base di decisioni improvvise ed è difficile com-prendere il merito effettivo da cui deriva la posizione di potere.

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In questi anni, nel mondo anglosassone, i leader che hanno sba-gliato hanno anche pagato, mentre in Italia il sistema non ha punito chiha sbagliato. Trovare una ispirazione etica in azienda è sempre piùdifficile, con uno sguardo sull’utilità sociale, e sulla comunità terri-toriale. Il rappresentante, il leader di una comunità in America devesottostare a dei canoni etici stringenti, alcuni incomprensibili per noiitaliani, però comunque devi sottostare a dei parametri etici di valu-tazione e con il tuo comportamento devi dimostrare che sei coerentecon te stesso, mentre tutto questo in Italia non esiste, anzi c’è unasorta di rassegnazione secondo la quale chiunque ci rappresenta è infondo peggio di noi cittadini, mentre in USA chi ti rappresenta deve es-sere meglio di noi o comunque eccellente.

La questione etica può essere complessa. C’è un’etica di primo li-vello che si chiede se sia giusto o meno quello che si sta facendo, poic’è un’etica di secondo livello che si interroga sul come lo si sta fa-cendo. Si può dibattere se un’impresa che produce armi o tabacco rea-lizzi un business morale o meno. Si può discutere se vendere prodottifinanziari che si sa a priori che non renderanno sia etico o meno. Sipossono discutere le finalità del business, l’utilità per la comunità nelsuo complesso. Ci si può porre la questione relativa dell’eticità dellamission di determinate aziende. Poi però vi è anche una discussionedi secondo livello sulla modalità, sul come si realizza un business.Ogni azienda si muove dentro un contesto di regole da rispettare: pa-gare le tasse, la correttezza commerciale, la libera concorrenza, labuona fede contrattuale, la tutela della salute dei lavoratori; questoperò è un altro livello che va al di là delle intrinseche finalità azien-dali. Sono due livelli diversi che vanno distinti. A questo proposito lebanche stanno certamente alle regole e rispettano le normative che leriguardano, ma le finalità che perseguono sono in molti casi ingiustee fuorvianti perché in molti casi hanno perseguito fini che non sonoquelli che avrebbero dovuto essere. Il sistema bancario ha tradito lasua missione di supporto al credito e volano dell’economia produt-tiva trasformandosi in un sistema finanziario autoreferenziale che hacreato un blocco di potere più interessato alla speculazione internazio-nale piuttosto che al supporto dello economia reale.

Al contrario, invece, le aziende non possono non perseguire il pro-fitto che rappresenta il punto di riferimento ineludibile, senza rag-giungere il quale le aziende non possono re-investire i capitali e ge-nerare ulteriore ricchezza. Sostenere che il profitto non sia etico con-duce a un ragionamento che impedisce di creare sostenibilità nelmodello di sviluppo capitalistico, che è fondato sulla creazione di ca-

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pitale da investire in un nuovo ciclo di sviluppo. Per produrre ric-chezza è fondamentale realizzare dei beni, i servizi da soli non sonoin grado di produrre una economia in grado di auto-sostenersi. In que-sto senso il sistema industriale di un Paese è fondamentale per assi-curare una sostenibile generazione di ricchezza: in un momento difragilità del sistema come quello che sta attraversando l’Italia da al-meno un decennio, sarebbe bene porre maggiore attenzione verso latutela e l’ammodernamento tecnologico degli impianti produttivi.

In relazione al secondo livello della discussione sull’etica, occorrerispettare tutte le regole imposte da leggi e regolamenti del diritto na-zionale e internazionale. Nella gare di appalto, non solo nel sistemapubblico, bisogna concorrere rispettando regole etiche e di lealtà e fair-ness: si deve competere ad armi pari nei confronti della concorrenza.

La nostra esperienza di multinazionale si fonda su un network direlazioni che è partito dal riconoscimento dell’eccellenza della nostraUniversità, una eccellenza presente in molte Università italiane, cheperò noi non sembriamo capaci di sfruttare. Perché in Italia non siamoin grado di dare occasioni a queste potenzialità? Credo che questo siail problema della nostra classe dirigente. Investire e fare ricerca nelnostro Paese è difficile perché manca lo spirito e l’opportunità di rac-cogliere il necessario capitale di rischio. Se ci fosse questa propen-sione, se si dovesse dar spazio a queste realtà, emergerebbero dei lea-der nuovi che minerebbero le posizioni dell’attuale classe dirigente.Le eccellenze ci sono e perciò è indispensabile far conoscere e valo-rizzare questo talento potenziale affinché non rimanga sommerso.

Marvell si è insediata a Pavia con una sede nei pressi del PoloUniversitario. Abbiamo fatto questa scelta per attrarre i talenti che siformano presso la Facoltà di Ingegneria che nel campo della microe-lettronica – ma non solo – gode di una reputazione di eccellenza in-ternazionale. C’è una storia consolidata nel campo della ricerca, manon c’è purtroppo un sistema di infrastrutture e servizi. Fino a pochianni fa le multinazionali interessate facevano un selettivo recruitinge poi si portavano i cervelli nella Silicon Valley. Noi, insieme ad altreaziende del settore, stiamo cercando di far rientrare cervelli sul terri-torio italiano: un’occasione certamente preziosa in un momento comequesto. A questo punto spetta alla politica e ai suoi leader il compitodi cogliere e valorizzare i settori trainanti dello sviluppo e del futurodell’innovazione. Con un segnale di forte discontinuità con la storiapolitica del recente passato forse questo sarà possibile.

(Francesco Rezzi, direttore Marvell Italia)

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Il dibattito sul concetto di leadership e sulle basi “forti”, etiche emorali, su cui deve svilupparsi è un tema di grande attualità. La lea-dership etica e socialmente responsabile si basa sull’ipotesi di intera-zioni orientate a un risultato che porti un vantaggio reciproco alle particoinvolte. Dovrebbe, quindi, creare situazioni “vincenti” nei confrontidi tutte le quattro dimensioni della leadership: il leader, gli altri, gliobiettivi e il sistema.

Dunque interrogarsi su un’etica del buon governo della res pub-blica, e sugli strumenti indispensabili che a questo fine occorre pos-sedere e applicare, è un dovere e una responsabilità della classe diri-gente. E questo interrogarsi sui valori dovrebbe partire dalle domandefondamentali, quelle che hanno guidato la storia del pensiero e la ri-flessione dell’uomo sui grandi temi spirituali. La filosofia si è costi-tuita prima del divario tra scienza moderna e religione, basti pensarea Democrito e all’atomismo. Le matrici cattoliche o protestanti, l’a-teismo anticlericale, l’agnosticismo, il deismo e il culto nella naturasono tutte visioni del mondo di cui è importante prendere coscienzain modo culturale e non dogmatico se ci si vuole aprire a una vera li-bertà e apertura di pensiero.

Accogliere e fare proprie le domande della filosofia è il dovere in-tellettuale e morale di ogni futuro leader, perché solo la pratica del li-bero pensiero è in grado di liberare dal pregiudizio dogmatico.

Assistiamo da tempo a una progressiva perdita di livello dellaclasse dirigente, che dipende in gran parte dalla scarsa frequentazionecon il ragionamento sul senso della vita, sulle domande fondamentalidell’esistere. Da qui il valore propedeutico e formativo dell’interro-garsi con profondità sui valori aldilà delle risposte preconfezionate,dei dogmi forniti dal mito, dalle religioni positive o dalla fede incon-dizionata nella tecnologia.

È fondamentale trovare visioni comuni per costruire una leader-ship etica, anche se ciò si scontra con un relativismo forte e conce-zioni molto distanti spesso fondate su religioni con visioni del mondo

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molto diverse. Viviamo in un tempo di crisi, ma crisi non vuol dire ne-gatività. Significa trasformazione.

Il cambiamento però deve partire dalla comprensione dei motividella debolezza di questo sistema sociale.

Stanno tramontando le grandi narrazioni metafisiche ed etiche:la religione, ma anche il mito della conoscenza, il mito della tecnica,il mito della crescita e dell’espansione economica senza limiti. Difronte alla perdita di punti di fondamento, per quanto preconfezionatio dogmatici, non disponiamo più di punti di appoggio e si fa largouno scetticismo radicale e il demone del nichilismo che uccide la spe-ranza. L’Italia attraversa un processo di declino che non è certo re-cente. Siamo sulla linea di galleggiamento sempre prossimi a inabis-sarci, ma anche sempre pronti a riemergere: in fondo è una condi-zione di instabilità permanente nella storia e nella realtà del nostroPaese, con difetti strutturali endemici interrotti da improvvisi lampi digenialità ed eccellenza.

Essere professionisti della politica dedicandosi a questo con unapassione esclusiva per certi aspetti può rivelarsi un limite. Cultura edesperienza sono infatti gli strumenti indispensabili per costruire com-petenza in quel compito supremo della politica che è la gestione dellares publica. L’uomo politico deve dunque possedere competenze e nondeve trascorrere tutta la vita nelle istituzioni perché ciò rischia di al-lontanarlo dalla società civile e dalla vita quotidiana. Bisogna ritornarealla gratuità dell’impegno politico e alla ricerca del bene comunecome missione disinteressata. Deve ritornare a prevalere l’interessecollettivo dopo una stagione dominata dalla presenza di macroscopiciconflitti di interesse e prevalenza dell’interesse privato. Il sistema po-litico non può rinchiudersi a riccio in una difesa a oltranza del privi-legio corporativo, delle guarentigie e delle immunità parlamentari,contribuendo a separare il divario tra lo status uomo politico parla-mentare da quello di semplice cittadino. Siamo scesi sotto la soglia ac-cettabile di etica pubblica a causa di un abbassamento della tensioneideale e di un sistematico uso privato della cosa pubblica.

L’intera classe politica deve rigenerarsi.Laddove non c’è ricambio e dove non ci sono regole per il ricam-

bio il sistema si trasforma in gerontocrazia. Oggi, a causa del bicame-ralismo perfetto, siamo in presenza di un numero troppo elevato diparlamentari: un problema che oltre ai costi economici che comporta,investe anche la sfera della qualità dei politici eletti, ne inficia la tra-sparenza dell’azione e la possibilità di un reale controllo politico daparte dell’elettorato, favorendo le occasioni di trasformismo e i ribal-

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toni nelle alleanze. Si deve valutare l’ipotesi di porre limiti alla reite-razione degli incarichi politici e istituzionali, il mandato parlamen-tare non deve durare più di un certo numero di legislature altrimentiil potere si fossilizza.

Dobbiamo aprire le porte della politica e della leadership ai gio-vani, impendendo al sistema di auto-riprodursi al suo interno reite-randosi in cloni sempre uguali a se stessi. Ma il ricambio della classedirigente e l’apertura a una nuova leadership può realizzarsi solo gra-zie a un lavoro di ricostruzione culturale in profondità a partire dallenuove generazioni.

Serve una nuova agorà, una palestra formativa, emotiva e intellet-tuale, per alimentare un agone dialettico e crescere nel confronto lealedella diversità delle visioni del mondo, discutendo insieme sul sensodella vita e facendo scaturire attitudini proprie di una vera leadership.

Possiamo scorgere un embrione della nuova agorà in internet, ilmezzo che più di tutti consente alle minoranze di affiorare dal som-merso alla visibilità riequilibrando per certi aspetti il potere mediaticodall’opinione di maggioranza. Internet consente alle minoranze diavere una voce, di esprimere un dissenso, di comunicare una inter-pretazione dissenziente e alternativa con la stessa forza di chi detieneil potere e controlla gran parte della comunicazione. La forza travol-gente dell’impatto dei nuovi media nell’informazione e nella mobili-tazione politica è certamente il fattore più innovativo che sta contri-buendo in modo essenziale alla mutazione del sistema della comuni-cazione politica.

L’unico limite è quello della virtualizzazione della relazione trapersone. L’agorà è per definizione intessuta di contatto diretto perso-nale e non può essere pienamente surrogata da un suo simulacro comeil web. I social network consentono alle persone di trovarsi virtual-mente, ma viene a mancare la sostanza emotiva e fiduciaria che si puòsperimentare solo frontalmente in una relazione reale con l’altro chesi staglia frontalmente con la sua presenza. Il web è una protesi dellamente, è un luogo di creazione di una mente collettiva, di una comu-nità oltreumana, di una intelligenza che trascende e supera l’individuo.È una scintilla utile a innescare a provocare la discussione tra comu-nità di interessati ma deve poi trovare uno sbocco concreto in unaazione in grado di unire le persone in modo reale.

Una volta lo strumento di comunicazione e contatto per eccel-lenza del leader con la comunità era il comizio, il bagno di folla: lapresenza del corpo del leader in mezzo alle persone sapeva creare su-scitare emozione e aggregazione politica. La leadership non passa at-

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traverso lo spazio della scrittura, la mediazione di un testo: il leaderagisce nello spazio dell’oralità, attraverso l’emozione che riesce amuovere, l’attrazione che riesce a mobilitare. Il leader si costituisce inmodo relazionale e diretto.

Nella società digitale prossima ventura potremo forse passare dalvoto al sentiment, dal voto alla valutazione giorno per giorno del lea-der, alla testabilità continua del consenso e del dissenso che, se op-portunamente gestita in condizioni di assoluta trasparenza, potrebbeeffettivamente mutare in modo radicale la relazione con la pubblicaopinione.

La misurazione tangibile dell’opinione in un futuro non lontanopotrebbe aprire spazi veramente innovativi al modello di rappresen-tanza politica e trasformarla in un referendum permanente in temporeale. Ciò comporterebbe valutazioni continue e limiti molto forti alpotere politico che vedrebbe scalfita la regola fondamentale della de-lega in bianco per tutta la durata di una legislatura.

Veniamo da un periodo di involuzione e deterioramento della pra-tica della discussione politica. Dobbiamo riappropriarci come Paese,come pubblica opinione, come rappresentanti del mondo della poli-tica, dell’onestà intellettuale come criterio di qualità della libera di-scussione, dobbiamo riacquisire la virtù dell’apertura al dialogo comemetodo e pratica del discorso pubblico. Il modello proposto dai for-mat politici è sempre più intessuto di agonismo retorico e sconta l’as-senza di una libera discussione di idee. È questo il grave limite di unapolitica desertificata dei suoi motivi ideali e vitali, inceppata su sestessa, che deve riattivare modelli di consenso non più basati solo sulpregiudizio e la polemica ma capaci di offrire informazione e cono-scenza. Assertività non è imporsi ma riconoscere di essere in una di-mensione di rispetto reciproco cercando di far valere le idee e non lapersonalità. Oggi si vive di individualismo, di schematizzazioni eideologie ereditate da modelli culturali preconcetti. Il rischio è un re-lativismo morale utilizzato come alibi per il disimpegno e il qualun-quismo. C’è bisogno di riconfigurare una pregnanza culturale dellapolitica che attinga a un maggiore idealismo.

La leadership si fonda sulla capacità naturale di un individuo di in-segnare a chi lo ascolta a sognare e a desiderare, ad avere in sostanzadegli obiettivi. Oggi le persone hanno sempre meno coscienza di cosarealmente desiderano. I nostri giovani esprimono una assenza di dire-zione e un diffuso disorientamento.

La leadership è fondata sulla abilità di ispirare e trasmettere fidu-cia. La fiducia a sua volta si sviluppa partendo dalla stima. Senza la

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stima il solo apparato ideologico non è in grado di creare un consensoe una leadership. Il leader deve saper leggere e interpretare le personee la realtà, deve vivere in mezzo alle persone e accettare i rischi deifischi conservando sempre una mente mobile. Soprattutto deve averecapacità di comprendere, perché la vera competenza è la sensibilità eil sesto senso relazionale.

Si arriva allora ad un’altra questione da sempre dibattuta. Qual èil rapporto tra leadership e verità? Nella leadership si deve dire la ve-rità? Certamente, ma non sempre tutta la verità. E qui si torna a un di-scorso etico. Chi stabilisce il limite di ciò che è opportuno dire o ta-cere? La leadership politica spesso si fonda sul tempismo, sull’indi-viduazione del momento più opportuno e su una verità figlia dellaopportunità. Il leader non può dire sempre tutta la verità ma non devenemmeno dire il falso, non deve tradire gli uomini e la verità stessa.La manipolazione della verità spesso dipende da un presupposta “ra-gione di stato”, che apre la porta all’abilità manipolativa del potere po-litico e all’uso strumentale della demagogia. L’etica invece evoca unuso corretto e veritiero della parola fondato sul rigore del linguaggioe il rispetto della lealtà e della buona fede dell’interlocutore.

La buona politica si fonda sulla condivisione, sulla capacità dimettere in comune un linguaggio di valori, se non universali, quanto-meno accettati da una comunità. La vera leadership è energia di tra-sformazione non-violenta e creazione di una convergenza verso unobiettivo condiviso. Senza la tolleranza tra le persone non si costrui-sce una società futura. Bisogna imparare ad aprirsi verso l’incognitarappresentata dall’altro, dal diverso, altrimenti finiscono per preva-lere solo gli aspetti più oscuri e individualistici, le paure che alberganodentro ognuno di noi.

Questa forma di meditazione non-violenta di matrice buddista checi apre alla condivisione con il tutto deve ispirare l’azione positiva percostruire una alternativa al crollo di valori e al nichilismo disperato.

(Fabio Rossello, amministratore delegato Paglieri)

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Azione pragmatica, relazione empatica

Carlo Salvatori

Quali sono le esperienze fondamentali per plasmare la persona-lità del leader?

C’è una leadership che dipende dal destino, dalla nascita, special-mente nel nostro Paese. L’impresa familiare gioca un ruolo tuttoramolto importante nell’economia, diventa perciò cruciale il momentodel passaggio di consegne tra generazioni. I figli di famiglie impor-tanti, pur se privilegiati e facilitati nella carriera spesso si trovano adover affrontare responsabilità improvvise e comunque si trovano adaffrontare intricati nodi e complesse situazioni circa la costruzionedella propria identità. Perciò non è raro che problemi di tipo esisten-ziale si sovrappongano a questioni di leadership: spesso l’emancipa-zione dalla figura e dal fantasma della figura paterna si rivela un per-corso tortuoso e mai completamente risolto. Gli esempi letterari daquesto punto di vista sono innumerevoli, ma pochi scrittori come Tho-mas Mann hanno saputo analizzare e narrare la parabola ascendentee poi discendente della grande famiglia borghese. La “sindrome Bud-denbrook” è tuttora una costante all’interno dell’evoluzione delle fa-miglie del grande capitale borghese, e anche in Italia si può dire chela crisi della leadership dell’impresa è attraversata da una più gene-rale crisi del modello culturale ed etico dei valori borghesi. Da que-sto punto di vista non si può negare che al declino del nostro Paesecontribuisce una sorta di eclissi della borghesia. Il tema della leader-ship non può quindi essere separato da una questione pedagogica edevolutiva della personalità e dei processi selettivi che determinanol’emergere, a partire dall’esperienza scolastica, dei futuri leader.

La scuola è il “primo lavoro” dove si pongono le premesse, lefondamenta di un futuro personale, dove la personalità comincia adelinearsi, il carattere comincia a confrontarsi con gli ideali e le primedifficoltà attorno a cui si delinea la motivazione e la tenacia, che in-sieme alle doti intellettuali predispongono una personalità a un de-stino di leader. Dal liceo all’Università c’è un spostamento dell’assedella responsabilità. Mentre nelle scuole superiori il ruolo del docente

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è fondamentale come mentore, come ispiratore emotivo in grado disuscitare interesse nell’alunno all’interno di un contesto in cui la re-lazione è fondamentale per la buona riuscita dell’apprendimento, dal-l’Università in poi il giovane deve organizzarsi autonomamente.

Ci sono segni in grado di rivelare una predisposizione alla leader-ship?

Ricordo che quando cominciai a lavorare nel mio primo impiegonon sapevo quale fosse l’orario di uscita, non me ne preoccupavo. Pro-lungare fino a tardi la permanenza in ufficio era il segnale di una de-dizione assoluta al compito; una centralità assegnata alla professione;una immersione totale per cercare di apprendere in profondità i det-tagli della professione. Sono questi gli anni in cui si pongono le basidi un apprendistato alla leadership. La scuola dovrebbe perdere astra-zione ed eccesso nozionistico per preparare alla vita, consentendo dicomprendere le strutture fondamentali della realtà economica e deirapporti di forza esistenti nel mondo e raccordando maggiormente lostudio alle professioni evitando questo gap ancora troppo forte. Si deveaggiungere pragmatismo, concretezza e immersione nella realtà eco-nomico-sociale a solide basi di cultura umanistica.

Quali sono le caratteristiche per un leader contemporaneo?La prima caratteristica di un leader è la capacità di relazionarsi con

gli altri. Nella relazione con i superiori gerarchici, anche in presenza diun dislivello gerarchico, non deve però in alcun modo manifestarsi unainferiorità culturale o psicologica. Con i pari grado credo ci si debba re-lazionare in modo collaborativo, reciprocamente vantaggioso e non in-vasivo in entrambe le direzioni: non invadendo e non facendosi inva-dere. Ogni uomo ha un cuore, un’anima e un cervello. Bisogna tenerlopresente sia quando si lavora con i collaboratori di pari grado a livelloorizzontale o di grado subordinato a livello verticale. Affrontare i pro-blemi in maniera condivisa, collaborativa, facendo gioco di squadracredo sia il modo migliore per costruire una relazione positiva e una lea-dership aperta, credibile e carismatica. Credo che in tutte le aziendesiano presenti persone di qualità che devono essere valorizzate in mododa essere in grado di esprimere al meglio le proprie capacità attraversoil sostegno alla motivazione e la moltiplicazione dell’efficacia dei mes-saggi del leader verso l’organizzazione. Ciò è complesso quando si di-rige aziende altamente strutturate con migliaia di persone: in questo casoè necessario per il leader formare e diffondere una cultura di impresaveicolando il messaggio attraverso diversi livelli.

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Nella metodica che ho sperimentato attraverso la mia esperienzaprofessionale quando ho guidato gruppi di 60-100mila persone, ho po-tuto constatare che un manager deve relazionarsi direttamente con unteam di non più di 10-15 individui e, attraverso una struttura ramificatache si irradia da ognuno di loro, raggiungere tutti i livelli della catenadi comando del gruppo con un processo di propagazione degli input.Fondamentale è il controllo periodico della cintura di trasmissione delcomando. Nello direzione centrali è necessario approntare idonei stru-menti di monitoraggio della ricezione dell’input al terzo livello e dun-que la misurazione dell’efficacia della comunicazione del livello inter-medio. Ho sempre attribuito importanza alla motivazione del personalee alla capacità di indurre motivazione da parte del management. Sonoconvinto che, a parità di qualità della risorsa umana, si possa ottenereil doppio o la metà del rendimento grazie a un’efficace o una scarsamotivazione. Non trovo esagerato quindi pensare che si possa ottenereun beneficio del 200% di produttività grazie alla leva della motivazione.Il leader efficace sa pianificare e strutturare strategie avanzate di misu-razione, sostegno costante, rinforzo della motivazione delle risorseumane. Ci sono aziende dove la gente lavora male e malvolentieri: ciòquasi sempre dipende dalla mancanza di carisma del leader e dall’as-senza di elaborazione e interiorizzazione di una cultura aziendale.

Quali sono le competenze indispensabili al leader?L’alta formazione professionale è un prerequisito, una condicio sine

qua non, una piattaforma di partenza per il riconoscimento della leader-ship, senza una grande competenza non si può diventare leader. La lea-dership richiede anche una grande capacità di sintesi, che non significasuperficialità, ma che vuol dire essenzialità e velocità. Ciò necessita diessere in grado di filtrare e selezionare le informazioni, altrimenti illeader cade nel pericolo dell’impasse, della paralisi per eccesso di ana-lisi: il leader infatti è un decision maker e non un analyst. Per espe-rienza sono portato a cogliere segnali significativi nei collaboratoricome indici di maggiore o minore predisposizione alla leadership:quando vedo una scrivania troppo piena di carte ho l’impressione chechi la occupa non possieda la capacità di delegare. Quando mi vienerecapitato un report di troppe pagine ne deduco che il collaboratore nonsa a sua volta delegare. I miei collaboratori sanno che non posso leggerelunghi testi integrali ma solo delle sintesi ben fatte, brillanti executivesummary che mi consentono di prendere efficacemente e rapidamentedecisioni. A un leader devono bastare riassunti di due cartelle, ma ancheil suo collaboratore deve a sua volta ricevere un sunto in un processo di

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sintesi che raggiunge livelli sempre più essenziali salendo di grado ingrado lungo la scala gerarchica delle decisioni. Questa è la base delladelega che è fondamentale nella capacità di leadership. Saper delegare,saper ascoltare e saper giudicare sono attitudini strettamente legate nel-l’esercizio della leadership. Il leader deve anche saper valutare i risul-tati dei collaboratori non solo in termini assoluti ma in relazione alleloro potenzialità e alla loro adeguatezza: chi raggiunge 90 potendo dare100 è valutato meno di chi raggiunge 30 con una potenzialità di 30.

Qual è il rapporto tra declino del Paese e responsabilità della lea-dership pubblica?

