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Governare il progresso per innovare e crescere Filippo Antonio De Cecco 137 L’ambiente economico contemporaneo si caratterizza in misura cre- scente per la dinamicità con cui i mutamenti sociali, organizzativi, com- portamentali e tecnologici modificano incessantemente le coordinate di riferimento per l’impresa e, più in senso lato, per la struttura dei rap- porti sociali rigenerando continuamente nuovi nessi di causa ed effetto e rimescolando le relazioni tra fenomeni e attori sociali. Ciò è tanto più vero per un’azienda, come la nostra, presente su tutti i principali mer- cati mondiali e che opera in un settore maturo, tipicamente caratterizzato da un ridotto numero di competitori che si sfidano in un’arena senza li- miti spaziali. Il processo di internazionalizzazione accompagna la nostra azienda fin dalle origini superando il localismo dei confini nazionali e misu- randosi da subito con il mercato globale. Le radici della storia della De Cecco, che nel 2011 ha celebrato 125 anni di attività, affondano nelle vicende dell’Italia preunitaria e accompagnano il percorso di cre- scita sociale e democratica del nostro Paese: ciò ha segnato sin dalla sua origine l’identità della De Cecco come simbolo dell’eccellenza qualitativa dei prodotti italiani, rendendola antesignana del made in Italy nel mondo. Sin da quando la debole economia del giovane Stato unitario timidamente si affacciava sui mercati internazionali, De Cecco, ambasciatore del gusto italiano, già esportava sistematicamente i suoi prodotti all’estero. Abbiamo costruito nel tempo una leadership imprenditoriale all’insegna dell’eccellenza qualitativa e della salva- guardia del valore dell’italianità, attraversando, ogni volta con energia rinnovata, i mutamenti del contesto politico, sociale ed economico, dalle emigrazioni ai conflitti mondiali, alla crisi degli anni Venti, al Boom Economico degli anni Sessanta, alla globalizzazione dei mercati alla trasformazione del costume, della società e degli stili di consumo, fino alla crisi finanziaria ed economica di questi anni. Salvaguardare il made in Italy nella moderna economia globalizzata è importantis- simo perché significa tutelare la tradizione sia come espressione ga- stronomica sia soprattutto come fattore di identità e cultura aziendale 02-137-233 Leadership futura_Difesa 21/06/12 15:06 Pagina 137

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RACCOLTA DI INTERVENTI SULLA LEADERSHIP FUTURA ITALIANA ------(IN ORDINE ALFABETICO)--- TESTI DI--- Gabriele Albertini, Magdi Cristiano Allam, Nelso Antolotti, Angelo Benedetti, Pierluigi Bernasconi, Marco Bizzarri, Dario Bonacorsi, Giovanni Bossi, Carlo Brunetti, Ruggero Brunori, Claudio Buja, Matteo Calise, Loris Casadei, Gabriele Centazzo, Marco Colatarci, Andrea Colombo, Gherardo Colombo, Patrick Colombo, Fabio Cusin, Filippo Antonio De Cecco, Giovanni Degli Antoni, Stefano Dominella, Sergio Dompé, Armando Alisei, Piero Fassino, Diego Fusaro, Giancarlo Galli, Vito Gamberale, Vladimiro Giacché, Giordano Bruno Guerri, Vincenzo Ilotte, Edoardo Imperiale, Giancarlo Innocenzi Botti, Simone Lenzi, Massimo Maccaferri, Maurizio Maggiani, Maurizio Marinella, Valentino Mercati, Paola Michelacci, Valerio Millefoglie, Francesco Mutti, Heiner Oberrauch, Massimo Panzeri, Laura Parigi, Giuseppe Pasini, Francesco Pesci, Marina Debra Pini, Giorgio Pisani, Massimo Pizzocri, Alessandro Politi, Cristiano Portas, Vittorio Prodi, Giulio Properzi, Vittorio Raschetti, Lidia Ravera, Giovanni Reale, Ivan Rizzi, Francesco Rezzi, Fabio Rossello, Carlo Salvatori, Giuseppe G. Santorsola, Giulio Sapelli, Massimo Scaccabarozzi, Andrée Ruth Shammah, Roberto Siagri, Alessandro Varisco, Elio Veltri, Michele Vinci, Andrea Vitullo, Eleonora Voltolina, Alberto Zanatta, Luigi Zoja

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Governare il progresso per innovare e crescere

Filippo Antonio De Cecco

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L’ambiente economico contemporaneo si caratterizza in misura cre-scente per la dinamicità con cui i mutamenti sociali, organizzativi, com-portamentali e tecnologici modificano incessantemente le coordinate diriferimento per l’impresa e, più in senso lato, per la struttura dei rap-porti sociali rigenerando continuamente nuovi nessi di causa ed effettoe rimescolando le relazioni tra fenomeni e attori sociali. Ciò è tanto piùvero per un’azienda, come la nostra, presente su tutti i principali mer-cati mondiali e che opera in un settore maturo, tipicamente caratterizzatoda un ridotto numero di competitori che si sfidano in un’arena senza li-miti spaziali.

Il processo di internazionalizzazione accompagna la nostra aziendafin dalle origini superando il localismo dei confini nazionali e misu-randosi da subito con il mercato globale. Le radici della storia dellaDe Cecco, che nel 2011 ha celebrato 125 anni di attività, affondanonelle vicende dell’Italia preunitaria e accompagnano il percorso di cre-scita sociale e democratica del nostro Paese: ciò ha segnato sin dallasua origine l’identità della De Cecco come simbolo dell’eccellenzaqualitativa dei prodotti italiani, rendendola antesignana del made inItaly nel mondo. Sin da quando la debole economia del giovane Statounitario timidamente si affacciava sui mercati internazionali, DeCecco, ambasciatore del gusto italiano, già esportava sistematicamentei suoi prodotti all’estero. Abbiamo costruito nel tempo una leadershipimprenditoriale all’insegna dell’eccellenza qualitativa e della salva-guardia del valore dell’italianità, attraversando, ogni volta con energiarinnovata, i mutamenti del contesto politico, sociale ed economico,dalle emigrazioni ai conflitti mondiali, alla crisi degli anni Venti, alBoom Economico degli anni Sessanta, alla globalizzazione dei mercatialla trasformazione del costume, della società e degli stili di consumo,fino alla crisi finanziaria ed economica di questi anni. Salvaguardareil made in Italy nella moderna economia globalizzata è importantis-simo perché significa tutelare la tradizione sia come espressione ga-stronomica sia soprattutto come fattore di identità e cultura aziendale

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e nazionale. Un fattore distintivo per il nostro storico brand è rappre-sentato dalla continuità di governance De Cecco “since 1886”. I di-scendenti del Fondatore (siamo arrivati oggi alla quinta generazione)sono ancora in prima persona coinvolti nella gestione diretta dell’im-presa che è De Cecco al 100%. Questo ci ha permesso di salvaguardarenel tempo, e tramandare, quei valori fondativi che sono alla base dellacrescita e della distintività della nostra impresa: il rispetto delle regolee delle persone, la passione instancabile nel fare il nostro mestiere, lacompetenza produttiva. Si tratta di autentici fattori di vitalità che, infondo, non sono poi così distanti dalle virtù etiche che il nostro Paesenel suo complesso richiede in un momento di grandi cambiamenticome quello che stiamo vivendo. A partire dal 1986, anno in cui DeCecco ha celebrato il Centenario, abbiamo avviato in azienda un pro-cesso di trasformazione della leadership da familiare a managerialeinserendo nuovi profili manageriali di supporto agli amministratorinella gestione dell’impresa (una rivoluzione nella struttura della diri-genza che dall’unico dirigente nel 1987 ha portato agli oltre 25 nel2011). La scelta di una leadership plurale si è rivelata vincente: in 25anni, dal 1986 al 2011, la produzione si è più che triplicata e il fattu-rato si è quasi decuplicato. La guida manageriale ha, dunque, consen-tito all’azienda di crescere migliorando la capacità di risposta adattivaalle metamorfosi dei mercati proiettandosi nel futuro. Probabilmente,competenza e professionalità sono fattori e obiettivi da cui qualunquepercorso di ricambio della classe dirigente del nostro Paese non puòprescindere e, a tal fine, svolgono un ruolo cruciale gli Istituti di for-mazione, in primis le Università. È fondamentale, infatti, formare laclasse dirigente del futuro educandola a una piena coscienza dellagrande responsabilità che ruoli apicali richiedono, sia a livello perso-nale che professionale e, soprattutto, istituzionale.

Alla leadership individuale è preferibile una leadership plurale fon-data su un progetto e una visione condivisi. Naturalmente, condivisionee partecipazione devono costituire plusvalori nella focalizzazione e nelperseguimento degli obiettivi prefissati e ricomprendere anche la pos-sibilità che, a volte, correndo il mondo sempre più velocemente ed es-sendo sempre più ridotto il tempo a disposizione per prendere le deci-sioni analizzando i dettagli e discutendoli coralmente con lo staff, ladecisione possa essere “delegata” a un leader. Non a caso, in molte Bu-siness School americane, nei corsi sulla leadership si continua a studiarecome istruttiva case history il viaggio di esplorazione dell’Antartide del-l’eroico Ernest Shackleton. Per due anni costui rimase bloccato tra ighiacci dell’Antartide con i suoi uomini. Per sopravvivere fu costretto

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a prendere, e talvolta imporre con forza, decisioni difficilissime e dure,ma alla fine riuscì a salvare la vita di tutti i membri della spedizione.

Condividere gli obiettivi e suddividere le responsabilità è sicura-mente il modello vincente per la competitività delle moderne organiz-zazioni, ma ritengo che questo funzioni se l’enfasi non rimanga centratasolo ed esclusivamente sul gruppo. Infatti, un leader visionario e cari-smatico, capace di ispirare, motivare e guidare il gruppo è sempre unapresenza auspicabile, una risorsa a valore aggiunto in grado di molti-plicare il potenziale del gruppo stesso. Naturalmente ogni leader di-spone di un suo proprio personalissimo e irripetibile mix di caratteri-stiche individuali, competenze e qualità. È, comunque, importante, oltrealle caratteristiche personali, essere percepiti e riconosciuti leader dalgruppo, e più in generale dalla comunità, quindi occorre essere credi-bili. La leadership, infine, deve essere anche etica, nella stessa misura,e forse anche di più, in cui, dal punto di vista aziendale, il ruolo eticoe sociale di un’azienda non è diverso o distinto dal suo ruolo istituzio-nale. Ogni mission tesa a soddisfare precisi bisogni umani si deve rea-lizzare in piena coerenza con la propria identità istituzionale e si com-pie pienamente solo se si dispiega in modo responsabile e in armoniacon la pluralità di interlocutori con cui via via si intessono relazioni invista del “bene” collettivo. In tal senso l’obiettivo non è mai unico(esclusivamente profitto o mera crescita o consenso), ma è sempre ilfrutto di una molteplicità di obiettivi interconnessi la cui sintesi costi-tuisce propriamente il vero bene diffuso “comune”, della singola orga-nizzazione e della comunità.

Quando il primo uomo riuscì a osservare la Terra dallo Spazio, erail 1961. Nello stesso anno fu realizzata, in bianco e nero, la prima tra-smissione TV in diretta dall’Unione Sovietica all’Europa e due anni dopogli americani riuscirono a lanciare nello spazio il primo satellite per letelecomunicazioni. Nel 1962 fu identificato il codice genetico, il DNA,e un anno dopo i primi trapianti di fegato e polmone, poi nel 1967 quellodi cuore. Solo due anni dopo l’uomo è arrivato sulla Luna. Da allorasono passati circa cinquant’anni. Quello che oggi diamo per acquisitoè, in realtà, una conquista “recente”. Un bambino oggi in età scolaregioca con il cellulare e impara che può comunicare con chiunque,ovunque si trovi e in qualunque momento; maneggia con destrezza l’i-Pad e il telecomando del televisore per scegliere tra una miriade di pro-grammi televisivi. Non era certo così per chi aveva sei anni alla fine de-gli anni Sessanta, quando il televisore era presente in pochissime casee il telefono era fisso e non era certo alla portata di tutti. Peraltro, i primimodelli di telefoni cellulari sono iniziati a circolare solo alla fine degli

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Governare il progresso per innovare e crescere

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anni Ottanta... Oggi ci sono più telefonini che abitanti e questo rendebene l’idea di quanto il progresso corra a una velocità superiore rispettoalla nostra capacità di afferrarne pienamente il senso e ci lascia imma-ginare la portata del progresso sociale compiuto nel medesimo arco ditempo misurata in termini di cambiamenti degli stili di vita, di abitudinidelle persone, di evoluzione culturale, relazionale e comunicazionale.Al contrario, il modello della conoscenza, e la pratica dell’apprendi-mento, non è altrettanto cambiato nella sua dimensione di essenza, piut-tosto nelle dinamiche di relazione divenendo sempre più sfuggente. Laconoscenza ha perso i caratteri elitari che la caratterizzavano nel Me-dioevo e nel Rinascimento, quando i monaci amanuensi e gli umanisti,traduttori dei classici greci e latini, erano gli esclusivi depositari del sa-pere scientifico, letterario e filosofico per pochi. La cultura oggi è a di-sposizione della massa e viene divulgata attraverso canali multimedialisempre più variegati e pervasivi in grado di raggiungere tutti. La cono-scenza on line ha cominciato a diffondersi massicciamente all’inizio del2000 propagandosi ovunque nel giro di meno di un decennio. Qualsiasinozione è virtualmente a disposizione di tutti. Chi necessita di deluci-dazioni su qualsiasi argomento, lo può reperire in tempo reale sul web.

Ci sono però anche controindicazioni in relazione a una diffusionecosì ampia e incontrollata della conoscenza in cui ogni parola o concet-to può assumere molteplici significati. Chiunque, in questa nuova agoràvirtuale in cui il mondo è stato traslato, è in condizione di esprimere pa-reri e opinioni a prescindere dalla opportunità o dalla sua reale capacitàdi farlo: una democratizzazione del sapere che sicuramente mette in motoe agevola meccanismi virtuosi di stimolo alla cultura e all’apprendimen-to ma che va governata per evitare la diffusione di saperi non sottopo-sti a verifica. Il rischio, infatti, potrebbe essere l’eccessiva speculazio-ne concettuale che non crea nuova conoscenza, anzi, al contrario, ten-de a generare confusione e disinformazione. Occorre oculatezza e di-scernimento, quindi è importante educare le nuove generazioni a un usoresponsabile delle informazioni digitali attraverso la comprensione, eil governo, delle dinamiche della cultura digitale. La nuova élite dellaconoscenza è quella che, grazie all’approfondimento e all’esperienza,sa sovrapporre e far coincidere concetti e significati. Il vero problemadella contemporaneità resta forse il sacrificio del tempo per compren-dere e apprendere, ma affinché una democrazia del sapere sia effettivaed efficace, è necessario non solo distribuire informazione, quanto piut-tosto insegnare ad apprendere.

(Filippo Antonio De Cecco, presidente Pastificio De Cecco)

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Quando capiremo? Ma capiremo?

Giovanni Degli Antoni

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Stiamo vivendo in una crisi… senza dubbio. Ma quando capiremocosa sta avvenendo? Ciò che osserviamo è capire? Osservare lospread è capire? Osservare i suicidi è capire? La lotta per le tasse è ca-pire? L’aumento di ricchezza di alcuni è capire? La disaffezione so-ciale dei giovani è capire? La lotta politica con riferimenti ideali è ca-pire? La scarsità di leadership è capire? Il rumore di fondo silenziosodei militari è capire? L’apparente diffusione dell’egoismo è capire? Eche dire dei vari strati della comunicazione etnica, giuridica, politica,morale, religiosa, etica… con i loro predicatori (sono presente!!)… ciaiutano a capire?

Forse (ripeto: forse) dobbiamo metterci nello stato d’animo diTeilhard De Chardin oppure di una equivalente audace interpretazionedi Eraclito (essere è divenire ). In entrambi i casi la nullità o inesi-stenza del presente è tutt’uno con il divenire. Fin qui nulla di nuovo…Tutti lo sappiamo… Ma Teilhard De Chardin ha segnalato che l’evo-luzione del Popolo cinese si è effettuata come se quel Popolo tornassea sue antiche origini anche passando attraverso il confucianesimo gra-zie alle spinte Marxiste del Maoismo. Se così… la direzione deltempo non è scontata! La conservazione diventerebbe un chiaro segnodi preferenza al così detto passato…!

Orbene: perché anche noi abitanti della penisola italiana non do-vremo subire una evoluzione analoga? Sarebbe tutto più semplice.

Capiremmo la nostalgia e l’amore del passato… Capiremmo che i suicidi vogliono tornare all’eroismo da cui sono

partiti per costruire le loro conquiste… Cioè la proprietà privata…Capiremmo che l’attuale organizzazione gestionale e non padro-

nale delle imprese è contro natura… Capiremmo che il senso di proprietà pervade anche la cosa pub-

blica… Come per le dirigenze e gli autori di opere letterarie, multime-dialità o altro…

Capiremmo anche i partiti governati da chi li tratta come proprietàprivata…

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Capiremmo che la lotta di classe si è trasformata in Basilea 2 comedifesa estrema dei poteri che vogliono patrimonializzare il piccolo perincorporarlo a loro beneficio… attraverso il tentativo del mondo ban-cario di impossessarsi delle proprietà private… così come i pesci grossimangiano i pesci più piccoli…

Capiremmo che la lotta per l’articolo 18… è fatta da: 1. CHI si difende con i denti… e in contrapposizione a2. CHI cerca di rendere digeribili i bocconi… dei GRANDI CENTRI:Supermercati, Super Fabbriche, super IMPORTER che desiderano

incorporare (per PROFITTO) le modeste proprietà delle piccole imprese(private)… e i loro numerosi piccoli pascoli (mercati)…

…non volendone però assorbirne i veleni, che da loro punto divista sono rappresentati da chi intende dare alle piccole imprese unastruttura per la stabilità… della loro vita… opponendosi così al neoLATIFONDISMO COMMERCIALE!

Capiremmo anche che la Giustizia si comporta esattamente comeimpresa in cui la gelosia per la proprietà… non è certo assente…

Capiremmo anche un gigantesco sciopero di CINQUANTA MILIONI

di cittadini in INDIA che ha fatto ripiegare decisioni governative a fa-vore di supermercati contro la vita di coloro che attraverso peripeziedi ogni genere avevano conquistato con i loro negozi il diritto a un pòdi pane…

Così certo il Governo Indiano ha raccolto meno tasse facili… a fa-vore della loro burocrazia! Evviva!!!

Capiremmo anche che non possiamo predicare a favore dei Tibe-tani… e volere per noi uno sviluppo in cui il tempo non solo non èfermo… ma avanza in altra direzione…!

Capiremmo anche il debito pubblico (che esiste realmente) indi-pendente da chi e come viene costruito è utile per rendere possibile lerapine di Stato che danno ricchezza agli scheletri burocratici, affa-mati di tutto, soprattutto voraci di proteine rappresentate dalla capa-cità di produrre ricchezza delle piccole imprese… da divorarequindi… Per riuscirci ricorreranno all’inflazione e per mantenerne ilcontrollo… nonché alle discipline militari… che potrebbero peròavere nuovi volti…

E: chi detiene la proprietà privata di quella entità chiamata Stato?Sì: lor signori! Vogliono la proprietà privata: la LORO…! Il buffo è che la società in questi ultimi anni è stata cablata per di-

fenderla dalle minacce del comunismo… Lo stesso comunismo cheora insegna la logica organizzativa allo stato (agli stati?). Quindi ca-pire il Comunismo di ieri non è certo utile per capire il comunismo di

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oggi… Anche per il fatto che l’anticomunismo di ieri ha insegnato atutti un po’ di Comunismo… Ed è anche utile osservare che l’exUnione Sovietica sta suggerendo liberismi che noi avevamo… ma nonvorremmo che altri li adottino… E sobilliamo quei popoli certamenteal liberismo che NOI (chi?) abbiamo abbandonato in difesa dei nostricontrolli sui mercati e sui flussi di prodotti… e sul Comunismo distato… come in CINA…!!

E come il non capire che l’oggi con tutti suoi dettagli ci travolgecome uno tsunami di onde di dettagli la cui interpretazione va lettaalla luce dei suggerimenti di ERACLITO?

Siamo nei guai! Che fare? Esiste anche chi spera che nelle guerrecon la loro capacità di asservire i popoli attraverso morti e povertà in-dotte permettano di chiarire il panorama… per CHI?

La violenza del nazismo non ci è bastata… attenzione il pericolonucleare incombe sempre… e alcuni (quelli del CLUB… pochi uo-mini!) ne hanno la proprietà… privata… per i loro gusti…!

Un passo avantiMa proprio con capiremmo nulla se non dissociassimo varietà

nella direzione dell’evoluzione e degli sviluppi!Andiamo indietro? Ma non in tutto! Andiamo avanti ma non in

tutto! Tenete pure le Vostre definizioni di avanti o indietro… tutto fun-ziona ugualmente… e con la forza che ha portato una palla di fuoco(la Terra) a essere abitata da esseri biologici umani… e ha visto molteforme della natura nascere e sparire…

Rimanendo nel nostro modesto orticello dobbiamo chiederci?Possiamo fare qualche cosa?

Pensiamo al presente come una entità inesistente ovvero il pre-sente come tante altalene in equilibrio che possono oscillare… quandosollecitate… L’equilibrio rende le altalene instabili e sensibili a pic-coli spostamenti… perfino il pensare può spostare masse ed energie(cioè le altalene). Un po’ come nelle trappole da topi: toccare il for-maggio attiva l’altalena… che scatta… e poi si si ferma in attesa di es-sere ricaricata…

Le altalene spinte dalle loro energie interne (le molle) fanno deci-dere le sorti di altre altalene… che a questo punto si muovono con laloro inerzia… che è inerzia fisica… inerzia economica… inerzia so-ciale inerzia… politica… inerzia umana (antropologica)… Ma nontutte le altalene si muovono nella stessa direzione… anche grazie a quelmisterioso concetto che è l’autonomia… che negli uomini è l’identità!!

E ciascuna altalena anche nel suo moto inerziale ha un presente

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Quando capiremo? Ma capiremo?

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instabile con le molte altalene che la compongono e contraddistin-guono e molti passati/futuri anche all’interno di moti inerziali… maugualmente autonomi… Così come nella nostra piccola vita siamoautonomi… o crediamo di essere tali… nello sviluppo dell’altalenacosmologica… geologica… biologica… e ora biotecnologica…

Ovvero ogni entità inerziale vive IN altro e ha dentro altro… nellasua autonomia limitata…

Naturalmente il presente tutto continua a essere in equilibrio (Im-maginatelo… potete…) e in attesa di passato/futuro. Ma intanto sideforma… e questa è la sola immagine che ci è seriamente concessa…

La Scienza può aiutarci…! Non poco e non molto! Comunquetutto dipende dagli uomini e dalla loro conoscenza… non solo dagliscienziati! Ma lasciatemi procedere con cautela… (come ho cercatodi fare fin ora…?).

Controllare la direzione dell’evoluzione…Può sembrare pretenzioso… poter controllare l’evoluzione e forse

lo è. Ma l’UOMO-SCIENZA non ha rinunciato a tentare di farlo…!Ripassare l’elenco dei successi nella lotta contro l’inevitabilità

della morte causata dalle inerzie… richiede molte pagine… Tutti sap-piamo che l’uomo ha inventato l’energia nucleare per costruire equi-libri militari… energetici… ma che può usare quell’energia controaltre minacce per altri equilibri… per esempio trasportando le bombeatomiche con missili nucleari verso meteoriti che già ci insegnanoqualcosa sul nostro futuro… e ci parlano della nostra autonomia li-mitata… E con gli stessi missili speriamo di portare l’uomo ben oltrela Luna…

L’energia nucleare ha permesso al Giappone di essere una potenzamanifatturiera (superando la fame e rinunciando alla Guerra) e di pre-parare quel popolo a eliminare per primo gli effetti negativi ben notidell’energia nucleare e dei combustibili fossili… grazie alle emer-genti fonti innovative (solare… geotermiche… fusione fredda…).

Non diverso è il fronte delle varietà evolutive nella biologia…Evoluzione che è necessaria per dare alla medicina la possibilità diguarire i singoli uomini senza gravare su tutta la collettività in terminidei costi così detti della salute… E soprattutto evitare di prescriverenelle forze che determinano la direzione delle evoluzioni politiche…elementi di morte artificiale…

Ricerche promettenti… esistono da quando l’uomo ha identifi-cato la chiave dell’identità biologica dei singoli individui (il DNA IN-DIVIDUALE)…

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Ma con quali risorse possiamo contribuire?Se non ci collochiamo in un sistema di altalene in equilibrio insta-

bile… le altalene sono lì. Ma se appena lasciamo o rendiamo possi-bile lo spostamento dall’equilibrio… ecco che qualche molla scatta…e ci libera l’energia che la natura mette a disposizione… Sì, tutto vienedalle energie fisiche che la natura ha nascosto nelle sostanze e nellerelazioni fra di loro… L’energia cosmica… nucleare… atomica… chi-mica… biologica… sociale e mentale (lo spirito?) sono dettagli nasco-sti in pezzi di universi… disponibili a noi… anche se ci lasciano solotrasformare energie e forme fisiche in altre forme senza che noi pos-siamo creare o distruggere nulla… quel compito non ci compete…

Le energie non sono distribuite uniformemente e le molle iner-ziali possiamo attivarle… Il topo in una trappola attiva una molla chelo uccide… Non è il solo modo per recuperare energie… E l’uomo(gli uomini) lottano continuamente per individuare vie per dare unadirezione alle energie naturali… ovviamente sfruttando la realtà…

Il ruolo della conoscenzaIl tema è immenso. Ma lo abbreviamo. L’uomo osserva e cerca di

descrivere il ripetibile. Ne fa conoscenza trasmissibile ad altri. La let-tura della conoscenza si trasforma in esperienza acquisita cultural-mente. La diffusione generalizzata della conoscenza diventa così unpatrimonio comune… gratuito… o meglio con solo costi di conserva-zione (che sprechi a parte tendono a diventare nulli…) Ovviamenteanche la conoscenza va gestita insegnata e migliorata con una miriadedi imprese (individuali e non… egoiste e non) e diventa merce comeogni altra opera umana con le sue regole commerciali… Gli è comun-que che come lo STUDIOSO entra nella letteratura al costo dei suoi sa-crifici… così lo STUDIOSO DI SCIENZA E TECNOLOGIA può disporreanche individualmente di immensi capitali non solo concettuali maanche pratici.

Un caso importante è quello della progettazione che grazie alletecnologie informatiche è diventata realizzazione virtuale di qualcheentità reale o non… Così le realizzazioni virtuali diventano osserva-bili come nuova forma di lettura… diventano come altri elementi dellacultura dei depositi di conoscenza… che dovranno essere gestiti inse-gnati manutenuti e proposti a chi di dovere per qualche REALIZZA-ZIONE… che… meglio… dovrebbe venir indicata con il termine di IM-PLEMENTAZIONE…!

La cultura della progettazione può così diventare anche accesso anuovi affari… pensare… progettare… virtualizzare… Tutto ciò ri-

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Quando capiremo? Ma capiremo?

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chiede lavoro e ha costi… Che sono bassi per i competenti… Alti pergli altri! Ne segue che chi implementa usando buona progettazionevirtuale ha costi più bassi di altri…

La competizione oggi è tutta concentrata sulle conseguenze dellacompetenza per gli obiettivi fissati di realizzazioni: chi non ha com-petenze perde… Chi ritarda nell’acquisirle perderà…

Qui sembra un incentivo alla competizione selvaggia.. NO! È unurlo per la riduzione dei costi nell’implementazione di ogni entità percombattere in termini competitivi il debito pubblico!

Ciascun progettista (giovane e non)… sa dedicare attenzione alletecniche di progettazione virtuale… se lo fa… aiuterà il debito pub-blico e il futuro di molti… anche di coloro a cui non dovremo far farela fame (i paesi poveri)… per mantenere la nostra qualità di vita…

È sui temi della virtualizzazione che si deve discutere in terminidi openess.. ovvero di usabilità facilitata (a basso costo…) grazie alleconoscenze acquisite socialmente… Ottima l’idea di fondo… Se icosti di un’autonomia della virtualità non vengono aumentati dairitardi di acquisizione delle autonomie… rendendo quindi vani glisforzi realizzati… A quel punto arriveranno costruttori da fuori che ciinsegneranno tutto e ci faranno pagare tutto di più… e realizzerannoun LATIFONDISMO VIRTUALE impoverendo tutti coloro che con la pro-pria creatività ci hanno portato al livello di appetibilità da parte dimodelli che sono contrari alla nostra evoluzione culturale… Difen-detevi… comportatevi come se per voi ci fosse un articolo 17virtuale…

Un esempio: l’ELIMINAZIONE DELLE PROVINCIE

Le provincie sono prodotti Nazionali. Sono basate sulla nostracultura. Hanno usato nostro lavoro… certo anche contribuendo al de-bito pubblico… non sole…! Le energie interne tendono alla loro con-servazione. Altre forze esterne tendono alla loro eliminazione… Sonoin equilibrio… Ma può bastare poco (e sta avvenendo) per modificaregli equilibri. Le molle sono tese. Le conseguenze inerziali sono in at-tesa… Che fare?

Ecco cosa gli informatici dovrebbero proporre: realizzare COPIE

VIRTUALI con UFFICI prima collocati nelle attuali sedi delle provin-cie… e quindi trasferiti senza colpo ferire e senza costi nei luoghireali o virtuali di destinazione delle funzionalità… che altri dovrannocurare…

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I dettagli economici di ottimizzazione… di liberazione di risorsepubbliche… di abbinamento fra vari uffici di provincie comuni pre-fetture od altro li lascio alla creatività che certo non manca…

Di più non dirò… ma so che alcuni di voi chiederanno: dove col-locare il CLOUD e le APP affinché i cittadini anche anziani possano ri-correre ai servizi a loro destinati… (se ci sono)? E l’agenda digitale?

RiferimentiGelminello Alvi, Il capitalismo verso l’ideale cinese, I nodi, Marsilio.G. Degli Antoni, Armamenti e centrali nucleari. L’esercito costruisce il fu-

turo, in www.affaritaliani.it >rubriche>ragioni del cambiamento (2012).

RingraziamentiLi debbo alle discussioni con molti: Ivan Rizzi, Angelo Perrino, Gian Carlo

Dalto, Giorgio Giunchi, Renzo Magni, Regina Mezzera…Gianfranco Cerofolini (Università della Bicocca, vedere Google) che ci ha

lasciati… mi ha suggerito la metafora delle trappole da topi. E molto molto al-tro… che forse riuscirò a far conoscere…

(Giovanni Degli Antoni, docente, fondatore del “Centro Televisivo Universi-tario” dell’Università degli Studi di Milano, presidente “Associazione Ita-liana per la Multimedialità”)

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Quando capiremo? Ma capiremo?

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Autenticità esemplare

Stefano Dominella

“Valore”: sembra quasi che l’uomo di oggi non conosca o si siadimenticato il vero significato di questo termine. A questo propositosembra perfetto il celebre aforisma di Oscar Wilde: “Oggi si conosceil prezzo di tutte le cose e il valore di nessuna”.

Ma solo i valori sanno davvero scavare nella profondità del signi-ficato e riuscire ad attribuire senso all’azione umana. Viene sponta-neo, a questo punto, il chiedersi come si possa affrontare un qualsiasilavoro senza essere supportati da una forte motivazione o da una su-periore ispirazione. È proprio questa che in fondo che ne determinala rilevanza e la direzione morale: solo l’azione intensamente pensatae frutto di una consapevolezza può alla fine essere giudicata giusta esi allinea con la dimensione dell’etica della convinzione. Personal-mente ho sempre ritenuto che il senso di “giustizia” debba essere sem-pre presente nel fondamento di ogni nostra azione. La mia lunga espe-rienza lavorativa mi ha fatto comprendere che, solo adottando questoparametro, si può davvero ottenere stima, fiducia e partecipazione daparte di chi collabora con noi: questa è l’unica via che ci conduce auna leadership riconosciuta e autentica.

Fin dalla gioventù vivevo l’ambizione di realizzare qualcosa che ri-specchiasse appieno la mia identità, ero sempre spinto da un irresisti-bile desiderio di “fare”, di esprimere tutto il mio bisogno di movimentoper scoprire e cogliere al volo tutte le opportunità che la vita era ingrado di offrirmi. All’origine della leadership personale c’è una vo-lontà irrefrenabile di essere protagonista in prima persona delle sceltesenza mai adagiarsi su di un destino già stabilito e preconfezionato.Impulsività e voglia di crescere sono caratteristiche per certi aspettispontanee dei giovani. Come suggerimento aggiungerei che occorreanche essere sollecitati da grande curiosità intellettuale per tutto quantonon si conosce e aperti all’incontro con nuove culture in una dimen-sione internazionale. A tutto quanto vado dicendo non deve mancare,però, un contributo intellettuale e pratico in modo da potenziare la no-stra capacità creativa e produttiva ed esser pronti a collaborare e a va-

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lorizzare il talento altrui. Esprimere – in conclusione – libertà per ilfuturo. Una nuova classe dirigente risulterà veramente tale se saprà te-nere insieme ragione strategica ed esempio personale. Solo così avràpotrà aver davvero valore “l’autorevolezza dell’esempio”.

Sono molteplici i motivi che, oggi, contribuiscono a fare in modoche i giovani non sappiano veramente a cosa mirare per realizzarsi edare un senso alla propria esistenza e una direzione alla propria iden-tità professionale. Un aspetto importante deriva dall’essere circondatida un mondo dispersivo, fonte di confusione e frustrazione. In un si-mile contesto non può non risultare arduo e difficile costruirsi una vi-sione coerente e strutturata della vita fondata su valori solidi e unaidentità precisa. Molto più facile è invece il lasciarsi trasportare dallacorrente senza avere la forza di una stabile personalità pronta anchead andare controcorrente pur di affermare le proprie convinzioni edidee: così le prospettive finiscono per essere sempre più incerte proprioperché viene a mancare la solidità e la consistenza morale e caratterialee non si rafforza la capacità di perseverare per conseguire obiettivi dif-ficili e di lungo periodo. Il giovane viene così attratto solo da ciò cheè piacevole e incentrato sulle suggestioni effimere del presente e di-venta incapace di costruire una prospettiva e progettare il futuro. Vi-viamo, infatti, in un mondo dominato da eccessi di stimoli che istau-rano un dominio appiattito sulle istanze edonistiche del presente. Il ba-nale impera rischiando di costruire personalità scialbe e prive di verequalità. Rispetto ed educazione verso i valori fondanti vanno purtropposempre più scomparendo mentre si assiste a un processo di falsifica-zione e mistificazione intenzionale dei fatti e della realtà, ben sapendoche questa operazione determina disorientamento, confusione e allon-tanamento dalla dimensione della realtà in nome della virtualità e di unsurrogato, di un illusorio simulacro della verità. Ecco così la tendenzaa rifugiarsi nella cultura dell’effimero, del successo a buon mercato, lanecessità quasi di sentirsi sempre alla moda, di seguire quello che Pa-scal indicava come la distrazione del divertissement.

L’identità personale stenta quindi a formarsi, identità che sola sipuò conseguire solo grazie a un duro lavoro di concentrazione sullalettura della propria interiorità, riflettendo, analizzando e cercando ri-sposte ai problemi a partire dalla riflessione su se stessi. È solo la co-scienza interiore che permette di misurarsi davvero con la propriaidentità autentica e di aprirci al nostro destino.

Stiamo attraversando, lo sappiamo, una crisi profonda che investeglobalmente il mondo, si tratta di una crisi non solo economica. Ancorpiù forte della crisi finanziaria è infatti la crisi dei valori e dei modelli,

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che si riflette direttamente sul modo di essere e di concepire la vita esulle condizioni di sviluppo delle persone. Attraversiamo davvero unperiodo di decadenza culturale e morale di enormi proporzioni. In talestato, senza accorgercene, finiamo per assorbire ed esaltare solo gliaspetti più negativi e deleteri, cercando in ogni situazione di trovarescorciatoie che ci permettano di far la minor fatica possibile e lascian-doci quasi trasportare da quel senso di inerzia che avvolge e inibisceogni volontà e desiderio di cambiamento.

Sono più che mai necessari e preziosi, in un momento come que-sto, esempi autentici e coerenti di comportamento, per diffondere pressole nuove generazioni una cultura etica capace di indicare un orizzontevaloriale credibile di riferimento. Un ruolo cruciale in questo senso di-pende dall’insegnamento, dove oltre alla cura dell’aspetto nozionisticoe razionale della conoscenza, si deve dare impulso anche a quello dellaconoscenza dell’individualità interiore, unicità fatta di esperienza, diepisodi vissuti, di emozioni, di affetti, di interiorità spirituale. Solo im-parando a rispettando il bene di tutti i nostri simili, e senza distinzioneper ogni creatura vivente, si potrà arrivare a vivere una vera etica per-sonale. Nella vita quotidiana occorre una svolta verso valori alternativial consumismo: la frugalità e l’essenzialità devono arrivare a soppian-tare i consumi sfrenati e l’accumulazione infinita di beni materiali; lasobrietà e la razionalità devono contribuire a diffondere un modello piùequo e sostenibile nella distribuzione della ricchezza.

Ecco perché diventa un dovere fondamentale, da parte di chi de-tiene nelle proprie mani la leadership nel campo del lavoro, quello diaiutare i giovani a scoprire il senso profondo, prezioso e anche sacrodella vita che urge dall’interno della dimensione coscienziale. Allostesso tempo è indispensabile inoltre far intendere alle giovani gene-razioni come solidarietà e mutualità nei confronti degli altri rappresen-tino valori etici insostituibili e costitutivi della nostra identità socialee comunitaria: la persona non è un individuo isolato, non è una mo-nade ma agisce all’interno di una dimensione relazionale: la sua stessaidentità è frutto di una elaborazione in un contesto di relazione. Nondovrà essere trascurato anche il peso rappresentato dal valore intesoin una dimensione che si estende oltre la dimensione individuale e in-veste il carattere collettivo, valore che va al di là delle persone e ri-guarda la comunità nel suo complesso e si protende oltre l’orizzontetemporale della propria generazione. Raggiunto questo scopo, si potràben dire di aver preparato nuove leve che sapranno guidare con manisicure e consapevoli la società futura.

Prima che si arrivi a parlare di ricambio della classe dirigente, in

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qual si voglia settore della nostra vita nazionale, è necessario, a parermio, ripartire dalle basi, dal sistema educativo delle giovani genera-zioni. A questo proposito dico subito che non si può non rilevare lamodesta qualità dell’istruzione in contrasto con la richiesta, ognigiorno più diffusa, di un sistema in grado di fornire strumenti cultu-rali e tecnici sempre più sofisticati anche per riuscire a eccellere nellacompetizione dei mercati internazionali. Queste, infatti, si fondonosulla formazione, sul saper fare, innovare e rigenerarsi continuamentegrazie all’apporto di idee nuove e alla vivacità dei cervelli. Di questoho conferma ogni giorno di più svolgendo la mia attività nel settoredella moda; settore aperto a sempre nuovi orizzonti e contaminazioniculturali, ma che di conseguenza richiede un condizione di innova-zione permanente. A loro volta i giovani devono attivare un percorsopersonale di maturazione dei propri interessi attraverso lo studio e,successivamente, attraverso il lavoro: gli strumenti indispensabili sonoanche nel mondo di oggi la tenacia e il sacrificio, l’impegno, la vo-lontà; strumenti faticosi, ma indispensabili per una vera crescita primadi tutto umana. Solo con queste basi si può cominciare a pensare dav-vero a un cambiamento della nostra classe dirigente.

Proprio il cambiamento epocale al quale stiamo assistendo può of-frire ai giovani una grande possibilità di affermazione sia sul lavoro sianella loro stessa vita. Nessuno, oggigiorno, è costretto a seguire un trac-ciato che altri hanno determinato per lui; noi tutti possiamo scrivere oriscrivere quanto vorremmo conseguire in piena autonomia e libertàautentica senza più dipendere dagli altri. Di fronte a tanta indipendenza,il giovane non deve trascurare il peso negativo che su di lui grava perl’esser parte di una generazione che, per troppi anni, ha trascorso un’e-sistenza molto spesso iper-protetta e in molti casi aggiungerei addirit-tura ovattata. Questo eccesso di protezione può essere per certi aspettiun vero limite al desiderio e alla ricerca di autoaffermazione.

Certo la partenza deve venire da una solida formazione e, anzi-tutto, da un’istruzione ben assimilata e sostenuta da impegno e ferreavolontà e determinazione nel conseguire gli scopi prefissati. Solo al-lora i giovani potranno davvero divenire i protagonisti di questa nuovafase. Fase che si indirizza a globalità, flessibilità del mondo basato sulvalore aggiunto di idee nuove: più che mai adesso i soggetti devonorisultare pronti a cogliere i segnali e le opportunità di sviluppo. Ser-vono conoscenze, ma, soprattutto, competenze nuove. Infatti se ri-volgiamo lo sguardo al mondo del lavoro, alle imprese, alle industrie,in tutti i settori notiamo che sono sempre alla ricerca di freschezza,curiosità e motivazioni differenti.

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Lo scenario è in continua evoluzione e le dinamiche evolutivedelle imprese sono sempre meno prevedibili. Stare sul mercato è ne-cessariamente la strada da seguire. Queste imprese, in particolare lepiù avanzate, avranno un costante bisogno di giovani altamente crea-tivi, di talenti veri che potranno così da parte loro raccogliere con-crete opportunità. Le imprese, nel valorizzare il talento e favorire lacollaborazione tra differenti generazioni, faranno in modo che si ar-rivi ad armonizzare tradizione e innovazione riuscendo a istituire unproficuo dialogo tra mondi e velocità differenti. Il giovane allora saràin grado di avere una visione nuova del mondo con una sicura dispo-nibilità alla mobilità e all’avventura. Finalmente provviste di questi in-dispensabili requisiti le nuove generazioni potranno realisticamenteaspirare a una sicura leadership e anche un ruolo da protagonisti inseno alla società in senso allargato.

(Stefano Dominella, presidente Gattinoni)

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Sergio Dompé

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Nel mio ruolo di imprenditore italiano ho maturato via via neltempo l’intima convinzione che ci sia un vizio di fondo che affliggeil dibattito sulla leadership nel nostro Paese.

Nel sentire comune, infatti, la percezione della leadership è quasisempre associata al livello di esposizione e al ruolo di una persona, epiù raramente ai comportamenti agiti e alla sua visione prospettica.

Un tratto distintivo della nostra cultura che ha generato una rifles-sione pubblica sul tema della leadership caratterizzata troppo frequen-temente da analisi scevre dal merito e non contestualizzate nella piùampia dimensione internazionale.

Un’attitudine che ha spesso lasciato molta della classe dirigenteche ha responsabilità concrete ai margini del dibattito e l’ha esclusada quelle scelte strategiche che richiedono, nelle società più lungimi-ranti, di fare appello al contributo delle competenze migliori che unanazione può offrire.

D’altro canto, in quei casi in cui la notorietà di una persona o del-l’azienda che rappresentava l’hanno obbligata a partecipare al dibat-tito pubblico su uno specifico tema, sono state attribuite valenze po-litiche alle scelte e agli atti di quella persona che, in realtà, erano det-tate unicamente da stringenti necessità competitive e dalla sua visionestrategica.

La globalizzazione, tuttavia, che non può prescindere dalla co-struzione di sistemi paese agili e capaci di valorizzare innanzitutto leeccellenze, sta fortunatamente consolidando anche in Italia un pro-cesso di modernizzazione, forse lento ma certamente inesorabile, checoinvolge anche il concetto di leadership.

Ritengo che non sia un caso che questo processo si verifichi inuna fase storica il cui tratto distintivo è costituito proprio dall’incre-dibile diffusione di strumenti di comunicazione che solo fino a diecio venti anni fa erano semplicemente impensabili.

Questo passaggio epocale è stato ben descritto alla fine degli anniNovanta utilizzando il concetto di “era dell’accesso” per descrivere un

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nuovo paradigma economico basato proprio sulla conoscenza e sullerelazioni.

Uno dei massimi veri leader di quest’epoca, Steve Jobs, ha addi-rittura promosso il superamento di questa fase, dandola per acquisitae spingendosi nell’attualità delle giovani generazioni.

Non siamo dunque di fronte a una nuova cultura, siamo di frontea una nuova economia.

Anche in Italia questo fenomeno è oggi sotto gli occhi di tutti, e loscarto culturale tra i cosiddetti nativi digitali e le generazioni che lihanno preceduti non ha eguali nella storia dell’umanità. Sarebbe miopenon riconoscere che, anche nel nostro Paese, una nuova classe diri-gente si sta già formando e non tarderà, come è giusto che sia, a im-porsi autonomamente in virtù della sua forza propulsiva e propositiva.

Conoscenze e relazioni sono i valori che contraddistinguono que-sta nuova classe dirigente in piena formazione.

In questo contesto, le élite culturali che sono state protagonistedell’era che ci lasciamo alle spalle dovranno evolvere o fare posto allenuove élite della conoscenza.

Un processo di cambiamento che è in corso anche nel nostroPaese sebbene non sia visibile quanto potremmo aspettarci.

Se da un lato sarebbe ingiusto affermare che sia ostacolato, èsenza dubbio possibile sostenere che non sia supportato da una vi-sione d’insieme e di lungo periodo.

Non è un caso che in Italia, quando le spinte verso una maggioremodernizzazione del Paese si fanno più forti, si invochino ciclicamentei cosiddetti tecnici, personalità che incarnano una leadership nei lorosettori di provenienza che possano essere messe al servizio della comu-nità nel suo insieme. Si pensi al ruolo propulsivo che ha rivestito CarloAzeglio Ciampi come Presidente nel Consiglio alla metà degli anni’90 e alla sua successiva elezione alla Presidenza della Repubblica.

Non è da escludersi che dal dibattito politico più recente emerge-ranno ancora queste istanze e che nuove leadership avranno l’oppor-tunità di emergere come è accaduto in passato. Non c’è nulla di straor-dinario in questo, salvo dover constatare che il nostro sistema non èancora in grado di esprimere questa mobilità sociale senza passare at-traverso fratture e momenti di crisi.

La leadership dovrebbe dunque essere intesa, in particolare anchein Italia, nella sua accezione positiva e propulsiva, come un’attitudineche un Paese deve poter esprimere come sistema.

Oggi, e in particolare nella sua accezione più comune, la leader-ship è invocata ancora per la sua funzione salvifica e dunque impli-

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citamente per il suo carattere transitorio ed eccezionale.Questa cultura della leadership ha sicuramente influenzato anche

il settore industriale che, tuttavia e come spesso accade nella storia, staanticipando il cambiamento.

Nella nuova logica di un sistema industriale basato sulla creazionedi valore attraverso le relazioni e la conoscenza, infatti, non potevanon mutare anche il concetto di leadership.

E guardando in questa prospettiva al settore a me più familiare,quello farmaceutico, posso evidenziare quelle che considero le carat-teristiche fondanti una leadership moderna.

Essere leader oggi vuol dire saper usare i sensi, innanzitutto sapervedere e ascoltare, ma anche essere capaci di restituire, essere prontia recepire i bisogni che emergono dalla società per trasformarli in op-portunità e condizioni di vita migliori.

Un’industria farmaceutica che non mette al primo posto del suoagire questa missione difficilmente può avere futuro e, dunque, tan-tomeno leadership.

Ne consegue che la strada dell’innovazione permanente nel settorefarmaceutico non è un’opzione che può o meno essere scelta: è l’u-nica strada percorribile per il successo di un’impresa.

Si noti, tuttavia, che la capacità di innovare rappresenta oggi unadella maggiori criticità del nostro settore a livello mondiale, e appareancora più evidente se guardata dall’Italia.

Il farmaceutico, infatti, ha vissuto un’inversione nel trend dellaricerca che negli ultimi anni – a fronte di investimenti sempre più co-spicui – ha visto ridurre la propria “produttività” e diminuire il nu-mero di molecole progressivamente immesse sul mercato.Cambia-menti radicali che hanno imposto all’industria del farmaco la neces-sità di individuare nuovi equilibri e nuovi modelli di sviluppo capaci,da un lato, di far fronte al suddetto calo progressivo della produttivitàdella ricerca e, dall’altro, di garantire una sempre maggiore specializ-zazione delle terapie.

Rispetto a questo scenario evolutivo, stanno esprimendo una lea-dership evolutiva quelle imprese capaci di accelerare l’ormai inarresta-bile processo di ripensamento del paradigma della ricerca del settorefarmaceutico, abbandonando il tradizionale modello dello sviluppo in-house e privilegiando, al contrario, il ricorso al modello a rete.

È un insegnamento che ho appreso personalmente negli anni di in-tensa collaborazione con imprese farmaceutiche globali attive nel set-tore delle biotecnologie, dove ogni innovazione è la sintesi delle di-verse attività di imprese attive in una rete di collaborazioni.

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Ed è in questa prospettiva che si inserisce la scelta della Dompéche negli ultimi anni ha apportato un significativo cambiamento alproprio modello d’impresa, concentrando il proprio impegno preva-lentemente nella R&S – con investimenti superiori al 10% del fattu-rato – e facendosi, al contempo, parte attiva di un network di eccel-lenze in tutta la filiera del valore.

Sono, infatti, convinto che il paradigma della rete dovrà evolvereulteriormente e assumere nel tempo una configurazione idonea perlo sviluppo della ricerca traslazionale e, più in generale, dei processiproduttivi.

Si tratta di un altro passaggio particolarmente complesso che è peròimprescindibile perché solo in questo modo si potrà continuare a offrireuna risposta adeguata ai bisogni di cura delle Persone e, al contempo,un contributo concreto allo sviluppo di un Paese nel suo insieme, dicui l’industria farmaceutica è da sempre sinonimo e garanzia.

Il numero di addetti, la presenza sui mercati esteri, la capacità dicontribuire attraverso le imposte al mantenimento di una PubblicaAmministrazione moderna e capace di premiare i comportamenti vir-tuosi, sono infatti variabili caratterizzanti il nostro settore.

Queste stesse variabili sono quelle che animano il settore farma-ceutico italiano nel suo insieme anche a livello associativo.

Il sistema di rappresentanza in Farmindutria non è infatti basatoesclusivamente sul fatturato delle aziende.

È invece il risultato di tutti i fattori che presi nel loro insiemevanno a costituire quella che potremmo definire una formula eticadell’agire industriale.

Questi processi non sono imposti dall’alto e non sono frutto dileggi e regolamenti.

Sono semplicemente segnali del progressivo adattamento allanuova realtà competitiva globale, in cui la leadership non potrà averecome unico parametro la ricchezza fine a se stessa, bensì la capacitàdi innovare e di ascoltare e quindi di cambiare e di essere riconosciuti.

In questo scenario, ritengo ci sia spazio per molti.

(Sergio Dompé, presidente Dompé Farmaceutici)

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Il coraggio del dubbio

Armando Elisei

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La leadership può in certi casi essere il frutto di una predisposi-zione naturale, ma, nel maggior numero dei casi, si apprende in unpercorso di esperienza maturata nel tempo. La leadership non è maiil prodotto esclusivo dalla forza di un’unica persona ma è strettamentecollegata al gruppo di persone che la riconoscono come autorità delleader. La leadership può essere sviluppata grazie ad attività come ilcoaching o il mentoring che permettono di affrontare e affinare sen-sibilità e competenze arrivando a superare i passaggi di maggiore cri-ticità grazie a processi di focalizzazione e responsabilizzazione pro-gressiva. Si tratta di affrontare un percorso di sviluppo delle compe-tenze, in particolare delle c.d. soft skills, accompagnato dalla crescitadella consapevolezza interiore che permette l’acquisizione di unamaggiore autostima e fiducia in se stessi, che può poi trasmettersinelle attitudine alla leadership.

La società è ormai globale, le nuove generazioni sono sempre piùsimili tra di loro, c’è dialogo e apertura verso una internazionalizza-zione molto avanzata che abbatte le barriere culturali. Però occorreanche rilevare il carattere troppo spesso debole e fragile di giovaniche fanno fatica a concentrarsi, a mantenersi focalizzati a lungo suun obiettivo: quello che più loro manca non sono tanto le competenzetecniche o il know-how, ma è piuttosto la solidità psicologica e la forzadel motivazione. C’è troppo individualismo presso i giovani: per que-sto è davvero difficile motivarli verso un percorso collettivo di con-divisione e di squadra: in generale mancano della capacità di aggre-garsi attorno a obiettivi comuni. C’è perciò una grande necessità dielevare il potenziale del collettivo, del team.

L’individualismo crea disordine, confusione, attriti, quello cheserve è una leadership partecipata in grado di mobilitare risorse edenergie da condividere nella squadra. È necessario prendere coscienzache, mai come oggi, siamo tutti sostituibili, non c’è mai nessuno di as-solutamente indispensabile. Troppo spesso i battitori liberi sono crea-tori invece che solutori di problemi. Questa tendenza dei giovani a vi-

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vere un individualismo esasperato la si ritrova sia nel mondo del la-voro, ma anche nel contesto più allargato della vita sociale semprepiù caratterizzata da frammentazione, disgregazione, discontinuitànelle relazioni. Per questo oggi il valore aggiunto di un leader, all’in-terno del mondo del lavoro, o nel contesto politico, è quello di fungereda catalizzatore di aggregazione verso mete comuni.

Il sesto senso di un leader si manifesta con la capacità di toccarele corde individuali della motivazione interiore e facendole suonareinsieme nel gruppo. Ed è quasi inutile dire che si tratta di una dote rarain un mondo così sfilacciato dietro mille interessi diversi, mille notedissonanti tra loro. Proprio per questa frammentazione sociale e divalori, che attraversa il mondo attuale, diventa decisivo il ruolo di unaleadership etica basata sulla correttezza di alcuni principi fondamen-tali e sulla coerenza nella sua applicazione concreta ai comportamenti.

Personalmente mi posso riconoscere nella immagine del self-made man che ha percorso in quasi quarant’anni tutti i gradini dellacarriera dal basso verso l’alto. La questione che investe direttamenteil ruolo del leader è quella della capacità di riconoscere i propri li-miti, la responsabilità legata alla consapevolezza del rapporto con ilpotere. Devo ammettere che non ho mai lavorato per la sola ricchezza,ma piuttosto per la motivazione e l’energia che mi restituiva l’impe-gno nell’azione. Non è il solo desiderio di ottenere gratificazioni ma-teriali a motivare l’impegno verso il proprio lavoro. Non c’è motiva-zione più importante di quella della consapevolezza di stare facendoil proprio dovere. Il bene più prezioso in fondo è il tempo. La qualitàdi un tempo di non ripetizione, di un tempo creativo e di impegno, èquella che deve caratterizzare maggiormente il ruolo del leader.Spesso siamo troppo occupati nel day by day in cui siamo immersi, alpunto da non riuscire a vivere fino in fondo quella intensità creativadel tempo che la leadership ha il dovere di esprimere aprendo la sfidaalla trasformazione e all’innovazione permanente. Per fare questo illeader deve disporre di un tempo di riflessione, di approfondimento,di meditazione per fornire un’alta qualità di risposta e di decisionestrategica. La capacità di saper indicare le giuste priorità è una abilitàfondamentale per il leader che deve essere in grado di misurare e va-lorizzare l’impegno dell’organizzazione in una prospettiva temporaledi largo respiro. L’etica da questo punto di vista contribuisce a carat-terizzare la leadership come attitudine a un pensiero dei valori delsenso inquadrandolo in una prospettiva autentica e coerente.

Siamo una azienda multinazionale con una forte presenza in USA,Cina e nei mercati emergenti come il Brasile e l’Est europeo. Recen-

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temente la querelle diplomatica tra Italia a Brasile relativa al caso Bat-tisti o le questioni relative agli scandali italiani certamente non aiutanoa creare positività attorno alle imprese del nostro Paese, che si ritro-vano spesso sole o comunque con uno scarso supporto da parte delleistituzioni. Al di là del merito delle questioni, quando si è fuori dal-l’Italia si avverte la debolezza della nostra nazione a livello interna-zionale, si avverte una crisi di autorevolezza, di mancanza di figure diriferimento a livello internazionale, abbiamo un sistema bancario an-cora troppo poco internazionalizzato e questo significa un limite allosviluppo per le nostre imprese esportatrici presenti a livello globale.Mancano uffici di rappresentanza in grado di supportare e fare sen-tire meno sole le imprese italiane all’estero.

Oggi c’è un vuoto di potere a livello mondiale prima ancora chea livello europeo o nazionale. Gli stessi USA non sono più l’unica su-perpotenza col ruolo di guardiano del mondo. Lo scenario geopoliticosi sta modificando in funzione di uno spostamento del baricentro eco-nomico verso le economie emergenti. Come imprenditori dobbiamorispondere alle domande del mercato, ma dovrebbe anche essere ilmercato a caratterizzarsi per maggiore eticità. Lo standard di legalitàdel mercato dipende dalla trasparenza degli scambi nel rispetto delleregole di leale concorrenza, necessarie a consentire la massimizza-zione dell’efficienza grazie a processi di libera auto-regolazione deiprezzi che escludano condizioni di dominio monopolistico od oligo-polistico. Solo in tal modo la crescita di efficienza può essere in gradodi determinare un surplus di risorse pubbliche da re-distribuire permettere in azione meccanismi perequativi delle differenze di oppor-tunità e redistributivi della ricchezza. Solo eliminando, grazie a unabuona politica, non assistenzialistica ma equa, gli eccessi di disugua-glianza, è davvero possibile contribuire alla crescita dell’equilibriosociale del sistema e nel contempo garantire il sostegno della do-manda e lo sviluppo ulteriore del mercato. Ma per fare questo occorreuna leadership credibile e una classe politica autorevole. Serve unapresa di coscienza che parta dall’individuo fondata sul rispetto dellepersone, delle cose, dell’ambiente. Bisogna ricostruire una culturaetica del Paese. In fondo la perdita di investimenti produttivi in Italiaè la cartina al tornasole, è il sintomo di un malessere a livello inter-nazionale a rapportarsi con una leadership credibile del sistema-paese,una incomprensibilità del sistema italiano che spaventa anche gli stra-nieri più aperti e volonterosi di investire. Il rispetto di equilibri poli-tici spesso è più importante dei veri interessi del Paese. Troppa buro-crazia lenta, ridondante e incomprensibile e troppo discrezionale,

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poco trasparente e percepita come arbitraria e arretrata dagli investi-tori internazionali.

La tecnologia ha cambiato il mondo, ha reso il lavoro meno pe-sante, ha spostato l’asse del lavoro sul fattore del pensiero e della qua-lità umana del controllo e della apertura alla trasformazione. Oggi latecnologia ha trasformato il mondo del lavoro. Ci sono processi dielaborazione continua e di miglioramento costante della performanceproduttiva e qualitativa. Pensiamo all’errore di prospettiva di chi, unpaio di decenni fa, si era opposto all’automazione, temendo che lapresenza dei robot in fabbrica avrebbero fatto perdere posti di lavoro.Certamente si tratta di processi labour saving ma che certamentehanno anche migliorato le condizioni di vita evitando l’alienazionedella catena di montaggio e dei lavori più ripetitivi, ricollocando lerisorse umane su processi più in grado di valorizzarle. Anche se oggivi sono modelli di delocalizzazione che permettono di spostare gliimpianti verso Paesi dove il costo del lavoro è estremamente piùbasso, in realtà occorre aprirsi a una mentalità di investimento in tec-nologia, in automazione, in raffinazione e aggiornamento dei processiproduttivi, perché questo significa progresso positivo e miglioramentodella qualità della produzione.