Venendo alla questione della leadership pubblica occorre fare unaseria analisi sulle cause del declino del nostro Paese. Io credo ci sia unademocrazia applicata male: al posto della sovranità popolare mi sembrasi sia andata affermando un prevalenza di caste e di interessi privati sul-l’interesse generale. Si deve cambiare il campo di gioco dove praticareil sistema di regole democratico. È necessaria una revisione del modellodella giustizia: la giustizia civile e quella penale sono troppo lente. Il pro-cesso civile con la sua esasperante lentezza impatta direttamente sull’ef-ficienza delle aziende che si ritrovano a veder scarsamente garantiti i lorocrediti. La mancanza di certezza del diritto e la lentezza del processo ci-vile sono tra i primi deterrenti che scoraggiano le aziende straniere a in-vestire in Italia. Urge una revisione della spesa pubblica per recuperarerisorse per il bilancio dello Stato alleggerendo l’onere di finanziamentodel debito pubblico e liberando risorse per stimolare la crescita. Iocredo ci siano già oggi possibilità di far ripartire gli investimenti affidan-dosi a coperture che non devono necessariamente provenire dallo Stato,ma che possono essere finanziate dal settore privato e da capitali prove-nienti dall’estero: ciò è possibile ma richiede appetibilità sul mercatomondiale dei capitali. Abbiamo una pubblica amministrazione costosae ridondante con troppe duplicazioni con una catena amministrativatroppo lunga: Governo centrale, Ministeri, Regioni, Province, Comuni,e anche di quartieri nei comuni: una pletora assurda. Si è ipotizzato dieliminare le Province, ma nessuno ci prova davvero. In un’azienda pri-vata di fronte all’inefficienza si prova a ristrutturare l’organigramma dellastruttura. Negli enti territoriali si infiltra una parte considerevole del ma-laffare e della levitazione di costi con effetti paradossali: come si può con-cepire che la sanità della Sicilia costi 12 volte di più di quella dell’Emi-lia-Romagna. Servono parametri certi sui costi dei servizi forniti dallaPubblica Amministrazione da uniformare in tutto il Paese come puntodi riferimento per valutare comparativamente gli scostamenti dal modello

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e valutare la qualità dei servizi nella diverse regioni della Penisola. Nel nostro Paese non si percepisce la presenza di un disegno com-

plessivo di sviluppo e di seria politica industriale come accade invecein Germania o in Francia. Noi abbiamo perso delle industrie di Statoche non abbiamo saputo sostenere. Talvolta abbiamo chiuso aziende ole abbiamo svendute all’estero a prezzi d’occasione. Una pessima po-litica ha acuito il declino industriale dell’Italia dove ormai pratica-mente della grande industria non resta più molto. Abbiamo aziendecon importanti collegamenti internazionali, ma non abbiamo aziendeche possono dirsi multinazionali in senso compiuto in termini di vo-lumi ma anche di modalità di presenza sui mercati esteri: fare deloca-lizzazione non significa necessariamente diventare una multinazio-nale. È necessaria una politica industriale che preveda una riduzionedel gap con l’Europa in termini di investimenti in ricerca e sviluppo.Da noi l’investimento in ricerca è meno della metà rispetto ai nostripartner europei. Una seria politica industriale dovrebbe definire qualisono i settori sui quali investire di più e sostenerli e quindi convogliarerisorse verso quei settori. Noi abbiamo produzioni a basso valore ag-giunto perché quelle ad alto valore aggiunto se le sono ormai accapar-rate gli altri Paesi. Credo che occorra lavorare per una migliore qualitàcomplessiva. Non si tratta di recuperi che si possono fare nel breve pe-riodo; i benefici devono essere attesi nel corso degli anni.

Qual è il valore strategico di una maggiore inclusione dei giovaninel tessuto economico-sociale del Paese?

Le statistiche dicono che il 30 per cento dei nostri giovani è senzalavoro. I nostri giovani credo non siano meno preparati dei loro col-leghi europei. Piuttosto da noi ci sono troppi vincoli all’iniziativa pri-vata. Dobbiamo riconoscere che in Italia abbiamo aziende che fannomiracoli per competere con altri Paesi. Siamo un Paese che ha unagrande capacità trasformativa ma che sconta il vincolo di mancanzadi materie prime e la totale dipendenza energetica. Si insiste sul temadell’articolo diciotto dello Statuto dei Lavoratori, quando invece è ilquadro complessivo a essere carente.

Qual è lo stato di salute e il livello di credibilità della classe di-rigente nel nostro Paese?

In Italia c’è un profondo malessere legato alla scarsa qualità digran parte della classe politica. Ci sono alcuni leader politici di qua-lità però ho l’impressione che noi potremmo fare a meno dell’80 percento dei nostri parlamentari. Creano problemi, perché è quell’80 per

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cento di bassa qualità che condiziona gli andamenti della politica. Sequesti fossero innocui potremmo anche pagare il prezzo della loro in-consistenza, ma il fatto è che la loro attività determina gli scompensie porta a escludere pianificazioni di medio e lungo periodo che nonpaga in termini di consenso elettorale. Questi personaggi vivono inmodo parassitario la politica. Vivono per assicurarsi il posto nellanuova tornata elettorale ed è evidente a tutti che non hanno in mentenessuna idea di pianificazione di medio-lungo periodo, perché è in-compatibile con le loro personali esigenze di breve periodo: ciò creaun danno enorme alla politica del Paese. Basta ricordare lo spettacolodell’ignobile mercato dei voti e delle cariche da parte di parlamentarimercenari e trasformisti disposti a cambiare bandiera all’ultimo istantepur di partecipare alla spartizione di incarichi di sottogoverno. Biso-gna restituire al Paese senso dell’onore e dignità alla funzione politicaaltrimenti il qualunquismo dell’indifferenza e il relativismo moralepossono davvero distruggere l’essenza della vita democratica.

Quali valori è necessario trasmettere ai giovani per stimolare unacrescita di partecipazione e una prospettiva di ricambio generazionale?

Oggi i giovani si affacciano alla vita e alla professione attraverso at-teggiamenti sbagliati. Hanno punti di riferimento poco probabili: sidiffonde la credenza che solo vie oblique o facili portino a far carriera.Se si entra nell’orbita di un certo entourage politico e si è disposti a ri-nunciare alla propria dignità si riesce a emergere subito. Oggi si pensasempre più all’interesse personale immediato, piuttosto che all’orgo-glio di partecipare alla costruzione di un grande Paese, di un ideale col-lettivo. Siamo immersi in un presente assoluto. Ai giovani credo si deb-bano dare questi insegnamenti: si può avere successo, si possono, si de-vono conseguire risultati positivi operando in un quadro etico e morale.Credo poi che non ci si debba limitare a un’etica meccanicistica basatasolo sul rispetto di un insieme di regole convenzionali, io credo che bi-sognerebbe andare oltre e percorrere interamente un percorso di ricercadei valori condivisi in un prospettiva di bene comune oltre l’individua-lismo dominante. L’interesse collettivo dovrebbe essere alla base del-l’interesse dei singoli, perché perseguendo l’interesse collettivo infondo si fa anche il proprio interesse ma non viceversa. Oggi si tendea massimizzare i risultati di breve periodo: c’è una attesa anomala eimpropria da parte degli analisti, ci sono gli speculatori che perseguonounicamente il risultato di breve periodo: troppa enfasi sulla performancetrimestrale rispetto a quella annuale, un disinteresse per una seria pia-nificazione, vittime del timore del giudizio della Borsa e dei Signori

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del rating. I regolatori dovrebbero intervenire per mitigare l’eccesso dienfasi sui risultati di breve periodo, contribuendo a limitare gli effettidevastanti prodotti da una deregulation e da una pratica speculativa chedistrugge ricchezza e minaccia la solidità di Stati e di sistemi sociali.

Come riqualificare il senso dell’azione economica dentro unaprospettiva di rifondazione morale del Paese?

Il pensiero etico e il pensiero economico non sono opposti, etica edeconomia devono poter convivere. La convivenza è possibile tra que-sti mondi anche se, soprattutto per quanto riguarda la parte dell’econo-mia finanziaria, spesso sembrano vivere una conflittualità insanabile.Pensiero etico morale ed etica non possono essere estraniate da nessunaattività umana tanto meno da quella economica. Leadership politica emanagement economico richiedono di essere ispirati da principi eticinella propria funzione, altrimenti il rischio è una deriva nichilistica senzafine a livello personale e sociale. L’azienda è un progetto di carattere col-lettivo che ha come fine intrinseco il raggiungimento di un profitto, con-cezione che oggi non è più messa in discussione nemmeno dalla cul-tura marxista, socialista, né dalla dottrina sociale della Chiesa: oggi tuttoil pensiero socio-economico è concorde nel riconoscere il profittocome legittimo riconoscimento del risultato imprenditoriale. Però biso-gna che il profitto sia inserito in un percorso di soddisfacimento oltreche di interessi economici anche di interessi sociali e culturali della co-munità, in una dimensione più allargata di responsabilità sociale dell’im-presa. Mi pare che molti responsabili aziendali, negli ultimi 10-20anni, si stiano impegnando nella ricerca di una mission che superi l’i-dea del puro profitto immediato, in nuovo paradigma fondato sulla so-stenibilità del risultato economico nel tempo. Personalmente ho cercatonelle esperienze che ho fatto di coniugare il risultato economico con lanecessità di renderlo sostenibile nel tempo dentro un quadro di ROI rea-listico e credibile: mi pare che tante aziende siano state distrutte pro-prio da questa logica, da comportamenti che non hanno tenuto conto chel’azienda deve vivere nel tempo a beneficio di tutti gli stakeholder. Ilmodello da proporre è quello che supera i limiti di una concezione soloeconomicistica, che considera l’azienda solo dal punto di vista del ri-sultato economico. Si tratta di sostituire una visione allargata agli inte-ressi di tutti gli stakeholder e non ristretta nella visione di unico riferi-mento agli shareholder. Il risultato economico è infatti sostenibile solose si sta attenti a soddisfare le esigenze di tutti i portatori di interesse;sicuramente il capitale, c’è chi ha rischiato e ha diritto ad avere un pro-prio riconoscimento, ma anche i protagonisti del processo di creazione

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di valore che sono i dipendenti, i clienti, i fornitori e la società civile nelsuo complesso. L’impresa deve venire percepita per “ciò che fa” e nonsolo per “ciò che è”: per l’azione e la ricaduta sociale che produce nellacomunità allargata di riferimento.

È possibile una leadership etica?C’è da chiedersi a volte se la democrazia sia veramente il migliore

dei sistemi politici possibili: forse è meglio dire con Winston Churchill:“Il peggiore dei sistemi possibili, esclusi tutti gi altri”. Io non vedo unmodello politico migliore, però deve essere aiutata nel suo percorso dicrescita. Serve una manutenzione della democrazia, uno sforzo di ade-guamento alle questioni contemporanee. Pensiamo a quello che è ac-caduto sui mercati e che ha determinato il fallimento della LehmanBrothers e la crisi del 2008. Prima di arrivare al default della Leheman,si è determinata una politica espansiva con tanti soldi sul mercato, tassibassi, mancanza di controlli. Ciò ha portato all’esasperazione dell’uti-lizzo della leva, leva di 40 o 50 volte il capitale con un rischio defaultdietro l’angolo: come poi è accaduto. Queste esasperazioni hanno por-tato poi ai famigerati mutui subprime, concedendo spazio alla specu-lazione più sfrenata e permettendole di entrare nei gangli vitali della vitaeconomica con capitali che viaggiano a velocità vertiginosa a livello glo-bale. I danni più grandi sono stati provocati da usi anomali e immoralidegli strumenti della finanza, che possono distruggere un Paese intero,un’intera cultura, del resto lo abbiamo già visto nella storia. La demo-crazia non è sempre in grado di porre dei freni a questo sistema perva-sivo e infetto. La democrazia deve essere adeguata e messa in grado direagire alle trasformazioni creando anticorpi normativi a queste infe-zioni neoliberiste. Il liberismo porta a dare molto spazio ai comporta-menti più immorali. L’ambizione individuale è in sé una molla motiva-zionale fondamentale, è un fatto positivo e vitale fino a quando non sitrasforma in spietato arrivismo amorale, quell’utilizzo spropositatodell’ambizione che porta a impiegare qualsiasi mezzo per ottenere ilmassimo risultato. La politica deve essere in grado di porre un freno connorme certe ed efficaci. Stabilire regole per evitare che l’ambizione dipochi non debordi in tracotanza e si trasformi in autocrazia oligarchica.Il mondo è come un fiume che scorre: senza argini solidi, la democra-zia può venire travolta dalla spinta egoistica, oligarchica e plutocratica.Per questo servono regole, non troppe, ma certe e rispettate, giuste edequilibrate, eque e lungimiranti, per essere in grado di garantire tutti.

(Carlo Salvatori, presidente Lazard & Co.)

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La leadership e le banche: un possibile ossimoro

Giuseppe G. Santorsola

Il banchiere è soggetto particolare per le sue caratteristiche, per ilruolo che svolge nel tessuto economico-sociale e per l’angolazionecon la quale viene abitualmente valutato dall’esterno.

Svolge un ruolo necessario, antipatico (quantomeno in sensostrettamente greco) e di contrapposizione rispetto ad altri. Dispone,peraltro per conto terzi, di uno strumento altamente ricercato e al-trove raro (il denaro e/o il credito) e lo gestisce nell’ottica di una ri-sorsa scarsa. Negli ultimi anni il relativo prezzo (tasso d’interesse) èstato generalmente basso, ma è stato corredato da componenti colla-terali di costi per servizi e oneri annessi che ne hanno ridotto la tra-sparenza e la percepibilità.

Peraltro, le considerazioni ora esposte non sono effettivamente ri-conducibili al banchiere quanto alla banca, azienda che opera spessosul mercato senza una figura emblematica particolarmente rappresen-tativa. L’azienda in quanto tale è leader (anche per i motivi sopra citati),ma i suoi esponenti di vertice non evidenziano – frequentemente – lea-dership. Possiamo anzi affermare che quando si manifestino tali con-notazioni, il banchiere “leader” trova difficoltà nel suo agire. Le ban-che operano come sistema e non come singole entità; vivono un mer-cato certamente competitivo, ma debbono rispondere costantemente acrescenti vincoli di vigilanza, coefficienti patrimoniali e parametrioperativi che condizionano gli spazi di iniziativa pienamente impren-ditoriale. La rottura del complesso equilibrio, reso indispensabile dallosviluppo di entità quali il Financial Stability Board, il Comitato di Ba-silea e le principali Banche Centrali (americana ed europea) determi-nerebbe riflessi insostenibili. Un banchiere effettivamente leader nonconvive in modo naturale con tale struttura e deve necessariamentecondividere le sue scelte con omologhi dotati di altrettanto potere fi-nanziario. In altri tempi, John Pierpoint Morgan, David Rockfeller eMayer Amschel Rothschild seppero imporsi ai “colleghi” in virtù dellaloro potenza finanziaria, della capacità decisionale e della competenzae lungimiranza che emergeva dalle loro pronte scelte davanti agli

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eventi. Molte banche sono in realtà invece originate dall’alleanza fradue o più banchieri (Henry S. Morgan e Harold Stanley per citare l’e-sempio più noto). La complessità dell’istituzione sembra non coinci-dere frequentemente con la sostenibilità del controllo in capo a un solosoggetto; basta pensare alla ragione sociale di Lehman Brothers o diSolomon Brothers o alla natura composita di molte altre denomina-zioni (Bear-Stearns, Kidder-Peabody, Smith-Barney, fra gli altri).

Passando a esaminare il fenomeno in un contesto più generale eaziendalistico, la leadership presuppone una followship, quindi dei se-guaci, come sottolineò Peter Drucker. Nel contesto bancario trova in-vece maggior spazio un criterio gerarchico che determina obblighi evincoli di relazione. Spesso la leadership non esiste e la subordina-zione viene accettata senza riconoscimento. Per oltre cinquanta annilo stesso contratto collettivo di lavoro del settore del credito in Italiaha determinato scale di inquadramento molto parcellizzate con nume-rose posizioni intermedie che hanno reso difficile anche l’eventuale(raro) riconoscimento della leadership.

Esiste una correlazione quasi statistica fra andamento economicodelle banche e continuità del management. È opportuno citare il fattoche – dopo la crisi del 2008 – nelle prime 20 banche mondiali i mas-simi vertici sono stati tutti sostituiti (almeno uno fra il Presidente e ilC.E.O), salvo il caso della Goldman Sachs. Si potrebbe intuire in talmodo una fattispecie di leadership in negativo, alla quale vengono in-testate le responsabilità emerse, il che è plausibile all’interno dell’a-zienda e nel contesto del settore delle banche di investimento; non al-trettanto è però evidente sia nel contesto sociale (dove il soggetto è av-versato e visto come “ingordo”) sia nel contesto finanziario dove èindividuato come concorrente non evitabile, temuto, avversato, manon leader.

Ulteriore considerazione merita il riscontro che il banchiereideale, soprattutto nel contesto europeo del passato, era figura poconota e poco presente, leader all’interno del proprio contesto, ma nontale nella società e nella gestione esterna del potere. I grandi banchieriamericani, francesi ed ebrei attenuavano al massimo la loro presenzapubblica, rarefacevano le occasioni di dialogo, proprio per rafforzareil peso dei loro interventi quando svolti. Nel contesto italiano Toe-plitz, Mattioli e Cuccia hanno rappresentato il modello ora citato. Glistessi Governatori della Banca d’Italia, per i quali peraltro non è ri-chiesta leadership nel ruolo, si esprimevano una o due volte l’anno,fino almeno agli anni Novanta. Successivamente è invece diventatausuale la presenza in occasioni istituzionali anche private, aumentan-

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done la visibilità. Anche questo aspetto peraltro non significa leader-ship, quanto, al contrario, la delega a un soggetto istituzionale in qualetale incaricato di gestire le situazioni più complesse. Potremmo indi-viduare, nel caso, l’assenza della leadership quale variabile organiz-zativa, sostituita da quella di ruolo imposta per norma.

Ritornando a valutare il contesto delle banche operative sul mer-cato, è necessario distinguere quelle originanti dal capitale investitoda famiglie storiche (Rothschild, Rockfeller, Worms, Lazard e quelleinvece di emanazione pubblica o (solo recentemente) a capitale dif-fuso. Non è possibile un’analisi congiunta dei diversi profili:

• le banche private, ad azionariato ristretto e orientate alla clien-tela più esclusiva (quella unica del passato), si identificano conil fondatore e cercano nella famiglia la continuità della gestione,soffrendo quando nel fluire delle generazioni la leadership si at-tenua, manca o non dispone delle motivazioni necessarie;

• le banche di grandi dimensioni, originanti come strutture pub-bliche e successivamente privatizzate, hanno a lungo allonta-nato la leadership per poter essere gestite con più facilità daipoteri esterni; peraltro alcuni banchieri, tra i migliori, si sonoformati in tali contesti e hanno saputo in casi non marginali ge-stire le situazioni in modo vincente, rovesciando – grazie acompetenze e qualità relazionali – il modello gestionale che livedeva solo esecutori ad alto livello;

• le banche ad azionariato diffuso sono una realtà degli ultimianni, spesso derivante da fusioni e non da sviluppo interno; lacombinazione della governance rinviene spesso numerosi azio-nisti semiforti, necessariamente alla ricerca di alleanze; spessoil management più abile ha tessuto le relazioni necessarie perla manifestazione dei patti e delle alleanze, ma ha spesso do-vuto abbandonare quando il potere dei voti e il mutare degli ac-cordi ha preso il sopravvento;

• le condizioni di crisi hanno agevolato la distruzione delle situa-zioni di leadership semiforte, sopportata di fronte alla bontà deirisultati, prontamente eliminata nel momento della caduta deicorsi delle azioni e del calo degli utili e dei dividendi; dimostra-zione palese che non era leadership effettiva e che la stessa nonè spesso stata in grado di governare gli stati critici della gestione.

Pur in assenza di un adeguato riscontro statistico e scientifico, èplausibile affermare che l’esercizio della piena leadership sia parzial-mente incompatibile con la struttura degli intermediari bancari. In par-ticolare, fin dalla prima direttiva europea del 1985 è stato incardinato

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il principio dei Vier Augen (quattro occhi) che impone la compresenzadi almeno due soggetti con poteri decisionali al vertice della gestione.Ne deriva che, qualora uno dei due sia dotato effettivamente di leader-ship, ciò influenzi il rispetto del principio, mentre – nel caso contrario– il conflitto che ne deriva condiziona negativamente il percorso gestio-nale della banca.

In realtà, in numerose banche si è verificato un ulteriore fenomenomeritevole di attenzione. La presenza di soggetti in posizione apicale,individuabili come leader, ha creato “scaloni organizzativi” nella ge-rarchia a motivo dell’abbandono, da parte dei collaboratori più vicinial vertice ricoperto da un soggetto leader, che – dovendo rispettare iprincipi organizzativi – deve conferire deleghe e soffre la condivisionedel processo decisionale con soggetti di fatto in grado di sostituirlo e/odi ricoprire le stesse funzioni. L’abbandono da parte dei potenziali lea-der, non soddisfatti delle condizioni non pienamente manageriali delproprio operato, ha comportato generalmente la sostituzione con sog-getti più fedeli al leader in carica, provenienti dai ranghi in posizionesubordinata e che, almeno inizialmente, si comportano nel rispettodella distanza gerarchica preesistente. In tal modo si determina lo sca-lone con gradoni e non gradini indicato in premessa.

Esiste peraltro una importante differenza tra l’analisi organizza-tivo-gestionale e quella comportamentale. Le banche sono tradizional-mente area non conforme per l’evidenziazione di fenomeni di pienaleadership; il modello corrente nella letteratura sulla vita bancaria pro-pone soluzioni del tutto contrarie, ma sono soprattutto la compliancealle prescrizioni di vigilanza e il rispetto dei vincoli normativi a de-terminare ripetitività gestionali che frenano lo sviluppo delle poten-zialità di leadership; ciò avviene, inoltre, in modo crescente alla lucedei frequenti cambiamenti organizzativi e della separatezza dei pro-cessi decisionali, largamente dominati dalla gestione informatizzata edalla divisione dei processi lavorativi.

Ulteriore profilo di analisi è quello relativo alla fase di selezioneiniziale delle risorse. I requisiti tradizionali di studi ragioneristici, pre-cisione, correttezza sono stati sostituiti negli anni ’80 dalle attitudinitecnico-commerciali funzionali al modello distributivo. La leadershipperaltro rimane estranea ai profili obiettivo degli assessment ed era so-stanzialmente temuta al momento della selezione perché ritenuta peri-colosa da gestire a fronte del modello distributivo “di massa” preva-lente. È evidente peraltro che la selezione delle risorse direttive non ri-sponde solo a questi criteri, ma è stata inizialmente direzionata versospecialisti di funzioni provenienti dal mondo industriale, inseriti nel

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contesto tradizionale e la cui eventuale leadership è stata spesso fre-nata dalla convivenza con direzioni generali statiche. Solo verso la finedegli anni ’80 alcune direzioni generali furono affidate a soggetti nonprovenienti da carriere interne (fattore invero ostacolante di fatto losviluppo pieno della leadership dovendo il soggetto apicale conviverecon i suoi precedenti colleghi di posizione). Attualmente, la sostitu-zione di un direttore generale o di un amministratore delegato è costan-temente realizzata con risorse esterne, soprattutto nelle banche mag-giori, a conferma della difficoltà di individuare un primus inter pares.

La leadership appare quindi un’eccezione, limitata ai quei sog-getti che – proprio in quanto dotati del fattore – emergono nonostanteil contesto contrastante, sviluppando spesso carriere interne dai livelliminori e capaci di aggregare il consenso soprattutto in banche popo-lari, cooperative e casse di risparmio, laddove il controllo societario(oggi definibile governance) favoriva coloro che erano in grado di ag-gregare consenso senza il vincolo di posizioni finanziarie dominanti.

Un’ulteriore provocatoria osservazione pone sotto critica la con-dizione, oggi dominante, di banche quasi tutte quotate in mercati re-golamentati, quando invece il pieno dispiegamento delle capacità ge-stionali dovrebbe esigere la separatezza più piena rispetto agli obiet-tivi principali della negoziazione continuativa delle azioni in unmercato nel quale si confondono (invero correttamente) gli interessidi molteplici soggetti. D’altro canto, nelle condizioni attuali, il poteredel denaro (anche in senso meramente quantitativo) è nettamente su-periore a quello delle persone, soprattutto se queste non sono porta-trici del capitale di rischio, quanto prevalentemente assorbitrici dellostesso per remunerazioni e premi legati a risultati di breve orizzonte.Le regole dei mercati peraltro impongono rendiconti, informazioni,comunicazioni e previsioni con cadenze brevissime e ravvicinate. Esi-ste un conflitto anche etico fra la riservatezza tipica del banchiere tra-dizionale e le esigenze di trasparenza dei mercati guidate dalle regolenecessarie per rassicurare milioni di azionisti che non sono assoluta-mente banchieri nella logica che li spinge a partecipare al rischio diqueste imprese, che restano “differenti” dalle altre, ma che non pos-sono restare tali quando si misurano in termini di raccolta delle stesserisorse secondo parametri che le banche adottano quando svolgono illoro ruolo di finanziatrici, ma non verso se stesse.

In conclusione poniamo all’attenzione alcune incongruenze tra lecondizioni teoriche strutturali della leadership e il playing field ca-ratteristico delle banche.

La leadership si basa sulla dinamica di gruppo e come influenza

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della personalità, piuttosto che sulla capacità di spiegare e convincerein modo motivato; aspetti rari e talvolta incongrui nella gestione dellarisorsa denaro. La leadership è definita come l’abilità di manipolare lepersone così da ottenerne il meglio con i minimi contrasti e la mas-sima cooperazione attraverso il contatto tra leader e subordinati; vienequindi vista come un esercizio di influenza unidirezionale, il gruppo ei suoi membri vengono messi in secondo piano e considerati soggettipassivi; tale aspetto contrasta con le regole della compliance e dellaindividuazione di comitati differenziati per molte funzioni decisionaliall’interno dei board delle banche (come ovviamente anche delle im-prese quotate).

La leadership è inoltre esercizio di influenza, comportamento, ca-pacità di persuasione e relazione di potere, quattro termini che non col-limano con le condizioni di efficienza delle banche. Il leader opera inun contesto di gruppo, ma deve guidarlo anche quando la persuasionenon può fondarsi su parametri, coefficienti e regole. Questi sono glistrumenti attuali per raggiungere obiettivi; è evidente il contrasto conl’utilizzo per lo stesso fine della leadership. Essa è peraltro un fattoreemergente dall’interazione; ciò che differenzia questa affermazionedalle precedenti è il nesso di causalità; in questa si nota che la leader-ship viene considerata un effetto dell’azione del gruppo e non più unsuo elemento formante. La sua rilevanza risiede nell’aver messo in evi-denza che la leadership emerge dal processo di interazione tra indivi-dui e non avrebbe ragione di esistere senza di esso. La leadership èanche un ruolo di differenziazione: rientra nella teoria dei ruoli, se-condo la quale ogni individuo, interagendo con altre persone o con ungruppo, sviluppa una posizione, solitamente diversa, dagli altri indivi-dui. Diversi autori vedono infatti nella leadership un attributo che dif-ferenzia i membri all’interno di un gruppo. Infine, la leadership è in-terpretabile come l’iniziazione di una struttura; con questa afferma-zione si vuole intendere che la funzione di leadership è indispensabileper l’avvio di una struttura e per il suo mantenimento. In tale conflittostrutturale si rileva la distanza principale che rende difficile immagi-nare in futuro la convivenza della leadership nel mondo bancario.

(Giuseppe G. Santorsola, docente di economia degli intermediari finanziarie di finanza aziendale presso l’Università Parthenope di Napoli)

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La leadership e le banche: un possibile ossimoro

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La guida e il suo angelo.Adriano Olivetti

Giulio Sapelli

In questo mondo, che ignora la memoria storica, dove non esistepiù la cultura della comunità, la cultura della relazione associata de-gli uomini nel loro più diretto ‘particulare’, si usano molto spesso pa-role a sproposito e si evocano uomini come Adriano Olivetti, di cuis’ignora il reale pensiero.

Il 27 febbraio del 1960, Adriano Olivetti moriva di trombosi ce-rebrale sul treno che lo portava da Milano a Losanna, dopo aver con-cluso, come primo imprenditore italiano, una grande avventura: quelladi acquistare, da industriale canavesano, un’impresa americana, la Un-derwood, e di dare vita, in questo modo – in modo più concreto diquanto non avesse fatto sino ad allora – alla filiera tecnologica del-l’informatica. Qui però scriverò del significato più segreto della suaesperienza: la Sua vita interiore, i suoi riferimenti intellettuali, ciò cheun tempo si chiamava la Sua anima (per servirmi di un termine cheoggi non si usa più, ma che appartiene alla filosofia del personalismocristiano, a cui faccio riferimento). Olivetti è stato non solo un grandeimprenditore, ma anche un grande editore. Ha creato una casa editrice,a cui ha dato nome “Comunità”, con l’aiuto di alcuni collaboratori pre-ziosi che poi sono stati gli uomini che hanno fatto molta parte dellacultura italiana: Alessandro Pizzorno, Geno Pampaloni, Paolo Volponie tanti altri.

Parlerò di questo coté nascosto, esoterico di Olivetti, perché, se-condo la mia tesi, non si può comprendere il significato che Egli davaalla parola e al concetto di ‘comunità’ se non lo si legge in una guisache anche Giuseppe Berta aveva enunciato nel suo libro, ma che nonaveva ben sviluppato, perché esso si occupava delle realizzazioni pra-tiche di Olivetti: l’urbanista, il teorico di una riformulazione delle re-lazioni umane e di un’idea del management come riforma dell’impresae come realizzazione dell’uomo libero nell’impresa. Questo lato di Oli-vetti è però essenziale. E che cos’è questo coté? È l’Olivetti utopista.Egli era un utopista in un senso particolare. Che cos’è l’utopia? È l’i-dea che si possa prefigurare qui e ora, nel mentre gli uomini vivono e

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fanno, esercitano i loro doveri e i loro diritti, un mondo diverso che sipensa e si prevede sia migliore di quello in cui ora l’uomo vive asso-ciato con gli altri. Per capire qual è il fondamento utopistico di AdrianoOlivetti, bisogna comprendere la Sua formazione familiare, e soprat-tutto la figura di Suo padre Camillo Olivetti. Questi è noto non solonella storia dell’imprenditoria italiana, poiché è il padre dell’industriameccanica di precisione, ma anche nella storia politica, perché orga-nizzò la fuga di Turati dall’Italia fascista, consentendogli di raggiungerel’esilio. È un uomo che per tutta la vita si arrovella attraverso una pro-blematica squisitamente religiosa. È un ebreo che sul finire della Suavita raggiunge una sorta di concezione sincretica tra le due religioni delLibro, tra 1a religione cristiana e la religione ebraica, e aderisce allachiesa unitariana, il cui scopo era quello di unire lo spirito de1la cul-tura ebraica allo spirito della tradizione cristiana.

Qual è l’idea della storia in Olivetti? È un’idea della storia che ètipica della cultura ebraica. È stato pubblicato qualche anno fa un li-bro di Stefan Moses, La storia e il suo angelo (tratto dalla frase famosadi Walter Benjamin), che racconta a un pubblico non esperto di pen-siero ebraico come intendevano l’evento storico tre grandi sapienti ditale pensiero: Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Gershom Sholem.Qual è l’idea fondamentale? È che alla visione ottimistica della storiadi matrice post-hegeliana, di matrice anche marxista, si contrapponeun’idea diversa di questi tre pensatori, che fanno riferimento a tre fi-loni diversi del pensiero ebraico: Scholem alla cabala, Benjamin allatradizione tedesca che passa per la scuola di Francoforte e Rosenzweiga quella tipicamente religiosa. Ho trovato nelle mie letture – a cui midedico sempre più spesso per disgusto verso la realtà – nel primo vo-lume delle opere complete di Simone Weil, questo passaggio in un pic-colo scritto che s’intitola Morale e religione: «L’uomo virtuoso devefare il suo dovere [e qui citava Pascal] e lasciar fare gli dei. E non devedesiderare il successo, ma deve volere il dovere. E prendere però il suosuccesso come oggetto del suo libero atto. È contraddittorio volere un’a-zione senza volere che questa azione sia efficace. Quello che è vera-mente la virtù non può realizzarsi senza che l’azione sia efficace, pro-prio perché unicamente dal fatto dell’efficacia viene il valoredell’azione. Volere l’azione e non volerne l’effetto è volere senza co-raggio, non è volere». In questa frase c’è la chiave per capire la meteoraAdriano Olivetti, che è stata una delle pochissime persone ad aver avutoun enorme potere economico e intellettuale nelle Sue mani e ad averlousato per cercare di modificare il senso della storia secondo quelli cheerano, sostanzialmente, i Suoi punti di vista, le Sue idee. Simone Weil

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è una scrittrice che Olivetti introduce in Italia. Mistica ebrea (allieva diuno dei grandi filosofi francesi, Alain), dopo aver fatto l’operaia par-tecipa alla guerra di Spagna dalla parte dei repubblicani e muore du-rante la seconda guerra mondiale a Londra di stenti e di fame proprioper questo Suo impegno solidale: anch’essa, come Olivetti, una personad’origine ebraica che si sente vicina al cattolicesimo.

In questo senso, Adriano Olivetti appartiene alla tradizione delmessianismo ebraico perché concepisce l’azione come inveramentodella teodicea. Ma, per la maggioranza delle persone, cosa c’è di piùlontano dello spirito dall’industria? Se c’è qualcosa di meccanico, que-sto è l’attività industriale. Lo scopo di Olivetti era invece di riempiredi spiritualità l’industria, sicché si può parlare di Lui come di un uomoche ha cercato di unire l’azione con il volerne gli effetti, ma all’internodi una escatologia, di una visione messianica profondamente spirituale.Che cosa vuol fare Olivetti? Egli continua a operare nel campo in cuiprima Suo padre e poi lui stesso avevano mietuto i primi successi:quello dell’industria meccanica di precisione. Successivamente, negliultimi anni della Sua vita (che si spezza con un atto quasi divino, per-ché inaspettato e tragico) entra in quello straordinario campo che è l’in-dustria informatica. Ebbene, Egli voleva riformare profondamente iltessuto industriale del nostro Paese e il rapporto che esisteva tra l’in-dustria e la società, e chi ha espresso meglio di qualsiasi altro questomessaggio che Olivetti aveva in sé, questa visione messianica della sto-ria, è stato Felice Balbo, un intellettuale indispensabile per capire que-sto Suo lato misterioso, utopico e religioso.

Cosa scrive Balbo? Come si conclude la sua opera Le idee per unafilosofia dello sviluppo umano? Si chiude con questo passo, che è la de-finizione del contesto pratico di quella realizzazione nell’azione a cuifaceva riferimento Simone Weil e in cui opera Olivetti. Sembrano pa-role scritte oggi, ma sono del ’62: «In Italia non abbiamo la situazioneindustriale americana, che pone il problema delle relazioni umane e del-l’educazione sistematica di gruppi umani come naturale esigenza dellacontinuità del dinamismo economico. Infatti, uno dei maggiori pro-blemi dell’economia americana di oggi è precisamente quello del man-tenimento del livello dei profitti e della perpetuazione delle aziende.Abbiamo però noi, in Italia, problemi più gravi e più maturi in un al-tro senso. Dobbiamo proporci di suscitare l’iniziativa sociale della mag-giore quantità possibile delle energie subalterne separate e isolate eaprire a questo problema le responsabilità dirigenti, le une e le altre perbuona parte e in modi diversi estranee fino ad oggi agli aspetti più vi-tali della civiltà industriale, mentre ne subiscono ormai inarrestabil-

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mente alcune delle conseguenze peggiori [l’umanizzazione del lavoroindustriale]. La nostra economia, in luogo o in più del problema che hal’America, ha quello di ridurre le passività sociali, ossia di rendere pro-duttive le spese sociali, tanto più in quanto queste spese sociali non sonoeccezionali, ma tendono ad accrescersi, a diffondersi, a essere perma-nenti, perché ormai le masse umane o divengono energie attive e pro-duttive, o debbono essere, nei modi più diversi, mantenute sia pure adun estremo livello di povertà». L’alternativa è tra produttivismo e assi-stenzialismo, dice Balbo, ma il produttivismo può essere raggiunto soloattraverso la realizzazione dei fini della persona umana a partire dal-l’industria: «Il tema qui affrontato sembra essere tra quelli più pertinentiallo studio di questi compiti ormai maturi». Egli aveva, come Olivetti,un’idea dello sviluppo sociale e dello sviluppo economico coincidentecon quella dello sviluppo umano. Scrive con questo suo periodare fi-losofico: «Sviluppo umano e quindi realizzarsi dell’umanità in quantoumanità». E, riferendosi a Feuerbach: «Sviluppo sociale è il realizzarsidella società conformemente all’essenza umana». L’operare di Olivetticomincia da questo punto: come fare per organizzare la società confor-memente all’essenza umana, all’essenza della persona, alla difesa del-l’integrità della persona e alla realizzazione della persona? Inizia la ri-flessione sulla ‘comunità’.

Olivetti scrisse chiaramente che la comunità avrebbe dovuto pos-sedere parte delle imprese, con un’idea quindi socialista, autogestitadella comunità. Non ha nulla a che vedere con le ipotesi di comunitàdi cui si parla oggi. Questa è un’idea di comunità antiliberista, non an-tiliberale (perché ricordiamoci sempre Benedetto Croce con la divisionetra liberalismo economico e liberalismo politico): i princìpi liberali inpolitica sono una cosa, i princìpi liberali in economia sono un’altra.«Gestione del capitale», diceva Mounier, «riassorbimento del capitalenelle mani dei lavoratori e degli organizzatori responsabili [cioè dei di-rigenti]. I benefici verranno ripartiti in quattro settori una volta garan-titi i servizi generali dell’impresa (salario uniforme, scala mobile, par-tecipazione agli utili, usufrutti di rendite vitalizie che si accantonanoper le pensioni, ecc. ecc., organizzazione e controllo del credito [chedoveva essere effettuata su scala comunitaria], soppressione legale ditutte le forme di usura, di speculazione e in genere di ogni fecondità deldenaro)». E inoltre: «Nella gestione della produzione: controllo collet-tivo, non statizzato, ma decentrato con partecipazione dello Stato diquelle imprese che per la loro importanza assumono il carattere di verie propri servizi pubblici. Organizzazione di tutte le altre imprese in co-munità federative di produzione. Orientamento dell’economia non già

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verso il profitto e l’accrescimento indefinito degli agi del benessere, maverso i bisogni reali e la maggiore diffusione dei beni comuni». Que-ste sono le idee che il pensiero personalista cristiano aveva avuto giànegli anni Trenta: rispetto dell’ambiente, rispetto della natura, rispettodell’integrità della persona, produzione non al solo scopo di produrre,ma per un fine sociale. Sono tutte idee che Mounier e Maritain avevanogià espresso, oltre la grande tradizione del pensiero socialista.

La prima edizione de L’ordine politico delle comunità fu pubbli-cata da una tipografia in Svizzera nel ’45 per i tipi delle Nuove Edi-zioni Ivrea e a Roma nel ’46 ne uscì una seconda stampa per le Edi-zioni di Comunità. Il sottotitolo di quest’ultima edizione recita DelloStato secondo le leggi dello spirito e, in epigrafe a entrambe le ver-sioni, c’è una frase molto significativa: «Servire la pace, la civiltà cri-stiana con la stessa volontà, la stessa intensità, la stessa audacia chefurono usate a scopo di sopraffazione, distruzione, terrore».

Cosa scrive Olivetti nella Sua opera? Cerca di spiegare come sipossa tenere assieme la volontà di realizzare la libertà: «Tra il non giu-dicate del Vangelo e l’amore della verità vive la libertà». Parla cioè diuna terza via, economica, che comincia dall’impresa che va fino al-l’organizzazione dello Stato. Qual è la terza via? Tra il socialismo diStato che Olivetti vedeva già fallito nell’Unione Sovietica (perché erain contatto con gli ambienti trozkisti, con gli ambienti della sinistra so-cialista che avevano già dato una giudizio estremamente critico), e illiberalismo economico pienamente dispiegato, cioè il mercato senzacontrollo. «Il presente piano – scrisse Olivetti – è invece un tentativodi indicare completamente una terza via che risponda alle moltepliciesigenze di ordine materiale e morale lasciate finora insoddisfatte. Allabase di questo piano di riforme vi è la concezione di una nuova societàche per il suo orientamento sarà essenzialmente socialista, ma che nondovrà mai ignorare i due fondamenti della società che l’ha preceduta:democrazia politica e libertà individuale».

Qual è l’essenza del contenuto di questo libro? Né lo Stato da soloné l’individuo da solo possono rispondere ai grandi problemi delmondo industrializzato che nasce dalle rovine della guerra e che si af-fermerà successivamente. L’unico modo per rispondere a questi immaniproblemi è ricostituire l’unità dell’uomo tra azione, pensiero e spiritua-lità. E l’unico modo per far ciò è riconsentire all’uomo di vivere inquella che Olivetti chiama una “Comunità concreta”. Ma cos’è la Co-munità concreta? Olivetti parte da un fatto semplice: c’è un abisso tral’uomo e lo Stato. Bisogna creare pertanto un organo politico interme-dio, che è immediatamente la comunità in cui l’uomo vive, perché è de-

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finita dai rapporti economici che si dispiegano nel tessuto locale e dairapporti di tipo fiduciario, culturale, sociale che si dispiegano negli uo-mini che gestiscono quell’economia. La comunità deve avere quindiuna misura umana: non deve essere né troppo piccola, per stimolaresentimenti di egoismo e di concorrenzialità, né troppo grande, per rein-trodurre un rapporto di spersonalizzazione. La grandezza nella comu-nità deve essere media e riferita alla possibilità organizzativa degli entilocali. Olivetti pensava fondamentalmente al comune e a gruppi di co-muni che devono essere il perno, come strumenti di autoregolazione dalbasso, degli organismi economici che agiscono nella comunità. La na-tura dello Stato quindi deve essere federalista e collettivista insieme:la superiorità della comunità «consiste nell’elevata efficienza che leviene dalla specializzazione resa possibile dalle competenze territorialidi ogni comunità, e dalla grande facilità con la quale i cittadini possonoentrare in contatto con i suoi organi e controllarli».

Quindi la comunità deve essere la cellula di un nuovo Stato fede-rale, che però non è federale in quanto regionale, ma perché formatoda tutte le comunità, che sono dei comprensori economici. Olivetti pas-serà (e compirà quello che io ritengo un Suo grave errore) da questaidea, che poteva irrorare come un lievito tutte le forze politiche, allacreazione un movimento politico proprio. In realtà Egli era un uomotroppo colto per voler creare una forza politica con il potere economico:usò in effetti solo quello intellettuale e quindi non riuscì a realizzare ipropri scopi. Mentre organizzava questo movimento politico, addirit-tura giunse a promuovere una comunità (di operai e dirigenti) alla FiatMirafiori di Torino, perché pensava che una grande impresa dovesse es-sere gestita come una comunità. Ma l’idea fondamentale della riformadi Olivetti era l’idea di una nuova democrazia. E qual era questa idea?Lasciamo perdere l’architettura istituzionale che è descritta nell’operae guardiamo alla sostanza. Qual era dunque la Sua idea di fondo? Ledemocrazie parlamentari avevano fallito, non avevano fermato né il fa-scismo né il nazismo. Per due diversi motivi: perché non si erano or-ganizzate le forze politiche democratiche su base personalistica ed essenon avevano fatto dell’uomo, della persona, il centro dell’attività, cioènon avevano fondato la politica sull’elevazione e l’emancipazione cul-turale della singola persona. E non avevano capito il rapporto che le na-zioni industriali ponevano in forma nuova tra il meccanismo dellacompetenza e quello della democrazia. Qual era stata la risposta agliautoritarismi degli anni ’30? Era stata la limitazione della democraziae Olivetti decide di non percorrere questa strada.

Il principio fondamentale, per Lui, deve rimanere il suffragio uni-

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versale, deve rimanere le democrazia della maggioranza, ma si deve evi-tare la “dittatura della maggioranza”. E bisogna agire non sulla do-manda politica, ma sull’offerta politica. Occorre, cioè, agire selezio-nando la classe politica sulla base della competenza. Nella vita dellacomunità, delle organizzazioni comunitarie, la democrazia deve essereuna sorta di democrazia diretta (sull’esempio di quella Svizzera), per-ché si tratta di comunità a misura d’uomo. L’organizzazione delloStato doveva essere fatta in modo che alle elezioni dei supremi organidello Stato – che Olivetti concepisce attraverso una complessa archi-tettura istituzionale, secondo le funzioni principali che lo Stato do-vrebbe avere, dall’intervento nell’economia alla regolazione urbanistica– arrivassero solo le persone competenti. E come si poteva realizzarequesto proposito? Attraverso la creazione di ciò che egli chiama l’Isti-tuto politico fondamentale. Lo Stato doveva formare la possibile classepolitica creando un’istituzione alla quale potevano iscriversi gli indi-vidui di ogni ceto e di ogni classe, che dovevano perseguire e protrarrenegli anni un periodo di formazione, formando in questo modo unasorta di pépinière, ossia di vivaio della classe politica. Gli alunni do-vevano formarsi, fare degli esami, essere selezionati, essere in misuraenormemente superiore ai possibili eletti. Quindi, un’idea di restringi-mento della dittatura della maggioranza non alla base, ma al vertice. Po-tevano accedere al vertice dello Stato solo le persone competenti, se-lezionate però non dalla società civile: Olivetti non parla mai della plebeimberbe e bambina, che alberga nella società, dei mostri che girano trale foreste moderne. Crede che la gente debba essere educata dalla li-bertà e dalla democrazia diretta, e che poi debba esistere un meccani-smo capace di formare la futura classe politica. Alcune società l’hannofatto istintivamente. Pensiamo a come si forma la classe politica in Fran-cia: i suoi componenti sono quasi tutti formati dall’École National Ad-ministracion o dall’École National Politecnique. Non c’è nessunalegge che lo imponga: è la consuetudine.

Si può dire che una società è tanto più civilizzata quanto più isti-tuzionalizza la formazione delle sue classi politiche, che non sono la-sciate al dominio della plebe, ma hanno delle istituzioni di formazione.Olivetti insegna che quanto più il grado di istituzionalizzazione dellapolitica è elevato, tanto più è elevato il grado di civilizzazione. Quantopiù esiste la formazione di una classe dirigente ampia e personalistica,tanto più una società è evoluta. Ma ciò non può avvenire spontanea-mente e Olivetti, nel suo libro, arriva ad analizzare la pratica istituzio-nale più estrema, anche grazie alla Sua mentalità di imprenditore, di in-dustriale. Il grado di civiltà è tanto più alto quanto meno la formazione

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della classe politica è affidata al potere economico, al controllo dei massmedia, alla demagogia, a delle caratteristiche fisiognomiche (perché lagente vota anche secondo questi aspetti). Olivetti arriva a dire che que-sta istruzione doveva essere regolata da una legge dello Stato. Perquesto il suo libro si chiama L’ordine politico delle comunità, un ordineche tra la persona e lo Stato crea delle società intermedie in grado diselezionare la classe politica al vertice attraverso il principio dellacompetenza: «Lo Stato federale delle comunità considera fondamen-tale la necessità di individuare, formare, organizzare una élite politicaatta a dare un contributo alla formazione della nuova società e ciò senzacaratteri di privilegio e di esclusività. Tale élite sarà costituita da unacategoria di uomini che hanno sentito profondamente la vocazione dellapolitica intesa nel suo vero significato di missione sociale. Ad essa de-dicheranno la vita in modo esclusivo». Siamo di fronte al professioni-smo. Ma chi deve eleggere queste élite selezionate impersonalmente(dal merito)? Scrisse Olivetti: «L’individuo riposa sugli elementi ma-teriali e dalla materia è individualizzato e limitato. Esso quindi simuove secondo la risultante di un puro urto di forze, in un piano in cuile leggi spirituali non spiegano la loro invisibile potenza. Se il mondoche nasce vuole evitare nuove catastrofi e volgere verso mete superiori,occorre creare una società in cui la Persona abbia la possibilità imme-diata di esplicare la propria umanità e spiritualità [cioè trasformarsi daindividuo a persona]».

Come poteva avvenire questo? Olivetti, se da un lato continua a es-sere un illuminista, dall’altro è un “pratico”, alla Simone Weil, perchésostiene che l’unica via sia quella di costituire delle relazioni sociali incui gli individui si emancipino e diventino persone. Relazioni socialigarantite secondo Lui dalla democrazia su piccola scala, dall’auto-or-ganizzazione e soprattutto dall’educazione e dalla cultura. Olivettispendeva quote ingenti del Suo patrimonio per la biblioteca e riduceval’orario di lavoro degli operai per consentire loro di seguire volontaria-mente dei corsi di formazione, non strettamente professionale, in cuisi affrontavano la storia romana, quella dell’antica Grecia, del cinema,della filosofia e così via: e oggi la biblioteca civica di Ivrea è costituitaper l’80% dalla biblioteca Olivetti, nonostante la volontaria, voluta di-struzione che di essa ordinò Carlo De Benedetti appena impossessatosidell’azienda, in spregio alla stessa figura di Adriano. Egli, Adriano, eraun pratico e un illuminista poiché, secondo Lui, doveva sempre esserviuna élite che mettesse in moto il meccanismo di passaggio dall’indi-viduo alla persona. Ci doveva essere un gruppo dirigente originario che“educasse” le masse attraverso soprattutto la scuola.

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L’idea di comunità portata avanti da Olivetti è attuale in un’epocadi globalizzazione economica? Egli pensava in un mondo in cui il mer-cato non era ancora globale e un’idea per essere efficace deve poteressere estesa a livello continentale, perché altrimenti si avrebberoforme di dumping sociale. Tuttavia Olivetti è fautore di un’idea squi-sitamente moderna: il valore della persona.

Se il destino dell’Europa oggi è di puntare all’industria ad alto ca-pitale intangibile (cioè tecnologia e tutto ciò che è l’incorporazionedella scienza nel processo produttivo), il valore cognitivo dell’attivitàè fondamentale. Antropologicamente siamo passati da un mondo incui contavano i piedi, l’agricoltura, a un mondo in cui contavano lemani, l’industria, e ora viviamo in un mondo post-industriale dove lamente è centrale, dove ci deve essere una persona morale, giacché nonsi possono realizzare processi cognitivi complessi solamente attra-verso una specializzazione. Pur assecondando la flessibilità, occorreavere una formazione personale ampia. Per questo credo che il perso-nalismo comunitario olivettiano abbia un futuro: esso punta sul va-lore della persona.

Potrebbe essere utile a questo riguardo riprendere i manoscritti eco-nomici e filosofici di Marx, nella vecchia edizione Einaudi curata daLuigi Firpo, dove è presente il tentativo dell’autore, sulla scorta di He-gel e di Feuerbach, di elaborare un’idea di uomo come realizzazione nonsolo della specie e del genere, che è la vita, ma, da giovane hegeliano,anche dello Spirito assoluto, quindi anche dell’idea di ragione, di libertà.L’uomo si realizza solo se c’è lo Spirito assoluto. La grande molla delloSpirito assoluto è stato il legame tra intellettuali e popolo, per dirla intermini gramsciani. Gli intellettuali potevano essere i monaci del me-dioevo barbarico, i Boezio, i preti dell’Ottocento, i predicatori sociali-sti, comunisti, i sacerdoti che andavano in mezzo ai lebbrosi a evange-lizzare, cioè coloro che avevano come fine la verità e che cercano difarla diventare senso comune: questo è stato il legame tra intellettualie popolo. Oggi il problema è che non c’è più questo legame.

(Giulio Sapelli, economista, ripropone per il concetto di guida illuminatal’esemplarità della complessa figura di Adriano Olivetti. Il testo, tratto da unseminario sul grande imprenditore, è inedito).

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Vettori dell’innovazione

Massimo Scaccabarozzi

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Il leader ha il compito fondamentale di indicare una direzione, of-frire un orizzonte da traguardare, supportare intellettualmente ed emo-tivamente le ragioni del cambiamento: per questo deve disporre delcoraggio di cambiare, della forza di innovare. Tutto questo quando siattraversa una stagione di declino come accade nel nostro Paese.