La crisi non è stata solo economica, ma anche culturale, ha deter-minato un cambiamento nel modo di pensare. Le motivazioni strate-giche delle delocalizzazioni operate nell’ultimo decennio hanno oggiperso gran parte del loro significato economico. La delocalizzazioneè infatti un processo che ha un limite temporale legato alla crescita deidiritti sociali ed economici della working class di un Paese. Il veroprogresso è il fattore umano, il vero capitale è il capitale umano del-l’impresa, la qualità e la motivazione dei suoi partner e collaboratorie la capacità di coinvolgimento e di visione etica dei leader.

Oggi i politici del nostro Paese sono screditati, non sono più cre-dibili, non si capisce quando dicono la verità o quando raccontanobugie, se capita che dicano la verità è solo per caso. Le scelte dei po-litici dipendono dalla loro convenienza e interesse di parte e quasimai dai superiori interessi del Paese. Siamo rappresentati da politiciche da troppo tempo occupano le poltrone del potere senza mostrarealcun segno di volerle lasciare. Ci vorrebbe un limite alla reiterazionedel mandato nelle cariche pubbliche. Nemmeno le inchieste della ma-gistratura sono in grado di suscitare le dimissioni dalle cariche pub-bliche occupate. Sono una casta che si muove con le scorte ed è sem-pre più distante dal Paese reale. La sfera politica esercita una in-fluenza troppo penetrante, anche a livello locale, troppo invasivo

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rispetto alla autonomia della libertà dell’iniziativa imprenditorialesancita dalla Costituzione.

Nel finale del Gattopardo, opera che come poche altre ha saputorappresentare e stigmatizzare il lato più profondo nella cultura e nellemotivazioni della leadership del nostro Paese, quando i piemontesipropongono al principe di essere da esempio per i giovani accettandol’incarico di senatore, il principe rifiuta la carica motivando di es-sere troppo vincolato al passato, e affermando che anche i giovanisono già in ritardo per cambiare, per cambiare davvero si deve comin-ciare ancora prima di essere giovani. Un apologo di questo tipo puòessere proposto ancora oggi relativamente alla leadership politica delnostro Paese che richiede un rinnovamento radicale e una ventata difreschezza per trasformare davvero l’Italia nelle sue fondamenta.Sono nato nel ’48; oggi, alla mia età, ho maturato la convinzione,forse la presunzione di osare dire che adesso le leggi non mi bastanopiù, ma deve esserci un moto ulteriore, morale che muove dall’in-terno della mia coscienza, che sia in grado di dettarmi cos’è giustofare o meno, indicando la via verso un perfezionamento di una co-scienza etica interiore. La leadership si fonda sul coraggio di un dub-bio che ispira una razionalità nella condotta di se stessi prima ancoradi diventare esempio per gli altri.

(Armando Elisei, presidente Gruppo Somipress)

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Il coraggio del dubbio

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Un leader “normale” in tempi anomali

Piero Fassino

In che modo potrebbe delinearsi il rapporto tra leadership a li-vello locale e leadership a livello nazionale o sovranazionale?

Sarebbe illusorio pensare che quanto accade in un’area circo-scritta, come il territorio di una regione o una singola città, possa nonavere ripercussioni, sia in senso positivo sia negativo, a livello nazio-nale e sovranazionale. In Europa, l’attuale modello di governance èpoliarchico, multilivello e le istituzioni locali e regionali tendono aintegrarsi e condividere attività di governo con gli stati nazionali.

La globalizzazione è un fenomeno che investe tutti i settori dellavita sociale e politica. Essa produce effetti sugli stili e la qualità dellavita di ogni cittadino, cancella abitudini e crea nuovi bisogni, esige ri-sposte in tempi assai più rapidi di quanto accadeva solo qualche annofa. Basti pensare al ciclone economico e finanziario che sta flagel-lando il sistema produttivo di molti tra i Paesi più industrializzati delmondo e che, per quanto riguarda la zona euro, sta chiedendo pesantisacrifici anche all’Italia. Crisi i cui effetti sull’occupazione, sul welfaree sulla vita quotidiana di centinaia di migliaia di famiglie non hannocerto tardato a farsi sentire. E allora servono risposte concrete, in tempirapidi, da parte di chi ha responsabilità di governo: dal sindaco del pic-colo comune, al capo del Governo nazionale, dal Parlamento della Ueal presidente della Commissione europea. Ma la politica, e non soloquella italiana, mostra ancora e non di rado di essere un passo indie-tro rispetto a quanto le viene chiesto dai cittadini. Le politiche, le pa-role e gli strumenti della stessa sinistra riformista manifestano un certoaffanno a intercettare le ansie e le aspettative della società, a dare ri-sposte efficaci alle domande e ai problemi del nuovo secolo.

Abbiamo di fronte a noi temi, come la flessibilità del lavoro e lasua esposizione alla precarietà, la crisi dello stato sociale, l’immigra-zione e i suoi impatti sulla società, la sicurezza dei cittadini, che ci im-pongono di superare la divaricazione tra il tempo reale in cui vive lasocietà e il tempo differito in cui agiscono le istituzioni politiche.Un’operazione questa che, per essere condotta con successo, ha biso-

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gno della più ampia collaborazione tra le leadership ai diversi livelli.Ignorarsi e lavorare per compartimenti stagni sarebbe come parteci-pare ad una corsa ad ostacoli con gli occhi bendati.

In che modo è possibile costruire un percorso di ricambio dellaclasse dirigente del nostro Paese?

La generazione politica che negli ultimi trent’anni di vita politicaitaliana ha vissuto successi e sconfitte, affrontato cambiamenti epo-cali e crisi di sistema, sostenuto battaglie di idee e assunto responsa-bilità di governo, ha oggi il dovere di contribuire a costruire una classepolitica nuova e più giovane. Deve creare le condizioni per il passag-gio delle consegne da una generazione all’altra. Ma non per inseguiresuggestioni giovanilistiche, e così discriminare sulla base dell’età ana-grafica. Credo che chi ha capacità, competenze e può dare ancora qual-cosa di importante alla società attraverso il suo impegno in politicadebba continuare, anche se non deve mai dimenticare che tra i suoicompiti c’è, come detto, quello (importantissimo) di far crescere chiverrà dopo di lui. Chi è da tempo nell’agòne della politica deve esseregeneroso nel donare esperienza e accettare serenamente il “passo in-dietro” quando arriva il tempo di passare la mano. Le ambizioni e idesideri personali sono legittimi, ma l’interesse generale conta di più.Per questo la giovane età non può e non deve costituire un ostacolo alprocesso di ricambio della classe dirigente, anzi. Ma è sempre benetener presente che i leader vanno scelti e giudicati innanzitutto in baseal merito e alle capacità.

Il PD è un partito giovane che proprio tra i giovani trova grandeforza, idee e sostegno. E per loro, per i giovani che si sono appena af-facciati al mondo della politica o per quelli che in essa rivestono giàun ruolo di rilievo, il Partito Democratico, con la sua organizzazionesul territorio e i meccanismi di formazione e selezione della classedirigente, non può essere certo avaro nel concedere spazio, occasionidi confronto e condivisione di esperienze, e nell’affidare loro respon-sabilità di governo, a partire dalle amministrazioni locali che possonorappresentare un primo e assai istruttivo banco di prova per chi aspiraa diventare un leader politico.

È possibile qualificare una nuova dimensione della leadershipoltre la dicotomia tra freddi e distaccati “professionisti” della politicae appassionati “dilettanti” del potere?

(Freddi professionisti della politica o appassionati dilettanti?) Nonsono bravo a incasellare in categorie rigide le caratteristiche delle per-

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sone e non credo neanche che si possa semplificare l’impegno poli-tico nel contrasto tra cinismo e dilettantismo del potere. Tuttavia pensoche una dimensione della leadership sfidante, determinata, coraggiosae capace di tradurre in fatti concreti le proprie intuizioni, coinvolgentee in grado di generare entusiasmo con la forza di una visione, una lea-dership alla Steve Jobs per intenderci, otterrebbe oggi buoni risultatianche in politica.

Quali sono le caratteristiche personali e le competenze necessa-rie di un leader credibile? Quali sono i valori non negoziabili che de-vono ispirare la leadership?

Chi ricopre incarichi politici, istituzionali e pubblici deve ispirarela propria condotta non solo al rispetto formale delle leggi, ma anchealla sobrietà dei comportamenti e al rispetto dell etica pubblica. Unuomo politico deve ricordare che la sua credibilità deriva dall’esserecome gli altri: andare allo stadio o al cinema pagando il biglietto, farela fila alle casse del supermercato, accompagnare i figli a scuola conla propria auto, prenotare le analisi allo sportello come un cittadinonormale. I comportamenti di un leader che si atteggi come un mo-narca dell’ancien régime, con tanto di corte e presunzione di poteressere trattato diversamente da altri, non possono certo aiutare la po-litica a riconquistare credibilità e fiducia tra i cittadini. Sull’etica nonsi possono concedere deroghe.

È ancora possibile parlare di una élite detentrice del privilegiodella conoscenza nell’era del villaggio globale?

La strada che porta alla conquista della completa trasparenza nelmondo dell’informazione è ancora lunga e forse quest’obiettivo nonsarà mai veramente raggiunto. Tuttavia – come dimostrano per esem-pio le recenti sollevazioni popolari avvenute in Egitto, Siria, Tunisiae in altri Paesi dove la libertà di stampa è fortemente limitata – inter-net, i social network e le nuove tecnologie di rete stanno dimostrandoche è sempre più difficile, se non impossibile, non essere “inglobati”nel villaggio globale. Oggi, la rete internet e la sua capacità di diffon-dere idee e far comunicare le persone sembra essere una delle armi piùefficaci per combattere le dittature sotto ogni forma. In molte partidel mondo dunque, i progressi della tecnologia fanno spesso rima condemocrazia e, ovviamente, non è solo una questione di desinenza.

Se spostiamo l’attenzione ai Paesi con storiche radici democrati-che, come l’Italia, osserviamo che non di rado i mass media non esau-riscono la loro funzione nell’informare e nel commentare i fatti, ma

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essi promuovono anche campagne, orientano la formazione delle lea-dership, influiscono sulle priorità dell’agenda politica, condizionano icomportamenti delle forze politiche. E, da questo punto di vista, se perélite detentrice del privilegio della conoscenza si intende la possibilitàdi controllare una parte consistente dei mezzi di informazione, è fattonoto che l’Italia rappresenti un’anomalia per l’occidente democratico.

È possibile parlare di leadership etica? L’etica conta, eccome. Guidare o rivestire un ruolo di primo piano

in una istituzione pubblica – ma estenderei la considerazione anche aimanager del privato –, rappresenta un grande privilegio, ma comportaal contempo l’assunzione di responsabilità non sempre leggere. E, traqueste, quella di condurre uno stile di vita irreprensibile è condizioneirrinunciabile. L’etica è anche possibilità di distinguere i comporta-menti umani in buoni e giusti rispetto a quelli cattivi e iniqui, e di ge-stire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri. Credo cheuna leadership politica debba tenere in gran conto quella possibilità.

(Piero Fassino, sindaco di Torino)

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Stato nazionale ed egemonia del politico sull’economico

Diego Fusaro

Tra i compiti più specifici del filosofo, almeno fin dal suosguardo aurorale in terra greca, vi è l’atteggiamento critico e il so-spetto verso l’inerzialità con cui vengono accettate e spesso presup-poste le opinioni comuni. Tra queste, la categoria apparentementeanodina e puramente descrittiva di leadership mi pare costituire uncaso particolarmente interessante e fecondo su cui far convergere il la-voro critico della filosofia nell’epoca della cosmopoli e della civiltàglobale. A questo riguardo, non posso nascondere il mio imbarazzonell’impiego di una categoria tanto scivolosa ed equivoca come quellain questione. Il fatto stesso che essa si declini rigorosamente in linguainglese non deve passare inosservato: viviamo in un’epoca in cuianche le espressioni che più facilmente possono essere pronunciatenella nostra lingua madre non sfuggono alla coazione all’adattamentoalla lingua inglese.

Premetto, onde evitare equivoci, che non ho nulla contro la lin-gua che fu di Shakespeare e di Wilde: la mia critica si appunta, piut-tosto, sul movimento – che in Italia si mostra con tratti parossistici –di coazione alla rinuncia alla propria lingua nazionale (nel nostrocaso, la lingua di Dante e di Leopardi) e di convergente adesione ir-riflessa all’inglese operazionale dei mercati finanziari come sola lin-gua consentita da quella dittatura dei mercati i cui costi stiamo oggiscontando sulla nostra pelle. Il risvolto ideologico di questo processoè lampante e non lo si può decriptare se non lo si pone in relazionecon quella dinamica di globalizzazione che, coestensiva rispetto almoderno capitalismo, pare oggi aver raggiunto il suo massimo svi-luppo. Come nel caso dell’inflessibile coazione all’adattamento al-l’inglese operazionale dei mercati, anche con la globalizzazione citroviamo al cospetto di una categoria scivolosa, inerzialmente accet-tata come pacifica e di uso meramente descrittivo. Poiché, tuttavia,come ricorda l’hegeliana Fenomenologia dello Spirito, ciò che è noto,proprio perché è noto, non è conosciuto, spetta alla filosofia proce-dere alla conoscenza critica degli “oggetti noti” dai più aprioristica-

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mente accettati come validi.La globalizzazione e l’uso coatto della lingua inglese sono a pari

titolo segnalatori di un unico problema, che vorrei così formulare: latransizione dal moderno potere dello Stato-nazione al post-modernopotere finanziario multinazionale, con annesso svuotamento del pri-mato del politico sull’economico. Lo Stato come forza egemonica ingrado di imporre un contenuto politico tale da direzionare, conteneree, appunto, “governare” l’economia viene delegittimato, fino a spariredel tutto, sotto la pressione finanziaria della dinamica internazionaledei mercati multinazionali.

Esempio sintomatico del lavoro carsico dell’ideologia nell’o-dierna civiltà globale dei consumi, il concetto di globalizzazioneaspira a presentarsi asetticamente come una descrizione oggettiva, im-parziale e disincantata della realtà effettuale, quando in verità rac-chiude un suo preciso coefficiente ideologico. Infatti, al di là delleapparenze, il concetto di globalizzazione si configura come una de-scrizione che occulta e, per ciò stesso, fa valere in forma ideologicauna prescrizione (popoli di tutti i paesi, globalizzatevi!), una coerci-zione all’accettazione del mercato globale e dell’alienazione che essogenera su scala planetaria. La globalizzazione è, appunto, la formaideologica che meglio risponde alle logiche sistemiche della faseodierna del mercato: la quale, coincidendo con una nuova forma di im-perialismo, e dunque rivelandosi l’esatto opposto del tranquillizzanteuniversalismo dei diritti umani con cui viene presentata, si configuracome un mondo strutturato all’insegna non dell’esclusione, bensì del-l’inclusione; e più precisamente dell’inclusione subalterna di tutti ipopoli e le nazioni nell’unico modello internazionalizzato del sistemaneoliberale, in uno svuotamento pressoché integrale della sovranitànazionale e dell’egemonia del politico sull’economico1.

È solo in questa cornice che, come ho chiarito altrove2, può di-spiegarsi in forma compiuta il movimento di piena corrispondenzadel capitale al suo concetto, nella forma di un capitalismo post-na-zionale, pienamente globalizzato e tale da aver neutralizzato ogni re-sidua interferenza politica con i meccanismi feticizzati dell’econo-mia: fin dal suo atto genetico, il capitale si presenta con le sembianzedell’assolutizzazione del momento economico a scapito di ogni altracomponente dell’esistenza umana, disegnando il paesaggio della

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1 Si veda C. Preve, Storia dell’etica, Petite Plaisance, Pistoia 2007.2 Mi permetto di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitali-

smo, Bompiani, Milano 2012 (con saggio introduttivo di Andrea Tagliapietra).

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prima società della storia in cui, come ricordava Polanyi3, l’economiacessa di essere “incorporata” (embedded) nel più ampio tessuto dellasocietà e guadagna un’autonomia absoluta, cioè “sciolta-da” ogni vin-colo morale, religioso, etico e politico. Lo smantellamento dello Statonazionale – variamente liquidato come “superato”, “vecchio”, “anti-quato”, “incompatibile con la nuova forma dell’economia”, ecc. –segna l’apice di questo processo di assolutizzazione feticistica dell’e-conomia.

Perché potesse compiersi questo processo di sgretolamento delloStato e, insieme, con movimento convergente, di assolutizzazione fe-ticistica del mercato internazionale come unica forza – nella forma diun vero e proprio “monoteismo del mercato”4 – occorreva anche dele-gittimare la lingua nazionale (simbolo – è evidente – della sovranitàdello Stato) sostituendola con l’inglese operazionale dello spread, dellagovernance e della new economy come simboli del nuovo Leviatano,l’economico transnazionale, la metafisica del “cattivo infinito” del-l’accumulazione e della produzione illimitate, sul cui altare sacrificarel’esistenza dei popoli (oggi – 2012 – quello greco, domani quello ita-liano) e dello stesso pianeta. È solo sulla base di questi presuppostiche può imporsi, trionfalmente, il modello del capitalismo naturali-stico come solo-mondo-possibile perché naturalmente già da sempredato (altrove l’ho battezzato, con formula spinoziana, capitalismus sivenatura5). Prova ne è, del resto, che le leggi della finanza valgono oggiper gli uomini come una necessità naturale e gli stessi movimenti delmercato, imprevedibili come i terremoti, si abbattono sulla società conla stessa inevitabilità delle catastrofi naturali6. Il lugubre imperativoche il mondo del mercato internazionale impone all’umanità – “nonavrai altra società all’infuori di questa!” – opera sui due piani recipro-camente innervati dell’eternizzazione del fanatismo cieco dell’econo-mia e della desertificazione di ogni avvenire diversamente strutturato,delegittimando tout court la moderna “coscienza infelice” in cerca diun’ulteriorità nobilitante rispetto al deserto del presente.

Si produce così, in modo fisiologico, l’abbandono di ogni pas-

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3 Cfr. K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Ori-gins of Our Time, Beacon Press, Boston 1944.

4 R. Garaudy, Avons nous besoin de Dieu?, De Brouwer, Paris 1994, p. 13.5 Mi permetto di rinviare ancora al mio Minima mercatalia. Filosofia e ca-

pitalismo, cit., pp. 420 ss.6 Cfr. A. Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica, Petite

Plaisance, Pistoia 2011.

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sione utopica volta a delineare diversamente le simmetrie dell’esistentee, in modo coerente, l’accettazione irriflessa del mondo a morfologiamercatistica come il solo possibile, con annessa accettazione supinadella lingua e delle forme di pensiero che esso impone. Il pensiero po-licromo del Postmoderno ha svolto, da questo punto di vista, un ruolostrategico: esso, per un verso, ha contribuito a razionalizzare il disin-canto colto di un’intera generazione, che ha abbandonato il sogno pro-gettuale rivolto al perseguimento di futuri alternativi per convincersidell’ineluttabilità del mondo a morfologia capitalistica, e, per un altroverso, ha fornito il quadro ideologico di mascheramento e, di più, diesaltazione del mercato internazionale e della forma merce elevati aorizzonte unico.

Ben lungi dall’essere il pensiero dell’emancipazione degli indivi-dui, secondo la rassicurante immagine che esso contrabbanda di sé, ilPostmoderno si configura come la cornice ideologica funzionale aquella flessibilizzazione universale del lavoro e dell’esistenza che,esito dell’estinzione di ogni primato del politico sull’economico,viene legittimata dalla postmoderna retorica superficiale del multi-culturalismo e di quell’“ecumenismo culturale” che è soltanto la ver-nice che occulta il nuovo capitalismo finanziario globalizzato. Ma-scherato dalla postmoderna aura di seduzione degli stili di vita e delledifferenze, il mercato assume così la fisionomia – variando la for-mula weberiana – di una “gabbia d’acciaio” con politeismo dei valoriincorporato. Al fine di imporre la generalizzazione del lavoro flessi-bile, temporaneo e precario, il mercato deve simmetricamente pro-muovere la formazione di un “nuovo esercito industriale di riserva”multiculturale, multirazziale, multietnico, multireligioso, linguistica-mente unificato nell’inglese operazionale dei mercati, nemico dellafamiglia e dell’autorità, che non abbia più solide radici nazionali eculturali e che, ipso facto, non sia altro che il raddoppiamento carica-turale delle logiche del mercato globale deterritorializzato e nemicogiurato di ogni forma di sovranità nazionale.

La globalizzazione oggi salutata con entusiasmo o, comunque,presentata come un destino fatale non è altro, con la grammatica he-geliana, che l’universalizzazione degli egoismi della società civile li-berata dalle istanze etiche dello Stato nazionale. Con la sua dinamicadi universalizzazione dell’individualismo acquisitivo, essa si reggesulle due istanze reciprocamente innervate della perdita della stabilitàdel lavoro (l’homo precarius è l’autentico coronamento di ogni indi-vidualismo, in quanto rinsalda oltre ogni limite lo sradicamento) edella disgregazione delle precedenti comunità etiche (familiari, reli-

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giose e statali) in nome di nuove “comunità a tempo determinato”7,fittizie e composte da atomi consumistici (la folla anonima dei centricommerciali, i concerti rock, le discoteche, gli stadi ecc.). Come die-tro l’odierno elogio delle differenze e delle screziature si nascondel’assolutismo monoteistico del mercato, così dietro l’insensata pro-messa di una crescita infinita si cela il dispositivo letale di una pro-duzione fine a se stessa che sta portando verso la fine il pianeta e lavita umana8.

Per una critica dell’impero globale dell’odierna dittatura interna-zionale dei mercati, ci si può fecondamente richiamare al Kant di Perla pace perpetua (1795):

“La separazione di molti stati vicini ed indipendenti fra loro è giàdi per sé uno stato di guerra (a meno che la loro unione in federazionenon prevenga lo scoppio delle ostilità), ma esso val sempre meglio, se-condo l’idea della ragione, che la fusione di tutti questi stati per l’o-pera di una potenza che si sovrapponga alle altre e si trasformi in mo-narchia universale (Universalmonarchie)”9.

Secondo il rilievo di Kant, la pluralità degli Stati sovrani com-porta, di per sé, un potenziale stato di guerra permanente, e, ciò nondi meno, si tratta di una condizione pur sempre preferibile a quelladell’Universalmonarchie, “perché le leggi, a misura che la mole delgoverno aumenta, perdono di forza, e un dispotismo senz’anima,dopo aver sradicato i germi del bene, degenera da ultimo nell’anar-chia”10, ossia in quella che già lo Stato commerciale chiuso di Fichte,appena cinque anni dopo Per la pace perpetua, qualificherà come“anarchia commerciale”11 (Anarchie des Handels). Con le parole diFichte:

“Nasce così nel mondo commerciale una lotta perpetua di tutticontro tutti, lotta tra compratori e venditori; e questa lotta diventa sem-pre più ardente, più ingiusta e più pericolosa per le conseguenze, amisura che la popolazione cresce, lo stato commerciale s’ingrandisce

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7 Z. Bauman, Consuming Life, 2007; tr. it. a cura di M. Cupellaro, Consumo,dunque sono, Laterza, Roma-Bari 20093, p. 139. Cfr. A. Martone, Le radici delladisuguaglianza. La potenza dei moderni, Mimesis, Milano 2011.

8 Cfr. A. Tagliapietra, Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie,miti, Il Mulino, Bologna 2010.

9 I. Kant, Zum ewigen Frieden, 1795; tr. it. a cura di F. Gonnelli, Per la paceperpetua, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 185.

10 Ibidem.11 J.G. Fichte, Der geschlossene Handelsstaat, 1800; tr. it. Lo Stato commer-

ciale chiuso, Bocca, Milano 1909, p. 70.

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per le acquisizioni che sopraggiungono, la produzione e le arti si svi-luppano, e con ciò si aumentano e diversificano le merci circolanti ei bisogni”12.

Una tale situazione corrisponde a quella che il giovane Hegel eti-chetta splendidamente come “tragedia nell’etico”. Scrive il pensatoredi Stoccarda: “Ciò che è privo di saggezza, puramente universale, lamassa della ricchezza, è l’in-sé; e il vincolo assoluto del popolo, l’eti-cità, è sparita, e il popolo dissolto”13, secondo una logica che rendeperfettamente comprensibile la dinamica, prima evocata e oggi giuntaa compimento, di annientamento della potenza etica dello Stato in fa-vore dell’assolutizzazione del momento economico e del pulviscolodei singoli individui (l’hegeliana “atomistica delle solitudini”) dichia-rati onnipotenti nell’atto stesso in cui sono totalmente assoggettati al-l’assolutizzazione del loro potere sociale reificato.

Descritto il problema, è con ciò quella che, a mio giudizio, resta lasola soluzione praticabile: un recupero integrale della sovranità poli-tica come unica forza in grado di frenare, limitare e ridimensionare ilpotere assoluto dei mercati internazionali. Da questa angolatura, siapure secondo modalità e con intenti profondamente diversi, il Kant diPer la pace perpetua (1795), il Fichte dello Stato commerciale chiuso(1821) e l’Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto (1821) hannocon uguale rigore e passione critica diagnosticato il problema e indi-viduato la terapia: solo gli Stati nazionali sovrani e autonomi possonogarantire una pace autentica, attuabile solo tra parti uguali o comunquenon sottomesse a un’unica potenza (l’Universalmonarchie) e, in modosimmetrico, l’unica via per reagire alla dittatura feticistica dell’econo-mia oggi dilagante e alla sua eliminazione dello “stato sociale” sem-bra da ricercarsi in quel ristabilimento dell’egemonia della politicasull’economia che è percorribile solo reagendo alla delegittimazionedella sovranità nazionale imposta dal mercato globale nell’epoca della“costellazione postnazionale”14 (Jürgen Habermas) che viene “dopo ilLeviatano”15 (Giacomo Marramao).

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12 Ivi, pp. 76-77.13 G.W.F. Hegel, Sämtliche Werke, a cura di G. Lasson, 20 voll., Meiner, Ham-

burg 1917 ss., IV, p. 492.14 Cfr. J. Habermas, Die postnationale Konstellation, 1998; tr. it. a cura di L.

Ceppa, La costellazione postnazionale: mercato globale, nazioni e democrazia,Feltrinelli, Milano 1999.

15 Cfr. G. Marramao, Dopo il Leviatano: individuo e comunità nella filoso-fia politica, Giappichelli, Torino 1995.

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Le possibili vie di fuga rispetto alla “falsa universalità”16, come lachiamava Marx, del mercato globale come universalizzazione degliatomi egoistico-possessivi devono essere cercate nello Stato nazio-nale e non certo nell’internazionalismo marxista, oggi scaduto a meroraddoppiamento caricaturale della globalizzazione mercatistica, comeè corroborato in maniera lampante dalla teoria dell’Impero di ToniNegri17: la sua negazione di ogni legittimità della questione nazionaleresta il sogno di un imperialismo che aspira all’annullamento dellenazioni come base residuale di dominio del politico sull’economico.Il movimento con cui Negri critica l’assetto del mondo è, del resto, lostesso con cui lo legittima integralmente, consegnando il progetto ditrasformazione a moltitudini impotenti, teorizzando un impero senzaimperialismo, accettando supinamente l’antropologia capitalistica deldesiderio, svalutando le forme di resistenza nazionali e condividendoacriticamente il presupposto cosmopolitico della globalizzazione.

Contro l’internazionalismo dei residui gruppi marxisti sopravvis-suti all’inglorioso crollo dei comunismi storici novecenteschi, occorreoggi far valere, come anche altrove18 ho ricordato, una concezione co-munitaria dell’etica universalistica, che, nel superare l’odierno ag-gregato atomistico alienato, si lasci alle spalle senza alcun rimpianto,come episodi compiuti e puramente storici, sia il livellamento socialedei comunismi reali (il collettivismo è solo l’individualismo posto allivello della totalità), sia i profili gerarchici delle destre ottocenteschee novecentesche. Occorre ripartire da un universalismo cosmopoli-tico delle differenze, ossia da un’etica universale, comunitaria e anti-capitalistica, rispettosa delle differenze e del valore assoluto dell’in-dividuo inserito nella comunità: un’etica, appunto, che, per concretiz-zarsi su scala universale, deve appoggiarsi sulla forza reale degli Statinazionali. In particolare, lo Stato come unica forza in grado di op-porsi alla dinamica alienata e reificante del mercato globale deve di-ventare il vettore di un movimento universalistico di emancipazione,volto a ripristinare la centralità dell’uomo come fine in sé, secondouna prospettiva – già al centro dell’opera fichtiana – stabilmente uni-versalistica e, insieme, comunitaria.

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16 K. Marx, Zur Judenfrage, 1844; tr. it. a cura di D. Fusaro, Sulla questioneebraica, Bompiani, Milano 2007, p. 113.

17 Cfr. T. Negri e M. Hardt, Empire, 2000; tr. it. a cura di A. Pandolfi, Impero:il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002.

18 Rimando ancora a Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, cit., pp. 480ss. Si veda inoltre C. Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2007.