Il leader deve catalizzare il processo di trasformazione, favorendola velocità di reazione, e avere non solo la velocità di riflessi di chideve essere reattivo ma soprattutto la capacità di anticipare il muta-mento, accompagnarlo con un atteggiamento proattivo. L’eserciziodella leadership è una funzione vettoriale del cambiamento, un pro-cesso dinamico sempre in ascolto e in progress. Se parliamo di leader-ship pubblica poi è necessario stabilire una connessione imprescindi-bile tra l’esercizio di un potere di gestione della res publica e la pre-senza di una sincera vocazione a testimoniare una leadership valorialefondata sulla centralità del fattore esemplare. Tutti gli aspetti relativialle competenze o all’arte del comando sono nulla senza la presenzadi valori decisivi come la credibilità, l’integrità, l’autorevolezza. Inquesto difficile momento il nostro Paese vive proprio questo tipo ditensioni e contraddizioni, perciò abbiamo il dovere di educare le nuovegenerazioni in un modo del tutto diverso da quelli che sono sembrati ivalori di questa stagione. La classe dirigente ha il dovere di orientarenuovi valori segnando una decisa discontinuità con il passato.

Il leader deve essere dotato di un’innata curiosità intellettuale per-ché su di essa si fonda la spinta al cambiamento, il piacere di innovare.La curiosità spinge i ricercatori a realizzare le scoperte rivoluziona-rie: senza questa molla teoretica, è impossibile dare slancio al pathose all’ethos della ricerca scientifica e tecnologica in grado di ridise-gnare il volto del mondo. Spesso chi dispone del potere di guida tendea evidenziare un’azione di micro-management, ma certamente nelladimensione contemporanea questo approccio è riduttivo ed è in granparte inefficace concentrarsi su elementi marginali del processo di in-novazione. Il vero salto qualitativo, il solo pensiero capace di guardare

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in faccia l’orizzonte del futuro, dipende da una visione di macro-ma-nagement. Se ci si chiude nella stretta prospettiva riduzionista delmicro-management si rischia di venire inviluppati in una spirale ne-gativa che attira in un vortice discendente. Serve invece osare cor-rendo il rischio di sbagliare: i piccoli sbagli non devono essere stig-matizzati dal leader perché se non si permette ai collaboratori di sba-gliare non ci sarà più nessuno disposto a cercare di inventare qualcosadi nuovo e diverso. Senza innumerevoli fallimenti e senza l’ostina-zione del ricercatore, la penicillina non si sarebbe scoperta. Non sisarebbe raggiunta questa straordinaria crescita dell’aspettativa di vitadel genere umano senza una straordinaria capacità di apprendimentodai propri errori: di questo deve essere perfettamente conscio un lea-der. Il leader deve sempre chiedere a se stesso e alla propria squadra:“Cosa c’è di nuovo oggi?”.

Il settore della salute ha il privilegio di una leadership industrialenel Paese: le industrie del farmaco rappresentano il primo settorehigh-tech sia per numero di addetti che per investimenti in ricerca esviluppo. Proprio per questo è importante, da parte nostra, dotarsi dileader che abbiano visione e prospettiva, che sappiano convivere conil sistema di incertezze di uno scenario ad alta complessità: come di-cono gli anglosassoni, l’imperativo è “master complexity”, ovvero, af-frontare e saper gestire la complessità. Attraversiamo un passaggiostorico difficile con una crisi intensa che l’Italia non ha mai vissuto.Stiamo vivendo una sorta di sotterranea guerra, o meglio, guerrigliaeconomica che rischia di sfiancare il Paese nelle sue risorse e nella suamotivazione, depauperandone gli asset economici e morali. La lea-dership è lo strumento indispensabile per traghettare con successo ilnatante fuori dalle acque stagnanti di una palude. È un imperativo mo-rale prima ancora che politico, che quanti lavorano nel pubblico o nelprivato devono recepire e introiettare: oggi il settore pubblico non puòpiù essere ancorato ai vecchi stereotipi perché è venuto a mancare ilfondamento della sostenibilità nelle politiche di finanza pubblica; perquesto è necessario fare uno sforzo collettivo per uscire dalle zone dicomfort. Questo richiede di attrezzarsi, di addestrare la volontà, laforma mentis a compiere una scomoda esplorazione del possibile do-tandosi di coraggio. Ma il coraggio richiede emozioni: sono le emo-zioni che smuovono le masse. La leadership pubblica o privata chesia, per mobilitare uno sforzo epocale di questo tipo, deve mostrarsiinnanzitutto credibile. Serve un’assoluta sincerità nell’assunzione diresponsabilità. I tempi del decision making si sono fatti sempre piùstringenti, non si può indugiare e ruminare idee, bisogna sperimentare

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velocemente e trovare continuamente alternative. Anche se oggi tro-vassimo una soluzione alla crisi occorre non fermarsi più e continuarea pensare avanti, oltre la soluzione. Serve una mentalità pragmatica,una consapevolezza dell’importanza dell’energia che si sprigionadalla trasformazione, della dinamica positiva scatenata da un approc-cio sperimentale ed empirico anche alle questioni sociali.

Io credo che un governo tecnico debba applicare in modo deter-minato la sua matrice puramente tecnica, evitando che anche i tecnicifacciano politica. Un governo tecnico al 100% deve trovare rispostecaratterizzate da una particolare acutezza e abilità nel problem sol-ving e nella soluzione tecnocratica dei nodi problematici che strin-gono il Paese. È per questo che i tecnici del governo sono chiamati acompiere uno sforzo per trovare soluzioni innovative ai problemi en-demici del Paese. Dopo le prime manovre di natura puramente dicassa, attraverso l’introduzione di misure probabilmente impopolariper governi politici, a mio avviso si deve ora virare verso l’applica-zione di una nuova leadership più tecnica. Un non politico deve por-tare avanti, nella sua azione, un simulacro di tecnicità guidato da unapproccio veramente tecnico, caratterizzato da innovazione e cambia-mento senza condizionamenti di natura politica per poi riconsegnarealla politica una fase nuova. E la politica lo deve sostenere per usciredalla crisi. Il nostro è un popolo straordinario, pronto a capire, ad ac-cettare le sfide, a coglierle e a compiere sacrifici per risorgere. Que-sta è la nostra storia, da sempre. E dal dopoguerra in poi lo abbiamosaputo dimostrare al mondo intero. Ha però bisogno di una leader-ship che sappia affrontare le problematiche per produrre qualcosa incui credere, qualcosa che unisca e non divida. Mancando i soldi perla Previdenza costringiamo a lavorare più a lungo gli anziani, masiamo il Paese con la più alta disoccupazione giovanile. Ecco, da untecnico ci si aspetta ora la produzione di un’idea che consenta di ri-lanciare l’occupazione giovanile, magari chiedendo sacrifici a gio-vani e persone in età pensionabile sulla base di una soluzione innova-tiva e creativa del problema, che distribuisca equamente e razional-mente gli oneri di una riforma, una soluzione che unisca e non divida.Si deve poi trovare una osmosi naturale tra formazione e lavoro. Ab-biamo un sistema formativo spesso inadeguato. I giovani italiani sonospaesati quando si accingono a entrare nel mondo del lavoro. Servel’introduzione di temi come l’impresa, il lavoro, la tecnologia, lea-dership e gestione (non solo di risorse economiche ma anche e so-prattutto umane) già nel mondo dell’istruzione. Bisogna aver il co-raggio di cambiare a partire dalla formazione. Oggi senza un master

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è difficile inserirsi nel mondo lavorativo. Oggi la laurea è un “musthave”, un punto di partenza non di arrivo, è un requisito di partenzadi una carriera. Ecco, dobbiamo cominciare a parlare con gli studentiuniversitari di leadership. Abbiamo una classe dirigente molto avan-zata come età media perché non riusciamo a formare i giovani. Il ri-cambio generazionale deve essere una priorità per il Paese. Un leaderdeve preferire chi lo sfida a chi lo rassicura. Io preferisco avere col-laboratori più bravi di me, che mi diano gli spunti giusti, che sappianorilanciare sulle sfide. Bisogna uscire dalla zona di comfort, dallo sta-tus quo consolatorio e protettivo della quiete inerziale. I momenti piùdifficili sono anche quelli più formativi perché danno degli stimoliche ci chiedono di dare di più, perché ci spingono a creare relazioni:partnership e relazioni, contaminazioni culturali dei saperi, creatività,cross fertilization delle scienze.

Con la politica dei tagli non si va lontano, si fanno progressi solocon la politica della crescita. Si deve avere il coraggio di rischiare percrescere. Non si può fare crescita solo con tagli indiscriminati e senzaparametri. Al Paese servono stabilità e regole certe. Non è possibileche non si riesca a fare un piano industriale perché ogni volta che sidiscute di questo argomento, il giorno dopo vengono cambiate le re-gole. Serve un assetto normativo più stabile coerente e comprensi-bile. Giusto evitare gli sprechi ma importante è puntare su settorichiave e importanti per crescita e sviluppo.

I settori ad alta tecnologia come il nostro, poi, non possono chesvilupparsi attraverso una struttura reticolare proprio perché anche laricerca all’interno del sistema privato sta cominciando a porsi un pro-blema di sostenibilità. Stanno nascendo sempre più piccole aziende diricerca biotecnologica avanzata perché lo sviluppo di un farmaco finoalla commercializzazione ha costi elevatissimi; solo un farmaco su10.000 arriva al paziente e quindi la sostenibilità dei costi di sviluppoè divenuta un aspetto critico, è difficile trovare un investitore in gradodi sostenere il binomio costi elevati e selezione severissima del mer-cato. Il piccolo comincia ad aprire linee di ricerca e quando arriva ascoprire un prodotto con una potenzialità importante stabilisce un rap-porto di partnership con il grande player, che è in grado di fornire il vo-lume di investimento per il definitivo sviluppo evitando il rischio dellefasi di incertezza iniziali. La sinergia tra start up e incubatori di ricercae grandi aziende è la risposta per rendere sostenibile un settore sem-pre più difficile ma fondamentale come quello della salute. Oggi nelsettore del farmaco vi sono delle politiche regionali incentrate esclu-sivamente su dinamiche di appropriatezza economica, che impattano

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in modo devastante su un sistema industriale che ha un valore per ilPaese. Il differenziale tra prestazioni erogate da un sistema incentratosulle competenze regionali ha determinato effetti spesso discriminatoria danno dei cittadini, che si trovano ad avere un differente trattamentoin funzione della regione di residenza; ciò è inaccettabile. Un cittadinoitaliano non può subire una sostanziale discriminazione dal punto divista della qualità di assistenza rispetto a un bene primario come la sa-lute in relazione al differenziale del livello qualitativo di prestazioniregionali. E questo danneggia anche, per contro, un settore industrialead alto valore di impiego e ad alto valore di export.

Non possiamo neppure pensare di esportare il made in Italy a li-vello globale ed essere un Paese leader a livello europeo senza man-tenere una solida e univoca dimensione unitaria nel modo di offrire lanostra identità al resto del mondo. Non ha senso che un Paese con lanostra tradizione culturale, scientifica, estetica e fatta di grandi inno-vazioni che hanno cambiato la storia del mondo possa essere fram-mentato da interessi polverizzati e concorrenti.

C’è stata, negli anni, una sorta di volontà di accanimento ideolo-gico nei confronti del settore farmaceutico in Italia, come è già acca-duto nel passato per altri settori importanti quali la chimica, la side-rurgia, la microelettronica. L’ideologia non deve cozzare contro laconcretezza della realtà fattuale: non si può operare per una deserti-ficazione di un settore così cruciale all’interno dell’industria italiana.Chi intende depauperare il patrimonio industriale del Paese deve in-dicare dove intende creare occupazione per i giovani. Per questo unanuova classe dirigente deve essere capace di indicare strade nuove enon ripetere errori che stiamo ancora pagando.

(Massimo Scaccabarozzi, presidente Farmindustria)

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I giovani, la cultura, la rete, il teatro

Andrée Ruth Shammah

I giovani mi interessano. Non mi interessa parlare di loro ma conloro. Io sono con i giovani. Lo sono sempre stata grazie alla mia espe-rienza di madre, di artista e direttrice di un teatro come il Franco Pa-renti. Per questo ho accettato volentieri l’invito del professor IvanRizzi a partecipare al convegno/dibattito tenutosi lo scorso 31 mag-gio presso il teatro Dal Verme.

Confesso di essere rimasta colpita dal primo intervento di un gio-vane ragazzo. Nella sua domanda non erano solo contenute le pauree le perplessità sul suo futuro, c’era un’accusa al mondo adulto,un’accusa feroce: “La volta scorsa avete parlato solo voi. Noi siamovenuti qui, abbiamo ascoltato ma non abbiamo avuto l’opportunità diparlare. Di intavolare una discussione. Di dialogare con voi”.

A quel punto la mia natura registica stava per prendere il soprav-vento e avrei voluto invertire fisicamente i ruoli in sala: i giovani se-duti a parlare e gli adulti in platea ad ascoltare.

Per questa ragione ho preferito cominciare proprio da loro, dalleloro domande, disarmanti per la loro semplicità. Credo sia l’atteg-giamento più corretto per affrontare il tema: porsi in una condizionedi profondo ascolto – mi rendo conto quanto sia difficile per unadulto, è un problema di linguaggio.

Mai come in questo periodo storico il mondo adulto è distanteanni luce da quello dei giovani, soprattutto nella modalità e nella con-divisione dell’esperienza comunicativa. Non possiamo dimenticarciche stiamo parlando con i nativi digitali. Cosa ne sappiamo noi diquel mondo? Suggerirei di tenere presente tutto ciò se vogliamo en-trare in reale contatto con loro.

Che ruolo può avere la cultura? Come può essere d’aiuto ai gio-vani?

I turisti vengono in Italia per l’Arena di Verona e sono una mannaper i ristoranti, gli alberghi, i trasporti; migliaia di giovani vanno aMantova per il Festival della Letteratura, a Modena per la filosofia,

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a Spoleto per il Festival e in genere per decine di rassegne estive; l’e-conomia di quelle aree è notevolmente influenzata in tutte le compo-nenti di servizi e di consumi e nelle grandi città i teatri offrono occa-sioni di intrattenimento in grado di rendere più gradevoli i soggiornianche di affari.

Credo che la cultura e la creatività, ancora una volta, possano es-sere elementi fondamentali per ricostruire un disegno generale di svi-luppo del Paese, sia per risollevare l’economia sia per riaffermare esviluppare i caratteri della nostra identità culturale.

Mi riferisco a un universo identitario di circa seimila aziende di-stribuite sul territorio nazionale e di 200.000 lavoratori (artisti, tecnici,maestranze altamente qualificate, impiegati ecc.) che va dalle impresecreative alle giovani associazioni e che deve e vuole fornire l’humusculturale per il rilancio complessivo del Paese, per permettere allospettacolo italiano di cogliere la sfida e porsi a livello globale comesoggetto attivo in grado di dialogare e imporsi sui mercati internazio-nali, fornendo alle generazioni future un nuovo patrimonio da tute-lare e valorizzare.

Le imprese dello spettacolo dal vivo producono ricchezza, benimateriali e immateriali.

Producono qualità del tempo e della vita, producono prospettivedi emancipazione dal torpore dei modelli televisivi, producono dirittie senso civico svolgendo le loro funzioni di interesse pubblico nelpresidiare e arricchire la vita delle nostre sfilacciate comunità. E no-nostante la crisi ogni sera si aprono centinaia di sipari, si inauguranodecine di rassegne estive, ci si predispone alla condivisione.

Se la montagna Italia non è franata in questo momento di crisi èperché c’è una rete basata sulla condivisione. È questo il sistema cheha impedito all’Italia di essere inghiottita dalla crisi.

Rete e condivisione. Mi paiono due concetti estremamente legatialle attuali giovani generazioni. Il successo di un individuo dipendedalla sua capacità di cogliere i vantaggi provenienti dalla rete socialeche è stato in grado di attivare intorno a sé.

Le reti sociali, amici, conoscenti, colleghi, familiari, amici diamici e il loro studio non sono questioni di oggi.

Mi riferisco all’analisi delle reti sociali a fini sociologici deglianni Cinquanta (J.A Barnes) anche se tali studi risalgono a un pas-sato ancora più lontano se si considera il lavoro di Eulero e la sua teo-ria dei grafi del 1736, che è alla base della teoria delle reti e se pensoalla mia esperienza non ho dubbi sulla crucialità del loro ruolo.

La gestione automatizzata delle reti sociali attraverso i social

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I giovani, la cultura, la rete, il teatro

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network per esempio, protagonista dell’attuale rivoluzione del web,potrebbe rappresentare una via di salvezza e allo stesso tempo una so-luzione all’oppressione di noi “vecchi”.

Devo infatti constatare con amarezza che la mia generazione hauna forte incapacità di allontanarsi dalle posizioni di potere e investireconcretamente sui giovani, che dovrebbero imparare a cogliere e utiliz-zare l’opportunità più significativa che la rete offre: la meritocrazia.

Oltre che democratica, la rete è straordinariamente meritocraticae al suo interno il concetto di leadership tende a sgretolarsi e a perderedi significato.

Tutti ad armi pari. Tutti ai nastri di partenza con le medesime pos-sibilità. Chiunque può trovare il suo modo di far fruttare questo rap-porto. Dico ai giovani di investire lì, nel loro mondo.

È il luogo delle loro idee e dove le passioni possono trasformarsiin magiche esperienze umane e professionali

Partite da lì. Sfruttate le occasioni che i vostri genitori non ha avuto la possi-

bilità di cogliere.E quando ci sarete… parlate di arte, cultura e teatro.

(Andrée Ruth Shammah, direttrice Teatro Franco Parenti, Milano)

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Il vento del cambiamento

Roberto Siagri

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Ci sono dei modelli all’interno della leadership d’impresa chepossono essere estrapolati ed esportati anche al sistema pubblico; d’al-tra parte ci sono delle imprese multinazionali che hanno strutture di-mensionali paragonabili alla popolazione di grandi città.

Credo che a livello politico manchi una vera cultura della leader-ship, e non per caso. Il tema della leadership è strettamente legato aquello dell’innovazione: il leader è il catalizzatore di una dinamica tra-sformativa. Il termine classe dirigente rivela invece una dimensionepiù decisamente statica e conservativa. Uno sguardo verso i Paesi chemostrano più vitalità sociale rivela la presenza di meccanismi di fun-zionamento della leadership politica più dinamici e trasparenti, checonsentono una sufficiente fisiologia di ricambio, favorendo lo svi-luppo di una dinamica sociale viva, vibrante, nella quale esiste un mec-canismo di ricambio del potere sia politico che economico. Cercare diinterpretare il futuro, e non conservare il passato, è il compito vero delleader, che è dunque l’apripista su una via non ancora percorsa.

Il leader non può essere nominato dall’alto ma deve emergere dalbasso; ciò è però possibile solo in un contesto meritocratico e fondatosulla selezione delle qualità e non sulle rendite di posizione o di appar-tenenza a caste corporative. Un leader vero non deve seguire le scor-ciatoie del populismo e del facile consenso, ma si deve plasmare su unimpasto di sana legalità e virtuosa eticità. Il potere che viene ricono-sciuto al leader può trasformarsi in elemento pericoloso, come la sto-ria ci ha purtroppo insegnato con esempi estremi di leadership chehanno condotto intere nazioni al disastro. Noi tutti ci muoviamo den-tro l’orizzonte di uno scenario mobile: l’etica è storica, si trasformanel tempo e contribuisce a dare una direzione alle coordinate morali diun popolo, di una nazione; ma anche la leadership si fonda sull’attitu-dine al prefigurare la metamorfosi sociale e culturale, assecondando estimolando i fattori più produttori d’innovazione.

È per questo che la politica è fondamentale: perché a essa spettauna supervisione sui modelli di società a cui si va incontro. Alla po-

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litica spetta il primato nella funzione del trasformare la società, e lodeve fare non disorientando ma motivando alle riforme, in un conte-sto di rispetto del valore dell’equità e delle pari opportunità. Il rap-porto tra tattica e strategia deve essere equilibrato e sostenibile: allapolitica spettano le scelte tattiche per gestire nel modo più efficace opiù indolore l’impatto delle riforme necessarie sul sistema sociale.

Si tratta di accompagnare e seguire con la massima cura il per-corso verso un futuro di trasformazioni epocali per il Paese. Il per-corso della politica è spesso tutt’altro che lineare, spesso è una sortadi detour, una circumnavigazione piuttosto che una linea retta. Ser-vono dei sensori strategici sul futuro, ma anche grande pragmatismotattico per gestire la tempistica della trasformazione. Spetta innanzi-tutto alla politica il compito non facile di sincronizzare l’evoluzionesociale con quella tecnologica, quella valoriale con quella economica.

Il leader deve strutturale la propria forma mentis, la propria reteneurale, con la consapevolezza olistica dei rischi a cui si espone ognisua decisione, ogni presa di posizione che investe una pluralità inter-connessa di effetti interdipendenti. Coraggio ma responsabilità, velo-cità ma ponderazione di tutti gli eventuali corollari di ogni possibileopzione: questa deve essere la modalità di decision making, l’intelli-genza specifica della leadership. Si può ricorrere alla metafora dell’ar-rampicata: vi sono dei passaggi obbligati, con un’alta probabilità disuccesso, che però comportano comunque un rischio. L’importante èriconoscere il rischio, misurarlo con dei parametri il più possibile og-gettivi, per arrivare ad agire consapevolmente. Il leader può sbagliare,ma deve avere consapevolezza critica della modalità e della ragionedell’errore. È fondamentale impiegare l’errore come strumento di ap-prendimento, imparando a calibrare degli aggiustamenti progressiviper non arrivare a commettere errori irreparabili. Connessa alla re-sponsabilità c’è la questione di chi effettivamente paga il prezzo del-l’errore del vertice. L’errore di un leader tende a determinare effetti suuno spettro ampio, a volte enorme, di persone. In un caso, come quelloche deve affrontare il governo tecnico del Presidente Monti, eviden-temente l’alternativa è il default nazionale, per cui diventa quasi ob-bligato il percorso da compiere se non si vogliono subire determinateconseguenze. In scelte a chiara struttura binaria l’onere della scelta di-venta un dilemma meno ambiguo, anche se non meno duro: è questala struttura a imbuto del momento che l’Italia sta vivendo.

Una definizione che trovo perfetta è quella secondo cui “leader èchi ti fa fare delle cose che non vuoi fare nel tuo stesso interesse”. Que-sto tipo di leadership è proprio quella che è mancata in Italia negli ul-

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timi anni e di cui oggi il Paese ha una necessità vitale. Una delle carat-teristiche della leadership consiste nella necessità in molti casi di man-tenere una discreta dose di asimmetria informativa: non è necessaria,è anzi potenzialmente deleteria, la libera circolazione di alcune infor-mazioni particolarmente delicate che potrebbero contribuire a diffon-dere il panico. In determinate situazioni è quasi doveroso da parte delleader il conservare nel chiuso delle segrete stanze del potere determi-nate informazioni. Una gestione selettiva della conoscenza è indispen-sabile in alcuni settori o condizioni. Il leader ha bisogno di motivare lepersone per ottenere il massimo, e a volte questo richiede una gestioneselettiva delle informazioni secondo una scala di utilità.

Mantenendoci nella similitudine tra leadership e arrampicata èutile fare un’ulteriore considerazione: una scalata senza chiodi è unaperformance individuale che richiede forte carattere, ma non necessa-riamente attitudine alla leadership. Per fare una grande arrampicata insolitaria non è richiesto di essere leader: il leader è invece colui che sadare il meglio di sé in un contesto di team. Il leader è più assimilabilealla guida in una salita in gruppo, che ha la responsabilità di condurregli uomini in sicurezza, non perdendone per strada nemmeno uno emotivandoli a salire secondo un passo diverso per ciascuno. Anche quivale una massima come quella secondo cui: “se vuoi andare veloce vaida solo, se vuoi andare lontano vai in gruppo”. Per meno del cinquantaper cento la leadership dipende da fattori personali, caratteriali, di pre-disposizione, e per la maggior parte dipende dai vissuti esperienziali,dagli incontri fatti, dalle situazioni relazionali che ne agevolano con iltempo la maturazione. Il leader è colui che porta la luce a un grupposmarrito in una stanza buia. Così come si viene riconosciuti dagli altriper diventarne leader, altrettanto si deve essere disposti a riconoscerecon se stessi i propri limiti ed essere pronti ad accettare, al momentogiusto, un nuovo leader in grado di sostituirci.

Non bastano solo doti intellettuali per diventare leader, ma piut-tosto è opportuno il possesso di un buon equilibro tra quoziente di in-telligenza cognitiva (Q.I.) e quoziente di intelligenza emotiva (Q.E.).In una impresa tecnologica la leadership è condizionata dalla presenzadi un minimo di competenze tecniche, altrimenti è necessaria una reg-genza duale, un magico duo retto da un perfetto equilibrio e ricono-scimento reciproco, dove l’inventore ha capacità tecnica e l’innovatoreha leadership vera e propria. L’innovatore ha bisogno dell’inventoreperché è quest’ultimo che vede la strada; anche se non sa con qualestrumento affrontarla, l’inventore prepara gli strumenti, i dispositiviche servono per entrare nel futuro; ma l’implementazione spetta al-

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l’innovatore. In assenza di una leadership di tipo duale, l’innovatoredeve disporre, perlomeno nella fase iniziale, di una sufficiente com-petenza tecnica e deve anche saper riconoscere i propri limiti, non ri-nunciando ad avvalersi delle competenze dei collaboratori. Oltre alfondamentale Q.E. è indispensabile un livello di Q.I. per poter com-prendere le chiavi fondamentali del business o del problema in esame.

È altrettanto importante per il leader non circondarsi da yes mano meri esecutori, ma di persone in grado di collaborare con una men-talità aperta e un piede già nel futuro. È indispensabile la presenza disintonia, di una sorta di affinità elettive che rivelano una medesima vi-sione del mondo tra leader e staff di collaboratori. Si tratta di personein grado di rendersi conto se il leader sta deviando dalla coerenza conla propria visione del mondo. Il controllo e lo stimolo proveniente daipropri uomini rappresenta la migliore garanzia per continuare a man-tenere la giusta direzione nel momento cruciale delle decisioni, senzacedere a compromessi o accomodamenti. La lettura degli elementidella storia, o del reale, dipende dalla lettura del futuro: la lettura nelpresente di un segnale debole, capace di rivelare tendenze a venire,non viene interpretato da tutti nella stessa maniera; basti pensare chenel mercato finanziario sono sempre presenti contemporaneamenteletture diverse e contraddittorie sui medesimi fenomeni, al punto chesulla base dello stesso fenomeno c’è chi decide di comprare e chi de-cide di vendere. Proprio per la natura ambigua nella lettura del futuroe nella predizione dei trend a venire diventa indispensabile per il lea-der il circondarsi di uomini con cui condividere una interpretazione euna progettualità del futuro. Il leader ha necessità di avvalersi di chiè in grado di suggerire una correzione in corso d’opera della dire-zione o delle decisioni prese. Per la parte più tecnica invece si può ri-correre a consulenti, che hanno expertise su un argomento ma con iquali non c’è necessariamente quella condivisione per la strategia fi-nale. È fondamentale che gli stretti collaboratori dello staff abbianol’onestà intellettuale e il coraggio di dichiarare se il progetto decisodal leader è realistico o se è una pura chimera irrealizzabile. A que-sto proposito, come diceva Roosevelt: “Occorre guardare alle stellema con i piedi per terra”. Si tratta di aprire la mente, di formarsi allatolleranza alle soluzioni imperfette: se infatti dobbiamo misurare tuttocon gli strumenti della percezione rischiamo di rimanere troppo incol-lati al presente e divenire schiavi del realismo e incapaci di contem-plare il possibile. Si deve raggiungere un sano equilibrio tra l’esseretroppo ancorati al presente e l’essere troppo sbilanciati sul futuro.

L’innovazione non è tanto un fattore tecnologico quanto socio-cul-

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turale. Se la società non è aperta al cambiamento e non dispone di unamobilità interna non può ricevere l’innovazione: sarebbe una contrad-dizione in termini. Per questo non è detto che una società con tante in-venzioni sia necessariamente una società innovativa. L’innovazione èun’invenzione che entra nel tessuto sociale ed economico ed è in gradodi trasformare abitudini, usi e costumi. In Italia le aziende a corto di de-naro, con un credito di rischio troppo stretto, non possono permettersila strategia a lungo termine fondata sul perseguimento dell’obiettivo in-novativo, ma devono concentrarsi esclusivamente sulla tattica di con-tinui aggiustamenti per riuscire a sopravvivere. Un’impresa che vivenel flusso del day by day quotidiano può mostrare grande capacitàadattiva e di sopravvivenza, ma non può rivoluzionare il mondo.

Dobbiamo puntare più sulle opportunità che sulle garanzie. IlPaese è ancora troppo rigido e incapace di vera flessibilità per potereguadagnare sufficiente competitività. È troppo protetto dentro castedifensive che ne ingessano la dinamica sociale e l’autentica meritocra-zia. Serve maggiore mobilità nel mercato del lavoro, compensata daun sistema di reti di protezione sociale equo ed efficiente, che perònon inibisca lo spirito di iniziativa degli assistiti. Bisogna riuscire atracciare, in modo inequivocabile e non ideologico, le differenze traun capitalismo buono e un capitalismo cattivo, incentivando il primoe sanzionando il secondo. Senza l’impresa non c’è crescita e non c’èfuturo per il Paese. L’impresa ha assoluta necessità dell’impegno diuomini con senso del dovere e con una spiccata etica del fare.

I motori effettivi dell’innovazione, che sono i giovani talenti, leuniversità, le piccole e medie imprese, sono stati penalizzati, sonostati lasciati ai margini da un Paese incentrato su poche grandi im-prese, su aziende in mano pubblica, sull’ipertrofia della Pubblica Am-ministrazione, sull’intoccabile privilegio del corporativismo diffuso.Il vero fattore dell’innovazione non è la torre d’avorio della ricerca,ma la mobilità delle idee, il trasferimento di conoscenza, la contami-nazione della conoscenza in una pluralità di settori disciplinari prontiad aprire filoni innovativi di applicazioni a cascata. La piccola im-presa è stata lasciata sola, ma la si è anche voluta senza controlli, po-tenzialmente anarchica. Si è troppo spesso tollerata la sistematica vio-lazione delle norme e dell’etica del buon capitalismo, con un impo-verimento del tessuto economico ma anche di quello sociale. Laleadership pubblica ha il dovere di ricominciare a offrire modelli po-sitivi di riferimento. Purtroppo spesso i modelli innovativi vengonoosteggiati proprio perché destabilizzanti, perché rompono equilibriconsolidati nel tempo. Chi è riuscito controllare il potere fino a quel

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momento vuole conservare la struttura e il blocco di potere al co-mando e tende a osteggiare i processi più profondi di cambiamentoche consentirebbero agli outsiders di ascendere al ruolo di nuovaclasse dirigente. In Italia sta scomparendo la classe sociale più attivae motivata, più in grado di costruire il nuovo, che è la classe media.

Il nostro Paese è stato troppo chiuso su se stesso, mentre noi appar-teniamo a uno spazio aperto. I ragionamenti della politica sembrano ri-ferirsi a una dimensione autarchica o separata dell’Italia rispetto alcontesto internazionale e globale. Non possiamo confinarci nell’illu-sione di una prospettiva rinchiusa su se stessa e slegata dal contestointernazionale. Molti nostri politici sono abituati, e ci hanno abituato,a considerare il mondo da una prospettiva limitata e provinciale di pic-cola faziosità. In una fase come quella attuale il pragmatismo è d’ob-bligo e va superata la fase populistica della politica degli ultimi anni.Se il leader dispone di integrità morale, coerenza esemplare e un pas-sato inoppugnabile, avendo dimostrato nella propria storia personalevirtù e credibilità, quando chiederà dei sacrifici alla società civile cisarà sempre qualcuno disposto a seguirlo in un percorso faticoso.

Il problema principale degli Italiani come comunità collettiva èsempre la scarsa volontà ad assumersi in prima persona gli oneri deisacrifici. L’etica civile richiede un’assunzione di responsabilità inprima persona: si deve partire da se stessi, sviluppando una coscienzaquotidiana del fare fondata sull’imperativo categorico kantiano deldovere assoluto. Invece si cerca sempre una giustificazione al mancatoimpegno, motivandolo con il supposto disimpegno degli altri. Si vaalla ricerca della colpa esterna a sé, si rivolge l’accusa agli altri senzapartire dall’esame interiore e personale. La dietrologia, il complotto,la ricerca di un nemico esterno sfociano in una escalation paranoica,che trova sempre un capro espiatorio per tutte le colpe e le ineffi-cienze: la finanza internazionale, gli extracomunitari, la burocraziaeuropea, le nuove economie emergenti.

Invece di ripartire dalla rifondazione delle strutture portanti dellacoesione sociale e di un nuovo patto tra le generazioni, si tende a di-videre, ad accusare. Il vero leader, invece, è quello che riesce a uniree sintetizzare le differenze, non quello che apre un varco tra le classi,allarga le distanze tra gli interessi e divide i cittadini. Si devono affron-tare a viso aperto i problemi e le loro cause. In questi anni si sonospesso esorcizzati i problemi con un ottimismo di facciata. In unaprima fase era importante non generare il panico e cercare di evitareil disfattismo, ma si sarebbe dovuto al contempo cercare di porre ri-medio alle questioni, operando con manovre anticicliche e di sostegno

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congiunturale. Poi, a causa dell’immobilismo con cui non si è rispo-sto alla crisi del Paese, si è dovuti ricorrere alla drastica terapia di af-frontare i problemi strutturali del Paese. Non è opportuno fare del po-pulismo sulla questione delle tasse, agitando il popolo in una rivoltaantifisco, quando ci si trova di fronte a una crisi finanziaria epocale esi deve salvare un Paese dal rischio default. È poi paradossale il fattoche quelli che aizzano sono proprio coloro che hanno portato il Paesesull’orlo del baratro. In Francia la cultura della leadership non vedequella dicotomia, quella frattura tra pubblico e privato. Oltre le Alpic’è rispetto e legittimazione reciproca tra leadership pubblica e d’im-presa. C’è consapevolezza dell’importanza di creare non rotture ma si-nergie tra settore privato e pubblico, per il supremo interesse delPaese. Il settore pubblico è altamente qualificato e viene rispettatoproprio perché viene percepito come al servizio della collettività enon come un luogo dell’abuso di potere o del privilegio di casta. Il set-tore delle infrastrutture è direttamente connesso alla visione strate-gica di un Paese. C’è bisogno di darsi un disegno, di costruire un’a-genda di priorità per il futuro assetto del Paese; c’è bisogno di ricom-pattare una dimensione di condivisione, per realizzare una sintesifinalizzata al bene comune. È indispensabile superare questo modellodi contrapposizione faziosa ed esasperata, incurante delle necessitàcollettive: abbiamo vissuto una sorta di guerra politica senza fine, chedistrugge ogni possibile terreno d’incontro con la razionalità. Il nostrosistema politico ha, negli ultimi anni, prodotto una politica de factolontana dagli interessi collettivi del Paese, cha ha protetto lo statusquo molto più di quanto abbia promosso l’apertura al nuovo, gene-rando una perdita significativa di competitività internazionale.

Il mondo è ormai interconnesso: non possiamo più permetterciuna politica che ci esponga a crisi di credibilità internazionale. L’unicastrada percorribile è invece l’aprirsi con coraggio al mondo globale.Di fronte al vento del cambiamento c’è chi crea dei muri per difen-dersi dalla corrente del nuovo, laddove invece i migliori costruisconodei mulini per sfruttare l’energia del cambiamento. Spetta a chi è in-vestito dell’onere della leadership pubblica spingere il Paese a nonrinchiudersi nelle garanzie del passato, bensì a sfruttare il vento delcambiamento.

(Roberto Siagri, presidente e amministratore delegato Gruppo Eurotech)

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Il vento del cambiamento

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Ragionevole autorevolezza

Alessandro Varisco

Saper guidare un gruppo richiede di osservare il fondamentaleprincipio etico del rispetto dell’Altro, del riconoscimento della pienadignità dell’interlocutore. Non è una questione di formalismo o cor-tesia, ma significa piuttosto consapevolezza dell’identità irriducibilee del valore dell’Altro. Solo a partire da questo riconoscimento delladifferenza è possibile conservare un giusto equilibrio dialettico e unacostante curiosità verso la diversità delle opinioni che consente di ar-ricchire la cultura della leadership in un mondo a elevata complessitàe frammentazione delle competenze. Ognuno ha punti di vista, opi-nioni, sensibilità diverse: solo grazie alla capacità di ascolto e allasintesi del leader si può riuscire pienamente nel compito di armoniz-zare e mettere a fattor comune tutta la ricchezza plurale di una mo-derna organizzazione. Per essere un vero leader è necessario esseredotati di una consistenza umana, di apertura mentale, di integrità mo-rale. È fondamentale possedere grande capacità di comunicare, di dia-logare, di relazionarsi con empatia scambiando emozioni. Il ruoloprincipale del leader oggi consiste nella capacità di indurre le per-sone al cambiamento; per riuscirci è indispensabile godere della fidu-cia necessaria che permette di rompere la resistenza psicologica iner-ziale che impedisce di avventurarsi nella trasformazione.

Oggi le organizzazioni devono essere sempre più flessibili e di-sposte a innovare processi e comportamenti, perché senza una auten-tica disponibilità al cambiamento è impossibile cogliere le miglioriopportunità: il leader rappresenta il catalizzatore di questa meta-morfosi organizzativa. Il leader deve fornire quella affidabilità diforza tranquilla fondata sulla credibilità personale che favorisce la di-sponibilità ad attraversare un percorso di cambiamento. Energia po-sitiva e apertura sono gli ingredienti indispensabili per disporti alcambiamento: l’obiettivo è raggiungere una sorta di “stato di grazia”,una risonanza fondata su una relazione di scambio circolare di emo-zioni con il leader in un processo che riesce a fondare proiezioni,identificazioni, inclusione e senso di appartenenza a una dimensione

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collettiva e condivisa. Una linfa vitale, una forza di slancio verso il fu-turo: al leader spetta questo ruolo demiurgico di riuscire a plasmarela struttura sociale secondo i fini cui deve tendere l’organizzazione.La leadership è per certi versi un fatto di personalità innata davveropoco dipendente da una tecnica ma che deriva da una costituzionedella personalità intrinseca del leader. Spesso si tende a confondereautorevolezza e autorità. L’autorità deriva dalla gerarchia, dalla posi-zione e il ruolo che si occupa. Il leader deve essere innanzitutto fidu-cioso nelle proprie capacità, non deve avere dubbi sugli obiettivi chevuole raggiungere. L’autorevolezza invece proviene dall’interno dellapersona, da una confidenza in se stessi che si irradia positivamentesugli altri. Nella dimensione dell’autorevolezza si gioca la credibilitàe il senso di protezione che emana del leader.

In realtà si potrebbe decidere anche da soli ma la complessità diuna azienda è tale che diventa sostanzialmente impossibile farlo: si de-vono condividere le scelte. Oggi un genio universale e solitario comeLeonardo non è più possibile. Il leader è il direttore dell’orchestra,che detta i tempi, ma ha anche bisogno dell’apporto dei suoni deglialtri per comporre la musica. La responsabilità delle decisioni deve es-sere del leader ma altrettanto è fondamentale che nel processo deci-sionale partecipino tutte le persone coinvolte nel progetto. Il coraggioè un elemento importante perché è necessario a volte prendere deci-sioni che non sono popolari, a volte anche andando contro il consensoa tutti i costi.

La capacità di andare controcorrente fa sempre più parte della di-mensione della leadership. Essere differenti è la chiave vincente perun leader, rischiando oltre il conformismo. Un leader temerario è statosicuramente Steve Jobs ben caratterizzato da un imperativo come “Bedifferent”. Aprirsi verso nuovi modelli di pensiero, nuovi paradigmi diazione, sapendo vedere oltre è la chiave per interpretare una leader-ship visionaria in grado di trasformare la realtà. La parte del calcolo,pur non essendo irrilevante, è comunque marginale, l’organizzazionesi gestisce oggi con l’intuizione creativa. La parte razionale di con-trollo assume una rilevanza minore e comunque a seguire: senza sa-pere dove dirigere la propria direzione, le azioni di controllo e meragestione perdono qualsiasi utilità.

In Italia dal punto di vista dell’etica pubblica abbiamo visto un pe-riodo atroce, sentiamo il bisogno di una catarsi collettiva. Nel sistemapubblico in questi ultimi anni hanno prevalso non gli interessi pubblicima quelli privati o di lobby. La classe politica si è trasformata in unacasta di intoccabili avulsi da qualsiasi contatto con la realtà dei pro-

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Ragionevole autorevolezza

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blemi dei cittadini. L’assenza di ricambio nelle organizzazioni pubbli-che rappresenta un fattore che incide sulla vitalità dell’organizzazione,che tende a perdere energie e capacità di adattamento al cambiamento.Manca il ricambio nel sistema politico: si parla di Prima o Seconda oaddirittura di Terza Repubblica ma non si vede un ricambio dei volti alpotere, che rimangono sempre gli stessi, solo più invecchiati e imbol-siti nei loro privilegi: una decadenza quasi biologica dell’organismopolitico ormai affetto da una sorta di malattia degenerativa e in crisi dilucidità. Le regole devono cambiare. Chi diventa parlamentare e nonè un leader di partito o di una corrente, si ritrova a essere ridotto allariduttiva funzione di schiacciare un pulsante e votare troppo spesso se-condo le indicazioni delle segreterie dei partiti o del gruppo parlamen-tare di appartenenza. La massima “conoscere per deliberare” rimanefrequentemente inapplicata da parte dei nostri rappresentanti in Parla-mento, dato che in molti casi votano senza sentire il dovere etico didocumentarsi o senza disporre di sufficiente competenza sulle mate-rie su cui esercitano il proprio voto. Si è assistito a un progressivo de-cadimento del livello medio di qualità del personale politico, sempremeno competente, sempre meno disponibile ad approfondire e dibat-tere con cognizione di causa le questioni sottoposte all’esame parla-mentare. Quello della politica è diventato un circolo, un club di habi-tué, sempre più chiuso, dove si può entrare solo su invito da parte deimembri del club. Il sistema dell’attuale legge elettorale infatti funzionacon un criterio di nomina dall’alto da parte dei potenti del partito, piut-tosto che secondo il criterio elettivo delle preferenze espresse dal po-polo sovrano. In Inghilterra l’accoppiata Cameron e Clegg raggiungeinsieme più o meno l’età dei nostri leader politici. Noi abbiamo unproblema di ricambio generazionale che rappresenta un danno enormealla democrazia e allo sviluppo di idee fresche e innovative per il Paese.La partitocrazia italiana ha contribuito scientemente a creare barriereall’entrata per auto-conservarsi in un circolo di eletti conservatori, senon in quanto a idee, di fatto, per ragioni anagrafico-corporative. In unmomento in cui si parla di villaggio globale, di apertura alla nuova tec-nologia, noi abbiamo protetto e consolidato un sistema politico auto-protetto a chiusura stagna. Le liste dei partiti selezionano fedeli scu-dieri invece che nuovi potenziali leader. È un problema che si auto-in-viluppa in un circolo vizioso senza discontinuità.

Se analizziamo la genesi di questo governo non possiamo non con-venire sulla definizione di un quotidiano autorevole come il FinancialTimes che lo definì come governo del Presidente. Poco prima di venirincaricato da Napolitano, Mario Monti viene nominato Senatore a vita

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dal Presidente con un tempismo certamente non casuale. Nel caso delgoverno tecnico devo dire che purtroppo non mi sembra si sia vistosin qui un grande sforzo per mobilitare crescita e sviluppo. Sono au-mentate le tasse senza poter percepire un miglioramento dei servizipubblici. Se le tasse sono il peso che grava sui cittadini per usufruiredi servizi pubblici, allora in relazione alla pressione fiscale attuale do-vremmo godere di servizi ai massimi livelli e invece accade esatta-mente contrario. Non si è assistito a una svolta davvero significativa sulpiano delle riforme strutturali del sistema pubblico. C’è bisogno di unarivoluzione culturale. Ci vuole un limite di tempo agli incarichi poli-tici: la politica non è un mestiere e come tale non deve essere interpre-tata. Il rischio è che i partiti politici non possano assecondare fino infondo la direzione imposta da Monti perché altrimenti diventerebberodegli esecutori testamentari della stessa classe politica. Serve una lea-dership moderna in grado di fondarsi su valori antichi come l’onore eil rispetto, che insieme sono in grado di costituire un comportamentoetico. Senza questo difficilmente è possibile creare una vera culturaetica della leadership. A questo si deve aggiungere la capacità di do-tarsi di obiettivi chiari, una visione lungimirante con un approcciopragmatico e sintonizzato sul cambiamento. Serve pro-attività unita aottima capacità anticipatoria per predisporsi con la massima flessibi-lità ai cambiamenti globali ed epocali. Da un lato dunque valori anti-chi come onore e rispetto e poi anche una olimpica serenità e coerenzarispetto alle pressioni di forze che derivano da lobby o da poteri forti.

Abbiamo bisogno di reinventarci senza perdere la nostra identità.Non “cambiare per cambiare” ma con la convinzione dell’indispensa-bilità della necessità del cambiamento per essere davvero in sintoniacon i veri bisogni e le istanze della società contemporanea. Dobbiamopartire dalla ripresa della nostra capacità italiana di influenza culturalesul mondo globale. Questa crisi è come una tigre, per batterla bisognasolamente imparare a correre più veloci dei nostri concorrenti.

(Alessandro Varisco, direttore generale Moschino)

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Ragionevole autorevolezza

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Lo scandalo della verità

Elio Veltri

Non ci può essere leadership pubblica in assenza di visione: ma-lauguratamente, in questo Paese, il progetto è il grande assente. Nes-suno dispone di una idea sulla società a venire, e nemmeno di un con-seguente programma di governo in grado di dare vita e concretezzaalla visione. Al progetto spetta di indicare il traguardo, mentre al pro-gramma di stabilire percorso, tappe intermedie, priorità, scadenze ingrado di valutare il raggiungimento di obiettivi intermedi e finali. Amancare è prima di tutto un metodo, un modello razionale di deci-sione e di leadership. Un progetto deve infatti prevedere termini tem-porali, strumenti attuativi anche dal punto di vista amministrativo, in-dicando puntualmente come e dove reperire i finanziamenti neces-sari ad attuare il programma. Ogni vera riforma non è mai indolore,non è a costo zero, ma deve indicare con chiarezza con quali criteri epriorità distribuire finanziamenti e oneri: deve scegliere, senza va-ghezza, a chi concedere e a chi togliere risorse, deve chiarire dove re-perire i fondi necessari: serve innanzitutto onestà intellettuale; matutto questo la politica l’ha volutamente dimenticato da anni.

In Italia, nella politica e nella pubblica amministrazione, vale adire nel governo centrale, regionale, negli enti locali e negli enti apartecipazione pubblica, il principio sacrosanto della presunzione diinnocenza è però stato enfatizzato e strumentalizzato fino a diventareun alibi e una copertura per tutte le nefandezze e i reati commessi daipubblici funzionari. A questo proposito ricordo che nel periodo imme-diatamente seguente alla troppo breve stagione delle inchieste di“Mani pulite”, già nei primi anni della Seconda Repubblica, si è im-posto un messaggio, per responsabilità non solo del centrodestra, maanche della compiacente complicità del centrosinistra, secondo cui ilsacrosanto pieno garantismo nei confronti degli imputati si dovesseestendere anche al ruolo del politico. La distinzione tra indagato, im-putato e condannato è, a mio avviso, legittima e necessaria nei con-fronti del semplice cittadino, ma non si deve estendere all’eserciziodelle funzioni del politico, per cui non dovrebbe bastare il fatto di

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non essere formalmente ancora condannato in via definitiva per sen-tire il dovere di rassegnare le dimissioni dal ruolo istituzionale. Il ga-rantismo è il fondamento della tutela del cittadino, ma il politico devemostrare di essere al di sopra anche del semplice sospetto. Addirit-tura la retorica del garantismo verso i potenti, abilmente rinforzata adarte da parte di campagne di stampa di parte orchestrate e gestite confinalità di tutela ad personam, è arrivata a mostrare tolleranza invo-cando la presunzione di innocenza anche nel caso di politici condan-nati già in due gradi di giudizio per associazione mafiosa, ancora deltutto comodamente seduti sulle poltrone di istituzionali più presti-giose. Da una sana cultura liberale e garantista ci si è spinti verso l’ol-tranzismo iper-garantista, incuranti del vilipendio perpetrato alla di-gnità delle istituzioni oltraggiate da simili reiterati comportamenti dimancanza di dignità morale e politica. Questa cultura ultragarantistanei confronti dei titolari di incarichi pubblici si è rivelata alla lunga de-vastante, delegittimando il senso della dignità della funzione politicanel suo insieme e disorientando la pubblica opinione. Solo ora, sullaspinta di una nuova ondata di indignazione collettiva, i politici rico-minciano di nuovo a temere la pubblica opinione, a vergognarsi nelleloro auto-tutele corporative fondate su una interpretazione estensivadel concetto di fumus persecutionis tutte le volte che una inchiestapenale lambisce la sfera della politica. È diventato persino arduo te-nere l’esatta contabilità di quante sentenze di merito, primo e secondogrado, sono in attesa di conferma o rigetto presso la Cassazione: ab-biamo un Parlamento pieno di politici con condanne in primo gradoo in appello per reati gravi. Ma la sentenza da parte degli elettori do-vrebbe, quanto alla candidatura di un politico, valere sin dal primogrado di giudizio salvo prova contraria. In tutti gli altri Paesi europei,essere scoperti a copiare una tesi di laurea o aver ottenuto un finan-ziamento agevolato comporta le dimissioni. Se invece dovessimo mi-surare il tasso di fiducia dei cittadini italiani nei loro rappresentanti inParlamento, si dovrebbe dimettere in toto l’intera classe politica, se nedovrebbero andare tutti a casa, e invece non si muove mai nessuno,tutti a seguire letteralmente la massima: hic manebimus optime.

L’altro fattore devastante che ha contribuito ad amplificare in ne-gativo la deriva e l’abbruttimento linguistico di questa pessima politicaè stata la banalizzazione operata dalla televisione. Il progetto politicoe il programma di governo sono strumenti che sia nella loro elabora-zione che nella loro gestione richiedono tempo, richiedono contributiintellettuali e tecnici di qualità e livello, richiedono riflessione accuratae razionalità, non si può improvvisare il progetto di sviluppo di una

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nazione, di una regione, di una città a uso e consumo di un format te-levisivo. La televisione con il suo populismo e il suo oblio in temporeale diventa lo strumento non per mostrare le menzogne del potere,ma per consolidare la popolarità da avanspettacolo dei suoi protagoni-sti da caricatura. La politica volendo utilizzare la televisione alla finene finisce metabolizzata in un “usa e getta” quotidiano, che alla fineridicolizza ogni pretesa di dignità e serietà della funzione politica.

Le parole richiedono coerenza, è indispensabile chiedere contodelle promesse non mantenute dalla politica. Secondo il premio NobelOctavio Paz: “La corruzione del linguaggio è peggiore della corru-zione politica amministrativa e imprenditoriale”. Aggiunge poi lo scrit-tore messicano: “Un paese si corrompe quando si corrompe la sua sin-tassi, perché finisce di comunicare”. A questo proposito, un allievodomanda a Confucio: “Maestro, se lei dovesse governare, quale sa-rebbe la sua prima legge?”. “La prima legge sarebbe sulla comunica-zione e sul linguaggio perché se le parole perdono la corrispondenzacon la concretezza delle cose, se i nomi non hanno più significato, nonsi può più governare”. Non possiamo negare che in Italia nel linguag-gio televisivo e giornalistico e più in generale dei media nell’ultimoventennio si è verificata davvero una tendenza alla corruzione del lin-guaggio che ha non solo rispecchiato, ma per certi aspetti amplificato,la corruzione della morale pubblica.