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L’ideale – mediato con le possibilità reali – di un’umanità comu-nitaria e non disciplinata capitalisticamente resta un irrinunciabileuniversale di riferimento comparativo e teleologico. Incomprensibileper le logiche dell’“intelletto astratto” di hegeliana memoria, la con-vivenza di comunità statale e universalismo dell’emancipazione puòessere fecondamente decifrata dal pensiero dialettico: si tratta, infatti,di una visione che è comunitaria (muovendo dalla codificazione del-l’etica sociale come “eticità”, Sittlichkeit, radicata nella dimensionedella “comunità”, Gemeinschaft) e, insieme, cosmopolitica (deli-neando un modello razionale di universalizzazione graduale e pro-gressiva, mediata dalla prassi, dei comportamenti umani conformi algenere umano in quanto tale).

È con la forza di questo sogno desto che occorre oggi battersi nel-l’arena globale contro la fede onnipervasiva nel mercato internazio-nale e contro il suo più fedele alleato simbolico: l’ideologia dell’intra-sformabilità del mondo, in nome della quale l’odierna megamacchinadella produzione si contrabbanda in modo fatalistico e, insieme, de-stinale come il solo mondo possibile. Più che mai oggi resta vero ciòche anni addietro scriveva Adorno: “Il compito della dialettica è di farelo sgambetto alle sane opinioni circa l’immodificabilità del mondo”19.

(Diego Fusaro, filosofo)

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Stato nazionale ed egemonia del politico sull’economico

19 T.W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben,1951; tr. it. a cura di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Ei-naudi, Torino 1954, pp. 67-68.

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In attesa di una “pausa democratica”

Giancarlo Galli

Lodevole quanto disperata l’iniziativa dell’amico Ivan Rizzi di al-zare attorno al pennone dell’italico tricolore, ormai smunto e infan-gato dagli scandali quotidiani, una bandiera etica. Lodevole perché,in epoca di decadente amoralità, ogni gesto controcorrente va accoltoe sostenuto; disperato in quanto, e la Storia insegna, solo una catarsipuò portare alla purificazione dei costumi: economici, politici, indi-viduali.

Il problema della “purificazione” (quindi la riscoperta di un’eticacollettiva), non è peraltro solo italiano. Investe l’intero sistema capi-talistico occidentale, il cui modello è sin troppo evidente in crisi.

Non è tuttavia lecito (storicamente) disperare, poiché le millena-rie vicende dell’umanità sono un susseguirsi di cadute e riscosse benrappresentato dalla leggenda di Sisifo, il figlio di Eolo, che si preten-deva il più astuto fra i mortali, condannato a spingere eternamente finsulla cima di un monte un macigno, che ogni volta rotolava a valle.Che altro sono i “cicli” economici, culturali, religiosi?

Accettare la logica della catarsi significa sbarazzarsi della più in-gannevole eresia del nostro tempo: il “riformismo”. Politicamente so-cialdemocratico, economicamente keynesiano, che da sempre va mo-strando la sua fragilità. Insistendo sull’eguaglianza degli uomini e dellenazioni, nega le differenze valoriali e di merito, in sostanza tutti ap-piattendo su un basso denominatore. Mentre, piaccia o meno (a pa-role), le classi dirigenti esistono. Supremo livello di contraddizione laChiesa cattolica: pari dignità per ogni anima ma ferrea struttura gerar-chica del Clero con le donne dichiarate “non idonee” alle più alte fun-zioni. Un ampio dibattito ecclesiale è in atto al riguardo, ma la posi-zione conservativa del papato sembra irremovibile.

Tornando coi piedi per terra, o sarebbe meglio dire “sulla Terra”,con l’unico e modesto occhio di cui dispongo, quello del cronista,chiedendo scusa per la semplicità dell’excursus, rilevo:

1. Il diluvio universale che ripulì l’umanità, poi lesta a edificare laTorre di Babilonia che anziché raggiungere il Cielo miseramente

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franò. (È davvero improprio un legame con lo smisurato orgo-glio della Finanza?).

2. La civiltà greca s’impose, con le armi e l’astuzia, sulla persiana.Poi s’inchinò a Roma, dove gli Imperatori ebbero dignità e pre-rogative divine. (Non senza, peraltro, rigurgiti democratico-re-pubblicani). Sul crollo-tracollo dell’Impero romano, una vastaletteratura converge su un’analisi socio-politica: i cittadini ave-vano perso, vittima di un consumismo ante-litteram, ogni vogliadi lavorare trasformandosi in redditieri; gli dèi importati dall’O-limpo ellenico erano frusti e inadeguati. Costantino, imperatorelungimirante, comprese. Inventandosi una Nuova Capitale (Bi-sanzio) e offrendo ai sudditi il Cristianesimo. “Religione a ter-mine”, poiché s’era in attesa del Giudizio Universale e della ri-petutamente annunciata dai Profeti “Fine dei Tempi”.

3. L’Alto Medio Evo (dal V al X secolo) fu marchiato dal “primatoreligioso”, nell’attesa appunto dell’Apocalisse. L’Occidente cri-stiano, stremato dalla miseria e succube del catastrofismo, fu sulpunto di venire travolto dal nascente Islam. Pressoché latitantii laici e i filosofi che discutevano sul sesso degli Angeli, toccòa Papa Urbano II suonare la diana della riscossa. Le Crociate!Liberare il sepolcro del Cristo a Gerusalemme il messaggio-pro-clama populista-identitario; in realtà ristabilire il primato del-l’Occidente. Guerra lunga, vittoriosa. Con l'Islam che dovrà at-tendere sino ai nostri giorni per rialzare la testa.

4. “La riscossa dell’Occidente”, favorita dallo scisma luterano, piùche religiosa è tecnico-economica: il primato nei commerci, neitraffici marittimi, nell’industria nascente. In questo procederesicuramente “virtuoso” cui l’Illuminismo ha dato una spinta de-cisiva, col prevalere della Scienza sul Mito carico di supersti-zioni, non sono certo mancati i derapage: dalle crisi economi-che (ultima quella del 1929-33) alle guerre su scala sempre piùvasta. “Mondiali”, per l’appunto. Alle quali va riconosciutauna caratteristica positiva: azzerare per ricostruire!

5. Due fattori hanno comunque caratterizzato i “Tempi moderni”:il primato assoluto dell’Occidente capitalistico che è riuscito abattere anche il modello comunista incarnato dall’URSS, e l’af-fermarsi della Finanza autoproclamatasi autonoma dall’econo-mia, nel convincimento che lo sviluppo e il Bene Comune di-scendano non dalla produzione ma dal danaro. Da qui il gradualetrasferimento del potere reale da Politica & Industria e, attraversoil cavallo di Troia delle banche, alla finanza tout-court.

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6. Non bastasse, la pressoché generale cecità. Per decenni, e sinoal crollo dell’URSS, avevamo vissuto in clima di “scontro ideo-logico”, incuranti o quasi del latente “conflitto demografico” cheha portato l’Occidente “bianco” a essere minoranza nel pianetaTerra (meno di un miliardo su sette) a vantaggio degli asiaticie degli africani. Con la malriposta speranza che la Finanzaavrebbe ricomposto, a nostro vantaggio, gli equilibri.

Se questo è lo scenario globale, come se ne esce? Ha ragione l’a-mico Ivan Rizzi nell’invocare un colpo di reni etico, ma davvero cre-diamo sia possibile? Quantomeno, gli italiani e tanti popoli mediterra-nei dovrebbero confessare le loro colpe (l’avere troppo a lungo vissutodissennatamente), quindi compiere atto di contrizione e accettare unlungo periodo di penitenza.

Improbabile resipiscenza! Parecchi segni lasciano intravvedere ilrischio di una “pausa democratica”, peraltro già anticipata seppure al-l’acqua di rose, dal Governo tecnico di Mario Monti. Nessuno ormaisi stupirebbe se il “dopo Grecia” sfociasse in un’eurodiaspora. Se Ate-ne piange, non ridono né Lisbona né Madrid né Roma, mentre i Pae-si del Nord rifiutano il ruolo di donatori di sangue. Possiamo davve-ro rimproverarli? L’euro nacque da un ricatto del presidente franceseMitterand al Cancelliere Helmut Kohl in contropartita del via liberafrancese all’unificazione tedesca; e a Berlino quell’imposizione nonè mai stata metabolizzata.

C’è poi la Storia con la maiuscola a suonare campana a morte perl’euro: mai un’unificazione monetaria ha anticipato un’unificazionepolitica; e ben sappiamo come nei palazzi in vetrocemento di Bruxel-les, Francoforte, Strasburgo, legioni di euroburocrati superpagati ma-cinino acqua fresca. Avranno pure le mani legate, ma se così è, a cheservono? Amare ciliegine sull’eurotorta: che caratura diamo all’attualeclasse politica continentale a confronto di quegli antenati che porta-vano i nomi di Adenauer, De Gasperi, Schuman, De Gaulle? Nani chehanno tradito i giganti. E in USA Obama ha forse la statura di un Ken-nedy, in Gran Bretagna Cameron quella di Churchill?

La Storia marcia sulle gambe degli uomini. L’Europa e l’Occidentesono orfani di grandi figure. L’euro fu un escamotage politico-mercan-tile, privo di un vero afflato etico, e sta dunque pagando lo scotto delsuo peccato originale.

(Giancarlo Galli, saggista)

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Vito Gamberale

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In ogni passaggio esistenziale, in ogni fase della vita lavorativa, sidovrebbe sempre conservare la piena coscienza dell’inevitabile tran-sitorietà di ogni esperienza umana e professionale: dall’azienda sientra e si esce, qualsiasi presenza è sempre pro tempore. Tale consa-pevolezza dovrebbe spingere a vivere al massimo ogni occasionesenza mai risparmiarsi. È rispetto della dignità di se stessi e dovereverso gli altri il concorrere a migliorare le organizzazioni che, di voltain volta, ci si trova ad attraversare. Ciò vale a fortiori nel caso del-l’assunzione della guida di organizzazioni complesse e altamentestrutturate come le aziende o le istituzioni pubbliche.

Un leader esemplare sa esprimere una tendenza quasi naturale alperfezionamento continuo di sé e del proprio team. Quando, per laprima volta, varca la soglia dell’azienda, il leader deve già essere con-sapevole che, immancabilmente, verrà un giorno, ancora non noto,ma certo, in cui riattraverserà quella porta, nella direzione opposta, peruscire di scena. Al termine dell’incarico il leader deve accomiatarsiavendo contribuito a rafforzare e possibilmente accrescere l’azienda:questa è la sua missione, il concorrere alla vitalità espansiva dell’or-ganismo-impresa. Per facilitare la transizione e rendere possibile unpassaggio di testimone non traumatico, si deve sin dall’inizio evitaredi personalizzare eccessivamente lo stile di direzione. Modellare l’a-zienda a immagine e somiglianza dell’uomo-guida, la rende più fra-gile e, per così dire, leader-dipendente. Il primo dovere di un capo èdunque quello di non ritenersi insostituibile e di evitare l’identifica-zione della sua persona e della sua conduzione con quello dell’a-zienda: l’impresa non è di sua proprietà personale, deve distinguersidal leader e deve sopravvivergli. L’impresa è una istituzione, è un enteastratto e impersonale destinato a durare ben oltre l’incarico di chi laguida. Una discreta dose di distacco, una dedizione assoluta, uno spic-cato senso di responsabilità, sono le doti indispensabili di un leader ef-ficace. Chi dirige ha il dovere fondamentale di tutelare gli asset azien-dali, non solo a tutela della proprietà, ma anche nei confronti del va-

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lore sociale dell’impresa. Depauperare il valore dell’azienda costitui-sce non solo un tradimento nei confronti della fiducia degli azionisti,ma anche una dispersione di conoscenze, di cultura industriale e delladignità del lavoro di una comunità.

Chi dispone del potere deve possedere una innata capacità autocri-tica che è il motore del cambiamento. Un leader autentico è dotato diuna visione anticipante, una preziosa combinazione di preveggenza eintuito: una sorta di sesto senso che consente di cogliere i segnali de-boli nei mercati e prefigurare i cicli economici a venire.

Il capitalismo italiano ha visto storicamente l’affermarsi, da unaparte, di una forma privata, familiare o familista, secondo le interpre-tazioni, e dall’altra di un sistema misto a forte direzione pubblica. Duemondi paralleli e due concezioni di governance differenti che hanno ca-ratterizzato il modello di leadership del nostro Paese. Il capitalismo fa-miliare è stato rappresentato da moltissime piccole/medie aziende da unaparte e da poche grandi famiglie dall’altra. Le prime hanno avuto unaconduzione familiare, spesso esauritasi alla prima generazione. Le se-conde, ossia le grandi imprese, scomparsi i fondatori, nella maggiorparte dei casi hanno delegato i manager a essere i veri protagonisti dellagestione e, quindi, delle scelte decisive. Esaurita, infatti, la spinta pro-pulsiva del fondatore, sono stati i top manager ad amministrare opera-tivamente riservando agli eredi delle grandi dinastie imprenditoriali ledecisioni relative solo ai momenti cruciali, molto spesso alla mera po-litica dei “dividendi”, e alla modificazione dell’assetto proprietario edella catena di comando delle holding di famiglia. Nelle piccole e me-die aziende, che rappresentano tuttora un tessuto connettivo vitale del-l’economia italiana, si è andato affermando un modello personalisticoe accentrato con un fondatore iperattivo protagonista in prima personache spende tutta la propria immagine e tutta la propria esistenza nellapropria idea imprenditoriale. Ciò rappresenta l’archetipo antropolo-gico, prima ancora che imprenditoriale, dell’uomo-azienda che decidedi legare indissolubilmente l’azienda al proprio nome: destino personalee aziendale arrivano così a intrecciarsi e fondersi indissolubilmente, nellabuona ma anche nella cattiva sorte. In questo ambito vi sono innume-revoli esempi di leader di grande successo ma si segnalano anche altret-tanti grandi fallimenti, spesso determinati proprio dalla insostituibilitàdi un leader ormai obsoleto che da propulsore si trasforma in zavorraostacolando con tutto il proprio peso ogni cambiamento. Nelle aziendea controllo familiare di media dimensione, se il capostipite non è lun-gimirante e avveduto nel preparare una accorta successione generazio-nale o un inserimento graduale di validi manager, può determinarsi un

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fatale declino. Vi sono, nella dottrina manageriale, diverse scuole di pen-siero che forniscono interpretazioni differenti del fenomeno della suc-cessione aziendale: c’è chi individua come critico il passaggio alla se-conda generazione, c’è chi invece sostiene che le generazioni funzionanoin modo alternato, così mentre le generazioni dispari tendono a costruiree accumulare, quelle pari all’opposto spendono e dissipano. Al di là delleinterpretazioni, è certo che ogni leader illuminato ha l’onere di prepa-rare in tempo la successione se vuole rispettare veramente l’azienda.

Per un manager rimanere ancorati in modo stanziale sempre allamedesima azienda comporta sovente una inerzia che si traduce in ob-solescenza intellettuale e calo motivazionale: ciò fa parte del decorsodi una fisiologia naturale della leadership. Rimanere troppo a lungonel medesimo ambiente determina una curva di sviluppo dell’appren-dimento e della dedizione verso l’azienda di tipo asintotico, ossia con“incrementi” tendenti a zero!

Nel settore dell’industria a partecipazione pubblica l’amministra-tore delegato, venendo nominato dall’Azionista socio Pubblico, può es-sere rinnovato, ma si tratta di incarico fiduciario necessariamente a ter-mine. Nel mondo dell’Amministrazione Pubblica, specialmente a livellolocale, prevale una logica di spoil system con conseguente ricambio delvertice che tende a rispecchiare la mutazione di ciclo politico.

Il leader efficace deve facilitare il prodursi di un clima relazionaleproduttivo e costruttivo. Un capo ha il compito fondamentale di mo-bilitare risorse di crescita: lo sviluppo in azienda si misura in terminidi fatturato crescente, di capitalizzazione, di nuovi prodotti, di nuovimercati. La vita aziendale non è auto-rerefenziale ma interferisce edè a sua volta condizionata da fenomeni esterni: la congiuntura inter-nazionale, l’evoluzione dei prodotti, lo sviluppo tecnologico, l’aper-tura di nuovi mercati che assorbono prodotti o che offrono materieprime. Un leader deve possedere una visione di largo respiro e unapiena percezione delle mutazioni in corso nell’orizzonte globale.

Un compito strategico è quello di inserire le persone giuste al postogiusto assemblando un team di competenze ad alto potenziale con cuicondividere la mission e la vision del gruppo. In quella organizzazionecomplessa che è l’azienda contemporanea non ha più senso evocare lafigura del battitore libero: non esiste più spazio per un one companyman. Un leader deve selezionare collaboratori autorevoli per indipen-denza di capacità, dotati di alte competenze sia tecniche che trasversali,le cosiddette soft skills. Un capo circondato da talenti può esprimere l’a-zienda come inviluppo di competenze eccellenti; all’opposto un capoche teme il confronto con i propri collaboratori e si circonda di yes man

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accondiscendenti, subisce l’inviluppo della mediocrità e del conformi-smo, alimentando la piattezza di un’opaca passività senza prospettivedi lungo termine. Un leader autentico è in grado di selezionare colla-boratori di carattere, provvisti di solide competenze e capaci di coniu-gare talento professionale e lealtà, che è fedeltà non acritica a un capo,ma è composta da trasparenza, buona fede e spirito collaborativo senzasecondi fini. I collaboratori eccellenti sanno accettare la propria fun-zione non ritenendola né migliore, né più prestigiosa delle altre, con-sapevoli che si alimenta e arricchisce solo nell’interdipendenza contutte le altre: il proprio ruolo si esprime al meglio non rivendicando lapropria superiorità, ma collaborando in perfetta sinergia con quellodegli altri. Ciascun ruolo svolto all’interno di una azienda ha contem-poraneamente il carattere di cliente e fornitore interno. C’è un flussocontinuo biunivoco tra le diverse mansioni svolte dalle varie funzioniaziendali. Regolare il clima aziendale favorendo un atteggiamento col-laborativo fondato su fiducia reciproca dipende dalla qualità del leadere dalla sua capacità di plasmare l’ambiente aziendale con una sorta diimprinting etico. Un leader deve avvalersi delle competenze dei propriuomini ma anche valorizzare i talenti potenziali ancora latenti, favo-rendone l’espressione attraverso un percorso di emersione di capacitàe di progressiva responsabilizzazione.

Avvalendosi di una metafora chimica, si può dire che l’atomo-azienda appartiene alla molecola-paese, e se un atomo non si ricono-sce in quella molecola indebolisce la molecola e anche se stesso. Perquesto diventa fondamentale, per un Paese, la coesistenza di leader-ship aziendali e leadership politica. Il grande limite di molti leader delmondo politico è quello di circondarsi, intenzionalmente, di collabo-ratori di livello mediocre all’unico scopo di tenerne a bada le ambi-zioni e la possibile ascesa: una tattica per evitare futuri concorrenti in-gombranti, rallentando così o addirittura inibendo la nascita di leaderemergenti. Si tratta di una tattica autolesionista che impoverisce la qua-lità politica dei partiti e della classe dirigente contribuendo a minarnela credibilità e la possibilità di effettivo ricambio generazionale.

È questo il quadro che, in definitiva, tende a caratterizzare l’Italiain uno stagnante immobilismo di idee e di uomini. Eppure, in un pas-sato nemmeno troppo remoto nella storia repubblicana, non sono man-cati personaggi di alto livello e di grandi ideali, statisti capaci di mo-bilitare le migliori energie del Paese e di creare rispetto verso il Paese.Ma il passaggio cruciale alla cosiddetta Seconda Repubblica invece dipromuovere l’auspicata modernizzazione del Paese superando le vec-chie logiche partitocratiche, ha visto restringere lo sguardo della classe

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politica dal bene collettivo a quello del gruppo di interesse lobbystico.La storia meno recente del nostro Paese ci ha tramandato il ricordo dipersonaggi di autentico spessore intellettuale e morale: uomini di ri-gore e princìpi, con una visione trasparente del bene collettivo. Uo-mini forgiati su una idea nobile del potere come servizio, leader prov-visti di consapevolezza etica del proprio ruolo e capaci di onorare leIstituzioni interpretando il potere pubblico come missione. L’Italia èstata spesso ingenerosa, in vita, con uomini che hanno dato molto alPaese. L’informazione viene, di sovente, manipolata ai fini della bat-taglia politica e troppe volte si è dovuto attendere un riconoscimentotardivo da parte degli storici per leader che hanno aiutato il Paese afare scelte forse impopolari ma giuste. Con l’andare del tempo, la pre-senza di leader disponibili a lottare per il bene collettivo si è fatta sem-pre più rara e la classe dirigente della Seconda Repubblica ha assuntoi tratti di un potere personalistico fondato sull’ipertrofia di un ego nar-cisistico a tutti i livelli di potere, centrale e locale, di vertice e interme-dio: una classe dirigente che invece di guardare alla realtà del Paesepreferisce specchiarsi nel proprio io autoreferenziale e indifferente.Questa regressiva frantumazione in interessi particolari ha fatto perderela visione d’insieme indispensabile alla sintesi politica, determinandouna profonda crisi nel modello di governance del Paese. Questa crisinel modello di elaborazione delle priorità e di policy making si traducein una impasse che blocca la politica e determina un impoverimento delruolo e dell’immagine del Paese, che si riverbera anche nel modo in cuil’Italia si esprime e viene percepita nel Mondo, incidendo negativa-mente anche sull’autostima degli uomini e generando inerzia e apatiadiffusa. Una tendenza che nell’ultimo decennio ha inciso sulla caricamotivazionale degli italiani riducendone la passione per la competiti-vità a livello internazionale. Tutto questo erode la credibilità comples-siva, logorando i margini di tenuta e di sostenibilità delle politiche eco-nomiche e le opportunità di crescita del sistema paese.

Quando nelle Istituzioni Pubbliche o nelle aziende viene intac-cato l’orgoglio e l’ambizione dei migliori e subentra una mediocritàincolore, si dà avvio a un circolo vizioso di declino e progressiva dis-sipazione: una sorta di entropia, o ancora meglio di perdita di ental-pia, seguendo la metafora della perdita di carica energetica, che incidenella dinamica di una società, devitalizzandola.

Ogni organizzazione, isituzionale o aziendale, deve elaborare unavision, costruire una identità, esprimere un modello valoriale in coe-renza con il quale poter essere percepita all’esterno presso gli stakehol-der. Il mercato di riferimento è connesso a un prodotto o un servizio,

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che deve continuamente apparire di alto profilo. Perciò è indispensa-bile disporsi con umiltà, curiosità e voglia di impegno, di fronte allacontinua evoluzione delle conoscenze e delle soluzioni tecnologiche.

A questo proposito ricordo un insegnamento di un mio vecchioprofessore di macchine che – allora sembrava paradossale ai nostriocchi di studenti – sosteneva l’importanza fondamentale di saper co-piare: il docente non intendeva infatti il copiare dal compagno dibanco, ma dalla tecnologia più avanzata in un determinato momento.Solo confrontandosi con lo stato dell’arte di frontiera, in un determi-nato momento, si può alzare l’asticella della sfida al miglioramentocollettivo. L’evoluzione, tecnologica e sociale, si fonda su un atteg-giamento critico ed etico di umiltà di fronte a tutto quanto è già statorealizzato per perfezionarlo. Conoscere per migliorare. Il progresso èil frutto di un confronto continuo, di una diffusione della conoscenzaimplementata in soluzioni e applicazioni ulteriormente sviluppabili.

L’Italia ha avuto e detiene tuttora eccellenze tecnologiche e im-prenditoriali. Però deve fare attenzione a mantenere un livello di guar-dia sui processi di trasformazione degli scenari tecnologici e del mer-cati internazionali. L’isolamento e la mancanza di apertura sull’oriz-zonte globale dello sviluppo, unito al convincimento auto-compiaciutoo illusorio di essere già al top di un settore, rischia di far perdere l’u-miltà necessaria a motivarsi nello sforzo incessante di auto-perfezio-namento continuo, il vero motore dell’eccellenza.

La globalizzazione non deve essere percepita come perdita di iden-tità nazionale ma piuttosto come opportunità di più fluida circolazionedi informazione e di concorrenza. Ma l’identità nazionale non deve inalcun modo andare perduta perché raccoglie il valore inestimabile diuna memoria condivisa, la consapevolezza di appartenere a un destinocomune che solo può trasformare una comunità in un popolo.

Il concetto di nazione subito dopo il fascismo era stato rimossoperché veniva troppo semplicisticamente associato alla retorica na-zionalista. Negli anni successivi al crollo del regime fascista si diffuseuna cultura volta a cancellare ogni riferimento al concetto di patria.Nel tempo si è riuscito a superare questo atteggiamento anti-identita-rio e addirittura oggi chi si fa portavoce di questa dimensione di or-goglio nazionale proviene dalla tradizione di quella cultura che ha alungo avversato il patriottismo, confondendolo col neo-fascismo.

La cultura politica del nostro Paese si è fondata storicamente su unacontrapposizione ideologica molto accentuata tra religioni politichechiuse nelle proprie verità dogmatiche e non disposte a dialogare, o perlo meno, a confrontarsi tra loro: spesso, sia la chiesa cattolica sia le re-

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ligioni politiche, in modo opposto ma con la medesima irriducibile as-solutezza, tendono a costruire una visione forte e fideistica dell’uomo,della società politica e della società civile. Questa mancanza di dialet-tica tra diverse ideologie e visioni del mondo ha indotto una esaspera-zione ideologica che ha impedito un esame sereno, freddo, laico e obiet-tivo delle questioni secondo un principio di realtà e di razionalità.

Il sistema-Paese negli anni ha risentito di una esasperazione del con-flitto che esalta ciò che divide e rimuove ciò che potrebbe unire. Più cheparlare di fatti si tende ad alimentare i pregiudizi ideologici e, a una lo-gica del libero e disinteressato confronto dialettico delle opinioni, si so-stituisce la difesa aprioristica dello schieramento e dell’arroccamentodogmatico. Un esempio tra i tanti è quello della questione ambientale.L’ambiente è qualcosa che consumiamo ogni istante: ogni azione del-l’uomo consuma una quantità infinitesima di ambiente. Perciò nelrapportarsi alla questione ambientale è necessario munirsi di un approc-cio razionale e pragmatico basato su un calcolo costi-benefici. In Ita-lia si è invece diffusa una prevalente forma di ambientalismo di matricepreconcetta più che scientifica: manca nel Paese un ambientalismo fon-dato su dati rigorosamente validati. Allo stesso modo il mondo della co-municazione fatica ad affrontare in modo serio la questione dell’inno-vazione e delle riforme strutturali necessarie a innescarla.

La pubblica opinione sembra rivelare una eccessiva emotività eostilità preconcetta di fronte alla questione cruciale delle infrastrut-ture. Per esempio: il medesimo termovalorizzatore, al Nord viene con-siderato come una frontiera avanzata di gestione dei rifiuti mentre alSud viene percepito come un impianto altamente inquinante. È pos-sibile applicare a un giudizio tecnico un doppio e contrapposto stan-dard di valutazione senza creare disinformazione?

Da oltre un trentennio si è venuta perdendo la cultura delle infra-strutture: l’Italia infatti è stato l’unico Paese al mondo in cui una di-sposizione legislativa (1975) ha ostacolato il processo di sviluppodella rete di autostrade.

Il Paese, più in generale, ha visto l’affermarsi di una conflittualitàpreventiva, pretestuosa e dogmatica non a vantaggio del bene comune,ma basata su interessi di parte veicolati da una classe dirigente con latendenza a gestire l’effimero piuttosto che governare il futuro. Unafitta rete di interessi personalistici per colpa dei quali il Paese sta per-dendo slancio e iniziativa e registrando un clamoroso ritardo versol’innovazione. Per questo è importante ricostruire una cultura del-l’informazione e della divulgazione della scienza e della tecnologiavalorizzando le eccellenze del nostro Paese.

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La stampa insiste su scandali e inchieste e tralascia le positività,non racconta i primati e le eccellenze presenti nella nostra penisola. IlPaese non ha la propensione al godere e a maturare e condividere l’or-goglio, come Paese, delle nostre eccellenze nazionali. Penso allagrande avventura di Telecom degli anni ’90. Una realtà allora in forteespansione a livello globale, sia dal punto di vista tecnologico che in-dustriale. Eppure i nostri media ne ignorarono gli elementi di leader-ship. Ora, a un decennio di distanza, tutti rimpiangono quella Telecom.Va detto che l’Enel, oggi, ha ricreato un vero grande gruppo globale.

Ci sono state però, in Italia, anche delle gravi responsabilità, daparte del sistema politico, nella decisione di abbandonare interi settoristrategici per il Paese. Solo in Italia si è impiegato uno strumentocome il referendum per incidere su decisioni cruciali che richiedonouna maggiore ponderazione e tecnicità in scelte che rischiano di porreuna ipoteca sul futuro del Paese. C’è una tendenza a mistificare larealtà con l’impiego dello strumento referendario sulle linee chiavedelle politiche industriali del Paese. Si avvertono ventate di fonda-mentalismo anti-industriale che contribuiscono a bloccare occasionidi sviluppo per le infrastrutture.

Il dovere del leader è quello di contribuire a realizzare isole di ef-ficienza e occasioni di sviluppo mostrando come sia concretamentepossibile non arrendersi al declino morale, politico ed economico.

Da semplici isole di eccellenza ad arcipelaghi di sviluppo il passonon è impossibile se si vuole ricominciare a crescere come sistema.

Per trasformare il Paese serve una politica che non sia ostenta-zione di potere personale e di effimero personalismo fine a se stesso,come mero esercizio di vanità. All’opposto è indispensabile sobrietànei comportamenti e credibilità nell’impegno, pronti a riconoscere glierrori, aperti all’ascolto dei pareri degli altri e capaci di focalizzarsisui segni del futuro per prendere decisioni con coraggio e lucidità.

Un manager non è detto che non abbia incertezze. Deve però avereil coraggio di fare delle scelte, il dovere di decidere pur avendo il tra-vaglio del dubbio.

L’essenza della leadership non deve essere arroganza e prepo-tenza, ma umiltà, mitezza, onestà intellettuale, disponibilità, pragma-tismo e coraggio. E anche orgoglio e determinazione nel difendere leproprie idee, qualora venissero mortificate.

(Vito Gamberale, amministratore delegato Fondi Italiani per le Infrastrut-ture SGR)

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Vladimiro Giacché

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In che modo è possibile costruire un percorso di ricambio dellaclasse dirigente del nostro Paese?

Cominciamo col dire come non può avvenire. Credo che un per-corso di ricambio della classe dirigente del nostro Paese non possa av-venire per cooptazione. Quello che oggi si richiede è un diversosguardo rivolto al mondo, che è cambiato sotto i nostri occhi senza chece ne volessimo convincere. Siamo prossimi a un cambiamento di sce-nario: uno di quei momenti in cui cadono le vecchie quinte di un tea-tro e la nuova scena è qualcosa di sostanzialmente diverso da quelloche ci si attendeva (da quello che si sperava, ma anche da quello chesi temeva). Sono momenti in cui matura una nuova classe dirigente,priva dei cliché che inevitabilmente orientano lo sguardo della vecchiae ne rendono inadeguato l’agire.

È una maturazione che avviene a salti e non per gradi, che può es-sere senz’altro propiziata ma non costruita a tavolino. Per questo lacooptazione non funziona. Per questo, e non soltanto per il conformi-smo che di regola esige dal cooptato.

Come trasformare un processo di inesorabile declino del Paesein una opportunità di cambiamento?

Innanzitutto comprendendo che, come ebbe a dire uno dei mag-giori pensatori e uomini politici del Novecento, “non esistono situa-zioni senza via d’uscita”. E quindi che il declino può non essere ine-sorabile. In secondo luogo cercando di studiare a fondo la realtà, laconcretezza della situazione attuale: e questo significa, in questa fase,non accontentarsi dello studio dei trend lineari, ma cercando di inten-dere se e dove vi siano delle faglie, dei punti di frattura profondi chedeterminano dei salti, delle discontinuità profonde nello sviluppo.

È un esercizio che avremmo fatto bene a fare prima dell’ingressonell’euro. E invece è stato sostituito da un volontarismo che col sennodel poi è fin troppo facile giudicare come poco accorto. Oggi il puntodi frattura, sul piano mondiale, è la fine di una fase plurisecolare dello

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sviluppo che possiamo compendiare nell’espressione “the West andthe rest”. Il resto del mondo non è più “il resto”: l’Asia è il nuovo dri-ver dello sviluppo, l’America Latina il futuro prossimo, l’Africa il fu-turo remoto. Mantenendo un atteggiamento para- o post-coloniale neiconfronti di questi sviluppi, ci condanneremo senza appello a vedereil nostro ruolo di europei e occidentali nel mondo ridursi al lumicino.

Non si tratta soltanto di un cambiamento culturale. Si tratta dicompiere rapidamente scelte politiche importanti: per esempio, come,con cosa e in che tempi sostituire la diarchia valutaria dollaro-euro?Se decidiamo di avere un atteggiamento passivo e inerziale rispetto aproblemi di questa entità saremo travolti. Un nuovo ruolo non è nes-sun ruolo: è un ruolo nuovo. Da immaginare, cercare, costruire.

Aveva ragione Seneca: “Fata volentes ducunt, nolentes trahunt”.

È possibile qualificare una nuova dimensione della leadershipoltre la dicotomia tra freddi e distaccati “professionisti” della poli-tica e appassionati “dilettanti” del potere?

Un tempo il ponte che consentiva di superare questa dicotomiaera rappresentato dai partiti di massa. Che non erano soltanto collet-tori di consenso, ma costruttori di una classe dirigente.

È importante capire quando questo modello è entrato in crisi. Ri-tengo che questo sia avvenuto negli anni Settanta, allorché le spintedi cambiamento (e le nuove soggettività che ne erano portatrici) sonorimaste insoddisfatte e costrette a un forte arretramento. Da allora data,almeno da noi, la scissione tra quella che è impropriamente chiamataoggi “classe politica” (e ancora più impropriamente e rozzamente “ca-sta”) e i cittadini. Quindi quel ponte è crollato ma non è stato sosti-tuito da niente di meglio.

Non ritengo infatti che il rapporto diretto principe-popolo (con lamediazione invisibile ma assai rilevante dei mezzi di comunicazione)costituisca un valido sostituto di quello che abbiamo perso ormai unagenerazione fa. Ovviamente non si tratta di costruire a tavolino unnuovo modello più funzionale. Credo che una possibile risposta (an-che qui: una risposta possibile e non necessaria) vada ricercata nellacapacità dei movimenti – che oggi esistono in grande quantità, ma pro-prio in quanto estremamente settoriali, limitati e spesso miopi – dievolvere e di costruire una classe dirigente dotata di uno sguardo si-stemico. Quando accadrà questo, ci accorgeremo che la dicotomia trafreddo professionista e appassionato dilettante può essere superata. Enon per mezzo delle “vedette dello spettacolo” di cui parlava in tonogiustamente sprezzante Guy Debord.

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Come consentire alle nuove generazioni di prendere parte a unprocesso di vera inclusione sociale prendendo parte alle scelte fonda-mentali del Paese?

Non dipende da noi, dipende da loro. La partecipazione non può es-sere octroyée. Una partecipazione octroyée non è vera partecipazione.

Qual è il rapporto tra modello individualistico e personalistico emodello pluralistico e impersonale di leadership condivisa?

La risposta a questa domanda presuppone un orientamento difondo non soltanto sulla leadership, ma su un modello di società.

Personalmente ritengo che la drammatica carenza di leadershipche oggi si manifesta in Europa (ma sicuramente in Giappone e pro-babilmente negli Stati Uniti le cose non stanno in maniera molto dif-ferente) metta a nudo il problema fondamentale del modello indivi-dualistico e personalistico della leadership, che siamo abituati a rite-nere naturale alle nostre latitudini, salvo provare disagio per quanto difittizio e artefatto abbia e per la sua provata inefficacia. La verità è chei nostri gruppi dirigenti attuali (non faccio differenze tra sinistra e de-stra) sono espressione di gruppi di pressione, ma soprattutto di unmodo inadeguato di pensare il nostro presente e il nostro futuro. Dalpunto di vista dell’efficacia elettorale il problema può essere supe-rato con un uso accorto dei media, ma è per così dire soltanto spostatoin avanti: al momento della decisione. Che inesorabilmente manife-sterà l’inadeguatezza del “leader”, e quindi (visti i fallimenti seriali acui assistiamo) del modello.

In altri termini: sono favorevole a un modello pluralistico e imper-sonale. Pur sapendo che saranno le circostanze, e non i miei personalidesiderata, a imporlo – superando l’attuale fase storica, caratterizzatada quel vero e proprio ossimoro actu che è l’odierno “culto della per-sonalità” in assenza di personalità.

Quali sono i valori non negoziabili che devono ispirare la leader-ship?

L’unico valore effettivamente non negoziabile è l’efficacia strate-gica. Soggettivamente sono però portato ad aggiungere a questo va-lore l’onestà e la dedizione al bene comune.

Qual è l’impatto del modello di comunicazione digitale nella con-figurazione di possibili modelli di decisione diffusa e periferica?

La comunicazione digitale sta creando un’agorà virtuale che inlinea teorica consente di abbattere uno dei vincoli storici alla parteci-

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pazione politica: la lontananza fisica dal luogo delle discussioni edelle decisioni. All’atto pratico, però, se il luogo delle discussioni èfacilmente attingibile, quello delle decisioni (di quelle che contano)lo è sempre meno. Per il banale motivo che esse sempre più spessonon sono prese in sedi non pubbliche, ma private (il consiglio di am-ministrazione di una banca centrale o di una grande impresa decidecose più importanti per la nostra vita di un Parlamento).

Recentemente abbiamo avuto anche un revival degli arcana im-perii, nella forma di una lettera inviata dalla Banca Centrale Europeaal Governo italiano, il cui testo non è stato reso pubblico dalla BCE

con la singolare motivazione che “la divulgazione recherebbe pregiu-dizio alla tutela dell’interesse pubblico”. Personalmente, alla luce diquesto episodio, mi sento di consigliare a Jürgen Habermas una rivi-sitazione delle sue teorie sulla “opinione pubblica critica” e sul suopresunto ruolo centrale nella società contemporanea.

È ancora possibile professarsi “impolitici” in un mondo che ri-chiede una partecipazione crescente a scelte epocali?

No. Ma in verità non lo è mai stato. Il tirarsi fuori è sempre statoun atteggiamento mistificatorio. Per un motivo molto semplice, giàben presente ad Aristotele: perché anche l’omettere è un fare.

Quali sono le caratteristiche personali e le competenze necessa-rie di un leader credibile?

Nella tradizione di sinistra la sintesi più efficace al riguardo èquella tentata da Antonio Gramsci, il quale parlava di “specialista+po-litico”. Ossia di un personale politico che fosse in grado di unire com-petenze specialistiche a capacità politica (e quindi di persuasione, ne-goziale ecc.). La necessità di questa sintesi non è venuta meno, anchese forse oggi proprio l’estrema specializzazione dei saperi costringea rideclinare questa idea in una forma diversa: ossia puntando, piùche sullo specialismo in prima persona, sulla capacità di ascoltare edi apprendere unita a una capacità di organizzare e sintetizzare un la-voro inevitabilmente collettivo. Non entro nel merito delle caratteri-stiche psicologiche e caratteriali necessarie, non da ultimo perché laloro utilità può mutare di molto in relazione alla diversità delle situa-zioni. (Tra parentesi, questo è uno dei motivi più sostanziali per i qualinon esistono leader per tutte le stagioni e per tutte le situazioni).

È ancora possibile parlare di una élite detentrice del privilegiodella conoscenza nell’era del villaggio digitale globale?

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Sì e no. La conoscenza è senz’altro un privilegio che resta tale nelsenso che non può dirsi immediatamente accessibile a tutti. Ma è bendifficile che un singolo individuo possieda in prima persona tutte ogran parte delle conoscenze necessarie per la gestione della cosa pub-blica. Rinvio insomma alla risposta alla domanda precedente.

È possibile parlare di leadership etica?Credo di sì. Personalmente non mi annovero tra gli immoralisti e

i cinici. La cosa essenziale in un leader è l’efficacia, come ho dettosopra. Personalmente ritengo però che esista un’efficacia progressivae un’efficacia regressiva. La prima non può non essere eticamenteconnotata.

Qual è il rapporto tra retorica manipolativa della comunicazionestrategica e oggettiva verità dei fatti?

Oggi si usa identificare le due cose. Continuo a ritenere che sitratti di un errore teorico. Almeno per quella corposa sottoclasse deifatti che non è creata dalla comunicazione. Verità e menzogna, ove sideflazioni il primo termine (ossia si eviti di caricarlo di implicazioniontologiche assolute proprio al fine di farlo crollare sotto il loro peso,gioco molto usato dai post-modernisti), restano termini validi e deci-sivi. Nella vita quotidiana e nel discorso pubblico.

Qual è il giusto equilibrio tra livelli di assertività e dialettica nellostile del leader efficace?

Personalmente ritengo che l’assertività sia di fondamentale im-portanza. Credo infatti che la caratteristica principale di un leaderconsista nella capacità di decidere, di scegliere, di imboccare dellestrade, e nel migliore dei casi di costruirne di nuove.

La dialettica viene prima e dopo: è l’istruttoria che precede la de-cisione e la modalità con cui questa decisione viene comunicata. Inquesto senso è anch’essa essenziale. Ma il prius (logico e non tempo-rale) resta l’assertività.

(Vladimiro Giacché, responsabile Affari Generali Sator)

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Giordano Bruno Guerri

C’è un elemento quasi magico nella leadership: il carisma, entitàindefinibile, un’aura che circonda i contorni del predestinato al co-mando, ne sottolinea la figura e incorona il capo con il magnetismo delpotere catturando la volontà del gruppo e indicando la via a una comu-nità, a un popolo riconoscente e spesso ossequiente. Ma ci sono anchealtre caratteristiche meno ineffabili e più misurabili nella fenomeno-logia del potere politico. Nella storia recente del nostro Paese il quasi-ventennio berlusconiano ha visto l’affermarsi di un modello incentratoin maniera ossessiva sulla figura e sulla persona del Cavaliere di Ar-core: tutta la modalità di comunicazione del sistema di potere di Ber-lusconi si è incentrata sulla fideistica attesa del verbo e delle decisioniinappellabili di un capo assoluto e totalmente accentratore, catalizza-tore delle energie di un movimento allo stesso tempo politico e antipo-litico, post-moderno ma anche spinto da pulsioni antiche che affon-dano in un sentimento diffuso dell’arcipelago della destra italiana. Undesiderio quasi inconscio, un bisogno sentito come necessario di incar-nare la funzione di comando in una persona: il leader.

La tematizzazione del potere di comando è stata inaugurata inmodo esemplare già da Machiavelli: alcune analisi sulla genealogia delpotere raccolte nel Principe sono ancora di grande utilità metodologicae consentono di delineare efficacemente il quadro antropologico in cuisi muovono i protagonisti della politica. L’evoluzione democratica dellastoria europea, la tematizzazione dei diritti naturali, e la progressiva con-quista dei diritti politici dei cittadini, determinano l’emergere di contrad-dizioni e antinomie intrinseche alla questione dell’esercizio del poteree le istanze di emancipazione e partecipazione del popoli alle decisionidella comunità: da un parte una concezione autonoma e anomica del po-tere in sé e dall’altra il contatto e la contaminazione con le questioni del-l’etica pubblica. Tra l’arte del comando e l’arte di governare in modogiusto si delinea storicamente una linea di demarcazione a partire dal-l’affermarsi del concetto di moderno Stato di diritto. Da quando l’usodel potere viene delimitato dal concetto di legalità non è più possibile

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fondare il concetto di potere fuori da un confronto con la questione cru-ciale della moralità. Questa difficile convivenza dell’amoralità delPrincipe con i doveri dell’etica, si delinea a partire da una nuova con-figurazione strumentale del nesso teleologico tra mezzi e fini nella tec-nica della politica. Nel cuore della civiltà europea si viene affermandoil principio etico per cui il fine non può più giustificare i mezzi: que-sto principio di ispirazione kantiana si trova a essere declinato in unachiave meno stringente e categorica nella prassi della decisione politicain nome della ragion di stato o di una Realpolitik improntata a una prag-matica deroga ai principi morali secondo cui il fine non può giustificarequalsiasi mezzo. Si viene a creare una sorta di doppia verità, un dop-pio binario etico, due piani paralleli dove ciò che vale per il semplicecittadino non sembra più essere vero per lo Stato. Con il progressivo af-fermarsi del moderno Stato di diritto il potere non può più prescindereda un confronto con i principi fondanti di un comportamento eticamentecorretto: questo implica anche una mediazione tra l’uso illimitato delpotere e la sua delimitazione di tipo etico che certamente ne riconfigurai contorni riducendone i margini di libertà e la rapidità dei tempi di rea-zione. Pensiamo al caso paradigmatico dei tempi di reazione per scate-nare una controffensiva nucleare nel periodo della guerra fredda, quandoponderare una scelta da parte del vertice politico avrebbe reso di fattoimpossibile attuare la reazione dati i margini temporali strettissimi: itempi della riflessione etica non potevano applicarsi a una strategia dirisposta militare fondata sulla reattività immediata. Si tratta di un casoestremo ma che segnala la frattura spesso intrinseca tra la necessità delladecisione politica la ponderazione sul senso etico della risposta. L’effi-cienza del comando e il controllo della legalità, la ragion di stato e lareazione della pubblica opinione, è con questo che il potere deve con-frontarsi quotidianamente. Scoprire qual è il tasso di decisionismo con-sentito in un contesto democratico e partecipato delle scelte rappresentaun difficile equilibrio per chi detiene il comando. Il leader contempo-raneo deve conciliare l’efficacia dei risultati con la capacità di visionee condivisione sintonizzandosi con lo spirito del tempo e contribuendoa far emergere valori e attese spesso ancora latenti della società. L’eticapubblica si fonda sulla certezza condivisa che alcuni valori sono intan-gibili, una sorta di moderna koinè un luogo etico dove condividere unagrammatica di relazioni intersoggettive fondate su un comune sentiremorale frutto delle sedimentazioni di costumi antichi e sapienzialicome le religioni positive, filtrati dall’esperienza valoriale della moder-nità: è di tutta evidenza la piena condivisibilità sia da parte dei credentisia dei laici di valori come quelli espressi dal decalogo biblico. Per que-

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sto vale ancora per il nostro Paese una massima come quella di Crocecirca l’impossibilità di non dirsi cristiani. Si tratta di una visione eticadel mondo che è in fondo condivisa nella civiltà occidentale.

Ulteriore complicazione è quella di riuscire ad armonizzare in ma-niera non egemonica i valori ereditati dalla tradizione cattolica con ilrispetto della dimensione della laicità: questa è una delle questioni piùcomplesse e irrisolte dell’identità e dell’autonomia della leadership diun nazione sin dalla sua origine intrisa in questa dicotomia di un po-tere statuale, eternamente condizionato dalla presenza più o meno con-dizionante del Vaticano. Ho appena concluso l’aggiornamento di unsaggio Italiani sotto la chiesa, che nella nuova edizione si spinge sinoal governo Berlusconi. Approfondendo la storia Repubblicana ho tro-vato la conferma che in Italia è davvero difficile, per non dire impos-sibile, governare senza il consenso delle gerarchie vaticane come è di-mostrato anche istituzionalmente dalla ricezione nell’art. 7 della Co-stituzione dei Patti Lateranensi. Dunque se vale la massima crociana,quasi unanimemente condivisa, del “non possiamo non dirci cristiani”,vale anche però la sua estensione certamente meno condivisa ma im-posta del “non possiamo non dirci cattolici”. Su questo si innesta ancheil tema complicato dello spazio possibile all’interno della cultura ita-liana dei valori e del modello etico e antropologico dell’etica prote-stante, del puritanesimo, delle sue possibili varianti calviniste. Quantoall’etica protestante credo che abbiamo perso il treno da secoli con lacontroriforma. E lo stiamo recuperando in maniera individuale per cuinon c’è un pensiero di etica protestante pubblica in Italia. Un caso nellaesemplare di etica laica al governo, di pragmatismo e riformismo, divisione e apertura alla modernità della nostra storia è certamente rap-presentato da Cavour. Colpisce il fatto di dover risalire indietro neltempo di un secolo e mezzo per trovare i valori migliori espressi dellacultura borghese come il rispetto dell’intelligenza, del merito, del la-voro, della dignità, della compostezza e della gratuità verso le istitu-zioni: tutto questo ci restituisce tutta la gravità di un inarrestabile de-grado valoriale prima ancora che politico in un Paese incapace di tro-vare una identità ancor prima che un leader. La questione dell’identitàdella nazione è intrinsecamente associato a quello della storia, dellabiografia, o meglio dell’autobiografia di una nazione. Di qui il temanon solo metodologico, anche ontologico e valoriale della storiografiadi un sistema culturale intriso da categorie storicistiche ed heghelianeo comunque di matrice idealista. Abbiamo dovuto aspettare quasimezzo secolo per ricostruire la storia del fascismo con un approccioemotivamente sereno ed epistemologicamente obiettivo. Non siamo

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ancora arrivati a riconfigurare in un quadro critico sufficientementesolido e argomentato la storia del Risorgimento italiano. Il potere ossiala forza, tende a perpetuare se stesso e la propria immagine attraversola distorsione della storia e la costruzione artificiale di una memoriacollettiva. Una riscrittura in tempo reale della storia a uso e consumodei vincitori. Una autocelebrazione dell’esistente rispetto al passato. Infondo non si è mai troppo lontani dalla distinzione tematizzata daNietzsche in storia monumentale, antiquaria e critica.

Il governo monoclasse dell’élite borghese dell’Ottocento era ine-vitabile in un mondo dominato dall’analfabetismo e in una culturapolitica ancora in una fase aurorale. Oggi temo che il problema del-l’analfabetismo politico non sia superato, ma assistiamo al propagarsidi un protervo analfabetismo di ritorno moltiplicato dall’azione deimedia. Siamo in democrazia, dove vale il principio “una testa, unvoto”, un principio che dobbiamo accettare, che eticamente è giustoma che fa a pugni con qualsiasi ipotesi di elitismo o di aristocrazia deicervelli o di etica dei migliori. Il valore del metodo democratico siconfronta non tanto con il potere dell’élite, ma con il rischio imma-nente di derive populistiche e plebiscitaria. La grande questione delledemocrazie contemporanee è dunque conciliare il sacrosanto princi-pio “una testa, un voto” con un governo dei migliori.

Il comando è un potente afrodisiaco che può rivelarsi anche un ve-leno letale quando si combina con la vanità: allora finisce per diven-tare più importante l’apparire che il governare. La rinuncia la potere èuna delle scelte più difficili che l’uomo al comando possa fare, si trattadi rinunciare al trionfo della propria persona perché il potere tende adivenire parte integrante e costitutiva dell’essenza dell’identità del lea-der. A proposito della rinuncia al potere: Garibaldi si ritirò a Caprera,ma lo fece perché di fatto lo misero nelle condizioni di doversi ritirare:Garibaldi avrebbe assunto volentieri il governo dell’Italia se il re glieloavesse concesso trattandosi di un rivoluzionario in camicia rossa anchese non marxista. Quella del potere è in fondo una malattia che non sipuò curare, è una forma di dipendenza, una malattia mortale che ter-mina o con la morte o con la rinuncia forzosa, quasi mai con una liberaautolimitazione. L’antica etica stoica che insegnava la virtù della ri-nuncia al potere non appena conseguita la missione affidata si rivelapurtroppo un modello scarsamente praticato nel mondo contempora-neo. Sono modelli di virtù che sarebbe un miracolo vedere ripetersinel nostro mondo estremamente più complesso rispetto al mondo clas-sico o ellenistico. Un uomo universale, un politico filosofo, un condot-tiero letterato, un leader insieme poeta e realista sembra oggi impossi-

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bile in un mondo che celebra non l’eccellenza universale della visionee dell’ideale, ma la capacità adattiva, il mimetismo, il trasformismotattico il realismo pragmatico, l’utilitarismo.

In un mondo dominato dalla complessità e dalla specializzazionetecnica, il leader deve saper delegare; una delle sue capacità di azioneconsiste nella capacità di scegliere gli uomini migliori per ogni ruolo,apparentemente rinunciando a parte del suo potere, però in realtà in-dirizzandolo verso la competenza settoriale e l’expertise dei collabo-ratori. Il problema, dal punto di vista soggettivo del leader, è che, sce-gliendo i migliori collaboratori, contribuisce a preparare i futuri an-tagonisti, il futuro Bruto che sostituirà Cesare, evidentemente inmaniera non violenta. Il delfino che si prepara alla successione è unconvitato di pietra pronto a pretendere il posto del leader. Usualmenteil migliore dei ministri diventa il primo antagonista, il motore delcomplotto contro il leader nel futuro prossimo. Il migliore ministro siprepara a diventare il peggiore avversario per chi vuole rimanere ag-grappato al potere. È questo il destino del potere. Uno scenario dateatro elisabettiano, un ritratto da complotto tardo rinascimentale:Shakespeare e Machiavelli. Nello stato assoluto si nasceva re e nonc’era da temere rispetto alla discendenza divina, un Richelieu potevaanche sottrarre tutto il potere effettivo e amministrare lo Stato perconto del re ma non avrebbe potuto togliere la corona al sovrano. Il recooptava i suoi collaboratori tra una cerchia di cortigiani e nobili giàappartenenti a una cerchia a lui vicina per status, mentre i governantidi oggi scelgono i propri collaboratori inseguendo un criterio non distatus ma di schieramento politico e di fedeltà di corrente: si tratta diun legame molto più labile, per cui l’alleato politico, anche l’uomo al-l’interno del suo stesso partito, può cambiare idea e ribaltare le pro-prie convinzioni sia per un cambiamento di opinioni sia per una stra-tegia di potere. La conformazione dei campi di forze del potere è nelmondo contemporaneo sempre più più instabile e mobile; da qui lagrande attenzione che il capo deve porre nell’evitare di essere sbalzatonon solo dagli avversari, ma anche dai suoi più stretti alleati e colla-boratori. È fondamentale per un leader avvalersi di uno staff di talentoe fiducia: l’eminenza grigia, il consigliere del leader, è colui che purpossedendo un grande talento non ambisce a scalzare, a sostituire ilcapo di cui rappresenta in molti casi una sorta di uomo ombra per illeader. Rappresenta un contraltare di obiettività e coscienza critica dicui il leader non può fare a meno. È quasi un super-io freudiano perinterposta persona.

Il potere, spesso, sopratutto nella fase terminale, quella del tra-

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monto, dello spegnersi di una stella attorno a cui gravita una galassia,diviene in sé il proprio stesso fine, e nel tempo si trasforma in un “buconero” che assorbe tutta l’energia cosmica. Il potere è auto-centrato,immanente e autoreferenziale e tendenzialmente omeostatico e auto-conservativo. Mussolini, per esempio, è il paradigma del leader senzaconsiglieri, perché, non fidandosi di nessuno, a un certo punto, comeaccade a quasi tutti i dittatori e a molti governanti, ha perso il sensodella realtà per l’assenza di una sincera coscienza critica al suo fianco.

Nel mondo anglosassone c’è una chiara evidenza su chi vince leelezioni e il ricambio è previsto nella prassi costituzionale senza fortiproblemi di legittimazione al ricambio, da noi invece il problemadella congiura di palazzo, del Gran consiglio dei defenestratori è unacaratteristica ricorrente nella storia. Ma anche il trasformismo da unaparte e il continuiamo oltre i ricambi apparenti di ciclo politico rap-presenta il moto di indifferenza e di rifiuto di una classe dirigente anar-coide e spesso incapace di stare al passo con lo spirito dei tempi e dellatrasformazione. Purtroppo da noi non è ancora passato il principio ap-parentemente logico e naturale che chi vince le elezioni governa, per-ché oltre al fatto che chi perde non si rassegna, c’è anche la compli-cazione delle lotte intestine, del fuoco amico, in fondo tutti gli ultimigoverni sono caduti più per fuoco amico che per una dialettica parla-mentare e un atto formale di sfiducia.

Berlusconi ha inoculato un virus nel sistema politico, quello delpersonaggio carismatico popolare e populista che deve non solo gover-nare ma anche piacere e sarà difficile nei prossimi governi liberarsi diquesto condizionamento della figura carismatica. Non a caso la sini-stra è perennemente alla ricerca di una figura carismatica che possacontrapporsi a Berlusconi. Berlusconi ha posto in stallo la sinistra conil suo semplice linguaggio politically incorrect, comportamenti cheevidentemente sono piaciuti a una massa di elettori, perché non c’èdubbio che quello che disgusta palati più raffinati alla fine finisce perpiacere alle grandi masse. Una violazione sistematica del politicallycorrectness al vertice politico è una contraddizione in termini: è unaviolazione dei doveri istituzionali e di stile di chi ha l’onere della fun-zione di governo, ma è il paradosso che fin qui si è rivelato vincentein questi anni per Silvio Berlusconi. Il politically correct è formal-mente ineccepibile ma spesso rappresenta un freno alla libertà del di-battito politico e culturale del Paese e impedisce di affrontare con fran-chezza la vera sostanza delle questioni in gioco. Berlusconi ha rove-sciato questo teorema e facendo della mancanza di forma un’armavincente dal punto di vista della relazione con i suoi sostenitori, senza

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però proseguire e andare al nocciolo dei problemi che vengono sem-plicemente riconfigurati in linguaggio di pulsioni semplificate e per-ciò apprezzate dalla cosiddetta pancia degli elettori. Linguaggi chesembrano impronunciabili per un vertice istituzionale di una nazionee che suscitano l’anatema della comunità internazionale sono stati lafirma di un modo del tutto nuovo di intendere la comunicazione poli-tica negli ultimi tre lustri della scena politica del Paese. Chi succederàa Berlusconi inevitabilmente dovrà essere una figura totalmente di-versa e incommensurabile con quella del Cavaliere allo scopo di evi-tarne il confronto. La successione di Giovanni Paolo II presentava glistessi problemi, chiunque fosse uscito Papa dal Conclave apertosi dopoil Papa polacco avrebbe dovuto reggere il confronto con un personag-gio dotato di carisma globale ed empatia fuori dall’ordinario. Papa Rat-zinger ha affrontato in modo giusto questo problema non ponendosi inalcun modo in competizione con il carisma e il modello di comunica-zione del suo predecessore di cui non ha rappresentato un simulacro,ma ponendosi l’obiettivo di badare alla sostanza rinunciando a piacereper forza e guidando con piglio di ferro la Chiesa nella direzione vo-luta, incurante della popolarità. C’è da augurarsi che la prossima classedirigente del nostro Paese sappia fare una scelta di profonda disconti-nuità senza alcuna velleità di imitare una figura e un esempio non ri-producibile come quello di Berlusconi: la biografia, lo stile comunica-tivo, il denaro di Berlusconi non sono ripetibili.