Il nostro è il Paese dell’ingratitudine politica che, mentre è ca-pace di assuefazione e di omertà verso il degrado più palese della vitapubblica, non è disposto a concedere nessun riconoscimento per lepersone che hanno denunciato con venti anni di anticipo il vilipendiomorale delle istituzioni, l’impasse dei partiti, il processo di illegalitàpervasiva, la corruzione devastante, il controllo del territorio da partedella criminalità organizzata che infesta una parte consistente dell’e-conomia e della struttura sociale del Paese. Non c’è stato nessun meaculpa, nemmeno da chi è stato colto in flagrante: la negazione siste-matica è l’arma mistificatoria che insieme alla “macchina del fango”e della disinformazione organizzata ha ostacolato l’affermarsi di ungiudizio obiettivo sui fatti di questo Paese negli ultimi due decenni.

Nel mio libro I soldi dei partiti affronto queste tematiche da unpunto di vista più freddo e sistematico. Il volume scritto con France-sco Paola si apre con le cifre a caratteri cubitali sui soldi che i partitihanno ricevuto a partire dall’istituzione del finanziamento pubblico,dal ’74 a oggi: 8 miliardi di euro tra finanziamento ai gruppi parla-mentari di Camera e Senato e finanziamenti ai giornali di partiti. L’en-tità della cifra è clamorosa, e lo è a fortiori se si pensa che il finan-

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ziamento è stato cancellato dal referendum del ’93 e che è poi statodisatteso con una operazione nominalistica, che chiamandolo in altromodo, come rimborso delle spese elettorali, lo ha di fatto resuscitatoarrivando addirittura a quadruplicarlo in dispregio assoluto alla vo-lontà popolare. Nei partiti non ci sono nemmeno più i contributi deimilitanti perché i militanti stessi sanno che i partiti non ne hanno bi-sogno perché sono pieni di soldi.

In Germania il finanziamento privato ai partiti è più consistentedel finanziamento pubblico, in più il finanziamento pubblico dipendedalla percentuale del finanziamento privato, così se i militanti, i sim-patizzanti, i sostenitori, non fanno donazioni ai partiti, questi non rice-vono nemmeno finanziamenti pubblici: perché il finanziamento pub-blico costituisce una aliquota dello 0,30% del finanziamento privato. InFrancia il finanziamento privato è consistente, vuol dire che sono par-titi che hanno ancora una base militante e un legame reale con la lorobase. Sono sostenuti dai loro elettori. In Italia ci sono situazioni di-verse: partiti come la Lega o l’Italia dei Valori che vivono interamentecon il sistema del finanziamento pubblico e altre formazioni che vi-vono con il finanziamento pubblico per il 90% delle loro attività. Unodei motivi per cui era stato introdotto il finanziamento pubblico eraquello di incentivare la partecipazione popolare alle scelte dei partiti,ognuno secondo le proprie convinzioni: tutto questo è oggi scomparso.C’è stata una esplosione di familismo amorale all’interno dei partiti: sisistemano i figli, i parenti, gli affini. Si fanno affari e li fanno fare aiparenti, agli amici, all’amante. C’è una sfrontata commistione tra fami-glia, affari e politica del tutto inaccettabile e insostenibile. Contro ilnepotismo nelle assunzioni o negli appalti pubblici non è necessariol’intervento del giudice penale, sarebbe sufficiente l’etica e la deonto-logia. La sanzione penale avviene solo quando il reato è già stato con-sumato, quando il fatto è già avvenuto. L’etica non è retroattiva comel’azione penale ma è preventiva rispetto alla coscienza dei cittadini edella classe politica.

Il mio libro Milano degli scandali, scritto con Barbacetto, uscì nel’91, un anno prima di “Mani pulite”. Stefano Rodotà scrisse una intro-duzione bellissima per il libro. Nel volume era riportata una citazioneda un straordinario apologo di Italo Calvino sull’onestà nel paese deicorrotti che mi piace ricordare: “C’era un paese che si reggeva sull’il-lecito, un paese in cui tutte le forme di illecito, da quelle più sornioni aquelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità,compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano tro-vare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sen-

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tirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanime-mente felici gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sem-pre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attri-buire: gli onesti. Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione,erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, ticnervoso, insomma non potevano farci niente se erano così, se le coseche stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, sela loro testa funzionava sempre in base a quei meccanismi che colleganoil guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria allasoddisfazione di altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sem-pre con la coscienza a posto gli onesti erano i soli a farsi sempre degliscrupoli, a chiedersi ogni momento che cosa avrebbero dovuto fare.”

Ogni Paese è il risultato della sedimentazione della sua storia, noinon abbiamo fatto mai la rivoluzione come gli inglesi, gli americani,i francesi. Abbiamo avuto solo vani e sterili moti di ribellismo: infondo la verità è che nel nostro Paese l’imperio della legge non hamai prevalso sull’imperio degli uomini. C’è anche una componentecontroriformista nella storia italiana, abbiamo combattuto la riformaprotestante e la sua etica puritana. Nel DNA della nostra storia mo-derna manca la lucidità illuministica e la razionalità e la liberta di giu-dizio individuale.

I partiti che ci accusano di giustizialismo, termine improprio e dinatura sudamericana, che non centra nulla con la nostra cultura dellagiustizia, non si sono resi conto che, invocando sempre l’attesa dellesentenze definitive e passate in giudicato, per procrastinare la deci-sione di cacciare dal partito gli indagati, alla fine, proprio a causa delproprio tatticismo involontariamente, hanno finito per delegare in totoa un corpo esterno, come quello della magistratura, la selezione delleloro classi dirigenti. Proprio i partiti che si sono trincerati dietro l’at-tesa del giudizio di Cassazione, con una micidiale nemesi della sto-ria, si sono ritrovati a subire e a far dipendere dall’azione della magi-stratura il destino delle proprie candidature: invece che fare da subitopulizia al proprio interno, in base a un codice etico, si è dovuto subirela selezione del codice penale: è questo il contrappasso di chi ha ri-fiutato di far pulizia dentro il proprio partito. L’unico criterio che haprevalso all’interno dei partiti negli ultimi trent’anni è stato quellodella fedeltà interna assoluta, del conformismo interno, perché le sto-rie personali, la coerenza, le capacità, l’etica, la trasparenza nei com-portamenti e il principio di assunzione di responsabilità non hannocontato per nulla: se arrivava la sentenza di condanna il politico diturno prudentemente lo si metteva in un angolo per poi venire ripor-

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tato in auge non appena passata la bufera e l’attenzione mediatica. Il sistema delle primarie può costituire uno strumento di rinnova-

mento fondamentale per la democrazia interna dei partiti a patto dinon rappresentare solo una facciata, il vestito buono da mostrare solonei giorni di festa. Le primarie possono funzionare davvero solo se ac-compagnate da una continuità democratica nella vita interna dei par-titi e un’apertura vera nei confronti della società civile, ripristinandola vitalità del dibattito con le istanze della comunità dei cittadini. Sei partiti invece vengono sono costituiti come oligarchie o addiritturapartiti personali in cui il capo controlla le candidature, e attraverso diesse il destino politico dei membri del partito, a questo punto la ven-tata di novità e vitalità democratica delle primarie non può essere inrealtà sincera e significativa.

Monti è un uomo di cultura, internazionale, sottilmente ironico esoprattutto rispettato. Si è fatto un grande salto in termini di credibi-lità e serietà con Monti al governo. È competente, sa di cosa parla, èincisivo e diretto. Dopo l’entrata in carica del governo Monti secondome i comportamenti sono cambiati: Monti è un tecnico ma soprattuttoun finissimo politico che ha dato una svolta ai rapporti europei. Nono-stante la durezza dei provvedimenti del governo, l’opinione pubblicaè stata in gran parte favorevole al governo. Con il passare dei mesiperò si è rafforzata l’azione di logoramento del governo da parte deipartiti che lo sostengono. Il rischio è che lo stesso Monti venga impri-gionato e isolato anche rispetto alla pubblica opinione, perché i partitisono incapaci di riprendere un qualsiasi rapporto con il Paese reale. Inogni caso, dopo questa esperienza di governo, le cose non potrannopiù rimanere uguali: niente rimarrà come prima. Il problema è che seanche Monti ci potrà traghettare fuori dalla crisi, dovrà riconsegnare ilPaese a questi partiti e ciò sarebbe una vera catastrofe. La legge elet-torale i partiti forse la cambieranno, ma se i partiti rimarranno al lorointerno invariati, anche con la migliore legge elettorale del mondo, nonrisolveranno i nodi cruciali della funzione politica. In Inghilterra lalegge elettorale c’è dal dopoguerra, in Germania l’ha fatta Adenauer,in Francia De Gaulle. I partiti non sono il medico ma la malattia, ab-biamo creduto di risolvere il problema cambiando ripetutamente lalegge elettorale sperimentando modelli diversi ma senza sostanziali etangibili soluzioni. Una buona legge elettorale può aiutare ma non puòsostituirsi alla necessaria e urgente riforma dei partiti e della politica.

L’unico antidoto democratico a questa omologazione terrificante, aquesta globalizzazione finanziaria che antepone le ragioni della finanzaall’economia reale e comprime i livelli di autonomia dei territori, è un

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Lo scandalo della verità

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potere locale fondato su un sano equilibrio di sussidiarietà e partecipa-zione delle comunità. Ci sono due concetti fondamentali: democraziapartecipata e democrazia diretta, se non si possono realizzare a livellocentrale – non siamo più infatti nell’Atene di Pericle, ma in una na-zione di 60 milioni di abitanti – però si possono concretizzare a livellodi governo locale: democrazia partecipata, bilanci partecipati, strumentidi democrazia diretta a livello territoriale che si devono coniugare conrisposte efficienti ma non isolate su se stesse. Questo a livello locale sipuò realizzare, per questo invito sempre i giovani a candidarsi nei co-muni, nei quartieri: si tratta di esperienze fondamentali per sperimen-tare la passione della politica autentica. La differenza tra un sindaco èun ministro consiste nel fatto che il ministro produce carte mentre ilsindaco opere. Bisogna ricominciare con volti nuovi, freschi, magariingenui ma onesti. Una volta il cursus honorum della carriera politicacominciava da sindaco, consigliere provinciale, regionale, fino al par-lamento, insieme alla militanza politica vera vissuta in sezione. In Fran-cia non c’è un ministro che non abbia fatto il sindaco. Mitterrand, cheè stato per trent’anni sindaco di un paese di tremila abitanti ricordavasempre: “Non puoi stare bene all’Assemblea Nazionale se non hai lescarpe impolverate della polvere della provincia”. È con questa polvereche si dovrebbe ricominciare a valutare l’autenticità e la genuinità e laconcretezza dei politici e degli amministratori delle future generazioni.

(Il testo completo è su www.democrazialegalita.it)

(Elio Veltri, presidente Associazione Democrazia e Legalità)

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Michele Vinci

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La mia leadership ha avuto un’origine tecnica più che aziendalee tuttora avverto l’influenza della mia formazione e del mio retroterraculturale: pur dirigendo la mia società da decenni, sono ancora por-tato a seguire gli aspetti tecnici della produzione, a sentirmi più unideatore di soluzioni tecnologiche che un organizzatore di processi oun uomo di relazioni o di marketing.

Credo che il leader non possa esimersi da precisione, focalizza-zione, competenza: il leader deve prima di tutto conoscere e saper se-lezionare, deve avere in mente esattamente quello che vuole ottenere,perché il tempo gioca un ruolo fondamentale nelle scelte. Il leader è unanticipatore, è colui che sa aprire nuovi spazi, che lascia la polvere die-tro ai cosiddetti followers, i suoi inseguitori: dovendo affrontare stradesconosciute deve possedere una predisposizione ad addentrarsi in luo-ghi ancora privi di certezze ma ricchi di potenziali opportunità.

La credibilità e l’autorevolezza del leader nascono dalla capacitàdi dare l’esempio, richiamano persone e collaboratori di talento e altempo stesso costituiscono gli ingredienti della gestione delle risorseumane. Infatti, nella misura in cui gode della stima e fiducia altrui, ri-cambiandole a sua volta, il leader non ricorre a toni imperiosi o attiprepotenti per affermarsi: il suo carisma passa attraverso un linguag-gio diretto e rispettoso, a volte persino attraverso un semplice sguardo,e il suo punto di vista prende corpo in argomentazioni chiare e benfondate. In questo modo il leader non solo ottiene un’adesione con-vinta e consapevole, ma evita anche strascichi di incomprensioni o ri-sentimenti che possono alla lunga ostacolare una leale e proficua col-laborazione.

Per promuovere un gioco di squadra vincente, il leader deve co-noscere e scegliere con attenzione i suoi uomini. Da un lato, è neces-sario che individui i caratteri che si amalgamano in maniera più armo-niosa, bilanciando le componenti più accomodanti e più aggressivein considerazione dell’impatto generato complessivamente sull’a-zienda. Dall’altro lato, è indispensabile che deleghi ciascun compito

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alla persona giusta, perché solo dando fiducia ai propri uomini e met-tendoli alla prova sul campo può stimolare il loro potenziale e la cre-scita del gruppo. Il leader deve dare un’impronta serena al clima re-lazionale, promuovere la convergenza di vedute, ma anche dar corsoalle proprie decisioni se e quando si renda necessario per sbloccareuna situazione. Anche in questo caso, anche quando assume posizionidure, dovrà offrire motivazioni chiare perché siano evidenti le finalitàa cui mira e non si trascenda mai in rivendicazioni di potere o in sfo-ghi personali. Saper essere flessibili, essere resilienti, saper adattaree modulare il proprio atteggiamento in funzione di quanto richiestodalle situazioni sono altre qualità che contribuiscono all’efficacia del-l’azione di leadership.

Il dovere del leader è guidare processi di trasformazione e cam-biamento, affrontando i rischi che a essi sono naturalmente correlati.Nessuna azione infatti è esente dal pericolo di insuccesso e l’equilibriospesso è frutto di un complesso esercizio di compromessi, per cui ilpercorso verso un determinato obiettivo è fatto di piccoli passi, a volteanche di correzioni in corso d’opera e di miglioramenti progressivi. Illeader quindi non conosce ricette infallibili, ma, individuata una strada,è capace di rimodularla e perfezionarla fino a raggiungere la meta. Lasua guida deve essere assimilabile a una visione, a un progetto medi-tato, deliberato seguendo una direzione conseguente di causa ed ef-fetto, altrimenti si entra nel campo dell’avventura e dell’aleatorietàpura che somiglia più a una scommessa che a un progetto e che non sibasa più sul principio di responsabilità del leader.

Come imprenditore credo e investo nella ricerca, perché ritengoche sia fondamentale per lo sviluppo. Abbiamo contatti diretti conl’Università, dove la ricerca, a mio avviso, troverebbe direzioni piùpragmatiche e applicazioni più appetibili se fosse meno teorica e piùvicina alle istanze delle imprese. Inoltre tra l’input dell’ideazione delprogetto di ricerca, la stesura dei suoi protocolli e la sua sperimenta-zione, i tempi del sistema pubblico universitario sono troppo dilatatie incuranti del fattore competitivo, che è rappresentato non solo dal ri-sultato ma anche dalla tempestività con cui si raggiunge. Perciò oc-corre spronare – come peraltro mi è capitato di fare in convegni pub-blici e sedi istituzionali – le amministrazioni pubbliche a una sburo-cratizzazione dei processi amministrativi necessari ad attivare progetti,fondi per la ricerca e partnership con le imprese più innovative e adalta tecnologia.

Disponiamo di un giacimento di grandi eccellenze nel manifattu-riero, grazie a cui il nostro Paese primeggia sui mercati internazio-

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nali: queste devono essere incentivate, perché uno sviluppo basatoesclusivamente sul terziario, che pure è importante, non sarebbe so-stenibile nel tempo. Come presidente di Confindustria di Bari mi sonoposto l’obiettivo di dare maggiore visibilità proprio a quelle realtàmanifatturiere locali che rappresentano una ricchezza per l’economiae che solo negli ultimi anni hanno iniziato a essere conosciute e valo-rizzate come meritano. I primi insediamenti industriali in Puglia risal-gono agli anni ’60 e ’70 e, sebbene inizialmente fossero simili a cat-tedrali nel deserto, hanno avuto il pregio di stimolare progressiva-mente la nascita di un indotto e, più in generale, di una vera e propriacultura di impresa. La loro presenza, in altri termini, ha messo in cir-colo saperi, tecnologie, motivazioni e alimentato lo spirito di inizia-tiva di una classe di imprenditori capaci e dinamici. Così intorno aigrandi colossi sono sorte piccole e medie aziende, che hanno saputoconquistare fette crescenti di mercato e in alcuni casi acquisire noto-rietà anche oltre i confini nazionali. Le istituzioni locali possono ri-coprire un ruolo di primo piano nel rilancio dell’imprenditoria, coor-dinando un insieme di iniziative che, attraverso l’afflusso di capitali,facciano decollare le idee più brillanti e innovative. Alla luce del con-testo legislativo attuale, Regioni e Comuni possono incidere sullo svi-luppo del territorio in maniera rilevante, mentre più flebile è l’azionedelle Province o del Governo centrale.

In questa congiuntura storica, il modello del governo tecnico ap-pare una sorta di “pronto soccorso” per rianimare una casta politicain stato comatoso. Il governo presieduto da Mario Monti è nato sullabase della unanime constatazione di una totale incapacità di una po-litica diventata vuota, rissosa, inconcludente. Se da una parte questogoverno potrebbe avere una durata insufficiente per trasformare radi-calmente il volto politico del Paese, dall’altra sta dimostrando che unapolitica diversa è possibile. I partiti, rimasti spiazzati e costretti a rior-ganizzarsi, potrebbero cogliere questa come un’occasione di svoltaautentica, assumendo atteggiamenti più seri e integrando personenuove, credibili, competenti e tecnicamente preparate. Negli ultimianni si è assistito passivamente a un progressivo degrado del livellopolitico, con il passaggio dai leader al servizio dello Stato a figureasservite a interessi corporativi o di parte, in una deriva immorale fon-data sulla ricerca di tornaconto personale. La legge elettorale in vigoreha favorito questa distorsione e l’adozione di un modello elettorale ditipo uninominale potrebbe certamente attenuarla, ma non sarebbe suf-ficiente per recuperare la credibilità della classe politica, che dipendepiuttosto dalla riscoperta dell’etica pubblica. Bisognerebbe tornare a

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guardare all’onestà, alla competenza, al senso del bene comune comea requisiti fondamentali dell’uomo politico.

Il governo attuale sta cercando di rivitalizzare e rimettere in mar-cia l’economia agonizzante del Paese, ricorrendo a tutti gli strumentipossibili. Dal mio punto di vista, per il futuro sarà fondamentalerafforzare le infrastrutture e, in particolare, colmare il gap che inte-ressa il Mezzogiorno. A dimostrazione della rilevanza delle infrastrut-ture per il rilancio del territorio, cito l’esempio virtuoso degli aero-porti di Bari e di Brindisi che, recentemente ristrutturati, hanno vistoin breve tempo triplicare il numero dei passeggeri e crescere il turi-smo, gli scambi industriali e commerciali.

Dal punto di vista delle infrastrutture immateriali, si sta lavorandoalla realizzazione di importanti piattaforme per abbattere il digital di-vide e unire la penisola in una grande dorsale di banda larga diffusasu tutto il territorio. Mentre il livello di crescita del Nord d’Italia èormai paragonabile alla media degli Stati europei avanzati, il Sud haancora ampi margini di sviluppo. Perciò attrezzare quest’area con in-frastrutture idonee e moderne è fondamentale per rimettere in motol’economia, più che gli incentivi all’assunzione dei giovani o i nuovicontratti, perché significa superare le logiche assistenzialistiche delpassato e scommettere sulla trasformazione del Paese.

(Michele Vinci, presidente Masmec)

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La parola leadership, come ho scritto nell’ultimo libro, mi provocaormai da un po’ di anni un leggero imbarazzo. Sia attraverso il lavoroconcreto all’interno delle organizzazioni sia con la ricerca e la scritturadi testi e articoli, il tema della leadership e della sua evoluzione mi staparticolarmente a cuore. Per me è stata ed è una parola importante;frequentata in più di venti anni di studi, incontri, pratiche managerialie formative. Me ne sento impregnato e anche un po’ “avvelenato”.

Tutto è cominciato con un disagio. Questa parola cominciava amettermi in difficoltà. A volte arriva un momento che una parola sem-bra non essere più tanto sostenibile. E quando un termine ci provocafastidio, lo sentiamo “politicamente non più tanto corretto”, allora ènecessario guardarci dentro. L’etimologia è una scienza perfetta.

È come se questa parola fosse invecchiata tutta di un colpo. La Leadership di quali percepiti è ammantata? Oggi se penso al leader e ai suoi simboli, all’iconografia a cui

questa parola è legata, desumo significati e spesso pratiche un po’ de-suete e meno utili alla contemporaneità. Sento il peso di un intero pa-radigma che, con molta fatica, riusciamo a scrollarci di dosso.

Per esempio: leader come essere a capo, guida, il fuhrer, ovvero co-lui che mi e ci trascina. Solitamente la figura del leader è quella del con-quistador di terre sconosciute. È colui che conquista, seduce e crea ric-chezza per sé e per gli altri. C’è sempre un oggetto da conquistare e unaricompensa. Ma per conquistare è necessario eliminare tutti gli ostacoli,i concorrenti, le relazioni inutili. È una leadership guerriera e conquista-trice quella che si manifesta, utile per inglobare, divorare e raggiungerel’obiettivo. È un agire sulla realtà spesso forzando i ritmi e i tempi dellarealtà medesima, è un modificare e plasmare a piacimento del leader.

Dentro questa metafora c’è il corpo di un uomo. Il corpo del lea-der è quello di un uomo; è un maschio il soggetto che conquista mondi.Questa metafora ha effetti sulla realtà da cui non ci possiamo scostare;altrimenti, forse, non c’è più il leader, non c’è più una forma di domi-nio sulle persone, sulle cose.

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C’è l’autorità più che l’autorevolezza, c’è una gerarchizzazionedella società, una piramidalizzazione del mondo. Un modo di perce-pire il potere e di usarlo per intervenire sul mondo come desideriospesso egoistico di pochi. Il potere, per come lo percepiamo e inter-pretiamo, è di fatto fortemente legato alla parola leadership.

Potere come “brama”, comando, controllo, governo, ricerca diconsenso e di folle plaudenti. Esibizione di corpi, esaltazione e affa-bulazione attraverso proclami.

Leadership è una parola abusata, sovraesposta, ipercelebrata dastampa, TV e giornali. Il “Time” da più di 80 anni celebra la Person ofthe Year e la mette in copertina (solo 3 volte il riconoscimento è statoassegnato a una donna); in giro la ricerca del leader è ossessiva inqualsiasi ambito: sociale, spirituale, politico, organizzativo. Un pro-liferare di modelli e profili a cui ispirarsi e a cui aspirare. Disegni diprofili ideali di “leader”, tecniche per diventarlo, trucchetti e compe-tenze per acquisire quell’allure e quelle doti carismatiche.

Non siamo mai abbastanza, NOI, dobbiamo sempre rivolgerci al-l’esterno, a ciò che “ci” manca per diventare più adeguati, per stare me-glio con se stessi e con gli altri, per diventare più “smart, adaptable,powerful”, più capaci e ammirati. Più capobranco. In una parola, piùleader.

Logiche aspirazionali che caratterizzano tanta letteratura mana-geriale, profili potenziati a cui tendere. È sicuramente difficile noncedere alle malìe della leadership come promessa di successo, impor-tanza personale, superiorità, affrancamento e negazione della fragi-lità, potere. È elaborare un lutto; si rischia di perdere un bel po’ diadrenalina. Dunque la faccenda, forse, non è del tutto indolore.

Un’ideologia da cui non sono immuni le tante scuole di business.Fabbriche sempre meno “successful” di eroi potenzialmente salvifici, dicaste allenate a sedurre, influenzare, risolvere problemi più o menocomplessi. Sembriamo tutti in preda di un esorcismo collettivo.

Sembra quasi che questa parola, leadership, leader proprio non sipossa o si voglia perdere. Ma da un po’ di tempo su testi, seminari einterventi che ce la propinano sono comparsi sostantivi e aggettivi adaffiancarla, quasi ossimorici. Leadership aperta, piatta, distribuita, ri-flessiva ecc. Modi per renderla oggi più possibile, contemporanea,commestibile. Modi per affiancarla modernizzandola senza perderla.Ecco, si ha paura di perderla.

La leadership e il leader potenziano qualcosa e qualcuno e dun-que… vendono. O forse non abbiamo ancora disponibili parole alter-native a essa. Nuove parole, nuove metafore, nuovi riferimenti simbo-

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lici. Anche qui, oggi, discutiamo di leadership futura. Quindi in futuro sarà ancora questo paradigma a funzionare. Vo-

gliamo darlo per scontato? Siamo proprio sicuri di avere in futuro an-cora bisogno di questa ideologia?

Se dico Leadership, in fondo mi sento ancora al sicuro. Mi mettotranquillo. Mi illudo, ancora una volta, di poter governare e control-lare tutto. Credo che il paradigma che questa parola si trascina ap-presso stia scricchiolando. E che dunque questa parola non sia più ade-guata per cercare cosa ci serve veramente oggi. Anzi, l’impressione èche ci porti proprio fuori pista!

Anche le scuole di management e i loro adepti hanno cominciato adaccorgersene. Florence Noiville, una giornalista proveniente dalle altescuole di formazione francesi nel suo libro Ho studiato economia e mene pento si chiede: come mai questi master che dovrebbero prepararele classi dirigenti del futuro hanno invece sempre alimentato in gene-razioni di studenti e manager un rampantismo fallimentare, una culturadella prestazione ossessiva e della competitività sfrenata? Cosiddettileader che ci hanno portato nel baratro di crisi profonde? Perché conti-nuiamo a credere che queste greggi, questi “gregari dorati” siano il sim-bolo dello spirito imprenditoriale, del coraggio e del successo?

Anche i testi di leadership hanno cominciato a questionare l’ideo-logia della leadership e del leader. Uno fra tutti, Henry Mintzberg chesul “Financial Times” nel 2006 scriveva che quando usiamo la parolaleadership isoliamo un uomo per far sì che quelli che stanno intornoa lui diventino dei follower. Ma vogliamo davvero un mondo fatto daeserciti di seguaci? Sempre Mintzberg: «L’ossessione per la leader-ship ci porta a costruire organizzazioni totalmente dipendenti dall’i-niziativa individuale; così se queste falliscono, sappiamo a chi dare lacolpa e iniziamo a cercare un leader migliore».