Al linguaggio e allo stile politico della Prima Repubblica, e dellacultura democristiana, tutto si può imputare se non l’autocontrollo e illinguaggio sorvegliato; in questo sta anche in parte il successo di Ber-lusconi, l’aver rotto gli schemi del linguaggio politico che lo precedeva.La Storia avrebbe anche certamente perdonato il Berlusconi gaffeur im-penitente se avesse veramente mantenuto la promessa circa la svolta ela rivoluzione liberale: questo è il vero nodo politico irrisolto e maimantenuto a partire dalla svolta degli anni Novanta. La mancata rivo-luzione liberale condanna Berlusconi, molto più che qualsiasi sentenzapossibile, a non essere ulteriormente credibile ben oltre qualsiasi trovataestemporanea o mediatica o colpo di coda della sua ormai leadershipdeclinante. Assistiamo a uno smascheramento finale dei tratti di una ri-voluzione liberale mancata. Il bluff è una tecnica che funziona solo apoker, a volte funziona anche in politica ma non per una durata di oltretre lustri. Negli Stati Uniti il tema dell’antitrust, della trasparenza per-sonale è fondamentale. L’alto tradimento è il massimo reato imputabilea un comandante, nel caso di Berlusconi si può parlare di un alto tradi-mento etico, l’etica trascurata, sbeffeggiata, ignorata, paradossalmente

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è proprio lei che in una suprema nemesi finisce per dare il colpo di gra-zia al Cavaliere. Il caso Clinton è esemplare da questo punto di vistaperché il presidente USA ha rischiato di cadere non tanto per i compor-tamenti tenuti nei confronti della stagista, ma per averli negati di fronteal popolo americano. Il tradimento della verità, non il tradimento di Hil-lary ha rischiato di essere fatale nella logica del sistema americano.

Dovendo elencare una sorta di tassonomia del leader inevitabil-mente si giunge a una sorta di giustapposizione di ossimori: il leaderautentico deve essere orgoglioso e modesto, prudente e audace: in ve-rità deve essere entrambe le cose, deve essere mobile scegliendo divolta in volta quale atteggiamento, quale passo adottare. Un capo devesempre guardare avanti oltre l’orizzonte dell’immediato, questa è ladistinzione fondamentale tra semplice uomo politico e uomo di Stato.L’uomo politico guarda al presente o al futuro immediato, non arrivacon lo sguardo oltre la data delle prossime elezioni, l’uomo di Statodeve saper guardare al bene del Paese e dei suoi governati nel lungo pe-riodo. Quando si fa riferimento a uomo di Stato si fa uso dell’aggettivogrande: l’uso linguistico rivela il fatto che non esiste un uomo di Statoche non sia grande. L’uomo di Stato è sempre grande. Un uomo diStato può essere anche negativo, come Mussolini che è stato un grandeuomo di Stato negativo che ha affossato il Paese in una guerra disa-strosa e ha trascinato l’Italia nella vergogna delle leggi razziali. C’è daaugurarsi che a guidare il nostro Paese nel futuro siano veri uomini diStato capaci di sostenere la dura onestà della verità piuttosto che la re-torica del falso ottimismo. Servono uomini con una visione realisticadel costo bene comune proiettato sul lungo periodo, capaci di accom-pagnare e sostenere il costo di un percorso di responsabilità allonta-nando miraggi e illusioni a buon mercato.

(Giordano Bruno Guerri, saggista, presidente Fondazione “Il Vittoriale degliItaliani”)

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Libero leader in libero Stato

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Persistenze oligarchiche

Vincenzo Ilotte

Le Nazioni occidentali hanno storicamente saputo generare cre-scita e distribuire ricchezza in modo costante fino a quando si sonolasciate ispirate da valori solidi e ancorati a una visione responsabiledi lungo periodo. Emblematica è la figura sociale del travet affidabilee concreto, vero e proprio baricentro sociale della classe media impie-gatizia non ancora contaminata dal consumismo compulsivo, dall’ar-rivismo senza scrupoli e dell’ostentazione, ma fondata piuttosto sullamorigeratezza e sobrietà dei consumi e dei costumi, autentici assi por-tanti valoriali di una cultura in via di estinzione. Un mondo, quellopiccolo borghese e del lavoro, in cui la disponibilità a grandi sacrificiconsentiva, nei tempi lunghi di una intera vita, di ottenere tangibilirisultati in termini di qualità della vita e ascesa sociale.

Questo modello di sviluppo sociale ininterrotto ha trovato un puntodi arresto con la crisi economica e la crisi dei valori del ’68, che ha se-gnato un decisivo punto di svolta. Sul finire degli anni Sessanta la crisidi un paradigma di crescita generalizzato non solo economico ma so-ciale e culturale è simbolizzato dall’entrata in crisi del sistema acca-demico. L’università dell’élite e della classe alto borghese dell’impresae delle professioni si trasforma in un luogo di massa. La classe diri-gente subisce una decisiva mutazione antropologica: i valori, i costumi,le idee, le parole chiave, i modelli di leadership si trasformano decli-nando il codice identitario di una generazione pronta ad assumere loscettro del comando in nome della nuova stagione del nuovo impera-tivo progressista. Si trasforma il modo di interpretare la leadershipsenza abbandonare la presenza di una classe dirigente con le propriegerarchie e i propri riti. A cambiare sono le parole d’ordine, gli oriz-zonti culturali, il modo di vivere e soprattutto di rappresentare il rap-porto con il potere. L’estetica del potere si trasforma senza mutare lapresenza di una struttura gerarchica. Con il ’68 si assiste a una auten-tica scalata al vertice di una intera nuova generazione di leader che an-dranno a esercitare una vera e propria egemonia culturale capace didettare la propria influenza sui valori dei decenni a seguire. Si diffonde

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nel nostro Paese una tendenza all’appiattimento collettivista che, seapparentemente intende ridurre le differenze di appartenenza sociale,in realtà, nel lungo periodo, finisce per allungare le effettive distanzesociali, generando una nuova casta di leader di origine progressistapoco disposti a condividere il potere ottenuto. In nome di un idealeugualitario si arriva a smantellare la centralità di valori come l’ambi-zione e la responsabilità personale, che avevano permesso ai più mo-tivati delle classi lavoratrici di crescere socialmente. Il mondo accade-mico da fucina di talenti si trasforma in un parcheggio, in una sala d’at-tesa, dove collocare generazioni alla ricerca di identità professionale ecollocazione aziendale. Ciò determina un terremoto valoriale a livellodi etica del lavoro, di etica pubblica e di morale individuale. Da inizialecritica del consumismo, la controcultura si trasforma, nel corso dei de-cenni successivi, nella più spietata macchina da guerra neocapitalistadi moltiplicazione dei consumi di massa. Si farà largo una mentalitàedonistica fondata sul culto del piacere dell’istante, che rimuove il va-lore della memoria, bollato come retrogrado passatismo, e diffonde unmodello fondato sullo spostamento dell’asse della responsabilità dallapersona alla società. La sociologia diventa protagonista in una culturache tende a deresponsabilizzare l’individuo in nome di una concezionesocio-centrica dell’etica. Questo cambio di paradigma culturale induceuna trasformazione epocale: da un equo bilanciamento tra doveri e di-ritti ci si ritrova in una sorta di “dittatura dei diritti”, una concezioneche travisando il dettato autentico della nostra Costituzione arriva aconsiderare il lavoro garantito come un diritto acquisito per sempre enon invece come una conquista.

Il passaggio ulteriore sono gli anni ’80, quando la generazione im-mediatamente successiva sfrutta il vuoto di valori lasciato e si rivela lapiù spregiudicata generazione individualista alla ricerca spasmodicadell’arricchimento finanziario immorale e speculativo. Alle soglie delnuovo millennio si pongono le basi giuridiche ed economiche per ildecollo della tecnostruttura globale di turbo-finanza sradicata dall’e-conomia reale: col diffondersi delle operazioni di finanza derivata siapre un orizzonte di chimere finanziarie fatto di virtualizzazione dellaricchezza e sovvertimento dei valori. Ci si avvale di una leva finanzia-ria del tutto sganciata dal rapporto con la produzione tangibile di mercie di servizi: si tratta di un gioco pericoloso di combinazioni matema-tico-finanziarie oltre i limiti della razionalità, un azzardo che alimentauna ricchezza apparentemente facile e iperbolica. I trader sono i ReMida e i guru influenti del nuovo millennio, modelli e punti di riferi-mento di una generazione immorale alla ricerca di guadagni rapidi e

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stratosferici. Un potere di una nuova classe dirigente internazionalefondata sulle connivenze tra potere politico e finanziario capace disfruttare tutto il potenziale di transazioni fondate sull’asimmetria infor-mativa e sulla deregulation selvaggia di un Far West finanziario senzasceriffi. Questo neoliberismo globale estremo non ha nulla a che ve-dere con un concetto sano di economia liberale, è del tutto incommen-surabile con i valori di quel travet che abbiamo indicato come simbolodi un mondo, forse più provinciale, ma certamente più morale.

Si è consentito di depredare la grande ricchezza diffusa nel tessutodelle piccole e medie aziende del nostro Paese, che svolgevano unruolo chiave, mantenendo un livello di ricchezza, di conoscenze e diknow-how manifatturiero di una Nazione con una tradizione ricono-sciuta e rispettata ovunque nel mondo. La ricchezza, fondata sul la-voro distribuita in una ampia classe media e lavoratrice, è stata negliultimi anni progressivamente ridistribuita verso l’alto creando unanuova ristretta classe di super ricchi internazionali che alimentano laspeculazione finanziaria con un potere apolide e anonimo. Una levafinanziaria del tutto sganciata da un rapporto equilibrato con la pro-duzione di beni reali, un gioco di combinazioni matematico finanzia-rie, un azzardo drogato da una ricchezza sempre più apparentementefacile e distante dal lavoro. Le aziende sono state depredate dei loroasset strategici da squali della finanza, che si sono arricchiti smantel-landole e indebolendole. Operazioni di speculazione finanziaria chedepauperano la struttura produttiva a danno del valore sociale del-l’impresa, facendo perdere occasioni di sviluppo e di crescita per l’in-tero sistema. Si è irresponsabilmente e dolosamente trasferito l’atti-vità produttiva verso i Paesi in via di sviluppo, scommettendo sul dif-ferenziale tra la lentezza dell’economia europea e la velocità dei Paesiemergenti. È fondamentale invece riportate la cultura del sistema ma-nifatturiero in un Paese ad alta tradizione e qualità come l’Italia, chedispone di uomini e cultura industriale in grado di competere sui mer-cati ad alto valore aggiunto e ideativo. Serve un bagno di realtà per ri-conquistare una sana relazione tra produzione e generazione di ric-chezza per ridare slancio a un fare concreto e ridurre le rendite paras-sitarie. Questo dipende da scelte di campo e richiede un profondoricambio generazionale della classe dirigente più vitale, generosa, ca-pace e responsabile, svincolata dalla tutela dello status quo. Governidi ogni colore si sono succeduti l’uno all’altro senza mai abbando-nare una logica populistica e di scambio di favori a fini elettorali. Laclasse politica è diventa sempre più autoreferenziale e non in grado diesprimere un rapporto di ascolto e di mediazione con le istanze della

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gente. “Mani pulite” ha rappresentato un evento giudiziario-media-tico che ha provocato un azzeramento della classe politica della PrimaRepubblica, ormai dominata dalla corruzione e incapace di esprimerequalsiasi direzione politica. Una trasformazione inattesa che ha dicolpo rinnovato l’intera geometria politica del sistema italiano. Ma cisiamo ritrovati al punto di partenza dopo nemmeno due decenni. Sipuò arrivare a regolamentare qualunque comportamento senza pur-troppo ottenere dei risultati. L’Italia è il paese con più norme delmondo e allo stesso tempo è venato da uno spirito anarchico di fondo.Non credo che dipenda dalle procedure o dalle norme, perciò è neces-sario un approccio meno formalista e più etico educativo e culturale.

E fondamentale è la questione educativa: scuole e famiglie non rie-scono a trasmettere un sistema di valori sintonizzati sulle questioni delpresente. Il mondo della formazione scolastica e universitaria mancadella capacità di educare, è più incline all’istruire in termini di cono-scenze piuttosto che di formare uno spirito etico. Serve una rinnovatacompetenza etica che il nostro sistema sociale non riesce a veicolare conefficacia. Questo riguarda le istituzioni scolastiche e il loro livello di for-mazione. Il sistema scolastico è centrale nel sistema valoriale che unagenerazione trasmette alla successiva: è il luogo deputato alla forma-zione delle menti, ma in parte ha rinunciato al proprio ruolo. Un’eticacivile, un nuovo modello di cittadinanza deve ripartire dall’istituzionescolastica. Non si tratta solo di nozionismo, ma di un modello di appren-dimento per costruire percorsi di crescita professionale e umana. Si trattadi conferire speranza e visioni costruttive alle giovani generazioni. Sideve partire prima di tutto dal corpo docenti, che deve riprendere cen-tralità e autocoscienza del proprio ruolo cruciale. Poi un’altra grossa re-sponsabilità spetta alle famiglie, che mostrano una tendenza ad acco-modarsi senza chiedere il meglio ai propri figli. Sovente gli adulti nonsono coerenti nella loro vita e quindi nel loro modo di trasmettere i va-lori e non possono quindi essere modelli esemplari. Se non si è credi-bili, si è obbligati a fare compromessi. Occorre riguadagnare leadershipe assertività come genitori, imparando a vivere al di fuori del ricatto deldire sempre di sì. All’opposto c’è anche una tendenza all’eccesso diaspettative sui figli, che genera anche grande frustrazione rispetto alleeffettive possibilità di realizzazione. In questa ambivalenza tra arrende-volezza e ansia di prestazione si determina in tutta la sua problemati-cità la questione dell’orientamento dei ragazzi e del loro accompagna-mento nelle scelte decisive. I ragazzi arrivano alla fine del loro percorsoformativo senza mai aver ancora incontrato una azienda o un laborato-rio di ricerca, sono del tutto ignari dei processi di lavoro e di innovazione.

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La leadership del Paese deve fare scelte di politica industriale bi-lanciata tra il manifatturiero, il terziario e la green economy, ricor-dando che sovente il terziario richiede la presenza di un articolato si-stema manifatturiero alle spalle. La green economy non deve essereintesa come alternativa alla presenza di un sistema manifatturiero, marappresenta piuttosto un paradigma diverso di integrare i processi delmanifatturiero. Una rivisitazione degli sprechi di energia, una redi-stribuzione del carico energetico. La green economy costituisce unaopportunità di miglioramento della qualità della vita e dei modelli diconsumo. Una ricerca del ben essere rispetto al consumismo esaspe-rato e nella ridondanza dello spreco.

Un leader in grado di governare la res publica deve avere consape-volezza del ruolo e delle responsabilità che si assume. Un leader devedotarsi di una visione di largo respiro, capace di resistere alla prova deltempo e deve comunicare riuscendo a coinvolgere e mobilitare verso unideale nobile e disinteressato. Un leader deve comunicare passione,conservando razionalità e realismo, deve essere armato di buona fedee non illudere i cittadini. Tutti subiamo oggi una sovraesposizione infor-mativa che determina un approccio sempre più pervasivo, ma superfi-ciale, in una generale mancanza di profondità e spessore: i leader po-litici per poter esistere, come sostiene McLuhan, devono mantenere uncontinuo canale di comunicazione, ma anche rendersi superficiali e se-guire una modalità di comunicazione effimera. Una tirannia dell’istanteche nel circo mediatico richiede di alzare i toni e abbassare il livellodella propria comunicazione, pur di essere presenti. Anche una pes-sima immagine è da preferire rispetto al non essere presenti dal puntodi vista mediatico. E questo è devastante perché determina una deca-denza della qualità della comunicazione politica. Alcuni politici si sonofatti strada proprio grazie alle loro provocazioni capaci di determinareun corto circuito mediatico che garantisce presenza e visibilità. Ciòrappresenta una deriva di scarsa etica della comunicazione, che si tra-duce in un pessimo segnale di decadenza dell’offerta nel mercato delleidee politiche. Un decadimento della qualità dei politici che non sonopiù in grado di esprimere una eleganza dello stile che dovrebbe esserealla base di una funzione pedagogica della politica.

Oggi siamo di fronte a una classe politica sempre più incapace diadempiere al proprio compito di guida e di indirizzo generale sullaNazione. Una classe politica palesemente incapace di sostenere unruolo guida e dunque incapace di esercitare le virtù della leadership.Il rimedio contro la crisi è stato affidare il governo a personalitàesterne super partes. Il fatto di una scelta di un governo tecnico rivela

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tutta la somma incapacità del sistema politico di sapere prendere de-cisioni al costo del rischio di non essere rieletti. Negli ultimi anni ilcollante di un Paese frantumato è stato Berlusconi in virtù della sal-datura di una alleanza tra interessi del Nord e del Sud. Uscito di scenail Cavaliere, tutto il quadro è in cerca di un nuovo equilibrio. Un fe-deralismo incompiuto ha sprecato una importante opportunità met-tendo il Paese in mano a un populismo senza direzione. Un federali-smo rigoroso, corretto e nobile è invece in grado di ripristinare una re-lazione diretta e immediata tra chi vota e chi amministra il territoriosotto il controllo ravvicinato degli elettori, gestendo servizi diretta-mente valutabili dai cittadini e impiegando risorse frutto di un sistematributario e pubblico direttamente al servizio dei territorio. Il federa-lismo può essere un modello in grado di permettere una maggiore re-sponsabilizzazione della classe politica e della spesa locale.

Il sistema elettorale attuale, unanimemente aborrito da tutti glischieramenti, è un vero disastro: siamo ostaggio di una oligarchia di 4o 5 segretari di partito o coordinatori nazionali che determinano le can-didature in liste bloccate e che sono gli autentici deus ex machina delleelezioni in un sistema che ha abolito le preferenze: ma siamo ancheostaggio di un sistema politico che non riesce a trovare una via di uscitada un legge tanto difficile da cambiare per via del calcolo di conve-nienza marginale di ogni partito. Viene così a mancare una relazionereale, una dialettica, un potere di controllo degli elettori su un sistemadiventato irresponsabile. Si deve assolutamente cambiare. A partire dauna educazione etica per le nuove generazioni. Dobbiamo formare unanuova generazione fondata su trasparenza, onestà, competenza, respon-sabilità. La passione è fondamentale, se non siamo in grado di creareuna generazione che sappia vivere pienamente la passione del fare nonavremo un futuro. La vita è talmente difficile e complicata che, se nonsi viene preparati ad affrontarla con la giusta energia e passione, si ri-schia di non farcela a rispondere alle sempre più numerose aspettative.Per questo è indispensabile combattere il morbo oscuro dell’abulia edella passività nei giovani. È indispensabile il ruolo di un leader ingrado di trasmettere la voglia di compiere un salto culturale aprendosialla conoscenza, alla curiosità, alla voglia di trasformare il mondo.Senza tale desiderio è impossibile dare un futuro al Paese. Il leadervero ha il compito di motivare alla vita, valorizzando e responsabiliz-zando le persone e creando obiettivi di lungo periodo su cui confron-tarsi dialetticamente in modo aperto e critico.

(Vincenzo Ilotte, amministratore delegato 2A)

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Edoardo Imperiale

La qualità della leadership pubblica del Paese è indissolubilmenteconnessa alla modalità della selezione della classe dirigente: è ormaitempo di cambiare, non ci si può più affidare al metodo della coopta-zione interna ai partiti. Troppo a lungo è prevalso esclusivamente il cri-terio discriminatorio dell’appartenenza e della fedeltà al vertice a tuttodiscapito della competenza e dell’indipendenza. Servono nuovi cervellicapaci di sufficiente autonomia e leadership conquistata sul campo.

In un passato nemmeno troppo lontano, sono state le strutture or-ganizzative e le scuole di partito a rappresentare le fucine della diri-genza del sistema politico: si trattava di un sistema relativamentechiuso e autoreferenziale, ma che ha comunque contribuito all’im-plementazione di politici mediamente colti e dotati di discreta capa-cità di visione e di autorevolezza. I vertici venivano raggiunti dopo unlungo apprendistato e una prova di fedeltà e dedizione in seno allecorrenti interne e alle federazioni giovanili dei partiti. Poi dopo ilcrollo della cosiddetta Prima Repubblica l’iter selettivo classico dellaclasse dirigente ha perso progressivamente importanza e, all’epilogodella stagione politica della Seconda Repubblica, si rivela sempre piùopaco e del tutto inadeguato rispetto alle esigenze di una società mo-derna e aperta.

I dirigenti politici in generale possiedono carisma e sufficiente as-sertività in grado di consacrarli nel ruolo da un punto di vista formale,ma purtroppo mostrano anche un carente livello di competenza tale dalimitare il valore sostanziale della qualità decisionale. Io non credo chenel XXI secolo si possa ancora diventare dei leader senza essere prov-visti di effettive conoscenze e competenze nel merito delle questioni.

Nel mondo contemporaneo la leadership deve garantire la gover-nance della complessità, deve essere in grado di gestire scenari mu-tevoli e multifattoriali. Non è più tempo di puro esercizio di potereverticistico e di imposizione gerarchica, il leader contemporaneo devesaper gestire capacità negoziale e potere di influenza focalizzandosicon precisione su obiettivi pragmatici. Il leader efficace ascolta, coor-

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dina, condivide, influenza senza alcuna imposizione autoritaria. Puòoffrire linee guida, può proporre una gerarchia di priorità, ma senzaimporre il contenuto operativo di una decisione. Il leader come caposolitario chiuso in una torre d’avorio, in una stanza dei bottoni isolata,costituisce un paradigma ormai inattuale e impensabile nella dimen-sione molteplice della leadership pubblica della complessità. Nellabiografia del leader si riscontra di frequente una predisposizione per-sonale: una personalità low profile certamente trova maggiori diffi-coltà a emergere.

Molto spesso la leadership comincia a manifestare i propri segnigià dalla giovinezza, a partire dalle prime esperienze di relazioni so-ciali: la tendenza al protagonismo e al comando nel gruppo tende a de-linearsi già nel periodo delle prima esperienze formative e si con-fronta dialetticamente con il contesto ambientale e valoriale in cui cisi trova immersi.

Il sistema politico americano vede come momento apicale la se-lezione della leadership attraverso lo strumento delle elezioni prima-rie: ciò rivela un carattere molto più fondato sulla professionalità tec-nica e sulla metodicità dell’apparato organizzativo piuttosto che sullevirtù messianiche del carisma personale della leadership.

Io non credo che la politica si possa fondare esclusivamente sul-l’imponderabilità dell’apparizione improvvisa del leader quasi perscelta fortuita del destino: Obama è un caso più unico che raro, in-sieme a JFK o Robert Kennedy, ma se confrontiamo questi esempicon la durata della dinastia dei Bush o di una coppia di autentici pro-fessionisti della politica come i coniugi Clinton, possiamo concludereche la leadership presidenziale degli USA, pur se selezionata attraversouna campagna elettorale fondata sui volti, le personalità e le storie in-dividuali dei candidati, ha comunque alle spalle un immenso lavoroburocratico e una straordinaria macchina organizzativa che ne ali-menta un processo più di tipo scientifico che aleatorio o provviden-ziale: il candidato viene infatti selezionato secondo un processo di bi-lanciamento di interessi piuttosto che secondo un’acclamazione ple-biscitaria. Le stesse primarie come metodo rappresentano una antitesidella leadership spontanea e carismatica e una prova evidente dell’im-portanza della dinamica strategica nella selezione del candidato uffi-ciale del partito: chi è leader nato non necessita delle primarie per af-fermare la propria preminenza naturale. Le primarie rappresentanoinvece una lotta tra apparati interni e una forma di burocratizzazionedella selezione fondata su calcoli strategici sofisticati in cui il lobby-smo esercita un ruolo spesso decisivo nel destino dei leader. La tradi-

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zione delle primarie, sino a pochi anni fa, era interpretata in Italia conuna certa aria di sufficienza, come un puro folklore yankee ma orasta assumendo un ruolo sempre più centrale nel segnare le sorti di unaparte consistente del sistema politico italiano. Si tratta di un livello diselezione relativamente recente per il nostro Paese che si fonda suequilibri interni poco lineari e logiche di coalizione ancora scarsa-mente trasparenti ma che ci si augura vedrà emergere col tempo unamodalità più comprensiva nei confronti dell’opinione pubblica.

La politica nel nostro Paese vive da decenni un processo di pro-gressiva disaffezione, rifiuto e disinteresse da parte dei cittadini conun livello sempre più elevato di astensione e rifiuto di partecipazione.Per questo la leadership pubblica richiede uno sforzo di propagazionecapillare per estendersi in territori di consenso apparentemente im-permeabili alle parole e all’ideologia dei partiti più tradizionali. Lamobilitazione del consenso passa sempre più attraverso l’impiego dicanali non tradizionali di comunicazione pervasiva verso la societàcivile. Decisiva si rivela la capacità di smontare il pregiudizio nega-tivo e l’ostilità preconcetta riguadagnando credibilità alla funzionepolitica. Una leadership vincente deve essere in grado di ridefinire loscenario di competizione politica modificando i valori in campo. Unaleadership autentica non si può fondare esclusivamente su slogan eparole d’ordine abusate e svuotate di senso.

L’attuale Primo Ministro italiano Mario Monti indubbiamente rap-presenta una grande personalità tecnica senza pretendere di essere unleader carismatico, ma in un momento di tale drammaticità può rap-presentare una risorsa preziosa in grado di avviare un percorso di ri-sanamento finanziario e di nuovo decollo dello sviluppo del Paese.Fondamentale, da questo punto di vista, è il ripartire da una imprescin-dibile operazione di verità fondata sul realismo dei dati e delle cifre,da elementi di oggettività dal punto di vista dell’analisi economica. Inun momento che vede una fetta importante dell’Italia del tutto fuoridal mondo del lavoro non si possono affrontare queste enormi que-stioni se non ci si confronta con i dati di realtà e con le dinamicheeconomiche di questa fase recessiva. È decisivo contribuire a rico-struire un modello di sostenibilità per la finanza pubblica. La malat-tia profonda dell’Italia, la mancanza di crescita dipendono da una di-namica di mancato sviluppo nelle aporie determinate dalla mancanzadi visione politica di sintesi. Mentre il politico pensa alla prossimascadenza elettorale, lo statista pensa alla nuova generazione. Mentreil dibattito pubblico si trova a vivere un drammatico impasse di deci-sioni e continua a litigare e dividersi sulla tutela delle pensioni delle

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fasce più anziane della popolazione, una fetta decisiva di giovani ètrattenuta nel limbo della disoccupazione. Servono soluzioni draco-niane di sviluppo: non si può fare una seria politica se non si ha il co-raggio di confrontarsi con l’aut-aut di queste scelte ineludibili a penadi tracollo del Paese.

Stiamo attraversando il pericoloso colpo di coda di una grandeonda di crisi globale che investe nel pieno la governance della UE,mettendo in discussione il progetto di una virtuale diarchia franco-te-desca nella leadership europea. Si assiste a una predominanza di temieconomico-finanziari nell’agenda europea al posto di una spinta neiprocessi di integrazione politica dell’Unione. Si soffre la mancanza diuna politica mediterranea a fronte di un asse europeo tutto spostatosulla dimensione centro continentale dell’Europa: l’UE tende così aessere vissuta più come vincolo che come vera opportunità. L’UnioneEuropea è sempre più incapace di dotarsi di una politica in grado nonsolo di reagire ma di anticipare, di prevenire le questioni strategiche.Troppo spesso la politica europea si mostra ambigua e fondata esclu-sivamente su convenienze e interessi di parte. La centralità e l’attivi-smo della BCE non dipendono solo dal legittimo ruolo di autonomia ri-conosciuto dai trattati ma anche da una sorta di necessaria surroga-zione da parte della Banca Centrale di fronte al cronico ritardo daparte delle istituzioni politiche dell’Unione. L’Inghilterra si chiamafuori da una responsabilità forte e da un investimento in una relazioneprivilegiata con il continente europeo, preferendo assumere un ruolodi ponte tra gli interessi di qua e di là dell’Atlantico assumendo ilruolo di ponte tra UE e USA. Da questo punto l’era di Tony Blair è stataun esempio brillante e illuminante di riformismo di sinistra pragma-tico e creativo che ha contribuito a dare una identità internazionaleprecisa al Regno Unito.

Il modello di comportamento e comunicazione politica del nostroPaese negli ultimi 10 anni è stato caratterizzato dalla politica fondatasostanzialmente sul modello “o con me, o contro di me”, il bipolarismoquindi come una sfida all’ultimo sangue. C’è stata una degenerazionedel sistema nel suo complesso e nella relazione tra governo e opposi-zione. Mi auguro il ritorno alla vera competenza, al senso civico dif-fuso, a una ridistribuzione delle responsabilità sulla base delle compe-tenze. La crisi del sistema politico non sembra ancora essere in gradodi fornire delle risposte convincenti e in grado di rimettere in funzioneil sistema politico in modo trasparente e costruttivo. L’attività politicanon può essere fatta di solo presenzialismo televisivo, di presenza aitalk show e alle interviste. Il contributo all’azione politica si fa nei luo-

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ghi propri della politica. Non basta rilasciare un’intervista su un gior-nale per aver dato un contributo all’agenda politica. È necessario inne-scare modernità nel linguaggio politico, sincronizzando le necessitàdelle nuove generazioni con le priorità del nostro tempo.

C’è poi chi cerca di replicare mutatis mutandis il modello del-l’uomo nuovo prestato dal mondo dell’impresa: si tratta di un formatche ritengo al momento superato dagli eventi e dalle condizioni poli-tiche inedite che si stanno presentando. Piuttosto, nel nostro Paese ènecessario interloquire in modo costruttivo e non servile con le lobbye i gruppi di pressione. A partire da una relazione privilegiata con unalobby si deve arrivare a promuovere interessi utili alla collettività nelsuo complesso. Il Paese ha estremo bisogno di scelte serie, di pro-grammi incentrati su autentiche priorità puntando su innovazione esviluppo. Bisogna valorizzare le innovazioni, la creatività, la ricercadi settori ad alto valore aggiunto. Serve il coraggio di scelte contro-corrente in grado di affrontare l’impopolarità a breve periodo: il con-senso non crea PIL e crescita.

In questo momento la politica non è scomparsa, è solo temporanea-mente sotto tutela da parte di un Governo tecnico che ha il compito dirianimare il Paese. I numeri sembrano oggi prendere il sopravventosulle scelte politiche e il redde rationem del debito sembra l’unica po-litica realisticamente praticabile. Oggi l’unico sviluppo possibile passaattraverso il criterio fondamentale del rispetto del rigore finanziario,senza il quale non è possibile alcuna politica espansiva. L’etica pub-blica mai come oggi si coniuga con la scelta del rigore finanziario, per-ché senza rigore non c’è sviluppo possibile e senza sviluppo non c’èfuturo. Questo è lo stretto ma possibile orizzonte etico per garantireun governo del futuro.

(Edoardo Imperiale, direttore generale Campania Innovazione - Agenzia Re-gionale per la Promozione della Ricerca e dell’Innovazione)

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Pianificare le nostre risorse

Giancarlo Innocenzi Botti

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Nei mutevoli scenari di un mondo globalizzato, caratterizzato dauna crescente competizione, da un’incredibile accelerazione tecnolo-gica e da concorrenti sempre più numerosi e agguerriti, l’Italia devedotarsi di un’ulteriore risorsa: quella di gestire le proprie ricchezze inun arco temporale di lungo periodo. Deve dotarsi, in altri termini, diuna autentica capacità di pianificazione.

L’Italia spesso manca di visione strategica. Rischiamo di non riu-scire a esprimere appieno il potenziale delle nostre principali risorseo addirittura di perderle, come nel caso del capitale umano rappre-sentato dalle giovani generazioni.

Occorre dunque, in primo luogo, pianificare un ricambio genera-zionale. Dopo la decimazione della classe politica da parte di “ManiPulite”, vi è stato l’avvento dirompente di una nuova classe che ci hacostretti a un nuovo inizio. Non è stato dunque un vero e proprio ri-cambio, quanto piuttosto un intervento traumatico, che ha apportatoun cambiamento della classe politica non pianificato.

Naturalmente nella prospettiva di colmare il deficit di ricambionon dobbiamo limitarci alla classe politica. Non è pensabile che il ri-cambio avvenga in un unico comparto. Occorrono riforme incisive eradicali per avviare una “staffetta” generazionale programmata e ca-pillare fra le classi dirigenti non solo in ambito politico, ma anche im-prenditoriale, educativo e così via. E l’università dovrà essere moltopiù vicina ai nuovi scenari scientifici, tecnologici e sociali.

Ci vuole una spinta basata su valori e su motivazioni, completa-mente diversa da quella che ci ha caratterizzato sino a oggi. Ci vo-gliono altre risorse cognitive. E come in ogni staffetta, sarà fondamen-tale il contributo sia di chi cede il testimone, sia di chi lo impugna.

Paradossalmente oggi possiamo prendere piena coscienza dellanecessità di questo cambiamento per via della crisi dei mercati. Il pro-pulsore può essere la crisi stessa. I Paesi che in passato venivano ge-neralmente definiti del “Terzo Mondo” oggi sono i più dinamici, i piùcapaci a reagire con uno sforzo comune. D’altronde, analogamente a

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quanto avviene in campo imprenditoriale, quando si avvia una nuovaattività si adottano strumenti più evoluti e si ottiene un vantaggio com-petitivo rispetto ai concorrenti già presenti sul mercato. La Cina inparticolare rappresenta un’opportunità ineludibile e coloro che hannopensato esclusivamente a erigere barriere per arginarla, hanno persoo sono destinati a perdere.

Grazie alla crisi possiamo dunque meditare sulla necessità del no-stro cambiamento. Perché siamo costretti a farlo. Nella crisi c’è unacogenza. Un esempio: la crisi ci ha spinto a pensare seriamente di in-serire nella Costituzione il pareggio di bilancio. Questo è già pianifi-cazione, almeno in nuce. È un atto che incoraggia la continuità nelleazioni dei governi che si succederanno.

Dobbiamo iniziare a pensare a questa crisi come a un’opportu-nità di cambiamento per tutti noi. Possiamo ripartire dalla crisi attualepensando al nostro futuro e attingendo al nostro passato, unico estraordinario. Penso in particolare ai due grandi “Rinascimenti” cheabbiamo avuto in Italia. Il primo è il Rinascimento di Leonardo, Mi-chelangelo e Machiavelli. Nella mia esperienza attuale ho riscontratonei Paesi emergenti una particolare ammirazione nei confronti dellacreatività, della capacità di adattamento e della fantasia degli italiani,che si esprimono anche nel modello della piccola e media impresaitaliana. Questo è il modello forse più importante e più esportabilenel mondo, perché racchiude le caratteristiche del Rinascimento ita-liano. Michelangelo, che a settant’anni, sdraiato su un traliccio di-pinge la Cappella Sistina, non ha eguali. La piccola e media impresadev’essere il valore aggiunto di un paese che cresce. È il segno dellamassima qualità in contrasto con la produzione uniformata e su largascala delle corporation.

L’altro Rinascimento cui penso è quello della Ricostruzione per-chè l’Italia è divenuta la settima-ottava potenza mondiale grazie allacapacità di ricostruire dalle macerie della guerra più distruttiva dellapropria storia. Il Paese oggi avrebbe bisogno di un’azione unitaria e alungo termine simile a quella del secondo dopoguerra, quando tutte legenerazioni erano impegnate in uno sforzo comune per ricostruire ilPaese. Vi era un tutt’uno inter-generazionale e se vogliamo post-ideo-logico, al di là da ogni stagione di contrasti fra Guelfi e Ghibellini.

Affinché l’Italia inizi a pianificare e a rinnovarsi, credo che baste-rebbe riconoscersi tutti in un valore non negoziabile: il bene del pro-prio Paese, della res publica. Se questo è chiaro, le distorsioni succes-sive sono sempre minori. Se il faro, se la stella polare è questa, a ca-scata si crea il bene di tutta la comunità e di tutti gli individui. È ciò

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che manca a noi italiani rispetto ad altre Nazioni: come gli Stati Uniti,dove il Paese si divide prima delle elezioni presidenziali, per riunirsisubito dopo. Per infondere questo valore fondante l’educazione civicadovrebbe assumere una dignità superiore.

Al tempo stesso, c’è un’esigenza di rivedere il modello di leader-ship nel nostro paese. Il modello che abbiamo sempre immaginato ecercato di concretizzare non è più al passo con i tempi. Certo, occorreil carisma, ci vuole una forte capacità ricettiva e di sintesi nei confrontidelle istanze e delle aspettative di tutti e di ciascuno. Ma oggi occorrequalcosa di più: la capacità di interpretare i processi di cambiamentocon più velocità degli altri e di decidere di conseguenza. Occorre averestrumenti cognitivi naturali e artificiali che prima non erano necessari.Occorre adottare i nuovi strumenti di comunicazione, come internet ei social network, con la loro capacità aggregativa molto più facile e ra-pida rispetto al passato. Sono strumenti di scambio privilegiati fra lacittadinanza e la rappresentanza politica. Dopo la rivoluzione di inter-net è il teleutente che fa la televisione. Non c’è più l’orologio che scan-disce i tuoi tempi. Non c’è più palinsesto, preceduto da analisi di mer-cato. E con l’ipertesto interattivo non c’è più un sapere codificato, uncanone. Non c’è più l’enciclopedia scritta dai luminari. Oggi l’enciclo-pedia è democratizzata e interattiva, è Wikipedia.

Qui sta la sfida della nuova leadership: nell’approccio a nuove ge-nerazioni molto più aperte e dialogiche di un tempo e in apparenzameno disposte a sottomettersi a un’auctoritas. Un tempo c’era la tele-visione pubblica, con uno, due, massimo tre canali. Oggi il mouse,Google e Youtube offrono ben altri “telecomandi”, assai più potenti eversatili. Ognuno è “libero” di recepire tutta la comunicazione che pre-ferisce, di mescolarla, interpretarla, decriptarla. Nel contesto mediaticodel web 2.0, dove le fonti di informazioni si moltiplicano di giorno ingiorno, di minuto in minuto – perché sono date dagli utenti stessi eperché sono globalizzate – pensare che una persona possa manipolarein maniera strategica l’utente comincia a diventare sempre più difficile.

Il leader dunque continuerà a servirsi della retorica – che nasceper fini nobili, per difendere i diritti nei confronti di eventuali abusilogici e pratici ma in un contesto radicalmente diverso.

Di una leadership forte, di un vertice ci sarà probabilmente biso-gno: perché non è detto che la cittadinanza attiva e i collettivi dellarete riescano a concretizzarsi in movimenti capaci di incidere a fondosulla società. I giovani tunisini, i rivoluzionari della Primavera Arabae gli Indignados spagnoli, riusciranno a tradurre le loro azioni sortesul web in organizzazioni strutturate e con forti poteri decisionali?

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Non possiamo ancora saperlo. Ma sono interrogativi-chiave per lanuova leadership.

La globalizzazione della comunicazione comporta un’enorme ac-celerazione dei processi stessi di cambiamento e vince chi meglio sainterpretare gli eventi in corso, cogliendone la direzione e i traguardi.Vince chi sa cogliere i processi fondamentali quando sono ancoranella loro fase iniziale.

Quali sono i maggiori processi sociali, economici, scientifico-tec-nologici oggi latenti e che verranno alla luce nei prossimi decenni?Che cosa vorrà e potrà essere l’Italia fra cinquant’anni? Un Paese in-dustriale? Di terziario? Un Paese la cui risorsa principale è l’insiemedelle risorse culturali, monumentali e archeologiche, ambientali e piùin generale turistiche? Gli Emirati Arabi Uniti, quarto paese produt-tore di petrolio al mondo, hanno immaginato che fra cinquant’anninon ci sarà più petrolio e hanno pianificato una intera città ecososte-nibile, Masdar, che include un istituto di ricerca destinato alle ener-gie sostenibili e sviluppato in cooperazione con il MIT di Boston.

L’Italia è un Paese strano: anche noi abbiamo una forma di petro-lio, ed è inesauribile. Si chiama turismo e ruota intorno a una Pleiadedove brillano siti archeologici e architettonici, cultura, arte, moda, ga-stronomia, tradizione, musica, sport, storia. E noi facciamo tutto fuor-ché pianificarne lo sfruttamento. Abbiamo perfino abolito un centrodirezionale strategico come il Ministero del Turismo. Questa strava-ganza diventa un autentico assurdo se confrontato con il luogo che at-trae oggi il maggior numero di turisti al mondo: un luogo apparente-mente improponibile, sferzato da uragani e tempeste subtropicali esoffocato da tassi di umidità enormi, che spesso innalzano l’indice dicalore fino a 43°C. Eppure qui, fra le afose paludi che circondano Or-lando, in Florida, nel 1963 un certo Walt Disney sognò di costruire unenorme parco di divertimenti ispirato al mondo dei suoi cartoons. Sel’idea iniziale poteva apparire folle, si dimostrò tutt’altro che folle ilprocesso di pianificazione a lungo termine che fu concretizzato. Cosariusciremmo a realizzare nel Bel Paese se solo ci fossero il coraggioe la lungimiranza di un Walt Disney?

(Giancarlo Innocenzi Botti, presidente Invitalia)

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Etimologie e fenomenologie della leadership

Simone Lenzi

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Come fecero gli Ebrei con le divinità fenice, come fecero i Cri-stiani con il panteon pagano, così, da sempre, ci siamo abituati a farei conti con il fatto che ogni cultura paghi la propria affermazione conil ritorno del represso delle altrui divinità spodestate in forma demo-niaca. Ma in quell’insieme sincrono di costellazioni culturali sovrana-zionali che va sotto il nome di globalizzazione, tuttavia, dobbiamovalutare con accortezza modalità inedite della dialettica fra il repressoe quelle parole cui si demanda la ricerca di senso, l’analisi delle qualipotrebbe svelare, di volta in volta, i modi particolari in cui lo spiritodel tempo si declina localizzandosi.

Non è certo una novità, né può in alcun modo stupire, che l’in-glese sia diventato la lingua d’elezione della sovrastruttura economicae amministrativa, al punto che, per venire al tema, Ivan Rizzi è statocostretto a ricorrervi, visto che tutte le possibili traduzioni italianedella parola Leadership, osserva giustamente, “nascondono un latoopaco”. Ma è appunto questo lato opaco che, a mio avviso e nella fat-tispecie, giustifica il ricorso all’inglese come lingua della tecnica po-litica, sociale e amministrativa, operando una curiosa inversione diruoli fra represso e codice, fra la sfera di quel che si può dire e quelche invece è meglio tacere.

Vocabolario alla mano, e volendo ripercorrere le tappe che hannoportato a questa mancata traduzione, la prima proposta che ci vienfatta per Leadership, è ‘comando’: avere la Leadership sarebbe dun-que sinonimo di ‘stare al comando’. Il comando però non persuade,ordina. Non ispira, intima. Ha una connotazione inevitabilmente mi-litaresca. Il comando implica necessariamente una catena, dove è pre-cisamente la catena di comando ciò che mal si addice alle struttureleggere, non verticistiche, spesso fatte di connessioni mobili e labili,che determinano il consenso nelle società avanzate.

La seconda proposta del vocabolario è ‘dirigenza’. E, ancora unavolta, ci troviamo davanti a un termine, questa volta di derivazioneaziendale, che rimanda a soggetti sociali fortemente strutturati. Se poi

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volessimo riferirci all’insieme di coloro che esercitano una Leader-ship, dovremmo necessariamente invocare la cosiddetta ‘classe diri-gente’. Ma peggio che mai: il lato opaco di questa traduzione, ciò cheinsomma va represso in inglese, è proprio il termine ‘classe’, ovverola sanzione apertis verbis di quella che con un termine assai di modaviene oggi chiamata ‘casta’, un insieme comunque non inclusivo, cuisi appartiene per nascita, o, a prezzo della libertà (e spesso della di-gnità), come clientes favoriti dal potente di turno.

Un’utopia democratica dovrebbe invece imporre come antidotoall’ineguaglianza e a garanzia del consenso sociale, un’estrema mo-bilità, la possibilità di farsi largo per i propri meriti. Questa possibi-lità è esattamente ciò di cui la società italiana è tradizionalmente piùmanchevole, e non deve destare stupore il fatto che questa insuffi-cienza si manifesti proprio a partire dal linguaggio.

Al contrario, la leadership sarebbe invece il formarsi, il darsi formadella capacità di indicare quella direzione verso la quale siamo già incammino: un processo dinamico che prevede un’affermazione elettiva,un riconoscimento di crismi che giustifica l’investitura. La ship (suf-fisso etimologicamente imparentato con shape) della Leader-ship èprecisamente questo: un essere tagliati per. Ognuno, insomma, qualun-que sia la sua nascita e la sua provenienza dovrebbe comunque appa-rire come un homo novus, uno (o una) che si è fatto tale da esercitareuna leadership in virtù di un riconoscimento e non di una rendita di po-sizione. Il crisma della leadership è strettamente legato all’indicare unpercorso di cambiamento nel quale altri vengono coinvolti. To Lead:andare avanti, ponendosi in testa. Un cammino, una ricerca.

Se guardiamo alla tradizione americana, per esempio, non pos-siamo non notare che quel pursuit of happiness, sancito dalla Dichia-razione di Indipendenza come diritto inviolabile dell’individuo, co-stituisce il fondamento stesso dell’ambition: la leadership trova cosìnel diritto al pursuit, al cammino di ricerca, un nutrimento e un limitefondazionale. Non altrimenti del resto sarebbe possibile spiegare lavalenza politica di una così curiosa intrusione del desiderio (il desi-derio di ricercare la felicità, ovvero di operare per l’affermazione diquesto stesso desiderio) a fondamento della Legge.

Il formarsi di una Leadership dovrebbe quindi articolare la dialet-tica fra desiderio di affermazione individuale e aspirazioni condivise, suun fondamento tale per cui il desiderio stesso di porsi in testa a un cam-mino non possa togliere a nessuno lo spazio possibile per farsi avanti.

Ma se questo è vero, l’impossibilità stessa di tradurre il termineleadership tradisce, io credo, uno spaesamento profondo della civiltà

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italiana di fronte all’attualità di un mondo complesso in cui questamobilità strutturale diventa indispensabile allo sviluppo.

L’inglese ci permette allora di nominare qualcosa che la nostracattiva coscienza non ci permette di dire in lingua madre, poiché suogni nostra parola pubblica, sociale e politica, pesa ancora una tradi-zione che, oscillando fra la legittimazione in virtù di un’interpreta-zione istituzionale autorizzata (e quindi sempre tendenzialmente au-toritaria) e la delegittimazione rivoluzionaria (e quindi sempre possi-bilmente violenta), non ci consente di distinguere fino in fondo fraautorità e autorevolezza, fra eleggere una guida e subire un duce.

Sta allora a noi accettare e valorizzare fino in fondo, e in vista ditempi migliori, questa intraducibilità. Sta a noi fare in modo che nonnasconda, sotto una nuova veste linguistica, pratiche vecchie o viziantichi. Perché c’è sempre in agguato la tentazione di tradire l’intra-ducibilità lasciando che il lato opaco del represso linguistico, con cuinon siamo riusciti a fare i conti, faccia della “leadership” un comodoeufemismo, dietro al quale ci troveremmo a percorrere strade già bat-tute che recano in luoghi abitati da demoni antichi dove sarebbe me-glio non tornare.

(Simone Lenzi, scrittore)

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L’arte di ascoltare, il dovere di deliberare

Massimo Maccaferri

Se parliamo della sfera imprenditoriale, o comunque legata al la-voro, credo che valga la casistica che spesso abbiamo ascoltato nei se-minari sulla leadership, con le definizioni più svariate, come la dot-trina anglosassone ci insegna: c’è il management aggressivo, c’è quellopiù mite; una vasta tipologia di casi che sono legati al carattere dellapersona e allo stile dell’organizzazione e all’ambiente di lavoro. In unapiccola azienda di tipo familiare o con una relazione molto diretta traimprenditore e dipendenti, la leadership è intesa come partecipazione,come affiancamento continuo, come stimolo secondo il modello del“buon padre di famiglia”. In una multinazionale o in un ministero ildirigente o gli alti funzionari hanno un atteggiamento molto più distac-cato e tecnico, poi subentra la personalità individuale che può esserepiù o meno propensa al dialogo o a un approccio di tipo gerarchico.

L’impresa familiare tipica del nostro tessuto imprenditoriale mostrauna grossa compartecipazione della famiglia nella impresa: questo di-venta spesso un grosso limite quando l’impresa cresce o quando si deveaffrontare il passaggio generazionale. In questo caso si viene a deli-neare un vero e proprio intreccio tra la famiglia dell’imprenditore el’impresa, un sistema di vasi comunicanti che determina una certa con-fusione nel processo di governance e nella catena di comando dell’or-ganizzazione con una commistione tra affari di famiglia e businessaziendale. La credibilità, sia nel caso dell’imprenditore di tipo paterna-listico, piuttosto che del manager estraneo alla proprietà, è in ogni casofondamentale e determinante per l’esercizio di una leadership efficace.Essere ascoltati, seguiti, riconosciuti come credibili è fondamentale perla leadership, a prescindere dal modello organizzativo e dalla strutturaadottata. I risultati dipendono dalla capacità di riuscire a mettere con-cretamente in pratica le idee. L’altro aspetto che credo sia fondamen-tale in una leadership è la capacità di ascolto che consente di attivareun circolo virtuoso nella relazione tra persone e organizzazioni. L’a-scolto deve essere selettivo, critico e continuo. Nella mia esperienzaho visto operare dirigenti e manager che facevano tutto all’infuori del-

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l’ascoltare quello che gli veniva detto e altri che istintivamente sonoportati a questo approccio. In assenza di queste caratteristiche è beneche il leader faccia un percorso di autocritica e di sviluppo.

È fondamentale l’imprinting, la formazione, l’esempio continuo,per sostenere un approccio trasparente all’interno dell’organizzazione,se poi vi è anche una codificazione, un codice deontologico, ciò puòaiutare, ma il fondamento deve essere quello di una prassi condivisa edeffettivamente messa in pratica da tutti i livelli dell’organizzazione. Èormai diventata una prassi comune, all’interno delle organizzazioni,quella di redigere un codice etico; la legge 231 impone una serie distrutture interne all’interno delle aziende per monitorare periodica-mente i rapporti con i terzi. Certamente l’imprinting del manager è ilpasso fondamentale senza il quale la sola predisposizione di una seriedi norme non è in grado di costituire un fattore decisivo. Un compor-tamento virtuoso fa crescere la reputazione dell’organizzazione: talecredibilità viene riconosciuta all’esterno dai terzi. La presenza di un co-mitato per l’attuazione interna della legge 231 permette di ricordare atutta l’azienda il dovere di essere sempre trasparenti verso l’esterno inun’ottica di responsabilità sociale: si tratta di un’occasione di rifles-sione e perfezionamento della qualità sociale dell’organizzazione.

Il momento delle decisione definitiva del leader, anche se a seguitodi un confronto collettivo con il consiglio di amministrazione, rappre-senta sempre un momento di solitudine del leader nell’esercizio dellapropria responsabilità personale. C’è sempre un aspetto di analisi ra-zionale dei fenomeni, dei mercati del business, un calcolo razionaledei vantaggi-svantaggi. Ci sono poi, specialmente in una organizza-zione altamente complessa e strutturata, una serie di filtri da parte delmanagement, perché si entra in campi che spesso richiedono un ap-proccio di tipo tecnico rispetto alle questioni da decidere. Un leader inun gruppo diversificato come il nostro esige una comprensione di te-matiche specifiche che richiedono il possesso di competenze avanzatee aggiornate sullo stato dell’arte della tecnologia. Il management èchiamato perciò a dare indicazioni e laddove ci sono delle scelte chevanno oltre la responsabilità del management operativo entriamo nellasfera legata alla capacità di intuizione e di sensibilità ai segnali debolida parte del leader. Molto frequentemente, trattandosi di un gruppo al-tamente diversificato, si pone per il leader una decisione relativa al-l’allocazione delle risorse, dovendo fare fronte a una limitata disponi-bilità di risorse rispetto alla priorità strategica degli investimenti: spettacioè al leader compiere decisioni critiche rispetto alla vita dell’azienda.Qui c’è un fattore ad alto tasso di tecnicità che richiede interpretazione

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analitiche necessariamente supportate dalla competenza del top ma-nagement. Poi ci sono le proposte circa singoli e specifici investimentie sviluppo di nuove aree di business, dove l’intuizione gioca un ruoloimportante, insieme ovviamente anche alla fortuna; certamente l’aleadell’investimento fa parte delle regole del gioco che un leader deve af-frontare ma anche qui la capacità di apertura e ascolto critico verso leproposte permette l’eventuale scoccare di una scintilla creativa cheporta verso l’intuizione giusta per una determinata decisione.

Quando ci si abitua al successo, le operazioni vanno bene, c’è il ri-schio di essere troppo sensibili all’adulazione, al narcisismo; credo cheper resistere alle lusinghe si richieda un esercizio spirituale che vadafatto dal singolo. Quando ci si rende conto che si sta perdendo il con-tatto con la realtà e con la necessaria umiltà si rischia di esagerare earrivare a un eccesso di autostima che rasenta la megalomania. Pur-troppo i leader possono facilmente cadere in questa trappola che puòdiventare un boomerang micidiale che spinge a fare scelte avventatecon troppa confidenza in se stessi: si rischia così di pagare cara que-sta esaltazione.

Il caso di Mario Monti mostra quanto sia importante la credibilitàe una stima personale e professionale come fattore decisivo per chideve assumere un ruolo apicale e operare per il bene del Paese. Altret-tanto fondamentale è, a mio parere, la capacità da parte degli uominidi governo di sapere ascoltare con apertura e onestà intellettuale. Oggicredo sia necessario riuscire a liberare risorse economiche e intellet-tuali per fare ripartire l’economia. Certamente abbiamo bisogno diriuscire a semplificare le procedure burocratiche, ma i temi veramentecruciali sono quelli del costo del lavoro, del costo dell’energia: i verimacigni da rimuovere per rimettere in moto il processo di competiti-vità delle nostre imprese rivitalizzando la dinamica di crescita delPaese. Non basta solo migliorare la qualità della Pubblica Ammini-strazione ma occorre lavorare su riforme strutturali, per questo serveun lavoro continuo e profondo, graduale ma significativo. Tutti capi-scono le difficoltà di andare a toccare posizioni di privilegio rispettoa determinate aziende piuttosto che certi interessi, è su questo che sideve lavorare.

Gli imprenditori sono di fronte a un periodo drammatico con chiu-sure e situazioni di crisi che non risparmiano nessun settore produt-tivo. Serve tutto l’ottimismo della volontà e la fiducia che necessaria-mente deve accompagnare il nostro lavoro. La stragrande maggio-ranza degli imprenditori si impegna moltissimo per continuare alavorare e resistere in attesa di una ripartenza dell’economia e ritor-

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nare a crescere negli investimenti e nei mercati.Monti ha mantenuto una logica ferrea sulla direzione da seguire.

Non credo che in una situazione in cui i mercati ci davano addosso contale intensità si sarebbe riusciti a interrompere il trend negativo dellospread se non con la competenza tecnica ma anche politica di MarioMonti che rappresenta al meglio l’espressione: l’uomo giusto al mo-mento giusto. Non credo che di fronte a tale potenza di fuoco dellaspeculazione internazionale una semplice iniziativa generica avrebbepotuto portare al risultato di scongiurare il default come il governo diMonti è riuscito a fare. Ora dobbiamo tutti fare un esame di coscienzarelativamente a come abbiamo gestito la spesa sociale in questi anni.Di questo siamo tutti responsabili come classe dirigente. Ora c’è unproblema di ricambio ai massimi vertici politici. C’è bisogno di rifor-mare la legge elettorale per consentire agli italiani di esprimere più de-mocraticamente le proprie preferenze, si tratta di una esigenza chetutti richiedono ma che il sistema politico sembra non ascoltare conla necessaria attenzione. La difficoltà a creare un tavolo per negoziareuna nuova legge elettorale dimostra come la politica segua sue logi-che interne rimanendo sorda alle istanze del popolo. Siamo di frontea un libro aperto dove tutto può cambiare, dove la congiuntura poli-tica può trasformarsi a una velocità inedita per il sistema politico. Ilgoverno tecnico deve prendere decisioni che un governo politico nonavrebbe potuto permettersi di fare. La politica si prepara al momentoin cui questo governo non avrà più i numeri in Parlamento e si dovràdavvero immaginare un nuovo scenario politico con nuove forze incampo. Il ricambio della classe dirigente non si può certo fare perquote giovani o quote rosa. La mia generazione deve trasformare ilrapporto con la comunicazione; la rete, il social network, ha unagrossa influenza rispetto al sistema politico. La possibilità di com-mentare, di esprimersi nell’anonimato della rete permette di concepireun nuovo modello possibile di leadership, plasmata sulla relazionecostante coi cittadini grazie ai social media e alle nuove piattaformedi comunicazione. Bisogna imparare a trovare una sintesi in un mondoin cui davvero tutti sono in grado di esprimere un’idea e veicolarlasul web. La leadership si fonda sulla presa di responsabilità, sulla ca-pacità di comprendere e interpretare al meglio il presente e sulla ca-pacità di suscitare di nuovo entusiasmo e voglia di stupirsi del nuovoche abbiamo di fronte.

(Massimo Maccaferri, presidente Eridania Sadam)

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Guida

Maurizio Maggiani

Se guida non è dominio, e il domino non è mai guida, ma, nellapiù florida delle evenienze, conduzione; se guida è invece cognizionee sentimento di un cammino che molti devono compiere, o è deside-rabile che compiano, simpaticamente, dove i passi si riverberino l’unonell’altro e risuonino unisoni, se è questo di cui sentiamo necessitàpolitica, culturale, umana semplicemente, allora guida è profezia.

È di ogni uomo, nella natura stessa dell’umano, il mandato pro-fetico. Che sia sentito come parte del disegno di creazione divina ocome coerente evolversi della storia universale, è dell’umano una va-stità, una grandezza che non si contiene nel primo, evidente, oriz-zonte disponibile, ma pretende altri orizzonti “di là da quello”. Pro-fezia è sguardo acutamente ulteriore, profezia è visione cristallina,profezia è castità dello sguardo. Casto sguardo, perché non può es-serci lucidità, limpidezza, lungimiranza là dove risiede la malizia.

A ogni umano spetta la sua parte di profezia, ma è dell’umanodecidere se assumersene la responsabilità o negarsi. Il portato dellosguardo lungo è fatica, è dolore, è debito di privilegio a cui può ap-parire di molte convenienze rinunciare. È affrancamento dalla ser-vitù di una confortante vista corta, è atto di libertà che domanda l’altocosto dell’incolmabile vertigine che la libertà porta con sé. La nega-zione della vastità dell’animo che sa contenere la vastità dellosguardo è l’atto di oppressione più crudo e vile che un uomo possainfliggere a un altro uomo, ed è il più frequente e consolidato mododello schiavismo.

Per questa ragione le avanguardie, coloro che guardano avanti,sono un fatto, una necessità della storia, una costanza del dispiegarsidegli eventi umani. Le guide, i lanternieri, le scolte, non sono i pre-destinati, gli eletti, gli unti, ma sono gli affrancati, i liberi che siimpongono la fatica del rendere feconda la libertà di sguardo con-quistata.

La guida è casta come colomba e prudente come serpente. Privadi malizia e colma, nella sua presenza nella storia degli uomini e dei

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loro cammini, della leggerezza del serpe; il serpe non lascia tracciadel suo passare, non infrange i fragili equilibri del mondo che attra-versa, non disturba il delicato tessuto del territorio dove risiede. Solosegni leggeri, segni indelebili. Quando, all’inizio dell’estate, cammi-nando nel mio paesaggio incrocio il cammino di un serpe, so che que-sto è l’avvenimento augurale che farà della stagione più intensa del-l’anno anche una stagione di fecondità. Ma questo è probabilmentesolo un resto delle antiche credenze in cui sono cresciuto.