Anche nelle mie pratiche all’interno delle aziende avevo sempredi più l’impressione, parlando di leader e leadership con manager eimprenditori, che si manifestasse un certo fastidio. Meglio organizzareworkshop e seminari “evitando” l’uso di questa parola, poiché questastoria di potenziare solo alcuni con delle competenze “speciali”, inun mondo in cui si proclamano l’importanza dell’intelligenza collet-tiva e dei social network è sempre più anacronistico.

Nuovi mantra, We economy, partecipazione collettiva, contribu-zione, co-creazione, che c’entrano con il leader, la leadership?

La “net generation” sta cambiando il modo di relazionarsi, di in-teragire, di intendere l’autorità; un mutamento antropologico dovetutti vogliono essere non più spettatori passivi, meri gregari, follower.

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Un mondo dove la saggezza è delle folle e non solo dei singoli. Meno leader, organizzazioni senza leader, partiti senza leader,

aziende senza troppi capi e capetti.E poi con l’entrata massiccia del femminile e non solo delle donne

nel nostro mondo del lavoro, di pratiche femminili legate alla cura, al-l’ascolto, alla leggerezza dell’intuizione: chi sono le nuove guide?

È ancora possibile definire queste guide come nuovi leader?Lidia Ravera, durante questo ciclo di interventi, ci ha parlato di

leadership mancate nelle cui mani ci troviamo, ci ha parlato di un pa-radigma, di un’epoca, di un sistema di segni fatto di persone conun’età media altissima, dove non esiste la possibilità di esercitare undoppio sguardo sulla nostra società e sul mondo dove i giovani comele donne, come le quote rosa, sono dei contenitori a perdere, dei fioriall’occhiello per prendere consenso e voti.

“Se fossi un giovane o una donna non vorrei essere cooptato daquesto sistema, da questi leader, meno che mai per una questione digender o di meriti anagrafici. La cooptazione non è meritocratica ap-punto. I leader attuali, lo vediamo con le difficoltà nella nostra poli-tica, cooptano solo chi non disturba troppo. Chi non mette in crisi unvecchio paradigma”.

“I figli devono travolgere i padri! C’è necessità di cosmogonie al-ternative”.

Se penso al leader, penso a una persona che non sa e che nonvuole “lasciare”. Essere leader vuol spesso significare essere avvin-ghiato a qualcosa. Lasciare è una parola chiave nel passaggio da unagenerazione all’altra. Dalla vita alla morte. Rimanda al latino laxus,quel che s’allenta, che si fa spazioso; indica anche la capacità di ab-bandonare, di abbandonarsi, di allontanarsi.

Tutto questo c’entra con la mistica del leader e tutto ciò che siporta dietro. Nell’affermare strenuamente questa parola c’è una ripe-tizione ossessiva di un modello unico di visione del mondo. Leader-ship è stato veramente un mantra ispiratore di una mistica in grado diguarire qualunque tipo di malattia economica, sociale e politica.

Questa parola ha giustificato tanti inganni.In conclusione: c’è bisogno di follower?Abbiamo bisogno di ripensare un paradigma e di cambiare le pa-

role. È indispensabile entrare in un nuovo paradigma con un linguag-gio pulito. Meno contaminato.

Abbiamo bisogno di muoverci al di là delle ideologie. Abbiamosostituito l’esperienza con l’organizzazione e oggi abbiamo bisognodi persone, di guide che siano dentro all’esperienza, alla pratica.

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Dobbiamo poter guardare altro. Spostare il cono di luce per illu-minare saggezze e pratiche, guide, esempi, testimonianze viventi enuovi paradigmi già presenti, da valorizzare e illuminare.

Non possiamo cambiare la casa del padrone con gli stessi stru-menti del padrone.

E poi una serie di passaggi paradigmatici. Dal comando allaguida, dalle certezze e risposte all’uso efficace di domande. Dal do-minio e controllo alle relazioni, alle connessioni, all’esplorazione dipossibilità. Dalla visione di uno solo all’esperienza condivisa. Dal-l’anticipazione allo stare nel presente. Dall’ossessione per il carisma,dal centro della scena al mettersi a servizio.

Esistono nuove sapienze possibili, nuovi saperi più efficaci che sipossono mettere in luce per capire chi sono le nuove guide di oggi. Esi-stono nuove forme di efficacia dentro laboratori economici, politici, so-ciali, nelle aziende. Esistono alcune sapienze importanti da recuperare.

Saper osservare, saper stare, saper lasciare, saper aspettare, saperabilitare le possibilità che sono già in circolo, saper accogliere l’altroper contaminarsi e impollinarsi. Saper perdere dunque un po’ dellapropria identità. Saper riunire tutto ciò che abbiamo diviso: vita e la-voro, corpo e spirito, forza e fragilità, ricerca e azione, pubblico e pri-vato, maschile e femminile, tecnica e senso, efficienza e affettività,crescita e limite, economia e spirito. Sapere che il più delle volte laconoscenza è già dentro di noi e che dunque un ennesimo modello,un’altra ideologia, un’altra ricerca che poco ci appartiene o che è lon-tano da questo sapere interiore e atavico rischia di allontanarci.

Facciamo crescere delle responsabilità di gruppo. Non cerchiamopiù il leader salvifico che, morto uno, se ne deve subito cercare unaltro. Il senso oggi non è più predefinito ma si va cercando e facendo.Non si trova bello e pronto.

È un processo faticoso quello di uscita dal paradigma della leader-ship, della sua ricerca ossessiva. E noi siamo solo dei ponti tra ciò chec’era e il nuovo che sta emergendo e che ci sarà. Non è tanto interes-sante delineare caratteristiche teoriche e ideali delle nuove guidequanto invece chiedersi chi sono e cosa fanno oggi, quelli che potreb-bero farci da guida.

E osservare bene a occhi aperti. Credo che sia tutto già presentee disponibile.

In fondo il vero tema è: avere gli occhi ben orientati e allenati persaperlo scovare.

(Andrea Vitullo, fondatore Inspire, coach, scrittore)

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Perché l’Italia torni a essere un Paese per giovani

Eleonora Voltolina

«La gavetta l’abbiamo fatta tutti».«Trent’anni? Ma sei ancora giovanissimo!»«Adesso pensa a imparare, per guadagnare avrai tempo».«Aspetta il tuo turno, non è ancora il tuo momento».L’Italia non è un Paese per giovani, scriveva il demografo Alessan-

dro Rosina qualche anno fa. E a ragione: secondo una ricerca com-missionata nel 2012 dai giovani della Coldiretti, l’età media dei diri-genti impegnati in politica, economia e nella Pubblica Amministra-zione è pari a 59 anni.

I professori universitari, per esempio, in media hanno 63 anni.Qualcuno potrebbe affermare che questo va bene, che per accumularecompetenze serve tempo e per insegnare serve saggezza, che l’etàavanzata è garanzia di esperienza. Peccato che dappertutto nel mondoindustrializzato chi insegna sia più giovane. Anche perché, comeormai innumerevoli studi dimostrano, l’apice delle capacità intellet-tuali viene raggiunto fra i trenta e i quarant’anni. Eppure dei 18milaprofessori ordinari che insegnano negli atenei italiani, meno di 100sono quelli le cui cellule cerebrali sono al top – cioè gli under 40.Oltre la metà, per contro, ha passato la boa dei 60 anni.

Pressoché identica la situazione in politica. Chi ci rappresenta inParlamento? L’età media dei deputati è 54 anni, quella dei senatori 57.Siamo peraltro l’unico Paese che pone vincoli anagrafici di accessoalle cariche di rappresentanza. Questo status quo equivale a un sostan-ziale potere di veto degli over 40 sulle scelte politiche dell’intero Paese.

Non solo politologi ma anche economisti di peso, come France-sco Giavazzi e Alberto Alesina, ormai da tempo invocano provvedi-menti radicali che sblocchino “la gerontocrazia che domina l’Italia”,e che contribuisce a bloccare la crescita economica del Paese, propo-nendo di “abbassare a 16 o 17 anni l’età minima per votare” o met-tere “limiti di età (per esempio 72 anni) ai politici, ai burocrati, aimembri dei consigli di amministrazione delle società quotate”.

Gli italiani vivono in media 84 anni. Si nasce, si cresce, si invec-

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chia, si muore. Nei primi anni si è bambini, non si sa parlare, non siprovvede a se stessi, non si possono prendere decisioni per sé o per glialtri. Per questo non si può votare. Anche negli ultimi anni di vita nellamaggior parte dei casi è così: ma dirlo è un tabù. E gli anziani con-servano i loro diritti di voto attivi e passivi fino all’ultimo. Non soloquelli che restano lucidi: tutti.

Rompere questo tabù vorrebbe dire ritagliare spazi ampi per i gio-vani, per farli entrare nelle stanze dei bottoni ed essere finalmenterappresentanti della loro generazione. Chi l’ha detto che la decisionedi un 30enne sia peggio di quella di un 70enne?

I vincoli che in Italia avvantaggiano i più anziani nell’accedere acariche e incarichi di potere non rappresentano soltanto una discrimi-nazione verso chi è anagraficamente più giovane e un blocco dellacrescita del Paese, in ragione del fatto che si tengono fuori migliaia diventi-trentenni che potrebbero rinnovarlo. Sono anche un silenziatorealla competizione.

I ruoli chiave vengono assegnati sulla base del mero dato anagra-fico, facendo sempre prevalere l’anzianità, quando invece a vinceredovrebbe essere semplicemente chi ha l’idea migliore, il più capace– che può essere il 70enne, certo. Ma può essere anche il 25enne.

Ma qualche giovane già c’è!, si affretteranno a dire i cerchiobot-tisti. Già, c’è. Di solito si chiama come un vecchio – e la cosa non ècasuale perché di quel vecchio politico, o imprenditore, o professore,o medico è il figlio o il nipote. Oppure è molto bello/a, o molto dispo-nibile. Al di fuori di queste categorie i giovani di potere sono più uniciche rari. I deputati al di sotto dei trent’anni per esempio sono quattro.Aggiungendo quelli sotto i quarant’anni si arriva a quota 53. Peccatoche gli italiani tra i 18 e i 39 anni siano 17 milioni, il 28% della po-polazione. Quelli potenzialmente eleggibili alla Camera, con la leggeattuale, 12 milioni e mezzo: grossomodo il 21% dei cittadini. Eppurein Parlamento ci sono soltanto quei 53 under 40, cioè il 9% del totaledei deputati. Al Senato sono completamente assenti, per effetto dellanorma di cui sopra.

Questo è il motivo per cui le leggi vengono costruite e approvatepensando quasi esclusivamente alla difesa dello status quo, senza at-tenzione per i bisogni e i problemi delle giovani generazioni. E percui le grandi riforme – si pensi solo a quelle degli anni Novanta sul si-stema pensionistico e sul mercato del lavoro – sono state pensateespressamente per non toccare alcun diritto acquisito, lasciando in-variati tutti i privilegi a chi all’epoca era già adulto, e scaricando tuttele innovazioni peggiorative (metodo contributivo anziché retributivo

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Perché l’Italia torni a essere un Paese per giovani

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per il calcolo della pensione, contratti temporanei senza tutele anzi-ché contratti a tempo indeterminato) sui nuovi entranti.

Oggi le giovani generazioni vivono immerse in un mondo in con-tinuo cambiamento, difficilmente comprensibile – salvo poche lumi-nose eccezioni – a chi è nato prima o durante la seconda guerra mon-diale, o nel periodo del boom degli anni Cinquanta-Sessanta. Unmondo sempre più digitale, basato sul web, sulla comunicazione istan-tanea e non mediata. Un mondo senza frontiere: alcune abbattute dav-vero, come quelle fra Stati europei dove fino a solo vent’anni fa sidoveva viaggiare col passaporto e adesso si circola liberamente e sipaga addirittura con la stessa moneta, altre abbattute grazie alla tec-nologia e agli strumenti che oggi consentono di scambiare informa-zioni, lavorare, partecipare a migliaia di chilometri di distanza.

Oggi le giovani generazioni hanno accesso ai percorsi formativimolto più di prima. Studiare è un diritto che tutti i Paesi civili difen-dono e proteggono. All’inizio degli anni Cinquanta il 12,9% degli ita-liani era analfabeta, i diplomati erano il 3,3%, i laureati soltanto l’1%.Il censimento del 2001 rivela un’Italia profondamente cambiata: anal-fabetismo ridotto ai minimi termini, 25,9% di persone diplomate,7,5% laureate.

Ma malgrado queste nuove generazioni siano le più istruite disempre, esse vivono immerse in una condizione occupazionale e sa-lariale mai vissuta – forse nemmeno immaginata – da genitori e nonni.Intrappolate in un precariato che impone loro tipologie contrattualisvantaggiose e stipendi da fame. Costrette a dipendere dalle famiglied’origine ben oltre l’età della formazione, e a rimandare tutte le sceltetipiche della vita adulta – vivere da soli, creare nuclei familiari, farefigli – per mancanza di prospettive.

Uno dei più importanti articoli della Costituzione, il numero 36,prevede che ogni lavoratore debba essere pagato in misura proporzio-nata alla quantità e qualità del lavoro svolto, e comunque abbastanza dapoter vivere un’esistenza libera e dignitosa. La verità conclamata è chein Italia milioni di giovani vedono calpestato ogni giorno questo diritto,prima lavorando gratis per mesi o anni, per poi guadagnare cifre misere,addirittura al di sotto della soglia di dignità dei mille euro al mese.

Il sistema – composto di imprese private così come di enti pubblici– si approfitta di loro allungando a dismisura, contro ogni ragionevo-lezza, il periodo di transizione dalla formazione al lavoro, costringen-doli a restare il più possibile in questo limbo, sfruttando l’escamo-tage della “formazione” per non qualificarli come lavoratori e quindinon doverli pagare.

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Ma il meccanismo di welfare familiare che interviene come “cor-rettivo”, benedetto da una grande parte della politica e generalmenteaccettato dalla tradizione socio-culturale italiana, salva i giovani soloin apparenza. In realtà, oltre ad azzerare la loro possibilità di mobilitàsociale e dopare il mercato del lavoro, questo sistema li distrugge, im-pendendo loro di entrare a tutti gli effetti nell’età adulta.

E quindi di poter diventare pienamente cittadini, poter agire nelloro Paese e per il loro Paese. Mantenere i giovani eternamente figli,fino a 30 anni o addirittura 40, vuol dire frenare il ricambio genera-zionale di cui l’Italia ha bisogno in tutti i settori.

Digitalizzazione, sburocratizzazione, nuove forme di rappresen-tanza, lavoro e welfare del nuovo millennio. Su tutto questo – e moltoaltro – i giovani avrebbero da dire, proporre, cambiare. Forse mancanodi esperienza, ma non sarà che l’esperienza è un po’ sopravvalutata?

Coinvolgerli in prima persona nei processi decisionali, rinnovarele strutture apicali della politica, dell’università, della sanità, del sin-dacato, degli ordini professionali, dell’imprenditoria, della cultura,equivarrebbe per l’Italia a una scommessa sul futuro. I giovani po-trebbero portare nuove competenze, duttilità, visioni innovative, en-tusiasmo. Potrebbero rompere gli schemi, inventare nuove soluzionia vecchi e nuovi problemi.

Invece restano al guinzaglio. Oppure fuggono. Secondo una re-cente indagine promossa dal Forum nazionale dei giovani e realizzatadal Cnel, 10mila professionisti sono scappati dall’Italia negli ultimi 13anni. Più in generale, i giovani italiani all’estero sono due milioni:quanto l’intera popolazione della Calabria. Il numero è stato calcolatodall’associazione Italents a partire dai dati Istat e Aire più recenti (ri-salenti al 2010), secondo cui i 18/24enni residenti oltreconfine sonopiù o meno 350mila; quasi 600mila gli “italians” nella fascia di età25/34, e oltre 650mila tra i 35 e i 40. La somma algebrica dei tre nu-meri fa 1 milione e 600mila: ma questi dati sono fortemente defici-tari perchè – malgrado sia un obbligo sancito dalla legge – non tuttisi iscrivono all’Aire, l’anagrafe dei residenti all’estero.

In realtà comunque i due milioni di giovani italiani all’estero nonsarebbero un problema di per sé. Allontanarsi dal proprio Paese perfare nuove esperienze o cercare opportunità migliori fa parte della na-tura umana e non è un disvalore. Il problema è la bilancia tra i cervelliche si perdono e quelli che si acquistano. Purtroppo l’Italia perdemolti profili alti, persone con istruzione universitaria che scappano eportano le proprie competenze altrove, mentre riesce ad acquisire soloprofili bassi: l’immigrazione è composta quasi esclusivamente di ma-

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Perché l’Italia torni a essere un Paese per giovani

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novalanza (anche quando sono laureati nella loro patria, raramente gliimmigrati svolgono nel nostro Paese mestieri correlati alla propriaistruzione) e l’Italia non viene percepita, a livello internazionale, comeun luogo attraente per i giovani cervelli.

Andarsene spesso vuol dire cercare una salvezza individuale. Sitratta di una scelta rispettabile, addirittura lodevole – perchè denotaaudacia, spirito di iniziativa, refrattarietà alla rassegnazione. Ma fug-gire non può essere la soluzione per un’intera generazione. Bisognache alcuni – che molti – restino, oppure vadano e poi tornino. Perrifondare questa Italia. Invertire i meccanismi malati. Trovare alleanzegenerazionali, convincere i giovani a fare fronte comune, a sosteneree votare i propri coetanei più capaci, a non piegarsi alle logiche dicooptazione e di sottomissione.

Se non ha senso l’idea di un partito dei giovani, perché essi nonsono un tutt’uno e hanno pensieri e convinzioni anche molto diverse,bisogna però lavorare perché all’interno di ciascun partito i giovanicomincino a contare davvero, a decidere, a sostituire i vecchi.

A rispondere. «La gavetta l’avrete pure fatta anche voi: ma alla vostra epoca

aveva una durata accettabile, non era eterna come adesso».«Non siamo “giovanissimi” a trent’anni. Alla nostra età voi ave-

vate già un lavoro, un contratto a tempo indeterminato, una casa, unpaio di figli. Alla nostra età, voi non eravate giovanissimi».

«Non vogliamo imparare, vogliamo lavorare: abbiamo studiatoper molti anni, ora siamo produttivi e in grado di entrare appieno nelmercato. E a ogni nostro giorno di lavoro deve equivalere un guada-gno, il lavoro gratuito si chiama volontariato».

«Non vogliamo aspettare il nostro turno se il criterio di regola-zione dei turni è quello dell’anzianità: vogliamo che il criterio stia nelmerito delle idee, nella forza delle proposte, non nella lista d’attesa».

La leadership non dev’essere concessione ereditaria né eserciziodi cooptazione. Dev’essere frutto di merito, competenza, audacia. Maquesto tipo sano di leadership non può esistere se non in un sistemasano, che non mette bastoni tra le ruote di chi ha talento e rivendicalegittimamente uno spazio.

Creare questo sistema non è né può essere compito dei più an-ziani, per la semplice ragione che difficilmente qualcuno taglia ilramo dov’è seduto. L’unica soluzione, per i giovani, è dunque quelladi entrare sgomitando nelle stanze dei bottoni, e prendere il comando.

(Eleonora Voltolina, giornalista “La Repubblica degli Stagisti”)

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Alberto Zanatta

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Per ricoprire il ruolo di leader in azienda è necessaria la presenza dicompetenze indispensabili, una sorta di abc professionale senza il qualenon si può essere in grado tecnicamente di esercitare un ruolo guida: imanager devono possedere una preparazione completa e ben strutturatache è frutto della sintesi virtuosa di conoscenze ed esperienze sul campounite al possesso di un metodo, di una forma mentis che rappresenta unasorta di imprinting cognitivo, un modo di porsi orientato alla soluzionepragmatica dei problemi che qualifica il leader come dotato di una at-titudine trasversale piuttosto che strettamente tecnica o verticale.

Questo è l’identikit che permettere di riconoscere i tratti del leaderindipendentemente dalla provenienza settoriale. Un leader deve posse-dere acuta capacità di analisi, ma anche attitudine alla focalizzazionesulle priorità. Il leader possiede una visione d’insieme, e sa affrontarele situazioni in un’ottica globale integrata di tutte le implicazioni discenario. L’eccellenza che deve esprimersi in una leadership si rivelaanche in aspetti che attengono a tratti di carattere mostrando una mo-tivazione oltre la media. Le conformazione del leader è una combina-zione di energia e carisma immediatamente riconoscibile dai collabo-ratori. Il leader possiede una straordinaria e naturale predisposizionealla relazione personale, è capace di esercitare influenza grazie allacredibilità e alla coerenza esemplare. Il leader sa essere un motore peril gruppo inducendo motivazione e sempre nuova spinta all’azione. Èimportante la qualità della passione, del talento emotivo, dell’empatiache caratterizza il legame profondo tra collaboratori e leader.

Il coinvolgimento, il dialogo, la capacità emotiva, sono fondamen-tali perché una azienda non deve essere asettica e anonima, ma deveoffrire il volto delle proprie persone sapendo creare un legameprofondo e una identità riconoscibile in uno stile e in un modo diagire. Le relazioni tra le persone, il modo di lavorare, creano il le-game che contraddistingue le persone di una squadra ad alto poten-ziale guidata da un leader autorevole.

Un compito fondamentale nel leader è quello di essere in grado di

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scegliere i talenti e svilupparne le potenzialità nascoste. Il leader disponedi una capacità di lettura profonda all’interno dell’anima degli uominie sa valorizzare i tratti non ancora manifesti di un collaboratore svelan-done i talenti latenti. La leadership manifesta tutta la propria efficaciaquando riesce a sostenere il morale e la motivazione del gruppo nelle fasipiù critiche e difficili mantenendo la coesione della squadra. Il leader hail compito di mantenere la giusta tensione al risultato e l’equilibrio emo-tivo nel team di lavoro. Essere leader significa volere essere dei numeriuno: la leadership è fortemente connessa all’ambizione, al desiderio diproiettarsi in una dimensione dinamica e futura. La leadership richiededi compiere un passo ulteriore oltre all’eccellenza di un pur ottimo di-rigente: è richiesta una marcia in più che non può essere scritta in un cur-riculum ma che dipende da un’attitudine profonda e insopprimibile. Illivello di ambizione, la capacità di gestire un alto livello di stress e il co-raggio accettare la sfida, la curiosità, la voglia di fare sempre meglio,sono tutti indici della presenza di leadership. La capacità di gestire le riu-nioni, di gestire il tempo, dipendono dagli usi e consuetudini che costi-tuiscono il modus operandi, lo stile operativo dell’azienda, il capo deve,da una parte, mostrare un forte spirito di adattamento alla specificità, alcodice genetico dell’azienda, introiettando in breve tempo la visione ei valori del gruppo, ma deve poi anche saper essere portatore di nuoveidee e fonte di ispirazione per l’innovazione e il cambiamento. Senza lacapacità di delineare traguardi ideali e steps intermedi non si può riu-scire a essere leader efficaci. L’azienda è fatta di persone e di motiva-zioni che spingono a eccellere e ottenere risultati con proattività, senzasubire passivamente i cambiamenti ma imparando ad anticiparli.

I giovani dispongono di una riserva infinita di energia che deveperò essere abilmente gestita e indirizzata da parte di una dirigenza ingrado di parlare il linguaggio delle opportunità e della responsabilità.Il leader ha il dovere morale di non dissipare la grande forza energeticae intellettuale presente in loro, istituendo un rapporto di assoluta lealtàe imparando a corrispondere in misura corretta alle loro inclinazioni,alla loro passionalità e al loro slancio esistenziale verso un percorso direalizzazione: un leader che sa parlare ai giovani riuscendo a interpre-tare le istanze di trasformazione aumenta notevolmente la propriachance di successo. Il leader è una superficie riflettente: deve rispec-chiare e restituire come uno specchio l’energia che gli altri gli confe-riscono. La leadership si fonda sulla generosità, sul saper restituire mol-tiplicata l’energia positiva dei collaboratori; il leader che invece vuolesolo assorbire energia diventa come un buco nero che finisce per spe-gnere ed esaurire la vita di un universo organizzativo.

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Siamo una azienda internazionale che ha aperto le porte a dirigentie risorse umane provenienti da tutto il mondo. Cerchiamo di vivere unacultura globale fatta di stimoli e diversità culturale. Approcci e metodidi lavoro ricchi di contaminazione culturale e fondati sulla valorizza-zione delle differenze e della multiculturalità sono indispensabili peruna azienda contemporanea aperta alle sfide di una cultura sempre piùglobale e senza confini. L’etica è fondamentale per una azienda che sifonda su un modello di responsabilità sociale, con attenzione al temadella sostenibilità ecologica, alla lotta contro l’impiego della manodo-pera minorile nei paesi in via di sviluppo, al rispetto delle regole di tra-sparenza commerciale nei confronti della rete distributiva. L’assolutaserietà nei confronti del mercato e la capacità di resistere alle seduzionidi un business privo di regole è ciò che contraddistingue la presenza diuna leadership fondata sui valori e sulla moralità degli affari.