Di certo, io non so immaginare nient’altro di ragionevole quandopenso alla natura di una leadership che sia orma di propizio cammino.

(Maurizio Maggiani, scrittore)

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Guida

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Educazione alla leadership

Maurizio Marinella

Il mio ruolo è quello di coordinare le tante persone che lavoranocon noi: funzioni e ruoli differente, esigenze diverse, molteplici carat-teri e personalità: questa è il compito più difficile, questa è la fun-zione di leadership. Di questi tempi si percepisce una forte instabilitàe insicurezza circa il futuro, il leader di fronte a questo ha il dovere dirassicurare e contribuire a rendere un gruppo di persone una squadracon una filosofia condivisa e convergente verso un obiettivo comune.

Una città perennemente sotto i riflettori come Napoli, in questomomento ha trasmesso a livello internazionale una immagine partico-larmente complicata, tutto questo incide profondamente sulla motiva-zione della popolazione generando un forte stress in chi vive e lavorain un contesto di per sé già così problematico e perennemente in lottacon una endemica disoccupazione.

La funzione della leadership pubblica in un momento di taledrammaticità consiste sia in una azione concreta a favore della crea-zione di opportunità di lavoro, ma anche in quella di provare in tuttii modi a gettare acqua su fuoco per cercare di tranquillizzare gli animipiù esasperati e contribuire a offrire speranza e fiducia nel futuro fa-cendo leva sulla grande capacità di rialzarsi, di riprendere la dignitàdi cittadini capaci di riconquistare spazi di vivibilità.

Siamo una azienda ormai storica, vicina a festeggiare il centena-rio, che, in controtendenza rispetto alla pessima congiuntura interna-zionale, riesce a continuare il nostro lavoro con grande soddisfazione:apparteniamo a quel purtroppo ristretto club di aziende che possonomostrare un segnale positivo in un momento cosi incerto e nebuloso.

Guidare una azienda che compete ogni giorno nel mondo è diffi-cile, farlo in Italia è ancora più complicato, ma farlo da Napoli di-venta ancora più problematico: siamo orgogliosi di aver dimostratoche si può vincere la sfida dell’internazionalizzazione di una aziendaa partire da un città con questa complessità logistiche, ambientali eistituzionali. Napoli rappresenta un moltiplicatore in positivo e in ne-gativo rispetto a tutto quello che si realizza: quando si fa qualcosa a

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Napoli, tutto avviene sotto gli occhi di tutti: il mondo ci guarda, per-ciò fare impresa a Napoli significa assumersi una responsabilità ulte-riore e più ampia di quello di meri imprenditori. Purtroppo Napolinon è più quella capitale culturale d’Europa come fu ai tempi in cuiParigi,Vienna e Napoli erano simboli di una dolcezza del vivere otto-centesco. Napoli oggi ha vitale necessità di risorgere nell’immagina-rio collettivo, ha un forte bisogno di presentarsi in un modo diverso di-mostrando al mondo la possibilità di un diverso modo di vivere Na-poli, con il lavoro, l’impegno, l’internazionalità.

La compostezza, la moralità, il piacere dell’eccellenza e di un ap-pagamento del fare al di là del solo guadagno sono le qualità di unvero leader. Guidare significa coordinare e rendere più fluido il rap-porto tra le competenze e i collaboratori, significa rendere possibileun clima relazionale ottimale tra le persone. Credo che esista unaforma di educazione alla leadership, io sin da bambino ho frequentatoe imparato a “respirare” l’atmosfera del lavoro della famiglia. Sonocresciuto in questi valori. Il ruolo del leader non credo che consistaesclusivamente nel gestire fatturati o bilanci, ma soprattutto nel tra-smettere valori, emozioni, passione, desideri e stile insieme con unariconoscibile identità italiana e a fortiori. La ragione del successo delnostro marchio in fondo parte da questi valori, da questo entusiasmodi uno stile del fare e del relazionarsi. Il vero leader deve guidare latrasformazione senza mai dimenticare il valore inestimabile del pas-sato, deve essere un traduttore dello stile del passato nella tendenzadella contemporaneità. Il leader perciò deve essere dotato di acutasensibilità e sintonia con le persone. In fondo il mondo è saturo diconcorrenti e di prodotti, per cui la ragione del nostro successo di-pende da questa cifra di differenza nella capacità di suscitare un tonoparticolare, una leadership imprenditoriale che dipende forse dal re-spiro di questa emozione, questo tocco di sensibilità e amabilità checonsiste nel non imporre, ma concedere libertà e trasmettere serenità.Una leadership tranquilla che allontana la nevrosi così tipica delmondo contemporaneo, che produce risultati non solo di fatturati, madi relazioni e di contatti umani. Questo è lo spirito di una identità edeccellenza, che ha consentito nei decenni di guadagnare la stima dileader, capi di Stato, Sovrani e personalità, pensiamo a JFK, Carlod’Inghilterra, Gorbaciov, Sarkozy, perché in fondo l’incontro con ileader e tra leader si fonda su una comunicazione che privilegia unmodello fondato sull’understatement. Provenendo da questa culturacredo che ciò di cui il nostro Paese abbia assolutamente bisogno siadi una preziosa saggezza di una leadership seria, vigile, presente, mite

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ma attenta e autorevole: questa è la vera ricetta per poterci davvero ri-prendere come comunità nazionale.

Adoro Napoli e l’Italia intera per lo straordinario patrimonio cul-turale e antropologico, paesaggistico ed estetico e di cultura del buonvivere. Sono a contatto con tantissimi stranieri entusiasti dell’Italia,purtroppo noi abbiamo in parte perduto parte della nostra grande tra-dizione naturale di accoglienza. Il turista viene sempre più spesso con-siderato, invece che come persona, come il bersaglio di un eccesso diaggressività commerciale. Bisogna ritornare a un modello più genuinodi accoglienza rivitalizzando e valorizzando le specificità regionali.La storia di Napoli è ricca di artigianalità e competenze in professio-nalità che si vanno perdendo: purtroppo i giovani disdegnano gli an-tichi mestieri e preferiscono lavorare in un anonimo call center che de-dicarsi a professioni tradizionali: questa globalizzazione e omologa-zione del lavoro disperde l’identità e la storia determinando ladissipazione di un universo di conoscenze e di opportunità per lo svi-luppo, causando anche un progressivo depauperamento della grandetradizione dell’artigianato italiano. Troppa omologazione anche com-merciale determina una perdita di identità dei luoghi e il dilatarsi delleperiferie in un indistinto oblio e anonimato che cosparge di grigio unmondo in passato pieno di colore. La leadership pubblica deve asso-lutamente tutelare la nostra identità produttiva e culturale non sven-dendo le nostre competenze tradizionali. C’è stata da parte della classedirigente, non solo politica, una colpevole omissione nel riconosci-mento delle tradizioni e della memoria: si è commesso un fatale er-rore nell’adottare un modello sviluppo che ha determinato la scom-parsa di queste professioni dense di storia: non si è fatto abbastanzaper tutelare queste competenze attribuendovi la necessaria dignitàpresso le giovani generazioni. Una classe dirigente oculata e attenta al-l’identità nazionale deve tutelare la diversità del lavoro, della specifi-cità regionale, un po’ come oggi si tutela la biodiversità che contribui-sce ad alimentare la vita del nostro pianeta. Si devono tutelare deter-minati mestieri come si tutelano le specie animali o le opere d’arte. Laclasse dirigente non ha creduto nelle opportunità di lavoro che l’arti-gianato di nicchia e di alta manifattura costituisce per il nostro Paeseche è la patria della manifattura di alta gamma: si è invece preferitoassecondare in modo conformista un modello di sviluppo miope econtroproducente per il Paese. Si possono creare posti di lavoro e at-trarre turismo diversificato fondato sulla valorizzazione delle diffe-renze territoriali con un approccio polverizzato sul territorio moltomeno aggressivo e sostenibile trasformando il flusso turistico da

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“mordi e fuggi” in fidelizzato. Una classe dirigente frammentata e campanilista troppo dedita a

battaglie intestine non aiuta il Paese a collaborare su progetti comunidi sviluppo. Ho aperto di recente un nuovo spazio a Londra, dove èpossibile avviare una nuova attività commerciale senza le lungagginiburocratiche e la serie di autorizzazioni ridondanti che sono necessa-ria in Italia. In Gran Bretagna bastano due giorni, mentre aprire unaattività in Italia è un processo lento che comporta spesso la rinunciaa progetti interessanti o la fuga all’estero.

L’Italia è ricca di capacità e genialità, di talenti per la ricerca chedevono abbandonare il Paese e che non riescono a realizzare entro iloro confini progetti che trovano immediato ascolto e finanziamentoall’estero. A Napoli ci sono laureati in fisica che si impegnano a farei pony express per sopravvivere: questo non ha senso, è una pura dis-sipazione di energie. I giovani sono sfiduciati: dal momento del con-seguimento del titolo di studio comincia un lungo periodo di ricercadel lavoro. La classe dirigente deve prestare attenzione e ascolto aquesti ragazzi pieni di energia e conoscenza. Il dovere di una classedirigente è quello di dare risposte a questi giovani e dare prospettivedi crescita professionale, non aumentare ogni anno l’età pensionabileperché questo significa rendere ancora più difficile l’ingresso nelmondo del lavoro per questi giovani. La leadership pubblica devesaper creare opportunità di sviluppo senza perdere il contatto con l’i-dentità di una comunità e di un territorio.

(Maurizio Marinella, presidente Marinella Napoli)

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Biopolitica, tra potere e sopravvivenza

Valentino Mercati

Essere curiosi, ma riuscire a ricomporre parti del tutto con sin-tesi nuova è una capacità, che insieme alle inquietudini e passionidella leadership, caratterizzano le funzioni e il carisma di chi è statoprescelto nella funzione di guida. Il leader vive una condizione diadattamento continuo, di variazione in funzione del contesto ambien-tale: il leader deve possedere una dote innata per replicare in una or-ganizzazione sociale, un’azienda, un’associazione, una nazione,quella intelligenza naturale di trasformare un organismo sociale inbase a una selezione di varianti adattive.

Se la qualità dell’uomo deve fondarsi sull’essere piuttosto chesull’avere, nel caso del leader a ciò si deve aggiungere anche il mo-strare, perché chi dirige non solo deve “essere”, ma deve “essereesempio”. Personalmente devo dire che la mia esperienza di autodi-datta della leadership mi ha portato ad assegnare una grande impor-tanza alla virtù della sintesi e dell’istinto, ma anche alla capacità diimporre svolte decisive alla propria vita. Mappare il mondo attraversoalcune coordinate e intuizioni personali per poi agire con decisione èl’impulso naturale della leadership. Il leader vero non vive per accu-mulare ma per diffondere idee, non per trattenere averi, ma per of-frire orizzonti nuovi. Senza capacità di visione e di esempio la leader-ship perde il proprio ruolo e la sua ragione d’essere.

Noi, classe dirigente nata a ridosso dell’ultima grande guerra, ab-biamo la grande responsabilità di non aver voluto capire quale testi-mone stavamo e stiamo lasciando ai nostri nipoti e discendenti anchepiù lontani. La mia generazione non avendo una visione di lungo ter-mine da comunicare, ha perso il fondamento della propria leadership.Come facciamo a insegnare qualcosa alle nuove generazioni? I gio-vani devono ripartire da soli, forse operando una rivoluzione e sosti-tuendo integralmente il pensiero della generazione che l’ha prece-duta. Io metto in dubbio che ci possa essere una transizione graduale,un passaggio di consegne tra le generazioni, in questo momento vedopiù un bisogno di radicale discontinuità: dalle ceneri forse si può ri-

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partire. Forse la nuova leadership potrà trovare strade alternative al-l’incremento continuo dei fattori produttivi e del consumo come de-stino del mondo globale.

La dialettica della Storia ci porta dunque a cercare una sintesi trala tesi della crescita illimitata e l’antitesi della sostenibilità: questasintesi, questa risposta deve essere trovata dalle prossime generazioni.Personalmente mi trovo spesso a interrogarmi se siamo di fronte alfiorire di un nuovo Rinascimento, o all’inizio di un nuovo Medioevo.Le forze planetarie del potere economico, di quello finanziario, ecome loro espressione di quello politico, con un area grigia comequella dell’informazione e della cultura, oggi dominanti nel ricercareil profitto e solo quello, a breve, brevissimo tempo, possono esserecontrastate solo da movimenti dal basso, attivati attraverso internet.

La sollevazione nel Maghreb ha avuto come punto di origine lafrustrazione per la crescita dei prezzi alimentari dovuta al fenomenodella perdita di terreni agricoli causata da un’assurda e inaccettabileoltre che suicida speculazione sui suoli che ha generato un impoveri-mento delle popolazioni e alimentato le rivolte delle popolazioni delNord Africa che poi hanno dato vita a un effetto a catena di rivendi-cazione non più esclusivamente economiche ma più in generale di li-bertà politica. Questa ribellione, del tutto inattesa, ha visto nei giovanii protagonisti assoluti di una rivoluzione democratica in un’area se-gnata dalla presenza di più o meno velate dittature o comunque formedi governo autocratiche.

Credo che questo non sia che l’inizio di una presa di coscienzapiù generale degli errori perpetrati dai modelli di sviluppo mondaledegli ultimi anni. Mi auguro una ulteriore sollevazione, questa voltainterna al mondo occidentale, per denunciare il vero e proprio avve-lenamento sistematico che si sta perpetrando ai danni del genereumano e del vivente. Come tutti i veri processi di trasformazione al-l’inizio sono tutti movimenti sottotraccia che però come nel NordAfrica prima o poi dovranno emergere ed esplodere anche nel mondooccidentale: è inevitabile, la questione è troppo importante, è vitaleper la nostra sopravvivenza.

Gli Indignados in Spagna, Occupy Wall Street in America: la pro-testa dei giovani sta assumendo un carattere culturale, profondo, unadiversità irriducibile che investe non i dettagli ma i fondamenti delmondo occidentale. Si tratta di istanze che riguardano il modello di or-ganizzare e mobilitare la rappresentanza politica: si tratta di modifi-care il modello della partecipazione politica e la democrazia. I giovanisono i soggetti più inascoltati dai leader del mondo che si compor-

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tano come l’Ancien Regime nella Reggia di Versailles: i nuovi Robe-spierre si stanno organizzando e presto attaccheranno la nuova Basti-glia. Siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione francese: credo chela vecchia élite politica ed economica, che in questi anni ha perso latesta metaforicamente, governando in modo dissennato, sarà costretta,altrettanto metaforicamente, a essere decapitata.

Questo è a mio avviso lo scenario a venire: i leader occidentalinon offrono più idee, non dispongono più di visione sul futuro: serveuna nuova classe dirigente in grado di vedere il nuovo. Dopo aver di-vorato il nostro globo distruggendo il meccanismo vitale del ciclo diriproducibilità biologica delle risorse della terra, l’uomo assumerà ilvolto del dantesco conte Ugolino che arrivava a mangiare i proprifigli. La dittatura del PIL ha determinato questa ossessione per unacrescita quantitativa di cose e non qualitativa per l’essere dell’uomo.La velocità e pervasività con cui si diffondono i cambiamenti è straor-dinaria in virtù della interdipendenza sistemica di tali questioni. Nonc’è nessuno che sappia indicare come sarà possibile per l’uomo coa-bitare con il pianeta. Quanto tempo abbiamo ancora a disposizioneper invertire questa tendenza? I tempi di questa rivoluzione non sonoprevedibili sulla scala temporale. Un big bang dell’ecosistema comeuna catastrofe generata da un cambiamento climatico globale, piutto-sto che una pandemia come effetto di una mutazione genetica sonoipotesi che assumono una sempre maggiore probabilità statistica. Nonci sono leggi di compensazione che possano attutire l’impatto della ci-viltà industriale, che ha conquistato ormai ogni angolo del mondo.

È difficile fare un discorso di verità su quello che sta succedendonel mondo a livello globale. C’è una rimozione del problema perchésiamo immersi in un fiume di conformismo che ci impedisce di uscireda logiche autodistruttive e irresponsabili. Chi enuncia verità scomodenon viene creduto, o meglio viene isolato o deriso, o relegato al ruolodi Cassandra di guastafeste al banchetto della grande abbuffata delcapitalismo. I mercati sembrano follemente andare alla ricerca di iper-produzione: se il comunismo con la sua pianificazione centralizzatanon era comunque riuscito a bloccare il mito rivoluzionario dell’equi-librio produttivo, come può farlo una ideologia senza più antagonisticome quella del neoliberismo turbo-capitalista globalizzato? La classedirigente reagisce con fastidio alla richiesta di risposte su questi temievocando un riequilibrio automatico del sistema sulla base di una in-terpretazione semplicistica del concetto di autoregolazione del capita-lismo. Purtroppo abbiamo ben sperimentato come il capitalismo nonabbia una visione del limite ma arrivi a selezionarsi solo attraverso la

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propria autodistruzione. I governi occidentali assediati da una crisiepocale e di sistema, si ostinano nel refrain della necessità assoluta difar ripartire la crescita. Non ci salveremo con la crescita, semmai ciaffogheremo: è il paradigma in sé della crescita a dover subire una ri-voluzione copernicana.

I Paesi in via di sviluppo, i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India,Cina, Sudafrica) sono pronti a far decollare i consumi di energie e arendere il mondo ancora più affamato di energia e pronto a entrare inguerra per accaparrarsi le risorse. Stiamo saturando la superficie delnostro Paese con le auto eppure continuiamo a vendere auto; ci tro-viamo di fronte a una cementificazione inarrestabile che sottrae allecoltivazioni il suolo del Paese. La leadership politica deve essere ingrado di dire di no alle grande lobby. Alcuni decenni fa, le multina-zionali del settore chimico ci avevano promesso che attraverso l’usodi pesticidi e fertilizzanti chimici si sarebbe risolto il problema dellafame nel mondo. Oggi abbiamo le falde acquifere sature di nitrati esostanze tossiche che sono una delle prime cause di malattie epidemi-che quali quelle metaboliche e oncologiche. Le stesse multinazionalisi stanno oggi riciclando nel settore degli OGM che, se non verrannobloccati, saranno una delle prime cause per una mutazione veloce ecruenta della nostra specie.

Confesso il mio sbandamento. Ho 72 anni e devo dire che i mieidubbi oggi sono più forti. L’ambizione della politica è migliorare laqualità della vita per il massimo numero di persone creando condi-zioni di benessere durevole nel tempo. Dunque la politica non puòperdere di vista quello che è il tema biopolitico per eccellenza: la so-pravvivenza dell’umanità. La politica deve aver cura del primo deiproblemi globali: assicurare la continuazione della specie al genereumano. Oggi anche la sopravvivenza della specie sembra sia scom-parsa dagli istinti ereditati geneticamente e dal buon senso comune.

I leader del nuovo sistema geopolitico multipolare sono indiffe-renti ai cambiamenti epigenetici in atto. Come facciamo a evitare tuttoquesto: non esistono isole felici esenti dal pericolo, siamo tutti coin-volti, non c’è salvezza in caso di grave pandemia. Come classe diri-gente abbiamo il dovere morale di evocare questo rischio e il doverepolitico di porvi rimedio. C’è una percepibile angoscia compressa chenon può essere liberata verso un’azione costruttiva. L’uomo vive pro-gettando e proiettandosi nello spazio tempo: senza progettualità nonci può essere umanità. Senza una leadership con una idea di futuronon c’è destino possibile per la specie Homo sapiens sapiens.

In questo momento si sta evocando il governo tecnico come un

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modello di direzioni al di là della volontà politica. Ma davvero esisteuna tecnica pura, priva di un apparato ideologico sottostante? Se siassegna un tema di ricerca, lo svolgimento può essere tecnico, ma iltema è frutto di una scelta e dunque fondata su una volontà, di una de-cisione, di una presa di posizione, di una scala di priorità, di una ge-rarchia di valori su cosa sia necessario o meno, su cosa sia giusto ri-cercare o meno: dunque la neutralità e l’imparzialità della scienza èun mito più che un dato obiettivo. Così come la ricerca non è mai neu-trale, anche la tecnica non è mai neutra svincolata da un apparato diidee politiche, così altrettanto il Governo dei tecnici come formula èa mio avviso, una pura forma nominalistica, in realtà si tratta di un go-verno a tutti gli effetti.

Oggi, per guidare le aziende, secondo me occorrono filosofi, lea-der che siano in grado di pensare: negli ultimi due secoli di riduzioni-smo scientifico dopo gli straordinari secoli dell’Umanesimo e del Ri-nascimento, siamo arrivati nel pieno di una supremazia della tecnica edella scienza con un orizzonte autoreferenziale che ha perso la visionedel tutto nel tempo. Ogni nostro atto può modificare il mondo, ogni no-stro spostare qualcosa è un intervento sul mondo: chi ha il potere nonpuò essere svincolato da questa responsabilità e dall’etica. Come uo-mini abbiamo una costituzione originaria dualistica, in parte animale,ma respingiamo questa realtà con fastidio, mentre ci sentiamo, se nondivini, certamente padroni del creato e del nostro futuro.

Il leader deve conservare un rapporto armonico con questa doppianatura umana, deve ispirare l’avventura della conoscenza senza oltre-passare i limiti dettati dall’appartenere piuttosto che del sovrastare, inun creato di cui non conosciamo ne la genesi ne le finalità. L’equilibriodella nostra natura animale con il resto del creato è stato definitiva-mente perduto nel corso del XX secolo e non credo possa essere recu-perato. Solo una grande e stupida presunzione può fare supporre cheil potere odierno dell’uomo sulla terra sia illimitato. Non può essere ilconsumismo a farci ritrovare il senso della vita, ma piuttosto, perquanto ci è dato, la ricerca del bello, di comunicare amore, di trovaresempre la propria dimensione; relativizzando il presente con il passatoe con le sue dimensioni temporali, prima ancora di creare il futuro.

(Valentino Mercati, presidente Aboca)

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Determinazione morale, onestà intellettuale

Paola Michelacci

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C’è una relazione diretta e innegabile tra la crisi pervasiva che ci at-tanaglia come nazione e come modello occidentale e la questione mo-rale, al punto che credo che solo una rivoluzione etica ci possa davverosalvare. A questo proposito vale ricordare la rigorosa, ma altrettantochiara e distinta figura di un maestro di cultura economica e allo stessotempo di uno statista come Einaudi, secondo cui: “Dalla crisi non si escese non allontanandosi dal vizio e praticando al virtù”. Questa deve es-sere la stella polare in grado di orientare la nuova giovane leadership po-litica, che deve essere posta nelle condizioni di assumere la responsa-bilità di un compito di cui oggi più che mai il nostro Paese ha bisogno:quello di rinnovare con spirito di servizio l’impegno assunto, portandoun contributo incisivo e determinante al cambiamento. Solo con unasvolta radicale ma ferma sui valori il mondo della politica, dell’econo-mia e del lavoro potrà contribuire a rimettere in moto una nuova dina-mica di progresso sociale, economico e culturale. Per molti aspettiquella che viviamo è una fase di cambiamento epocale, per questo è dif-ficile, anzi impossibile, rivolgere lo sguardo verso nazioni o popoli daprendere a esempio e se possibile emulare. Le difficoltà che stiamo at-traversando non sono un appannaggio esclusivo della nostra economia,ma investono il mondo intero. Ciò non attenua la gravità della situazioneche ci colpisce, né può consolarci, anzi ciò è un vero e proprio deterrente,in quanto è a sua volta fonte di preoccupazione ulteriore perché non ap-paiono all’orizzonte isole felici non lambite dallo tsunami di una crisiche si abbatte sul mondo con tutta la sua imprevedibilità e devastazione.

Ritengo che le fondamenta etiche da cui ripartire siano i princìpimorali, non dico cristiani, ma umanistici e personalistici di stampo uni-versalistico e kantiano, che vedono nel rispetto del valore dell’uomo unafinalità assoluta e non negoziabile, priva di qualsiasi strumentalizza-zione di matrice utilitaristica. La leadership, indipendentemente dallapropria connotazione ideologica, dovrà perciò assumere questi princìpicome una sorta di comune denominatore etico, in grado di ispirareazioni virtuose verso tutta la comunità. Perché un leader sia credibile

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deve mostrare di possedere allo stesse tempo rigore e solidarietà. Que-ste sono le competenze necessarie di un leader credibile per rilanciarel’Italia. Il nostro Paese oggi è di fronte a un passaggio epocale dovendosuperare uno snodo cruciale: una prova molto difficile, sempre più com-plicata e in un quadro internazionale che non contribuisce alla soluzionema che piuttosto ne aggrava condizioni e tempi di riuscita. Si rende per-ciò indispensabile e urgente non affrontare separatamente ma cercaredi coniugare insieme i due obiettivi complementari e solo apparente-mente incompatibili, il risanamento del debito sovrano e la crescita delPaese. Perciò non si può procrastinare nemmeno una delle due que-stioni, ma si deve compiere uno sforzo sovrano di leadership etico-po-litica, morale e tecnica, per tentare di avviare un processo di riforme ur-genti e contestuali.

La via della soluzione può avere solo una origine etico-morale e cul-turale a partire da una metamorfosi antropologica nella figura chiavedel leader. Se l’etica è il rispetto dell’uomo e della sua dignità. Se l’e-tica è la responsabilità di offrire a ognuno un lavoro dignitoso. Se l’e-tica è comprendere il ruolo che la leadership deve assumere con sensodi responsabilità e senza personalismi ed eccessivi protagonismi. Se l’e-tica significa porsi in uno spirito di servizio mantenendo equilibrio esobrietà. Allora possiamo assumere questi princìpi ispiratori di un mo-dello di leadership a veri e propri paradigmi in grado di caratterizzarele istituzioni di una democrazia compiuta e matura. Credo che questasia l’etica che possa ispirare la qualità della nostra futura leadership, cheha di fronte un orizzonte di scelte impopolari e drastiche per ricomin-ciare a dare un futuro sostenibile e credibile al nostro Paese.

In un anniversario così evocativo come il 150° anno dell’Unità d’I-talia, nei discorsi ufficiali si è fatto ricorso alla nostra lunga storia e al-l’immensa eredità culturale. Abbiamo il dovere testimoniale e moraledi riuscire a essere all’altezza della nostra Storia e del suo immensoruolo culturale all’interno della civiltà europea e occidentale. Credo chela nuova dimensione della leadership dipenda dalla capacità di assumerequesta responsabilità senza essere schiacciati dal peso dell’eredità, eprovare a ripartire da questa Storia, supportati dal nostro grande capi-tale umano e dal nostro dinamismo imprenditoriale, e riuscire a ritro-vare un modello di condivisione senza più dicotomie tra professioni-sti e tecnici del potere, ma ciascuno con la propria unica personalità,in grado di alimentare la volontà di essere protagonista e artefice attivodi un processo di trasformazione vitale del nostro Paese dopo decennidi immobilismo sociale e morale.

Ritengo giuste e perfettamente appropriate le parole che il Presi-

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dente Napolitano ha espresso rivolgendosi al Governatore della Bancad’Italia: “Gli Italiani possono salvare l’Italia”. A questo punto diventaindispensabile non solo il ruolo del vertice della leadership, ma anchequello della capacità di tenuta dell’interno sistema-paese di reagire inmomenti di gravità, non solo economica, ma anche morale e sociale.Per questo è indispensabile trovare una sintesi sulle irrinunciabili prio-rità di riforma del Paese: la giustizia civile, il sistema formativo, le li-beralizzazioni, soprattutto nel settore dei servizi e delle professioni. Ilricambio potrà avvenire solo con il coraggio delle idee più fresche e in-novative che i migliori giovani sanno avere e trasmettere con l’energiae la vitalità delle nuove generazioni, alla ricerca di un ruolo da prota-gonisti in un mondo più libero. Per questo è indispensabile trovare unnuovo modo di allargare e condividere le idee. Bisogna guardare concoraggio agli interessi comuni evitando il ripiegamento sulla difesa diinteressi privati e corporativi. Solo con il coraggio dell’apertura a unmercato senza barriere all’ingresso si potrà di nuovo riqualificarel’immagine internazionale del nostro Paese, ritrovando la fiducia nelfuturo indispensabile per traghettare il Paese oltre la crisi. Una nuovaleadership è indispensabile per riguadagnare credibilità oltre l’anti-po-litica e la pregiudiziale anti-industriale da parte di una grande partedella società italiana. Ridefinire una nuova leadership non è certamentesemplice. Ma è un nostro dovere civile e politico quello di agire per se-lezionare e offrire opportunità ai giovani impegnati in grado di tron-care ogni relazione con le frange più estremiste e violenti di ribellioneradicale. Questa nuova leadership più moderna e democratica dovràsvolgere un ruolo guida e anche di esempio per poter essere emulatadalle nuove generazioni, riuscendo a trasformare i punti critici innuove opportunità di crescita. Nostro dovere oggi è essere protagoni-sti del cambiamento, coglierne le opportunità e guardare avanti, anti-cipando senza timore di sbagliare scenari di crescita e di sviluppo so-ciale e culturale in cui la persona rivesta un ruolo centrale come fulcroe motore ma anche come finalità.

Credo che anche gli imprenditori debbano riflettere sui fonda-menti valoriali in grado di ispirare le loro responsabilità economico-sociali nel campo delle relazioni industriali, della legislazione, del la-voro, dell’occupazione e del lavoro femminile.

È una sfida affascinante che non si può assolutamente mancare sesi vuole un’incisiva modernizzazione del Paese.

È un’avventura che richiede coraggio e determinazione morale.

(Paola Michelacci, presidente Michelacci Organization)

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Determinazione morale, onestà intellettuale

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