Nel nostro Paese c’è assoluta urgenza di ricondurre anche la classepolitica ad alti livelli di competenza, per questo è necessario educare unaclasse politica a una leadership fondata su un’idea di rispetto dellacosa pubblica. Come vicepresidente della Confindustria a Treviso misono lungamente posto la questione di come sia possibile che la classepolitica sia così ottusamente sorda agli appelli del mondo economico eproduttivo. Da anni ci chiediamo cosa fare per richiamare alle proprieresponsabilità istituzionali le forze politiche. La rappresentanza politica,purtroppo, negli ultimi anni ha visto una pericolosa decadenza moralee di qualità antropologica, culturale ed etica. Non possiamo più accet-tare che le istituzioni vengano vilipese da politici non all’altezza delcompito. Serve professionalità, competenza, imparzialità, trasparenza.Ci troviamo rappresentati da politici di scarso livello, con modeste at-titudini, senza conoscenze e preparazione. Serve una politica di livello,fatta da personaggi di ambizioni nobili, non quella dei piccoli interessidi parte o addirittura personali. Una politica capace di attirare personaggivirtuosi di alto livello con una visione strategica, con un progetto di ri-lancio delle istituzioni e dell’immagine internazionale. Esiste una pes-sima pratica di duplicazioni amministrative e politiche create ad hoc perconsentire alla partitocrazia di occupare ogni poltrona disponibile all’ap-petito di potere centrale o locale. Le aziende municipalizzate seguonouna logica rigida di spartizione partitocratica fino all’ultima briciola dipotere. Assistiamo al patetico aggrapparsi alla poltrona dei politici chesi unisce alla amoralità di una pratica costante del trasformismo comestrumento di conservazione del potere al di là di ogni ragionevole livellodi rispetto della coerenza con la propria ideologia. Nel sistema pubblicoc’è bisogno di maggiore professionalità, le istituzioni devono essere ser-

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vite da uomini con idee chiare e una cultura precisa dell’istituzione chevanno a dirigere. I politici devono possedere una cultura istituzionale.Chi occupa le istituzioni deve spogliarsi delle proprie personali ambi-zioni ed esclusivamente servire il bene pubblico. L’obiettivo di un lea-der aziendale, la produzione di ricchezza per gli azionisti, è più chiaroanche se non certo semplice, ma gli obiettivi di un leader pubblico sonomolto più complessi e difficili da definire. Rappresentare diverse posi-zioni e mediare interessi tra loro diversi è compito veramente compli-cato e richiede preparazione e assoluta trasparenza a pena di generarediscredito della funzione politica e della carica pubblica.

Personalmente dirigo un gruppo da 1700 dipendenti, ma se venissieletto sindaco, anche di un piccolo centro, da subito cercherai di ap-prendere a svolgere il nuovo compito: serve maggiore autocritica eumiltà al momento dell’occupare posizioni istituzionali. Le istituzioninon sono per tutti. Non è da tutti essere leader pubblico: quella del go-verno della cosa pubblica è l’arte più difficile. Per troppo tempo si èsvalutato il concetto di carica amministrativa considerandola come unafunzione di esclusiva espressione politica e priva di indispensabili com-petenze specifiche. Serve serietà e onestà se si vuole essere credibili eutili alle istituzioni pubbliche. Servono persone di livello che sappianocooperare e non gareggiare in vanità. Il bene della comunità deve essereil fine unico ed esclusivo dell’azione amministrativa. Il leader pubblicodeve possedere nel proprio intimo gli efficaci anticorpi alla voglia dipresenzialismo e di personalistico culto della personalità.

A questa diagnosi impietosa della decadenza del sistema di lea-dership pubblica del Paese occorre però aggiungere che siamo sor-presi, non solo noi in Italia, ma anche in molti Paesi stranieri, dalla ra-pidità della svolta rappresentata del governo tecnico di Mario Monti.Dall’estero ci chiedono come sia stato possibile, dopo essere stati im-mobili per decenni di fronte al declino economico, etico e culturale delPaese, trasformarsi negli europei più solleciti a varare riforme epo-cali in meno di cento giorni. Neanche i Paesi più strutturati riesconoa varare riforme come le stiamo mettendo in cantiere noi. Anche nelcalcio siamo così, sappiamo agire solo nella cosiddetta Zona Cesarini,vicino, se non oltre, il 90° minuto.

Da sempre gli italiani, quando il gioco si fa davvero duro, sannodare il meglio di sé: forse era necessario arrivare sull’orlo dell’abisso,del rischio del default finanziario, per riprendersi dal torpore moralee ricominciare a dare priorità al bene del Paese.

(Alberto Zanatta, direttore generale Tecnica Group)

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Si è venuta sedimentando nel tempo, diventando una costante cul-turale nell’inconscio collettivo italiano, una forma di monoteismo ere-ditata dalla pregnante tradizione cattolica del Paese, che nel corso delsecolo XX è stata poi parzialmente rimpiazzata da un simmetrico asso-lutismo di matrice marxista, non solo dialetticamente antitetico, ma,per molti tratti, segnato da insospettabili continuità con alcuni caratteridi fondo della visione del mondo cattolica. Con il marxismo si è spe-rimentato un tentativo di ricreare ideali di comunità in senso laico, ega-litario e materialista. Il fondamento dell’ethos comunista si è incen-trato sull’idealismo delle intenzioni e dunque su una forma di eticadella convinzione. Nei paesi protestanti, in linea con l’interpretazionefornita da Max Weber, la dicotomia tra etica della convinzione ed eticadella responsabilità si declina sul modello dell’assunzione personaledi responsabilità. Ciò trova origine nella pratica protestante dell’am-missione solitaria della responsabilità dei propri peccati – per cosi dire,“direttamente davanti a Dio” – senza alcuna mediazione da parte delconfessore e più in generale dell’autorità ecclesiastica. A ciò si deve ag-giungere l’elemento dell’approccio diretto ai testi sacri reso possibiledalla traduzione lingua in tedesca della Bibbia. La Sacra Scrittura ècosì pienamente a disposizione della lettura del popolo e non più de-stinata all’interpretazione dell’autorità religiosa cui spetta di determi-nare in via esclusiva il canone ermeneutico da applicare alla Bibbia.

Nei paesi cattolici, seguendo il paradigma di Max Weber, tende adaffermarsi un modello di etica della convinzione piuttosto che di eticadella responsabilità. Muovendo dal piano personale alla fondazione diun’etica pubblica ciò si traduce in una sostanziale impermeabilità delcarattere degli italiani al rigore dell’etica della responsabilità model-lata sui valori dell’universo culturale dei paesi attraversati dallaRiforma protestante. Come italiani siamo per certi versi alieni dal-l’intransigenza giansenista dell’ethos protestante. Nella Penisola pre-vale una tendenza all’eteronomia etica piuttosto che una forma di au-tonomia della responsabilità e della coscienza riflessiva di stampo in-

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dividualista e protestante. In Italia si è affermata un’eccessiva ten-denza alla delega verso le istituzioni che ha finito per espropriare lacoscienza individuale del cittadino dell’indispensabile funzione di di-ritto di critica verso i propri rappresentanti che hanno così sempre piùassunto la condizione di intoccabili. Ciò determina anche una ten-denza a una sorta di passività e assuefazione verso il potere; questoconformismo si combina anche con una forma di trasformismoconformistico a ogni cambio di regime. Nel nostro Paese prevale latendenza al conformarsi a quanto indicato dall’autorità ecclesiasticao dal partito, basti pensare alla formula del cosiddetto “centralismodemocratico” che ha ispirato fino a pochi anni fa le strategie e la lea-dership delle diverse correnti, delle diverse anime interne del partitocomunista, determinando una sintesi forzosa nelle scelte del PCI.

Devo ammettere che decisamente mi colpì la nota di chiusura dellaCritica al programma di Gotha di Karl Marx (letta tra l’altro in unaedizione della vecchia DDR che contribuiva all’effetto quasi vintage diquella straniante citazione): un esergo dal tono paradossalmente quasiteologico: “Dixi et salvavi animam meam”. Quasi fosse un teologo,Marx conclude il proprio scritto indicando, da una parte la presenzastringente della Verità, e dall’altra le necessità degli affari del mondo;da un lato i metafisici dogmi astratti dell’etica e dall’altro la materia-lità vivente delle scelte e dell’esistenza concreta. Nella tradizione “mo-noteista” del nostro Paese (cattolica ma in parte rieccheggiata da unasovrapposizione marxista) è innegabile il peso della storica carenza dicorrelazione tra assunzione del potere pubblico e responsabilità perso-nale. I Paesi dell’Europa continentale e del Nord certamente assumonospesso toni moralisti, venati da un puritanesimo a volte eccessivo e pe-dante oltre che da un’eccessiva tendenza al manicheismo, ma altret-tanto noi italiani cediamo troppo all’indulgenza generalizzata e a unaforma di tolleranza auto-assolutoria che impedisce di distinguere consufficiente nettezza il limite tra lecito e illecito, tra etico e immorale,tra tollerabile e intollerabile. Lungo questo retaggio culturale non pro-prio intransigente del nostro Paese avanzano anche diffusi comporta-menti economici border-line e sconfinamenti nell’illegalità da partenon solo di una minoranza criminale, ma di alcune categorie socialiche ispirano la propria attività economica alla malafede e vivono la di-sonestà fiscale verso lo Stato come prassi quotidiana addirittura conostentazione. Evasione ed elusione fiscale come diserzione di una largafetta della popolazione dai doveri verso lo Stato e la comunità: si trattadi una tendenza che mette in discussione gli stessi fondamenti del pattosociale e di lealtà reciproca tra i cittadini.

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Questo dualismo ingiustificato tra Europa nord-continentale edEuropa mediterranea richiede un confronto permanente per poter su-perare il pregiudizio e consentire un percorso di avvicinamento, undialogo finalizzato a una mediazione per superare le barriere culturalie la incommensurabilità dei modelli morali che alimenta una culturadel sospetto e della diffidenza reciproco impedendo un processo diulteriore integrazione europea fondata su modelli di etica pubblica senon identici (ciò significherebbe infatti un pensiero unico) quanto-meno convergenti. La mancanza di investimento nella cultura civicae in un modello evoluto di etica della responsabilità dipende da un at-teggiamento di fondo che si limita a frequentare un livello moralisticoo superficiale di etica della convinzione che si riduce a una sola di-chiarazione di intenti. Una ulteriore elaborazione delle categorieWeber si ritrova nel discepolo di Jung Erich Neumann che, negli anniimmediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, scrive unsaggio solo apparentemente psicoanalitico dal titolo: Psicologia delprofondo e nuova etica, dove si sostiene che, una volta acquisito chela psicologia del profondo o psicologia dell’inconscio trascende la di-mensione superficiale della coscienza di quello che la persona è con-vinta di essere, allora non si può più ragionevolmente credere in unaforma di etica della convinzione fondata su una visione ingenua incen-trata sul presupposto illusorio della piena trasparenza del soggetto ase stesso: a questo punto diventa indispensabile il richiamo a un mo-dello di etica della responsabilità. Si è sempre convinti di avere com-piuto la scelta eticamente corretta e solo dopo un complicato e dolo-roso processo di approfondimento delle pulsioni e delle ragioni e mo-tivazioni inconsce si arriva a scoprire quanto è invece spessodominante la stretta relazione col negativo e il compromesso col male.L’ambiguità morale della persona si nasconde sotto la superficie diuna adesione alle forme spesso convenzionali e rassicuranti di un’e-tica della convinzione.

Si può essere ritenuti responsabili non solo per quello che si com-pie sulla base di quanto coscientemente raccolto come informazioneed elementi di giudizio, ma anche di quello che la psicoanalisi chiamal’ombra del sé, fatta di tendenze inconsce e dunque non immediata-mente conosciute, ma gradualmente riconoscibili e intuibili con un pro-cesso di disvelamento e acquisizione di consapevolezza. L’inconscioprofondo rappresenta una componente decisiva nelle motivazioni dellacondotta e non è possibile ricostruire l’integrità della struttura identi-taria, psicologica e morale del soggetto rimuovendone la presenza.

Molto prima di Freud e della psicoanalisi, due millenni fa, San

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Etica pubblica: timore, convinzione e responsabilità

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Paolo, nella Lettera ai romani, con una affermazione che potremmoqualificare come antesignana della psicoanalisi, riconosce come il sog-getto, in realtà, non tanto faccia il bene che vuole quanto piuttosto ilmale che non vuole. Tutti desideriamo e compiamo azioni che rive-lano qualcosa di sempre più egoistico e trasgressivo rispetto a quelloche dichiariamo di volere agli altri, ma anche a noi stessi. Sulla basedi questo riconoscimento, affidarsi all’etica della convinzione diventaproblematico, se non ipocrita o ingenuo.

Abbiamo attraversato quasi un ventennio dominato dalla ricerca diun leader carismatico cui affidare una delega in bianco ad amministrarele sorti dello Stato. Questa lunga fase sembra ormai definitivamenteterminata, come è testimoniato dagli eventi politici più recenti, maanche dall’analisi di alcune tendenze di fondo rispetto ai c.d. sentimento percezioni, e all’inconscio collettivo che sembra animare i desideripiù profondi degli italiani in questa fase dominata dalla percezione edall’attesa di un momento epocale di trasformazione che si avvicina.

Il rapporto pubblicato congiuntamente dal Censis e dall’associa-zione “50 e più” che rappresenta gli italiani ultracinquantenni, cheormai rappresentano quasi la metà della popolazione, ha recentementecondotto un’indagine dove è stato riscontrata, rispetto alla serie di pre-cedenti rilevazioni, un trend che mostra il crollo della rilevanza del ca-risma come elemento fondamentale per la leadership del Paese. Sitratta di una netta discontinuità con il quindicennio precedente e se-gnala una brusca inversione di fiducia nella retorica del decisionismo.Quella del leader carismatico rappresenta una scorciatoia, una sempli-ficazione rispetto alla questione della crisi della rappresentatività: è untentativo di sintesi autoritaria che non tiene conto della complessità edel pluralismo della società contemporanea. Il recente rapporto Istat se-gnala una svolta verso una netta prevalenza del fattore razionale piut-tosto che in quello emozionale nel caratterizzare il modello di deci-sione per le scelte cruciali. Si tratta di un vero e proprio abbandonodel favore verso il tipico modello di decision making adottato dallaleadership di Berlusconi. Dunque un rifiuto, una saturazione versoquesto modello di leadership che ha caratterizzato l’apparato politicoche ha dominato questa lunga stagione politica italiana. C’è poi da ag-giungere un dato che sempre lo stesso rapporto indica e ciò che, afronte di ancora una forte influenza dell’ambiente familiare nel deter-minare le preferenze politiche, si mostra anche sempre meno rilevantel’influenza delle convinzioni di tipo religioso o l’appartenenza socialenel determinare le scelte di tipo politico. In questo senso si avverte unospostamento sull’asse delle convinzioni apparentemente individuali

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nella determinazione delle scelte politiche che sembra segnare unacerta discontinuità con quella tradizione all’etero-determinazione lar-gamente presente nei paesi a tradizione cattolica. Come psicoanalista,e a fortiori come psicoanalista junghiano che fa riferimento a un pa-radigma che riconosce significativa centralità al concetto di inconsciocollettivo, devo mantenere un certo scetticismo metodologico di frontea queste dichiarazioni che sembrano il prevalere di una forte istanza in-dividualistica e di forte autonomia soggettiva. Immagino infatti che gliindividui siano in fondo abbastanza inconsapevoli di quanto l’appar-tenenza determini le loro convinzioni in una prospettiva del profondo.

A questo proposito può essere utile ricordare come il legame sim-bolico con il territorio, con un’area geografica, sia stato in grado di de-terminare una trasformazione nelle preferenze politiche: basti pensarealla categoria della classe operaia del Nord, che aveva una vocazionenaturale a votare per il partito comunista e che ora ha spostato le suepreferenze verso la Lega Nord sentendosi maggiormente tutelata con-tro la paura della concorrenza da parte dei lavoratori extracomunitari.La categoria della paranoia diventa uno strumento ermeneutico estre-mamente utile per comprendere molti atteggiamenti e comportamenticollettivi. La paranoia come elemento sottostante e strutturante com-portamenti sociali e indirizzi politici. Anche qui si è assistito a una im-portante metamorfosi delle principali direzioni e proiezioni paranoi-che su nuovi bersagli. Prima c’era l’idea ossessiva della congiura delcomplotto del capitalismo internazionale che più recentemente ha presocome direzione il mondo dei migranti e degli extracomunitari oppuredegli islamici. Evidentemente esiste una innegabile responsabilità delsistema mediatico che contribuisce a moltiplicare l’ossessione e la per-cezione di accerchiamento da parte di chi vive una predisposizioneverso l’ossessione paranoica. I mass media di cattiva qualità, come hainsegnato la storia, moltiplicano la paura: l’impiego della radio nellaprima metà del XX secolo ha contribuito a mobilitare l’effetto emotivosulle masse nei regimi totalitari del nazionalsocialismo e del fascismo,ma anche la stampa nell’Ottocento, seppur impiegando linguaggi dif-ferenti, ha diffuso nell’opinione pubblica il contagio della malattia delnazionalismo. La paranoia come sentimento diffuso nell’inconscio col-lettiva è stata nella storia il precursore dei regime totalitari: pensiamoagli anni della repubblica di Weimar con il fenomeno dell’iperinfla-zione galoppante e il mood di disperazione che ha preparato il mon-tare della paranoia anticapitalista e antiebraica con la sua teoria delcomplotto da parte di una fantomatica plutocrazia internazionale. L’e-lemento manipolativo dei mezzi di comunicazione, analizzato artisti-

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camente da Orson Welles con il monologo La guerra dei mondi rendevapalese quanto la paranoia dell’alieno contribuisse ad alimentare l’in-conscio collettivo di attese ma anche paure profonde. Ancora Wellescon quel capolavoro del cinema che è Quarto potere rendeva manife-sto il legame stretto tra potere mediatico, potere politico, istrionismo delpotere e struttura inconscia del desiderio ipertrofico del potere.

Giorgio Galli con la sua acuta teorizzazione del “bipartitismo im-perfetto” ha delineato le ragioni e gli effetti dell’anomalia politica ita-liana durata per tutta la Prima Repubblica e fondata sull’assenza di unareale alternativa al blocco centrista. Un partito moderato e un partitodi alternativa sostanzialmente già inserito nel sistema a livello conso-ciativo e a livello di governo nelle regioni e negli enti locali ma esclusoautomaticamente dal governo centrale in virtù di una c.d. conventio adexcludendum determinata dalla realpolitik di un mondo diviso nei bloc-chi dal trattato di Yalta e destinato a mantenere in vita un accordo nonscritto di esclusione dei partiti comunista dal governo del Paese. I co-munisti in Italia crescevano ma non potevano andare al governo perrispettare la divisione geopolitica del mondo in due blocchi. Al crollodel sistema del socialismo reale si è determinata la diaspora di una si-nistra dispersa in un arcipelago di piccoli partitini minori di una sini-stra identitaria di testimonianza nostalgica e massimalista in grandedifficoltà a presentarsi come forza in grado di strutturare una alterna-tiva di sinistra per un paese tradizionalmente conservatore e centrista.Il crollo del muro di Berlino ha visto disgregarsi la sovrastruttura ideo-logica della lotta di classe riportando il PCI e i suoi eredi mutanti den-tro il sistema della socialdemocrazia europea. A questo processo dimetamorfosi del partito di Gramsci si è contrapposta una simmetricaimplosione della geografia culturale della destra italiana che nata a suavolta come anomalia e congelata in un reducismo inattuale è stata ri-succhiata dentro il contesto di una nuovo modello elettorale e un si-stema di alleanze che l’ha riportata al centro di un nuova dinamica po-litica. Quella del sistema politico italiano è dunque un’anomalia “per-fetta”, nel senso etimologico del termine: ormai completata, quasisimmetrica a sinistra e a destra, un’anomalia che non più imperfettaperché lo è diventata da entrambi i lati dello schieramento parlamen-tare. Un centrodestra che è nato grazie alla fusione fredda con un par-tito di destra prima escluso da una reale partecipazione alla vita poli-tica del Paese in virtù dell’ambigua relazione con il divieto costituzio-nale di ricostituzione del partito fascista, e un partito azienda, nato inseno a quella cosiddetta maggioranza silenziosa conservatrice delPaese che ha trovato il proprio portavoce nella leadership di Berlu-

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sconi, l’imprenditore carismatico di un impero mediatico. Un leaderazienda che ha venduto la propria proposta politica alimentando la pa-ranoia di un anticomunismo post-moderno, a guerra fredda conclusa,con gli strumenti di un marketing ossessivo e fondato sul mito del selfmade man e dell’ostentata immagine di uomo nuovo, di parvenu pre-stato alla politica italiana con la missione di liberarla dalle incrosta-zione della burocrazia e dello statalismo. Una maggioranza silenziosache paradossalmente urla per mezzo della voce mediaticamente ampli-ficata di un leader populista di stampo sudamericano che, quando è indifficoltà, evoca il pericolo di una congiura internazionale e trasformagli avversari in nemici e presunti cospiratori.

In questo ventennio abbiamo assistito in Italia a un processo diprogressiva regressione infantile degli italiani sull’onda di un impulsodifensivo, di un meccanismo di difesa fondato sul regime ossessivodella paranoia. Ora il Paese deve riscattarsi dando prova di essere ingrado di emanciparsi dalle paure maturando un sano rapporto con ilprincipio di realtà. La verticalizzazione di un comando scenico e pre-valentemente mediatico ha influito a fondo sulla nostra prospettivaanche mentale. C’è, sembrerebbe, una ripulsa verso l’unico personag-gio al comando. Occorre ridisegnare le categorie e i concetti, le paroledella leadership. Un momento drammaticamente e potenzialmenterifondativo e di ripartenza. Per questo servono strumenti concettualie culturali con cui operare la trasformazione. In questo momento c’èuno spazio riflessivo e una possibilità che il cittadino medio mostracon una disaffezione alle risposte di tipo carismatico e vuole una lea-dership riflessiva. Si apre fortunatamente uno spazio potenziale di ri-sposta razionale e realistica rispetto alla drammaticità che la serietàdel momento richiede. C’è un profondo rigetto del sistema di coper-tura illusoria delle questioni, c’è voglia di tornare a parlare il linguag-gio della complessità e della realtà contro le mistificazioni ideologi-che e propagandistiche. Si affaccia sul nuovo millennio una nuova ge-nerazione critica dei giovani da contrapporre a quella che è la vecchiagenerazione critica come quella del ’68.

Per utilizzare le ormai quasi abusate categorie junghiane di estro-verso-introverso, quella del ’68 si mostrava come generazione estro-versa, mentre i giovani critici di oggi appaiono come introversi. Nonsi può generalizzare descrivendo i giovani come lontani dai libri e to-talmente assorbiti dai nuovi media o condannati alla povertà culturaleo all’appiattimento televisivo. C’è una nuova classe di giovani di fortilettori: quelli che leggono, leggono ancora più di prima. C’è una nuovagenerazione che non vede una contrapposizione tra lettura e new

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media, tra letture di qualità e immersione nel web. Ci sono dei ven-tenni che leggono più dei trentenni, ciò determina una tendenza allacrescita del pubblico dei lettori forti nei prossimi decenni. Alcuni gio-vani sono introversi e si incontrano solo in una dimensione virtuale mapoi ci son i casi come quelli degli indignados o di occupy wall street.Il concetto di indignati è ancora troppo vago e generico come pro-getto, gli indignati dovrebbero trovare una dimensione ricostruttivanei confronti della cultura economica del capitalismo occidentale.Nella generazione critica del ’68 il modello intellettuale era quellodel guerrigliero come Che Guevara, adesso la giovane generazioneha Roberto Saviano: è un modello di passione civile unita a introver-sione e solitudine che vive per i libri e fra i libri rinchiuso forzata-mente per le minacce che ha ricevuto. È una figura simbolica di unacondizione di riscatto attraverso il rischio della verità e l’effettiva ca-pacità di cambiare la realtà attraverso l’impiego simbolico delle parolein un contesto dove regna il silenzio imposto dalla paura e dell’o-mertà. E poi ci sono le nuove generazioni laiche e democratiche chehanno cambiato in pochi mesi il volto dei paesi del Nord Africa. Im-piegano i social network come strumento non solo di comunicazionee controinformazione ma anche di mobilitazione.

Dopo l’attentato dell’11 settembre l’America dell’amministrazioneBush si è dedicata alla politica della paura e della paranoia. Bush halanciato la homeland security e nuovi sistemi di spionaggio creati sot-traendo risorse alla sanità pubblica e al sistema sociale di welfare. Ottoanni di Bush con investimenti colossali in strumenti per difendersi daun nemico islamico e poi tutto il dipartimento di Stato e l’apparato diintelligence viene sorpreso dall’infiammarsi delle rivoluzioni nel NordAfrica. Dunque l’idea stessa del complotto islamico e dello scontro diciviltà ha visto un ridimensionamento e si è dovuto riconoscere unruolo residuale del consenso verso Al-Quaeda e più in generale deifondamentalismo nelle società arabe. Queste rivoluzioni non sono nateda una congiura di questi estremisti radicali, casomai hanno rivelato ladebolezza di questi movimenti fondamentalisti.

Per la creazione di un nuovo leader diventano importanti i mecca-nismi decisionali, i percorsi, i tempi. Entro determinato tempo si deveprendere una decisione, si deve prendere una decisione: questo non èmolto confacente rispetto alla mentalità italiana, con una forte diffe-renza rispetto al modello di decision making pragmatico del mondoanglosassone che sa organizzare una metrica e una tempistica del pro-cesso di decisione. La leadership deve fare ricorso allo strumento deisondaggi solo in momenti particolari, il sondaggio deve essere un mo-

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mento di verifica delle strategie e non può essere un ispiratore delprogramma: altrimenti si va incontro agli istinti più populistici, bastipensare al terreno della politica fiscale e del rigore finanziario.

Mi sembra che ora, dopo aver attraversato una vera e propria orgiadi mucillagine, con il suo impasto di effimero e di detriti di sogni,come descrive con la consueta precisione il sociologo De Rita, pos-siamo finalmente tornare a riflettere e provare a pazientemente ristrut-turare il tessuto sociale e relazionale perduto in questi ultimi decennia partire da un rinnovato rapporto con la nostra libertà, con la nostramente razionale ma anche emozionale e simbolica, consapevoli chenon può essere una delega in bianco a un leader decisionista con unego ipertrofico e narcisista a rassicurarci contro la paura collettiva delfuturo, ma deve soccorrere la consapevolezza che i saggi sono taliquando sanno parlare il linguaggio di una forza mite fondata su unaassertività razionale e convincente senza mai indulgere nella sedu-zione, ma sapendo raccogliere il Paese attorno a narrazioni capaci diispirare ragionevole speranza.

(Luigi Zoja, psicanalista e saggista)

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